«Mi spaventa il potere di uccidere»
di Pietro Ingrao
Ingrao & Bettini
LUNEDÌ SERA, alle ore 21, al Teatro Argentina di Roma verrà presentato il libro di Goffredo Bettini A chiare lettere. Un carteggio con pietro Ingrao e altri scritti (Edizioni Ponte Sisto, pp. 220, euro 12). A discutere con l’autore, guidati da Barbara Palombelli, saranno Giuliano Ferrara, Anna Finocchiaro, Mario Tronti e Sergio Zavoli.
In questa pagina anticipiamo brani da due lettere inedite - che risalgono all’ottobre scorso - in cui Pietro Ingrao e Goffredo Bettini dialogano su temi, apparentemente «distanti», come il cinema, la pena di morte, la guerra e l’impegno poltico. Ingrao, nella sua lettera, parte dal film di Charlie Chaplin, Monsieur Verdoux, e inizia una riflessione sulla pena di morte (collegando la vicenda del film a quella, recente, di un condannato a morte negli Stati Uniti). Da qui il ragionamento si allarga, attraverso ricordi personali, al tema del carcere, della privazione della libertà e della tortura, per estendersi alla guerra.
Bettini, nella sua risposta, dopo aver argomentato sulla capacità del cinema di affrontare importanti problemi sociali (cita i casi di film come Umberto D e Germania anno zero), e dopo il racconto della sua personale esperienza politica, intrecciato con episodi della sua vita, risponde ad Ingrao sui temi della pena di morte e della guerra.
Caro Goffredo,
(...) La pena di morte ancora oggi è strumento largamente praticato in grandi imperi, in molti paesi del mondo. Si stima che siano attorno ai sessanta i paesi in cui la pena di morte è parte codificata e praticata del sistema punitivo. La grande Cina in testa a tutti: si calcola che in quello sterminato paese siano a migliaia i condannati a morte (circa il 98% del totale mondiale): segue l’Iran (197 le condanne accertate), e ancora l’amato Vietnam per cui si contano 82 esecuzioni capitali, e ancora la Corea del Nord, l’Arabia Saudita con almeno 38 giustiziati, il Pakistan 29, il Bangladesh 17, il Kuwait almeno 9. Quanto alla Cina le cifre parlano di un uso che direi «normale» della pena capitale con un ritmo che si potrebbe definire continuo.
E stringe il cuore se il ricordo va all’amore (questa è la parola) che ci ha stretto a quel paese come simbolo di liberazione e speranza di un nuovo mondo. I numeri si dilatano ancora di più se si va al calcolo dei cittadini cinesi finiti in galera; si giunge a cifre agghiaccianti, incredibili: nell’arco del 2005 sarebbero finiti nelle galere circa ottocentomila cinesi, e la repressione avrebbe colpito non solo il delitto, l’uccidere, ma largamente e penosamente anche il dissenso politico. Una flebile speranza sembra ora venire dalla decisione - probabile - del governo di restituire al potere centrale - alla Corte suprema del popolo - la facoltà esclusiva di approvare le condanne a morte.
Ma il quadro va assai oltre quell’immenso paese che abbiamo amato con tutta l’anima. L’Asia ne è investita: e questo per me è ancora più amaro, se penso alla rapina e alla violenza che nei secoli passati noi europei abbiamo portato in quello sterminato continente. E il quadro si fa più amaro se penso alla rete di convinzioni, all’idea dell’umano che entrano in campo, quando ci arroghiamo il potere di cancellare dalla vita gli esseri umani: i nostri simili.
E poi, non è singolare, curiosamente contraddittorio l’impegno enorme e le alte conquiste che abbiamo toccato nella cura delle malattie, e la passione trascinante dell’uccidere che coltiviamo da secoli. «Nessuno tocchi Caino»: ricordi quella ammonizione solenne che è entrata nei nostri pensieri, così densa nei suoi significati: un nuovo comandamento rispetto a quelli che apprendevo fanciullo sul grembo di mia madre.
E qui la riflessione si dilata: non riguarda più soltanto il dilemma elementare fra la vita e la morte; torna il tema della regola comunitaria, e della sua tutela. Se ripudio l’uccidere e cancello la pena capitale, come risponderò alla violazione della regola? Se rispetterò la vita del colpevole, come risponderò alla sua colpa o al suo errore? Che risposta, che vincolo metterò in campo?
Vedi Goffredo: qui io mi spavento: quando chi ha tutto il potere nelle mani, uccide. E lo fa quando ormai il condannato è prigioniero nelle sue mani. Perché entro in allarme? Perché l’altro - quello che è giudicato colpevole - è già mio prigioniero, serrato in una cella circondata da armati. Perché allora voglio ucciderlo? Per punizione. Una punizione che cancella dall’esistere. Espelle da quella esperienza unica sulla terra che noi chiamiamo vita, mondo.
Adesso uso una parola delicata che è pentimento. Goffredo, tu sai già con quale prudenza e riluttanza io accetti questo termine, e non perché non riconosca i miei peccati, ma il pentirsi rimanda a un aspetto sacrale. E io invece sono laico.
Mia moglie Laura mi ha guidato a vivere un’esperienza per me cruciale. Io, negli anni duri della cospirazione, avevo avuto la grande fortuna di non finire in galera: riuscii a fuggire, a un passo dall’arresto, quando un gruppo di compagni con cui cospiravo era già finito in manette. Mi salvai dalla polizia fascista (che mi cercava) dandomi alla clandestinità nelle montagne della Sila: per mesi nascosto in una capanna solitaria, una specie di reggia per topi da cui mi difendevo accendendo un gran fuoco prima di addormentarmi e poi arrampicandomi su un pagliericcio.
In seguito, nell’Italia liberata, fu mia moglie Laura che mi guidò più volte dentro le mura di Rebibbia. Forse lo sai: Laura faceva scuola ai detenuti, e per parecchi di loro era divenuta una specie di madre o sorella con cui continuò un rapporto anche quando alcuni di quei prigionieri divennero finalmente liberi.
Tra le mura dolenti di Rebibbia vidi presto quanto era difficile avviare un dialogo con chi aveva violato la legge e fatto del male al prossimo, e ora doveva ricostruire la sua vita dentro le strette mura di una cella. Provai una stima enorme per coloro che in quel carcere aiutavano quei condannati a ricostruire - se possibile - una loro integrità di esistenza civile. Appunto: i dirigenti di quel carcere romano erano umani e aperti. Avevano cercato di costruire collegamenti tra quei prigionieri e il mondo, attraverso l’aiuto di volontari che contribuivano a tenere un esile filo di relazione con le loro famiglie, la loro terra, il loro mondo. Stare serrati dentro un carcere, separati dal loro cielo e dalla loro famiglia: come deve essere aspra quella condizione!
Guidato da mia moglie cominciai a riflettere sui modi per aiutare quei rinserrati a ricostruirsi una vita umana. Non credevo molto alla punizione: alla sua utilità. Speravo nel dialogo e nell’incontro. Quale salvezza difficile per quei condannati era quella da costruire tra quelle mura. Esclusi dal proprio mondo e persino dalla aspra ma creativa esperienza del lavoro in società: nella durezza, ma anche nell’invenzione e trasformazione che esso genera.
Non ho potuto mai dimenticare la malinconia struggente che mi prendeva quando, al calar della sera, Laura e io salutavamo quei coatti e ci appressavamo al pesante portone di metallo che separava quei reclusi dal mondo libero. Quel mondo spaccato: diviso tra criminali e onesti.
(...) Ho visto tornare sulla scena la tortura. Mi ricordo che quando da giovane ero impegnato nella cospirazione, più del carcere temevo il mio cedimento: temevo che sotto l’incalzare dei poliziotti aguzzini tradissi e rivelassi informazioni sui miei compagni di lotta. Non dimenticherò mai quel compagno giovanissimo, Gianfranco Mattei, che si impiccò in carcere per timore di svelare nomi e rifugi dei compagni ancora liberi.
Ora ho appreso il nome triste di Guantanamo; e ho visto - come milioni nel mondo - l’immagine di prigionieri irakeni torturati da militari americani: esseri umani con la testa e gli occhi serrati in un triste cappuccio e la parte bassa del corpo nuda, a mostrare parte del ventre, le spoglie gambe e quel luogo segreto del sesso che tanti moralisti nei secoli hanno usato chiamare le nostre «vergogne». E torna la riflessione su quella singolare condizione dell’umano che mischia il pensiero e la carne, la nostra infinita immaginazione e la nostra cruda debolezza corporale.
Qui, di colpo, il mio ragionamento si arresta, perché temo il ridicolo. Temo un ascoltatore che mi guarda e mi dice: «tu protesti per un prigioniero incappucciato o anche per un criminale mandato al patibolo, ma non t’avvedi che c’è una guerra che ormai dura da anni e fa migliaia di morti innocenti, devasta città, cancella strade, distrugge ospedali, mette a sacco nazioni?». Già. È così. E altre guerre si sono appena spente. Altre covano sotto la cenere. (...) Dopo due guerre mondiali, durate anni e anni, la guerra è tornata. Una guerra nuova: preventiva, ci spiega il capo del più grande impero mondiale, il quale ordina l’uccidere in massa per prevenire l’uccidere. Tutto questo in fondo noi tutti l’abbiamo accettato: sì, qualcuno protestando, ma l’abbiamo accettato. Non c’è stata ribellione: certo, non ribellione di popoli. Forse perché la guerra oggi sa truccarsi? O perché siamo reclusi ciascuno nel nostro nido di nazione?
Eppure, se vado indietro, lontano nei secoli, trovo ancora e sempre la guerra. E la vedo gradualmente ma potentemente allargarsi sino a coprire il mondo: la prima e poi la seconda volta, sino a produrre milioni di morti, e a inventare sistemi raffinati per razionalizzare l’uccidere legale, l’uccidere di massa.
Pietro Ingrao
ottobre 2007
ottobre 2007
«Sì, è quando la politica diventa gusto del dominio»
di Goffredo Bettini
Caro Pietro,
torniamo a parlarci per lettera, con il piacere di scavare interrogativi comuni (...) Ho cercato di ragionare attentamente sul tema della pena di morte, che tu poni con tanta crudezza. È solo una punizione sbagliata? O c’è qualcos’altro che chiama in causa una inesorabile tendenza degli esseri umani a uccidere i propri simili? Cosa soddisfa questa tendenza? Cosa tacita? Perché l’esempio del patibolo tranquillizza tante masse di benpensanti?
Ho l’impressione che nel togliere la vita, e nel sopravvivere, si lenisce una profonda paura della propria morte, che ognuno, consapevolmente o inconsapevolmente, prova dal momento in cui viene al mondo. Noi veniamo dal nulla, e torniamo nel nulla. Eppure nell’arco dell’esistenza, con il nostro pensiero possiamo immaginare ripetuti all’infinito i piaceri della vita. I suoi colori, i suoi amori, le sue passioni, le sensazioni che attraversano il nostro corpo. Quel corpo si deteriora. Carcassa destinata a finire. Questa contraddizione, se pensata, risulta insopportabile. Il nostro animo si arrovella per renderla meno stringente e lancinante. La rimuove. Oppure, beati coloro che ci riescono, abbraccia una fede: che qualcosa continua, che la vita si trasforma da terrena in celeste.
Tuttavia l’assurdità di questa condizione rimane viva in tutti nelle parti più nascoste. Ci sono parole bellissime del cardinal Martini, che la illumina, con l’intensità di uno spirito religioso. Ci illudiamo, talvolta, di combattere e sconfiggere il nostro limite, lasciando ai posteri qualche segno della nostra immortalità. La politica, allora, si presta al gioco. Da tecnica «regia» che coordina le altre tecniche per migliorare l’esistenza delle comunità, secondo giustizia e un disegno razionale, deborda. Si innamora di se stessa. Diventa gusto e ostentazione di forza, non solo al servizio di un riequilibrio talvolta necessario, ma per il gusto del dominio. Da qui sono nate molto tragedie. Il dominio spesso tende a farsi assoluto. La potenza si gonfia fino a simulare la mano e la volontà di Dio. L’uomo mima Dio. E in quella messa in scena, esso spera di allontanare la morte e di difendersi dall’angoscia che il suo pensiero condensa. Dare la morte è il punto massimo di vicinanza a quel potere assoluto. Elias Canetti descrive la soddisfazione del «sopravvissuto». La morte dell’altro come conferma della propria vita. E James Hillman riflette sull’attrazione che suscita la guerra; come nelle battaglie, guardando in faccia la morte e attraversandone concretamente la paura, il soldato, sollevato da un vincolo interiore, si sente più libero, pronto ad atti eroici, o all’espressione di sentimenti di amicizia, d’amore, di solidarietà, i quali, nella vita normale, difficilmente riesce a provare.
Tutto questo ci dice, caro Pietro, come sia difficile la ricerca di una politica che cambi le cose e sappia limitarsi, che rivoluzioni senza poi ossificarsi, che elimini i carnefici senza crearne altri, che crei reti di comunicazione e solidarietà invece che gerarchie, magari rassicuranti, ma oppressive, che faccia prevalere nell’umano l’energia positiva della vita, invece che l’istinto di morte per paura della morte.
Se il Novecento è stato attraversato dalla grande politica, oggi sembra soverchiante l’antipolitica. Si dice che la politica stia invadendo tutto. Forse. Ma per eccesso di forza o per debolezza? La ricerca del potere per il potere, credo sia la dimostrazione di un’ansia e di una insicurezza del «politico» a fronte di tante potenze di fatto che sostanzialmente governano il mondo. Si cerca così di accaparrare uno spazio personale, ma cade l’ambizione del progetto e di un coordinamento più alto. E i politici, sensali di giornata, rinunciano all’egemonia, alla qualità, alla creatività, necessarie per tenere insieme una comunità.
Non resta che riporre una fiducia cieca e interessata nella rapidità dello sviluppo della tecnica e della scienza, sperando che esso sia più veloce del degrado che l’azione umana determina. Come nel caso dell’ambiente, che apre una domanda seria sulle capacità e volontà della nostra specie di curare la propria esistenza e sopravvivenza. Trionfano il nichilismo e l’assenza del soffio umano nelle decisioni. La combinazione delle cose è determinata dagli interessi; la misura è la quantità; la forza fa il merito delle cose e tacita lo spirito critico. Non abbiamo ancora valutato (tu sì, anche un po’ troppo solitariamente) quanto la guerra dell’Irak sia stata in questo senso uno spartiacque. Gli Usa hanno deciso una guerra illegale, l’hanno motivata con la presenza di armi chimiche che poi si è verificato non esserci mai state, hanno bombardato città e ucciso civili, donne e bambini, e hanno torturato i prigionieri. Bene. Io sono contento che sia stato tolto di mezzo l’odioso Saddam, come criminale di guerra. Ma lì il criminale non era solo lui. Tranne inchinarsi senza ritegno alle ragioni dei vincitori.
Ma ancora. Ci disperiamo per la Birmania. Ma non tocchiamo la Cina. Anzi, quando la visitiamo per accordi commerciali, stiamo attenti a non infastidirla parlando troppo dei diritti civili. Perché la Cina è forte, ricca, conveniente. La verità è che siamo anime belle solo con chi ha poca possibilità di farci pagare prezzi veramente salati. (...)
Con affetto e gratitudine,
tuo Goffredo
tuo Goffredo
Repubblica 10.11.07
La memoria del male e l’identità dell’Europa
di Tony Judt
PER quanto nazismo e comunismo fossero completamente diversi negli obiettivi (anche se, come diceva Aron, «c´è differenza tra una filosofia dalla logica mostruosa e una filosofia alla quale può essere data un´interpretazione mostruosa»), si tratterebbe di una magra consolazione per le vittime. Le sofferenze umane non dovrebbero essere misurate sulla base dei fini perseguiti da chi le ha inferte. Insomma, per chi è stato maltrattato o ucciso, un gulag comunista non è né meglio né peggio di un campo di concentramento nazista.
Allo stesso modo, l´importanza assegnata ai "diritti" (e a un risarcimento per chi ne ha subìto la violazione) dal moderno diritto internazionale e dalla retorica politica ha fornito un ottimo argomento a chiunque sia convinto che le proprie sofferenze e perdite non siano state adeguatamente riconosciute e risarcite. In Germania alcuni conservatori, prendendo spunto dalla condanna internazionale della "pulizia etnica", hanno espresso le rivendicazioni delle comunità tedesche espulse dalle proprie terre alla fine della seconda guerra mondiale. Per quale motivo, domandano, dovrebbero essere considerate vittime di categoria inferiore? Quale differenza c´è tra ciò che Stalin aveva fatto ai polacchi o, più recentemente, Milosevic agli albanesi, e ciò che il presidente della Cecoslovacchia Benes aveva fatto ai tedeschi dei Sudeti dopo la fine della seconda guerra mondiale? Nei primi anni del nuovo secolo, in alcune rispettabili cerchie si parlava di erigere a Berlino ancora un altro monumento: un "Centro contro le espulsioni" museo dedicato a tutte le vittime delle pulizie etniche.
Quest´ultimo sviluppo del dibattito – con la sua implicita tesi che tutte le forme di sofferenza e oppressione collettiva sono in sostanza paragonabili, addirittura intercambiabili, e deve quindi essere loro accordata la medesima memoria – ha suscitato un´aspra reazione da parte di Marek Edelman, l´ultimo leader della rivolta del ghetto di Varsavia ancora in vita, che, nel 2003, firmando una petizione contro la creazione del sopra menzionato centro, ha esclamato: «Hanno davvero sofferto così tanto? Ovviamente, è una cosa molto triste essere cacciati fuori di casa ed essere costretti ad abbandonare la propria terra. Ma gli ebrei hanno perso le case e tutti i parenti. I trasferimenti forzati sono causa di sofferenze, ma il mondo è pieno di sofferenza» (Tygodnik Powszechny 17 agosto 2003).
La reazione è un tempestivo e opportuno richiamo ai rischi che si corrono indulgendo in maniera eccessiva al culto della commemorazione e ponendo al centro dell´attenzione le vittime anziché i colpevoli. Da un lato, non esiste in teoria limite alle memorie e alle esperienze degne di esser ricordate e richiamate in superficie. Dall´altro, commemorare il passato con monumenti e musei è anche un modo per tenerlo sotto controllo e persino per trascurarlo, lasciando ad altri la responsabilità di conservarne la memoria. Sino a che ci sono state persone che avevano ancora un autentico ricordo, per diretta esperienza individuale, la cosa non ha probabilmente rappresentato un problema. Ma ora, come l´ottantunenne Semprun ha ricordato ai compagni di prigionia il 10 aprile 2005, in occasione del 60º anniversario della liberazione di Buchenwald, «il ciclo della memoria vivente si sta chiudendo».
Anche se l´Europa potesse in qualche modo rimanere indefinitamente aggrappata a una memoria vivente dei crimini passati (che è proprio quanto i monumenti e i musei hanno lo scopo di ottenere, per quanto inadeguatamente), la cosa avrebbe ben poco senso. La memoria è, per sua stessa natura, polemica e faziosa: il riconoscimento di un uomo significa l´omissione di un altro. Ed è anche una guida mediocre per orientarsi nel passato. L´Europa dell´immediato dopoguerra è stata costruita e si è fondata su una deliberata distorsione della memoria, sull´oblio come stile di vita. Dopo il 1989, è stata invece riedificata su un eccesso compensativo di memoria: una rammemorazione pubblica istituzionalizzata come pilastro fondante dell´identità collettiva. La prima non ha potuto durare a lungo, ma anche la seconda non è destinata a molto di più. Un certo grado di omissione e persino di oblio è presupposto essenziale per la salute civica.
Ciò non significa invocare un´amnesia. Prima di poter iniziare a dimenticare, una nazione deve aver ricordato qualcosa. Sino a quando i francesi non hanno preso coscienza di ciò che realmente fu Vichy – e del modo alterato in cui avevano scelto di ricordarla – non hanno potuto mettersela alle spalle e procedere. Lo stesso vale per i polacchi e la loro tortuosa memoria degli ebrei un tempo vissuti in mezzo a loro. Soltanto compreso e assimilato l´orrore del passato nazista (un processo sessantennale di negazioni, istruzione, dibattito e consenso), i tedeschi hanno potuto iniziare a convivervi, ossia a metterselo dietro le spalle.
In tutti questi casi, strumento del ricordo non è stata la memoria. È stata la storia, in ambedue i significati: come passaggio del tempo e, soprattutto, come studio professionale del passato. Il male, in particolare quello compiuto dalla Germania nazista, non potrà mai esser ricordato in maniera soddisfacente. La stessa enormità del crimine rende necessariamente incompleta ogni forma di commemorazione. La sua intrinseca non plausibilità – la pura e semplice difficoltà di concepirlo in calma retrospettiva – apre le porte alla minimizzazione e persino alla negazione. Impossibile da ricordare nella sua autentica realtà, appare facilmente vulnerabile alla possibilità di essere ricordato come invece non fu. Contro questa minaccia, la memoria non può nulla: «Soltanto lo storico, con la sua austera passione per i fatti, le prove e le testimonianze, ossia gli strumenti fondamentali del suo lavoro, può mantenere la guardia con efficacia».
A differenza della memoria, che conferma e rafforza se stessa, la storia contribuisce al disincanto. Quasi tutto ciò che ha da offrire è sconfortante, addirittura devastante, il che spiega perché non sia sempre politicamente prudente sbandierare il passato come arma con la quale bastonare un popolo per le sue precedenti colpe. Ma la storia dev´essere imparata, e periodicamente imparata di nuovo. Una famosa barzelletta dell´era sovietica calza davvero a proposito: un ascoltatore chiama Radio Armenia e domanda: «E´ possibile prevedere il futuro?». Risposta: «Sì, nessun problema. Sappiamo esattamente come sarà il futuro. Il nostro problema è il passato: continua a cambiare».
E´ proprio così, e non solo nelle società totalitarie. Allo stesso tempo, l´indagine rigorosa sui diversi e contrastanti passati dell´Europa – e sul posto che occupano nella coscienza collettiva – è stata una straordinaria impresa e fonte, per quanto poco riconosciuta, della stessa unità europea negli ultimi decenni. È, tuttavia, un risultato i cui effetti sono destinati a scomparire se l´opera non viene continuamente rinnovata. La barbara storia recente dell´Europa, l´oscuro "altro" allontanandosi dal quale si è costruito il dopoguerra, è già lontana, al di là di un ricordo diretto per la maggior parte dei giovani. Nel giro di una generazione, i monumenti e i musei inizieranno a ricoprirsi di polvere, visitati, come oggi i campi di battaglia del fronte occidentale, soltanto da appassionati e parenti dei protagonisti.
Se nei prossimi anni vogliamo continuare a ricordare perché è sembrato così importante costruire un certo tipo di Europa dalle macerie dei forni crematori di Auschwitz, soltanto la storia può venirci in aiuto. La nuova Europa, tenuta insieme dai segni e dai simboli del suo terribile passato, è un´impresa straordinaria, ma rimane per sempre vincolata da un´ipoteca a questo passato. Se gli europei vogliono davvero mantenere questo legame vitale – se si vuole che il passato dell´Europa continui ad avere un significato di ammonizione e un valore morale – , esso dovrà essere insegnato a ogni nuova generazione. L´"Unione" europea può essere una risposta alla storia, ma non potrà mai prenderne il posto.
©2007 Arnoldo Mondadori Editore
Repubblica 10.11.07
Il Paese senza confessione
di Giancarlo De Cataldo
Lo straordinario business dei pellegrinaggi cresce del venti per cento all´anno Aerei selezionati, conventi a cinque stelle. E l´extraterritorialità consente guadagni esentasse
Da Cogne a Perugia, passando per Erba e Garlasco, l´Italia sta diventando un paese dove nessuno confessa più. Capita spesso, nei romanzi di Georges Simenon, che a un certo punto, di solito verso il finale, Maigret e i suoi collaboratori si chiudano in un ufficio sul Quai des Orfévres.
Assistiti da vassoi di robusti panini e birre dalla vicina "Brasserie Dauphine", i valorosi poliziotti procedono ad interrogare ad oltranza il sospetto di turno. Finché, nel cuore della notte brumosa o in una luminosa alba parigina, non risuona il fatidico grido: "Ha confessato!". Allora, e solo allora, i bravi sbirri aprono le finestre per arieggiare il locale impregnato dell´acre odore di fumo, sudore e paura che è il marchio olfattivo della giustizia, raccattano gli incartamenti, affidano il colpevole, ormai confesso, al suo futuro domicilio a sbarre e vanno a godersi il meritato riposo. Solo a confessione ottenuta.
Eppure, contro la confessione milita il pregiudizio storico dovuto all´uso distorto che di questo istituto si è fatto nel corso del tempo. Si evocano, di solito, al riguardo, le torture della Santa Inquisizione e i processi-farsa staliniani. Da quando "tortura" è diventata parola impronunciabile, i poteri che continuano ad avvalersene, si mascherano dietro locuzioni politicamente meno scorrette: interrogatori "straordinari", mezzi di persuasione "decisi", "interventi" atti ad ottenere la "collaborazione" del sospetto, e via dicendo. Dietro il pudore linguistico si cela il tratto comune di ogni torturatore: la fede cieca in una finalità "superiore" che tollera e anzi incoraggia la violazione dei diritti più elementari: la salvezza dell´anima o del comunismo, la difesa, anche "preventiva", da un nemico esterno. Ottenuta con simili sistemi, la confessione, qualunque confessione, non ha e non può avere alcun valore.
Ma i poliziotti di Simenon non sono dei torturatori. E i rei confessano senza giri di corda né scosse elettriche. Anche quando non ce ne sarebbe bisogno, anche quando le prove sono schiaccianti. Ma allora perché tanto accanimento, se non si tratta di salvare la Chiesa, il Partito o la Democrazia? Il fatto è che, grazie alla confessione, il cerchio è chiuso. L´inquisitore può dormire sonni tranquilli. La confessione, in una parola, è rassicurante. Alla fine, se c´è confessione, c´è ordine. E non solo. Se sincera, se vissuta come esigenza "morale" del colpevole, la confessione avvince investigatori e investigati in un caldo senso di appartenenza a un sistema condiviso di valori. I vecchi pregiudicati, nel loro linguaggio franco e icastico, non "espiavano" la pena. La "pagavano". Questo tipo di confessione, l´unica compatibile con un assetto democratico della giustizia, oggi, praticamente, non esiste più.
A voler andare all´osso del fenomeno, si potrebbe dire, semplicemente, che non conviene. I sistemi processuali positivi tendono a trasformare la tensione etica dell´accertamento della verità in sfida, gara, competizione. Lo Stato della California contro mister O.J. Simpson, e vinca il più forte. Non necessariamente il migliore. Il più forte. Il più abile nello scontro dialettico, o semplicemente, il più fornito di adeguati mezzi finanziari. Nato dall´esigenza di limitare lo strapotere dell´accusa, questo modello processuale, ormai dominante, si è, nel tempo, a sua volta modificato, trasformato, imbastardito. Un confronto fra forze contrapposte può funzionare solo se c´è condivisione almeno delle regole essenziali. Ma chi lotta per la sopravvivenza è incline a considerare le regole carta straccia. Specie se ha il potere - e i mezzi - per farlo.
A metà degli anni Sessanta Jimmy Hoffa, leader sindacale in odor di mafia, tenne in scacco per un lunghissimo periodo la giustizia americana. Più avanti nel tempo, grandi gruppi criminali e potentati economici hanno ottenuto significativi trionfi sostituendo, alla strategia di difesa nel processo, la difesa dal processo. In casi disperati, quando tutto sembrava perduto, si è agito sulle leggi. A volte, le leggi hanno agito, più o meno consapevolmente, a favore del vilain: restano indimenticabili le espressioni di giubilo dei mafiosi intercettati all´indomani dell´entrata in vigore dell´attuale codice di procedura penale. Lo spettacolo della progressiva, crescente inerzia della giustizia non poteva non produrre effetti di massa. Il più umile e inesperto assassino di paese è legittimato a chiedersi se quelle stesse strategie di impunità che tanto hanno giovato ai potenti non potrebbero, in fondo, essere utilmente sfruttate anche da lui.
In un sistema che garantisce all´imputato il diritto, a un tempo, di tacere, mentire, ritrattare, una richiesta di confessione equivale all´istigazione al suicidio. C´è sempre la speranza che una prova sia dichiarata nulla. C´è sempre una battaglia di perizie da ingaggiare. Quanto alla "società civile", a stare a interviste, blog, prese di posizione e via dicendo, la si direbbe equamente divisa fra il gusto del linciaggio e l´ammirazione per chi, nonostante tutto, riesca a scampare al castigo. Il quale castigo non si vede perché debba essere definito "meritato". La nostra percezione sociale del crimine si avvia a sfuggire al criterio morale, e naviga veloce verso un approdo squisitamente estetico. Non parteggiamo per i "buoni" in quanto tali, sarebbe fin troppo ovvio. Semmai, sono i belli che ci attraggono. I belli, i simpatici, i piacioni, quelli che sanno piangere in modo convincente, o che come tali ci vengono presentati. È un lombrosianesimo mediatico che ci spinge al giudizio sommario: alla forca il brutto rumeno, libero l´angelico ragazzotto. Gli sbirri di Maigret possono mettersi l´animo in pace. L´ineluttabile futuro è il televoto.
Repubblica 10.11.07
Turisti in nome di Dio un affare da 5 miliardi di euro
di Curzio Maltese
Dal blog di papa Ratzinger, ufficioso ma benedetto dal Santo Padre, si legge: «Nell´era del low cost, l´Opera Romana Pellegrini si adegua. La ricerca di Dio si affida a voli rigorosamente a basso costo. Il Boeing 707-200 della flotta Mistral, fondata nel 1981 dall´attore Bud Spencer, e ora targato Orp, è decollato il 27 agosto da Roma con destinazione Lourdes.
I pellegrini, 148 fra i quali l´invitato Luciano Moggi, hanno intrapreso il viaggio spirituale supportati da una guida d´eccellenza: il cardinale Camillo Ruini. Il rettore della Pontificia Università Lateranense ha elargito la sua benedizione ai devoti. All´ingresso, le hostess in completo giallo e blu, spilla del Vaticano e fazzoletto giallo al collo, accolgono i passeggeri e li accompagno al posto. Sul poggiatesta si legge: "Cerco il tuo volto Signore"».
È nato insomma con un lancio pubblicitario in grande stile l´accordo fra il Vaticano e la Mistral nel settore del turismo della fede. Per una «ricerca di Dio con voli rigorosamente a basso costo», la Chiesa si affida al testimonial Luciano Moggi, all´epoca già rinviato a giudizio, e alla chiacchierata compagnia delle Poste Italiane. La Mistral, fondata da Bud Spencer e salvata durante il governo Berlusconi con un´operazione giudicata fuori mercato perfino da alcuni parlamentari della destra e ancora oggi avvolta nel mistero. Un´interrogazione del deputato di An Vincenzo Nespoli sul perché le Poste sborsavano fino a quindici volte il valore nominale delle azioni Mistral, per fare oltrettutto concorrenza all´Alitalia in crisi, non ebbe mai risposta dal governo.
Il patto fra Mistral e Opera Romana Pellegrinaggi per trasportare il primo anno 50 mila pellegrini italiani verso i santuari d´Europa e Terra Santa, con la previsione di arrivare a 150 mila nel 2008 (centocinquantesimo anniversario dell´apparizione di Fatima) non è che la punta dell´iceberg di un affare gigantesco: il turismo religioso. Quasi sempre esentasse.
Il turismo è il primo settore commerciale del mondo per espansione, terzo per margini di profitti dietro il petrolio e il traffico di armi. In Italia, una delle principali mete del pianeta, la chiesa cattolica è di gran lunga il dominus del settore. Secondo l´indagine Trademark la chiesa cattolica controlla ogni anno un traffico di 40 milioni di presenze, 19 milioni di pernottamenti, 250 mila posti letto in quasi 4 mila strutture. Il volume d´affari supera i 5 miliardi di euro all´anno, il triplo del fatturato dell´Alpitour, primo tour operator italiano. In cima alla piramide organizzativa del turismo cattolico sta l´Opera Romana Pellegrinaggi, che ha convenzioni con 2500 agenzie e una rete con migliaia di referenti sul territorio.
L´Opr è presieduta da Camillo Ruini, Vicario di Roma, con Liberio Andreatta già amministratore delegato e ora vice presidente, alle dirette dipendenze della Santa Sede. A fianco dell´Opr svolge un ruolo importante l´Apsa, l´amministrazione patrimoniale della Santa sede, che gestisce gli immobili della Chiesa e spesso gli utili alberghieri. Entrambe le società hanno sede nella Città del Vaticano, godono dunque di un regime di extraterritorialità che significa in pratica non dover presentare bilanci e sfuggire alle leggi italiane in materia fiscale, di igiene, prevenzione eccetera.
In più, in tutte le convenzioni fra l´Orp e i clienti, esiste un comma (16) che rimanda «per tutte le eventiali controversie» alla «legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano». E qual è la legge fondamentale della Città del Vaticano? Questa, che su qualsiasi controversia legale, civile o penale, l´ultima parola spetta al Papa. Il turista cattolico o no, ma in ogni caso al novanta per cento cittadino italiano, che volesse reclamare contro il servizio offerto, dovrebbe dunque aspettare la parola definitiva del Santo Padre. Nonostante questo, lo Stato italiano favorisce in vari modi l´Orp, patrocinata anche dal ministero delle Comunicazioni.
L´extraterritorialità del resto è una regola piuttosto diffusa per le attività commerciali della Chiesa, come nella sanità privata. L´ospedale pediatrico romano del Bambin Gesù, per fare un esempio, notissimo ai genitori della capitale, riceve numerosi finanziamenti statali e della Regione Lazio. Ma né l´amministrazione statale né quella regionale hanno il potere di rivedere gli accordi col Bambin Gesù perché ogni modifica deve essere trattata direttamente dal ministro degli esteri con il Vaticano.
In un settore ricco e in forte espansione come il turismo, l´extraterritorialità si traduce in un formidabile ombrello fiscale. Non si tratta soltanto dell´Ici non pagata per alberghi, ristoranti, bar di proprietà degli enti ecclesiastici. Ma anche del mancato gettito di Irpef, Ires, Irap e altre imposte. Su questo lungo elenco di privilegi fiscali, non soltanto sull´Ici, la commissione europea ha chiesto da tempo chiarimenti al governo italiano. I lavoratori delle «case religiose», sempre più spesso veri e propri alberghi rintracciabili sul circuito commerciale normale, sono spesso suore o preti o volontari o legati da contratti anomali di collaborazione. Quindi la Chiesa non deve pagare le imposte sul lavoro dipendente.
Nel sito della Cei, a questo proposito, si legge negli ultimi tempi una ricorrente lamentela per il fatto che, visti gli indici di crescita, la catena turistica religiosa deve ricorrere sempre più spesso al personale «esterno». «Personale esterno non garantisce le stesse prestazioni» di suore e preti, pretende di essere pagato per gli straordinari e cerca di introdurre tutele sindacali. Sia pure con i limiti enormi di libertà imposti dalla giurisdizione pontificia.
I privilegi fiscali della Chiesa si traducono in un vantaggio sulla concorrenza e nella possibilità di praticare prezzi fuori mercato. Se il settore turistico cresce ovunque in Italia, l´espansione di quello religioso ha tratti spettacolari, con un aumento di quasi il venti per cento all´anno.
Nel volgere di quattro o cinque anni il volume d´affari potrebbe sfondare il tetto dei 10 miliardi di euro. Non si tratta soltanto di turismo «povero» o «low cost». «Sono ormai un centinaio i monasteri-alberghi entrati nei network Condè-Nast, Relais & Chateaux o Leading Hotel of the world» scrive il Sole 24 Ore. Ma si tratti di due, tre, quattro o cinque stelle, i prezzi sono sempre inferiori alla concorrenza, grazie alle minori spese.
Abbiamo parlato nelle puntate scorse dell´hotel delle Brigidine, 190 euro a notte, ma in una zona dove un quattro o cinque stelle costa quasi il doppio. I casi soltanto nella capitale sono decine. Dai Carmelitani di Castel Sant´Angelo, che offrono camere con frigobar, tv satellitare e aria condizionata a 120 euro, fino ai «tre stelle» a 60 o 70 euro. La spendida abbazia di Chiaravalle alle porte di Milano costa 300 euro, ma è un cinque stelle a tutti gli effetti. Lo stesso vale per le celebri Orsoline di Cortina e per il monastero di Camaldoli nell´aretino, mete di turismo intellettuale, culturale e politico d´alto bordo.
Se si scende al livello del turismo di massa, i prezzi calano ma il fatturato esplode. E lo stato italiano favorisce in ogni modo. Con le esenzioni e con i finanziamenti diretti. I 3.500 miliardi di lire versati dall´erario alla Chiesa per il Giubileo sono serviti in buona parte a riorgazzare la rete di accoglienza turistica. Ma quella pioggia di soldi non si è mai davvero fermata. In varie forme, governo ed enti locali continuano a sovvenzionare la rete alberghiera religiosa. Per il rilancio dell´antica Via Francigena, che nel medioevo collegava Roma a Canterbury, l´ultimo finanziamento statale è stato di 10 milioni di euro.
Ma bisogna aggiungere le centinaia di contributi degli enti locali. Visto il successo, l´Orp ha deciso di rilanciare anche altri pellegrinaggi: il Commino di Sigerico, da Milano a Roma; la Via dell´Est, che da Venezia attraversa Romagna e Umbria; l´antico cammino del Sud da Roma a Otranto. L´ultimo con un passaggio d´obbligo al santuario di San Giovanni Rotondo, il cui boom turistico ha messo di gran lunga in secondo piano le recenti rivelazioni sui dubbi di Giovanni Paolo XXIII a proposito della santità di Padre Pio, i suoi rapporti con le fedeli e l´origine reale delle stimmate.
In tutti questi progetti non c´è stato comune o provincia o regione o comunità montane, governata da destra o da sinistra, che non si sia accollata finanziamenti, agevolazioni fiscali, oneri di ristrutturazione.
Non stupisce insomma che l´Opera Romana Pellegrinaggi allarghi di settimana in settimana il raggio d´azione. Il 2007 è stato l´anno dei voli della fede in Europa e Terra Santa. Il 2008 sarà l´anno dello sbarco nel mercato americano con il progetto «Christian World Tour». «Fra il 2008 e il 2009 - dichiara l´amministratore delegato dell´Orp, padre Cesare Atuire - i progetti saranno estesi all´America Latina e all´Oriente, in particolare Cina, India e Filippine». Tutto «rigorosamente low cost».
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)
Repubblica 10.11.07
La bussola di Foa
di Simonetta Fiori
L´ultima "mossa del cavallo" s´intitola Le parole della politica, una sorta di bussola civile quanto mai preziosa in tempi di confusa antipolitica. A novantasette anni Vittorio Foa non rinuncia a sorprenderci consegnando a Einaudi - che le pubblicherà a gennaio con la cura di Federica Montevecchi - alcune note essenziali sul significato ultimo del far politica («Pensare agli altri: solo l´altro dà un senso alla nostra identità»). Un significato che appare ormai perduto, travolto da un inutile flusso di parole vuote. Perché la parole della politica appaiono senza senso, sotto il berlusconismo ma anche in tempi correnti? «Una caratteristica dell´irrilevanza dei discorsi di oggi è che l´interlocutore non ha più importanza. La parola è un impegno verso qualcuno, verso qualcosa: quando l´interlocutore non è considerato o non c´è, la parola è nel vento». La scomparsa dell´interlocutore, a destra come a sinistra.
Foa interpreta il "berlusconismo" come un germe capace di infettare tutti indistintamente, dunque anche a sinistra, specie «nella incredibile corsa verso i posti, cioè verso il danaro». Più che la retorica sui valori, conta l´esempio. «Mi colpisce il fatto che dell´esempio non si parla mai, anzi non esiste come categoria di giudizio del proprio e dell´altrui comportamento: eppure sappiamo che tutto viene da lì». Scritto nella casa di Formia, questo denso baedeker restituisce nitidamente il profilo d´un grande saggio che continua a guardare avanti, senza arrendersi. Per Foa la politica è stata sempre "ricerca", sentirsi insieme agli altri. «Forse il degrado della politica e delle sue parole sta proprio nell´agire pensando di essere soli, e nel pensare solo a se stessi». Il tono è pacato, la sostanza grave.
Repubblica 10.11.07
Quando comincia il Novecento: Emilio Gentile contesta lo storico inglese
Il Secolo breve? Hobsbawm sbaglia
di Simonetta Fiori
Ma tra le icone simboliche figura Peter Pan, contrario al cambiamento
Il nuovo evo inaugurato da Freud e Nietzsche: la modernità è di per sé apocalittica
«Novecento come secolo breve? È un´invenzione che non regge». Comincia da qui, dal rifiuto d´una periodizzazione ormai convenzionale inaugurata da Eric J. Hobsbawm nel suo The short twentieth century (1914-1991), la lezione-show del professor Emilio Gentile, pioniere della nuova serie di conferenze laterziane quest´anno dedicate al XX secolo. Ma se "corto" non va bene, neppure "lungo" gli si adatta. Bocciati dunque anche Charles Mayer e Giovanni Arrighi, che fissano intorno al 1870 gli albori del nuovo secolo.
Quando comincia il Novecento? Come tutte le domande semplici, anche questa nasconde delle insidie. «Sarebbe sbagliato farlo partire dal 1914, come propone il grande storico marxista», spiega Gentile. «Egli raffigura il Novecento come "l´età degli estremi" - questo è anche il titolo del suo lavoro - ossia come un lungo e tormentato conflitto tra nazifascismo, comunismo e capitalismo reso possibile dalla Grande Guerra che mette fine al vecchio mondo. Ma fissando il principio in quella data, si perdono le premesse fondamentali della deflagrazione bellica». Per coglierne appieno i prodromi, bisogna tornare indietro, «quando affiora la consapevolezza che qualcosa di nuovo e terribile sta per accadere. E questa sensibilità frammista di paura e speranza nasce proprio nel 1900 o al più tardi nel 1901. «Se abbiamo bisogno di due effigi simboliche per inaugurare il Novecento, ci soccorrono i busti di Sigmund Freud, autore nel 1900 di Le interpretazioni dei sogni, e di Friedrich Nietzsche, morto in quello stesso anno. Entrambi incarnano il significato fondamentale del nuovo secolo: la consapevolezza che la modernità è per sua essenza apocalittica, proprio perché sintesi di concezioni opposte e incompatibili dell´uomo e della vita». Una condizione antagonista e conflittuale che scuote la stessa coscienza individuale. «Altro medaglione emblematico è quello di Thomas Mann, che combatterà il nazismo nutrendo in sé le medesime componenti decadenti».
La modernità come sintesi tra vecchio e nuovo, tra razionale e irrazionale, tra individuo e massa, tra libertà e autorità. Pian piano ci si avvicina al gorgo di contraddizioni che inghiotte la storia novecentesca fino al suo epilogo, ma appare ben disegnato sin dagli albori. Come inoltrarsi in un arazzo intessuto di chiaroscuri, la luce del progresso e la tenebra della guerra, il nitore del floreale liberty e la disgregazione futurista, l´elettrizzante ballo Excelsior e l´annuncio sacrificale con Stravinsky, la scienza ottocentesca che tutto spiega e la teoria della relatività di Einstein che insieme ai "quanti" di Max Planck mette in crisi l´idea stessa d´una conoscenza razionale di leggi immutabili. Il XX secolo come cognizione del dolore palingenetico, della catastrofe quale necessaria apocalisse che apre al mondo nuovo. I paesaggi devastati di Ludwig Meidner ne sono il sigillo artistico. «Catastrofe è una parola chiave del Novecento», spiega lo studioso, non solo nel senso di sciagura ma in chiave aristotelica di rinnovamento, di profondo mutamento. «In fondo tutto il secolo è segnato da una reiterata catastrofe». Da Giovanni Pascoli ad Alexander Blok, nella poesia di tutta Europa riluce la Cometa di Halley, comparsa nei cieli del 1910 quale profezia dell´ignoto che avanza. Ma c´è anche chi si oppone ostinatamente al nuovo, rifiutandosi di crescere. E tra le dotte citazioni di Gentile fa capolino Peter Pan, l´eterno adolescente creato da James Matthew Barrie nel 1904, simbolo d´una umanità che si sottrae alla responsabilità del cambiamento.
Il 1901 è anche l´anno in cui scompare la regina Vittoria: con lei comincia il declino dell´universo di teste coronate. Ma il laboratorio del conflitto novecentesco è più che altrove l´Italia. «Al regicidio di Umberto I che dà avvio al secolo segue non un´involuzione reazionaria ma la più lunga stagione liberale che però si conclude con la settimana rossa, periodo tra i più rivoluzionari in Europa alla vigilia della Grande Guerra». Se anche per la storia esistesse la rubrica del "chi sale chi scende", nel 1912 declina Giolitti settantenne e comincia la sua ascesa un esuberante socialista romagnolo non ancora trentenne (un film del Luce mostra un inedito Mussolini con vesti e andatura borghesi). Si brinda al Novecento con le parole d´ordine del positivismo razionalistico e dopo pochi anni le nuove generazioni sono conquistate dal furore futurista e nazionalista. «Lo stesso Croce», postilla Gentile, «nel 1907 condanna come malattia morale il misticismo e l´irrazionalismo, ma l´anno successivo scrive l´introduzione alle Considerazioni sulla violenza di Georges Sorel, che di quelle tendenze è un maestro». L´Italia nel 1907 riceve il Nobel della Pace con Ernesto Teodoro Moneta, ma la maggior parte degli italiani vuole la guerra. È il trionfo della contraddizione.
Ed è facendosi largo tra pulsioni opposte, che ci si imbatte in umori non lontani dalla sensibilità di questo inizio XXI secolo. La democrazia produce noia, e la noia provoca ribellione. «S´afferma una generazione che sogna la guerra e la rivoluzione, mentre condanna la stabilità come fattore di noia e putrefazione. L´antiparlamentarismo nasce anche da lì, e attraversa tutta la cultura dell´epoca. Da Prezzolini ad Amendola e Salvemini, esplodono gli umori dell´antipolitica, in qualche caso per avere una democrazia più funzionante. Fu Salvemini a inventare per Giolitti l´epiteto di "ministro della malavita", ma poi si ricrederà: per creare il paradiso in terra si salta il purgatorio e si produce l´inferno». Continuando nel gioco delle analogie tra gli albori del secolo scorso e dell´attuale, ecco la rinascita del fervore religioso che reagisce alla morte di Dio sanzionata dall´Ottocento. «Una sensibilità vicina a fenomeni contemporanei: la rinuncia alla libertà della razionalità e il ritorno all´autorità della fede». Se il sentimento di catastrofe segna la nascita del Novecento, una catastrofe in diretta televisiva ha introdotto il nuovo secolo. La storia che si ripete? «No, la storia come una giostra in cui non cambiano i cavalli ma chi li cavalca. Tutti sono convinti di andare da qualche parte, ma tornano sempre al punto di partenza».
Corriere della Sera 10.11.07
Esce una riflessione del pensatore francese su Jean-Luc Nancy
Derrida, se la filosofia è questione di tatto
di Armando Torno
La filosofia non ama le scritture scontate. Da Kant in poi ha capito che può anche permettersi di essere poco ossequiosa con le regole grammaticali. Nel secolo scorso ha scoperto che le verità non sono figlie della logica, meno che mai della ragione. Per tal motivo Heidegger ha utilizzato le sue considerazioni etimologiche come una sonda lanciata nell'ignoto del linguaggio; per analoghe strade ha camminato Jacques Derrida, il filosofo francese che, soprattutto a partire dagli anni '80 del secolo scorso, ha dato vita a interrogazioni decostruttive sempre più mirate.
Derrida è morto nel 2004, aveva 74 anni. Nel 2000 pubblicò, elaborando un contributo del 1993, un volume dai percorsi fascinosi, nel cui titolo era racchiuso l'omaggio a un collega (e discepolo) più giovane: Toccare, Jean-Luc Nancy. Il libro è ora tradotto in italiano da Andrea Calzolari, con una serie di soluzioni linguistiche felici (Marietti 1820, pp. 408, e 35). Leggere il pensiero di Nancy sotto l'aspetto del tatto, attraverso i diversi significati che la parola ha assunto nella cultura occidentale, sembrerà a taluni un assurdo. Invece si rivela una soluzione feconda: l'opera incentrata sul giovane filosofo mette a confronto la sua scrittura con le tesi classiche attraverso numerose digressioni. Nel volume di Derrida, in altri termini, c'è Nancy ma vi trovate anche Aristotele; ci sono inoltre Descartes, san Giovanni della Croce, il Nuovo Testamento, l'immancabile Kant, Husserl, Lévinas, Heidegger. Insomma, c'è la linea «franco-tedesca» che si interroga e chiama in causa Nancy in nome del tatto.
Toccare, gran bella cosa. Se Aristotele per spiegare questo gesto essenziale evoca la doxa, l'opinione, e poi deve ricorrere all'anima per meglio focalizzarne gli effetti, Derrida annota accanto alle mille considerazioni: «Il tatto è dunque una questione di vita o di morte». Toccare significa peccato, redenzione, conoscenza, nonché vedere meglio. Scrive Husserl: «L'occhio che guarda l'oggetto, insieme lo palpa, per così dire». Ne nasce un'opera da meditare, che non si riduce «né alla poesia, né alla filosofia, né alla scienza».
Corriere della Sera 10.11.07
Dibattiti. Dopo la replica di Piattelli Palmarini, Boncinelli interviene su creazionismo e specie
La legge di Darwin e il peso della casualità
«Ma proprio gli eventi accidentali dimostrano la bontà dell'evoluzionismo»
di Edoardo Boncinelli
Sono gli esperimenti, non le teorie, che fanno procedere la ricerca
Di tanto in tanto si parla di evoluzione biologica e subito gli animi si infiammano. Probabilmente occorre ricordare a tutti che la teoria dell'evoluzione è una teoria scientifica e come tale procede solo attraverso esperimenti e contro-esperimenti. Le speculazioni teoriche appartengono certamente alla storia delle idee, ma non alla scienza: divengono scienza solo se danno luogo ad esperimenti e se questi ne dimostrano le anticipazioni, o per meglio dire, ne dimostrano alcune anticipazioni e ne confutano altre. Purtroppo molti tendono a dimenticare tutto ciò e scambiano per scienza le interpretazioni teoriche della stessa, dando più o meno involontariamente l'impressione che su certi punti ci sia un dibattito scientifico, che invece non c'è.
La teoria dell'evoluzione biologica, nella sua ultima versione chiamata neodarwinismo, rappresenta un corpo di conoscenze teoriche e sperimentali ormai assodate e ampiamente corroborate sperimentalmente, che ci danno la migliore spiegazione al momento possibile della presenza e dell'evoluzione della vita sulla terra. Questa non spiega tutto perché nessuna teoria scientifica può spiegare tutto, ma ci fornisce uno strumento interpretativo potentissimo per il lavoro quotidiano dei biologi di tutto il mondo.
Nessun biologo può oggi prescindere dalla visione neodarwiniana del processo evolutivo, sia che si occupi di genetica, di sviluppo embrionale, di sistematica, di fisiologia o di ecologia. Anche chi non si serva esplicitamente dei principi del neodarwinismo, finisce per adoperarli in ogni circostanza, perché nulla ha senso in biologia se non è iscritto in un quadro evolutivo.
Avendo premesso che nessuna teoria riguardante il vivente può violare i principi della fisica e della chimica, che riguardano sia il vivente che il non vivente, vediamo che cosa dice la teoria dell'evoluzione. Essenzialmente due cose. In primo luogo, che ogni organismo vivente oggi, nonché l'insieme degli organismi fossili, derivano tutti da un gruppo di organismi primitivi vissuti su questo pianeta più o meno tre miliardi e ottocento milioni di anni fa. In secondo luogo, che tutta questa incredibile e affascinante varietà si è originata grazie all'azione di solo due meccanismi biologici sempre in azione: la creazione di nuove mutazioni e la cosiddetta selezione naturale.
La comparsa di nuove mutazioni e la loro ridistribuzione nei diversi genomi porta alla continua comparsa di individui diversi, poco o tanto, in ogni popolazione naturale. Alcuni di questi nuovi esemplari scompaiono subito dalla circolazione o lasciano comunque pochi discendenti. Altri «vivacchiano » per qualche tempo a fianco degli organismi precedentemente presenti nella popolazione e che, volendo, possiamo definire «normali», anche se il significato di questo termine cambia necessariamente con il passare delle generazioni. Di tanto in tanto i nuovi esemplari hanno un grosso successo riproduttivo in un certo ambiente e finiscono per rimpiazzare i «normali» di una volta. Si è così avviato un processo che porterà alla creazione di una nuova specie biologica, al posto della precedente o accanto ad essa.
Questa scelta — condanna dei nuovi esemplari, approvazione tiepida o approvazione entusiastica degli stessi — è messa in atto dall'ambiente, organico e inorganico, dove vivono gli organismi in questione. L'ambiente ha così operato una selezione naturale, senza che questo termine significhi niente di più di quanto abbiamo appena detto. Gli organismi momentaneamente prescelti possono anche essere definiti come i più «adatti» all'ambiente in cui vivono, ma il termine non regge ad un'analisi concettuale stringente.
Personalmente preferisco dire che la selezione naturale concede ai diversi tipi di individui presenti in una popolazione di lasciare una quantità di discendenti diversa: chi ne lascia di più si afferma. Tutto qua.
Fin qui quello che dice la teoria da decenni e che trova quotidiana conferma negli esperimenti biologici sul campo o in laboratorio e nell'analisi dei diversi genomi oggi disponibili.
Che cosa è successo negli ultimi trenta- quaranta anni? Abbiamo imparato tantissime cose sui geni, sui meccanismi dello sviluppo e sulle dinamiche delle popolazioni naturali. È inevitabile che tutto ciò abbia lasciato il segno anche sulla teoria dell'evoluzione, chiarendo molti punti, mettendo in secondo piano alcuni meccanismi e dando nuovo risalto ad altri. Personalmente riassumerei tutto questo affermando che in questi anni è aumentato di molto il peso che si dà al caso, cioè agli eventi accidentali — di natura geologica, meteorologica, genetica e ecologica — che propongono sempre nuove situazioni all'azione dell'ambiente e in definitiva alla selezione naturale. Che comunque è sempre quella che ha l'ultima parola.
Dal gorilla all'uomo: una reinterpretazione fotografica della teoria dell'evoluzione di Charles Darwin (foto Corbis)
Corriere della Sera 10.11.07
Chi nega l’unicità dell’Olocausto
di Luciano Canfora
Si riaffaccia ciclicamente la tendenza a sminuire, o meglio negare, la unicità della Shoah. L'altro giorno il neoleader Walter Veltroni ha pensato bene di coinvolgere Pol Pot. Gioco imprudente, vista la protezione accordata dagli Usa a Pol Pot al tempo in cui il Vietnam riuscì a scacciarlo. Ieri un appello «Gaza vivrà », che equipara spericolatamente ai lager hitleriani la situazione in cui Hamas ha precipitato Gaza.
Con buona pace degli interessati, le due operazioni appaiono entrambe sbagliate: non solo per il carattere sommario e, nel caso del neoleader del Pd, un po' strumentale, ma per l'uso confusionario e parziale dei dati di fatto. L'appello «Gaza vivrà» vuol essere anche una ricostruzione storica della crisi israelo- palestinese di questi ultimi anni.
Però essa appare alquanto lacunosa. Ci sono vari elementi importanti che l'appello passa sotto silenzio; il che ne inficia la solidità logica: 1) viene taciuto che il governo israeliano ha imposto con la forza ai suoi coloni insediatisi nei territori occupati di andarsene; 2) che Hamas chiede la distruzione dello Stato di Israele, cioè pone una condizione non solo iniqua e contraria alle deliberazioni Onu votate nel '47 da Urss e Usa (con l'astensione inglese) ma anche politicamente devastante e foriera di ulteriori conflitti; 3) l'appello squalifica gli elettori palestinesi, e sono tantissimi, che si oppongono ad Hamas e li tratta come pavidi ricattati; 4) dimentica gli scontri armati tra Fatah e Hamas.
Gli appelli dovrebbero proporsi di aiutare il negoziato piuttosto che abbandonarsi alla propaganda.
l’Unità 110.11.07
Documento unitario approvato dall’Assemblea di redazione de l’Unità
Con l’avvio della ”due diligence” da parte della Tosinvest, società della famiglia Angelucci, diviene concreta la prospettiva che il pacchetto azionario di maggioranza de l’Unità venga acquisito dallo stesso gruppo che edita il quotidiano Libero. Al di là del rispetto che riconfermiamo per i giornalisti, i poligrafici e i tecnici che in quel giornale lavorano, non possiamo non rimarcare la nostra forte preoccupazione per la circostanza, del tutto nuova nel panorama editoriale, di un gruppo imprenditoriale proprietario contemporaneamente di testate che conducono iniziative e battaglie antitetiche. Realtà che porrebbe una forte ipoteca anche sulla credibilità del nostro giornale nei confronti dei lettori. Non conosciamo le motivazioni che spingerebbero la Tosinvest ad investimenti definiti "rilevanti". Le domande che ci poniamo, d’altra parte, non possono essere evase sbrigativamente con un generico riferimento al "mercato", visto che un giornale politico non è un prodotto da abbandonare alle normali dinamiche di "mercato". La prospettiva che l’Unità, e la sua testata, appartengano allo stesso editore di Libero viene vissuta con forte preoccupazione dai lettori, dai giornalisti e dalla platea di riferimento politica e culturale del nostro quotidiano. Anche perché non sembrano oggetto di trattativa, come risulta dall’incontro tra il Cdr e la presidente della società editrice, Nie, Marialina Marcucci, garanzie forti da far valere circa il mantenimento del radicamento politico e culturale de l’Unità, così come la consapevolezza dell’esigenza di salvaguardare storia e immagine del quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Di queste preoccupazioni il Comitato di redazione si è fatto carico incontrando il segretario del Pd, Walter Veltroni, e quello dei Ds, Piero Fassino. Che hanno preso atto dell’inquietudine dei giornalisti e dei lettori de l’Unità e hanno apprezzato, condividendola, la richiesta di garanzie precise per il futuro del giornale. Lo ribadiamo: nel momento in cui, con lo scioglimento dei Ds, il nostro quotidiano va sempre più "in mare aperto", l’autonomia e la salvaguardia dei valori ai quali l’Unità si ispira, spetta sì alla direzione e alla redazione, ma - assieme - a strumenti nuovi e autorevoli, da far valere a prescindere dai gruppi imprenditoriali interessati alla proprietà della testata. Il tema di un Comitato di garanti di altissimo profilo, che garantisca innanzitutto i lettori, riguarda, d’altra parte, e più complessivamente, le imprese editoriali italiane, nel momento in cui gli "editori puri" non esistono più. Il problema va perfino oltre la stessa Unità, e sarà oggetto dell’iniziativa pubblica promossa dalla Fnsi e dal nostro Cdr per mercoledì 14 novembre, anche in relazione alla nuova legge sull’editoria. L’Unità non può appartenere alla stessa proprietà di Libero, ma - in ogni caso - sarebbero indispensabili garanzie precise. E per salvaguardare l’autonomia e la libertà d’informazione non sarebbero sufficienti la continuità direzionale e quella delle attuali cariche di vertice della Nie. Il Cdr de l’Unità chiede, d’altra parte, segnali politici chiari e rapidi che riconfermino il legame del giornale con la sinistra e con l’area di riferimento del nuovo Partito democratico. Nel contempo, però, i giornalisti chiedono un impegno forte perché i nuovi assetti proprietari siano plurali e articolati. Ben vengano capitali privati freschi, ma l’Unità, e la sua testata, non possono diventare proprietà esclusiva di un solo imprenditore, chiunque esso sia. Per questo si rinnova l’appello affinché si concretizzino iniziative che mobilitino altri soggetti imprenditoriali interessati a partecipare allo sviluppo del quotidiano, posto che l’intesa preliminare stipulata dalla Nie con Tosinvest dimostra che l’Unità è un giornale vivo, in grado di andare oltre le attuali dimensioni di mercato, indispensabile per il pluralismo dell’informazione.
Le rassicurazioni della presidente Marcucci circa le intenzioni della compagine azionaria che si va formando, vanno misurate in concreto. Se è vero che si vogliono tutelare i livelli occupazionali e sviluppare il quotidiano con opportuni investimenti, va anche riverificato il piano industriale elaborato nei mesi scorsi dalla Nie. Nessuno degli impegni scadenzati è stato, al momento, realizzato. Dimostrando, in realtà, una logica basata solo sui tagli e sui contenimenti dei costi e non sullo sviluppo. Una filosofia che incide non poco anche sul calo delle vendite in edicola. Non solo. Mentre l’azienda promuoveva, nei mesi scorsi, una durissima trattativa - partendo dal presupposto di un disavanzo di bilancio del tutto fisiologico, e chiedendo sacrifici economici alla redazione in cambio di investimenti - parte degli attuali soci Nie avevano già manifestato la volontà di sfilarsi dalla proprietà della testata. Con la conseguenza che l’annunciata ricapitalizzazione è stata attuata solo parzialmente e gli impegni di rilancio sono rimasti in larga misura sulla carta. Per tutto ciò, in attesa di un chiarimento sulle strategie di rilancio del giornale, i redattori de l’Unità ritengono necessario il congelamento delle ricadute economiche del piano industriale che pesano negativamente sui giornalisti, a partire dalle intese sul lavoro domenicale. Di questa posizione il Cdr si farà pienamente carico, Dando corso, anche in relazione al tema degli assetti proprietari, alle forme di lotta decise dalla redazione nelle scorse settimane.
L’Assemblea dei giornalisti de l’Unità
Corriere della Sera 10.11.07
La vendita del giornale
Unità, i giornalisti bocciano lo sciopero contro gli Angelucci
ROMA — Quarantuno voti contro trentasette.
L'assemblea dell'Unità ha detto no alla sciopero contro l'ingresso degli Angelucci nella proprietà del giornale. Alla notizia che gli imprenditori delle cliniche nonché editori di Libero, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri, i giornalisti del giornale fondato da Antonio Gramsci erano insorti. Forte preoccupazione per l'autonomia della testata, paura di confusione per l'ingresso con quote di maggioranza di una famiglia che edita un giornale di destra (ma che finanzia anche il Riformista). E quindi era seguito un durissimo comunicato, sostenuto dall'intera redazione. Fine dello scontro?
All'Unità invitano alla prudenza e spiegano che il no allo sciopero immediato è prevalso perché la maggioranza ha voluto dare credito ai tentativi di Walter Veltroni e Piero Fassino. Di che cosa si tratta? Il leader del Pd e l'ex segretario dei Ds si sono impegnati a percorrere strade per la ricerca di nuovi finanziatori, che riducano il peso degli Angelucci nella proprietà, secondo uno schema già seguito quando l'Unità fu sottratta al controllo diretto del partito di riferimento. Le possibilità che un tentativo del genere vada a buon fine sono tutte da verificare e il tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti, ha già chiarito che da quel fronte non ci sono soldi da investire nel giornale.
Prima della protesta dei giornalisti e degli incontri con Veltroni e Fassino la trattativa con gli Angelucci era già ben incardinata con la prospettiva di concludersi entro Natale con un assegno di circa 25 milioni che avrebbe conferito alla famiglia un ruolo determinante nella proprietà.
«La testata non è in vendita», aveva gridato l'assemblea, affidando al Comitato di redazione un pacchetto di sette giorni di sciopero se i colloqui per cambiare la sorte del giornale non avessero dato «risultati soddisfacenti».
Ieri l'accelerazione, con una parte della redazione intenzionata a dare un segnale forte agli Angelucci e a mettere in mora i tentativi di Veltroni e Fassino con la proclamazione immediata di un giorno di sciopero. Ma la maggioranza dei giornalisti a detto di no.
La votazione dell'assemblea del quotidiano fondato da Gramsci: 41 contrari, 37 favorevoli
il manifesto 10.11.07
Intervista a Fausto Bertinotti Crisi della politica, bilancio di un anno e mezzo di governo e «cosa rossa»
Un'altra sinistra è possibile. Anzi, obbligatoria
di Gabriele Polo
«La scommessa sul rapporto virtuoso tra governo e movimenti non ha funzionato. Serve un'unità politica a sinistra, da subito. Per evitare che il nostro ruolo sia solo quello di limitare i danni. E poi scomparire» La riforma elettorale è urgente. Ma i vincoli di coalizione immobilizzano. Le alleanze si facciano in Parlamento
Come rilanciare l'alternativa politica in Italia e in Europa senza adattarsi alla limitazione del danno e, contemporaneamente, senza riaprire le porte del potere alla destra? Tradotto: come riavere una sinistra non subalterna al centro senza far cadere Prodi e rimettere Berlusconi (o chi per lui) a palazzo Chigi? Bel busillis. Cui Fausto Bertinotti risponde con una rievocazione: «In certi momenti vale quel che dicevano gli operai a proposito degli aumenti salariali, 'Pochi, maledetti e subito è sempre meglio che niente'». Tradotto: teniamo in piedi il governo, facciamo una riforma elettorale che limiti i vincoli del maggioritario e diamo subito vita a un soggetto «unitario e plurale» della sinistra con chi ci sta. «Anche perché - va al dunque il presidente della Camera - il nostro scommettere su un circolo virtuoso tra azione di governo (riformatrice) e movimenti (che incalzano il quadro politico), è stata sfiduciata dai fatti». Cioè si è ridotta alla contrattazione del «meno peggio», mentre si divarica la forbice tra la rappresentanza politica e conflitti sociali e si erode il consenso elettorale della sinistra.
Sembra che tutta la sinistra sia un po' inadeguata. Pensa alla manifestazione del 20 ottobre: una grande partecipazione, una richiesta di «esserci» e, poi, scarsissime risposte, se non generiche, della rappresentanza. Non è questa la vera crisi della politica?
Più si constata il successo della manifestazione del 20 tanto più si vede in controluce la profondità della crisi della politica. Nel Pd e dintorni c'è stata una omissione totale di quell'evento. A sinistra c'è stato più un sollievo da scampato pericolo che un investimento politico-intellettuale, mentre ci si aspetterebbe una socializzazione di una riflessione comune su cosa è accaduto, sul perché c'era così tanta gente in piazza e con così tanta passione politica, su quali problemi sociali ciò rivela. Invece, avendo la questione del governo come problema centrale - sia per rifiutarlo che per consolidarlo - l'indagine sulla soggettività del movimento - su ciò che rappresenta e chiede - viene lasciata in secondo piano. Allora la crisi cui siamo di fronte sta nella difficoltà di trovare la soggettività politica e sociale necessaria a potere realizzare un protagonismo capace di intervenire sulla scelta dello stato, sulle scelte economiche, sulle grandi scelte dei diritti sociali, cioè nei luoghi della formazione della decisione politica. Questo mi pare il punto irrisolto.
Nel merito e nel metodo, nei contenuti e nella loro rappresentanza politica. Parlando dei primi: nel tuo editoriale dell'ultimo numero della rivista, «Alternative per il socialismo», ritorni alla centralità del lavoro. E' un ripensamento rispetto alla fase dei movimenti, seguita poi da quella della battaglia politica dentro le istituzioni?
Quei passaggi sono tutte facce dello stesso prisma. Io però riconosco che di volta in volta, se non una centralità però un bandolo della matassa andrebbe tirato e io penso che la crisi sta arrivando proprio al fondo. Se mi si chiede: ma quale è la chiave di volta dell'uscita dalla crisi? quale è la ragione prima della crisi della sinistra? Rispondo che il nodo va cercato nel rapporto fra il lavoro, la società e la politica. Non per una nuova centralità operaia, non per ignorare la critica del femminismo alla società patriarcale o quella ambientalista alla devastazione prodotta dal capitalismo, non per cancellare le storie e i contenuti dei movimenti e le loro diversità, ma perché possano collocarsi in una ipotesi di trasformazione della società e di capacità di intervento sulla decisione della politica, sul luogo strategico di decisione della politica. E secondo me hanno bisogno di ritrovare un nesso con il lavoro in tutte le sue dimensioni. Non è casuale che il successo della manifestazione del 20 sia legato alla lotta alle precarietà. E quella del lavoro non sarà asaustiva ma è paradigmatica.
Sul metodo e sulla rappresentanza politica il minimo che chiedeva la piazza del 20 ottobre era un luogo per una pratica comune, anche istituzionale.Mi sembra invece che persino su questo ci sia un tira e molla, tra identità da conservare e ruoli dirigenti da preservare... Insomma, se continua così non ci sarà né cosa rossa, né semplicemente nessuna «cosa».
Con il massimo rispetto per tutti coloro che si spendono quotidianamente nelle attività di partito, mi sembra che ci siano troppe rigidità. Capisco i problemi e le resistenze, però per questo vale il vecchio detto di Vittorio Foa quando fu tentata l'unità sindacale: «Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua». E' già troppo che stiamo sulla spiaggia.
C'è un passaggio politico obbligatorio, che chiama in causa i gruppi dirigenti della sinistra...
Come era la vecchia formula operaia a proposito di aumenti salariali? Pochi, maledetti ma subito. Benissimo. Come viene fuori questa «cosa»? Un po' rozza, approssimativa, ma unitaria. Tutto il resto viene subito dopo: come deve essere organizzata, che tipo di costruzione teorico-politica, la definizione del programma fondamentale... Ma bisogna partire, con chi ci sta.
Intanto la sinistra si sta logorando in una continua rincorsa alla riduzione del danno stando in un governo che non godendo di ottima salute pone spesso l'antica alternativa tra mangiare una cattiva minestra o saltare dalla finestra. Un po' logorante...
Io credo che la prosecuzione dell'attuale governo sia auspicabile, perché alcuni risultati si possono ottenere anche con la riduzione del danno, basti pensare alle recenti vicende sul pacchetto sicurezza: cosa sarebbe successo con un governo di centrodestra? Per quante critiche si possano fare alla situazione attuale, non c'è paragone. Tuttavia non possiamo non fare il bilancio di un anno e mezzo di governo e vedere - lo dico per me - che l'investimento su un rapporto inedito tra movimenti e governo per realizzare una nuova fase riformatrice, è stato contraddetto dai fatti. E, allora bisogna anche agire sul terreno dell regole istituzionali, per liberare la politica dai lacci che la imprigionano. Da una logica che impone maggioranze per riavere la possibilità di scegliere le alleanze non prodotte da una coazione.
E se non riesce a farlo questo governo, con un esecutivo istituzionale che cambi la legge elettorale? Per far sì che le alleanze si facciano in Parlamento e non in campagna elettorale?
Sì, alleanze che si annuncino prima, che si fanno in Parlamento ma che in ogni caso producono una possibilità di libertà nella scelta delle alleanze. Mentre penso che nell'attuale sistema politico istituzionale la rottura del rapporto tra la sinistra e il centrosinistra sia una tragedia, in un sistema liberato da questo vincolo del maggioritario si aprirebbe una dialettica politica più ampia, quella permessa da un sistema alla tedesca. Anche per riguadagnare la centralità del «medio termine», ed evitare che tutto sia assorbito dall'emergenza del giorno per giorno con al centro solo la sorte del governo.
Ritorniamo alla questione del governo e al ruolo della sinistra al suo interno. Per quanto può durare la strategia della riduzione del danno senza provocare danni irreparabili in termini di rappresentanza sociale e di consenso elettorale? Non è che la sinistra salvando il centrosinistra rischia di estinguersi?
Il rischio c'è, ma come fai a proporre un'uscita da sinistra? Scartiamo che si possa fare con una crisi di governo, non mi sembra che sia quello che chiede la nostra gente, lo abbiamo visto anche il 20 ottobre. Secondo me c'è uno spazio per un rilancio dell'attività di governo, attraverso una rivitalizzazione di alcuni suoi elementi programmatici da ottenere con un dibattito politico molto impegnativo, valorizzando l'iniziativa sociale - e non penso solo alle manifestazioni o al volontariato, penso alle tante pratiche politiche positive in tante parti d'Italia. E poi attraverso una verifica politica.
Stai pensando a un rimpasto di governo?
E' un terreno su cui non posso entrare. Ma credo che vada messa in campo e fatta pesare la partecipazione delle persone. Mi piacerebbe che la maggioranza inventasse, nelle forme che vuole, con l'approssimazione che crede, una sorta di verifica programmatica. Le forze della maggioranza possono pensare a un percorso di consultazione di massa, aperta, pubblica, assembleare? Credo che la sinistra avrebbe tutto da guadagnarci per contare di più e recuperare alcuni punti programmatici dell'Unione.
Però intanto ci si divide persino sulla simbologia. In un processo unitario e plurale, che ne facciamo dei simboli di ciascuno? Falce e martello in soffitta?
E' bene che ciascuno tenga per sé i propri simboli e sarebbe un male pensare che i simboli abbiano la stessa valenza temporale dei programmi o degli schieramenti. I simboli non sono legati a una contingenza e per averne di nuovi non ci si può affidarere a delle invenzioni, nascono da processi storici. E, poi, per l'immediato un nome che unisce ce l'abbiamo già. Semplice, semplice: sinistra.
Un'ultima cosa. Se te la riproponessero oggi, accetteresti la presidenza della Camera?
L'accetterei, per tre motivi. Perché permette una conoscenza delle istituzioni che troppo spesso viene sottovalutato, come ci aveva ricordato parecchi anni fa Pietro Ingrao. Perché permette di dare visibilità e far diventare elementi di battaglia politica temi sociali troppo spesso messi in secondo piano: per fare solo un esempio gli infortuni sul lavoro. E perché dodici anni di direzione di un partito sono tanti, troppi per chi la esercita, come per chi la «subisce».