venerdì 28 gennaio 2011

l’Unità 28.1.11
Veltroni torna all’attacco: il problema non sono le primarie ma le correnti e le clientele
I parlamentari vicini al segretario: se vogliamo salvarle, necessarie modifiche sul modello Usa
Il caso Napoli infiamma il Pd Bersani: «Candidato unitario»
Il leader del Pd chiede a tutti i candidati «un atto di generosità» per arrivare poi a «un nome che unisca». Per l’ex segretario i vertici del partito avrebbero dovuto lavorare meglio sulla candidatura di Cantone
di Simone Collini


L’Assemblea nazionale del Pd non è solo slittata, non si farà più a Napoli: troppe tensioni, soprattutto ora che Bersani ha chiesto a tutti i candidati delle primarie di fare un passo indietro «Chiedo un atto di generosità per la ricerca di una candidatura comune, serve un nome che unisca tutti in una battaglia vincente» e ha deciso di commissariare fino alle elezioni amministrative il partito partenopeo (da Roma partirà il responsabile Giustizia Andrea Orlando). Ma quanto avvenuto nella città partenopea sta provocando altre ripercussioni anche a livello nazionale, sia nel Pd che nei rapporti tra le forze di centrosinistra. E non bastano a sciogliere i nodi le frenetiche telefonate di Bersani, Bassolino, D’Alema e di altri dirigenti nazionali e locali. Per non parlare della fumata nera con cui si chiude il vertice alla sede del Pd tra i responsabili degli Enti locali dei partiti che hanno organizzato le primarie: Sinistra e libertà che diserta l’incontro e dice che «il problema è il Pd napoletano» e che ora si sta provando a «delegittimare le primarie», mentre Di Pietro oggi a Napoli lancerà De Magistris. «Il fatto è che ognuno sta utilizzando questa vicenda per giocare una sua partita», sospirano al Nazareno alla fine di un’altra giornata difficile, in cui basta poco per acuire sospetti e dissidi che ultimamente sembravano, se non superati, quanto meno attenuati.
IPOTESI DI MODIFICHE PER LE PRIMARIE
Si comincia in mattinata con la riunione dei parlamentari e dirigenti Pd che stanno dando vita a una sorta di corrente del segretario («Per l’Italia»). Incontro breve ma che è bastato per fare il punto non solo sulle primarie di Napoli, ma sullo strumento in generale. L’opinione prevalente emersa è che se lo si vuole salvaguardare c’è bisogno di apportare modifiche. A cominciare dall’obbligo di iscriversi ad un albo degli elettori prima del giorno del voto ai gazebo (come negli Stati uniti), e dalla necessità di introdurre un meccanismo che consenta di vincere soltanto a chi abbia ottenuto una maggioranza davvero ampia (come avviene per l’elezione del segretario nazionale, e non come è avvenuto a Napoli dove tra il primo e il secondo c’è stato uno scarto di un migliaio di voti). Un seminario del Pd ad hoc sarà organizzato a febbraio.
Alla riunione non hanno partecipato i parlamentari vicini a Rosy Bindi e a Enrico Letta, che pure hanno sostenuto Bersani al congresso. Nessuno contesta la nascita di una nuova area organizzata all’interno del partito, (anche perché a Letta fa capo l’associazione “360” e a Bindi “Democratici davvero”). Ma se al presidente del partito non è sembrata una buona idea rinunciare all’Assemblea di Napoli, al vicesegretario non ha fatto piacere la stroncatura del responsabile Economia Stefano Fassina alle proposte lanciate al Lingotto da Walter Veltroni. E se il veltroniano Tonini parla di «caricatura sgradevole», anche per i lettiani il rischio è che il Pd appaia all’inseguimento della Fiom, con cui Fassina ieri ha sfilato a Bologna.
LE PREOCCUPAZIONI DI VELTRONI
Quanto all’ex segretario, che già aveva espresso «preoccupazione»quando la segreteria chiedeva di non alimentare le polemiche e di lasciar lavorare gli organismi di controllo, con i suoi non ha nascosto di essere deluso per come da tempo è stata gestita la vicenda (si sarebbe potuto ottenere la candidatura di Raffaele Cantone, è il ragionamento, se i vertici del partito ci avessero lavorato meglio) e di temere per quello che considera non un semplice «strumento», ma una delle «ragion d’essere» del Pd: «Il problema non sono le primarie ma i fenomeni di clientelismo, il sistema correntizio che è il contrario di un partito aperto come deve invece essere il Pd». E anche l’ipotesi di un albo a cui sia necessario iscriversi precedentemente per poi poter partecipare, vede contrario Veltroni proprio perché rischia di essere un meccanismo troppo vicino all’iscrizione e contrastante con l’idea di partito aperto.

Corriere della Sera 28.1.11
Bersani commissaria i democratici a Napoli. Una settimana cruciale
«Ora un candidato comune per il sindaco» . I veltroniani: ma le primarie vanno difese
di Monica Guerzoni


Primarie, indietro tutta. Per placare la tempesta di Napoli che fa ballare la barca democratica, il timoniere Pier Luigi Bersani commissaria il Pd nella regione sconvolta dai brogli ai gazebo e lancia un appello a tutte le anime del partito. «Chiedo un atto di generosità per la ricerca di una candidatura comune» , è lo stop di Bersani ai duellanti, il vincitore Andrea Cozzolino e lo sconfitto (con onore) Umberto Ranieri. Il quale ha già preso distanze dalla mischia. Ma il clima è pessimo. I veltroniani si schierano in difesa delle primarie, i bersaniani guardano con sospetto alle mosse di Veltroni, e i popolari incassano come uno schiaffo la decisione di affidare ad Andrea Orlando, «un altro ex ds» , la gestione della federazione fino alle amministrative. «Nicola Tremante era l’unico segretario ex ppi della Campania — lamenta Beppe Fioroni —. Condivido il giudizio lusinghiero di Roberto Saviano, purtroppo però l’hanno commissariato» . Se Bersani ha scelto Orlando, responsabile Giustizia, è per portare a Napoli un «elemento di novità» e per monitorare una situazione politica che il segretario riconosce «difficile» . Enrico Letta descrive un Pd che ha «perso la testa tra assedi, occupazioni, intimidazioni» , e invita tutti a riflettere per «non consegnare Napoli a Berlusconi» . Bersani non vede altra via d’uscita che non sia un volto nuovo, non bruciato dalla guerra tra fazioni. Dopo i brogli, le denunce e l’annullamento dell’assemblea programmatica prevista per oggi, l’aria nel capoluogo non sembra propizia alle discese in campo. Lucia Annunziata si è tirata fuori, mentre continua a girare il nome del procuratore di Nola, Paolo Mancuso. E c’è persino chi confida nell’entrata in gioco di Saviano... La Commissione di garanzia è al lavoro, ma non basta. «Azzerare tutto» è la formula della segreteria, per nulla insensibile al ruolo svolto proprio da Saviano. L’autore di Gomorra ha rilanciato il magistrato Raffaele Cantone, la cui candidatura era stata proposta all’Eliseo da Walter Veltroni, il 26 novembre. Ma la doppia investitura rischia di mettere a disagio Bersani. «La proposta di Saviano è la migliore» , apre Pina Picierno, vicina a Franceschini. Il magistrato anticamorra ha detto «no grazie» , però i veltroniani non disperano. Ma ora il Pd ha problemi più urgenti. Come dice il responsabile Enti locali Davide Zoggia, urge «trovare una soluzione che metta in sicurezza il centrosinistra» . Ci ha provato il tavolo nazionale della coalizione, e l’esito del primo incontro è una plateale spaccatura. Pd, Federazione della sinistra e Verdi sono per il «superamento» delle primarie, mentre il partito di Vendola (Sel) e i Socialisti chiedono di non rinunciare al voto degli elettori. Il tavolo è stato aggiornato a martedì, quando la riunione durerà a oltranza fino a una decisione. Trovare un accordo non sarà facile. «Se il Pd non è in grado di svolgere primarie regolari farebbe bene a dichiarare fallimento e portare i libri in tribunale» , attacca Mario Barbi, che era al Lingotto. Bersani è deciso a «riformare le primarie» . E i veltroniani sono pronti alle barricate. «Se le stoppi fai danno — avverte Fioroni — e lasci una prateria ad altri» . Walter Verini invita a tutelare il «dna» del Pd: «La malattia è il correntismo esasperato, le primarie sono il termometro che misura la febbre» . Altro che tregua dopo il Lingotto, la tensione è di nuovo altissima. Matteo Orfini critica Veltroni per aver parlato in tv dei cinesi in fila («alle sue primarie c’erano i filippini...» ) e si augura che il caos di Napoli «serva a riflettere su uno strumento che si è rivelato dannoso» , come lui stesso aveva avvertito. Sullo sfondo, lo spauracchio di un Veltroni che starebbe meditando di scendere in campo contro Bersani. I suoi smentiscono con forza, ma Orfini ironizza: «Se Veltroni si vuole candidare a premier può farlo anche senza primarie. Lo conosciamo bene, non c’è bisogno che ci mandi il curriculum...» .

l’Unità 28.1.11
Donne, ora si va in piazza
Oltre 60mila firme all’appello on line dell’Unità

Domani a Milano con una sciarpa bianca Il 13 febbraio mobilitazioni in tutta Italia

Superato il giro di boa delle 60mila firme in una settimana su Unita.it, le “madri, nonne, figlie, nipoti” chiamate a raccolta da Concita De Gregorio su queste pagine scendono in strada a manifestare. L'appuntamento è per domani, sabato 29 gennaio alle 15, in piazza della Scala, a Milano. Un assaggio di quella che sarà la mobilitazione nazionale il 13 febbraio, "Se non ora quando", a cui l'Unità aderisce con il direttore Concita De Gregorio. Una mobilitazione, quella di Milano, per ridare dignità all'Italia, come scrivono le promotrici: «Con un simbolo da condividere: una sciarpa bianca del lutto per lo stato in cui versa il Paese. E uno slogan: ‘Un'altra storia italiana è possibile’. Ci saremo con le nostre facce. Appuntandoci sulla giacca una fotocopia della nostra carta di identità con su scritto chi siamo: cassaintegrate, commesse, ricercatrici precarie, artiste, studentesse, registe, operaie e giornaliste». Un appuntamento che anticipa, dunque, la grande giornata di mobilitazione indetta per il 13 febbraio in tutte le grandi città italiane. «Il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato – scrivono le promotrici – legittima comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni. Chi vuole continuare a tacere lo faccia assumendosene la pesante responsabilità. Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignità e diciamo agli uomini: se non ora, quando?» All'appello si può aderire inviando una mail a mobilitazione. nazionale.donne@gmail.com. Tra le firmatarie: il segretario della Cgil Camusso, le parlamentari Turco, Bongiorno e Perina.

l’Unità 28.1.11
A Bologna migliaia di lavoratori alla manifestazione dei metalmeccanici della Cgil
Fischi durante l’intervento della segretaria generale, oggi si fermano le fabbriche italiane
Fiom: ora lo sciopero generale Ma Camusso non ne parla
Almeno 30mila persone ieri in piazza a Bologna per il primo sciopero regionale della Fiom. Lavoro e diritti tornano al centro della scena e conquistano la città. Ovazioni per Landini, qualche fischio alla Camusso.
di Claudio Visani


La classe operaia non è morta. Gli operai esistono, e tornano a farsi sentire nelle piazze. Sono tanti: 30, forse 40 mila in Piazza Maggiore a Bologna, per questo primo sciopero regionale anticipato in Emilia-Romagna. E con loro ci sono anche studenti, intellettuali, scrittori, politici, tanti cittadini. Il lavoro e i diritti conquistano la città, che parteggia per le tute blu e diffida di Marchionne, del Governo del «bunga bunga» che vuole togliere ancora a chi fatica di più e meno ha. La protesta conquista anche i cuori, perchè «senza cuore saremmo solo macchine», dice un cartello. E chiama a gran voce una protesta più grande: lo sciopero generale «per battere Confindustria, cambiare la politica e il governo del Paese», come invoca il segretario nazionale della Fiom, Maurizio Landini, al termine del suo appassionato e applauditissimo comizio; «sciopero generale subito» come urlano alcune centinaia di studenti, precari e giovani dei centri sociali che hanno conquistato il centro della piazza e che contestano per tutta la durata del suo intervento, anche se in modo soft, la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, che di sciopero generale non parla. Una scena che ricorda quella della manifestazione del 16 ottobre scorso a Roma, quando un gruppo di manifestanti tirò per la giacchetta dello sciopero generale l'ex segretario, Guglielmo Epifani.
Camusso deve alzare il tono della voce. Dal palco attacca Federmeccanica, Fiat, Confindustria e il Governo. «Non è la Fiom che tiene lontani gli investimenti stranieri dall'Italia, bensì l'immagine che il Governo sta dando dell'Italia all'estero. Se il nostro Presidente del Consiglio la smettesse di essere lo zimbello del mondo, forse le cose andrebbero diversamente». Alla Fiat dice che «non si può governare una fabbrica come se fosse una caserma». E avverte Federmeccanica e Confindustria che «se inseguiranno quel modello, la Cgil sarà al fianco dei lavoratori e della Fiom», perchè «lo sciopero dei metalmeccanici, cominciato da Bologna, vuole affermare proprio il nostro no al modello Fiat, a chi vuole cancellare il contratto nazionale e peggiorare le condizioni di lavoro». E conclude annunciando «una grande campagna per la democrazia e la dignità del lavoro», perchè «un Paese che non ha dignità e non rispetta la democrazia non rispetta nessuno di noi»; perchè «i lavoratori devono avere il diritto di scegliere a quale sindacato iscriversi e di eleggere i loro rappresentanti».
Ma slogan e fischi non si fermano, e diverse persone lasciano la piazza prima della fine del comizio. La reazione degli altri 30-40mila è comunque freddina, con pochi applausi. Quando scende dal palco, ai cronisti che le chiedono un commento, Camusso non risponde. «Basta, ho già parlato». E il suo staff si limita a dire che «a contestare erano solo una trentina». Pure Landini ridimensiona, non vuol sentire parlare di contestazione a Susanna Camusso: «Ho sentito una richiesta forte di
sciopero generale, non altre cose. Ho visto invece nella piazza un consenso generale all'iniziativa di oggi e alla manifestazione. Questa a me pare la notizia vera, non trasformiamo qualche fischio nella notizia».
Poi aggiunge: «Il tema c'è, mi pare che abbia un consenso ampio. Anch'io penso che sia necessario, e che ci si arriverà. Ma non si decide qui, in una manifestazione. La discussione è aperta, il direttivo della Cgil è già convocato». «Lo strumento di per sé – continua Landini non è in grado di cambiare le cose, ma dà un messaggio forte e chiaro, unifica le persone. Dice a Confindustria che se mantiene queste posizioni si aprirà una fase di conflitto più esteso. E serve a contrastare un Governo che sul lavoro, soprattutto col ministro Sacconi, sta facendo danni senza precedenti».
È stata, in ogni caso, una grande manifestazione. Il lungo corteo per i viali e le vie del centro. La piazza strapiena. Davanti al palco, gli striscioni delle fabbriche emiliano-romagnole della Fiat: Ferrari, Maserati, Magneti Marelli, Cnh. Sul palco un grande striscione: «Il lavoro è un bene comune». E gli annunci che parlano di adesioni allo sciopero dell'80, 90, 100% nelle fabbriche. Uno sciopero «sbagliato, tutto politico» per Cisl, Uil e Sacconi.

Repubblica 28.1.11
Eric Hobsbawm
"La fine del comunismo ha permesso a Marx di diventare un bestseller"


L´intervista/ Il grande storico inglese ha scalato le classifiche grazie al suo ultimo saggio sul filosofo tedesco
"Grazie al crollo dell´Urss è stato possibile rileggere i suoi testi e capirne l´attualità"
"L´idea di dover affrontare le diseguaglianze sociali resta fondamentale"

LONDRA. Eric Hobsbawm ha 93 anni e, oggi, è diventato un autore di bestseller. Grazie al suo ultimo saggio su Marx, How to change the world: tales of Marx and Marxism, come cambiare il mondo. Ristudiando Marx. La lezione del celebre storico, appassionato di jazz, ha scalato le classifiche inglesi. Una sorpresa anche per lui che da anni vive ad Hampstead, a breve distanza dalla brughiera che confina con il cimitero di Highgate dove è sepolto Marx.
Nel primo capitolo del suo libro scrive che Marx è «ancora un grande pensatore del nostro tempo». E che, paradossalmente, «sono stati i capitalisti a riscoprirlo e non i socialisti».
«Ci sono due ragioni che spiegano la sua importanza. Innanzitutto la fine del marxismo ufficiale dell´Unione Sovietica ha liberato Marx dall´identificazione con il leninismo e con i regimi leninisti. In questo modo è stato possibile recuperare il suo pensiero e quel che aveva da dire riguardo al mondo. Ma, soprattutto, il capitalismo globalizzato che si è sviluppato dagli anni 1990 era quello descritto da Marx nel Manifesto. Lo si è capito nella crisi del 1998: anno durissimo per l´economia globale nonché 150esimo anniversario di questo piccolo e sorprendente opuscolo. Ma, appunto, questa volta furono i capitalisti e non i socialisti a riscoprirlo. Forse i socialisti erano troppo imbarazzati per celebrare questo anniversario».
Quando ha capito che Marx era tornato?
«Fui contattato dal direttore della rivista che United Airlines pubblica per i suoi passeggeri, che sono quasi tutti uomini d´affari americani. Avevo scritto un articolo sul Manifesto: mi chiesero di poterlo pubblicare, erano interessati al dibattito. Qualche tempo dopo George Soros mi chiese che cosa pensavo di Marx. Lì per lì diedi una risposta ambigua. "Quell´uomo – disse Soros – scoprì 150 anni fa qualcosa sul capitalismo di cui dobbiamo tener conto oggi". Non c´è dubbio che Marx sia tornato al centro della scena».
Ci sono anche altri segnali?
«Ci sono anche quelli più frivoli, simboli di una moda. C´è stato un sondaggio della Bbc che l´ha eletto come il filosofo più grande. O il fatto che se digitate il suo nome su Google, tra gli intellettuali è superato soltanto da Darwin ed Einstein, ma viene prima di Adam Smith e Freud».
Nel libro cita il modello di un "capitalismo dal volto umano" che esisteva prima degli anni Reagan-Thatcher. Oggi c´è ancora?
«Queste tesi fanno parte della tradizione di molti paesi capitalisti, dalle socialdemocrazie riformiste alle dottrine sociali cristiane. I profitti economici devono essere uniti a misure che assicurino il benessere della popolazione, non fosse altro che per evitare pericoli sociali e politici creati da squilibri eccessivi. Queste idee nacquero come reazione allo sviluppo dei partiti laburisti e socialisti alla fine del diciannovesimo secolo e ancora adesso, per fortuna, distinguono l´Europa occidentale dagli Stati Uniti».
Quali sono i paesi in cui resistono?
«I paesi più piccoli che sono riusciti a crearsi nicchie relativamente sicure nell´economia globale possono combinare lo sviluppo delle imprese private con i servizi pubblici: penso all´Austria e alla Norvegia. Questi sistemi servono a ridistribuire il reddito sociale e per questo sono cuscinetti indispensabili».
Qual è stato l´effetto più evidente della globalizzazione?
«Ha privato gli Stati delle risorse per la distribuzione del benessere pubblico, a causa della de-industrializzazione e dello spostamento dell´economia mondiale verso l´Oriente. Fino al crollo del 2008 questo processo è stato accelerato e non governato. Con un indebolimento sistematico delle istituzioni pubbliche a spese di uno straordinario arricchimento privato».
Che cosa serve adesso?
«Intanto la modifica di alcuni rapporti. L´ostilità del neo-liberismo ai sindacati, incoraggiata da politiche sindacali miopi, è stato un elemento del disastro. Così il capitalismo dal volto umano è possibile, ma solo se i governi e i ricchi cominciano a preoccuparsi del problema».
Tra le sue suggestioni c´è quella di cominciare a «prendere Marx seriamente». Ma sostiene anche la necessità di "ricalibrarlo". Cosa significa?
«L´analisi fondamentale dello sviluppo storico fatta da Marx resta valida. Ma, quella che egli chiamava "la società borghese", non era e non poteva essere la fine del capitalismo. Era una fase temporanea, come lo sono state altre. Quello che resta vero è che si creano profonde ineguaglianze sociali e morali. Il socialismo, come lo intendeva Marx, e ancora di più il comunismo si sono dimostrati fallimentari. Eppure torna attuale la necessità di risolvere i problemi con azioni pianificate dai governi e dalle autorità pubbliche».
Ma l´idea di Stato, oggi, è completamente cambiata.
«Infatti. Per questo penso ad azioni di autorità globali sovranazionali. Può essere difficile da immaginare se non considerando accordi tra super Stati politicamente decisivi ma non si può lasciare tutto il potere alla finanza privata. I problemi sono evidenti a tutti, Marx ci ha offerto un metodo: il pubblico deve poter governare il cambiamento, le disuguaglianze devono essere ridotte dallo Stato».
Quali sono i problemi principali?
«La crescita della popolazione e della produzione. Badate: non sono problemi in sé, ma lo diventano per il catastrofico impatto che in queste condizioni hanno sull´ambiente. In più se il centro di gravità del mondo si sposta dai vecchi imperi industriali a quelli emergenti si creano nuove instabilità e pericoli».
Di che tipo?
«Le vecchie economie occidentali ora in declino perdono il loro livello di vita e quelle emergenti sognano di raggiungere i livelli di vita dell´Occidente. Questo provoca una doppia pressione: su chi sta vedendo tramontare il suo status e su chi fa di tutto per accrescerlo. È questo che sta mettendo in crisi l´idea di sviluppo».
Ma come si può essere marxisti oggi?
«Non possiamo ritornare all´Ottocento, è evidente. Non possiamo mettere a rischio, neppure per un momento, il progresso intellettuale e le conquiste, politiche, sociali e di libertà, ottenute negli ultimi due secoli dagli uomini e dalle donne. Ma dobbiamo cercare un nuovo equilibrio tra pubblico e privato, tra l´idea di sviluppo e la sua sostenibilità in questo nostro mondo. Per questo nostro mondo».

l’Unità 28.1.11
E oggi la protesta arriva in tutte le piazze d’Italia Landini sarà a Milano
Sono previste 21 manifestazioni. A Torino comizio conclusivo di Airaudo, a Termini Imerese di Masini. A Milano due cortei, si collega Gino Strada. Attesi migliaia di lavoratori, studenti, esponenti politici e dei movimenti.
di Laura Matteucci


E oggi sciopera il resto d’Italia. Per la giornata di protesta dei metalmeccanici della Cgil sono previste 17 manifestazioni regionali e 4 provinciali, con la partecipazione di molti esponenti Pd, Sel, Prc, del Popolo Viola, oltre che di studenti e movimenti. Lo sciopero è stato indetto contro la Fiat come anche contro Federmeccanica che, come dice il leader della Fiom Maurizio Landini, «con le sue proposte sta inseguendo il Lingotto su una strada che è un danno per i lavoratori ma anche per il sistema delle imprese».
LA MAPPA
E Landini oggi sarà a Milano per il comizio conclusivo in piazza Duomo. Due i cortei: il primo parte da Porta Venezia alle 9,30, attesi anche Gad Lerner, il leader di Emergency Gino Strada in collegamento telefonico e don Andrea Gallo. Il secondo è quello organizzato dal Coordinamento dei collettivi studenteschi e partirà alle 9,30 da Largo Cairoli. A Cassino, sempre alle 9,30, concentramento davanti alla Stazione. Un corteo raggiungerà piazza Alcide De Gasperi. A Torino confluiranno 35 pull-
man: il corteo partirà da Porta Susa intorno alle 9 diretto a piazza Castello. Interviene Giorgio Airaudo, segretario nazionale Fiom-Cgil responsabile del settore auto. Giorgio Cremaschi, presidente del Comitato centrale Fiom, sarà invece a Padova, dalle 9 in piazzale della Stazione. Manifestazione regionale a Pomigliano D’Arco (Napoli), con concentramento alle 10 alla rotonda Alfa Romeo (zona industriale). Comizio conclusivo in piazza Primavera nel corso del quale prenderà la parola Francesca Re David, responsabile dell’organizzazione Fiom-Cgil. A Termini Imerese (Palermo), dove ha sede lo stabilimento auto che Fiat intende chiudere a fine anno, conclusioni di Enzo Masini, coordinatore nazionale auto della Fiom. Manifestazione regionale anche a Melfi dove si trova il più grande stabilimento Fiat del sud.
Manifestazioni anche a Bolzano, Udine, Genova, Savona, La Spezia, Imperia. Manifestazione regionale a Massa, con concentramento alle 9,30 davanti allo stabilimento della Eaton: la multinazionale statunitense proprietaria, attiva nel campo della componentistica auto, ne ha minacciato la chiusura. E altre a Perugia, ad Ancona, a Lanciano (Chieti), a Termoli, ove ha sede uno stabilimento del gruppo Fiat, a Bari, a Vibo Marina (Vibo Valentia). Infine, il corteo di Cagliari (concentramento in piazza Garibaldi alle 9) sarà diretto a piazza del Carmine, per il comizio conclusivo nel corso del quale per la Fiom prenderà la parola Fausto Durante.

l’Unità 28.1.11
Intervista a Abdel Galil Mustafa
«È l’Intifada della rabbia. Contro Mubarak i giovani senza un futuro»
Il braccio destro dell’ex direttore dell’Aiea: «Contro il regime è sceso in campo l’intero Paese Il raìs deve dimettersi, vogliamo libere elezioni»
di U. D. G.


Questa sollevazione non avrà termine fino a quando Hosni Mubarak e il figlio Gamal non annunceranno che rinunciano alla candidatura alle prossime elezioni presidenziali», previste per settembre. A parlare è Abdel Galil Mustafa, portavoce dell’uomo che in molti, dentro e fuori l’Egitto, considerano l’alternativa laica e progressista al regime del «Faraone»: Mohammed El Baradei, l’ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), premio Nobel per la pace e fondatore dell’Assemblea nazionale per il cambiamento. Mustafa si dice convinto che l«'Intifada della collera sarà un punto di svolta nella storia del popolo egiziano perché vi partecipano tutte le componenti della società e tutte le forze politiche». Mustafa è in contatto continuo con El Baradei: «Lui dice Mustafa è una risorsa per l’Egitto. Un leader che può unire ciò che il regime ha diviso, dando una speranza di futuro al popolo egiziano» «Siamo noi aggiunge ad aver per primi appoggiato le richieste dei giovani in piazza. Con loro chiediamo lo scioglimento delle due Camere e dei consigli locali, la formazione di un governo di salvezza nazionale,, la fine dello stato di emergenza, la liberazione di tutti i detenuti politici, in primis di quelli arrestati nei giorni scorsi».
L’Egitto si infiamma. Cosa rappresentano le manifestazioni di questi giorni? «Rappresentano uno spartiacque, un punto di non ritorno e, al contempo per usare una frase cara a Barack Obama, un possibile, concreto, straordinario “Nuovo Inizio” per l’Egitto. La forza della protesta sta nel fatto che a prendervi parte non è un segmento della società egiziana ma tutte le sue componenti. Mubarak si illude se pensa di poter fermare con i blindati il corso della Storia. Oggi il rais ha contro i giovani che sono il futuro del Paese». C’è il rischio che la protesta possa degenerare?
«La nostra intende essere una rivolta democratica, popolare, non violenta. Chi punta allo scontro fa il gioco di un potere che ha governato per trent’anni con le leggi di emergenza, militarizzando la politica, occupando le istituzioni. Questa non è stabilità, è tenere un Paese in ostaggio. Noi vogliamo uscire da questo tunnel, e per questo occorre che la transizione sia pacifica».
Perché ciò possa accadere, cosa chiedete al presidente Mubarak? «Di fare un passo indietro e uscire di scena. La sollevazione non avrà termine fino a quando Mubarak e il figlio Gamal non annunceranno che rinunciano alla candidatura alle prossime elezioni (previste per settembre, ndr)».
Anche in Egitto si respira il «profumo di gelsomini» di Tunisi? «Ciò che si respira è il profumo della libertà. Un profumo inebriante che non conosce confini. Oggi l’Egitto ha bisogno di voltare pagine, e per farlo occorre responsabilizzare le sue energie migliori, per dar vita a un governo di unità nazionale che conduca il Paese sulla strada della democrazia, della giustizia sociale, della tolleranza». Una strada da percorrere anche con i Fratelli Musulmani?
«Con tutti coloro che accettano le regole del dialogo, del pluralismo, e che intendono partecipare alla costruzione di un “Nuovo Egitto”. Non saremo noi a costruire nuovi steccati».
Lei è il più stretto collaboratore di Mohammec El Baradei. C’è chi vede in lui l’anti-Mubarak... «El Baradei è un uomo che ascolta, che lavora per unire, fuori da qualsiasi logica di fazione. Crede nelle regole democratiche e per questo si è rifiutato di partecipare a elezioni farsa come quelle del novembre-dicembre scorsi. Se il popolo lo chiederà, è pronto ad assumersi le sue responsabilità. Ma oggi non è questa la priorità. Oggi occorre rafforzare ed estendere l’Intifada della collera. E la giornata di domani (oggi, ndr) sarà decisiva».
Cosa si sente di chiedere all’Europa?
«Di non parteggiare per il vecchio regime e comprendere che la stabilità non si garantisce con i carri armati, e che l’antidoto migliore contro ogni estremismo è la democrazia»

La Stampa 28.1.11
Intervista
“I leader li decide il popolo No alle auto-investiture”
Ayman Nour: Mubarak ceda, rischia un bagno di sangue
di Pao. Ma.


«La rivoluzione è cominciata: al regime resta solo da decidere se sarà pacifica o sanguinosa». Ayman Nour non ha ancora perso la voglia di sfidare Mubarak. Nel 2005 il leader del partito El Ghad, il domani, divenne un’icona della libertà, dopo il suo arresto. La pressione internazionale obbligò il governo egiziano a rilasciarlo e lui si candidò alle presidenziali, prendendo il 7% dei voti secondo le stime ufficiali, e il 13% secondo gli osservatori indipendenti. Poco dopo, il 24 dicembre 2005, venne condannato a cinque anni di prigione. Adesso Nour è uscito e si ritrova in mezzo alla rivolta dei giovani: «È una svolta. Non era mai successo prima che la gente comune, i ragazzi, riuscissero a mobilitare tante persone attraverso Internet. È una nuova generazione, molto delusa, che si affaccia sulla scena: il regime non può più fare finta di niente». Oggi, giorno della preghiera, sono previste manifestazioni in tutto il Paese: lei parteciperà? «Certo, sarò in piazza con i ragazzi».
Che cosa volete? «Lo avete sentito dagli slogan: la caduta di Mubarak». Il regime potrebbe fare concessioni per risolvere la crisi? «Sì: annullare le leggi speciali, combattere la corruzione, indire elezioni libere per il Parlamento e la presidenza, e garantire che Mubarak non deciderà il suo successore».
E se il regime non vi ascoltasse? «La reazione dei giovani diventerebbe inevitabile. L’ora del cambiamento è arrivata. Può realizzarsi in maniera pacifica, se il governo capirà la situazione e si comporterà con saggezza. Altrimenti avverrà in un altro modo».
Prevede violenze? «Le temo, non posso escluderle». Cosa succederà dopo le proteste in programma oggi? «Dipende dalla risposta del regime. Se continuerà a puntare sulla repressione, tutto diventa possibile. Magari domani la protesta si fermerà, ma prima o poi riprenderà con maggior forza, perché ormai la valanga ha iniziato a rotolare». È vero che i partiti di opposizione non hanno avuto un ruolo nell’organizzazione? «Sì, è stata la reazione spontanea di una giovane generazione esausta. Perciò è un fenomeno potente e inarrestabile». Alcuni analisti temono che i Fratelli Musulmani, o comunque l’estremismo islamico, si impadroniscano della protesta per conquistare il Paese. «La forza dei Fratelli Musulmani è stata esagerata dal regime, per terrorizzare l’Occidente e ottenere il suo appoggio col ricatto dell’estremismo islamico. Non è così, questi giovani sono laici e non permetteranno la nascita di uno stato confessionale». Mohamed El Baradei è tornato in Egitto, dicendosi pronto a guidare il Paese: lo sosterrà? «Chiunque rientra in Egitto per favorire la democrazia è benvenuto. Però attenzione: stiamo parlando, appunto, di democrazia. La leadership la decide il popolo con le libere elezioni, non le autoinvestiture». Se ci saranno, lei si candiderà alle prossime presidenziali? «Certo».

Repubblica 28.1.11
Padroni intraprendenti e operai sfruttati i due volti delle nostre Chinatown


Nell´89 a Prato i cinesi censiti erano 38. Oggi, ufficialmente sono 14mila ma nella realtà è probabile che il numero oscilli sui trentamila. Sulla "Chinatown toscana i numeri si rincorrono: 40, 50, 60mila. In ogni caso, sui circa 200mila che la diaspora cinese conta in Italia (la quinta etnia nel Paese), la comunità del triangolo produttivo Prato-Firenze-Pistoia è certamente tra le più importanti ed è, per densità, una delle maggiori in Europa.
L´immigrazione dalla Cina è un fenomeno maturato negli ultimi 25-30 anni, con un andamento e con connotati socio-antropologici che si sono via via modificati, in un rapporto molto sensibile con la madrepatria, paese che a cavallo del millennio è balzato dall´arretratezza economica ai vertici della classifica mondiale.
Sulle "Chinatown" italiane si è scritto molto. Via Sarpi a Milano, l´Esquilino con piazza Vittorio a Roma, l´area vesuviana a Napoli sono alcune delle aree a maggiore concentrazione. Di queste, e delle altre comunità, si è sempre immaginata un´organizzazione gerarchica. Una cupola riconosciuta, capace di tirare le fila all´interno del "fortino" etnico. Nella realtà, a parte le vicende di alcuni boss scoperchiate dalla magistratura, la struttura sociale è perlopiù una galassia di "padroni" che sfruttano lavoratori zagong, operai senza prospettiva di miglioramento. E poi imprenditori passati dal lavoro "massimamente flessibile" per società italiane a una propria filiera produttiva e in continua, spietata, competizione tra loro.
Un´analisi interessante è quella contenuta in "Ombre cinesi?", un saggio di Angela Ceccagno, Renzo Rastrelli e Alessandro Salvati (Carocci editore, 2008). Tra i molti aspetti presi in esame, c´è quello dell´organizzazione cinese che gestisce l´arrivo dei connazionali in Italia. Un´attività "di servizio" che si muove in quel territorio paludoso a metà strada tra il traffiking (reato contro i diritti fondamentali degli esseri umani) e lo smuggling (favoreggiamento di ingressi e transiti illegali nel Paese). La conclusione a cui sembrano arrivare gli studiosi è che si tratti soprattutto di smuggling.
(l. c.)

l’Unità 28.1.11
Marco Paolini e l’orrore della brava gente
L’evento Le centinaia di migliaia di disabili e malati di mente uccisi dai medici e dagli psichiatri del Terzo Reich. La banalità del male, le teorie pseudoscientifiche, le prove tecniche per i lager. Un brano dal monologo «Ausmerzen»
di Marco Paolini


Questi sono gli anni in cui stanno scomparendo i testimoni e abbiamo il dovere di continuare a raccontare la loro storia, le loro
storie. La drammatica vicenda portata in scena mercoledì sera da Marco Paolini a La7 con lo spettacolo «Ausmerzen» è stata resa nota grazie soprattutto al lavoro di medici psichiatri che hanno aperto le cartelle cliniche e gli archivi di luoghi di cura che durante il nazismo divennero luoghi di morte. «Stermini minori» forse rispetto ai luoghi della tradizionale memoria dell’Olocausto, ma soprattutto stermini per lungo tempo celati e rimossi. Non sono molti quelli che questa vicenda hanno studiato e divulgato; in Italia oltre alla psichiatria democratica, che vi ha dedicato approfonditi spazi di riflessione,alcuni studiosi appassionati. Il racconto di Paolini è stato scritto in collaborazione con uno di essi, Giovanni de Martis, e con l’associazione da lui presieduta Olokaustos, e con il fratello Mario Paolini, pedagogista che da anni si occupa di disabilità e formazione di operatori. È un racconto che vuole accompagnare il pubblico in un dialogo di conoscenza, di domande che si aprono, di dubbi scomodi.
«Nel territorio del Reich, tra il 1939 e il 1945 centinaia di migliaia di persone disabili e malati di mente, sono state uccise da medici e persone impiegate in servizi che dovevano essere di cura: chi dice 200.000, chi di più. Cittadini tedeschi: prima degli ebrei, prima degli zingari, prima degli omosessuali, prima dei comunisti: prima di tutti, furono passati per il camino i propri figli mal riusciti, in un mescolio di ragioni razziali pseudoscientifiche ed economiche, non apertamente dette ma sapientemente indotte per cui ciò che accadde per mano di pochi, accadde sotto gli occhi di tutti.
Questa storia non ha testimoni che l’hanno raccontata. I sommersi e i salvati non hanno avuto parola e per molto tempo non hanno avuto rivolte parole, perché erano «meno», perché alla domanda di Primo Levi «se questo è un uomo» ai protagonisti di questa storia una risposta era stata data molti anni prima, nel 1920, con un libro intitolato Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens (Il permesso di annientare vite indegne di vita).
È una storia che è stata schiacciata dai grandi numeri. Per anni è stata tenuta nascosta, la sua conoscenza e divulgazione sono state scientemente rimosse. Da chi? Perché? Come è potuto succedere che medici, infermieri, personale di cura, abbiano compiuto misfatti «di una tale insensibilità, cattiveria e sfrenata brama di uccidere e nello stesso tempo organizzato tutto in modo neutrale e burocratico, al punto che nessuno riesce a leggere queste cose senza un profondo senso di vergogna?», si chiede Alexander Mitscherlich in Medicina Disumana.
Come nelle moderne strategie per nascondere i profitti, si creavano comitati e società inesistenti. L’inganno delle parole. Il sistema di sterminio si fondava sulla collaborazione: il dipartimento facilitava la collaborazione dell'amministrazione pubblica, incluso il servizio sanitario, la cancelleria personale del Führer reclutava i medici, le infermiere e il personale per le uccisioni effettive; mentre i burocrati e i medici lavoravano affinché i genitori dessero il loro consenso.
Pochi uomini in tutto, in poco tempo, in poche parole. Tra il 1939 e il 1941 sono più di 70.000 le persone disabili e malate di mente uccise e tra loro oltre 5.000 bambini. Nel 1941 il programma ufficialmente cessa, per proseguire in modo meno eclatante ma paradossalmente per noi in modo molto più inquietante, all’interno di molte cliniche e ospedali psichiatrici in tutta la nazione, fino a dopo la fine della guerra
Questa è una storia sulla “banalità del male” che molti hanno sentito, moltissimi ignorano, pochi conoscono».

Repubblica 28.1.11
I bambini in pillole
I farmaci prescritti ai piccoli di età compresa tra zero e quattro anni sono aumentati del 29%. E l´eccesso di cura diventa una patologia
di Michele Bocci

Otto bambini su dieci hanno ricevuto almeno una prescrizione all´anno
"Bisognerebbe intervenire sullo stile di vita dei piccoli, come l´alimentazione"

La prima volta è successo a settembre, con l´inizio della scuola materna. A Pietro, 5 anni, è venuta la febbre con mal di gola e placche e il pediatra gli ha dato l´antibiotico. Quattro settimane dopo la guarigione, è arrivato il mal di orecchie. Questa volta ci ha pensato la mamma. Aveva ancora mezza scatola di amoxicillina in casa, ha visto il figlio con la febbre alta e ha rotto gli indugi. E Pietro, che vive a Firenze, ha fatto di nuovo l´antibiotico. Poi, prima di Natale, è stata la volta di un´influenza che ha coinvolto i polmoni spingendo il medico alla cautela: altra prescrizione, altro "derivato" della penicillina. Quattro mesi, tre antibiotici. E durante e dopo mucolitici, farmaci contro la febbre, integratori per rinforzare il sistema immunitario.
I bambini italiani prendono un sacco di medicine, con o senza la ricetta del pediatra. Soprattutto ne prendono di più di un tempo. Aumenta il consumo e aumenta il consumo scorretto, di chi usa un farmaco purchessia alla ricerca della guarigione immediata: magari sbagliando principio attivo e senza rispettare i tempi della cura.
Nel nostro paese, dice il rapporto Osmed sull´uso dei farmaci, tra il 2004 e il 2009 il numero medio di dosi giornaliere di medicinali rimborsabili (cioè di classe A) assunte tra 0 e 4 anni è aumentato del 29% e tra 5 e 14 anni del 19%. Soprattutto il primo dei due dati è molto alto. Nello stesso periodo nessun´altra classe di età ha avuto un incremento percentuale maggiore, anche se ovviamente quando si considerano gli anziani i numeri assoluti sono enormemente superiori, e trascinano la crescita media di consumo e spesa farmaceutica. C´è però un dato su cui i più giovani sono a livello dei più vecchi anche in termini assoluti: le ricette. Si calcola che nel 2004, 7 bambini da 0 a 4 anni su 10 ricevessero almeno la prescrizione di un farmaco all´anno, nel 2009 si passa a 8 su 10 (da 6 a 7 su 10 per la classe di età superiore). «Del resto le famiglie tollerano sempre meno i sintomi, che ci vengono descritti sempre come abnormi, e non vedono l´ora di rimandare il figlio a scuola. Con lui a casa sballa l´organizzazione familiare. Così molti malati non hanno tempo di guarire». A parlare è Paolo Sarti, il pediatra di Pietro (un nome inventato) e di decine di altri bambini come lui, che ha scritto per Giunti "Neonati maleducati - imparare ad essere genitori e riconoscere i propri errori".
La situazione è seria, anche se da noi non si toccano i livelli degli Usa dove, secondo una ricerca pubblicata dal Wall Street Journal, un quarto dei giovani prenderebbe medicine per problemi cronici. «L´aumento di consumo può essere anche dovuto allo spostamento in classe A di farmaci che un tempo non erano rimborsati, come gli antistaminici», tranquillizza Maurizio Bonati che dirige il laboratorio per la salute materno infantile del Mario Negri di Milano. «Certo i fenomeni preoccupanti ci sono, come l´uso di antidepressivi. In Italia stimiamo che li prendano almeno 30mia adolescenti». E i prodotti da banco o non rimborsabili? «È presumibile che questi medicinali segnino una crescita anche più accentuata ma è difficile calcolarla perché la spesa è a carico delle famiglie».
Le medicine che si comprano senza ricetta, come i mucolitici o certi antinfiammatori e antipiretici, sono al centro della partita dell´inappropriatezza, cioè dell´uso di prodotti che non servono per un determinato caso e addirittura potrebbero essere dannosi. Insieme a queste ci sono gli antibiotici (per cui è necessaria la prescrizione) spesso usati anche quando non si è certi dell´origine batterica del problema. Sul punto dell´appropriatezza e sull´aumento dei consumi la Fimp, federazione italiana dei pediatri e, l´Aifa, agenzia per il farmaco, stanno per avviare una campagna informativa con l´obiettivo di ridurre l´uso delle medicine e spingere medici e famiglie a scegliere le molecole giuste. «Stiamo notando un abuso di farmaci - dice Giuseppe Mele, responsabile nazionale Fimp - C´è una richiesta esagerata da parte delle famiglie e invece bisognerebbe intervenire di più sullo stile di vita dei bambini, ad esempio sull´alimentazione da 0 a 3 anni, fondamentale per lo sviluppo successivo. Il farmaco va dato esclusivamente quando serve, bisogna creare cure sempre più personalizzate: è inutile far prendere a un bambino una pasticca per 7 giorni perché va bene a un altro, quando nel suo caso basta una terapia di 3». Per raggiungere questi obiettivi una maggiore presenza dei pediatri con le famiglie non guasterebbe. «Ma noi ci siamo, al di là della visita domiciliare che ormai è una questione risolta dal nostro contratto: si fa solo se il medico ritiene che serva - dice sempre Mele - I nostri ambulatori sono tutti di alto livello, in grado di fare diagnosi con strumenti come il tampone faringeo, l´esame dell´emocromo o delle urine».
Secondo Bonati oltre alle campagne di informazione bisognerebbe fare qualcos´altro. «Siamo il paese con più antibiotici, e non solo, autorizzati. Abbiamo addirittura 29 cefalosporine. L´Aifa dovrebbe pensare soprattutto a ridurre il numero dei farmaci in commercio. E magari realizzare un prontuario nazionale di quelli pediatrici: l´Italia è tra i pochi a non averlo. Così si ridurrebbero consumi e inappropriatezza». Il Mario Negri ha tenuto sotto controllo per anni le prescrizioni dei pediatri. Sono circa 650 i farmaci usati da questi professionisti. «Abbiamo presentato uno studio in cui si dimostra che al medico basterebbe una borsa con 20 principi attivi - prosegue Bonati - per curare il 95% dei bambini suoi pazienti». Quali sono i medicinali usati di più? «Intanto un antibiotico, l´amoxicillina con clavulanico, ma anche il beclometasone, che sarebbe un antiasmatico che si prescrive per fare l´aerosol contro raffreddore e naso che cola. Poi abbiamo le cefalosporine e altri antibiotici come la claritromicina». Non ritiene che in Italia ci siano troppi principi attivi la professoressa Adriana Ceci, componente del comitato pediatrico dell´Emea (agenzia europea del farmaco) e docente a Bari. «La situazione non è dissimile da quella di altri paesi. Le differenze che c´erano tra i mercati si sono molto attenuate. Certo, ad esempio in Olanda c´è un picco di utilizzo di ormoni per le bambine perché si inizia a dare la pillola presto, mentre in Italia lo vediamo tra i bambini piccoli perché si prescrive molto il cortisone per problemi respiratori e comunque banali».
La professoressa Ceci ha fatto una classificazione dei farmaci pediatrici: i principi attivi in fascia A sono 248, per 1.727 prodotti commercializzati. «Oggi - spiega - è imposto che si scriva nel foglio illustrativo se quel medicinale è pediatrico. Il fatto che venga ricordato sulla confezione non significa niente». Il particolare non è irrilevante. Secondo la stessa Aifa, l´80% e il 60% dei farmaci usati rispettivamente sui neonati e sui bambini più grandi sono off label. «Vuol dire - spiega Ettore Napoleone, responsabile del settore farmaci per la Fimp - che magari si è fatto un dosaggio ad hoc, ma non sono stati controllati i loro risultati sui più piccoli». Per questo l´Aifa promuove la ricerca nel settore. Nel 2010 sono partite in Italia 70 sperimentazioni (su 3mila in tutta Europa) per chiarire come funzionano certi medicinali dal punto di vista pediatrico. «È giusto fare questi lavori solo se servono davvero - ammonisce Bonati - Smettiamo di controllare l´efficacia degli antibatterici sull´otite, è già stato fatto decine di volte. I soldi vanno spesi per ricerche utili». Così che Pietro con tutti quegli antibiotici guarisca davvero.

Repubblica 28.1.11
Il paziente spesso si considera un consumatore. E viene assecondato
Le responsabilità di medici e genitori
di Chiara Saraceno


Vi è certamente una grande responsabilità dei genitori nell´uso eccessivo di medicinali da parte dei bambini. L´ansia di fronte ad una febbre molto alta, o che non passa in fretta, ad un intestino che fa i capricci, ad una tosse persistente che scuote il corpo del bambino e non lo fa dormire – sono fenomeni ben noti a qualsiasi genitore, che spingono ad andare dal pediatra per chiedere "qualcosa" che "risolva". Mettiamoci anche le difficoltà organizzative che la malattia di un bambino può comportare per madri che lavorano e non hanno reti di sostegno su cui contare, mentre hanno datori di lavoro e colleghi pronti a indicarle come lavative, sempre assenti.
Un rischio che i loro compagni, padri dei loro figli, raramente sono disposti a condividere, lasciandole sole a barcamenarsi tra richieste diverse e terribili sensi di colpa. Tuttavia, è proprio solo colpa dei genitori, delle mamme? Non credo. Una enorme responsabilità è anche dei medici di base, non solo dei pediatri, nel nostro paese. È noto che sono i professionisti di cui gli italiani si dichiarano più soddisfatti. Molti medici di base e pediatri sicuramente si meritano questo giudizio positivo per la loro competenza e attenzione.
Ma non dobbiamo ignorare il fatto che una parte della soddisfazione dipende dal fatto che, più che un rapporto fiduciario, molti pazienti hanno nei confronti del medico di base un rapporto da consumatori.
Sono contenti perché i medici di base sono sempre pronti a far fare loro tutti gli esami di laboratorio che richiedono, a prescrivere loro tutte le medicine di cui ritengono di aver bisogno, molto spesso senza neppure parlare direttamente con loro, ma per mediazione della loro segretaria. Solo in Italia, che io sappia, è possibile recarsi in un ambulatorio e chiedere alla segretaria la prescrizione di medicine senza passare dal medico. Non solo quando esse sono state prescritte da un medico specialista, ma devono essere convalidate, o meglio trascritte sul ricettario del medico di base (pratica già di per sé assurda), ma anche in seguito ad auto-prescrizione.
Il rapporto fiduciario tra medico e paziente si è rovesciato nella attribuzione di fiducia alla capacità auto o anche etero (quando lo si fa per un familiare) diagnostica dei pazienti. Se i medici resistessero di più alle richieste irragionevoli dei pazienti, dedicando un po´ di tempo a spiegare e ascoltare, forse anche questo atteggiamento da consumatori verrebbe contenuto. I pediatri probabilmente lo fanno in media di più dei medici di base, proprio perché hanno a che fare con bambini, più vulnerabili, ed anche perché più spesso si pongono in un´ottica pedagogica nei confronti dei genitori. Tuttavia si trovano a fronteggiare domande e attese che sono state plasmate non solo dall´ansia e preoccupazione, ma dall´atteggiamento di consumo nei confronti della medicina e delle medicine di cui parlavo sopra.
E spesso cedono, per quieto vivere ed anche per non correre il rischio di denunce in caso di evoluzione negativa della malattia. Anche il tipo di confezioni in cui vengono venduti gli antibiotici e le medicine, specie di fascia A, andrebbe modificato per evitare sprechi e abusi. La tentazione di utilizzare un medicinale "avanzato" per una malattia apparentemente simile non ci sarebbe se, come avviene in alcuni paesi, il farmacista consegna la dose esatta di medicinale, in una confezione personalizzata con il nome del paziente e del medico che la ha prescritta. Ci perderebbero le case farmaceutiche, ma ci guadagnerebbero la salute, l´ambiente, e i bilanci pubblico e familiare. In Italia si consumano molti medicinali, ma se ne gettano anche tanti perché scaduti.

Corriere della Sera 28.1.11
Nel libro per le omelie anche un testo di Vendola
di Angela Frenda


MILANO— È accanto a Madre Teresa di Calcutta, al cardinale Van Thuan e a Charles de Foucauld, come testimone della quaresima nel Sussidio liturgico-pastorale edito dai Paolini e diretto ai sacerdoti, cioè uno strumento per preparare le omelie del tempo liturgico penitenziale. Ma Nichi Vendola questa notizia l’ha appresa soltanto ieri, uscito da una riunione a Bruxelles. Ed è stato subito entusiasta: «Che abbiano scelto il mio pezzo su Don Tonino Bello mi ha molto commosso. Non ne sapevo nulla. D’altronde io amo la Chiesa quando sa accogliere. Quando sa annunciare. Quando è crocevia di salvezza» . Non nasconde, il presidente della Regione Puglia e leader di Sel, di poter essere un personaggio «scomodo» per una parte della Chiesa. Ma rilancia con orgoglio: «So bene che nella Chiesa ci sono coloro che pensano che la mia vita sia incompatibile con la fede. Il mio peccato è di non essere un’ipocrita. Sono pronto a una discussione vera anche sui temi dell’omosessualità. Non mi sono mai nascosto. Perché la cosa che più ho aborrito è l’ipocrisia» . A scegliere il suo pezzo è stato don Giuseppe Turani, parroco di Monte Marenzo, in provincia di Lecco, che ha curato anche l’introduzione dell’opuscolo di 155 pagine. E che ieri, interpellato, mostrando preoccupazione soprattutto per eventuali strumentalizzazioni sulla sua scelta, ha spiegato: «Ho voluto pubblicare la lettera di Vendola perché parla del vescovo Tonino Bello. E credo sia un segnale positivo presentare questo personaggio attraverso una persona che è impegnata in politica. Persona, Vendola, che io so molto religiosa e in gamba. E che io stimo da tempo» . La lettera del presidente della Regione Puglia (pubblicata sulla Gazzetta per il Mezzogiorno del 19 aprile 2010) è idealmente indirizzata a don Tonino Bello, mitico vescovo del Sud da molti ritenuto un santo, scomparso nell’aprile ’ 93, ed inserita nella meditazione per la prima domenica di Quaresima. Scrive Vendola: «Oggi vincono e convincono quelli che non hanno tempo per occuparsi di vittime, di poveri, di esuberi, di quelle pietre di scarto che nel Vangelo saranno pietre angolari dell’edificio della salvezza. Quelli che girano lo sguardo dall’altra parte, quelli che fingono di non vedere l’orrore, quelli che sono gli eroi di cartapesta del nostro immaginario e della nostra etica. Oggi gli afflitti vengono ulteriormente afflitti e i consolati ulteriormente consolati...» . Il governatore della Puglia riflette anche, nella sua lettera, su quella Chiesa che «spesso pare più vocata all’autodifesa che non all’annuncio» . Ad accompagnare la lettera del governatore pugliese, però, è stato inserito dai Paolini anche un boxino legato al tema del perdono dei peccatori, e che è intitolato «La sapienza dei padri» in cui si narra di Bessarione, grande monaco vissuto nel IV secolo. «Capitato in una chiesa durante la predica— scrive la rivista dei Paolini — gli toccò sentire il presbitero scacciare un peccatore, giudicato indegno di stare tra la gente per bene. Bessarione non mosse ciglio, si alzò e uscì con lui dicendo: anch’io sono un peccatore» .

L'Osservatore Romano 28.1.11
La teologia secondo san Tommaso d'Aquino In adorazione discorrendo sull'essere
di Inos Biffi

Nelle attuali ricerche o, come si dice, nel dialogo sul monoteismo - riguardo al quale la fede cattolica professa l'esistenza di un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo - è diffusa la discussione sull'essenza di Dio e sulla possibilità di nominarlo e quindi sul valore dei nomi che vengano attribuiti. Quanto alla denominazione di Dio: parrebbe che nessun nome gli convenga e che nessuna idea ci si possa fare di lui, a motivo della sua trascendenza assolutamente inarrivabile e inattingibile e quindi inconcepibile dalla conoscenza umana, pena la sua riduzione ai confini e quindi ai limiti umani. Ed è come dire che di Dio non si può avere nessun concetto e che ogni concetto a suo riguardo sia destinato a essere equivoco: di Dio non si può parlare, ma solo tacere. Ma, se questo fosse vero, la conseguenza sarebbe un'assoluta teoria dell'ateismo, nel senso che qualsiasi tentativo di raggiungere Dio sarebbe destinato al fallimento, e la stessa Rivelazione risulterebbe vana e impossibile, per l'impotenza e l'improprietà di ogni concetto o "immagine" a riferirsi a Dio. San Tommaso ha riflettuto acutamente e ampiamente sui "Nomi di Dio", sia nel Commento al De divinis nominibus dello Pseudodionigi - uno dei testi più luminosi e vibranti dell'Angelico - sia in altre sue opere, tra cui la vasta e analitica questione 13 della Summa theologiae. In queste ultime possiamo notare come programmatica, l'affermazione: "Noi possiamo denominare Dio a partire dalle creature, ma non in modo tale che il nome che lo significa (nomen significans ipsum) esprima la sua essenza così com'essa è (exprimat divinam essentiam secundum quod est)" (Summa theologiae, i, 13, 1, c.). Noi diciamo che "Dio non ha nome o sta al di sopra di qualsivoglia nome dal momento che la sua essenza oltrepassa ciò che di Dio possiamo comprendere con l'intelletto o significare con la voce" (Ea ratione dicitur Deus non habere nomen, vel essere supra nominationem, quia essentia eius et supra id quod de Deo intelligimus et voce significamus, ibidem, 1m). Non ci è noto il modo di essere di Dio, ma solo il suo riflettersi in modo imperfetto nelle creature: "Così com'è, il nostro intelletto, in questa vita, non lo conosce" (intellectus noster non cognoscit eum ut est, secundum hanc vitam, ibidem, 2m). Infatti, "in questa vita noi lo conosciamo secondo quello che di lui si trova rappresentato nelle perfezioni delle creature" (ibidem, c.). L'affermazione è ripetuta: nessun nome è in grado di esprimere perfettamente quello che Dio è (quod est Deus perfecte): "Qualsiasi nome lo significa in modo imperfetto, così come in modo imperfetto egli si trova rappresentato nelle creature" (unumquodque [nomen] imperfecte eum significat, sicut et creaturae imperfecte eum repraesentant, ibidem, 2, 1m). In altre parole, bisogna distinguere tra "perfezioni significate" (perfectiones ipsae significatae) e "modo di significare" (modus significandi, ibidem, 3, c.). Quanto alle "perfezioni" significate alcuni nomi convengono a Dio in senso proprio, anzi, valgono primariamente per lui - come i nomi indicanti vita, bontà, sapienza, e così via; quanto invece al "modo di significare" non gli convengono in senso proprio: noi conosciamo solo il modo con cui tali perfezioni si ritrovano e si predicano nelle creature, mentre ignoriamo "come" esse si trovino in Dio, come siano in lui la vita, la bontà, la sapienza. In conclusione: noi non siamo in grado di oltrepassare lo schermo, il prisma creaturale per collocarci all'interno di Dio, evadendo lo spazio del mondo creato. D'altronde in san Tommaso sono chiare due convinzioni. La prima convinzione è che "di Dio non possiamo sapere quello che è, ma quello che non è; non siamo in grado di riflettere su come Dio sia, ma piuttosto su come non sia" (De Deo scire non possumus quid sit, sed quid non sit; non possumus considerare de Deo quomodo sit, sed potius quomodo non sit, Summa theologiae, i, 3, introduzione). Dio - ed è il pensiero di Agostino nel De verbis Domini (38, 2, 3) - "non può essere alla portata del nostro intelletto, ma il modo più perfetto di conoscerlo nello stato presente sta nel conoscere che egli è superiore a tutto ciò che il nostro intelletto è capace di concepire, per cui ci uniamo a lui come a uno sconosciuto" (Ipse non potest esse pervius intellectui nostro; sed in hoc eum perfectissime cognoscimus in statu viae quod scimus eum esse super omne id quod intellectus noster concipere potest; et sic ei quasi ignoto conjungimur, In iv Sententiarum, 49, 2, 1, 3m). Anche se la Rivelazione ci ha fatto senza dubbio conoscere Dio più pienamente (plenius), manifestandoci perfezioni e proprietà ignote alla "ragione naturale" (ratio naturalis) - si pensi al suo essere uno e trino. Con tutto questo, la seconda convinzione di san Tommaso è che l'impossibilità di conoscere Dio univocamente, cioè nella sua essenza, non rende equivoco il nostro parlare di lui, ma lo rende analogico, inadeguato sì, ma vero e provveduto di sen- so (analogice, et non equivoce pure, neque univoce, Summa theologiae, i, 13, 5, c). Lo pensano alcuni filosofi che, dopo aver sostenuto vanamente che il Dottor Angelico includeva Dio nell'àmbito degli enti, adesso fraintendono la dottrina sull'assoluta trascendenza divina, giungendo a concepire l'ineffabilità di Dio come una equivocità e a parlare di non-Essere di Dio. Senza dire che una logica alternativa alla conoscenza analogica dovrebbe essere un completo silenzio su Dio, o una teologia totalmente "negativa". Che Tommaso rifiuta per affermare che "Dio si onora sì con il silenzio, non perché non si dica o non si conosca nulla di lui, ma perché, qualsiasi cosa impariamo o conosciamo di lui, ci rendiamo conto che la nostra intellezione ha fallito" (Deus honoratur silentio, non quod nihil de ipso dicatur vel inquiratur, sed quia quidquid de ipso discamus vel inquiramus, intelligimus nos ab eius comprehensione defecisse, Super Boetium de Trinitate, 2, 1, 6m): Dio sta sempre, inarrivabilmente, di là; imprendibile e impercorribile. È la prospettiva anselmiana: Dio è il sempre "Oltre", Colui che non è disposto nella serie, neppure come il primo e il più alto, perché sta nella inconcepibilità (quo magis cogitari nequit). La teologia di Tommaso nasce dall'incessante e gioioso desiderio di comprendere Dio: desiderio che tiene vigile e impegnata la ricerca, che la nutre di speranza, in attesa della visione. Un ultimo rilievo sul Nome divino che ha incantato l'Angelico, quello di Essere. In Dio - egli ripete - l'essenza e l'essere coincidono; "la sua essenza è il suo essere (essentia eius est suum esse)", e questo significa che egli è l'Atto puro e Perfezione illimite. Lasciando trasparire una profonda, anche se come sempre contenuta, emozione, Tommaso definirà la coincidenza tra l'essere e l'essenza di Dio una "Verità sublime" (Haec sublimis veritas, Summa contra Gentiles, i, 22, n. 10), ampiamente dimostrata con la ragione e insieme rivelata a Mosè, il quale la imparò da Dio, quando alla sua domanda si sentì rispondere che il suo nome è "Colui che è". Qualcuno confonde il puro Essere di Dio con la staticità o una distaccata mancanza di sentimenti, per cui sente il bisogno di definirlo come essenzialmente relativo alla creatura, dotato a sua volta di mobili sentimenti, in tal modo concependo Dio a immagine dell'uomo. È vero invece che, se Dio è l'Essere, non lo è nel modo in cui noi abbiamo l'esperienza dell'essere: egli non "è", come "siamo" noi, bensì è in modo tutto proprio, che lui solo conosce e che a noi sfugge, legati tuttora come siamo alle insuperabili restrizioni di creature. Ma ciò non produce tristezza o risentimento; al contrario genera stupore e incontenibile ammirazione, o una specie di confusione che si risolve in adorazione, che diventa sconfinata e si confonde al pensiero che Dio in ogni istante, dal nostro intimo, ci comunica il dono dell'essere che ci fa esistere. Non è necessario aggiungere la preghiera alla teologia o anche alla filosofia dell'essere: esse sono oranti per natura loro.

giovedì 27 gennaio 2011

l’Unità 27.1.11
Primarie a Napoli l’ira di Bersani: alt all’assemblea Pd
Parte la corrente dei bersaniani: «Le primarie non funzionano»
di  A. C.


Battesimo ancora rinviato per la corrente dei bersaniani. Tra il voto su Bondi e il caos per il rinvio dell’assemblea di Napoli, ieri la riunione dei cento parlamentari più vicini al leader Pd si è conclusa con un rinvio. Sarà il prossimo appuntamento, il terzo dopo la prima riunione convocata a metà gennaio, a sancire la nascita ufficiale dell’associazione «Per l’Italia». La riunione di ieri, in serata, è stata monopolizzata dal caos delle primarie a Napoli. «È la conferma delle nostre preoccupazioni: con le regole attuali le primarie non funzionano, creano solo problemi», sintetizza l’umore della riunione Oriano Giovanelli, coordinatore dei bersaniani. «Tra incursioni esterne, divisioni tra alleati e dentro il partito, siamo assai lontani dagli obiettivi che ci eravamo proposti». Cambiare dunque. «E noi lo diciamo da tempo...serve almeno un albo degli elettori, non può votare il primo che passa», sottolinea Giovanelli. A febbraio, in un seminario ad hoc sulle primarie lanciato dall’aera Marino, i bersaniani si faranno sentire. Intanto l’associazione prende forma. «Vogliamo rimettere in moto le migliaia di persone che si erano mobilitate per la battaglia congressuale di Bersani», spiega Giovanelli. «La sua sfida per costruire un vero partito si è rivelata più difficile del previsto, e non vogliamo che il Pd soccomba sotto il peso di personalismi ed egoismi». E ancora: «Non si può andare in una situazione in cui il partito parla a 4-5 voci: per fortuna che nell’ultima direzione abbiamo votato, e che la maggioranza attorno al segretario è più ampia di quella del congresso». Nella nuova area il grosso sono ex Ds, compresi i dalemiani. Ma non mancano innesti “esterni” come i popolari Duilio, Oliverio e Fadda, i prodiani Zampa, Santagata e Levi, il bindiano Zaccaria. «Non vogliamo essere una setta e non cerchiamo posti di potere», dice Giovanelli. «Vogliamo dare una mano al segretario». Previsto un radicamento sul territorio della nuova associazione.

il Fatto 27.1.11
Bersani commissaria le primarie e Saviano candida Cantone
Dopo i brogli napoletani annullata l’Assemblea nazionale
di Vincenzo Iurillo


Primarie caos. Sconquasso all’ombra del Vesuvio. Si va verso il superamento dei nomi del vincitore sub judice Andrea Cozzo-lino e del secondo classificato Umberto Ranieri, divisi da un migliaio di preferenze, con il successo di Cozzolino minato da una pioggia di ricorsi che lo accusano di brogli elettorali e inquinamento del voto tramite accordi inconfessabili con il Pdl locale. Si cerca un terzo nome estraneo ai giochi. Una soluzione che prescinda dalle decisioni sulle primarie dei garanti, che ieri alle 19 sono tornati a riunirsi nella sede napoletana del Pd con l’orientamento di cancellare i seggi-scandalo di Miano e Secondigliano, nei quali il delfino di Antonio Bassolino ha scavato il divario decisivo.
COSÌ Pier Luigi Bersani ha deciso di annullare l’assemblea nazionale del Pd convocata presso la Mostra d’Oltremare di Napoli per domani e dopodomani, che avrebbe dovuto essere il trampolino di lancio del vincitore delle consultazioni. Chiedendo “un immediato incontro alla coalizione di centrosinistra che ha organizzato le primarie per dare una risposta politica convincente ai problemi emersi dalla consultazione, al di là delle determinazioni procedurali della Commissione di garanzia". La nota del segretario nazionale dei Democratici delegittima Cozzolino e prende le distanze dalla segreteria napoletana Pd, ritenuta insufficiente a gestire la situazione. Ma nello stesso tempo di fatto commissaria le primarie napoletane e mette un’ipoteca sulle consultazioni in generale. Chiedendo un incontro alla coalizione che ha organizzato le primarie, di fatto tira in ballo anche Nichi Vendola. Un tentativo di inchiodare anche gli alleati alle loro responsabilità. La mossa del segretario del Pd segue di poche ore l’appello di Roberto Saviano che dalle telecamere della web tv di Repubblica ha parlato di delle primarie di Napoli come una "occasione persa", una "brutta figura" con pesanti sospetti di "voto di scambio", che ha solo una soluzione possibile, quella di "rifare le primarie". Saviano è tornato a rilanciare il nome del giudice antimafia Raffaele Cantone: "In queste ore si rimpiange suo nome, sarebbe stata una garanzia contro tutto questo". Interpellato da Il Fatto Quotidiano, l’ex pm della Dda di Napoli si dice “lusingato, ma per quanto mi riguarda non è mia intenzione candidarmi”, precisando di voler tornare a fare il magistrato a Santa Maria Capua Vetere o nel napoletano “non appena si libererà un ruolo adeguato”. Ma in realtà i giochi non sembrano chiusi. D’altra parte, il nome di Cantone era già emerso nei mesi scorsi su proposta di Veltroni. E Migliavacca ricorda di averlo interpellato ufficialmente a nome del Pd, ricevendone un cortese diniego. Eppure il riluttante Cantone continua a essere invocato come il Salvatore della patria. I Modem, da Giuseppe Fioroni, a Paolo Gentiloni, lo lanciano ufficialmente. Ma anche Franceschini questa volta ne sponsorizza la candidatura. Dalla segreteria provinciale di Idv, che non ha partecipato alle primarie, filtra apprezzamento per Cantone: “Lui e Luigi De Magistris – sostiene il coordinatore Nello Formisano – sono gli unici che potrebbero davvero coinvolgere la società civile, farci dimenticare quel che è successo e ripetere il miracolo del primo Bassolino che emerse, e governò bene, dalle rovine di Tangentopoli. Mentre ora bisogna emergere dalle rovine di queste primarie”.
INTANTO , nel pomeriggio di oggi è previsto a Roma un summit tra i responsabili nazionali Enti Locali dei partiti coinvolti nelle primarie: Pd, Sel, Federazione della Sinistra, Verdi. Parteciperanno anche i vertici napoletani. I vendoliani partenopei che pure alle primarie hanno partecipato sembrano consapevoli che la mossa di Bersani forse è l’unica in grado di muovere le acque annerite dai veleni di questi giorni. E se Ranieri, dopo aver accennato alla necessità di “rifare le primarie”, ha comunque sostenuto di volersi fare da parte, Cozzolino invece non molla e continua a chiedere la convalida del proprio successo: “Domenica scorsa più di 44 mila cittadini hanno partecipato liberamente alle primarie e, legittimamente, hanno scelto il loro candidato sindaco. Dobbiamo saper tutelare la volontà espressa da migliaia di napoletani onesti e rispettare l’impegno di centinaia di militanti, senza arrendersi mai a chi tenta di inquinare il voto. Per domani Cozzolino ha convocato un’assemblea dei suoi sostenitori al Palapartenope.

Corriere della Sera 27.1.11
Le ombre che scuotono il Pd di Napoli
di Paolo Franchi


Pier Luigi Bersani esige chiarezza, e ha perfettamente ragione. Ma, per adesso, l’unica cosa chiara è che l’assemblea nazionale del Pd in programma a Napoli domani e dopodomani— l'assemblea in cui il più grande partito di opposizione doveva finalmente parlare del suo programma di governo— su proposta del segretario è stata sospesa, e rinviata a febbraio. Si tratta di una decisione obbligata, per carità, ma non per questo meno agghiacciante.
Quarantaquattromila napoletani tre giorni fa si sono messi in fila per scegliere il candidato sindaco del centrosinistra. Una festa della partecipazione democratica, la prova di orgoglio di un popolo democrat che, per quante delusioni e amarezze gli abbiano riservato Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino, cerca il riscatto per non offrire su un piatto d’argento Napoli alla destra? Sicuramente ci sarà stato anche questo. E magari, chissà, non ci saranno stati nemmeno i brogli, o le pressioni indebite, o le irregolarità denunciate dai concorrenti sconfitti. Ma le accuse, i sospetti, le recriminazioni hanno cominciato ad accavallarsi quando le urne non erano del tutto chiuse: si va dai capibastone davanti ai seggi agli extracomunitari indotti a votare in cambio di cinque euro, passando per la mobilitazione di pezzi di Pdl, sempre a vantaggio di Andrea Cozzolino, bassoliniano da una vita, europarlamentare e titolare di un consistente pacchetto di voti. E continuano ad andare avanti tra ricorsi alla commissione dei garanti da parte degli sconfitti (il più cauto e preoccupato dei quali è non per caso una persona seria come Umberto Ranieri, che pure ha perso per 1.200 voti) e occupazioni della sede del partito da parte dei sostenitori del candidato vittorioso. Così devastanti da mettere il Pd nelle condizioni di dover sospendere la sua assemblea nazionale. Lasciamo pure da parte i moralismi. Basta conoscere appena un poco la storia recente di Napoli per sapere che una lunga stagione politica come quella bassoliniana non si lascia archiviare in modo indolore, con un libro di riflessioni e qualche intervista: ci sono frangenti in cui la lotta politica si fa molto peggio che dura. Ma non è necessario essere degli inguaribili nostalgici del tempo che fu (anche se chi ricorda la sinistra napoletana di Giorgio Amendola e Francesco De Martino, di Gerardo Chiaromonte e di Giorgio Napolitano qualche nostalgia ha il diritto e forse pure il dovere di nutrirla) per annotare che un tempo, quando c’erano partiti veri, il confronto aperto e, perché no, lo scontro feroce avrebbero investito i gruppi dirigenti, i quadri intermedi, i militanti, gli intellettuali, le associazioni più o meno collaterali: ai contendenti non sarebbe neppure saltato per la testa di delegittimarsi reciprocamente sul piano morale prima ancora che su quello politico, e meno ancora di far dilagare tra gli elettori una simile contesa. I vecchi partiti, che erano comunità fondate su valori condivisi, non torneranno. Quelli nuovi, però, rischiano di deflagrare senza essere davvero mai nati. Si era detto e si dice: provvederanno le primarie. Ma nemmeno il loro più fiero avversario sarebbe riuscito a immaginare una così clamorosa, potente, tragicomica dissacrazione di un istituto che si voleva salvifico. Non invidiamo i garanti chiamati a decidere se le consultazioni vadano o no annullate (onestamente, pensiamo proprio di sì). Vedremo che cosa decideranno. Intanto Roberto Saviano riprende una proposta di Walter Veltroni ed esprime la speranza che, in nuove primarie, si candidi Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, l’unico in grado, dice, di parlare alla coalizione e alla città, e di dare una speranza. L’ammirazione e la stima per Cantone sono fuori discussione, la necessità di combattere a viso aperto la camorra pure. Ma l’idea che l’unico modo per venire a capo dei problemi (drammatici) di un grande partito e di una grande città sia fare appello a un magistrato è già la prova di un fallimento (drammatico) della politica.

Corriere della Sera 27.1.11
Il nodo delle primarie. Veltroni tentato dalla corsa
di  Maria Teresa Meli


ROMA — L’unica consolazione, per il Pd, è che c’è chi sta peggio, ossia la maggioranza Per il resto, quella di ieri è stata una giornata da dimenticare. Il voto sulla sfiducia a Bondi, che è andato com’è andato. Il caos di Napoli che ha costretto Pier Luigi Bersani a rinviare l’assemblea nazionale per paura che i tifosi di Cozzolino e Ranieri si accapigliassero durante la riunione. La rottura della tregua fittizia siglata al Lingotto. E come se non bastasse ecco profilarsi una nuova polemica all’interno del Partito Democratico: quella sulle primarie. Il segretario è convinto che dopo quel che è accaduto nel capoluogo partenopeo occorra «fare il tagliando» a questo strumento. «Bisogna riformarle» , ha ribadito ieri nel corso di un veloce scambio di opinioni con alcuni compagni di partito, ricordando che già tempo fa aveva messo in guardia dai rischi che comportano queste consultazioni: «Possono portare elementi di dissociazione dentro il Pd» . Le parole di Bersani sono sembrate un via libera ai tanti contrari alle primarie, che, non a caso, stanno uscendo allo scoperto, a cominciare da Marco Follini che avverte: «Non facciamone un oggetto di culto, evitiamo l’autolesionismo » . L’offensiva anti-primarie preoccupa la minoranza. «Quel che è successo a Napoli— è l’altolà di Walter Veltroni— non deve essere strumentalizzato per cercare di cancellare queste consultazioni» . E Paolo Gentiloni: «Non bisogna mettere sotto accusa le primarie, guai a buttare il bambino con l’acqua sporca» . Nella minoranza il sospetto che si voglia modificare radicalmente questo strumento, vanificandolo, è molto forte. E si attendono le prossime mosse del segretario per capire fin dove la maggioranza voglia spingersi su questo fronte. Sullo sfondo la tensione in realtà mai sopita tra Bersani e Veltroni contribuisce ad alimentare un clima arroventato. Il segretario e i suoi sono convinti che l’ex leader voglia nuovamente buttarsi in pista in prima persona, che aspiri a contendere a Bersani la candidatura alla premiership del centrosinistra. Non a caso, gli uomini più vicini al segretario hanno cominciato a demolire i contenuti della convention del Lingotto. Da tre giorni circola un documento del responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, che ieri è stato pubblicato dal «Foglio» . In quel testo si sostiene che la maggior parte delle tesi programmatiche presentate da Veltroni sono identiche a quelle propugnate dal segretario, quasi una scopiazzatura, quanto alle altre, quelle che non ricalcano il Bersani pensiero, secondo Fassina fanno invece acqua da tutte le parti. Walter Verini, che di Veltroni è il braccio destro e sinistro, respinge ogni accusa e punta l’indice contro i bersaniani che «vogliono allargare il fossato» tra maggioranza eminoranza. Ma la verità è che l’ex leader del Partito democratico sta veramente meditando di scendere in campo e di presentasi contro Bersani alle primarie. La decisione non è ancora maturata definitivamente perché Veltroni non esclude di passare la mano a un volto nuovo, però la tentazione è forte: «Il Lingotto è andato benissimo e grazie a questa nostra iniziativa il Pd è già risalito di due punti in percentuale nei sondaggi» . Su questo punto, però, la minoranza è divisa. Sia Paolo Gentiloni che Ermete Realacci hanno suggerito a Veltroni di soprassedere. Tra gli ex popolari, poi, c’è un certo nervosismo: non era certo per questa ragione, sostengono, che abbiamo promosso l’iniziativa del Lingotto: che senso avrebbero le primarie fra tre ex pci come Bersani, Veltroni e Vendola? Beppe Fioroni, che degli ex ppi della minoranza è il gran capo, ha cercato di rassicurare i suoi: «Avevamo stabilito sin dall’inizio che la partita della premiership non poteva essere giocata in prima persona e non c’è motivo per cambiare idea adesso» .

l’Unità 27.1.11
Le tute blu Cgil nelle piazze per difendere contratto e diritti
Landini: «Saranno grandi giornate, il consenso sarà altissimo»
Sciopero Fiom, oggi Bologna domani il resto d’Italia
Due giorni di scioperi e manifestazioni: oggi a Bologna e in Emilia, domani nel resto del Paese. La Fiom torna in piazza contro gli accordi voluti da Marchionne per governare gli stabilimenti del Lingotto.
di Giuseppe Vespo


Oggi a Bologna e in Emilia Romagna, domani a Milano e nel resto d’Italia: la Fiom torna in piazza con uno sciopero generale di otto ore che punta a bloccare le fabbriche del Paese e quelle del Lingotto in particolare. Obiettivo dichiarato: portare in strada il «no» agli accordi voluti da Sergio Marchionne per governare gli stabilimenti del Lingotto. Dietro lo slogan «Da Pomigliano a Mirafiori... Il Lavoro è un bene comune ... Difendiamo ovunque contratto e diritti» sono programmate 17 manifestazioni regionali e quattro provinciali.
Si parte dall’Emilia, che anticipa la mobilitazione per evitare un ponte troppo lungo agli operai di Modena, dove lunedì si festeggia il patrono San Geminiano. Ad accompagnare il corteo di Bologna ci saranno Maurizio Landini, segretario generale Fiom, e la leader della Cgil, Susanna Camusso. Con loro, e con le tute blu, sfileranno gli studenti, i movimenti, il Pd regionale e locale con il candidato sindaco Virginio Merola, Idv, Sel, le sigle del centrosinistra, e una delegazione di scrittori capitanata da Carlo Lucarelli. Il corteo si snoderà per i viali cittadini, attraverserà via Indipendenza e si riunirà in Piazza Maggiore.
Domani toccherà alle altre regioni. Landini sarà in piazza Duomo a Milano, in compagnia del segretario confederale Cgil Vincenzo Scudiere e di Gad Lerner, don Andrea Gallo e in collegamento video Gino Strada, fondatore di Emergency. Sul palco saliranno anche gli studenti milanesi che hanno solidarizzato con le tute blu Cgil. La mobilitazione lombarda è stata presentata dal segretario regionale Fiom, Mirco Rota, con un presidio e una mini catena di montaggio allestita a due passi dal Duomo dagli operai di alcuni stabilimenti milanesi.
«Il ritorno che abbiamo dalle assemblee e dai delegati ci dice che saranno grandi giornate, che il consenso sarà altissimo», ha commentato ieri Landini da Torino, dove in vista dello sciopero si è tenuta la manifestazione «Grazie Mirafiori». «C’è grande preoccupazione ha aggiunto il sindacalista ma anche l’idea che non si può accettare la cancellazione dei diritti». Con lo sciopero «vogliamo inoltre chiedere a Federmeccanica di non seguire la Fiat». Il riferimento è al tavolo aperto dagli industriali con Fim e Uilm per un contratto specifico dell’auto e all’idea di alternare il contratto nazionale e quello aziendale a seconda delle esigenze dei diversi stabilimenti.
Tra le manifestazioni di domani, quella di Torino, dove interverrà Giorgio Airaudo, segretario nazionale delle tute blu Cgil e responsabile del settore auto. Per il Veneto, a Padova, ci sarà Giorgio Cremaschi, presidente del Comitato centrale Fiom. A Cagliari, Fausto Durante della segreteria nazionale. In Liguria si terranno quattro manifestazioni provinciali, a Genova, Savona, La Spezia e Imperia, in Toscana a Massa con concentramento davanti alla Eaton. Poi Bolzano, Udine, Massa, Perugia, Ancona, Cassino, Termoli, Pomigliano D’Arco, Bari, Melfi, Vibo Valentia e Termini Imerese.

il Fatto 27.1.11
La Fiom cerca di estendere la lotta Fiat
di Salvatore Cannavò


La prova generale sarà oggi a Bologna dove lo sciopero generale dei metalmeccanici indetto dalla Fiom si tiene un giorno prima, per non creare conflitti con la festa del santo patrono di Modena (che è lunedì, giorno in cui sarebbe obbligatorio lavorare scioperando di venerdì). In piazza Maggiore il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, parlerà insieme al segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, in una manifestazione che si annuncia molto partecipata. In Emilia, del resto, c'è il grosso della Fiom, da qui vengono gli ultimi due segretari generali e soprattutto qui c'è quella imprenditoria diffusa che può costituire l'interlocuzione necessaria a un sindacato che alla Fiat rischia di restare fuori dai cancelli e che il triangolo formato da Confindustria da un lato, governo e Fim-Uilm sugli altri, di stritolare.
LO SCIOPERO è stato indetto come un grande “segnale di avvertimento” alle imprese italiane per ribadire che, se la linea seguita sarà quella tracciata dall’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, allora la Fiom darà battaglia. Perché, come ha spiegato Maurizio Landini nel corso di un’assemblea tenuta all'Università Sapienza di Roma, “l’obiettivo della Fiom è durare un giorno in più di Marchionne”. E così mentre si preparano le piazze per il 28, si guarda già al dopo, all'assemblea nazionale dei delegati Fiom prevista per il 3 e 4 febbraio e che servirà non solo a rinsaldare l’orgoglio di organizzazione, ma anche a definire una strategia vincente per riconquistare i diritti sindacali in Fiat e il contratto nazionale nell'intero settore. Per questo si discute già di “scioperi articolati” che facciano “un danno maggiore alla Fiat ma anche alle altre imprese”.
PRIMA, PERÒ, c'è il 28, che deve essere un successo per estendere poi la strategia. Landini parlerà a Milano in piazza del Duomo, provando a ricostruire il clima e la partecipazione degli anni in cui il sindacato faceva davvero paura. La manifestazione di Milano vedrà anche ospiti di eccezione, come don Andrea Gallo, il fondatore di Emergency, Gino Strada, e Gad Lerner.
Altra giornata importante a Cassino (Frosinone) la fabbrica che è il prossimo passo della riorganizzazione Fiat targata Marchionne. Lì si terrà la manifestazione del Lazio e dove confluiranno gli studenti universitari della Sapienza di Roma. Un sodalizio, quello tra operai e studenti, che sta prendendo sempre più corpo in un imprevisto ritorno agli anni Settanta. Con lo sciopero la Fiom punta infatti a rinsaldare i suoi rapporti con altri movimenti sociali per costruire una rete di relazioni che la renda più forte. Va in questo senso la due giorni organizzata sabato e domenica scorsi a Marghera presso lo storico centro sociale Rivolta in cui sono stati stretti i legami con i centri sociali del Nord-est, quelli di Luca Casarini che ormai sempre più spesso si vede a fianco dell'ex segretario Fiom, Gianni Rinaldini. In questa direzione va anche il convegno organizzato sabato 29 gennaio insieme alla rivista MicroMega di Paolo Flores d’Arcais che batte sulla necessità di un’interlocuzione stabile tra “società civile”, sindacati, studenti per riformare dal basso la politica.
Lo sciopero si inserisce poi nel rapporto sempre complesso con la Cgil a cui la Fiom è affiliata. La presenza della Camus-so oggi a Bologna è un segnale forte di unità interna ma restano le divergenze su quasi tutto: la legge o l’accordo sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro, sulla contrattazione e soprattutto sulla prospettiva dello sciopero generale che la Fiom continua a chiedere e la Cgil a non concedere.
LE ALTRE manifestazioni regionali avranno punti di raccolta obbligati e simbolici allo stesso tempo: Pomigliano in Campania, Melfi in Basilicata, Termini Imerese in Sicilia, Mirafiori per il Piemonte. Anche a Torino sarà alta l'attenzione, dopo il risultato del referendum alla Fiat ma anche per le voci che si rincorrono sulla possibile candidatura a sindaco di Giorgio Airaudo, membro della segreteria nazionale. Le pressioni in città sono molto forti, lui è indeciso e una parola chiara sarà pronunciata dopo lo sciopero, forse sabato. Infine, la giornata del 28 avrà anche una versione internazionale, in Polonia. Il sindacato "Agosto 80" dello stabilimento Fiat di Tychy ha convocato un presidio all'ambasciata italiana a Varsavia e chiederà di essere ricevuto dall'ambasciatore italiano per protestare contro Marchionne.

l’Unità 27.1.11
Intervista a Mohamed Adel
«Vogliamo libertà, l’Europa non chiuda gli occhi»
Il leader del movimento egiziano: «L’Occidente non può appoggiare regimi in bancarotta La gente non ne può più, la protesta non si fermerà»
di U.D.G.


Ci siamo liberati della paura. Possono occupare militarmente le piazze, fare arresti di massa, inasprire la censura, ma le manifestazioni di questi giorni sono l’inizio di qualcosa di grande». A sostenerlo è Mohamed Adel, portavoce del Movimento «6 Aprile» protagonista delle manifestazioni di protesta che stanno scuotendo l’Egitto. «All’Europa afferma Adel chiediamo di non chiudere gli occhi di fronte alle rivendicazioni di libertà che uniscono la piazza di Tunisi con quella de Il Cairo. L’errore più grande che l’Europa potrebbe fare è di sostenere ancora regimi, come quello di Hosni Mubarak, che hanno fatto bancarotta».
Per il secondo giorno l’Egitto è teatro di scontri tra la polizia e i manifestanti che hanno accolto l’appello del Movimento «6 Aprile»...
«Stanno facendo di tutto per sradicare la protesta. Gli arresti si contano a centinaia, il regime ha imposto la censura ai social network Twitter e Facebook, in piazza hanno schierato i reparti antisommossa in assetto di guerra. Questa è la democrazia di Hosni Mubarak...Ma non l’avranno vinta, perché la gente non ne può più di una dirigenza che ha pensato solo a perpetuare il proprio potere, che alle istanze di libertà risponde con la più brutale repressione. Ciò che chiediamo è lo scioglimento del Parlamento, la convocazione di elezioni libere, monitorate da osservatori internazionali. Vogliamo il pluralismo nell’informazione, la fine di ogni forma di censura...».
E per quanto riguarda Hosni Mubarak? «Lui rappresenta il passato, il futuro dell’Egitto passa attraverso la sua uscita di scena».
C’è chi sostiene, in Egitto ma anche in Italia il ministro degli Esteri Franco Frattini, che dietro la protesta ci sono gli integralisti islamici...
«È falso. Chi afferma questo sta offrendo un alibi al regime, divenendo complice della repressione in atto. In piazza la gente grida “pane e libertà”, invoca elezioni libere, si batte per la democrazia. Cosa c’entra tutto questo con l’integralismo islamico? Noi siamo convinti che Islam e democrazia non sono inconciliabili. Non solo. Pensiamo anche che il più forte antidoto contro qualsiasi integralismo sia la democrazia. Quella democrazia negata dal regime».
Cosa ha rappresentato per voi la «rivoluzione jasmine» tunisina?
«Uno straordinario esempio di coraggio. Un messaggio di speranza che tutti i popoli arabi devono raccogliere e riportarlo nelle diverse realtà. Il popolo tunisino ha dimostrato che non esistono regimi intoccabili, che libertà, diritti, giustizia sociale sono principi che possono guidare rivolte popolari e dare un futuro degno di essere vissuto ai giovani. Per questo stiamo lottando. Siamo convinti che le manifestazioni di questi giorni siano solo l’inizio di qualcosa di grande. Nell’89 è stato abbattuto il Muro di Berlino. Ora anche noi arabi stiamo cercando di abbattere i nostri “Muri”...».
Cosa chiedete all’Europa?
«Di sostenere la protesta popolare. Di non avallare la repressione. All’Europa, all’Italia chiediamo di non dimenticare che la libertà di manifestare, il diritto di parola, sono principi universali e non esiste che quei principi non debbano valere in Egitto...».
Il Governo egiziano ha deciso di vietare le manifestazioni di piazza. Qual è la vostra risposta?
«Non ci fermeremo. Non ci arrenderemo. Non ci costringeranno al silenzio. La protesta crescerà come rivolta popolare non violenta, come lo è stata la prima Intifada palestinese. Il simbolo è quel ragazzo che ha fermato un carro armato in piazza Tahrin...Sappiamo che il regime sta già orchestrando delle provocazioni, cercherà di far degenerare la protesta. Faranno di tutto per restare al potere. Ciò che vi chiediamo è di aiutarci ad abbatere il Muro».

Repubblica 27.1.11
Grossman "Israele senz’alibi l’Anp vuole la pace"
Lo scrittore parla delle "carte segrete" "Ora Netanyahu faccia ripartire il negoziato"
"Quei documenti dimostrano che un’intesa è stata vicina. Ma Obama deve aiutarci"
"Abu Mazen è stato il leader palestinese più lucido a cui si è trovato di fronte lo Stato ebraico"
intervista di Fabio Scuto


«Il tentativo di danneggiare il presidente palestinese Abu Mazen con i "Palestinian Papers" non è una buona notizia per gli israeliani. I documenti che stanno uscendo fuori in questi giorni dimostrano che i leader di entrambe le parti in quel momento capirono che bisognava fare concessioni se si voleva raggiungere un risultato. C´era e c´è ancora un partner per fare la pace». C´è un filo di delusione nelle parole di David Grossman, lo scrittore israeliano punto di riferimento per una generazione che alla pace in Terrasanta non ha smesso mai di credere. Spesso bersaglio della destra nazionalista per le sue idee, e che ne teme la lucidità del pensiero per la sua capacità di incarnare un sentimento diffuso in tutto Israele.
I documenti segreti rivelati da "Al Jazeera" stanno travolgendo l´Anp.
«Sono documenti molto significativi, dimostrano che, contrariamente a quanto hanno sostenuto i capi del governo israeliano e che sostiene il premier Netanyahu oggi, abbiamo senz´altro un partner fra i palestinesi, che è possibile far partire il negoziato fra le parti e che anche se le rispettive posizioni non sono tanto vicine è possibile un accordo fra Israele e l´Autorità Nazionale Palestinese».
La mole di documenti è cospicua, che sensazione si ricava alla fine? Davvero si è andati vicini all´intesa?
«Sì! Sia da diverse cose che ho sentito nel corso degli anni da politici israeliani, sia dalla letture di questi documenti, di cui non metto in dubbio l´autenticità, risulta che in quegli anni la leadership israeliana e quella palestinese compresero che le due parti avrebbero dovuto fare concessioni penose. Non c´era ancora la disponibilità a percorrere tutta la strada necessaria, a questo non erano ancora maturi. E la prova di tutto ciò è data dal fatto che questi file vengono presentati come una resa o un tradimento da tutte e due le parti. Sia gli estremisti palestinesi, sia quelli israeliani gridano e si allarmano quando vedono ciò che i loro leader stavano facendo; ma è chiaro che questi leader, quando sono arrivati a quelle intese, rappresentavano la maggioranza equilibrata, lucida e pragmatica dei loro due popoli».
Ma adesso l´Anp è scossa e la credibilità di Abu Mazen è messa in pericolo.
«Il tentativo di danneggiare la credibilità di Abu Mazen non è certamente una buona cosa per Israele e non è nemmeno un bene per i palestinesi. Bisogna vedere esattamente chi, fra i palestinesi, è interessato a danneggiarne la credibilità e capire chi è interessato a mettere in pericolo il futuro di questa regione. Le intese che Abu Mazen è stato in grado di raggiungere e il coraggio che ha rivelato non è stato sufficiente per arrivare ad un accordo, ma sufficiente per mettere in moto un processo, e soprattutto i passi compiuti sul terreno anche dal suo premier Salam Fayyad nella costruzione delle infrastrutture, nella lotta al terrorismo, nella formazione di una sola forza di sicurezza al posto di tante milizie, o mafie armate che dir si voglia. Tutto ciò fa di Abu Mazen il leader palestinese più lucido davanti a cui si è trovato di fronte Israele negli ultimi 60 anni».
Queste rivelazioni di Al Jazeera hanno dato il colpo finale al processo di pace?
«In questo momento è pericoloso fare profezie – e non solo per ciò che sta accadendo ora fra i palestinesi, ma anche per ciò che succede in tutti Paesi arabi nella regione, da Beirut al Cairo, alla Tunisia e chi sa ancora dove – c´è una dinamica che potrebbe peggiorare così rapidamente, per cui i problemi fra Israele ed i palestinesi potrebbero non essere più un argomento così centrale».
Perché è stato scelto questo momento per cercare di screditare l´Anp?
«Sappiamo tutti che nella società araba vi sono forze molto potenti e molto estremiste, disposte a fare di tutto per far fallire la pace animate dall´odio per Israele, per tutto ciò che esso rappresenta. Non rivelo nulla di nuovo, basta aprire i giornali a Gaza, in Libano, in Egitto o in Siria. Qui hanno "annusato" la debolezza dell´attuale leadership palestinese, percependo che la maggioranza dei palestinesi ormai dispera della via intrapresa da Abu Mazen, che è una via di dialogo e di lotta non violenta, perché finora non ha portato alcuna ricompensa né speranza».
Se questa leadership palestinese si è dimostrata la più pragmatica perché Netanyahu non sfrutta questo momento?
«Perché nel profondo non crede che Abu Mazen sia in grado di fare le penose concessioni necessarie per arrivare ad una pace veritiera, che non possa rinunciare al diritto al ritorno dei profughi e teme che Hamas si impadronisca del potere. Farà di tutto per non arrivare ad un negoziato di questo genere. Per questo è necessario un "accompagnamento" esterno molto più attento da parte dell´Europa e degli Stati Uniti perché qui – sia chiaro per tutti sono in pericolo anche i loro interessi. Ho notato che nel suo ultimo discorso alla nazione, Obama ha dedicato solo pochi istanti al Medio Oriente. Penso al suo discorso al Cairo, durante il suo primo viaggio da presidente nella regione, allora parlò di interessi americani nella pace in Medio Oriente. Spero solo che ciò non significhi che anch´egli adesso dispera di noi».

l’Unità 27.1.11
L’economia nazista e la Shoah dei disabili
L’altro Olocausto Bambini «con occhi mongolici» uccisi a due anni, iniezioni letali, sterilizzazioni di massa, camere a gas: lo sterminio dei «minorati» nei manicomi tedeschi fu l’inizio dell’abisso dei Lager
di Massimiliano Boschi


Gusci vuoti», «zavorra umana», «vite non degne di essere vissute», sono quelle che il Terzo Reich decise di eliminare a partire dal 1933. Persone che non solo era lecito uccidere, ma addirittura utile. Perché erano un costo per le casse della Germania nazista e perché «inquinavano» la presunta razza ariana. Il retroterra alla giustificazione dell' eliminazione delle «vite indegne» fu garantito dalla macchina propagandistica del Terzo Reich. Vennero affissi migliaia di manifesti rappresentanti l'immagine di un «minorato» assistito da un infermiere. In alto campeggiava una cifra a caratteri cubitali: «60.000 marchi» di seguito la spiegazione: «Ecco cosa costa una persona che soffre di malattie ereditarie alla comunità tedesca».
Per spiegare meglio il concetto arrivarono i libri in cui si sottolineava come «il costo di cura per una persona geneticamente malata è otto volte superiore rispetto a quello di una persona normale. Un bambino “idiota” costa quanto quattro o cinque bambini sani. Il costo per otto anni di istruzione normale è di circa 1.000 marchi. L'istruzione di un bambino sordo costa circa 20.000 marchi. In tutto, il Reich tedesco spende circa 1.2 miliardi di marchi ogni anno per la cura ed il trattamento medico di cittadini con malattie genetiche». Ergo, meglio risolvere il problema alla radice.
Anche il cinema fece la sua parte: in Opfer der Vergangenheit (vittime del passato), vennero alternate le immagini dei sani e giovani «ariani» con i «degenerati» ospiti dei manicomi. Il film venne proiettato in 5.300 sale del Reich. Un altro film del 1941, Ich Klage an (Io accuso) si spinse più in là e provò a mettere in buona luce l'idea dell'eutanasia di Stato che stava dietro al progetto denominato «T4» che prevedeva la soppressione o la sterilizzazione di persone affette da malattie genetiche o da più o meno gravi malformazioni fisiche e mentali. Si calcola che a seguito del progetto T4 vennero uccisi circa 70.000 «malati di mente», migliaia i bambini, probabilmente più di cinquemila. Erwin Polz, Heinz Frank e Horst Schmidt furono solo tre di queste giovani vittime. Sono ricordati ancora oggi perché citati nel libro di Alice Ricciardi von Platen Il nazismo e l'eutanasia dei malati di mente. I primi due furono uccisi a seguito dell'insistenza dei loro genitori: i medici nazisti, infatti, avevano considerato le loro vite degne di essere vissute, almeno per un altro po' di tempo. Ma i loro genitori presentarono apposita istanza per chiedere che i loro figli venissero eliminati. Per il bene del Reich e della razza ariana. Furono accontentati.
Horst Schmidt, due anni , venne, invece, classificato come «soggetto idiota non recuperabile» dal direttore dell'ospedale psichiatrico di Eichberg che così si espresse rivolgendosi all'apposita commissione: «Il bambino ha occhi mongolici, plica mongolica, lingua tozza, orecchie mal modellate, naso schiacciato, zigomi sporgenti, eccessiva lassità delle articolazioni; è psichicamente ritardato, non è in grado di alimentarsi, né di stare seduto o in piedi. Tuttavia è affettuoso». La risposta del responsabile della Commissione non è che la raggelante comunicazione burocratica della condanna a morte di un bimbo di due anni: «Oggetto: trattamento dei bambini idioti. Con riguardo alla Sua comunicazione relativo al bambino Horst Schmidt, nato l'8.10.1942, Le comunico che non vi è più alcun ostacolo al trattamento del bambino in base alle circolari del Signor Ministro degli interni del Reich, relativamente del 18/8/1939 e del 1/7/1940. La prego di voler comunicare a suo tempo, l'esito del trattamento. Heil Hitler».
Solitamente, per procedere all’eliminazione delle giovani vite i medici scioglievano nel tè dei bambini un barbiturico, il luminal, in dosi via via crescenti, fino a che non sopraggiungeva il coma e quindi la morte. Per i soggetti più resistenti, come ha raccontato Robert Jay Lifton nel suo I medici nazisti, si passava alla morfina o alla scopolamina. Per gli adulti, invece, si pensò a qualcosa di più pratico: un'iniezione letale o la camera a gas. Allo scopo erano stati predisposti appositi centri di eliminazione dove un medico provvedeva all'iniezione o, successivamente, ad aprire il rubinetto del gas. Un modello che venne modificato ed esteso ai campi di concentramento, soprattutto nei territori occupati durante la guerra. Dall'eutanasia di Stato che colpiva i malati di mente, si passò al genocidio degli ebrei. I manicomi aprirono la strada ai campi di sterminio, la fine della guerra lasciò in piedi solo i primi.

l’Unità 27.1.11
E se la memoria si trasforma in industria?
di Tobia Zevi


Viviamo un’epoca strana, schizofrenica. Siamo immersi in un flusso costante di informazioni, e sempre meno capaci di formarci un’opinione consapevole. Il numero di libri pubblicati aumenta perennemente, ma la preparazione reale dei più giovani risulta dalle indagini scoraggiante. Questa situazione produce una divaricazione tra cultura «alta» e cultura «bassa», con reciproco scambio di accuse tra «élitisti» e «mediocri».
Cosa c’entra la memoria? A dieci anni dall’istituzione del 27 gennaio, molti risultati sono acquisiti. La sensibilità è maggiore, soprattutto grazie all’impegno straordinario di testimoni e insegnanti. Però. L’ignoranza rimane dilagante, il fenomeno carsico del negazionismo si perpetua (e una legge servirebbe a poco), molte iniziative sono discutibili. Mi chiamano spesso da varie parti d’Italia: «Mi manderesti un ragazzo a testimoniare? Anche un’oretta può andare...». Ma testimoniare cosa?
Al proliferare di manifestazioni di ogni genere si contrappone una ricerca storica sempre più raffinata – valga come esempio Uomini comuni di Cristopher Browning -, più incline a mostrare contraddizioni e specificità. Secondo lo storico David Bidussa il 27 gennaio non si inserisce in un «calendario civile», una serie di momenti cruciali e condivisi della nostra storia. Questa ricorrenza fa piuttosto parte di un «calendario vittimario» (Giovanni De Luna) per sua natura non collettivo.
Il medesimo iato c’è in letteratura. Se Aharon Appelfeld, decano della letteratura israeliana, riteneva impossibile raccontare il lager, Primo Levi fu capace di elevare il campo di sterminio alla forma di scrittura più alta. Una prosa che, confrontandosi con il male assoluto, doveva ricostruire una propria grammatica specifica, descritta magnificamente nei saggi di Pier Vincenzo Mengaldo.
La letteratura della Shoah nasce dunque consapevole della estrema difficoltà teorica e pratica, e il tema rimane attuale grazie a grandi autori come Daniel Mendelsohn. Nel frattempo, però, la Shoah è anche genere letterario. Non è colpa degli scrittori. Ogni autore ha diritto a essere giudicato per la qualità letteraria della sua opera. Ma il fenomeno resta. Ho letto recentemente Blocco 11 di Piero Degli Antoni (Newton Compton, pp. 248, euro 12,90), un thriller ambientato in un lager assai simile ad Auschwitz. Il volume, ben scritto e assai scorrevole, presenta una vicenda chiaramente fittizia: il comandante del campo rinchiude per una notte dieci prigionieri nella lavanderia, chiedendo loro di selezionare chi debba essere fucilato. Attraverso dialoghi serrati e trasformazioni dei personaggi il testo giunge a una conclusione inaspettata, confermandosi avvincente.
Ma perché ambientare questa storia ad Auschwitz, e non, per esempio, in una prigione del Cile di Pinochet? Perché la Shoah tira. E quando la Memoria si trasforma in industria risponde alla sua logica, non all’esigenza fondamentale di conoscere il proprio passato.
Se vogliamo che la Memoria sia un monito per i giovani, che i giovani sappiano pensarsi come potenziali carnefici oltre che come potenziali vittime, occorre tracciare un nuovo percorso di conoscenza. Doloroso. Un sentiero che unisca la raffinata disciplina scientifica della Shoah alla Memoria come genere di consumo culturale e politico. Per garantire il futuro della Memoria.

il Riformista
Shoah e Storia
Il passato che non deve passare
STERMINIO. Il problema di come “insegnare Auschwitz” non può evidentemente risolversi nel “vedere Auschwitz”. Lanzmann dice cAhe quel lager «non si visita, bisogna arrivarci carichi di sapere».
di Andrea Minuz

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Corriere della Sera 27.1.11
Cézanne, il pittore che temeva le donne
«Le grandi bagnanti» sono espressione di uno sforzo tecnico e interiore
di Rachele Ferrario


Paul Cézanne, l’artista intellettuale, l’inventore dell’arte moderna. Con lui la prospettiva rinascimentale, che per secoli ha rappresentato lo spazio come una «scatola» dove ordinare figure e oggetti, non esiste più: la superficie diventa fluida, ricca di energia, di luce, con molti punti di vista e le forme diventano solide, anticonvenzionali. Cézanne educa gli occhi a osservare, contempla il paesaggio con la mente oltre che con la vista per coglierne la natura oggettiva, per ridurre alberi, case, orizzonti a linee che anticipano Picasso e Mondrian. «Tutto in natura si modella secondo la sfera, il cono, il cilindro— scrive l’artista a Émile Bernard nel 1904 —. Bisogna imparare a dipingere sulla base di queste figure semplici, dopo si potrà fare tutto quello che si vorrà» . Quel che Cézanne vuole «l’unica cosa che conti» è esprimere «la propria sensazione» . Quando nel 1906 dipinge Le grandi bagnanti del Philadelphia Museum of Art è ormai nella fase matura, non deve più scontrarsi con i pregiudizi dei contemporanei. La tela, dipinta a olio, è imponente: due metri di altezza per due metri e mezzo di larghezza, è la terza variante del tema su cui Cézanne lavora dal 1895 (dopo quelle della Barnes Collection e della National Gallery di Londra). Insieme con la serie delle vedute della montagna Sainte-Victoire e ai Giocatori di carte, è uno dei capolavori di Cézanne. Il mercante Ambroise Vollard nella biografia sull’artista nel 1914 scrive: «Per le sue composizioni di nudi, Cézanne usava i disegni che aveva fatto agli esordi nell’Atelier Suisse e per il resto ricordava a memoria quanto aveva visto nei musei» . Di questi disegni, mai usati prima, pare che l’artista avesse i cassetti pieni e li usasse per i suoi studi. Ma alla fine della sua carriera il sogno è «avere modelle nude all’aria aperta» , desiderio irrealizzabile «per molte ragioni, tra cui la più importante è che le donne, anche quando sono vestite, lo spaventano» scrive Vollard. Ad eccezione di una domestica, una vecchia con il volto dai tratti irregolari, di cui Cézanne esclama ammirato: «Guarda, non è bella? Si potrebbe dire che è un uomo!» . Quando Vollard scopre che questa volta il pittore cerca una donna che posi nuda per lui resta sorpreso. Ma Cézanne lo rassicura: «Troverò una vecchia cornacchia (une très vieille carne)!» . Poi chiama una modella, ma dopo un solo studio dal vivo la fa rivestire e la dipinge con gli abiti. Come nelle migliori commedie di Balzac. L’aneddoto spiega il pudore dell’uomo e soprattutto svela la sua ossessione per le bagnanti. Il motivo è antico nella storia dell’arte, ma per Cézanne appartiene alla sua natura di artista e alla sua biografia, è il momento clou delle ricerche, ostinate e severe, sulla forma e sul colore. Le bagnanti sono anche il ricordo della gioventù, delle nuotate con Emile Zola e Baille nell’Arc e nella Torse, rievocate nelle lettere, prima delle sofferenze e della solitudine degli anni parigini. Nella capitale, tra il 1861 e il 1881, i suoi contemporanei non ne riconoscono la novità della pittura, che declina i paesaggi di Poussin in masse oblique e scorci prospettici, al limite della regolarità, che supera la lezione impressionista, cercando la struttura delle forme. Solo nel 1884, quando Cézanne torna in Provenza, all’Estaque, gli artisti più giovani notano le sue opere nella bottega di «père» Tanguy a Montmartre e Gauguin e Signac comprano i suoi quadri: quella generazione capisce subìto la novità della sua espressione e Cézanne resterà il punto di partenza per molti artisti delle avanguardie e del 900 europeo. Schizzi, piccole tele, miriadi di disegni, acquerelli, silenzio, dramma e purificazione: tanto c’è voluto prima di raggiungere questa versione, estrema e serena, de Le grandi bagnanti, con cui Cézanne apre la strada al cubismo, mentre Picasso sta pensando alle sue Demoiselles d’Avignon (1907). Gli alberi proseguono inclinati oltre la tela, come la volta di una cattedrale nel cielo inondato di luce brillante. Le quattordici figure sono eleganti e nobili, classiche e primitive, bilanciano il ritmo dell’intera composizione: sono note solitarie aggraziate e disposte armoniosamente l’una accanto all’altra. Una donna nuota e due stanno sull’altra riva del fiume: Cézanne ha voluto accorciare le distanze e mettere un contrappunto all’infinito, mentre per il nudo frontale, solido, appoggiato all’albero, s’è ispirato alla Venere di Milo, come dimostra un disegno preparatorio. Il gruppo centrale evoca un picnic — la pittura è scarna e come incompiuta— e alcune figure rimandano al dipinto di Domenichino alla Galleria Borghese, La caccia di Diana. «Leggere la natura è vederla attraverso il velo dell’interpretazione» con macchie di colore in armonia, «non esiste la linea, non esiste il modellato, esistono solo i contrasti» , in una parola la «sensazione cromatica» confida Cézanne all’amico Bernard. Così ne Le grandi bagnanti usa toni semplici e equilibrati: verdi, ocra, l’azzurro— che raccomanda di usare intorno ai bordi per dare più spessore atmosferico— acceso da piccoli tocchi di vermiglio. Tutto tende alla trasparenza e alla delicatezza dell’acquerello mentre la tela bianca, che l’artista lascia intravedere, accentua la freschezza della pittura: l’ultimo segreto con cui Cézanne si fa antesignano del moderno. «Ero il pittore della vostra generazione più che della mia» confida a due giovani artisti. Conscio d’essere un precursore.

il Riformista
Céline e la lingua bastarda di un antisemita da leggere
ORRORI. Ha attraversato quelli del Novecento e ne è rimasto invischiato. Ma davvero è stato un carnefice?
di Filippo La Porta

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il Fatto 27.1.11
Medici dell’anima?
Disavventure sul lettino dello strizza
Si discute se escludere il narcisismo dalle patologie psichiche (troppo diffuso per essere a-normale): ma il guaio è districarsi tra mille scuole analitiche
di Elisabetta Ambrosi


Il libro di Elisabetta Ambrosi sottotitolato “Malefatte degli psicoanalisti”. Un sincero appello ai dottori e ai pazienti della psicanalisi moderna. L’autrice ci introduce con pudore nella sua vita privata, a volte lasciando intuire, a volte raccontandosi senza riserve.

Il narcisismo non è più una malattia. La notizia arriva dagli Stati Uniti, dove gli esperti che stanno lavorando alla nuova edizione del Dsm, il manuale per diagnosticare i disturbi mentali ad uso degli psichiatri, stanno discutendo se declassarlo. Il motivo? Troppo diffuso per essere considerato patologico, “a-normale”, appunto. Più che un disturbo di personalità, è un disturbo della società, come aveva capito nel lontano 1979 il pessimista Christopher Lasch, nel suo La cultura del narcisismo.
 Tutti colpevoli, nessun colpevole. Può forse rallegrarsene il premier, i cui comportamenti, dopo il caso Ruby, sono stati descritti sotto il segno della psicopatologia. Un narcisista esibizionista o, meglio, un “narcinista”, narciso e cinico, come lo ha definito Massimo Recalcati sul «Fatto». Tanto che qualcuno ha fatto notare che, oltre al medico e al confessore, avrebbe urgente bisogno di uno psicoanalista. A stendersi sul lettino però non dovrebbe essere solo Berlusconi. Perché, a ben guardare, il premier incarna nevrosi molto moderne. La “sregolazione pulsionale”, l’incapacità di tenere insieme legge e desiderio, la sostituzione del desiderio con il godimento sono patologie di oggi, che affondano le loro radici nella rivoluzione del soggetto di matrice sessantottina. Magari mal interpretata. Ma che comunque ha condotto a una società di uomini e donne, dotati sì di fallo, ma “senza inconscio”, secondo la suggestiva immagine che ne ha dato Recalcati. Uomini che, nella loro adesione all’imperativo del godimento, sessuale o consumi-sta, finiscono dritti dritti nella braccia delle pulsioni di morte.
E DUNQUE , come ha ammesso perfino Giuseppe De Rita, direttore del Censis, le categorie della sociologia non bastano più per spiegare sia la società che la politica. Bisogna tornare a quelle della psicoanalisi. Già, ma di quale psicoanalisi? Perché se è legittimo l’allarme sui fragili elettori-consumatori, lo è pure quello sugli psicoanalisti. Quale terapia potrà davvero curare la perversione ipermoderna del godimento, l’unica vera odierna legge ad personam? E soprattutto: la psicoanalisi funziona ancora nell’epoca della morte del Padre, e della Legge? In Francia, il dibattito è acceso, come testimonia la mole di pubblicazioni – la più discussa quella di Michel Onfray contro Freud (Crépuscule d’une idole). Da noi invece, di psicoanalisi non si parla più. È come se gli specialisti si fossero ritirati sull’Aventino della psiche, lasciando la discussione su malattie e terapie al salotto televisivo dei vari Crepet.
Rispetto della privacy e divieto di fare diagnosi in pubblico, si difendono. Ma non sarà anche che i nostri strizzacervelli, di fronte alle nuove patologie striscianti, quelle sotto il segno dell’ambiguità, come le ha definite la psicoanalista Simona Argentieri, non sono stati capaci di aggiornarsi? D’altro canto, non solo l’efficacia delle teorie, ma anche le competenze dei singoli analisti sono sottoposte a ben pochi controlli. Una volta entrati sotto il cappello di una scuola accreditata del ministero, raramente devono preoccuparsi di qualcosa, perché quando l’analisi fallisce, ammesso che il paziente se ne accorga, il danno è indimostrabile e non risarcibile . Così, tornando all’ipotetico paziente narciso, è meglio avvisarlo del fatto che, qualora decidesse di entrare in analisi, rischierebbe di incappare in due analisti opposti. Se in cura da un freudiano doc, potrebbe trovarsi di fronte una terapia troppo simile al vecchio, e gratuito, catechismo. Un setting obbligatorio di molte sedute a settimana, in studi bui dove analiste severe (e un po’ frigide) invitano il paziente ad un duro lavoro in vista della guarigione morale. Nella quale il sesso ha perso il suo peso originario, sostituito com’è dall’analisi del transfert con l’analista-madre, che farà di tutto per renderlo dipendente da lei.
IL RISULTATO ? Una conversione poco autentica, che finita l’analisi mostrerà le corde. Oppure l’adozione di una doppia verità, ligio a Freud dentro, vanesio pansessualista fuori. Un esito peggiore, però, si avrebbe nel caso di un incontro tra un narciso e un lacaniano. Il linguaggio oscuro, esoterico, in cui si spiega che il desiderio è sempre “altro”, non “possesso”, ma “vuoto”, rischia di avere un effetto paradossale: convincere il fragile sé alla ricerca del godimento della giustezza del suo passare da un fiore all’altro, senza una definitiva scelta mortifera, proprio come insegnava il Maestro. Che malignamente Corinne Maier, nel pamphlet Buongiorno lettino, descrive come “un dandy collezionista, amante delle belle macchine e delle donne. Seduttore (nonostante le sue orecchie smisurate), incapace di rispettare l’autorità, intrattabile e arrogante; apolitico, ma con tendenze conservatrici”.
Due modelli, il disincarnato freudiano assertivo e regolatore, e il lacaniano dissipato, molto simili persino alla nostra politica. L’uno al centrosinistra che, come ha scritto Ida Dominijanni, “occupa il campo della Legge svuotandolo della sua forza simbolica”; l’altro al centrodestra, “che occupa il campo del desiderio svuotandolo della sua forza creati-va”.
Se esistono analisti capaci di curare il nostro nar-cinismo, allora, battano un colpo, intervengano nel dibattito. Raccontando cos’è la psicoanalisi e perché serve ancora, quali sono i suoi strumenti e le sue idee forti, in un’epoca di passioni deboli e organi sessuali troppo sviluppati. In questo caso siamo disposti a stenderci sul lettino, assieme al Caimano. Purché, per favore, ci aiutino a trovare il desiderio. Nel pubblico e nel privato.

Repubblica 27.1.11
Scoperta la proteina che incolla la memoria
Potrà essere usata anche per far svanire quelli sgraditi, bloccando i recettori di Igf-II subito dopo una scena traumatica
di Elena Dusi


Cristina Alberini, neurologa alla Mount Sinai School of Medicine di New York
È una sostanza naturale, se viene iniettata nel cervello è in grado di fissare ogni dettaglio dell´esperienza I ricercatori americani, guidati da una scienziata italiana, convinti che potrebbe essere impiegata sull´uomo

L´elisir della lunga memoria è una proteina che si trova nel cervello: si chiama Igf-II e funziona come chiodi e martello, che fissano nella testa un ricordo per non farlo staccare più. A provarlo per il momento sono stati alcuni ratti in laboratorio, che non hanno dimenticato neanche un dettaglio del percorso più adatto per evitare le piccole scosse elettriche piazzate come trabocchetto dai ricercatori.
Igf-II è la sigla di "fattore di crescita insulino-simile II". Si tratta di una proteina prodotta in molti tessuti del corpo che all´interno del cervello si concentra nell´area dell´ippocampo, non a caso considerato la "centrale di formazione e smistamento" dei ricordi. Non stupisce nemmeno che la produzione di Igf-II sia massima nei primi anni di vita per declinare gradualmente con l´età.
Se per i roditori dell´esperimento raccontato oggi su Nature si è scelto di iniettare Igf-II direttamente nell´ippocampo, somministrare la proteina agli uomini non sarebbe così complicato. Basterebbe infatti una normale iniezione o addirittura uno spray nasale. Il fattore di crescita è infatti una delle rare molecole capaci di oltrepassare la severissima barriera di protezione che avvolge il cervello e lo ripara dall´ingresso di sostanze pericolose. Fra gli scrupoli dei ricercatori c´è piuttosto quello di non intaccare un meccanismo estremamente raffinato come quello che regola la formazione o l´eliminazione dei ricordi: tasti profondi della nostra personalità.
Gli scienziati, guidati dall´italiana Cristina Alberini della Mount Sinai School of Medicine di New York, vogliono prima di tutto capire nei dettagli quella complicata fase dell´apprendimento che porta alla formazione dei ricordi indelebili. Si tratta di un processo che dura due o tre giorni dal momento in cui l´esperienza viene registrata, sia essa un evento che ci accade, la lettura di un libro, l´ascolto di una canzone o, come nel caso delle piccole cavie, il fastidio di una scossa elettrica.
Durante il processo di formazione dei ricordi, i neuroni formano fra loro nuove connessioni. In una seconda fase, varie sostanze chimiche rafforzano e consolidano questi legami. È qui che i ricercatori hanno individuato in Igf-II una delle "colle" più potenti. Il cervello la produce in maniera del tutto naturale soprattutto nell´intervallo tra le 20 e le 36 ore dopo l´esperienza da immagazzinare, a dimostrazione che il consolidamento dei ricordi è un fenomeno più lungo e complesso del previsto. Questo processo, fra l´altro, si ripete ogni volta che richiamiamo alla mente un ricordo: come se dopo aver ripescato una scatola dallo scaffale dovessimo sempre compiere un altro sforzo per rimetterlo al posto giusto.
«È la prima volta scrivono i ricercatori di Nature che riusciamo a potenziare in maniera così netta la memoria, usando una sostanza prodotta naturalmente dal nostro organismo, in grado di oltrepassare la barriera fra sangue e cervello e quindi utilizzabile nella pratica clinica». Nel mirino degli scienziati ci sono soprattutto malattia di Alzheimer e le varie demenze senili che rischiano di minare le facoltà mentali di un´umanità sempre più anziana.
Ma oltre a fissare i ricordi utili, la scoperta potrà essere usata anche per far svanire quelli sgraditi, bloccando i recettori di Igf-II subito dopo aver vissuto una scena traumatica. Fino a ieri gli studi di neurobiologia si erano concentrati su questo secondo obiettivo. Ma è evidente quale sarebbe l´appeal di mercato di una pillola capace di potenziare la memoria. Un´indagine condotta due anni fa da Nature tra i suoi lettori rivelò che una persona su cinque, sia pur perfettamente sana, aveva assunto uno dei farmaci usati per combattere i sintomi dell´Alzheimer come "benzina" per migliorare le proprie capacità cognitive.

Repubblica 27.1.11
"Utile per la cura dell´Alzheimer ma nei sani arma a doppio taglio"


Vent´anni a tu per tu con la memoria e lo studio dei suoi meccanismi cerebrali. Cristina Alberini, laureata a Pavia, lavora da un paio di decenni negli Stati Uniti e oggi dirige il laboratorio di Neurologia dell´apprendimento e della memoria alla Mount Sinai School of Medicine di New York.
Ricordare tutto sarebbe poi così vantaggioso?
«Prima di pensare a Igf-II come a un´arma per potenziare la memoria bisogna verificare che non ci siano effetti collaterali. E anche in quel caso, sarebbe uno strumento da usare con cautela. Ricordare troppo ha infatti i suoi svantaggi. Igf-II tra l´altro funziona solo in determinate finestre temporali: andrebbe somministrato immediatamente dopo l´apprendimento».
Come scegliere i ricordi? Non si rischia di memorizzare troppi particolari irrilevanti?
«Sì, e sovraccaricare il cervello di ricordi rallenta la formazione di nuove memorie. Mi piace pensare il nostro studio non tanto per potenziare le facoltà delle persone normali, ma per ottenere informazioni per curare i pazienti affetti dall´Alzheimer e da tutta quella galassia di malattie che compromettono la capacità di ricordare».
(e.d.)