Via alle ronde anti stupri il Quirinale prende le distanze
Reclutati ex agenti. I sindacati di polizia: misura inutile
di Luana Milella
ROMA - Roberto Maroni la spunta, le ronde passano per decreto. Bossi, Calderoli esultano, ma il prezzo politico è pesante. Il ministro dell´Interno arriva ai ferri corti con il Quirinale, e pure con il Vaticano. Dopo lo scontro su Eluana si riapre la ferita della decretazione d´urgenza, ma stavolta all´altolà del Colle non farà seguito una bocciatura. A Napolitano le ronde non piacciono, per questo fa un sobbalzo quando legge di un Maroni che parla di «testo concordato», ma lo rassicura la coincidenza frutto della sua moral suasion: le ronde partiranno solo quando, tra due mesi, il Viminale avrà scritto il regolamento. A quel punto anche il decreto avrà ottenuto l´imprimatur parlamentare.
Doveva essere la mossa del governo contro gli stupratori, è diventato il testo per far passare sì le norme contro gli aguzzini di donne e bambini, ma soprattutto due vessilli del Caroccio: ronde "made in Padania" e Cie fino a sei mesi. Maroni s´è visto due volte con Napolitano, ha fatto degli aggiustamenti, ma ha portato le ronde in consiglio. Dove An ha fatto muro (Andrea Ronchi: «O passano le nostre modifiche o non se ne fa niente»), dove Ignazio La Russa è arrivato con emendamenti scritti che Maroni ha accettato. La giornata si chiude con i sindaci di sinistra che protestano (Vincenzi a Genova, Chiamparino a Torino, Emiliano a Bari), anche se quelli di destra plaudono (Moratti a Milano, Alemanno a Roma), con i sindacati della polizia che parlano di «rinuncia dello Stato» e di «ronde inutili e pericolose», con magistrati e penalisti che rifiutano «misure d´emergenza». Maroni ritiene di aver vinto. Anche se dovrà vedersela con un´opposizione pronta alla contestazione. Dice D´Alema: «Con le ronde solo più confusione». Minniti: «È uno strappo istituzionale». Finocchiaro: «Solo fumo negli occhi». Tenaglia: «Parlamento espropriato». Il centrista Rao: «Stato impotente».
L´attrito istituzionale più forte è con il Colle. Dove vengono lette con preoccupazione le parole di Maroni. Queste: «C´è stato un confronto diretto con Napolitano. Da lui non è venuto alcun veto o invito a non inserire norme. Abbiamo concordato il testo senza alcuna difficoltà, obiezione o forzatura». La replica gela il Viminale. Napolitano ribadisce la consultazione informale, frutto di «leale collaborazione istituzionale», per verificare «profili di costituzionalità, coerenza e correttezza legislativa». Da qui all´accordo sulle ronde ce ne corre. Perché il dl è frutto di «autonoma ed esclusiva responsabilità del governo». Tra i due c´è stato un confronto tecnico, ma nessuno testo concordato, né dal Colle è giunto avallo politico. L´ex ministro dell´Interno supergarantista non ha nascosto perplessità (meglio un ddl), timori (ancoraggio rigido ai prefetti), l´invito a cercare intese con l´opposizione. Maroni prima ha pensato di soprassedere, poi è andato avanti.
Il confronto duro in consiglio. Lì La Russa ha puntato i piedi: «Se nel dl mettiamo le ronde i giornali parleranno solo di quello». Ronchi lo spalleggia. Lui elenca: «Serve un regolamento, ex poliziotti ed ex Cc con un ruolo guida, niente membri sotto 25 anni né armi "improprie", controllo sui carichi pendenti, divieto d´uso di fondi pubblici sennò si crea il corto circuito coi sindaci». Poi il nome, «non chiamiamole ronde». Bossi sta con Maroni: «Non perdiamo di vista la gente che vuole contribuire alla sicurezza». E Calderoli: «Saranno la rete di protezione civica». Giorgia Meloni spalleggia La Russa: «I partiti devono stare fuori, più ci si allontana da loro e più ci si avvicina ai prefetti meglio è».
Maroni accetta. Dirà poi: «Non ci muoviamo su un´onda emotiva. Si chiameranno volontari della sicurezza. Staranno sotto il sindaco, controllati dal prefetto e dai comitati provinciali per la sicurezza. Sarà un modo, controllato, visibile per gestire una realtà che già esiste. Le prefetture terranno gli elenchi come per le associazioni antiracket. Non avranno armi, ma telefonini e ricetrasmittenti. Mi fido dei sindaci». Quanto ai poliziotti, «quelli che vanno per strada sono d´accordo».
Berlusconi è soddisfatto. Si vende i successi contro il crimine, come il calo del 10% degli episodi violenza, «anche a Roma» e «grazie ai militari». Giustifica il dl perché «il Parlamento è lento». Alza la voce il ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna («I molestatori hanno le ore contate»). Il Guardasigilli Angelino Alfano, in versione "femminista", garantisce alle donne che «vengono anticipate di cento giorni norme fondamentali per tutelarle». Nega che il ddl sulle intercettazioni vada in direzione opposta: «Tutti i reati sono intercettabili». Ma con i «gravi indizi di colpevolezza» e la durata di soli 60 giorni pure perseguire lo stalking sarà impossibile.
Repubblica 21.2.09
A piccoli passi verso l’inciviltà
di Gad Lerner
Un governo estremista e irresponsabile introduce d´urgenza nel nostro ordinamento le ronde dei cittadini, nonostante le perplessità manifestate dalle stesse forze di polizia, accampando la più ipocrita delle motivazioni: lo facciamo per contenere la furia del popolo. Spacciano le ronde come freno alla "giustizia fai-da-te", cioè alle ormai frequenti aggressioni di malcapitati colpevoli di essere stranieri o senza fissa dimora.
Ma tale premura suona come una cinica beffa: la violenza, si sa, è stata fomentata anche dai messaggi xenofobi di sindaci e ministri. Il decreto governativo giunge come una benedizione delle camicie verdi padane e delle squadracce organizzate dalla destra romana. Propone agli italiani di militarizzarsi nell´ambito di un "Piano straordinario di controllo del territorio" fondato sul concetto di "sicurezza partecipata". I benpensanti minimizzeranno, come già hanno fatto con le "classi ponte" per i bambini stranieri, i cancelli ai campi rom, l´incoraggiamento a denunciare i pazienti ospedalieri sprovvisti di documenti regolari. Cosa volete che sia? Norme analoghe sono in vigore altrove, si obietta. Mica vorremo passare per amici degli stupratori? Così, un passo dopo l´altro, in marcia dietro allo stendardo popolare della castrazione chimica, cresce l´assuefazione all´inciviltà. La promessa del grande repulisti darà luogo a sempre nuove misure che lo stesso Berlusconi fino a ieri dichiarava inammissibili.
Il presidente del Consiglio era dubbioso anche sulle ronde, ma si è lasciato trascinare dai leghisti per istinto: forza e marketing non sono forse le materie prime del suo potere suggestivo? Poco importa se ciò lo pone in (momentanea) rotta di collisione con il Vaticano, che denuncia "l´abdicazione dallo stato di diritto". A lui la Chiesa interessa come potere, non come Vangelo: si adeguerà. Quanto al distinguo del presidente Napolitano, gli viene naturale calpestarlo: come prevede la forzatura berlusconiana della costituzione materiale del Paese.
Il capo del governo concede che gli stupri sono in calo del 10% nella penisola. Ma più della statistica vale per lui il "grande clamore suscitato da recenti episodi". Per la verità nel novembre 2007, dopo l´omicidio con stupro della signora Reggiani a Tor di Quinto, fu posseduto dal medesimo impazzimento mediatico anche il centrosinistra, guidato all´epoca dal sindaco di Roma. Mal gliene incolse.
La destra populista invece trova nell´insicurezza il suo principale fattore di radicamento territoriale. Prospetta la riconquista dell´ambito esterno al domicilio privato, vissuto da tanti come ostile. Le parole "ronda", "squadra", "pattuglia", "perlustrazione" � un incubo negli anni della violenza politica - vengono adesso sdoganate come potere calato dall´alto per guidare il popolo. Nuove milizie, nelle quali i volontari dei partiti di governo e gli uomini dello Stato si fondono e si confondono. Come avveniva nel regime fascista.
Lunedì scorso all´"Infedele" una giornalista rumena ha provocato un senatore leghista: «Noi le abbiamo conosciute già, le vostre ronde. Si chiamavano "Securitate"». Lungi dall´offendersi per tale paragone con le squadracce comuniste di Ceausescu, il senatore leghista le ha risposto: «All´epoca in Romania c´era molta meno delinquenza».
Ora anche il governo minimizza. Le ronde saranno disarmate (a differenza di quanto previsto nella prima versione, bocciata al Senato). Mentre la Lega esulta, gli altri cercano di ridimensionarle a contentino simbolico, poco rilevante nella gestione dell´ordine pubblico. Fatto sta che è sempre l´estremismo a prevalere. Berlusconi si era opposto pubblicamente anche al rincaro della tassa sul permesso di soggiorno. Si sa com´è finita. La Gelmini aveva dichiarato che per i bambini stranieri prevede corsi di lingua pomeridiani anziché classi separate. Ma i leghisti stanno per riscuotere le classi separate. Tutte le peggiori previsioni si stanno avverando. La prossima tappa, c´è da scommetterci, saranno le normative differenziali sull´erogazione dei servizi sociali (agli italiani sì, agli stranieri no, e pazienza se pagano anche loro le tasse); seguirà il distinguo nei sussidi di disoccupazione (c´è la crisi, non possiamo mantenere gli stranieri, e pazienza se hanno versato i contributi). Fantascienza? Ha davvero esagerato "Famiglia Cristiana" denunciando il ritorno al tempo delle leggi razziali?
Le ronde dei volontari guidate dagli ex funzionari di polizia annunciano un clima di guerra interna che non si fermerà certo agli stupratori e agli altri delinquenti. Quale che sia la volontà del presidente del Consiglio, cui la situazione sta già sfuggendo di mano.
Repubblica 21.2.09
Il senatore, protagonista delle polemiche sul testamento biologico, all’inaugurazione dell´anno accademico
Arriva Marino e Genova si spacca proteste e manifestazioni all´università
Veronesi boccia il ddl Calabrò sul testamento biologico, ok da mons. Fisichella
di Michela Bompani
GENOVA - Polemica e assedio all´inaugurazione dell´anno accademico di Genova. Ospite d´onore, sabato 28 febbraio, nell´aula magna dell´Università, sarà il senatore Ignazio Marino, ex capogruppo del Pd nella commissione Sanità del Senato (poi "sostituito" dalla teodem Dorina Bianchi) che, nei giorni scorsi, ha invocato il referendum se dovesse essere approvato il disegno di legge in materia presentato dal centrodestra. Dopo il deflagrare del caso Englaro, l´Ateneo genovese suscita l´attenzione nazionale per questo ospite protagonista del dibattito politico e che all´inaugurazione dell´anno accademico parteciperà con l´intervento «La legge e la bioetica al confine tra umanità e progresso scientifico». La polemica infatti è ancora accesissima: solo ieri l´oncologo Umberto Veronesi ha definito "un obbrobrio giuridico" il ddl della maggioranza, che porta la firma del senatore Calabrò, mentre per monsignor Fisichella, presidente della pontificia Accademia per la Vita, l´adozione del testo da aprte del Senato "è un buon passo".
Marino è genovese, ha un pedigree scientifico di prim´ordine (è professore al Jefferson Medical College di Filadelfia) ed autore di una proposta di legge sul testamento biologico, e un paio di mesi fa era stato invitato dal rettore Giacomo Deferrari a tenere una "lectio magistralis". Allora nessuno ebbe nulla da ridire, ma l´esplosione del caso Englaro ha cambiato le carte in tavola e ora il rettore si ritrova suo malgrado al centro di una bufera. Oggi l´arrivo di Marino spacca gli studenti, lacera il corpo accademico e crea problemi anche nel mondo della sinistra genovese. I giovani di Comunione e Liberazione stanno preparando un documento da distribuire il giorno dell´inaugurazione, contestando le convinzioni del senatore. Mentre gli studenti della sinistra si riuniranno lunedì per organizzare una contromanifestazione in favore del senatore Pd.
Inoltre il vicepresidente della Regione, Massimiliano Costa, cattolico, ex Margherita e compagno di partito di Marino, annuncia che non parteciperà alla cerimonia: «Ho altri impegni - spiega - e poi non condivido la posizione del senatore Marino, che ha agitato l´opzione referendum quasi come un ricatto, ancor prima di vedere che tipo di legge si sta discutendo». Costa precisa che questa assenza non inficia il rapporto di stima e fiducia che la Regione ha nei confronti dell´Università e del Rettore Giacomo Deferrari: «Vado d´accordo con il Rettore, sono in disaccordo con Marino sul referendum: e poi credo che la scienza e la politica dovrebbero rimanere separate».
A tentare di "invadere", pacificamente, la cerimonia (da alcuni ribattezzata «inaugurazione del (d)anno accademico»), ci saranno i ragazzi dell´Onda, già in assemblea nelle diverse facoltà per proseguire la lotta anti-Gelmini. Ma il fronte della protesta non si esaurisce qui: voci del dissenso potrebbero levarsi anche tra gli stessi "togati", che vorrebbero cogliere l´occasione per rivendicare l´intoccabilità della radice pubblica dell´Università.
Repubblica 21.2.09
Sul testamento biologico meglio un referendum
risponde Corrado Augias
Caro Augias, di una cosa sono sicuro: una persona dev'essere libera di accettare o non accettare cure mediche; nello stesso modo il medico deve essere libero di non accettare le richieste del paziente. Questo viene impedito dalla Chiesa che entra in merito alle decisioni dello Stato in teoria laico. Non voglio certo dire che il papa e i suoi adepti debbano tacere. Dicano pure il loro pensiero ma senza imporlo a tutti. Che siano i medici e i pazienti cattolici ad ascoltarlo ma gli altri devono essere liberi di decidere secondo coscienza.
Roberto Fuschi robertoche@hotmail.it
E gregio dott.Augias, Il ddl che il Governo (e non solo lui) sta preparando sul testamento biologico, si sta dimostrando un atto di estrema violenza contro la libertà di ogni cittadino. Il lavaggio del cervello che Tv, radio e giornali stanno facendo è un fatto che penso non succeda in nessun altro paese d'Europa. Spero che la voce di chi porta avanti questa vera battaglia di libertà continui a farsi sentire per evitare che venga scritta un'altra brutta pagina di storia.
Piero Gardenghi Imola pgardeng@libero.it
Il disegno di legge sul testamento biologico è stato redatto nel modo più arretrato possibile in modo che, anche dopo possibili emendamenti, mantenga il segno d'una concezione originaria che si può così riassumere: il parere del soggetto interessato dev'essere manifestato ripetutamente, convalidato ogni volta alla presenza di un medico e davanti a un notaio. In ogni caso il medico curante potrà tenere o non tenere conto della volontà espressa. Leggi come queste sono sempre concepite in modo da rendere lungo, costoso, incerto l'ottenimento del diritto. E' la vecchia regola dei regimi autocratici fatta per scoraggiare le persone più semplici e lasciare spazio di manovra agli 'azzeccagarbugli'. Torna, anche in questo ddl, la vecchia Italia nella quale si pensa che più il popolo rimane a testa bassa, ignaro dei suoi diritti, ostacolato nell'ottenerli, meglio è. In questo pantano la proposta del senatore Marino (se passa questo ddl, si va al referendum) ha suscitato scalpore sia a destra sia a sinistra. Marino è abituato agli Stati Uniti dove le cose si dicono con chiarezza. Qui la chiarezza fa paura, anche all'interno di quel Pd che non ha mai avuto una linea in proposito. La deputata Paola Binetti si è affrettata a dire che se passa Marino lei lascia il partito. La mia opinione è che se mai questo referendum si facesse passerebbe con largo vantaggio per una semplice ragione. Al contrario di quanto è accaduto con quello sulla Legge 40 (procreazione assistita) qui il quesito è chiaro: volete o no essere padroni di decidere della vostra vita? E, se fosse il caso, della vostra morte? Sono questioni che, come per il divorzio, come per l'aborto, tutti capiscono; e hanno a cuore.
il Riformista 21.2.09
Sul bio-testamento Pd sempre più diviso
laici e cattolici. I teodem supportano l'astensionismo della Bianchi sul testo del Pdl, Marino è fermo su una «azione di contrasto rigorosa», D'Alema invoca una «sintesi» molto complicata.
di Paolo Rodari
È il disegno di legge sul testamento biologico ad agitare le acque all'interno del Partito democratico. Acque che, come è logico che sia, minacciano di riversarsi addosso al futuro segretario del Partito. Già, perché sull'argomento i punti di vista sono diversi e diversificati.
L'altro ieri si è avuta una chiara manifestazione di tutto questo. In commissione Sanità del Senato, il ddl della maggioranza che esclude dalle volontà alimentazione e idratazione artificiali, è passato con 13 voti favorevoli, 6 contrari e 3 astenuti, questi ultimi tutti del Pd. A nulla, dunque, sono serviti i tentativi di mediazione messi in atto dai democratici.
All'interno del partito la differenza di posizione sul testamento biologico non c'è soltanto tra l'ex capogruppo Ignazio Marino, appunto l'autore di una proposta di legge sul trattamento di fine vita che esclude l'alimentazione e l'idratazione artificiali e che vorrebbe bocciare il testo Calabrò e indire un referendum se dovesse passare, e la neo-capogruppo, cioè la cattolica Dorina Bianchi, la quale, invece, vorrebbe limitarsi a migliorarlo. Lo scontro è più ampio e riguarda gran parte dell'anima cattolica del Pd e quella più laica. Sempre l'altro ieri, infatti, era stata la "teodem" Paola Binetti a contestare la proposta di Marino di una consultazione popolare. Per far naufragare il referendum promosso, tra l'altro, da molti dei suoi futuri compagni di partito come Umberto Veronesi, Binetti aveva ricordato la mobilitazione capillare dei cattolici per la legge 40: «Abbiamo spiegato le nostre ragioni casa per casa, in incontri, in conferenze con migliaia di persone, nei salotti, nei dopocena con gli amici, nei caffè, nei bar, in metropolitana, con le e-mail, con articoli fatti circolare, in modo che nessuno fosse escluso».
Ma si possono anche ricordare le differenti posizioni espresse quando il consiglio dei ministri approvò il ddl sulla vicenda di Eluana Englaro. Allora in diversi tra i cattolici del Pd si dichiararono disposti a votarlo.
Ieri, in favore di Marino, sostituito in corsa dai democratici come capogruppo del Pd in commissione, è dovuto scendere in campo Massimo D'Alema. Dalle colonne di Repubblica ha definito «un grave errore sostituire Marino». D'Alema ha detto la sua anche sulla contrapposizione cattolici-laici all'interno del Pd: «La vera forza di un partito nuovo non sta nella semplice giustapposizione di linee differenti». E ancora: «Io rispetto i cattolici ma la libertà di scelta in materia di trattamenti sanitari è un principio costituzionale e di civiltà. Sia chiaro, non metto in discussione la libertà di coscienza. Ma un grande partito, su un tema come questo, non può non capire che deve discutere, deve rispettare la diversità, ma alla fine deve arrivare a una sintesi».
Eppure una sintesi sembra oggi difficile. Parecchi tra i cattolici del Pd ritengono sagge le dichiarazioni di ieri di monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, per il quale occorre «creare un clima in cui il Parlamento possa lavorare con serenità in un saggio confronto, perché su questi temi non c'è bisogno di conflitto». E come ha detto ieri il cattolico Luigi Bobba (Pd), l'astensionismo della Bianchi mira proprio «a porre le condizioni per un dialogo tra maggioranza e opposizione evitando quel "bipolarismo etico" che sarebbe una iattura su argomenti così delicati e complessi e che non aiuta a trovare soluzioni condivise». Mentre invece la posizione di Marino è quella di «un'azione di contrasto parlamentare rigorosa, con tutti gli strumenti disponibili». «Io - ha detto ieri - ho pronunciato un discorso di apertura. Calabrò invece sbarra la porta».
Tra maggioranza e opposizione lo scontro è anche su Beppino Englaro. Questi ha annunciato battaglia contro la legge voluta dal governo. Il sottosegretario alla salute Eugenia Roccella ha sottolineato che quella del papà di Eluana è stata fin dall'inizio «una scelta politica», ne è prova il fatto che oggi sarà in piazza a Roma contro la legge allo studio sul testamento biologico mentre «aveva detto che dopo la morte della figlia si sarebbe ritirato in composto silenzio».
Repubblica 21.2.09
Miep Gies la nascose in casa con la famiglia Fu lei a trovare il diario: "La ricorderò sempre"
L’angelo custode compie 100 anni
"Dipendevano da me, ero il loro unico contatto con il mondo. Fu un periodo straziante"
di Alberto D’Argenio
BRUXELLES «Con il tempo tutto passa, ma fino a quando ci saranno dei sopravvissuti il ricordo continuerà ad esistere». Anna Frank la chiamava la sua «protettrice», poi è stata ribattezzata la «guardiana della memoria». Miep Gies era la giovane donna dal viso dolce che dal luglio 1942 all´agosto 1944 ha nascosto Anna Frank e la sua famiglia, l´angelo che li ha tenuti in contatto con il mondo e ha portato loro le provviste e gli oggetti capaci di rendere la vita meno soffocante. Era lei che comprava la preziosa carta con cui Anna ha scritto il suo diario, che la ascoltava e rispondeva alle sue mille domande. Domenica scorsa Miep ha computo 100 anni ed è tornata a parlare al mondo.
Via e-mail ha concesso a Repubblica qualche domanda in bilico tra passato e presente. Ricorda Anna - «era il sole di quella casa, il motore che ha unito tutti» - e parla di oggi, del negazionismo, delle polemiche sui lefebvriani: «Le parole e i precetti della Chiesa cattolica mi sono indifferenti. Posso però dire di non essere d´accordo con tutte queste cose». Poi si tuffa nel tempo e parte da dove tutto è cominciato. Ci porta ad Amsterdam, nel 1933, quando è diventata la segretaria di Otto Frank, proprietario del magazzino al 263 della Prinsengracht. Una vita dopotutto felice, per lei che a soli 11 anni era scappata dalla povertà post-bellica dell´Austria. Ma poi è arrivata una nuova guerra, i nazisti e la memoria si tinge di tragedia. C´è quel giorno del 1942 in cui Otto Frank la chiamò: «Miep, ti devo dire una cosa importante, un grande segreto. Ci stiamo preparando a nasconderci, qui, in questa casa: ci vuoi aiutare?». Il suo «sì» fu dettato da un sentimento naturale, spontaneo e noncurante dei rischi. Poi arriva il 9 luglio, il giorno della fuga. E´ lei a portare nel nascondiglio Margot, la sorella maggiore di Anna finita nelle liste dei nazisti. Ricorda: «Margot e la madre erano sotto shock, stavano sedute lì con lo sguardo perso nel vuoto. Era orribile. Anna, invece, era allegra e contenta come sempre». Eppure la vita era diventata una prigionia.
In che misura lo capì tempo dopo, quando venne invitata a trascorrere una notte nel nascondiglio: «Non ho chiuso occhio: solo allora ho capito davvero cosa volesse dire nascondersi. Eri schiacciato da una forte pressione, dalla paura. Mi sentivo incatenata e ho pensato: domani sarò di nuovo libera».
Quella notte le insegnò più di due anni in cui tutte mattine andava a raccogliere la lista della spesa dei Frank: «Anna era sempre la prima a dire: «Hello Miep, cosa c´è di nuovo?». Era così, era normale ed impulsiva. Ma io sentivo che loro dipendevano da noi, che mi aspettavano con ansia per parlare, per avere notizie. Lo trovavo terribile. Il fatto che fossero docili mi faceva male, era straziante». Fu invece di pomeriggio che capì il legame tra Anna e la scrittura: era salita nel nascondiglio fuori orario e trovò la bambina che scriveva «con grande concentrazione». Quando la vide, Anna le rivolse «uno sguardo ostile» e chiuse il diario sbattendolo. Lei rimase sconvolta.
«Quella era la Anna che scriveva». Poi arrivò la tragedia, il 4 agosto 1944. Miep era in ufficio quando la porta si aprì ed entrò un uomo armato. Pensò: «Ci siamo». Seguirono densi minuti di angoscia. Lei fece scappare i complici e rimase da sola: «Avevo sentito qualcuno parlare in tedesco, con un accento che conoscevo. Quando entrò mi alzai e dissi: «Lei è di Vienna, anch´io lo sono». L´uomo rimase a bocca aperta. Gli diedi i documenti e lui sbraitò: «Non ti vergogni? Stai aiutando della spazzatura ebrea! Sei una traditrice e dovresti morire». Rimasi in silenzio e lui a muso duro disse: «Per me puoi rimanere, ma se scappi prenderemo tuo marito». Desolata sentì i passi dei Frank che scendevano le scale. In quelle ore fu lei a trovare il diario di Anna e a custodirlo. Glielo voleva restituire di persona, ma la piccola non tornò: sette mesi dopo lei e Margot morirono a Bergen-Belsen. Così lo diede a Otto Frank, l´unico sopravvissuto della famiglia. Lui lo fece pubblicare ma per anni Miep non lo volle leggere. Poi trovò il coraggio: «Una sensazione bellissima si impossessò di me. Questa era l´Anna che conoscevo, la sentivo di nuovo vicina: quel diario è Anna». Fu quello il momento in cui capì che la sua vita sarebbe stata dedicata alla memoria.
Repubblica 21.2.09
L’Italia fuori legge
di Luciano Gallino
L’intervento di Luciano Gallino alla "settimana della politica"
Ecco perché dilaga l´abuso
Dall´ambiente al fisco. Dal lavoro alla criminalità Come un paese, fra violazioni e inadempienze, scende molti gradini nella scala della civiltà
Da vent´anni è noto che il 17 per cento del Pil è prodotto dall´economia sommersa Il triplo di ciò che accade nelle società sviluppate
Le strade che escono da Roma o da altre grandi città sono affiancate per chilometri da case costruite senza licenza
Si possono utilizzare diverse immagini allo scopo di definire il nocciolo del caso Italia. Tra le tante ho scelto l´immagine d´una società che con i suoi comportamenti collettivi si pone molto al di sotto della lex, la Legge con la maiuscola, quel sistema di rapporti tra individui e collettività che è considerato un elemento essenziale della condizione civile nell´età moderna ed ha il suo sommo nella Costituzione. Nella lunga scala che porta a una condizione civile la società italiana ha salito molti gradini, ma altri ne ha discesi. Al presente si colloca forse a uno dei livelli più bassi della sua storia, non foss´altro perché i rapporti che la legge dovrebbe regolare onde far procedere la società verso una ideale condizione civile diventano sempre più complessi.
Vi sono vari modi per restare al di sotto della lex, la legge in generale. Il primo consiste nella violazione in massa delle particolari leggi in vigore. Un secondo va visto nell´evitare di elaborare leggi che da generazioni sono pubblicamente riconosciute come indispensabili. Un terzo si materializza nella elaborazione di leggi incivili, nel senso che ostacolano, piuttosto che favorire, la salita della scala che porta una società a una condizione civile. Un ultimo modo consiste nel non attuare le leggi che ove lo fossero porterebbero espressamente in tale direzione, a partire da vari articoli della Costituzione concernenti il lavoro. Tratterò in breve dei primi tre, per soffermarmi poi più ampiamente sull´ultimo.
La violazione di leggi vigenti compiuta in massa dai cittadini abbraccia diversi capitoli. Tra i principali vanno collocati il controllo del territorio esercitato dalla criminalità organizzata; la devastazione del territorio stesso ad opera di comuni cittadini mediante costruzioni abusive; l´evasione fiscale, e la corruzione. Il monopolio dell´uso della forza spetta soltanto allo Stato, ricorda dottamente qualche ministro dopo ogni fatto di sangue. Tuttavia chiunque svolga una qualsiasi attività economica nel territorio a sud del 41° parallelo, si tratti d´un piccolo negozio o d´una grande impresa, d´un cantiere minimo per riparare un muro o di lavori autostradali, sa benissimo che si tratta come minimo di un duopolio, e che il secondo polo è assai più pervasivo, minaccioso e rapido nell´agire punitivamente che non il primo. Ora, la presenza d´un potere territoriale che si contrappone collocandosi, in termini di forza, quasi sullo stesso piano allo Stato era nota, discussa in Parlamento e oggetto di leggi, un buon secolo addietro. Domanda: la società, lo Stato, la politica non sanno, oppure bisogna concludere che non vogliono, riappropriarsi di un terzo del territorio nazionale?
Quanto all´evasione fiscale come pratica collettiva: da vent´anni è noto che circa il 17 per cento del Pil italiano è prodotto dall´economia sommersa. Che esiste anche in altri paesi, ma la quota ad essa imputabile da noi è almeno tripla tra le società sviluppate. Nell´economia sommersa lavorano circa due milioni di persone fisiche in posizione totalmente irregolare, più un milione di "unità di lavoro" statistiche formate da tre milioni di persone che svolgono un secondo lavoro non dichiarato. Il 17 per cento del Pil vale oggi 270-280 miliardi. L´evasione fiscale e contributiva è stimabile in circa 90 miliardi sottratti ogni anno a scuola, sanità, previdenza, infrastrutture. In realtà l´ammontare dell´evasione è assai superiore, perché ad essa andrebbe aggiunta la quota dovuta al 50 per cento delle società di capitali che ogni anno dichiara di non avere avuto utili; alle banche e alle imprese che hanno centinaia di sussidiarie in paradisi fiscali create per sfuggire al fisco; alla manipolazione da parte delle medesime dei cosiddetti prezzi di trasferimento tra società facenti capo alla stessa holding; alle legioni di professionisti, commercianti e artigiani che dichiarano per intero il fatturato della loro microimpresa, e però redditi personali trascurabili. In qualunque altro paese dell´eurozona, per non parlare degli Stati Uniti, forse la metà dei contribuenti italiani sarebbe sotto processo per frode fiscale. (...)
La devastazione economica e civile operata sul territorio dalla criminalità organizzata è visibile � stragi a parte � soltanto a chi deve a piegarsi ad essa. È invece visibile a tutti la devastazione fisica e paesaggistica del territorio operata dall´abusivismo edilizio, cui collaborano efficacemente milioni di cittadini e migliaia di imprese. Non v´è quasi regione, tratto di costa, o valle alpina che siano stati risparmiati. Le strade che escono da Roma come da altre grandi città sono affiancate per decine di chilometri, in ogni direzione, da case abusive. Sul totale Italia, si presume siano centinaia di migliaia le costruzioni fuori legge che sono state condonate; altre sono in paziente attesa. Tutto ciò ad onta del fatto che i pubblici poteri non abbiano mancato di far sentire la loro forza: negli ultimi anni, infatti, circa l´1 per cento delle costruzioni abusive è stato demolito.
La devastazione compiuta dagli abusi del costruire è stata accentuata ed estesa dall´assenza di leggi ad hoc: ossia leggi sulla pianificazione territoriale e sulla la gestione idrogeologica del territorio. Chiunque percorra la penisola non può che giungere ad una conclusione: gli italiani hanno collettivamente fatto del loro paese il più brutto d´Europa. Lo hanno anche reso il più pericoloso per quanto riguarda inondazioni, allagamenti, incendi, frane e ogni genere di crolli. (...)
Tra i dispositivi di legge che, ove fossero attuati, farebbero invece salire la società italiana verso una condizione più civile vi sono gli articoli della Costituzione compresi nel Titolo III. Gran parte della legislazione italiana sul lavoro degli ultimi decenni li ha ignorati, se non anzi formalmente violati. La sola proliferazione dei contratti atipici, ormai una quarantina, appare in contrasto con ciascun articolo del predetto titolo. Si prenda l´art. 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un´esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge». La riduzione del reddito conseguente all´alternanza di periodi di occupazione e disoccupazione nel corso dell´anno, propria dei lavori atipici, e fatta drammaticamente risaltare dalla crisi in corso, contrasta con il primo comma di detto articolo, così come la direttiva della Commissione Europea, recepita dai governi italiani, la quale non stabilisce, ma lascia intendere che la giornata lavorativa possa essere allungata sino a 13 ore. Oppure si veda l´art. 41: «L´iniziativa economica privata� non può svolgersi in contrasto con l´utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; il sistematico venir meno delle sicurezze dell´occupazione, del reddito, della previdenza e delle altre, connaturato alla diffusione delle occupazioni precarie, è in palese conflitto con tale articolo. O si legga ancora l´art. 46: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Tale forma di collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende è in realtà oggi resa impossibile, in forme pur minime, dalla frammentazione dei processi produttivi, e dalla concomitante moltiplicazione delle tipologie di contratto e di categoria d´appartenenza che si oggi ritrova in ogni azienda. Resta da chiedersi quando mai l´attuazione delle indicazioni programmatiche del titolo III della Costituzione troverà posto nell´agenda della politica italiana.
Corriere della Sera 21.2.09
Esce il romanzo che scandalizzò Parigi negli anni 80. L'autore spiega le origini del suo racconto grottesco. E incolpa politici e religiosi
Juan Goytisolo
Scontri di civiltà nel quartiere: il mio incubo divenuto profezia
Volevo narrare la spaventosa comicità del genere umano
di Mario Porqueddu
MARRAKECH – È comparso ieri per la prima volta nelle librerie italiane un romanzo scritto all'inizio degli anni Ottanta. Si intitola Paesaggi dopo la battaglia, lo pubblica Cargo (traduzione di Francesco Francis). La prima edizione risale al 1982: «Ma è un libro attuale, più di tanti che si possono trovare in circolazione oggi» sorride l'autore, Juan Goytisolo, seduto al tavolino di un caffè che si affaccia sulla Djemmaa el Fna, la grande piazza di Marrakech. È attuale al punto che il protagonista, trasformato in uomo-bomba da un gruppo terrorista e morto a pagina 178 del romanzo di 27 anni fa, è riemerso dal passato tornando fino a noi nell'ultima opera dello scrittore catalano, El exiliado de aquí y allá, uscita in Spagna nel 2008 (anche questa in Italia sarà pubblicata da Cargo).
Goytisolo è nato a Barcellona nel 1931 e da tempo vive in Marocco. Ma nel '56, subito dopo la fuga dalla Spagna di Franco, finì a Parigi e si stabilì nel Sentier: «Abitare in quel quartiere e la lettura di Cervantes sono state due cose decisive per la mia vita», spiega lo scrittore. E proprio il Sentier è uno dei protagonisti del suo libro. Appare come una «medina terzomondista», una babele di lingue e Paesi animata da commercianti ebrei, portinai lusitani, facchini del Bosforo, operai maghrebini, e da una «massa gregaria» di «iloti» scappati dal Pakistan o dal Bangladesh e pronti a mettere in vendita «a basso prezzo la forza delle loro braccia». Insomma, il quadro è radicalmente diverso dalle atmosfere della città-museo cantate dai molti autori che in quegli anni trovarono sulla rive gauche ispirazione o riparo. Tanto che per Parigi la pubblicazione di Paesaggi dopo la battaglia fu un piccolo shock.
«Il libro venne accolto dal silenzio della critica francese — ricorda Goytisolo — perché raccontava una città agli antipodi rispetto a quella che i parigini percepivano e riconoscevano. La direttrice di un importante supplemento letterario disse: "Ma perché si permette di parlare di Parigi in questo modo?"». E cioè raccontando il Sentier, e per di più attraverso le disordinate esperienze di un personaggio disdicevole, dedito alla collezione e stesura di annunci erotici, rapito da fantasie sessuali che alternano sodomizzazioni a mezzo di carote e pomeriggi trascorsi inseguendo le bambine fotografate da Lewis Carroll. Strano tipo di «dimissionario dal mondo », che coltiva la passione per i gruppi armati, si prende gioco di politica e ideologie, recita da guastatore dell'ortodossia sociale e culturale. Un «mostro» che spesso si confonde con l'autore e che, dalla prima all'ultima pagina, confonde il lettore. «Il protagonista vive tutte le contraddizioni senza risolverne alcuna — racconta Goytisolo —. E il lettore può farsi mille domande ma non troverà nessuna risposta. Quelle spettano ai leader della politica e delle religioni».
Anni fa, parlando di questo libro, l'autore disse che mantiene una relazione chiara con Bouvard et Pécuchet, l'opera satirica di Gustave Flaubert pubblicata incompiuta nel 1881 (un anno dopo la sua morte): lì il francese denunciava la stupidità umana, qui Goytisolo usa la parodia per raccontare la «spaventosa comicità del genere umano» e disegnare «una mappa universale dell'idiozia ». Nel 1982, mentre presentava Paesaggi dopo la battaglia nelle università spagnole, Goytisolo lo definì una sorta di «pseudo-autobiografia grottesca». Di certo, i rimandi alla vita dello scrittore non mancano: intanto, Goytisolo condivide con il suo personaggio l'esilio (condizione dolorosa, ma anche strumento per liberare la sensibilità e la lingua da abiti di pensiero nazionali e ristretti, luoghi comuni, frasi fatte), poi lontano da Barcellona l'autore scoprì la sua omosessualità, e infine si serve di un episodio reale del suo periodo francese, la misteriosa comparsa di scritte in caratteri stranieri sui muri del Sentier. «Dopo il golpe militare ad Ankara — è l'aneddoto — il quartiere si riempì di turchi; uscendo di casa vedevo cartelli nella loro lingua che non riuscivo a capire. Cominciai a sentirmi uno straniero e chiesi a un poeta comunista esiliato dove potevo imparare il turco. Mi indicò un'associazione politica di emigrati. Era gente simpatica. Ogni sera mi preparava la lezione».
In Paesaggi dopo la battaglia l'arabo prende il posto del turco, ma la storia comincia proprio così: scritte redatte in un alfabeto strano, ghirigori senza senso colorano i muri, unico tratto distintivo è l'illeggibilità. «La mia attitudine — raccontò anni fa Goytisolo a Santiago Gamboa — è da sempre criticare la propria tradizione e rispettare quella aliena, in ciò che ha di rispettabile ». Insomma, tentare di muoversi lungo quel cammino — per nulla stretto, semmai così ampio da fare paura — che consente di opporsi all'infibulazione senza rinunciare a «imparare qualcosa dall'arrivo di ogni cultura altra». Nel suo libro, invece, la mescolanza finisce per provocare la battaglia: l'ecatombe. Lui la racconta in una sequenza di capitoli brevissimi, senza una vera e propria trama, scegliendo una struttura narrativa frammentaria. A segnare profondamente l'opera è piuttosto lo stile. Goytisolo dice che gli è stato imposto dai temi trattati. Razzismo, terrorismo, sessualità, identità in crisi. «Quelle che parlano nel romanzo — spiega — sono le voci». E cita una frase di Kraus: «Il mio stile si impossessi di tutti i rumori del tempo». Così, nel testo trovano spazio annunci pubblicitari su laser per l'autodifesa e bunker atomici monofamiliari, comizi sul comunismo in Albania (segue dibattito), avvertimenti ai lettori abbronzati dei rischi che corre chi ostenti una carnagione più scura del «lecito», e persino un'analisi
ante litteram — anche questa piuttosto grottesca — delle conseguenze dell'effetto serra.
Immagini e incubi che a quasi trent'anni di distanza sembrano essersi trasformati in profezie. «Quello che il mostro del Sentier nel libro, si è convertito in realtà — dice lo scrittore —. Le predizioni fatte allora hanno trovato amara conferma». Ecco spiegato come mai nel 2008 il personaggio di 27 anni fa può, o forse deve ricomparire. Vittima del terrorismo, vuole capire perché lo hanno ucciso. «E la sola maniera che ha per farlo — dice Goytisolo — è mettersi nei panni di chi ammazza in nome di principi politici o religiosi». Ma questo è un altro romanzo.
Il libro «Paesaggi dopo la battaglia» di Juan Goytisolo (Cargo, pp. 183, e 15). Sotto, un disegno dalla prima edizione e l'autore esule a Parigi (foto Jerry Bauer / G. Neri)
Corriere della Sera 21.2.09
In cerca dell' Eden
Flaubert, Baudelaire, Ingres La seduzione di un «altrove» fra inganni, sogni e illusioni
Si inaugura domani un'esposizione con le opere di venticinque artisti che, dalla metà dell'800, hanno trovato il loro «paradiso» in terre esotiche
di Dacia Maraini
Si inaugura domani un'esposizione con le opere di venticinque artisti che, dalla metà dell'800, hanno trovato il loro «paradiso» in terre esotiche
Credo di avere avuto una prima idea dell'esotismo quando da bambina ho visto in Giappone il quadro di un allievo di mio padre che rappresentava gli scalini degradanti di un anfiteatro romano in una città fantasiosa, cosparsa di statue in pietra coperte da viluppi di edera e fiori selvatici che crescevano in mezzo alle colonne spezzate di un tempio romano. E io, che non avevo ricordi dell'Italia, essendo partita per il Giappone quando avevo un anno, sono subito stata spinta a identificarmi con quella visione di una città che pure mi era stata descritta tante volte dai miei genitori, ma con occhi razionali: una metropoli caotica, affollata, dominata dai preti e da una antica nobiltà terriera bigotta e senza scrupoli. Una città che ospitava il Parlamento, di cui aveva fatto scempio il fascismo. Questo era il pensiero dei miei. Ma io me la trovavo davanti molto piu accattivante, la grande capitale lontana e sconosciuta, come un misterioso luogo selvatico e silenzioso, abitato da lucertole e farfalle. Un luogo in cui il tempo era sospeso, e le memorie di fatti crudeli giacevano morte e rese inoffensive dal vento della storia, inghiottite da una specie di giungla vegetale fatta di riccioli contorti e spinosi. Per i giapponesi quello era l'esotico: un'Italia astratta e mai esistita in cui contavano solo le rovine di una civiltà scomparsa. Esotico è quel «sentimento che tende a esaltare forme e usanze di paesi lontani» come dice il vocabolario, una «predilezione per tutto ciò che è straniero».
Tornando in Italia nel dopoguerra ho scoperto che le cose che per me erano state la realtà quotidiana, per gli italiani rappresentavano qualcosa di affascinante, di sconosciuto ed esotico. Il teatro Noh, la festa dei ciliegi, i giardini di sabbia e pietra, i grandi Budda di legno, le pagode e i templi verniciati di rosso e di nero che per me erano pane di tutti i giorni, diventavano improvvisamente stranezze da scoprire.
Ho avuto la fortuna di provare in un tempo neanche tanto lungo cosa fosse il sentimento dell'esotismo. Capivo che era un innamoramento del diverso. Ma in che rapporto stava questo amore con l'opposto sentimento di sospetto e di odio per il dissimile? Non c'erano forse dei legami sotterranei che ne facevano l'uno la faccia scura e l'altro la faccia chiara di qualcosa che ci turba e ci inquieta?
Ricordo la prima volta che sono capitata davanti a un quadro di Gauguin. Quei cavalli azzurri, quelle palme rosa, quelle madonne dai piedi nudi e il seno fasciato da una veste di cotone, leggera, a colori sgargianti, mi sorprendevano e mi ammaliavano. Era l'esotismo europeo del XlX secolo. Un sogno succoso e colorato che rammentava isole lontane immaginate felici. Le stesse isole che si trovavano nei libri di Conrad, nei romanzi di Stevenson che io divoravo con fame insaziabile.
Certamente l'esotismo è seducente. Ti soggioga attraverso il sogno di qualcosa che non c'è e non ci sarà mai, ma lo stesso vive per i tuoi sensi abbagliati, in un interno sottile godimento che tocca le viscere.
Solo leggendo Flaubert e studiando le sue lettere ho capito quanto l'esotismo possa essere ingannevole e perverso. Flaubert detestava l'esotismo, lo considerava un moto dell'anima da disprezzare, un'emozione incolta, primitiva e infantile. Di cui però poi si ingozzava pure lui. Per pentirsene in un secondo tempo e attribuire i suoi «bassi gusti» alla eroina Madame Bovary.
Flaubert disprezzava le fantasticherie esotiche di Emma, ma nel fondo del suo cuore ne era attratto anche se si impediva di praticarle. Questo non lo fermerà, sui trent'anni, dall'intraprendere un lungo viaggio in Oriente che lo farà stare lontano dalla Francia per ben due anni. E non gli impedirà di andare a cercare una famosa prostituta «nera e bellissima, tutta unta di oli speziati» di cui avevano parlato e scritto famosi esploratori dell'Africa del Nord. La cerca, la incontra, ci passa una notte e ne esce con la sifilide. Malattia che lo porterà poi alla morte. Ma subito comincia a ingrassare e a perdere i capelli. Tanto che quando rientra in Francia, la madre che va a incontrarlo al porto, non lo riconosce.
Per quanto io abbia amato e frequentato gli scrittori romantici, non riesco a vedere l'esotismo come una tentazione inesorabile dello spirito. Forse l'avere scoperto da bambina che l'esotismo è relativo e quindi fatto di fumi, mi ha salvato dall'innamoramento di paesi lontani e sconosciuti. Il mio viaggiare ha preso altri significati, quelli della conoscenza e dell'esperienza dell'altro, senza nebbie e vaghezze.
Eppure dobbiamo dire che l'esotismo ha guidato le mani di magnifici poeti e di generosi pittori. Ho amato e continuo ad amare Baudelaire per i suoi ritmi che conoscono il respiro delle grandi maree. «La stupidità è spesso ornamento della bellezza; è la stupidità che dà agli occhi la limpidezza opaca degli stagni nerastri, la calma oleosa dei mari tropicali», scrive Baudelaire nei «Diari intimi». E si capisce che questa esaltazione della bellezza come stupidità, natura perfetta in quanto incapace di capire e volere, non poteva che portare infelicità nei suoi rapporti con l'altro sesso.
Ma allora, ci chiediamo: esiste un esotismo incolto, volgare e un esotismo colto? O è proprio l'esotismo che porta alla falsificazione della conoscenza? O addirittura esclude ogni possibile conoscenza del reale? Per Flaubert questa è la maledizione sghemba e infida dell'amore idealizzato per paesi lontani. Consapevolezza che non gli ha impedito di costruire un intero romanzo, «Salambò », sugli ori, le gemme e il sangue di una civiltà tutta immaginata e grondante di misteri mai svelati.
Per altri, l'Oriente è un'occasione per ragionare da osservatori obiettivi, come per Montesquieu con le sue «Lettere persiane ». Ma questo accadeva un secolo prima. Saranno Ingres e Delacroix a svelarci un aspetto inedito e giocoso dell'esotismo con i loro corpi femminili, le loro teste fasciate, i loro abiti dal gusto fortemente teatrale.
Corriere della Sera 21.2.09
La rassegna Dai quadri di Klee alle foto di Schifano
Fuggendo dall'Occidente verso mondi (forse) liberi
di Marcello Parilli
I viaggi che segnarono una rivoluzione creativa
A Ravenna, patria di grandi cartografi e da sempre crocevia di culture, «un'antica vita si screzia in una dolce ansietà d'Oriente», come diceva Montale. Praticamente il luogo ideale dove parlare (da domani, nella mostra «L'artista viaggiatore Da Gauguin a Klee, da Matisse a Ontani») di artisti che hanno scelto il viaggio verso terre lontane, alla ricerca dell'ispirazione perduta, lasciandone poi tracce significative nelle proprie opere.
«La mostra racconta il viaggio reale, geografico, compiuto da venticinque artisti "esemplari" dalla metà dell'Ottocento ad oggi — dice Claudio Spadoni, Direttore del Museo d'Arte della città di Ravenna —, ma si tratta anche di un viaggio interiore esemplificato dalla "Boite en valise di Duchamp", dove l'artista ha raccolto le riproduzioni delle sue opere, la sintesi del proprio percorso operativo. Non per nulla la mostra, che prende avvio da un galeone storico che salpa idealmente verso i continenti extraeuropei, si conclude con la sala di Ontani, con la testimonianza dei suoi viaggi asiatici che al tempo stesso rappresentano un interrotto viaggio intorno alla propria immagine».
A muoversi furono in tanti, e la mostra ne documenta tutte le rivoluzioni espressive: l'Africa attira, per ragioni diverse, pittori come Klee (che in Tunisia scopre la potenzialità della luce), Macke, Moilliet, poi Matisse, Kokoschka, mentre Gauguin, Nolde e Pechstein avevano puntato alle isole del Pacifico. Già a Novecento inoltrato la rivoluzione nella pittura di Dubuffet nasce nel deserto sahariano e quella di Mathieu in Giappone, mentre, per arrivare ai contemporanei, ecco il mondo esotico di Mondino o le foto di Schifano in Thailandia e di Ontani in India.
Ma il concetto di «viaggio d'arte» era irrimediabilmente cambiato: erano lontani i tempi dei primissimi viaggi di formazione rinascimentali, quando Donatello e Brunelleschi arrivarono a Roma facendo dissotterrare capitelli e colonne per poterli studiare e disegnare. Ma anche la tradizione tardo settecentesca del grand tour, che aveva come mete obbligate le culle della civiltà classica e del Rinascimento, era ormai in netto declino. Gli artisti cercavano altro: in fuga da un'Europa creativamente prosciugata, da un occidente soggiogato dalla cultura egemone e dai suoi riti di massa, andavano alla ricerca di mondi rimasti ai margini delle rivoluzioni industriali, di ambienti e costumi incontaminati, non ancora intaccati dalle trasformazioni già inarrestabili nei paesi che avevano condizionato per secoli la cultura figurativa dell'Occidente «evoluto». Luoghi, di fatto, dove vivere esperienze nuove, anomale, grazie alle quali liberare un processo di rimodellamento della propria personalità e della propria opera. Una vera e propria fruchtland,
un paradiso della fertilità creativa. E da questo Eden misterioso, spesso al seguito di spedizioni scientifiche ed etnografiche, tornavano infatti con quadri carichi di colori, documento più o meno fedele del paesaggio, della vita, del folclore locale, ma anche con schizzi monocromatici, minimalisti, ricchi di forme e segni quasi grafici che, rimandavano alla giovinezza dell'uomo, determinando esiti espressivi inediti.
Ma, a partire dal secondo decennio del '900, a chi raggiunge quei luoghi non più sperduti come un tempo, diventa chiaro che quel mondo va scomparendo sotto la brutale pressione del colonialismo europeo. Gli sguardi degli indigeni si fanno ostili, il bianco è diventato il nemico che governa con la forza. E anche l'artista, in qualche modo, non sfugge a questa logica: i Maori di Gauguin, che in quel momento erano veramente il diverso, il desueto, lo «scandalo » (anche sessuale), vengono addomesticati per l'Occidente. I quadri, alla fine, tornano «a casa» e, come dice Marco Antonio Bazzocchi, diventano «oggetto di rappresentazione che viene consumato, gustato, giudicato, lancia una moda, modifica il gusto, rompe con le tradizioni o le reinventa».
Corriere della Sera 21.2.09
Isabella Ferrari narra la pellicola che percorre le tappe di 120 gravidanze: «Inno alla vita»
Tutto il parto minuto per minuto con De Maistre
di R. Fra.
MILANO — In una piscina tra i delfini o in riva al Gange con una guaritrice, in sala operatoria o in casa con amici che cantano, nel deserto dei Tuareg o negli affollati ospedali vietnamiti. Un giro del mondo per veder nascere un bambino nelle varie culture è Il primo respiro, film-documentario di Gilles De Maistre, nelle sale. Tre anni di lavoro, 15 mesi di riprese, 120 donne incinte incontrate, 10 parti mancati. «Non è solo un film sulla nascita ma anche sulle donne. Inno alla vita, omaggio alla femminilità e alla maternità », spiega il regista. Il film — voce narrante Isabella Ferrari — si apre col parto in piscina in compagnia di un delfino. L'ostetrica spiega che gli ultrasuoni emessi dall'animale rassicurano e stimolano il bambino.
«Ci sono contrasti di paesaggi, climi, ma anche di usi, livello di vita. Volevo il deserto, l'acqua, la città. Confrontare un parto super assistito in ospedale con la precarietà di tanti altri ». Il documentario porta agli occhi proprio la naturalità del parto. Una dimensione che noi occidentali — tra ecografie, amniocentesi e translucenze nucali — abbiamo dimenticato. Ma non è un film a tesi, perché se colpisce la dissonanza tra un parto nell'azzurrissimo mare messicano e il via vai di dottori in un ospedale vietnamita con donne stipate su brandine, la voce di Isabella Ferrari spiega che in Vietnam da quando è obbligatorio partorire in ospedale le statistiche dicono che si salvano molte più vite.
Sembrano godersela i fricchettoni attorno all'amica e compagno che partoriscono in casa, senza aiuto. Si preoccupano solo quando, a 3 ore dal parto, la placenta non esce. «C'è tanto da imparare dai parti tradizionali e primitivi », racconta il regista. Il film fa riflettere, il tema è attuale, tanti i libri tra cui quello di Elisabetta Malvagna («ho fatto due figli in casa, come le fettuccine ») Partorire senza paura (Red): con il 38%, l'Italia ha il primato di tagli cesarei fra i Paesi occidentali, i parti in casa sono lo 0.17%.
Dice De Maistre: «Esperienza elettrizzante ma sfinente. In India temevo di diventar pazzo. Un mese in attesa del parto per l'ecografia tardiva». Poi, ironico: «Impossibile rivedere o rifare la scena di un parto. Buona la prima».
Corriere della Sera 21.2.09
Se prevale solo il malcontento
Pd, il rischio della rivolta
di Ernesto Galli Della Loggia
E' la sala della Pallacorda, non uno squallido hangar della Fiera di Roma, il luogo vero — vero perché definito dalla misteriosa verità dei simboli — dove si riunisce oggi l'assemblea del Partito democratico. Quella sala della Pallacorda, a Versailles, dove nella primavera del 1789 si riunirono i rappresentanti del Terzo Stato in rivolta contro il timido riformismo paternalistico di Luigi XVI, dando così inizio alla rivoluzione. Oggi i 2.800 delegati dell'«Assemblea costituente» (potenza dei nomi che ritornano) possono essere gli emuli di quei rappresentanti del Terzo Stato. Dalla loro riunione, dominata presumibilmente dalla delusione e dall'ira, può uscire di tutto. Se lo vogliono possono sfiduciare in blocco l'intera leadership
del loro partito approfittando del suo stato comatoso, possono imporre la convocazione di un nuovo congresso, possono avviare la procedura per l'elezione di un nuovo segretario e più o meno chiaramente indicare chi deve essere. Possono fare la rivoluzione, appunto, e in fin dei conti il loro attuale gruppo dirigente se la meriterebbe. Lasciamo perdere Veltroni, di cui si è detto già tutto; ma quando sulla Repubblica
di ieri leggiamo Massimo D'Alema affermare con la più sfacciata disinvoltura che nel Pd «nessuno ha complottato» e che lui comunque di quel gruppo dirigente non fa parte «da un pezzo», allora viene davvero da pensare che i capi «democratici» si meritino dalla loro base il trattamento più duro.
Ma un'assemblea del Pd che oggi cedesse al desiderio di rivalsa e di rivolta avrebbe l'unico risultato di avviare il Partito democratico verso un salto nel buio molto probabilmente mortale.
A questo esito quasi sicuro condurrebbe, infatti, l'eventuale scelta a favore sia di un congresso in tempi brevissimi sia dell'elezione immediata di un nuovo segretario: due decisioni che cozzerebbero entrambe in modo potenzialmente disastroso con la necessità di preparare e affrontare le prossime elezioni amministrative ed europee e il loro pressoché sicuro esito negativo.
Alla democrazia italiana non serve un Pd sull'orlo dell'abisso e a rischio catastrofe. Serve un Pd vivo. Ma proprio per questo serve un Partito democratico diverso, assai diverso, da quello che è stato fino a ora. Serve un partito nel quale i vecchi oligarchi iscrittisi alla Dc e al Pci a diciotto anni si mettano finalmente da parte, in cui si liquidino una buona volta i vari passati che opprimono il presente, un partito in cui la base abbia davvero voce in capitolo e i dirigenti del quale, quando compaiono ogni sera alla televisione, non ricordino immediatamente, e simultaneamente, il secolo scorso, il salotto Angiolillo e «Fortunato al Pantheon».
A conti fatti, e benché possa apparire (e forse essere) paradossale, una reggenza di Dario Franceschini fino all'autunno si presenta in questo momento come la soluzione più ragionevole e meno traumatica. A condizione che tale reggenza, però, sia chiaro, non nasca assediata dai capicorrente di sempre, ma fin da subito si presenti con un segno reale di frattura: per esempio con tutti gli incarichi direttivi affidati a un manipolo di segretari regionali della nuova leva, i quali, sotto qualunque bandiera siano stati a loro tempo scelti, sono pur sempre espressione degli iscritti. Che in questo modo potranno forse cominciare a essere finalmente i padroni del loro partito.
il Riformista 21.2.09
Elezioni europee, appello Ferrero, Vendola, Fava, Francescato, Diliberto, Nencini
A sinistra o vi unite o siete cretini
di Piero Sansonetti
Il Parlamento ha approvato l'altro giorno la leggina sullo sbarramento elettorale alle europee, e ha introdotto un codicillo che cambia un po' le cose. Il codicillo prevede che le liste che resteranno escluse dal Parlamento europeo, perché troppo piccole (sotto il 4 per cento), ma che comunque raccoglieranno il 2 per cento dei voti, otterranno il finanziamento pubblico.
Questo vuol dire che i partitini che prevedono di ottenere il due o tre per cento dei voti potrebbero decidere di fregarsene dello sbarramento - che impedisce loro di eleggere deputati - e di presentarsi lo stesso alle elezioni per beccare un po' di soldi. Se succederà questo, per la sinistra radicale sarà una sciagura. Uscirà polverizzata dalla prova elettorale. E oltretutto dimostrerà di considerare se stessa non una forza politica ma semplicemente una organizzazione, una specie di azienda. Presentarsi alle elezioni sapendo che non si avranno seggi ma soldi equivale a una autocertificazione di morte politica.
Caro Paolo Ferrero, caro Vendola, cari Fava, Francescato, Diliberto, Nencini, Bernardini e tutti gli altri; avete due possibilità davanti a voi: mettervi insieme, presentare un'unica lista alle elezioni, oppure suicidarvi. Vi prego, date un ultimo segno di vitalità e intelligenza. Diteci: un pezzettino di sinistra non piddina esiste ancora, ha i suoi guai, è litigiosa, piena di dissensi su tanti temi, ma è ancora capace di guardare all'interesse generale, intendendo stavolta per interesse generale l'interesse del povero e bistrattato "popolo della sinistra".
Non c'è possibilità di discutere molto sulle cifre. I risultati delle elezioni sarde e i sondaggi ci dicono che una alleanza tra tutte le forze della sinistra - comunista, socialista, liberale e tutto il resto - sicuramente porterebbe a superare il quorum del 4 per cento, ad avere una rappresentanza nel Parlamento europeo, e a dare una voce, anche se flebile e piccola piccola, alla gente di sinistra. E ci dicono anche che se ogni partito e partitino vorrà invece correre da solo, con ogni probabilità nessuno supererà il quorum. Voi - cari Ferrero, Vendola eccetera eccetera - tutto questo lo sapete benissimo.
Esistono obiezioni valide a questo ragionamento? L'unica obiezione che sento è quella sulle diversità. Si dice che le idee della Rifondazione "ferreriana" siano troppo lontane da quelle dei vendoliani o degli ex ds di Fava, e ancor più lontane da quelle dei socialisti o dei radicali. In parte è vero, in parte no. Ma l'obiezione non regge. Per due ragioni. La prima ragione sta nella legge elettorale. Io sono convinto che una forza politica che vuole far politica deve adeguarsi alla situazione nella quale opera. Non si può dire: questa legge elettorale, questo sistema politico non mi piacciono, e dunque io mi muovo come se non ci fossero... Se si ragiona in questo modo si rinuncia a fare politica.
La seconda ragione è inconfessabile: molti di voi, leader delle formazioni di sinistra, vi opponete all'unità non per ragionamenti politici ma per questioni e idiosincrasie personali. Avete l'ideologia del "Con Lui Mai…". Preferite ferire il leader concorrente che ottenere un risultato politico. Non è così?
Figuratevi se io - personalmente - posso avere simpatia, ad esempio, per Paolo Ferrero, che appena un mese fa mi ha cacciato via da Liberazione! Se però subordinassi i miei ragionamenti politici alle mie vicende personali, sarei un vero cretino. Ecco, diciamola così: cari amici, cari compagni, o mettete insieme una lista elettorale unica - diciamo pure una alleanza tecnica - o siete dei veri cretini. È un po' brutale ma è chiaro, no?
P.S. Naturalmente sarebbe preferibile che nessuno di voi facesse quei giochetti - antichissimi, stupidissimi - di dire: certo, tutti insieme purché ci si dichiari tutti comunisti, o tutti ci si dichiari non comunisti, o socialisti o pannelliani eccetera eccetera. Oppure: tutti uniti sotto il mio simbolo… Sono giochetti troppo scoperti. E naturalmente bisogna che ciascuno di voi si assuma le sue responsabilità. Anche di fronte all'elettorato bisognerà dire: «Io ho voluto l'unità», oppure: «Io ho impedito l'unità».