venerdì 5 giugno 2009

Repubblica 6.6.09
Biotestamento, duemila italiani lo hanno già
L’iniziativa di due associazioni: "Compilate la dichiarazione". Ecco chi ha risposto
di Maria Novella de Luca

Consapevoli, decisi. Informati sulle possibilità e i limiti della Scienza. In quella fascia d´età in cui si guarda al dopo e ci si interroga. Con la paura di perdere lucidità, dignità, autonomia. Oltre duemila italiani, esattamente 2053, nei giorni più duri del caso Englaro, mentre il Parlamento si affannava a varare una legge oggi incagliata alla Camera, hanno deciso di scrivere il proprio testamento biologico. Grazie all´iniziativa di due associazioni, "A buon diritto" presieduta da Luigi Manconi, e "Luca Coscioni", che hanno messo a disposizione sui loro siti i moduli delle "Dichiarazioni anticipate di trattamento", in centinaia hanno indicato nel dettaglio come vorrebbero continuare a vivere, o morire invece con dignità. I risultati sono sorprendenti per la loro precisione, e per l´informazione che sottendono, come se il grande dibattito bioetico, così difficile nelle aule parlamentari, fosse invece già concreto e reale nella vita delle persone.
Eccolo dunque il ritratto di questa avanguardia che ha già compilato il proprio testamento biologico. Sono in maggioranza donne (il 55,72% contro il 44,28% di uomini) in un´età compresa tra i 50 e i 70 anni, e vivono per lo più nelle regioni del Centro-Nord. Scelgono di sapere e di sapere tutto. Spezzando così una radicata prassi per cui al malato è meglio nascondere la propria situazione, soprattutto se questa è seria. L´87% dei firmatari dei biotestamenti afferma infatti di voler «essere informato sul proprio stato di salute e sulle aspettative di vita, anche in presenza di malattie non guaribili». Ancora più netta è la scelta sull´alimentazione e l´idratazione in presenza di «malattia allo stadio terminale o stato permanente di incoscienza». Il 98,73%, cioè la totalità, respinge entrambi i trattamenti. Respinge cioè il cardine della legge sul biotestamento approvata nel marzo scorso al Senato, che ritiene invece obbligatorie l´alimentazione e l´idratazione artificiale. Un punto delicato. E infatti la paura che le proprie dichiarazioni non vengano eseguite deve essere forte se nei formulari il 93,81% sceglie comunque di nominare un fiduciario «che si impegni a garantire il rispetto delle volontà espresse nel testamento». Molto chiara anche la decisione sulla sospensione o meno delle cure. L´86% ha indicato che queste siano interrotte «se il loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di incoscienza senza possibilità di recupero». Ciò che emerge dalla lettura di questi moduli (ma la raccolta è appena iniziata) è una distanza siderale tra le scelte dei cittadini e la legge in discussione. Una legge nata sull´onda emotiva della tragedia di Eluana Englaro, per fermare la sentenza che avrebbe permesso ai medici di staccare il sondino alla giovane donna in stato vegetativo da 17 anni. Le cose sono poi andate diversamente, Eluana è morta prima che la legge venisse approvata. Il divario però resta netto. Perché dice che gli italiani vogliono l´autodeterminazione. Sul proprio corpo, sulla propria salute e sulla propria morte.

Repubblica 6.6.09
Quando fu spenta la democrazia
risponde Corrado Augias

Caro Augias, ho letto giorni fa una lettera del professor Lucio Villari nella quale si ricordavano certi accadimenti del fascismo. Ci si può infatti chiedere perché certi sistemi politici che si ispirano a principi di libertà e democrazia si siano, nel corso del Novecento, degradati o siano stati sostituiti da sistemi autoritari con l'aiuto degli strumenti e dei poteri che la libertà e la democrazia avevano creato. Il regime fascista, giunto al potere nell'ottobre del 1922, ci ha messo quattro- cinque anni per smantellare gli istituti dello Stato liberale, le sue magistrature, le libertà dei cittadini. Le leggi che hanno instaurato il potere autoritario (e personale) del fascismo sono infatti state varate nel 1926-1927. Le censure continue e infine la soppressione dei giornali dell'opposizione o non graditi al governo avvennero tra il 1925 e il 1926. Accusati, tra l'altro, di mancanza di rispetto al capo del governo e di ostacolo alla sua attività. Idem per i partiti, le associazioni politiche, le autonomie locali e alla fine per tutte le libertà che la Costituzione di allora (lo "Statuto" del 1848) garantiva abbastanza bene. Queste decisioni furono prese con leggi e decreti approvati dalla Camera dove per alcuni anni fu resa impossibile la funzione dei partiti di opposizione, anche con l'avallo di giuristi e studiosi di diritto, di avvocati, di intellettuali e artisti di varia estrazione.
Lettera firmata

Anche le dittature hanno bisogno di tempo per assestare i loro colpi finali, prima è necessario che l'opinione pubblica venga lungamente ammorbidita e conciata, proprio come si fa con le pelli per poterle "lavorare" meglio. Quando è diventata sufficientemente duttile è più facile far aderire l'opinione comune alle forme volute, o imposte. Su Repubblica di ieri Aldo Schiavone ha scritto una cosa illuminante. Ha detto che contro la bolla di stanchezza e di indifferenza che sembra attraversare l'elettorato di centro-sinistra è necessario far ricorso non al cuore, ma alla ragione. La sinistra è famosa per aver sempre avuto molto (troppo) cuore. Adesso sembra proprio il caso di metterlo da parte e non solo perché quel cuore spesso s'è sbagliato, ma anche perché la deriva populista del paese, martellato per anni da una schiacciante propaganda, "conciato" a dovere, ha ormai raggiunto una soglia di pericolo di cui l'indifferenza è un sintomo. Anni fa, prima di essere condannato, Cesare Previti minacciava: «Dopo le elezioni non faremo prigionieri». Frase rozza, da capomanipolo. Adesso l'avvertimento è più sottile, ma non meno minaccioso: «Dopo le elezioni sistemeremo molte cose». La ragione dice che astenersi o buttare via il voto seguendo il proprio cuore è un lusso che non possiamo permetterci. A meno di non voler essere "sistemati". O "conciati".

Repubblica 6.6.09
Plath-Hughes
Vita intima delle coppie letterarie
di Nadia Fusini

Scrivere la storia delle relazioni celebri è ormai un genere. Da Roth a Kureishi L´ultimo caso è la biografia Plath-Hughes
C´è chi ha scelto di raccontare in forma di romanzo
Ted, marito di Sylvia, per le donne fu come Barbablù

Suo marito è il titolo. Suo, di chi? Di Sylvia Plath. Cioè a dire: Ted Hughes. L´ironia politically correct di Diane Middlebrook si chiarisce nel sottotitolo, che recita: Ted Hughes e Sylvia Plath. Ritratto di un matrimonio (trad. Anna Ravano, Mondadori, pp.383, € 22). L´ambizione dell´autrice – che ha al suo attivo clamorosi successi, come la biografia della poetessa Anne Sexton - è qui di arrivare a scrivere la biografia di un matrimonio esplosivo, che a suo modo di vedere alimentò con le lingue di fiamma ustionanti la poesia di entrambi i contraenti il patto sacro.
E deve aver imparato con l´esperienza come attirare l´attenzione di un certo pubblico, che per muoversi in direzione di un libro deve subire forti scosse. D´altra parte la vita intima delle coppie celebri è oramai diventato un genere letterario. La storia madre è ovviamente quella tra Arthur Miller e Marilyn Monroe, che il commediografo ha generosamente descritto in Svolte, la mia vita (Mondadori). Ma l´elenco è lungo e comprende le memorie dei protagonisti, che non disdegnano anche la traduzione romanzata. E spesso funziona: come è capitato alla figlia di Bernard-Henry Levy, Justine, autrice di Niente di grave (Frassinelli) in cui racconta l´abbandono subito da parte di Rafhaël Enthoven rimasto sedotto da Carla Bruni. Ora andrà letta la traduzione italiana di Attachment: Isabel Fonseca, in forma letteraria, rivela i dolori del matrimonio con Martin Amis. Della gallerista Millet e della sua vita sessuale sappiamo ogni particolare, l´attrice Claire Bloom ci ha svelato Philip Roth in Leaving a Doll´s House, descrivendo le follie e le amarezze del loro matrimonio. Infine Hanif Kureishi: Nell´intimità racconta senza pudore l´ex moglie Tracey Scoffield.
Così anche in questo caso, nella coppia tragica per eccellenza, Plath-Hughes, il libro impressiona. Diane Middlebrook vuole arrivare a scoprire il segreto di una ‘vita´. E qui le ‘vite´ che ha di fronte sono due, per un breve tempo si fanno una, e poi di nuovo si separano. E´ la storia triste e normale di tanti amori, di tanti sogni che a una certa età si condividono con un uomo, con una donna... Progetti e sogni che si frantumano contro gli scogli dell´ esistenza quotidiana, svelandoci come ci eravamo sbagliati su una certa persona, o su noi stessi.
Solo che nel caso della poetica coppia, con la fine del matrimonio uno dei due si schianta. Va in pezzi. O meglio, si scaraventa non contro chi l´ha abbandonata sola con due bambini eccetera eccetera, ma si toglie di mezzo. E forse dei due poeti a togliersi di mezzo è il più ispirato. Il più indimenticabile creatore di lingua e ritmi. L´altro, il sopravvissuto, continua a vivere e a fare del male. Un´altra donna amante ripete il gesto della prima, questa volta portando con sé nell´asfissia del gas anche la figlia. E lui, suo marito continua a vivere. Come Barbablù attira nel suo castello donne di molte diverse specie. Come fa?
Questo libro a suo modo lo spiega. Ci sono molte cose che sapevamo, e ci sono altre che non sapevamo, e non siamo affatto sicuri di voler sapere; tipo che Ted emanava un forte odore di sudore, quando faceva l´amore. Perdonate la rima, anche se in realtà ci sta bene: suggerisce come sia nell´odore che nell´amore di Ted ci fosse qualcosa di tossico. Almeno a sentire Diane Middlebrook. Però quelle che non volevamo sapere e ora sappiamo finiscono per modificare il nostro rapporto di ammirazione nei confronti di suo marito. Conosciamo, ad esempio, la carta astrale di Ted (Leone ascendente Cancro). Non è un segreto che dalla carta astrale il tenebroso Ted derivasse molte informazioni sulla vita a venire e quella passata. Lui credeva a un sacco di cose; se non proprio di magia nera, era praticante di un folklore da contadino new age. Queste credenze Middlebrook riporta con fedeltà, tesa com´è a scoprire che cosa motivò questi due bravi giovani "a dedicarsi proprio alla poesia, accettando l´inevitabile lunga attesa del successo."
Sincera la domanda sgorga a p. 128. La biografa è convinta che c´erano già a quei tempi, negli anni Cinquanta, "altre attività remunerative aperte ai giovani creativi"; perché andarsi a fissare con l´idea di fare il poeta? Ora chi si fa una domanda del genere io personalmente non credo potrà mai capire che cos´è la poesia, né quel che muove la vita di un poeta. Né tantomeno chi di poesia muore, come Sylvia. Quanto a suo marito non lo so. Forse Diane Middlebrook lo capisce. Sa senz´altro descrivere come si accuccia nel successo. "E´ possibile che la posizione di Poeta Laureato abbia dato a Hughes la sicurezza necessaria per completare un´automitologia organica che giustificasse la sua vocazione di poeta-sciamano". Sì, forse. Sempre Middlebrook ci informa che Philip Larkin invece declinò l´onore. Era troppo ‘impoetico´ per quello.

Repubblica 6.6.09
Compie cent’anni "Il capitale finanziario" di Hilferding
Quando la finanza divora l’economia
di Lucio Villari

Il testo è un classico del pensiero politico L´autore scomparve nel nulla in una cella della Gestapo

Rudolf Hilferding scomparve nel nulla in un giorno del 1941 in Francia, in una prigione della Gestapo. Nel nulla, significa che non si sa se fu ucciso o se, come il suo conterraneo Walter Benjamin, si sia suicidato per sottrarsi al nazismo. Era riuscito a fuggire dalla Germania nel 1933, rifugiandosi in Svizzera. Tenuto d´occhio dalla polizia tedesca, decise nel 1938 di trasferirsi a Parigi. Dopo la sconfitta militare della Francia nel giugno l940 e la creazione del governo collaborazionista di Vichy, Hilferding capì che l´unica via di scampo era la fuga negli Stati Uniti. Recatosi a Marsiglia per imbarcarsi su una nave di linea, fu arrestato da agenti di Vichy e consegnato ai nazisti. Interrogato e torturato, è probabile che il suo fisico - aveva sessantaquattro anni - non abbia retto.
Non è rimasta testimonianza della sua fine. L´accanimento del governo nazista nei suoi confronti si spiega con il fatto che egli era uno dei pochi oppositori a non essere riuscito a far perdere le proprie tracce nel flusso imponente dell´emigrazione politica tedesca verso l´America rooseveltiana. Per quanto ormai solo e inerme, Hilferding era pur sempre un simbolo vagante di un tempo di libertà e di democrazia che gli esponenti della nuova Germania volevano far dimenticare. Nel 1909, esattamente cent´anni fa, aveva pubblicato un´opera che si può considerare un classico del pensiero economico e politico del Novecento, Il capitale finanziario. Fino al 1933 era stato una figura centrale della politica e dell´economia tedesca ed era riconosciuto come uno dei maggiori studiosi marxisti. Era stato ministro delle finanze in vari governi della repubblica di Weimar ed esponente di primo piano della parte moderata del partito socialdemocratico. Ora, mentre le armate tedesche erano vittoriose su tutti i fronti d´Europa, veniva inghiottito dal silenzio.
Nato a Vienna nel 1877, Hilferding apparteneva a quel tempo dell´Europa borghese e socialista di fine Ottocento e del primo Novecento quando gli studi sulle società contemporanee, il confronto con la modernizzazione industriale, i partiti politici che si ispiravano a un liberalismo critico e a un socialismo riformatore, parevano confluire in quel contrastato rigoglio filosofico e politico che come un fiume senza argini scorreva in Europa e in Russia lambendo gli Stati Uniti d´America.
La sua formazione e la sua adolescenza furono tedeschi e in Germania, dove si era trasferito con la famiglia, Hilferding rappresentò quell´avanguardia di sociologi e filosofi (da Rathenau alla Scuola di Francoforte) indagatori del loro tempo che fiorirono a Weimar. Come socialista rappresentò il conflitto tra chi credeva nell´evoluzione pacifica della lotta di classe e nel binomio democrazia–socialismo (era questa la Seconda Internazionale), e chi credeva nel socialismo come superamento della democrazia borghese, come comunismo, (era la Terza Internazionale di Lenin e del colpo di stato dell´ottobre l917 in Russia). Hilferding accettava lo spirito del Marx perplesso nei confronti della rivoluzione proletaria e, specie dopo il fallimento della Comune di Parigi nel l871, più incline a una via democratica e parlamentare al socialismo. Hilferding aveva l´idea di una democrazia dove il socialismo e il marxismo fossero parti essenziali del governo amministrativo e della crescita sociale di un sistema sociale capitalistico e "borghese". Questa ipotesi sarà per decenni il tormento irrisolto di gran parte della sinistra politica europea, ma, per restare nel campo dell´economia, fu assimilata da Schumpeter e in parte dallo stesso Keynes, da Joan Robinson e, in anni più vicini a noi, da Paul Sweezy e Paul Baran, dai nostri Caffè e Sylos Labini e da pochi altri. È tuttora un metodo aperto e operante, ad esempio, nelle Università americane.
Marx aveva indagato il capitalismo di metà Ottocento, occorreva ora studiarlo in un Novecento che esordiva con soggetti e oggetti nuovi. Agli inizi di un fantastico e moderno Novecento andavano snidati i segreti dell´egemonia di un capitalismo che appariva vitale e sostanzialmente inattaccabile dalle lotte operaie. Dal capitalismo dei padroni delle ferriere era germinato, grazie anche al petrolio, alla chimica e all´elettricità, il capitalismo delle società per azioni, delle banche, degli "affari" regolati e controllati dai nuovissimi e veloci strumenti del telegrafo, del telefono, della radio.
È quanto fece Hilferding in Il capitale finanziario. Era il 1909 e il capitalismo americano ed europeo scontavano una gravissima crisi finanziaria e bancaria (simile in parte a quella che stiamo vivendo) esplosa nel l907. È intorno a questa crisi (l´impianto dell´opera e la sua struttura erano già chiare nel 1905, l´anno in cui era comparsa negli Stati Uniti la critica Teoria dell´Impresa di Thorstein Veblen) che Hilferding scrisse la "continuazione" del Capitale di Marx. Nella prefazione Hilferding dettò parole sorprendenti per la loro attualità: «La caratteristica del Capitalismo "moderno" è data da quei processi di concentrazione che, da un lato, si manifestano nel "superamento della libera concorrenza", mediante la formazione di cartelli e trusts, e, dall´altro, in un rapporto sempre più stretto fra capitale bancario e capitale industriale. In forza di tale rapporto, il capitale assume (...) la forma di capitale finanziario, che rappresenta la sua più alta e più astratta forma fenomenica. Lo schema mistico che vela in genere i rapporti capitalistici raggiunge qui il massimo della impenetrabilità».
Il capitale finanziario "penetrò" in quel capitalismo, ne tolse il velo mistico e fu subito al centro di dibattiti e riflessioni che solo la prima guerra mondiale, scoppiata cinque anni dopo, interruppe. Ancora nel 1916 Lenin fece sue le tesi dell´avversario Hilferding immaginando però (e sbagliando) che quel capitale finanziario fosse la fase suprema ma ultima del capitalismo e che aprisse perciò la strada alla rivoluzione proletaria. L´opera di Hilferding non lo autorizzava a questo, anche se Il capitale finanziario si chiudeva con queste inquietanti parole: «Il capitale finanziario è la più compiuta realizzazione della dittatura dei magnati del capitale. Ma appunto perciò la dittatura dei capitalisti che dominano uno Stato entra in contrasto sempre più aspro con gli interessi capitalistici degli altri Stati. Nello scontro violento degli inconciliabili interessi, la dittatura dei magnati del capitale si rovescia, infine, nella dittatura del proletariato».

Corriere della Sera 6.6.09
Lo scrittore israeliano commenta la storica giornata del Cairo
«Altro che discorso ingenuo Ha parlato al cuore di tutti»
Amos Oz: Netanyahu dovrà ideare qualcosa di nuovo
intervista di Francesco Battistini

GERUSALEMME — Rapito. «Que­st’uomo ha superato tutte le aspettati­ve ». Epico. «Ho sentito toni storici». Ri­voluzionario. «Mi aspettavo che aggre­disse la questione palestinese, ma qui sta accelerando i tempi».

Nella sua casa di Arad, per una volta Amos Oz ha chiuso le luminose vetrate sul magnifico Negev che l’incantano prima di scrivere e, giovedì, ha aperto la piccola finestra televisiva che di soli­to è il disincanto della realtà. Il giorno dopo, se n’è fatto un’idea definitiva: «È stato un grande discorso. Uno di quelli che restano nella storia. Obama lo sapeva e infatti ha dato i toni e i con­tenuti che ci si aspettano da un presi­dente americano. Mi ha impressionato per la capacità di dosare tutti gli ele­menti. Ha dato un’impressione di gran­dezza, altro che discorso ingenuo e naif. È volato sopra le piccole dispute politiche, sopra le rivendicazioni del­l’ultima settimana. Ha allargato l’oriz­zonte. È stato un componimento mol­to ben armonizzato in cui ha lasciato spazio al cuore. Ha parlato col cuore: ai musulmani, agli ebrei, agli arabi. Con equilibrio. Dimostrando uno studio molto profondo di ciò che unisce e ciò che divide».

Se dopo il Cairo, dice un sondaggio appena sfornato, il 53% degl’israeliani ha paura dell’uomo nero venuto da Chicago — «sarà un problema per Isra­ele » —, Oz sta con l’altro 47. Lui che si cambiò il nome da Klausner in Oz, che vuole dire forza, è convinto che «un ri­sultato è possibile perché la forza, Oba­ma, ce l’ha. La volontà, anche. Sono le due cose che servono a un leader». Lo scrittore non si sente turbato dalla «gaffe» che perfino Avigdor Lieber­man rinfaccia al presidente Usa, l’aver paragonato la Shoah alla tragedia pale­stinese: «Io l’ho seguito con cura. Sta­mattina me lo sono anche riletto passo passo. Obama non ha fatto nessun pa­rallelo fra la Shoah e la Nakba palesti­nese. Lui ha ricordato all’Iran, e l’ha ri­fatto nei lager tedeschi, che l’Olocau­sto non può essere negato, perché que­sto è un delitto contro l’umanità. Ma ha detto anche a Israele che non si può negare la sofferenza dei palestinesi. Non ha paragonato due tragedie, ha pa­ragonato due negazioni. Queste accu­se nascondono altro. Che ci sono due tipi d’israeliani: chi vuole vivere in pa­ce coi vicini arabi e tornare ai confini prima del 1967, chi vuole che resti tut­to com’è».

Raccontano che Netanyahu alla fi­ne non l’abbia presa malissimo. Che s’aspettava peggio: «Non mi ha preso a mazzate da baseball», avrebbe com­mentato.

«Meno male che ci crede. Netan­yahu ora dovrà inventarsi qualcosa. Non può più tergiversare, deve dire chiaramente con chi sta. Vuole ridiscu­tere i confini del 1967 o no? Prima che all’America, deve dirlo agl’israeliani. Il problema è che non ho affatto idea di che cosa risponderà. Non ce l’ho io e, quel che è peggio, temo non ce l’abbia neanche lui. Serve una risposta in tem­pi brevi, però. Qui ormai si ragiona per settimane. Non so se ci sarà un terre­moto politico in Israele. Tutto può ac­cadere, adesso».

Piccolo retrosce­na. Dopo il discorso ufficiale, in una sala dell’università cairo­ta, Obama ha convo­cato sei giornalisti per un'intervista. C’erano un israelia­no, una palestinese, un egiziano, un sau­dita, un malese e un indonesiano. Aveva invitato anche un si­riano e un libanese sciita, ma questi due hanno rifiutato: allora l’asse del ma­le c’è ancora?

«Qualcuno confonde il dialogo con la debolezza. Sul fronte palestinese, per esempio, mi sembra sia piuttosto chia­ro che Obama abbia deciso di lasciar fuori Hamas, finché non riconosce lo Stato d’Israele. Della rappresentanza politica, ricevendolo pure a Washin­gton, ha investito Abu Mazen. Anche con l’Iran, Obama vuole evitare ogni fronte polemico. La sua strategia è evi­tare ogni accenno alla forza, almeno per adesso. In altre occasioni, l’ha già detto: volete o no un dialogo? Non mi sembra che ci sia stata una risposta ne­gativa e immediata. Ha risposto Hezbol­lah, e male. Ma Hezbollah non è l’Iran. Bisogna aspettare. Certo, non c’è da es­sere ottimisti. E se l’Iran risponderà in modo negativo, è chiaro che l’approc­cio cambierà. Ma il suo è stato un di­scorso ufficiale. Solenne. E merita una risposta ufficiale. Altrettanto solenne».

il Riformista 6.6.09
«Un amico vero»
Ma Obama d'Arabia spacca Israele
di Anna Momigliano

GERUSALEMME. Uno spartiacque con il passato. Ma se il laburista ben Meir al "Riformista" esalta «chi finalmente vuole portarci la vera pace», negli ambienti conservatori le parole dell'americano suonano come un presagio della fine della la special relationship tra i due Paesi. E per Bibi si avvicina il momento delle scelte.

«Finalmente qualcuno che vuole portarci una pace vera!». Il laburista Yehuda ben Meir, esperto di sicurezza nazionale presso l'Università di Tel Aviv ed ex parlamentare, è semplicemente entusiasta del discorso del presidente americano al Cairo. «Ma vi rendete conto di quello che ha fatto?», dice al Riformista. «Ha parlato davanti a una platea musulmana di Shoà, badando bene a ricordare i sei milioni di vittime. È una cosa importantissima, perché sappiamo che nel mondo arabo si parla poco di Olocausto, e che in molti ridimensionano i fatti». Ben Meir è tra coloro che, nella sinistra israeliana, vedono nel discorso al Cairo una conferma del fatto che Obama è «un vero amico di Israele», come scriveva ieri Gideon Levy sul quotidiano progressista Haaretz.
Un'opinione non condivisa, in realtà, dalla componente più conservatrice del governo di Gerusalemme e, in un certo senso, anche da alcuni progressisti. Quella parte della sinistra israeliana che si sta convincendo (a torto o a ragione) che il discorso di Obama segna uno spartiacque nella storia delle relazioni israelo-americane. La fine (nel bene o nel male), o se non altro una modifica, di quella special relationship che rendeva automatica la coincidenza degli interessi di Washington con quelli di Gerusalemme: «È una rivoluzione strategica» scriveva un altro commentatore di Haaretz, Aluf Benn. «Durante l'era Bush, Israele era il più stretto alleato dell'America nella guerra al terrorismo, con libertà d'azione contro i palestinesi, Hezbollah e la Siria». E adesso, invece? «Con Obama - sostiene Benn - Israele deve sottoporsi a una rieducazione, e dovrà nuovamente provare la sua dedizione agli interessi statunitensi in Medio Oriente». Ben Meir, invece, rimanda le preoccupazioni al mittente: «Ma se lo stesso Obama ha ribadito, e per giunta davanti a un pubblico arabo, che la special relationship è indistruttibile!». Testualmente: «Sono ben noti i solidi rapporti che legano Israele e Stati Uniti. Si tratta di un vincolo infrangibile, che ha radici in legami culturali che risalgono indietro nel tempo, nel riconoscimento che l'aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch'esso radici in una storia tragica, innegabile».
Quanto poi ai contenuti specifici su israeliani e palestinesi, Ben Meir dice di «non vedere tutta questa differenza» con Bush: «Obama ha parlato di due Stati per due popoli e di Roadmap, gli stessi concetti di Bush». Solo che «ha parlato con toni diversi, da uomo che di secondo nome fa Hussein e che è cresciuto in un Paese musulmano come l'Indonesia. Perché dovrebbe essere un male?». Se gli fanno notare le aperture del presidente americano a Hamas, Ben Meir risponde: «Che ha detto Obama di così sconvolgente? Che Hamas gode di sostegno tra alcuni palestinesi? Che piaccia o no, è un dato di fatto. Oggi come oggi Hamas è un'organizzazione terrorista. Obama ha detto che, se vuole essere riconosciuta, deve rinunciare al terrorismo e riconoscere il diritto di Israele a esistere».
E le colonie? «Una piccola parte del governo che sarà scontenta, ma l'attuale esecutivo è composto in maggioranza da uomini di buon senso, più che disponibili ad incontrarlo». Infatti il premier Benyamin Netanyahu invece non commenta, ma fonti vicine al suo esecutivo ieri riportavano che sarebbe disposto a venire incontro alle richieste di Obama sul congelamento degli insediamenti.
Sul fronte più conservatore si registra qualche malumore. Il ministro delle Infrastrutture Uzi Landau (Yisrael Beiteinu) non ha gradito i riferimenti a uno Stato palestinese, «cioè uno stato iraniano». Il direttore del Jerusalem Post David Horowitz invece ha promosso alcuni aspetti del discorso di Obama, ma ne ha bocciato altri: «È stato commuovente ascoltare il presidente raccontare al mondo musulmano della relazione indistruttibile dell'America col nostro Paese (…) ed è stato bello sentirlo mettere in chiaro che l'iniziativa di Pace della Lega araba era un punto di partenza, ma non la fine delle responsabilità dei Paesi arabi». Eppure «è stato meno incoraggiante il passaggio dedicato all'Iran, notevolmente breve». E ancora: «Il suo attribuire in parti uguali la responsabilità del fallimento del processo di pace tra arabi e israeliani, visto da qui è fastidioso». Infatti: «La maggior parte degli israeliani, dopo avere visto le proposte super-generose di Ehud Olmert derise da Abu Mazen, vorrebbe chiedergli: di chi è la colpa?».


Corriere della Sera 6.6.09
Scoperta in Germania la più antica (35 mila anni) figura di donna
La Venere degli antenati è una statuetta a luci rosse
Ha grandi forme. Prima l’arte preferiva l’animale
di Viviano Domenici

Una statuetta femminile d’avorio trovata dagli archeo­logi in una grotta della Ger­mania sud-occidentale s’è ag­giudicata in questi giorni un paio di primati assoluti: si tratta del più antico esempio di arte figurativa datato con certezza (circa 35.000 anni); è la prima donna della storia dell’arte a mostrarsi tutta nu­da. E infatti ha suscitato un certo scandalo. Le sue forme presentano caratteri sessuali molto accentuati e gli archeo­logi riconoscono che l’opera «è letteralmente carica di energia sessuale e le sue for­me focalizzano l’attenzione sulla sua sessualità esplicita, quasi aggressiva».

La stessa rivista Nature, che ha pubblicato l’annuncio della scoperta, ha azzardato l’espressione pin-up nella di­dascalia della foto del reper­to. Autori del ritrovamento sono gli archeologi dell’Uni­versità di Tubinga, diretti dal professor Nicholas Conard, che da anni scavano nella grotta di Hohle Fels, vicino a Ulm, località della Germania sud-occidentale, non lontano dalla frontiera francese.

La scultura è caratterizzata da seni così esagerati da sem­brare caricaturali, e da una vulva particolarmente volu­minosa e vistosamente esibi­ta. Le mani, incise con linee sottili, sono appoggiate sul ventre, mentre quasi tutta la superficie del corpo è solcata da linee geometriche che po­trebbero indicare una pittura corporale o un esteso tatuag­gio. Al posto della testa c’è una protuberanza forata attra­verso la quale doveva passare un laccio per appenderla, for­se come pendente di una col­lana.

La figura è stata ricompo­sta con sei frammenti ritrova­ti a circa venti metri dall’in­gresso della grotta, e a tre me­tri di profondità, all’interno di uno strato di terreno ricco di ceneri e carboni che indica il luogo di bivacco del grup­po di cacciatori paleolitici.

Alla piccola scultura man­cano parte della spalla e della gamba sinistra, che gli arche­ologi sperano di recuperare proseguendo le ricerche.

La Venere di Hohle Fels, che ben ventotto datazioni del radiocarbonio effettuate su campioni prelevati nello strato in cui era inglobata hanno datato nel periodo che va dai 31.000 ai 40.000 anni fa, precede di almeno 5000 anni le celebri statuette fem­minili conosciute come «Ve­neri paleolitiche» rinvenute dai Pirenei alla Russia.

Questa datazione e i cano­ni stilistici del reperto indica­no che fu realizzato da un cac­ciatore appartenente ai primi gruppi di Homo Sapiens che colonizzarono l’Europa, pro­venendo dall’Africa, quando nel nostro continente viveva ancora l’Uomo di Neandertal. Secondo lo scopritore, «questo oggetto cambia radi­calmente la nostra visione delle origini dell’arte paleoliti­ca che, finora, era incentrata su immagini di animali o di ibridi uomo-animale».

La scoperta di Hohle Fels ha anche un’altra valenza: raf­forza l’ipotesi che all’origine delle piccole Veneri preistori­che, oltre alle più sottili moti­vazioni simboliche collegabi­li all’idea della fecondità, vi si­ano inequivocabili pulsioni sessuali.

La tradizionale ritrosia de­gli archeologi a vedere in que­ste opere l’espressione dei più profondi istinti dell’uo­mo, è comunque destinata a capitolare, almeno di fronte ai reperti della grotta tedesca che, oltre alla Venere, a picco­li flauti fatti con ossa di uccel­li e un’elegante figuretta in avorio che rappresenta un uc­cello in volo, ha restituito an­che un pene di pietra di circa 19 centimetri.

L’oggetto è scolpito in ma­niera naturalistica e presenta una superficie perfettamente levigata e lucida che, secondo l’archeologo Nicholas Co­nard, fa ipotizzare uno specifi­co utilizzo in ambito sessua­le, forse correlato a rituali atti a stimolare la fecondità della natura.

Al posto della testa c'è una protuberanza forata: forse veniva usata come pendente di una collana In avorio di mammut

E’ stata scolpita in avorio di mammut, è alta solo 6 centimetri e presenta caratteri femminili molto sviluppati: il ritrovamento nella caverna di Hohle Fels. L’opera precede di almeno 5000 anni le celebri statuette di donna conosciute come le «Veneri paleolitiche», rinvenute dai Pirenei alla Russia

l’Unità 6.6.09
De Pisis. Una questione di corpi
di Renato Barilli

I lavori degli ultimi anni dell’artista
La predilezione per la natura morta
La figura umana come disturbo

Il Museo Morandi di Bologna ospita una dozzina di dipinti e una decina di disegni risalenti agli ultimi anni di attività di Filippo De Pisis (1896-1956), prodotti quando l’artista aveva lasciato Parigi ed era andato a vivere tra Venezia e Milano, chiudendo poi la sua esistenza in una casa di cura nei pressi del capoluogo lombardo. Il tutto nasce nel quadro di una giusta collaborazione tra il Museo petroniano e il vicino Palazzo dei Diamanti di Ferrara, città natale di De Pisis, ma al di là della correttezza del rapporto istituzionale, che vede una selezione di opere grafiche di Morandi entrare nello scambio, qualcuno potrebbe chiedersi se tra i nostri due maestri del primo Novecento ci fosse davvero una affinità stilistica. Ebbene, sì, assai più di quanto potrebbe apparire a prima vista, del resto non dimentichiamo che entrambi avevano partecipato al grande evento della nascita della Metafisica, a Ferrara, nel 1917, quando De Pisis era appena ventenne, e ne avevano tratto una lezione indelebile per quanto riguarda i valori compositivi. Un dipinto è prima di tutto un’architettura di piani, una questione di corpi che vadano strategicamente ad occupare lo spazio. E in fondo, i due si trovavano d’accordo che questa occupazione plastica dello spazio dovesse avvenire, prima di tutto, con le nature morte, poi coi paesaggi e solo meno bene con le figure umane, il cui protagonismo funziona da elemento di disturbo. Ma certo, i due imboccavano poi vie alquanto diverse, Morandi si valeva di corpi densi, massicci, raccolti in sé, laddove il suo più giovane collega distribuiva nello spazio delle superfici agili, quasi invisibili, trasparenti, evidenziate solo dagli orli, dalle sagomature esterne. Ma questa sventagliata di piani, sicura, articolata, abilmente costruita, nei dipinti di De Pisis c’è sempre, e dovrebbe salvarlo dall’accusa di cadere in un postimpressionismo svagato e occasionale, tutto dedito ai brevi impulsi del momento. O meglio, il Ferrarese fu senza dubbio un virtuoso delle pennellate agili, vergate come rapidi segni stenografici, ma queste erano condotte per saggiare la resistenza delle superfici invisibili, un po’ come fanno i muratori quando tracciano degli sgorbi sui vetri per far capire che ci sono, nonostante la loro trasparenza.
UN’INFINITÀ DI PIANI
Perché allora le nature morte prevalgono, nella produzione di De Pisis? Ma proprio perché consentono un’infinita di piani, dati dai tavolini carichi di ninnoli, dai quadri e quadretti appesi alle pareti, dagli infissi di porte e finestre. Anche se pure i cornicioni e i davanzali dei palazzi nelle vedute urbane porgono buoni appigli di questa natura, e perfino gli abeti che si ergono dritti, aguzzi, a scandire le vedute dolomitiche. Mentre la figura umana assorbe troppa attenzione su di sé, non si innesta abilmente in una gabbia di coordinate, annaspa nel vuoto, ed è forse l’unica occasione tematica che lascia la pennellata depisisiana a fare i conti con la sua improvvisazione, spavalda ma di corto respiro.

Filippo De Pisis, Il ritorno in patria, Bologna, Museo Morandi, A cura di Fabrizio D’Amico Fino al 19 luglio Catalogo: Edisai

Terra 5.6.09
L’epopea reggae di due gemellini rasta in Emilia
di Simona Maggiorelli

Letteratura migrante. In larga parte autobiografico, Due volte è un travolgente romanzo di formazione di due bimbi di colore in fuga da un orfanotrofio delle suore. Scanzonato, ironico, ma soprattutto ad alto tasso di poesia

Lo scrittore Gangbo: «In Italia i media occultano la vera realtà di vita degli stranieri. Che non sono criminali o clandestini. Si continua a negare la presenza di nuovi italiani»

I dreadlock da rasta sono il loro orgoglio. Ma sono anche il bersaglio preferito delle forbici delle suore. Perché «portare i capelli lunghi fino alla scuola è da bambine». Ma i due gemellini, David e Daniel, non si arrendono facilmente. E, fra fughe da messa e cotte da paura, nell’orfanotrofio emiliano dove sono stati lasciati costruiscono tutto un loro mondo di giochi e di fantasia che procede al ritmo contagioso della musica reggae. Un mondo dove i colori della bandiera giamaicana diventano “scudo magico” contro la tristezza dell’abbandono e antidoto allo squallore di camerate di luci e neon e crocifissi. Non che il dolore non abiti il loro mondo. Ma i due irresistibili ragazzini protagonisti del romanzo Due volte (edizioni e/o) sanno come tenerlo a bada raccontando storie e inventandosi sempre nuove avventure. Da soli o con i robot comprati di nascosto e subito sequestrati dalle suore. Ingaggiando proverbiali partite di calcio o immaginando rocamboleschi piani di fuga. Fino a quando nel mondo di Daniel entra quella bambina dagli occhi dolci e tristi che trema al pensiero di dover trovare a casa, “dall’orco”. Dietro le mura di casa di Agata si avverte una voragine di violenza, una tragica vicenda di abusi che lo scrittore Jadelin Mabiala Gangbo ci fa cogliere in tutta la sua tragicità attraverso linguaggio potente delle fiabe, affidandoci allo sguardo del piccolo Daniel e di Agata, che non hanno perso la tenerezza. è il piccolo grande miracolo di questo sorprendente libro scritto per immagini, poetico, ironico, disarmante. Di fatto un romanzo di formazione in senso classico, ma anche un picaresco spaccato di vita in provincia. Come suo fratello gemello, Gangbo la provincia nostrana l’ha conosciuta sulla pelle e oggi racconta: «Due volte si basa su esperienze autobiografiche. Io e mio fratello siamo nati in Benin ma siamo cresciuti fra Imola e Bologna». E anche se l’Emilia Romagna, fino agli anni 80 e 90, è stata fra le più culturalmente vive «non mancano le chiusure verso gli stranieri. Colpisce - sottolinea Gangbo - il modo in cui i giornali parlano degli stranieri. I media continuano a trasmetterne un’immagine distorta. Non parlano dello straniero che fa una vita normale, studia, lavora. Si parla dello straniero come criminale o come clandestino, con i soliti esperti italiani chiamati a rapporto per commentare casi drammatici. Insomma - conclude Gangbo - in Italia c’è una precisa volontà di occultamento della realtà dello straniero. Una tendenza che ha messo radici. E che non si può ignorare: si continua a negare la presenza di nuovi italiani». Gangbo da qualche tempo vive a Londra e nel formulare il suo pensiero mette a confronto due mondi: «In Inghilterra la riflessione sul multiculturalismo è molto avanzata. I media, gli intellettuali ma anche le persone mediamente colte non si sognerebbero mai di dire cose razzi- ste. Vige il politically correct, anche se poi la tensione fra neri e bianchi in certi quartieri si avverte chiaramente». Il fenomeno della letteratura inglese scritta da immigrati, però, da decenni è non solo accettata, ma in cima alle classifiche. Basta pensare al caso Kureishi o a quello di Zadie Smith. Anche in Italia - il caso dello stesso Gangbo ne è la riprova - immigrati e figli di immigrati, oppure stranieri che hanno scelto di scrivere nella lingua di Dante, stanno largamente contribuendo alla nuova letteratura italiana, ma il fenomeno dal punto di vista dell’attenzione del pubblico resta ancora sotto traccia. «Manca ancora - chiosa Gangbo - la consapevolezza della piega nuova che potrebbero prendere la letteratura, il cinema, la musica se venisse accettata la mescolanza tra culture diverse.

giovedì 4 giugno 2009

il Riformista 5.6.09
Visto da Gaza parla Ahmed Youssef, il ministro degli esteri di Hamas
«Ieri sepolta per sempre l'era di Bush»
di Alessandra Cardinale


«Con il messaggio di ieri Obama ha definitivamente sepolto l'era Bush. Ora si apre un nuovo capitolo tra l'America e il mondo arabo e musulmano». Ahmed Youssef, ministro degli Esteri di Hamas e consigliere politico di Ismail Haniyeh, usa parole come «fantastico», «positivo», «storico», per descrivere il discorso che Obama ieri ha pronunciato all'Università del Cairo e ha fatto recapitare una missiva al Presidente americano congratulandosi per la significativa apertura verso il mondo arabo. La grande incognita è però la stessa da sempre: quando Hamas deciderà di riconoscere Israele. E la risposta è a suo modo sempre ambigua «quando Israele riconoscerà uno stato palestinese».
Ai microfoni di Al Jazeera ha detto che il discorso di Barack Obama le ha evocato quelli pronunciati da Martin Luther King. Le parole del Presidente americano cosa significano per il mondo arabo?
Il discorso di Obama rimarrà nella storia delle relazioni tra Usa e mondo arabo. Ieri il Presidente americano ha fatto capire che l'epoca Bush è finita, che le parole minacciose e la dottrina del terrore sono il percorso sbagliato da seguire. Da oggi si apre una nuova stagione per noi e per voi nella quale verranno costruite le fondamenta per un rapporto solido e solidale. Noi abbiamo tutte le intenzioni di lavorare con il Presidente Obama e con quegli stati arabi che si dimostreranno volenterosi a riprendere in mano seriamente la pace nel Medio Oriente.
Nessuna riserva dunque?
Noi come popolo palestinese vorremmo che le promesse e le belle dichiarazioni vengano messe in pratica il prima possibile soprattuto per quanto riguarda il congelamento e la rimozione delle colonie ebraiche in CisGiordania. Su questo tema chiave ci aspettiamo che Obama faccia pressioni sul governo israeliano. Di fatto i primi passi mossi dal Presidente americano sono stati quelli giusti.
Ieri lei ha rivolto un messaggio al Presidente Obama in cui ha scritto di aver apprezzato la sua apertura verso il mondo arabo e ha aggiunto che Hamas si impegnerà per il conseguimento della soluzione giusta. Qual è la soluzione giusta?
La soluzione giusta per noi è il ritorno ai confini precedenti alla guerra del 1967, quindi il riconoscimento di uno Stato Palestinese con la CisGiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme capitale. È probabile che per raggiungere questo obiettivo, nonostante le ottime premesse contenute nel discorso di ieri, ci vorranno altri venti anni. Saranno le generazioni future a decidere in che tipo di Stato vorranno vivere.
Obama ha però detto che Hamas deve riconoscere Israele.
Questa è ancora una terra occupata. Prima che qualcuno chieda ai palestinesi di riconoscere qualcosa d'altro, noi dovremmo avere un nostro stato indipendente e libero. Si viola il diritto internazionale quando si vuole obbligare un popolo che vive da oltre 60 anni sotto occupazione di riconoscere l'occupante. Mi auguro che il Presidente Obama, esperto di diritto internazionale, conosca questa regola.
Ministro lei è considerato un moderato. I membri più fondamentalisti del suo gruppo vedono di buon occhio la posizione del Presidente americano?
Quel che credo è che la maggior parte dei palestinesi vuole smettere di soffrire, vuole che venga posto fine all'assedio a Gaza e spera di tornare a vivere nella propria terra. Vuole pace, sicurezza e prosperità per la regione. Questo è quello che credo.

il Riformista 5.6.09
La nuova forza di Barack Obama
di Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma


Caro direttore, il discorso di Obama all'Università del Cairo è stato di una forza intellettuale ed emotiva straordinaria, per profondità di visione e per forza evocativa. Una forza che restituisce fiducia nella capacità della politica di incidere sulla storia e sui processi globali. Un discorso forte per i contenuti, certo: dalla richiesta di immediato stop degli insediamenti israeliani in Cisgiordania alla riaffermazione del diritto del popolo palestinese ad uno Stato - chiamato giustamente per la prima volta semplicemente "Palestina" e non "futuro stato palestinese" -, dall'impegno a lottare contro ogni stereotipo negativo sull'Islam a quello di porre rimedio ad ogni "fonte di tensione", dall'Iraq all'Afghanistan. Ma la forza di questo discorso è dovuta soprattutto alla capacità di prospettare una visione più alta e una via oltre i conflitti che dilaniano il medioriente e che inaspriscono i rapporti tra Islam ed occidente. Il messaggio implicito è, infatti, semplice ma dirompente: la nuova Amministrazione Usa guarda ai mussulmani e agli arabi considerandoli un vero interlocutore, cui guardare con rispetto. Lo segnalo a molti nostrani propagatori di intolleranza: si tratta di un cambiamento culturale rivoluzionario rispetto al paternalismo di Bush, che con l'intervento in Iraq e la dottrina del "cambio di regime" imposto dall'esterno presupponeva il fatto che all'interno non vi fossero energie sufficienti per farlo, e che magari gli arabi in quanto mussulmani fossero incapaci di democrazia politica. La rivoluzione di Obama è racchiusa in questo nocciolo di assoluta semplicità. È finito il tempo dello scontro di civiltà, della competizione aggressiva fra le grandi tradizioni culturali che cozzano e cercano di primeggiare. Inizia il tempo di una collaborazione paritaria e necessaria tra le diverse culture, una nuova fase nella quale l'Occidente guarda all'Islam non solo con rispetto, ma come ad un interlocutore naturale per aprire nuovi spazi ai diritti e alla democrazia e per migliorare il mondo. Un messaggio che è rafforzato da un'estrema chiarezza strategica: il realismo politico torna una nobile dottrina, e liberandosi dalle trivialità della sola politica quotidiana si eleva dal mero pragmatismo ed ambisce a proporre una visione del mondo permeata di nuova idealità.

il Riformista 5.6.09
L'Europa trema
Il folletto xenofobo si insidia nelle urne
di Anna Mazzone


Voto di protesta. Gli estremisti e i populisti sono più forti che mai. Dalla Svezia alla Grecia, passando per i Paesi dell'Est. La crisi economica sottrae consensi ai partiti tradizionali. Questa volta l'astensionimo sarà alle stelle e i "paria" della destra potrebbero conquistare seggi a Strasburgo.

«Gli europei hanno combattuto in tutta la loro storia per poter dire la loro. Questa generazione ha la fortuna di poter fare qualcosa che le generazioni precedenti potevano solo sognare». È pregno di retorica il discorso che José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, ha pronunciato ieri in occasione dei venti anni dalle elezioni polacche che portarono alla vittoria di Solidarnosc e all'inizio dello sbriciolamento dell'impero Sovietico. Retorica, certo, ma anche molta tensione nelle parole di Barroso, alla vigilia di una tornata elettorale che non fa presagire nulla di buono, anzi. Così il presidente della Commissione di Bruxelles ha pensato di fare un ultimo, accorato appello ai 375 milioni di elettori chiamati alle urne in questi giorni. Ieri il valzer elettorale è stato aperto da Gran Bretagna e Olanda. Oggi prosegue nella Repubblica Ceca e nel fine settimana in tutti gli altri Stati membri.
Non sono elezioni come quelle del 2004. Questo è sotto gli occhi di tutti. Da una parte, il tasso degli astensionisti potrebbe raggiungere vette stellari, dall'altra i partiti populisti e l'estrema destra potrebbero fare il colpo grosso e aggiudicarsi quei seggi a Strasburgo che gli permetterebbero di diventare il megafono di istanze razziste e xenofobe. Il rischio questa volta è più che mai consistente. Sul fronte sondaggi, è uscito ieri quello della London School of Economics (Lse) e del Trinity College. Secondo i loro dati, il prossimo Parlamento Ue dovrebbe rimanere saldamente in mano al partito Popolare (Ppe), che però accuserebbe un'erosione, passando dal 37 al 35%. Aumenterebbe il distacco con i socialisti del Pse, che ormai sono in caduta libera a cominciare dal Regno Unito, dove il Labour di Gordon Brown è dato ai minimi storici ed è staccato dai Tory di Cameron di circa 22 punti percentuali, passando per Francia, Germania e Spagna, dove un acciaccato Zapatero assiste giorno dopo giorno a un'emorragia di consensi nei confronti del partito Socialista. In totale, l'insieme delle forze del centro destra dovrebbe attestarsi al 43%, il centro sinistra al 39%. E riguardo alla presidenza della Commissione, i numeri sono impietosi con Barroso: non piace praticamente a nessuno e totalizza un mediocre 8% di pareri favoreli alla sua rielezione, che probabilmente, però, avverrà, tanto per confermare l'enorme gap che esiste tra quello che vuole la gente e quello che preferisce il "palazzo" europeo.
La crisi globale, l'impoverimento progressivo del ceto medio, la scarsa (o nulla) capacità reattiva di un'Europa imbrigliata nei bizantinismi della sua burocrazia, uniti alla fiducia ormai pari allo zero che i cittadini nutrono nei confronti di chi li governa a tutti i livelli, dalle assemblee locali a quelle nazionali ed europee, creano una miscela propulsiva per i partiti estremisti, che fanno del populismo il loro vessillo. La Lega in Italia domenica potrebbe passare dal 5% del 2004 al 10-12%. Il British National Party (Bnp) potrebbe conquistare un seggio, cosa che solo fino a qualche mese fa era del tutto impensabile. In Olanda "spopolano" - è proprio il caso di dirlo - le idee xenofobe e islamofobe di Geert Wilders, che potrebbe attestarsi al 12% dei consensi e rappresentare la forza più consistente nel Paese dei mulini a vento dopo i Liberali. Per non parlare dei Paesi scandinavi e dei "nuovi arrivati", ossia i Paesi dell'est, come la Bulgaria e la Romania. Lì il populismo trova un terreno fertile, concimato ad arte dal fertilizzante della crisi economica e dell'elevato tasso di disoccupazione. L'assioma è dei più banali: i partiti tradizionali finora non hanno saputo dare risposte adeguate ai problemi. Quindi, la gente è stufa e anche molto arrabbiata. Naziskin e odiatori di professione di ebrei e rom si sfregano le mani.
E se, citando il liberale Isaiah Berlin, il populismo «soffre del complesso di Cenerentola», ossia è difficilmente ingabbiabile in una definizione univoca, dal momento che la scarpetta esiste ma nessuno ancora è riuscito a calzarla alla perfezione, c'è però da dire che ogni Paese ha aggirato l'ostacolo e si è dotato di "scarpette" su misura. In Svezia i populisti Democratici (Sverigedemokraterna), il più ampio gruppo extraparlamentare di Stoccolma, e gli estremisti del National Democrats presentano i loro candidati per la prima volta in una tornata elettorale europea e potrebbero farcela. In Finlandia l'estrema destra è rappresentata dal bizzarro partito Reale Finnico che si professa xenofobo e anti-europeista e che potrebbe conquistare un seggio. La palma d'oro dell'estremismo e della violenza appartiene invece alla Grecia, dove è candidato il partito di ispirazione nazista Alba d'oro, che si contende i voti con un altro ultrà della destra, Georgios Georgiou, il quale ha però buone chance di essere rieletto. Al vento populista non sfugge nemmeno l'isola di Malta, dove è in corsa Norman Lowell, una tragica macchietta nazista di lungo corso, che sogna di entrare in Europa. La Repubblica Ceca, presidente di turno della Ue, è dichiaratamente euro-scettica (tanto per usare un eufemismo) e il suo presidente, Vaclav Klaus, ha recentemente dichiarato che «le elezioni in Ue sono inutili» perchè «contano solo i singoli stati nazionali».
Insomma, mai la retorica di Barroso è stata così preoccupata. E questa volta a ragione.

il Riformista 5.6.09
Saltò il muro in direzione Est
Oggi guida la Sinistra Europea
Lothar Bisky. Incontro con il successore di Bertinotti. Candidato di punta della Linke tedesca, porta in dote una straordinaria biografia.
di Paolo Petrillo


Berlino. Lothar Bisky: co-presidente, insieme ad Oskar Lafontaine, del nuovo partito della sinistra tedesca Die Linke; successore di Fausto Bertinotti alla presidenza di Sinistra Europea e soprattutto capolista di Die Linke alle imminenti elezioni europee. Nato nel 1941 in Pomerania, fuggito con i genitori nello Schleswig-Holstein sotto la spinta dell'avanzante Armata Rossa, Bisky si sposta a 18 anni nella ex Repubblica democratica tedesca (Ddr). Alla politica approda però solo nel 1989, quando il Muro di Berlino è ormai prossimo a cadere. «Solo per caso sono diventato un uomo politico - sorride Bisky, intervistato dal Riformista nella sede berlinese del partito - La mia passione rimane l'insegnamento, e la ricerca scientifica».
Presidente, di solito la gente scappava dalla Ddr per cercare rifugio ad Ovest. Lei invece ha fatto l'opposto.
Ero un bambino quando, nella Germania occidentale, ho conosciuto la povertà dei lavoratori tedeschi. Così ho cominciato presto ad interessarmi della questione sociale, di come fosse possibile cambiare la situazione. A un certo punto - dopo aver letto solo il Manifesto del Partito comunista e niente di più - sono andato nella Ddr. Dove all'inizio mi guardavano con sospetto: ma lo potevo capire e non me la prendevo. Ho iniziato a lavorare come bracciante e così ho potuto prendere la maturità. Questa era una buona cosa nella Ddr, una cosa da difendere: si aveva la possibilità di studiare a prescindere dalle risorse di famiglia. Si doveva alternare lo studio al lavoro manuale, ricco certo non diventavi: era una vita modesta ma si poteva studiare. Ed era quello che volevo.
Così il giovane Bisky si iscrive all'Università di Lipsia, facoltà di Sociologia. Dopo la laurea approfondisce la sociologia dei media e prosegue il percorso accademico. Ricercatore, docente e infine direttore dell'Università di Potsdam per Cinema e Televisione. Era ormai il 1986.
A quei tempi ero già abbastanza critico nei confronti della Ddr. Ero per il socialismo ma volevo anche una radicale democratizzazione sia del partito (Sozialistische Einheitspartei Deutschland, Sed, la forza di governo dell'ex Ddr; ndr) che della società. A metà degli anni '80 cominciò nel Paese una fase di intensa protesta sociale, molto sentita anche dentro le università. I miei studenti ad esempio volevano filmare i profughi della Ddr che scappavano nelle ambasciate della Brd in Cecoslovacchia e in Ungheria. Io ero d'accordo e, da rettore, chiesi le autorizzazioni del caso, ma nessuno ci rispose. Così decidemmo di muoverci ugualmente: gli studenti presero le telecamere e partirono. Cosa che, al tempo, era ancora abbastanza pericolosa.
E Lei, da rettore, non ebbe problemi?
Si, qualcuno sì. Una volta un richiamo scritto. Un'altra volta - perché avevo detto che gli studenti dovevano avere la possibilità di viaggiare liberamente nei Paesi capitalisti - vennero a trovarmi, per parlare, otto signori della Stasi. Niente di troppo grave comunque, anche se bisogna ricordare due cose. Primo, che io ero un leale cittadino della Ddr. Volevo maggior democrazia, non la fine del socialismo. E, secondo, che al di là del controllo e della repressione esercitata dalle autorità, c'era anche la tendenza da parte di molti cittadini ad essere "più realisti del re". Ad esempio: da rettore non ho mai vietato un film, né ho mai radiato uno studente per motivi politici. Era possibile, anche se la maggior parte dei miei colleghi si comportava in modo opposto.
Della Ddr si parla oggi solo in termini di repressione e controllo. Quant'è aderente al vero quest'immagine?
C'era repressione, senza dubbio. Poca democrazia, economia inefficiente, eccesso di controllo e la lista potrebbe continuare. Ma l'immagine che oggi diffonde la Fondazione Adenauer è falsa. Nella Ddr vi erano anche cose positive, come lo Stato sociale, il sistema scolastico, la certezza di un lavoro o dell'assistenza sanitaria. Perché tacere tutto ciò? Ma del resto questo silenzio, calato su tutta l'esperienza della Ddr, è anche una delle ragioni per cui prima il Pds e poi la Linke hanno avuto così tanto successo nei Laender orientali. Fino ad essere oggi il terzo partito a livello nazionale.
Fra poche ore si aprono le urne per le elezioni europee. In Germania si prevede un aumento dell'astensionismo e una riduzione di consensi per i due grandi partiti popolari, Cdu e Spd. A suo avviso, esiste in Germania un problema di calo di fiducia nei confronti della politica?
Senza dubbio. Troppo spesso i partiti fanno il contrario di quanto promesso in campagna elettorale e questo scatena le reazioni dell'elettore. Pensiamo ad esempio all'Spd, che parla di aumento delle pensioni e poi sottoscrive l'accordo per alzare l'età pensionabile a 67 anni. Cosa che - nei fatti - corrisponde a un taglio delle pensioni. In prospettiva, il rischio è che il voto venga preso sempre meno sul serio. Gli elettori danno ormai per scontato una qualche forma di manipolazione. si attendono ormai una manipolazione. Dicono: «Tanto verremo fregati lo stesso». E questa previsione di manipolazione, alla lunga, potrebbe essere fatale per la democrazia.

l’Unità 5.6.09
La grande statua bronzea raffigurante i padri del comunismo verrà tolta dalla piazza
dove fu collocata dal regime della Ddr per consentire la costruzione di nuovi edifici
Berlino sfratta Marx ed Engels
di Gherardo Ugolini


Le effigi di Lenin le hanno tolte subito tutte nelle prime settimane dopo la caduta del Muro. La rimozione più clamorosa fu quella della grande statua in granito che troneggiava fino al novembre 1989 in Leninplatz (oggi piazza Nazioni Unite) e che compare in una memorabile scena del film «Goodbye Lenin!». I nomi delle strade e delle piazze dedicate ad eroi del comunismo tedesco-orientale sono stati cambiati nel giro di pochi anni: Thälmann, Grotewohl, Pieck, Ulbricht non hanno posto nella toponomastica della nuova Berlino riunificata. Del Muro rimangono poche vestigia e un paio d’anni fa anche il Palazzo della Repubblica, sede del parlamento della Ddr, è stato abbattuto per far posto alla progettata ricostruzione dell’antico castello imperiale. E adesso è la volta di Karl Marx e Friedrich Engels, ovvero del monumento di bronzo dedicato ai due padri del movimento comunista che domina il piazzale denominato Marx-Engels-Forum in pieno centro città. Le due grandi statue raffiguranti l’uno accanto all’altro Marx (seduto) e Engels (in piedi) furono realizzate nel 1986 dallo scultore Ludwing Engelhardt e collocate dal regime della Germania Orientale al centro di una piazza alberata che si apre al lato della trafficatissima Unter den Linden, a due passi dalla torre della televisione e da Alexanderplatz. Doveva essere, nelle intenzioni degli architetti del socialismo reale, la celebrazione della vittoria del marxismo per i secoli a venire.
Così non è stato, ma anche dopo la caduta del Muro il monumento di Marx e Engels ha continuato a rappresentare una delle attrazioni più visitate dai turisti. Ma questo non impedirà alle ruspe di abbattere il tutto per trasformare il piazzale in area edificabile. Lì sorgeranno nuove abitazioni, negozi e ristoranti. Secondo le indiscrezioni della stampa tedesca le ruspe entreranno in azione già quest’anno e la nuova colata di cemento dovrebbe estendersi dalla stazione metropolitana di Alexanderplatz fino al fiume Sprea. Non tutti però condividono i nuovi progetti edilizi della municipalità berlinese. «Dopo l’abbattimento del Palazzo della Repubblica questo è un ulteriore tentativo di cancellare l’eredità architettonica della Ddr» ha protestato Philipp Oswalt, direttore del Bauhaus. E si può stare certi che la contestazione avrà un seguito di massa, come già accaduto negli anni passati quando era in discussione la distruzione del Palazzo della Repubblica. Non si tratta solo di patiti dell’ostalgia, attaccati al ricordo dei tempi che furono, ma anche di chi semplicemente vorrebbe che il nuovo volto della metropoli non cancellasse completamente le vestigia del suo passato.
Un ulteriore fronte polemico contro i progetti di edificazione viene dalla “Jewish Claims Conference”, l’associazione che difende gli interessi delle vittime ebraiche dei nazisti e dei loro eredi. C’è la possibilità che si aprano contenziosi per parecchi milioni di dollari. Fino all’avvento della dittatura nazista, infatti, una gran parte dell’area su cui ora sorge il Marx-Engels-Forum apparteneva a cittadini ebrei, che furono espropriati dal regime di Hitler senza mai essere indennizzati.

Repubblica 5.6.09
Dal doppiopetto alla camicia verde
di Gad Lerner


Conferendo in anticipo la guida del prossimo governo regionale veneto alla Lega, Berlusconi compie una scelta di portata strategica. Una (apparente) rinuncia, la sua, dettata nei tempi forse dall´istinto più che dal ragionamento, visto il danno che arreca al Pdl locale nello sprint di fine campagna elettorale. Eppure tale mossa era prevedibile. Bossi è stato per Berlusconi prima un maestro di politica che un alleato. Affermandosi nei territori del Nord come fondatore di una nazione artificiale, egli ha introdotto quel modello di leadership populista che Berlusconi ha saputo poi replicare su vasta scala con le sue armi mediatiche.
L´articolazione futura della destra italiana prevederà dunque il consolidamento di un partito di raccolta nelle regioni settentrionali. In quel partito hanno ritrovato legittimità pulsioni e culture radicate da secoli nei territori settentrionali, non ultima un´antica tradizione reazionaria le cui origini sono ben rintracciabili nell´Italia preunitaria.
L´istinto berlusconiano riconosce tali energie popolari, poco importa se venate di localismo e xenofobia. Mira dunque a incanalarle, allargando la fetta di torta destinata a Bossi, pur sapendo di rendere così croniche le differenze tra la destra italiana e gli altri partiti conservatori europei. Un banale calcolo di marketing elettorale gli preclude la netta separazione osservata da Sarkozy, Merkel, Cameron nei confronti delle loro destre populiste. Perché la sintonia che egli stesso ha instaurato con l´elettorato prevede siano assecondati i comportamenti antisistema. A suo modo, è un po´ leghista anche lui.
Se dunque nel 2010 avremo una Regione Veneto presieduta da Flavio Tosi o Luca Zaia, dopo che già alle elezioni politiche del 2008 la Lega vi aveva raggiunto il Pdl a quota 27%, non sarà solo perché così facendo Berlusconi spera di mantenere il controllo della "sua" Lombardia. L´autonomismo veneto affonda le sue radici in una sorta di Vandea cattolica mai davvero sconfitta né dall´illuminismo né dal Risorgimento, impregnata com´era di diffidenza della terraferma nei confronti del cosmopolitismo veneziano. È vero che senza la guida unificante di Bossi quel movimento sarebbe rimasto marginale. Ma neppure va dimenticato che mentre il leghismo lombardo incorreva nella sconfitta di Malpensa e nelle malversazioni del clientelismo varesotto, al contrario il leghismo veneto esprimeva modelli a loro modo vincenti: dall´autoritarismo trevigiano dello sceriffo Gentilini, all´ordinanza antisbandati del sindaco di Cittadella. Fino alla conquista di Verona, dove l´astro nascente Tosi è riuscito perfino a condizionare la Fondazione bancaria nella vicenda della ricapitalizzazione Unicredit. Da controllori del territorio, gli amministratori della Lega hanno intrapreso la scalata del potere, ma sempre presentandosi come oppositori del sistema fino al limite dell´estremismo nel culto di "sangue e suolo". Ciò spiega perché non potesse esaudirsi l´auspicio di Massimo Cacciari, cioè l´alternativa di un partito territoriale di sinistra in una regione di quasi cinque milioni di abitanti: qui da sempre il localismo è per sua natura conservatore, intessuto di nostalgia e familismo. Per lo stesso motivo Berlusconi dopo quindici anni dà il benservito al presidente Giancarlo Galan e alla sua speranza impossibile di fondare una Forza Italia veneta.
Già provato dalle tensioni dell´autonomismo siciliano, con la crisi della giunta Lombardo, il Popolo della libertà cede ora il passo al Nord. Un partito costruito su misura per obbedire al suo fondatore, è destinato a subire nei territori il consolidamento di organizzazioni militanti e clientelari. Così la destra antisistema si candida a destinataria di una quota cospicua dell´eredità berlusconiana. Colui che dal predellino di San Babila si offriva al popolo come unificatore della destra italiana, con tutta la sua forza proprietaria, si è ritrovato a inseguire per un anno una Lega sapiente nell´erodergli consensi e tormentarlo. Come dimostrano le vicissitudini parlamentari del pacchetto sicurezza e le figuracce internazionali sulle politiche migratorie.
L´apprendista stregone già passato dal doppiopetto alla maglia girocollo rischia ora di essere trascinato a indossare la camicia verde. Come ieri sera, quando ha protestato contro il fatto che nel centro di Milano circolino troppi stranieri; una Milano che «sembra una città africana». Perché la destra italiana sa inglobare ma non sa reprimere le spinte eversive di una società arrabbiata.

Corriere della Sera 5.6.09
Due studiose hanno ricostruito le colpe dei professori favoriti dal fascismo e il disinteresse dello Stato democratico
Leggi razziali, doppia vergogna Ecco chi sfruttò le epurazioni
Espulsi gli ebrei, nel dopoguerra le cattedre non furono «restituite»
di Pierluigi Battista


La seconda epurazione, quella intollerabile perché messa in atto nell’Italia democratica, su­scita ancora reazioni autodifensive. Da Pisa parte la ricerca di una verità troppo a lungo taciuta.

Con l’estromissione degli ebrei a segui­to delle leggi razziali del ’38, l’univer­sità italiana ha conosciuto una dop­pia vergogna. Una, quella più nota an­che se con attenzione tardiva, è l’espulsione nel­­l’Italia fascista (ma il bilancio della «dispensa di servizio» è ancora impreciso) di «96 profes­sori ebrei ordinari e straordinari, 141 professori incaricati, 207 liberi docenti e 4 lettori allonta­nati dalle università, cui si andavano ad affian­care i 727 studiosi ebrei espulsi dalle accade­mie e dalle numerose istituzioni culturali del Paese». L’altra, ancora coperta da un velo di re­ticenza o addirittura di imbarazzata omertà, ri­guarda non l’Italia fascista ma quella democrati­ca che ostacolò il rientro nei ranghi accademici degli ebrei perseguitati. È la «doppia epurazio­ne » di cui scrivono Francesca Pelini e Ilaria Pa­van. «La lacerazione prodotta dalla persecuzio­ne antisemita nel dopoguerra non si rimargi­nò », si legge nel loro libro. Oggi questa doppia lacerazione viene finalmente affrontata senza remore, suscitando molti interrogativi sulla no­stra capacità di fare finalmente i conti con il passato.
Il libro è firmato da due autrici che però non ne sono le coautrici in senso stretto. La prima è Francesca Pelini, una giovane e valente studio­sa di Pisa che ha perso la vita nel 2005 (lo rac­conta nella commossa prefazione Paolo Pezzi­no). L’altra è Ilaria Pavan, che ha ripreso la tesi di laurea dell’amica scomparsa, l’ha ritoccata per darne una veste adatta alla pubblicazione e ha aggiunto una postfazione in cui riassume il senso non solo storiografico del lavoro della Pe­lini.
Ambedue prendono però le mosse dall’epu­razione antiebraica nell’ateneo pisano. Rico­struiscono i profili dei docenti di Pisa costretti ad emigrare, o ad adattarsi a lavori dequalifica­ti, o a cadere nella disperazione della disoccu­pazione. Storie terribili eppure tragicamente si­mili a quelle dei tanti professori italiani (cono­sciute soprattutto grazie ai lavori di Roberto Finzi) che persero cattedre, lavoro, paternità di libri, «sebbene l’esatta dimensione della ferita inferta all’accademia italiana dalle leggi razziali appare ancora oggi lontana». Meno nota è la dimensione dell’acquiescenza e del «complessi­vo silenzio indifferente con cui fu accolta e vis­suta l’espulsione di professori e studenti ebrei dall’accademia». Meno noto è che ci fu «un uni­co dignitoso diniego a succedere al professore ebreo cacciato», quello dello scrittore Massimo Bontempelli, «sino a quel momento fascista convinto e perfettamente integrato, che, chia­mato per chiara fama presso l’ateneo fiorenti­no, rifiutò di coprire l’insegnamento di lettera­tura italiana che era stato sino a quel momento di Attilio Momigliano». Meno noto è che a Pi­sa, nel novembre del ’44, il nuovo prorettore Luigi Russo nel suo discorso d’inaugurazione dell’anno accademico «non menzionò neppure per inciso, in quella prima simbolica occasio­ne, la cancellazione dalla turris eburnea dell’ac­cademia dei colleghi e degli alunni ebrei»: pro­prio l’«antifascista» Russo che nel ’42, scriven­do di Attilio Momigliano, sottolineava ambi­guamente in un momento storico delicatissi­mo «le sue particolari origini semitiche» che «ci possono aiutare a intendere certe attitudini ascetico-contemplatrici della sua mente, la soli­tudine fisica del suo stile e però anche qualche tiepidezza e distanza storica dalla sua opera let­teraria ».
Meno noto ancora è che nel dopoguerra molti docenti che erano subentrati nelle cattedre la­sciate vacanti dagli ebrei espulsi non solo non le restituirono ai loro legittimi titolari, ma si impe­gnarono allo stremo per evitare il reintegro dei colleghi vittime della legislazione razzista. «Nes­sun docente pisano», ha scritto la Pelini, «risultò in qualche modo sanzionato». E soprattutto «dei venti professori ebrei che a Pisa nell’autunno 1938 erano stati sospesi dall’insegnamento, a guerra finita solo cinque poterono tornare — no­minalmente e temporaneamente — a occupare la cattedra forzatamente abbandonata». A quasi dieci anni di distanza il rientro conobbe difficol­tà psicologiche e pratiche. La reintegrazione dei docenti ebrei veniva registrata con estrema fred­dezza dalle autorità accademiche pisane, che af­frontarono la questione con il distaccato stile bu­rocratico di chi doveva risolvere una complicata e molesta incombenza. Inoltre si trattava di risar­cire i docenti con gli stipendi non corrisposti ne­gli anni dell’allontanamento forzato. Per di più la distanza fisica aveva impedito ai docenti ebrei di avanzare nei gradini della scala accademica proficuamente percorsi dai colleghi che ne aveva­no usurpato il posto.
Rientrò il giurista Renzo Bolaffi, che poi però decise di abbandonare definitivamente la carrie­ra universitaria dopo che gli era stato negato il ruolo di professore ordinario. Rientrò dal Ve­nezuela, dove aveva lavorato presso una impresa di olii minerali, Bruno Paggi, che però conobbe talmente tanti ostacoli burocratici da consigliar­ne il trasferimento presso l’ospedale Santa Chia­ra di Pisa: dove morì, appena cinquantenne, nel 1951.
Conobbe una seconda persecuzione burocrati­ca l’otorinolaringoiatra Aldo Lopez, cui venne ne­gato persino il dovuto pagamento degli stipendi arretrati. E analoghi soprusi vennero inflitti al chirurgo Giorgio Millul e al medico legale Emdin Naftul. Il fisico Giulio Racah e Renzo Toaff scelse­ro alla fine Israele come loro nuova e definitiva patria. Non ebbero possibilità di scegliere altri docenti ebrei espulsi nel 1938: Enrica Calabresi, arrestata dai nazisti e morta suicida nel 1944; Raf­faello Menasci, arrestato a Roma nella retata del 16 ottobre del 1943 e deporta­to ad Auschwitz; Ciro Raven­na, ordinario di Chimica agraria, condotto nel campo di Fossoli e poi ucciso ad Au­schwitz.
Ma la lacerazione non fu sanata con la riconquista del­la democrazia. I professori ebrei trovarono spesso la strada sbarrata. Gli usurpato­ri non rinunciarono alle loro carriere abusive. Scrive la Pavan che la «comunità accademica ita­liana non ha avvertito l’urgenza di pronunciare autocritiche, neppure autocritiche di rito» e solo nel 1998, primo in Italia, l’ateneo bolognese «sen­tì il bisogno di ricordare con una lapide» l’igno­minia delle leggi razziali attuate «nel silenzio ac­quiescente della comunità scientifica».

l’Unità 5.6.09
È solo una bozza. Ma come le altre poi è stata confermata
Verso la privatizzazione dello studio, si parla di esperti
Licei, ecco la riforma
Meno ore delle scuole medie
di Maristella Iervasi


Si faranno 27 ore, tre in meno dell’orario oggi in vigore
Non ci sono novità, solo conferme per la scuola. Ieri è stata pubblicata la bozza di Riforma dei Licei. Saranno tagliate tre ore sull’attuale orario scolastico. I Licei avranno meno ore delle medie.

Dopo i tecnici e i professionali ecco il sistema dei Licei della Gelmini. Sei indirizzi che consentono l’accesso all’Università e una materia non linguistica studiata in inglese all’ultimo anno. Latino non per tutti. Allo scientifico-tecnologico scompare per far posto all’informatica, la chimica e la biologia. E sempre qui compare una materia calderone: storia e geografia avrà un voto unico. In altre sezioni si accorpano matematica e fisica. Non solo. I percorsi liceali sono ufficialmente 6 ma di fatto saranno 12 attraverso le opzioni/facoltative dell’offerta formativa. Soprattutto, però, a fare la differenza sarà il biennio: un tempo scuola più corto della scuola media: 27 ore, 3 in meno di oggi; 31 ore settimanali solo nel triennio del Classico. Tutti i bienni dei licei saranno rigorosamente differenziati, quasi a voler scoraggiare gli studenti a cambiare percorso in corso d’opera per incertezza. Insomma, un riordino dei licei che ha un solo obiettivo: rientrare nei tagli al personale previsti dal duetto Tremonti-Gelmini che il movimento dell’Onda ha fatto slittare al 2010-2011: si comincierà dalle prime e seconde classi.
La riforma dei licei
Il provvedimento andrà al Consiglio dei ministri in prima lettura, poi parere Commissioni parlamentari e Conferenza Stato-Regioni. percorsi in 2+2+1, cioè due bienni e un quinto anno. L’orario annuale e comprensivo della quota riservata alle Regioni che hanno voce sui piani di studio.
Le critiche dei sindacati
Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil: «Avanza l’idea dell’aziendalizzazione. La differenzazione dei percorsi non produrrà pari opportunità di apprendimento». E qualche distinguo lo pone anche la Uil: «Siamo contrari a far partire la riforma nelle prime e seconde classi - spiega il segretario generale Massimo Di Menna -. E l’avvio dei licei musicali è ancora poco chiaro».
Scientifico-tecnologico
In questo liceo viene previsto anche anche un indirizzo tecnologico. Nel provvedimento di 16 articoli che per tutti esplicita piani di studio, tabelle e quadri orari, questo indirizzo è configurato come opzione. Il modello di liceo tecnologico della Moratti?
Economico-sociale
È una delle novità introdotte al fianco del liceo delle Scienze umane. Al posto del Latino discipline di diritto e economia.
Liceo Classico
Nelle precedenti bozze solo con questo diploma si poteva accedere all’Università.
Musicale-coreutico
Lo voleva anche la Moratti. In prima batttua 40 le sezioni musicali e 10 di liceo coreutico. Altre saranno subordinate all’esistenza di risorse e convenzioni con i corservatori e Accademie.
Linguistico
Gli studenti a conclusione del percorso di studio devono essere in grado di comunicare in 3 lingue diverse»,. Una materia non linguistica si insegna in inglese.
Artistico
Tre gli indirizzi previsti: arti figurative, architettura/design/ambiente e audivisivo/multimedia/scenografia.

il Riformista 5.6.09
Abusi sessuali e lavori forzati
La schiavitù non è finita
di Alessandro Leogrande


REPORTAGE. Einaudi pubblica "Schiavi contemporanei" di E. Benjamin Skinner. Un'inquietante inchiesta sul traffico e lo sfruttamento di esseri umani nel mondo. Dall'Africa all'Occidente, oggi il numero delle vittime è il più alto di sempre. E nonostante crescano le denunce, in meno del 10% dei casi si arriva a una condanna.

Oggi nel mondo ci sono più schiavi di quanti ve ne fossero prima della Guerra di Secessione, più che in qualsiasi altra epoca del passato. Ci sono schiavi del lavoro forzato. Ci sono schiavi del sesso, o meglio "schiave del sesso" perché nella quasi totalità sono donne, e sono le ultime tra gli ultimi. Vi sono schiavi per debito, e schiavi bambini. Sono milioni. Da questo assunto inquietante muove il corposo reportage di E. Benjamin Skinner Schiavi contemporanei. Un viaggio nella barbarie, ora tradotto in italiano per Einaudi, dopo essere uscito negli Usa all'inizio del 2008 con il titolo A Crime So Monstrous.
Skinner ha viaggiato per cinque anni dalle Americhe all'Africa, e dall'Europa al sub-continente indiano, per concludere che un nuovo fronte abolizionista, che attraversi i paesi e i continenti, è quanto mai necessario. Testimonia in prima persona come sia possibile acquistare per pochi dollari bambini poveri ad Haiti o, per poche migliaia di euro, donne costrette a prostituirsi nelle periferie di Bucarest o nei villaggi della Moldavia. Racconta la schiavitù che si tramanda di generazione in generazione nell'India più povera (spesso perché non si è in grado di saldare un vecchissimo debito di modesta entità). Incontra le vittime e i loro aguzzini. Narra di chi è riuscito a ribellarsi e a gridare la sua storia, ma anche di chi non ce l'ha fatta, venendo sommerso da un incredibile intreccio di degrado e violenza. Il mondo che descrive con viva partecipazione non è un cumulo di detriti del passato, bensì una componente sempre più vasta (e inquietante) del panorama socio-economico globale. La schiavitù, uno dei crimini più orrendi, rende economicamente. Quanto a profitti, il traffico internazionale di esseri umani è secondo solo al traffico di droga, e le nuove mafie - i nuovi imprenditori dello schiavismo - hanno fiutato l'affare.
«Uno schiavo», scrive Skinner, «è una persona costretta a lavorare con l'inganno e sotto la minaccia della violenza, senza compenso all'infuori di quanto necessario alla sua sopravvivenza». Ma sarebbe errato considerare tutto questo una cancrena del Sud del mondo, che si alimenta e riproduce al di fuori dei confini dell'Occidente, e che quindi - in buona sostanza - non ci riguarda.
Sarebbe sbagliato per almeno due motivi. Il primo è che un mondo in cui c'è anche un solo schiavo è un mondo infame: pertanto è giusto esercitare pressioni su tutti gli Stati, potenti e meno potenti, in cui questo crimine ancora esiste. Il secondo è che la riduzione in schiavitù (e non solo delle schiave del sesso) è una pratica si sta pericolosamente allargando all'interno delle società occidentali. Skinner racconta in pagine raccapriccianti come si esercita il controllo totalitario sul corpo e sulle menti delle migliaia di donne romene o moldave che in questi anni sono state costrette a prostituirsi nelle nostre città. Ma l'inquietante novità è che la schiavitù si ripresenta nella nostra società anche sotto forma di lavoro forzato: tra i nuovi braccianti come nel silenzio della servitù domestica. Non riguarda tutto il mondo dell'immigrazione, e neanche tutto il mondo dell'immigrazione "irregolare", ma un suo sotto-insieme specifico (appena una settimana fa, a Rosarno, tre imprenditori agricoli sono stati arrestati con l'accusa di riduzione in schiavitù di lavoratori africani).
Contro il nuovo schiavismo si sta organizzando un nuovo fronte antischiavista. Uno dei protagonisti di Schiavi contemporanei è John Miller, una stramba figura di repubblicano anti-reaganiano che ha diretto per anni l'Ufficio per il monitoraggio e la guerra al traffico di esseri umani di Washington e che si è battuto strenuamente perché tale lotta divenisse uno dei primi temi nell'agenda politica. Skinner descrive ampiamente il dibattito americano sulle nuove schiavitù, come questo si sia orientato dopo le leggi anti-tratta promulgate da Clinton nel 2000, e - nel farlo - coglie un punto essenziale.
Sotto l'autorità del neocon Michael Horowitz (dalle cui posizioni Miller si è poi discostato) si è creata una strana alleanza tra conservatori cristiani e alcune associazioni femministe che ha orientato la lotta antischiavista unicamente sul fronte "prostituzione" sostenendo, in toni più moralistici che realistici, e più per rafforzare la lotta contro il sesso a pagamento che per sconfiggere le mille metastasi delle nuove servitù, che la schiavitù riguarda unicamente le prostitute, e che ogni prostituta è una «schiava del sesso». Allargando il campo, Skinner racconta come a fianco di questa posizione, sia all'interno del Partito democratico che all'interno dello stesso Ufficio di Miller, se ne sia elaborata un'altra, più articolata.
Per quanto la schiavitù sessuale sia la più visibile, e spesso la più ignominiosa, riguarda meno della metà dei casi. Esiste anche una schiavitù da lavoro, ed essa è strettamente intrecciata al generarsi delle nuove povertà. In questo caso, combattere la tratta richiede altri mezzi, come la capacità ad esempio - oltre che liberare gli schiavi in catene - di generare forme di microcredito. Non solo: le nuove schiavitù si combattono attaccando i trafficanti e gli schiavisti. Per questo sono importanti leggi più precise, e processi più certi. E qui quello che Skinner racconta, e le riflessioni che avanza, valgono per gli Stati Uniti come per l'Italia.
Anche in Italia, con la legge 228 del 2003, è stato riformulato il reato di riduzione in schiavitù, secondo un'accezione molto simile a quella proposta da Skinner in questo libro: facendo leva sull'idea di costrizione fisica e psicologica, sull'inganno e sull'assenza del benché minimo pagamento. Anche da noi, come negli Usa, le denunce per riduzione in schiavitù si sono moltiplicate. Ma il sentiero giuridico è più che accidentato: in meno del 10% dei casi si riesce ad arrivare al rinvio a giudizio, e in una percentuale ancora più bassa a una sentenza di condanna in primo grado. Questo ci dice non solo che è difficile incastrare i nuovi schiavisti, perché è difficile provare un reato che spesso avviene nell'ombra, e su scala trans-nazionale, ma che è di estrema importanza proteggere le vittime dalle minacce dei loro aguzzini per garantire loro la possibilità di denunciarli. È fondamentale far intravedere alle vittime un altro orizzonte di vita, un diverso reinserimento sociale, perché altrimenti il rischio di ricadere nello stesso girone da cui si è miracolosamente usciti diventa elevato.

l’Unità 5.6.09
Sguardi persiani
Sotto il velo c’è una testa per comandare
di Elena Doni


Le figlie di Shahrazad. Anna Vanzan racconta l’evoluzione del pensiero femminile iraniano: una finestra aperta sulla vita delle donne persiane tra le timide riforme dello scià, le restrizioni di Khomeini e le riaperture di Khatami

In «Figlie di Sharazad» l’autrice cita numerose scrittrici iraniane. Ecco una breve bibliografia
Di Sharnush Parsipur sono reperibili in italiano «Donne senza uomini» (Aiep, 2000) e «Tuba e il senso della notte» (Tranchida, 2000).
Le scrittrici citate da Anna Vanzan sono antologizzate nel volume «Parole svelate» (Imprimitur, 1998)
«Lo specchio e la rosa. Antologia di poetesse sufi», a cura di Anna Vanzan (San Marco dei Giustiniani, 2003).

Un libro dopo l’altro - con in più qualche buon film - procede la scoperta del Vecchio Mondo, in particolare di quello islamico. E sgomenta la nostra ignoranza di un contesto culturale ricchissimo sul quale, fino a ora, abbiamo chiuso gli occhi. Né è mai stato possibile aprirli sulla metà femminile di quel mondo: che invece ha avuto scrittrici di rilievo, con il valore aggiunto di farci comprendere l’evoluzione di un paese che spesso ci è apparso incomprensibile.
A farci conoscere la straordinaria e antica vitalità della produzione letteraria delle donne iraniane è oggi Anna Vanzan, studiosa dell’università di Milano e della Iulm, con Figlie di Shahrazad (Mondadori, pag. 210, euro 18). Nome non casuale quello di Shahrazad: la mitica eroina delle Mille e una notte «aveva letto, libri, annali e leggende, imparato a memoria le opere dei poeti e studiato la filosofia e le scienze». Furono dunque intelligenza, cultura e fantasia a permetterle di sopravvivere notte dopo notte, salvando così anche centinaia di giovani donne dalla crudeltà del sultano.
La domanda di scolarizzazione è stata infatti la principale rivendicazione delle femministe iraniane del Novecento, attraverso giornali e riviste ma anche organizzando loro stesse corsi di alfabetizzazione. Oggi il numero delle studentesse universitarie iraniane supera quello dei maschi e i testi letterari scritti da donne sono più numerosi di quelli degli uomini. Il libro della Vanzan è una porta spalancata su un mondo che fino dal XIV secolo ha avuto letterate al tempo stesso anche donne di potere: Padeshah Khatun, governatrice di una regione, orgogliosamente dichiarava «sotto il mio velo ho una testa adatta al comando».
IL PENSIERO FEMMINILE
Più interessante per noi è l’evoluzione del pensiero femminile iraniano negli ultimi 40 anni: le donne iraniane parteciparono con entusiasmo ai moti contro lo scià, che aveva concesso il voto alle donne ma aveva anche abolito un gran numero di associazioni femminili indipendenti; aveva varato un diritto di famiglia più attento alle donne (un uomo non poteva prendere una seconda moglie senza il consenso della prima) ma conservava poi intatti molti privilegi maschili. Molte donne aderirono così in un primo momento alla rivoluzione islamica per poi sentirsene tradite: Khomeini reinstaurò la poligamia, escluse le donne alla carriera di giudice, proibì l’uso dei contraccettivi. Con l’avvento al potere di Khatami, prima ministro della Cultura e poi presidente della Repubblica islamica, i lacci del regime si allentarono. Negli anni ‘90 l’Iran si è trovato con una popolazione giovanissima, desiderosa di vivere come i coetanei occidentali, con ragazze altamente scolarizzata, e che pretende lavoro e riconoscimento dalla società. Nonostante l’alternarsi di relativa libertà e restrizioni la presenza delle donne sulla scena pubblica è oggi incontestabile: «È una nuova generazione che non rimane segregata in casa e cambia le regole col proprio comportamento», dice Anna Vanzan.
Tra gli strumenti di sopravvivenza c’è il «femminismo islamico», ora diffuso in tutti i paesi musulmani ma nato in Iran proprio all’inizio degli anni novanta. Consiste nell’affermare che il Corano contiene principi di equità di genere e di giustizia sociale permettendo alle donne di reclamare diritti senza uscire dalla cornice islamica. Da percorsi ideologici diversi è nata una straordinaria produzione femminile letteraria, ma anche teatrale e cinematografica, che non si può non ammirare.
Di questa vitalità, dal ribollire di iniziative delle figlie di Shahrazad - che appunto vinse la sua battaglia con l’intelligenza e la cultura - traccia un panorama Anna Vanzan. Includendo, tra l’altro, lodi per chi, come Marjane Satrapi autrice del fumetto (o graphic novel) Persepolis, percorre strade totalmente nuove.

Terra 5.6.09
Sinistra, fatti più umana La sinistra si occupi anche di realtà umana
di Mariopaolo Dario


In un convegno di psichiatria all’Aula magna dell’università di Roma, tenutosi alcuni anni fa, mi aveva colpito, tra le tante, una relazione che proponeva che aiutare gli altri è l’idea che distingue la specie umana.
Si ipotizzava che quello che ci fa umani è il muoversi di fronte alla difficoltà, alla malattia dell’altro per prendersene cura, per tentare di curare. A un’ipotesi così delineata si potrebbe obiettare che nell’uomo è il sentimento religioso che lo porta ad aiutare gli altri. Noi preferiamo
sostenere che, invece, aiutare gli altri è nella natura della specie umana. Possibilità di aiutare che non significa soltanto sollievo dalla sofferenza, ma una ricerca per eliminare la sofferenza
perché il male, concetto inventato dalla religione, ha come conseguenza un’impossibilità di aiutare gli altri. Esiste solo la malattia che può essere curata.
Poi, alle primarie delle idee al teatro Eliseo di Roma del dicembre 2008 ho ascoltato le parole di una giovane studentessa.
Questa giovane studentessa, con l’entusiasmo di chi vuole essere protagonista della costruzione della propria vita e di una nuova società, con le parole del suo discorso proponeva una parola che ormai da molto tempo non si sente più negli incontri della sinistra: utopia.
Non solo, parlava anche di uguaglianza, libertà e identità.
I primi due termini si sono contrapposti nella storia della sinistra non riuscendo a trovare una sintesi. Il terzo termine, identità, è divenuto, dopo il Sessantotto, portatore di verità autoritarie da combattere.
Ora è arrivato il tempo di dirsi che il tentativo di rinnovare la società, e in particolare la sinistra, iniziato nella metà degli anni Sessanta come movimento mondiale, con gli anni Ottanta è fallito.
Certo, è fallito perché erano cambiate le condizioni strutturali dello scontro tra capitale e lavoro per cui ci si incamminava verso la società di consumatori, mentre la sinistra rimaneva strabicamente rivolta a esaminare la realtà con categorie concettuali obsolete. Il rinnovamento è fallito perché in quel grande movimento hanno prevalso le idee, le utopie e gli slanci che sembravano nuovi ma che in realtà erano vecchi perché parlavano di un’idea della specie umana in cui la soggettività, cioè la specifica identità dell’uomo, non era distinguibile, specificabile.
L’emarginazione sociale era la chiave di lettura di tutte le realtà umane, sociali e culturali, regalando così al campo avversario la ricerca dell’identità, che da destra non poteva che essere riproposizione di stereotipi autoritari e discriminatori.
Invece la sinistra nasce e si caratterizza come utopica e comunitaria alla ricerca del senso della realtà umana come realtà sociale, legata quindi alla qualità dei rapporti interumani.
Ecco che diventa vitale che la sinistra si occupi di realtà umana, altrimenti, come già accaduto storicamente, resterà imbrigliata in una visione amministrativa e caritatevole della politica in cui il disincanto e i falsi miti del successo personale diventano imbattibili.
Ecco che diventa vitale che la sinistra passi dall’analisi delle condizioni strutturali al rendersi conto che quella che un tempo si chiamava sovrastruttura, cioè le idee che muovono gli atti delle persone, sono non solo effetto ma causa di cambiamenti sociali.
Sapere della realtà umana, interrogarsi sui temi della nascita, del rapporto tra l’uomo e la donna, della sofferenza, della malattia, della morte, non rappresenta uno sterile esercizio filosofico ma è l’essenza stessa di una sinistra del Ventunesimo secolo.
Interrogarsi, infine, sul dilemma della malattia mentale, come essa si instaura e diventa ostacolo allo sviluppo personale e sociale del soggetto, non è soltanto compito della ricerca psichiatrica.
Questo interrogarsi impone una ricerca sull’essenza stessa dell’uomo e delle sue possibilità utopiche e creative, o viceversa sul fallimento di queste possibilità. Se la sinistra non recepisce la sfida culturale e scientifica che tali temi ci impongono, nonostante noi stessi, rischia di ammalarsi per lungo tempo del virus della subalternità che renderà impossibile far evidenziare quella parola, utopia, che caratterizzava il primo socialismo.
E che, oggi, ritrova le ragioni del suo essere più attuale che mai.

Terra 5.6.09
La Bce lascia i tassi fermi all’1%
di Luca Bonaccorsi


I cenni di una ripresa, che non c’è, citati dal governatore Jean-Claude Trichet per giustificare
la scelta. In realtà pesano le polemiche con la Germania sulle politiche di espansione “quantitativa” del credito

La Banca centrale europea ha lasciato i tassi invariati all’1% nella sua riunione di ieri. La decisione era largamente attesa e non ha provocato reazioni di rilievo nei mercati.
Eppure le polemiche sulla politica monetaria europea, che i governi si stanno rimandando da giorni, un loro peso lo hanno avuto. Il primo appello a “tirare” il freno a mano della politica monetaria era giunto da Axel Weber, il presidente della Bundesbank, ed era stato ripreso il 2 giugno dal cancelliere tedesco Angela Merkel. Obiettivo delle critiche tedesche non è la politica dei tassi, ma quella “quantitativa”, ovvero l’acquisto di titoli dalle banche. Le polemiche, infatti, avevano seguito le intenzioni, annunciate dal governatore Trichet, di comprare obbligazioni sul mercato. Gli acquisti di titoli privati da parte della Bce hanno come obiettivo quello di liberare i bilanci delle banche da prodotti che non hanno gran mercato in questi mesi e di iniettare liquidità aggiuntiva nel sistema. Secondo fonti ben informate l’opposizione tedesca a maggio aveva ottenuto due risultati: ridurre l’ammontare dei titoli da comprare da 125 a 60 miliardi, e restringere il tipo di prodotti da acquisire ai soli “covered bond”, ovvero le obbligazioni garantite da mutui immobiliari o da crediti verso le amministrazioni pubbliche. Il piano di per sé è modestissimo (60 miliardi sono circa lo 0,6% del Pil Ue) se paragonato agli acquisti di Usa e Gran Bretagna che superano il 10% del Pil, eppure è bastato a sollevare le critiche tedesche. Non sono servite a molto le difese da parte di altri governi europei. Il pericolo più grande è che l’offensiva tedesca si traduca in un messaggio al mercato: l’espansione monetaria è finita. Trichet nella conferenza stampa di ieri ha citato, a sostegno della decisione di lasciare i tassi invariati, i segni di ripresa economica. Di quali segni di ripresa parlino Trichet e Weber, e di quali rischi inflazionistici non è chiaro. L’economia europea è tuttora afflitta da una recessione profonda e la disoccupazione galoppa. Le banche europee poi, secondo le stime del Fondo monetario, hanno ancora nei bilanci centinaia di miliardi di carta straccia. Se è vero che il Fmi non ha azzeccato una previsione negli ultimi 25 anni, c’è comunque da supporre che le stime pubblicate non siano totalmente arbitrarie. Sarebbe stato certo più utile tenere viva l’aspettativa che ulteriori tagli sono ancora possibili. L’evoluzione della recessione dirà se la prudenza dell’Eurotower è prematura.

Terra 5.6.09
Non ti voltare. In Laguna è secessione
“Fare mondi” secondo Birnbaum. Con le sculture di luce di Pape e le utopie di Gowda
di Simona Maggiorelli


A Venezia scoppia la protesta contro il padiglione della “patria”
di Beatrice e Buscaroli che si dichiarano figli della destra. In risposta
nasce un contro padiglione Italia

La 53esima Biennale di Venezia, diretta da Daniel Birnbaum, è aperta dal 7 giugno al 22 novembre. Partecipano 77 Paesi, fra i quali, per la prima volta, il Gabon e gli Emirati Arabi. Ma la novità è anche la presenza in Laguna della Palestina. Leoni d’oro alla carriera a Yoko Ono e John Baldessarri.

Era già nell’aria. Il Contro padiglione Italia annunciato da un gruppo di artisti di vaglia come Liliana Moro, Luca Trevisan e altri, in certo modo, era atteso. Fin da quando, all’indomani della sua nonima a curatore del Padiglione Italia della 53esima Biennale di Venezia, Luca Beatrice disse che la sua Collaudi (titolo scelto in omaggio a Marinetti) era figlia di questo governo e della cultura di destra.
Affermazioni mai smentite e che ora, vedendo le scelte operate da Beatrice con la Buscaroli possiamo dire che descrivano bene la loro mostra. Dal 7 giugno i visitatori del Padiglione si troveranno davanti una parata di tardo futuristi e di epigoni di una pesante arte figurativa novecentesca.
Eccezion fatta per le fini sperimentazioni di Sissi nella mostra di B & B (alias Beatrice e Buscaroli) troviamo inverate quelle parole d’ordine che il curatore aveva scandito mesi fa in conferenza stampa: ritorno alla pittura da cavalletto, alla bellezza in senso classico (e marmoreo) e alla «cosalità dell’arte» contro l’effimero delle installazioni...
Girate le spalle al Padiglione italico seguendo il consiglio dei “secessionisti” che intitolano la propria mostra Non voltarti adesso, per uscire dall’oppressivo tenebrismo di Chia e seguaci, basta fare una passeggiata fra le proposte provenienti dai Paesi Arabi e dall’Oriente: arte astratta, videoarte, scultura, non di rado in un interessante métissage fra tradizione e innovazione. Sulla strada aperta da Ida Gianelli nel 2007 con due soli nomi per l’Italia, i padiglioni di Spagna, Inghilterra e Usa puntano su un solo artista, con nomi come Barcelo’, McQueen e Neuman, Si tiene su una cifra limpida, poetica, ma anche un po’ minimale, invece, la mostra Fare mondi di Birnbaum che punta sulle raffinate “sculture di luce” di Pape ( foto in alto), sui primi multipli di Fahlström, le visioni utopiche di Sheela Gowda e - a sorpresa - su un maestro come Pistoletto che, in versione” luddista”, frammenta i suoi quadri specchianti.

Terra 5.6.09
L’arte è femmina
A Roma un trittico di personali di artiste emergenti ma dal segno già maturo. Formecolore di Elena Bonuglia. Acqualuce di Monica Di Brigida. E Spaziocolore di Susanne Portmann
di Simona Maggiorelli


Non inganni il titolo leggero, Passavo di qua, la mostra ospitata dall’Associazione culturale abitanti di Trastevere sabato 6 e domenica 7 giugno offre la possibilità di conoscere più da vicino il lavoro di tre artiste giovani ma dalla forte diversissime fra loro: Elena Bonuglia, Monica Di Brigida e Susanne Portmann. Una iniziativa nata dal dialogo fra tre donne, cresciute artisticamente in città diverse e che una comune ricerca su un nuovo modo di fare immagini ha fatto incontrare a Roma Ha un talento straordinariamente poliedrico la svizzera Susanne Portmann: scrittrice dalla lingua icastica e poetica, quando dipinge gioca con il respiro del colore creando per assonanze timbriche e contrapposizioni, forme astratte, vive e vitali, come in movimento. Forme magiche e sempre diverse che nel complesso dell’opera di Portmann sembrano articolare un misterioso vocabolario femminile, che ha segni brillanti negli oli, sensibili e delicati negli acquerelli, arcaici e primitivi nei tessuti dipinti, che curiosamente in una artista del Nord ci fanno ritrovare l’eco di certi segni geometrici con cui le tessitrici berbere rendono unici i propri tappeti. Lavora, all’opposto, a partire dalla realtà oggettiva Monica Di Brigida. Ma attraverso l’obiettivo, riuscendo “magicamente” a scovare l’invisibile delle cose, angoli di poesia lungo una strada bagnata, oggetti che sotto le gocce di pioggia perdono i loro freddi contorni per diventare epifanie e immagini di un vissuto interiore, “Non luoghi” come un gazometro o un ponte di periferia, nelle sue stampe, diventano intense pitture, regalando alla fotografia una fantasia che il mezzo non possiede. È il calore dello sguardo dell’artista a compiere il miracolo. Sperimenta tecniche e materiali diversi, poveri o preziosi (dall’argento al legno), la pitto-scultrice Elena Bonuglia, mescolando la tradizione antica della cartapesta con suggestioni colte dalla pittura materica e dalle avanguardie del ’900. Tanto che le sue pitture stratificate e quasi carnali riescono ad avere lo spessore e la profondità di bassorilievi. Appuntamento il 6 e il 7 in via della Penitenza 35 a Roma, dalle 19 alle 23.

il Riformista 5.6.09
Il principe e la sua corte di ciambellani e specchi
di Pier Luigi Celli


I rapporti tra il principe e la sua corte sono stati, storicamente, molto complessi. Si danno, nei secoli, casi non sporadici di principi non particolarmente intelligenti né brillanti, a riprova che non era condizione essenziale possedere qualità culturali o strumentazione concettuale sofisticate per occupare posizioni cui si accedeva per linea dinastica o per evenienze traumatiche (rivolte, tradimenti, guerre di palazzo etc.). Ma quasi sempre, a compensare una carenza di visione o la qualità di discernimento e di valutazione, il principe poteva disporre di una corte in cui i ruoli importanti erano ricoperti da uomini di sicura preparazione, magari di derivazione ecclesiastica: non sempre affidabili, certo, ma sicuramente in grado di guidare gli eventi e di occuparsi degli affari correnti dello Stato. Illuminante, a questo proposito, potrebbe essere la rilettura delle vicende del Delfino di Francia, Carlo, incoronato a Reims sull'onda delle gesta di Giovanna D'Arco, e dei suoi dialoghi con l'arcivescovo e il gran ciambellano La Tremouille, così come raccontati da Bernard Shaw in "Santa Giovanna".
Quando poi le carenze al vertice non erano rilevanti e il principe poteva disporre di risorse personali all'altezza del compito, con ogni probabilità l'impegno e l'adesione "istituzionale" della corte poteva rilassarsi, e avveniva così che la qualità media dei suoi interpreti si abbassava: fiorivano tentazioni direttamente opportunistiche, si sviluppavano competenze adattive, con la propensione a sfruttare vantaggi senza rischiare contrapposizioni o alzate di ingegno.
È sempre esistita, comunque, una dialettica, favorita anche dal fatto che, quasi sempre, l'età metteva il principe nelle condizioni di aver bisogno di qualcuno più anziano e più esperto, custode in genere delle tradizioni consolidate in anni di servizio attivo e di avveduta navigazione in contesti normalmente turbolenti.
Oggi, spesso, la situazione è capovolta. Il "principe", se guardiamo in casa nostra, ha un'età ragguardevole se paragonata a quella dei principi di un tempo. Non avendo un'eredità dinastica da rivendicare e non avendo un tracciato di carriera canonico, è arrivato al vertice relativamente tardi. Ciò gli ha consentito di non essere condizionato dai rituali istituzionali e di aver accumulato competenze che non sono tutte e solo funzionali all'esercizio di un mestiere specifico; abilitandolo a poter contare su punti di vista divergenti rispetto alla tradizione del posto, e non di rado spiazzanti.
Chi sale al vertice in età non più giovane, oltre all'ansia da prestazione e all'incubo del tempo da recuperare, mette in campo l'astuzia di adottare modalità di azione, comportamenti, relazioni, difficilmente omologabili. Deve, necessariamente, farsi inseguire. Con una conseguenza: sa, da subito, che le regole in uso, proprio perché tarate su condizioni tradizionalmente diverse, non giocano per lui; e quindi ha bisogno di circondarsi di gente che lo segua sul suo terreno, un po' assecondandolo, un po' giustificandolo. Molto dipendendone.
La nuova corte sarà necessariamente più giovane e meno strutturata di quelle storiche, così da non porre in essere condizionamenti "di tradizione"; possibilmente con provenienze eterogenee, non competitive, e soprattutto ben consapevole della benevolenza che le è toccata in sorte. È così che si formano squadre e singoli la cui competenza, quando esiste, è relegata a questioni specifiche, quelle più noiose e inevitabili, senza possibilità reale di attingere il livello dove si esercitano le strategie di governo o dove prendono forma le visioni che plasmano le modalità di esercizio del potere.
Se il principe è espressione di un'astuzia che ha navigato a lungo, sbarcando infine su lidi persino imprevedibili, sua sarà la responsabilità definitiva di regolare se stesso e di imporsi agli altri a modo suo. Gli altri restano inevitabilmente complementari, fungibili; rappresentazioni da esibire all'occasione. Vere e proprie commodities che il mercato oggi offre in abbondanza. Una corte di recitanti, le cui qualità personali sono l'ultimo dei problemi. Ciò che importa è che non siano minaccianti.
Eppure le corti così formate sono, alla lunga, la vera debolezza del "principe". E non tanto perché non aggiungono sapere e intelligenza alla compagnia, rendendo precarie le soluzioni alle crisi inevitabili e risultando inadatti ad assumersi rischi che andrebbero condivisi, ma perché non saranno mai in grado di dirgli dove sbaglia né di salvaguardarlo da se stesso. È la condanna di chi presume di interpretare in solitario i destini di tutta una nazione - "principe" senza alternative - cortocircuitando ogni struttura intermedia, per legare destini e poteri a un mandato che, col passare del tempo, diviene sempre più autoreferenziale e anche più cieco.
Così il "principe" moderno ha bisogno di una "corte-specchio", in grado di correggere le sue deformazioni di immagine, ma non di rimandare temi che sollevino turbamento o pongano interrogativi. Che sia fatta di mediocri è persino plausibile, visto il carattere residuo dei compiti che le toccano.
E questo senza voler mancare di rispetto alla serietà di molti; cortigiane comprese.

il Riformista 5.6.09
Racconto la strategia che palazzo Chigi vede dietro le mosse del capo di News Corp e dei suoi giornali
Berlusconi teme il piano coordinato di Murdoch+CdB
di Stefano Feltri


Predatori. Il giornale dello Squalo attacca il Caimano sulla vicenda Noemi, mentre da mesi si consuma una battaglia meno appariscente ma più cruenta sul destino degli assetti televisivi e, forse, di Telecom. A luglio si decide il rapporto Rai-Sky.

Ieri Silvio Berlusconi è stato intervistato da Sky Tg24. È stata la prima visita agli studi milanesi della tv di Rupert Murdoch. Solo una normale tappa del tour pre-elettorale, spiegano da palazzo Chigi. Ma c'è la tentazione di leggere in questa mossa una nuova puntata del confronto, a volte duro a volte diplomatico, che da mesi vede impegnati Berlusconi e Murdoch. «Spero non sia così, l'apparenza è come dice lei», ha risposto Berlusconi alla giornalista che gli chiedeva se quello che è successo negli ultimi mesi indichi l'ostilità di Murdoch: a dicembre il governo aumenta l'Iva sulle pay tv (cosa che incide soprattutto sul business di Sky, perché Mediaset premium ha un modello di business meno soggetto al peso dell'Iva) e Sky lancia una campagna per contrastare il provvedimento. Poi, quando il presidente del Consiglio è più fragile, alla vigilia delle elezioni e nel pieno della questione Noemi, uno dei giornali più prestigiosi del gruppo Murdoch, il londinese Times, lo infilza un giorno sì e uno no con i suoi editoriali. E diventa la sponda internazionale di Repubblica e delle sue dieci domande senza risposta sul rapporto tra Berlusconi e la ragazza di Casoria. Questa, almeno, è la ricostruzione del capo del governo.
Ma la storia è più complessa, riguarda la Rai, i satelliti, la Telecom, persino Fiorello che lascia la Rai per Sky e Berlusconi che cerca, invano, di dissuaderlo. Lo scontro si alimenta di rumors diffusi dai giornali, Repubblica in testa. Rupert Murdoch è noto per essere interventista in politica. L'episodio più famoso è la fumata rossa in prima pagina del conservatore Sun che segnò l'endorsement, secondo alcuni decisivo, del tabloid britannico a favore di Tony Blair alla sua prima candidatura. Negli anni Sessanta in Australia sostenne John McEwen del Country party, con il giornale The Australian, poi nei Settanta passò al Labor Party di Gough Whitlam. In America la sua Fox News è il punto di riferimento dei conservatori e dei neocon nell'era George Bush, ma questo non impedisce a Murdoch di organizzare raccolte fondi a favore di Hillary Clinton e, in seguito, di schierarsi apertamente a favore di Barack Obama («È fantastico»).
C'è chi vede nella campagna del Times contro Berlusconi un'operazione analoga, affidata però - e sarebbe la prima volta - non a un giornale del Paese in cui Murdoch vuole agire ma esterno. E soprattutto affidata a un giornale che fino all'altro ieri era non ostile a Berlusconi, anche perché è una testata vicina ai conservatori.
Le fonti aziendali di Sky Italia smentiscono qualunque forma di complotto: se fosse un'operazione voluta dall'alto, si sarebbero scatenate tutte le testate di News corp, a partire dal Wall Street Journal fino a Sky Tg24. E per ora questo non è successo.
Ma c'è la tempistica, che indica come la durezza degli attacchi si intensifichi mentre - in parallelo - crescono le tensioni imprenditoriali tra il gruppo di Murdoch e le aziende di Berlusconi. Il momento che alcuni osservatori hanno individuato come quello della svolta è mercoledì scorso, il 27 maggio. Quel giorno si tiene un vertice importante per i nuovi assetti del sistema televisivo italiano: il numero uno di Sky Italia, Tom Mockridge, incontra Mauro Masi, direttore generale della Rai che fino alla sua nomina, il due aprile, faceva il segretario generale della presidenza del Consiglio, cioè di Berlusconi. I due devono discutere della permanenza dei canali Rai sulla piattaforma di Sky, non scontata visto che la televisione pubblica sta approntando la propria piattaforma insieme a Mediaset, di Berlusconi. L'incontro va male, la Rai vorrebbe oltre il doppio di quello che propone Sky. E intanto il tempo passa, il 31 luglio scadrà l'obbligo per la Rai di concedere i canali a Murdoch, con il risultato che dal primo agosto i clienti della pay tv potrebbero non vedere più i canali della tivù di Stato sulla loro piattaforma. Pochi giorni dopo, il primo giugno, arriva l'editoriale non firmato del Times che fin dal titolo vuole indicare che, dopo le critiche già mosse nelle settimane precedenti, si entra in una fase diversa: «Cade la maschera del clown». Berlusconi è definito «un buffone sciovinista», c'è un esplicito invito agli elettori italiani a ricordarsi della vicenda Noemi alle urne, sabato e domenica. Il giorno dopo il Times pubblica un intervento della professor Terence Kealey che spiega perché «ci sono ragioni scientifiche per cui le ragazzine preferiscono un uomo più anziano come compagno e si aspettano che sia pelato». Kealey, che i capelli li ha solo sulle tempie, si dilunga sul trapianto pilifero di Berlusconi e sulla sua interpretazione.
All'orizzonte del conflitto Berlusconi-Murdoch c'è il futuro delle trasmissioni televisive, e la piattaforma che vincerà la gara del futuro. I due avversari si marcano stretto sulla pay-tv con l'esordio di Mediaset premium, si guardano in cagnesco per quanto succederà sul digitale terrestre (dove Murdoch ha al momento dei vincoli) e vigilano sul terzo fronte, il più costoso dal punto di vista degli investimenti, l'Iptv, la tv via Internet. E qui c'è un delicatissimo terreno di scontro, la questione Telecom. Telefonica, il partner spagnolo della società amministrata da Franco Bernabé, valuta l'ipotesi di una fusione che metterebbe a rischio l'italianità della Telecom e della sua rete. Se Telefonica si prende Telecom e la sua rete, Murdoch potrebbe cercare un accordo preferenziale con gli spagnoli per veicolare sul telefono i contenuti che produce con Fox e Sky. Nascerebbe una media company che potrebbe essere molto più pericolosa per Mediaset di quanto non sia l'attuale piattaforma satellitare (secondo alcune stime il mercato italiano della pay-tv è quasi saturo). Del resto è la stessa Mediaset che da anni coltiva progetti analoghi su Telecom. Negli ultimi mesi questo intreccio è stato seguito con dovizia di dettagli da Claudio Tito, giornalista di Repubblica molto informato di quello che succede a Palazzo Chigi: proprio lui aveva riacceso il dibattito sulla rete Telecom a gennaio con un articolo in cui si ipotizzavano scenari di conquista dell'ex colosso telefonico italiano. Seguirono settimane di polemiche, interviste di Piersilvio Berlusconi e Angelo Rovati (ex consigliere prodiano che da anni si interessa alla rete telefonica). E qualcuno ipotizzò che l'improvviso feeling tra Repubblica e lo Squalo Murdoch potesse nascondere progetti di quest'ultimo anche sul giornale di Carlo De Benedetti, che in quei giorni stava lasciando le cariche operative nelle sue holding (ma conservando i poteri sull'editoria).
In questo momento, per la verità, la situazione finanziaria della News Corp non è tale da permettere grandi progetti di espansione. Colpito dalla crisi, il gruppo ha attraversato un pessimo 2008. «I giornali perdono soldi e anche Murdoch dovrà decidere quanto a lungo potrà sopportarne i bilanci in rosso, la pay tv regge ai tempi di crisi, perché chi già rinuncia a cinema e teatro non vuole privarsene, e la tv via cavo in America non va benissimo», spiega Marco Gambaro, docente di Economia delle comunicazione alla Statale di Milano. Ma nel primo trimestre del 2009, con incassi di 7,72 miliardi (comunque in calo del 16 per cento rispetto a un anno prima), Murdoch ha detto che «il peggio è passato». Anche perché il film premio Oscar "Slumdog Millionaire" si è rivelato una miniera tale da sostenere quasi da solo la divisione film del gruppo, cresciuti dell'otto per cento. E se davvero il peggio della crisi è passato per News Corp, forse ora Berlusconi ha qualche ragione in più per preoccuparsi. Difficile dire se davvero c'è un piano coordinato tra Murdoch e De Benedetti, di sicuro c'è un gioco di sponda. Non è un complotto, perché Murdoch gioca le sue carte a viso aperto, ma la battaglia - cruenta - continuerà.

Liberazione 4.6.09
Perché serve un garante per la salute mentale
di Giuseppe Crosio


Caro direttore, premesso che i manicomi non sono stati chiusi realmente, e che solo in Campania resistono, minacciati da nessuno, gli Ospedali psichiatrici giudiziari di Napoli e di Aversa, è facile rilevare che quando la salute mentale sul territorio non funziona mille piccoli e invisibili manicomi si trasferiscono nelle case dei pazienti psichiatrici e dei loro familiari. A nessuno verrebbe in mente di far funzionare un reparto chirurgico senza sala operatoria, ferri chirurgici e quant'altro. Invece risulta del tutto naturale lasciare le Unità operative di salute mentale sul territorio senza centri diurni, forniti non di qualche strumentazione ipertecnologica, ma di una mensa e di laboratori dove accogliere e curare i pazienti, e prepararli ad un lavoro compatibile con le loro condizioni. Nessuno lascerebbe un pronto soccorso senza la possibilità di effettuare delle analisi di laboratorio, tuttavia nessuno ritiene stravagante non attrezzare il centro crisi nelle Unità operative di salute mentale, in presenza soprattutto di una drammatica carenza di posti letto ospedalieri nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, che provocano la sistematica deportazione dei pazienti in crisi in presidi molto lontani dai luoghi di provenienza. I pazienti e i loro familiari sono abbandonati a loro stessi, ed è necessario rimarcare le loro ingiuste sofferenze. Si è dissolta nel nulla la proposta di legge per l'istituzione di un Garante per la tutela dei sofferenti psichici elaborata in Campania nel lontano ottobre del 1996 (progetto n.2592 Camera dei Deputati) a Napoli da un gruppo di psichiatri, giuristi, operatori della salute mentale, familiari dei sofferenti psichici, ispirato da Sergio Piro, uno dei padri della salute mentale in Italia e in Europa. Aveva raccolto le firme di deputati prestigiosi di tutte le forze politiche creando un vero e proprio schieramento trasversale (tra gli altri oltre il primo firmatario, Siniscalchi, Cossutta, Nappi, Vozza, F. Colombo, Veltri, Melandri, Mancuso, Del Barone, Ruberti, Barbieri, Boato, M.Fumagalli,Taradash). La perdita della egemonia culturale della psichiatria legata alla legge 180 ha portato ad una eclissi della tensione etico-politica nella salute mentale che perdura oramai da molti anni, ed ha condotto ad una progressiva disarticolazione dei servizi territoriali. Nella sanità pubblica, gli operatori della salute mentale stanno ai loro colleghi come i sofferenti psichici stanno agli altri pazienti normali: temuti ed emarginati. I pazienti psichiatrici e loro familiari, ma anche gli operatori della salute mentale sono da tempo politicamente orfani, e culturalmente minoritari… Il movimento napoletano legato alle battaglie per la legge 180 e alla psichiatria alternativa che si è riconosciuto nella figura di Sergio Piro, psichiatra e intellettuale europeo, aspetta un segnale di ripresa delle grandi lotte in difesa della salute mentale. I comunisti napoletani intendono garantire il diritto alla salute e all'inserimento lavorativo dei sofferenti psichici, il sostegno alle loro famiglie, il contrasto a una visione meramente custodialistica della malattia mentale e del conseguente disagio sociale, ignorato dai media se non in presenza delle tristemente annunciate "tragedie della follia". Per fare questo si batteranno a Napoli e in Campania per l'istituzione di un Garante per la salute mentale, premessa ineludibile per la ripresa a livello nazionale ed europeo della difesa di coloro che, sotto la spinta della sanità privata e delle multinazionali del farmaco, stanno tornando ad essere, nell'indifferenza generale, gli ultimi della terra.