sabato 28 luglio 2007

Repubblica 28.7.07
Sinistra radicale all'attacco "Il piano welfare va cambiato in Parlamento"
Improvviso incontro con Prodi dei ministri di Prc, Pdci, Sd e Verdi sul protocollo d'intesa. Pecoraro e Mussi: "Le Camere sono sovrane, bisogna rimediare a decisioni sbagliate". Dalla Cgil arriva la reazione alla lettera con cui Palazzo Chigi chiedeva di firmare: "Non ci è piaciuta"
di Luisa Grion e Vincenzo La Manna


Vertice a Palazzo Chigi con Ferrero, Bianchi, Pecoraro e Mussi: " Modificare il piano in Parlamento". Il premier: è andata bene. Gelo con la Cgil
Braccio di ferro sul Welfare
La Sinistra a Prodi:"Duri, se ci ascolti".
"Scontentato un terzo della maggioranza". Cgil: la lettera del premier non ci piace
Pressing congiunto di Mussi, Ferrero, Bianchi e Pecoraro Scanio su Palazzo Chigi

ROMA - Ci è voluto un pranzo a Palazzo Chigi per stemperare il clima. E ci è voluto un chiarimento, da parte del premier, sulla disponibilità del governo a dialogare, a meglio definire nel corso del dibattito parlamentare alcuni punti del tanto discusso Protocollo sul welfare.
Ma riguardo a quelle norme su lavoro e competitività ieri la maggioranza ha rischiato un altro scontro: dopo il polemico scambio di messaggi fra Prodi e il leader della Cgil Epifani sulla firma di tutta, o di una sola parte, dell´intesa, anche la sinistra radicale ha fatto pesare il suo dissenso. In mattinata, proprio durante il Consiglio dei ministri, ha chiesto un urgente incontro con il premier.
Detto, fatto: a pranzo, fra pennette e filetto, Prodi, il ministro del Lavoro Damiano e il sottosegretario a Palazzo Chigi Enrico Letta da una parte, i quattro ministri della sinistra radicale dall´altra (Ferrero, Pecoraro Scanio, Bianchi e Mussi) hanno discusso sia sui contenuti che sui metodi dell´accordo.
Durante l´incontro - che si è svolto nell´appartamento del premier a Palazzo Chigi e al quale, quindi, era presente anche la moglie Flavia - pare che un ruolo di mediazione fra i ministri «dissidenti» lo abbia svolto soprattutto il leader dei Verdi Pecoraro Scanio che si è speso per evitare che dal tavolo della sinistra estrema partisse un nuovo strappo dopo quello, consumato qualche settimana fa, con la lettera dei ministri "estremi" su previdenza e tesoretto. Il ministro dell´Ambiente ha fatto notare che «un problema ci deve essere se il Protocollo accontenta la Confindustria e scontenta la Cgil». Il premier ha fatto presente ai rappresentanti dell´ala radicale che «è da un anno che mi fanno martire con la storia che sono vicino a voi, ma io sono in realtà il garante del programma».
Alla fine, però lo scontro è rientrato: il premier non ha chiuso a possibili modifiche del testo, ma ha avvertito che a decidere sarà il Parlamento. Modifiche e emendamenti che smussino i temi più caldi, dunque saranno ammessi, ma la partita è rimandata a settembre. Al prossimo Consiglio dei ministri (quello del 3 agosto) il Protocollo passerà così com´è , poi arriverà il dibattito e le eventuali modifiche.
Ma la partita, si sa, non sarà facile. Il ministro della Solidarietà sociale Ferrero è stato chiaro: «C´è un terzo della maggioranza che sostiene che quell´accordo va modificato - ha detto - in autunno si dovrà arrivare ad un´intesa in Parlamento. La nostra richiesta discussione non mi sembra esagerata, anzi è il minimo». E il collega dell´Università Fabio Mussi precisa: «Durante l´incontro c´è stata una mia obiezione condivisa da tutti sul capitolo della competitività. Il fatto che i contenuti siano tutti relativi al costo del lavoro è una cosa poco evoluta».
Ma se sul piano di governo la polemica si è al momento smussata, resta aperta quella con la Cgil. Alla missiva del premier - che il sindacato avrebbe giudicato priva di riferimenti concreti - Epifani risponderà con una nuova lettera la prossima settimana: ci sarà il sì al Protocollo, ma anche la forte riserva già espressa riguardo alla parte sul mercato del lavoro. L´intenzione della Cgil, dunque, è quella di tenere in qualche modo le mani libere, per agire in ogni sede e modo per modificare i punti controversi.

Corriere della Sera 28.7.07
Rifondazione e Pdci non si fidano: l'ipotesi di far rimettere il mandato E Diliberto: ora Romano mi chiami
L’altolà di Mussi: «Al capo del governo ho ricordato che abbiamo 150 parlamentari, non poca cosa: se poi lui vuol stare con i coraggiosi di Rutelli questa è un'altra storia...»


ROMA — «Io ormai ho una certa diffidenza... sono mesi che sento chiacchiere a cui non seguono i fatti, quindi aspetto di verificare quel che accadrà a settembre. Ma se pensano di metterci all'angolo in autunno, allora la situazione diventerà veramente molto complicata». Così Franco Giordano, segretario di Rifondazione comunista, qualche ora dopo l'incontro dei ministri della sinistra con Romano Prodi. E qualche minuto più in là, con i suoi, il leader del Prc è ancora più esplicito: «Se viene farfugliata qualche disponibilità in un pranzo, io, a questo punto, non prendo niente per buono: bisogna che si apra una vera conflittualità sociale, sennò non si otterrà nulla. Solo in questo modo, forse, riusciremo ad aprire uno spiraglio, anche perché sarà pur vero che il Partito democratico non cerca la rottura con noi, ma sicuramente è nato per farsi portatore dei disegni di Confindustria e dei poteri forti...».
Negli altri partiti della cosiddetta "Cosa rossa" non si ragiona in modo molto diverso. Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, è chiaro: «Io non mi sento impegnato o vincolato a niente. Prodi alzi il telefono e parli con me, mi spieghi quello che vuole fare, perché io di fronte al fatto compiuto non mi ci voglio più trovare». E Fabio Mussi, ministro dell'Università nonché leader della Sinistra democratica, ieri lo ha detto chiaro e tondo al premier: «Noi abbiamo centocinquanta parlamentari... che non è che non contino proprio nulla, se poi tu vuoi stare con i coraggiosi di Rutelli, questa è un'altra storia...». Un'altra storia, o, meglio, la Storia con la S maiuscola, che la sinistra radicale soffre l'offensiva dell'ala più moderata dell'Unione e non ha ancora bene capito dove vada a parare. Ma, soprattutto, non ha capito da che parte stia veramente il premier. Prodi lo ha ribadito anche ieri: «Volete farmi cadere? Io non sono attaccato alla poltrona...». Quasi una sfida. A cui, però, la "Cosa rossa" non sa rispondere anche perché il maggior partito della sinistra dell'Unione, ossia Rifondazione comunista, sconta ancora il peccato originale del '98, quando Bertinotti, allora leader del Prc, fece cadere Prodi.
Di ingoiare tutto, ma proprio tutto, comunque, i rifondatori non hanno voglia. Capiscono che bisogna premere sull'acceleratore e poi allentare e, alle volte, usare persino il freno a mano, ma non possono fermare la loro auto e regalarla, chiavi in mano, all'area riformista dell'Unione. In queste ore, quindi, si medita sulla controffensiva. Magari la stessa che si studiò all'epoca del braccio di ferro sulle pensioni e che, però, non venne poi adottata. Una mossa traumatica, uno "strappo": i ministro Università e Ricerca quattro ministri della sinistra, gli stessi che ieri, chez Prodi, hanno mangiato fiele e miele, potrebbero rimettere il loro mandato nelle mani del premier. Loro ci avevano pensato ancor prima che lo facesse Emma Bonino. Poi hanno preferito soprassedere, nella speranza che, dopo le pensioni, sulla successiva trattativa sul Welfare, avrebbero strappato qualcosa. Ma niente. Quando Mussi ha parlato con un Epifani furibondo perché «mi hanno fatto il gioco delle tre carte, facendomi vedere una bozza e facendomene firmare un'altra », i partiti della sinistra dell'Unione hanno capito che lo spazio di manovra era quantomai esiguo. E la risposta di Prodi alla lettera del segretario della Cgil li ha confermati nella loro opinione. Tanto che è stato anche per "coprire" Epifani, così duramente trattato dal premier, che i quattro ministri hanno chiesto l'incontro. Lo hanno ottenuto, condito con una mezza disponibilità. A cui non credono più di tanto. Per questo a settembre potrebbero mettere in atto ciò che pensavano di fare già a luglio. E quando rimetteranno i loro mandati sarà Prodi che dovrà decidere che cosa fare. Senza poter dire quel che sussurra a mezza bocca adesso: «I miei partner sembrano non capire che se cado io, cadono anche loro...».

l’Unità 28.7.07
Il grande freddo tra Prodi ed Epifani
Il segretario della Cgil «deluso» dalla lettera del premier
di Marco Tedeschi


CONTRASTI La lettera di Romano Prodi («Caro Epifani, l’accordo va firmato per intero...») non è piaciuta al destinatario e alla Cgil tutta e lo scambio espistolare tra il capo del governo e il segretario generale della Cgil continuerà, ci si augura in toni meno
gelidi rispetto a quelli che si sono fin qui manifestati. La prossima missiva sarà di quest’ultimo, che non firmerà il famoso e contestato protocollo d’intesa su lavoro, welfare e previdenza, ma spiegherà il consenso (e il dissenso) suo e dell’organizzazione per iscritto, dettagliando dunque, per quanto sarà possibile, i punti critici. Così come farà Confindustria. Mentre Angeletti ha già firmato per la Uil e Bonanni si appresta a farlo.
Guglielmo Epifani non ha commentato pubblicamente la risposta di Prodi. Ma si sa della sua insoddisfazione, perchè il capo del governo non avrebbe risposto agli interrogativi posti e alla contestazione che continua a riguardare soprattutto il pacchetto lavoro e quindi il cambiamento di alcune “voci” della legge 30 e la decisione di «azzerare ogni contribuzione aggiuntiva sullo straordinario». Una «risposta ecumenica quella di Prodi», avrebbe giudicato il sindacato di Corso d’Italia. Epifani aveva accusato l’esecutivo di aver cambiato, a sorpresa, pochi minuti prima dell'incontro con il sindacato, il testo del protocollo d’intesa. Con una conclusione: la Cgil si intende libera di agire in ogni sede e modo per modificare quei punti contestati, alcuni dei quali rappresenterebbero una vera «aberrazione». Non è rottura, non è scontro, ma è un accentuare il ruolo tutt’altro che accomodante, tutt’altro che “passivo” del primo sindacato italiano.
La posizione di Epifani, raccolta dal Comitato direttivo della Cgil di lunedì scorso dopo un’estenuante discusssione, ha incontrato un consenso diffuso nell’organizzazione, come ha sintetizzato il segretario confederale Carla Cantone: «Il dibattito e le conclusioni dei direttivi e degli attivi territoriali confederali, nell'apprezzare le valutazioni e le argomentazioni politiche di merito e metodo avanzate dal segretario generale Guglielmo Epifani a nome della maggioranza della Segreteria nazionale, hanno sottolineato la irrinunciabile necessità di avviare unitariamente la più ampia consultazione certificata e vincolante dei lavoratori e dei pensionati». Cioè, da quasi tutte le regioni e dai capoluoghi più importanti, dal Piemonte alla Sardegna, da Milano a Palermo, è giunto appoggio alla linea di Epifani. Ma nella stessa Cgil sono apparse posizioni di dissenso radicali, dalla Fiom di Rinaldini in particolare e non solo dalla Fiom: ancora ieri la segreteria dei metalmeccanici di Brescia si esprimeva nel segno della forte contrarietà ai contenuti dell’intesa.
Diverso l’atteggiamento di Uil e Cisl. Luigi Angeletti, segretario della Uil, dopo la firma, ha confermato un «giudizio complessivamente positivo». Ma ha anche ricordato che l'ultima parola spetta comunque ai lavoratori: «Il loro giudizio sarà vincolante». Bonanni, segretario della Cisl, ha apprezzato la lettera di Prodi e l’ha definita un intervento «appropriato, puntuale ed efficace». Anche Bonanni ha rinviato il giudizio definitivo alla consultazione con i lavorator, «sulla base - ha puntualizzato - delle risposte del protocollo del Governo al documento unitario di Cgil, Cisl e Uil di febbraio, testo nel quale però, proprio per mantenere l'unità tra i sindacati, non venivano menzionati nè la legge 30 (la legge Biagi, ndr) nè la possibile revisione dell'accordo del 1993».

l’Unità 28.7.07
Cesare Salvi. «Fiducia o non fiducia» dichiara il senatore della sinistra «non si può accettare»
Il pacchetto Damiano così non lo voto
di Roberto Rossi


«Se il pacchetto Damiano dovesse trasformarsi in legge così com’è io non lo voto. Fiducia o non fiducia». E con il senatore Cesare Salvi, ex ministro del Lavoro, tutta la sinistra della maggioranza.
Eppure il ministro del Lavoro Damiano l’ha dichiarato “chiuso”?
«Ha fatto un errore. Ha diviso il sindacato e isolato la Cgil. Non solo non c’è niente di inemendabile ma se non lo si fa si finisce male. Sulle pensioni siamo stati responsabili. Lì c’era un problema di soldi. Qui no».
L’incontro tra Prodi con i ministri di sinistra non è l’inizio di un dialogo?
«Sì, ma vorrei essere molto chiaro: non si pensi che portando il pacchetto welfare in Finanziaria e mettendo la fiducia noi lo voteremo».
A quali modifiche state pensando?
«Sulla questione del lavoro abbiano indicato una soluzione che riprende quella del programma elettorale. Noi avevamo detto di superare alcuni aspetti della Legge 30 e di introdurre il divieto di reiterazione del lavoro temporaneo. In questo protocollo c’è l’esatto contrario. Non a caso il maggior entusiasmo Confindustria l’ha mostrato proprio su questo punto. Nel pacchetto si elimina solo il job on call, mentre resta particolarmente grave la disciplina del tempo determinato».
Perché la considera grave?
«L’Europa ha una direttiva nella quale c’è il divieto di reiterazione del contratto a termine. Damiano non l’ha recepita. Punto primo: considera solo il tempo determinato mentre nel lavoro temporaneo c’è anche il lavoro interinale. Punto secondo: prevede la possibilità di reiterare il contratto a tempo determinato per un arco di 36 mesi. Punto terzo: successivamente prevede anche una nuova reiterazione con il solo elemento burocratico di un timbro dell’ispettore del lavoro. Secondo lei che cosa sceglie un giovane tra la prospettiva di perdere un contratto, anche se a tempo determinato, e andarsene a casa, e la possibilità di andare a mettere un timbro?
Quale altro punto del protocollo non vi è piaciuto?
«La decontribuzione salariale è sbagliata fatta in quel modo. Oltre tutto è una misura che costa. Fare una legge di tipo europeo non si spende nulla, questa misura Damiano invece costa».
Quanto secondo lei?
«Non quanto il cuneo fiscale, ma comunque cifre rilevanti. Tutte a vantaggio delle imprese. I custodi del rigore non hanno nulla da dire?».
Voi avete sempre puntato ad abbattere i costi della politica. A che punto siamo?
«Noi abbiamo ottenuto che nel Dpef fossero inserite misure di risparmio da recepire in Finanziaria. Tra queste un ritorno alla legge Bassanini con una riduzione dei ministri. Servirebbe un governo con la struttura di quello francese (15, ndr). Adottando questa misura risparmieremmo fino a 150 milioni».
In Italia i ministri sono 25. Chi dovrebbe abbandonare?
«Noi di Sinistra democratica siamo disposti anche a fare un passo indietro. Faccio notare però che il futuro Partito democratico su 25 ne ha 18».

l’Unità 28.7.07
Tutti in Cantiere, la sinistra dell’Unione punta sulla conoscenza
di Gabriella Gallozzi


La conoscenza senza se e senza ma. Al di là della «mercificazione che riduce gli spazi della libertà». E come «occasione di uguaglianza e liberazione». Così come era stata «concepita» nel programma dell’Unione, insomma. A fronte, invece, di «un impoverimento» degli spazi che vanno dalla cultura alla scuola, dalla ricerca all’università. È questo il punto di partenza del «Cantiere della conoscenza», l’iniziativa lanciata da Rifondazione comunista, Sinistra democratica, Verdi e Comunisti italiani che ieri, alla presentazione in Senato, poteva già contare su una lunga lista di adesioni da parte di personaggi del mondo della cultura, dello spettacolo, dell’Università, della politica: Sabina Guzzanti, Sandro Curzi, Citto Maselli, Wilma Labate, la sottosegretaria ai Beni culturali Danielle Mazzonis, il critico Bruno Torri, Massimo Ranieri, Giovanni Berlinguer, Benedetta Buccellato e tanti altri, oltre ad associazioni e movimenti della società civile. Insomma, un «luogo unitario di iniziativa e azione», per «portare nelle Istituzioni il frutto del lavoro comune, insieme ad artisti, intellettuali ed associazioni».
«Si dimentica che nel programma dell’Unione tradito quotidianamente - dice Alba Sasso della Sinistra democratica - si riportava la formazione come centrale. A quell’idea, invece, si è sostituita l’ossessione del risanamento del debito con politiche orribili su scuola, università, ricerca». Questo per quanto riguarda la scuola, ma non diversamente è accaduto al mondo del cinema e della cultura. Il primo appuntamento, dunque, è in Finanziaria, sottolinea la senatrice Maria Agostina Pellegatta, «in questa sede si deve chiedere il risarcimento verso la scuola, l’investimento del governo nella cultura, l’abbassamento dell’Iva al 4% per tutte le attività culturali». Ma sopratto, prosegue la senatrice, si «deve contrastare la deriva centrista dell’Unione nel suo tentativo di governo monocolore». Affinché la cultura torni ad essere centrale e si blocchi «la privatizzazione del sapere». Temi questi, già tutti presenti al tavolo programmatico dell’Unione, ribadisce Loredana Fraleone di Rifondazione, «è in quella sede, in realtà, che ha preso il via il Cantiere». Ma è oggi che i lavori entrano nel vivo. Per ribadire, come sottolinea Stefania Brai, responsabile cultura di Rifondazione, «che la cultura è uno strumento di sviluppo, un valore sociale in sé, indipendentemente dall’utile economico che produce. È strumento per capire e cambiare il mondo. Non dimentichiamo, infatti, che Berlusconi vinse soprattutto culturalmente». Da qui l’invito alla «mobilitazione», alla partecipazione nel «Cantiere della conoscenza» aperto a tutti e che dà appuntamento al prossimo 6 ottobre con una giornata di «lavori».

l’Unità 28.7.07
Ruffolo: «Siamo tutti riformisti»
di Bruno Gravagnuolo


«Quel che mi riesce impossibile da capire, è la distinzione tra sinistra riformista e sinistra radicale. Nessuno propugna più la rivoluzione contro le riforme, o sbaglio?». Comincia con una domanda dell’intervistato, l’intervento di Giorgio Ruffolo - uomo della cultura di programma socialista - nel dibattito sulla «sinistra smarrita». Replica alla domanda: Lei sa bene che tutto dipende dalla parola stessa: riformismo. C’è chi la tira di qua e chi di là. Da destra da sinistra, e magari in termini di schieramenti di “nuovo conio”, vedi Rutelli...». «Vero - dice Ruffolo - e allora chiariamo. Riformismo, da sinistra, non è certo assecondare gli equilibri esistenti. Bensì farli evolvere in avanti. Modificando i rapporti di forza tra i ceti sociali». Non significa perciò assecondare il capitalismo? «No, vuol dire fare avanzare tutti. Introdurre giustizia democrazia, regole per l’ambiente. E promuovere i bisogni sociali. E poi il capitalismo non è una forza naturale eterna. Benché si sia rivelato imbattibile nel produrre ricchezza, fino ad oggi».
Dunque Professore, la sinistra ha una missione specifica? «Sì, emancipativa! Opposta alla subalternità rispetto agli assetti dati, pur dentro compatibilità realistiche. È su questo che si misurano la destra e la sinistra. Non in relazione a criteri ideologici o topografici. Tipo: a sinistra contro l’America, a destra a favore. A sinistra con gli arabi, a destra contro...». Bene, ma facciamo qualche esempio concreto. La sinistra deve difendere uno stato sociale universalistico, o modellarlo secondo le esigenze dell’impresa privata? «Lo stato sociale universalistico - per la sinistra - è irrinunciabile. Tutti hanno diritto ai servizi fondamentali, senza i quali non ci sono né persone né diritti. Né eguaglianza, né libertà. Ben per questo Jospin diceva: economia di mercato sì, società di mercato no. Slogan ancora buono, da sottoscrivere. Il problema è come trovare le risorse, in una situazione in cui la pressione fiscale è avvertita come intollerabile». Giusto, ma evasione fiscale a parte, non è certo di sinistra togliere ai poveri... per dare ai poveri. Come si vuol fare con le pensioni: diminuendo i rendimenti e alzando l’età pensionabile. Ai danni dei lavoratori che versano i contributi, e col pretesto di voler finanziare formazione e ammortizzatori sociali. «Le rispondo così. Sulle pensioni s’è fatto dell’allarmismo, visto che l’età media effettiva del pensionamento in Italia non è lontana da quella europea. Tuttavia un problema di riequilibrio, tra base contributiva e allungamento della vita media, esiste. E in fondo quello trovato dal centrosinistra al governo mi pare un buon compromesso: allungamento dell’età lavorativa, spalmato gradualmente. Che rispetta i diritti acquisiti, e guarda agli equilibri di bilancio. Il punto però resta: come finanziare il nuovo welfare, oltre alle pensioni?». Già, come? «Credo che la soluzione stia nel “welfare market”, cioè nell’adottare una modalità cooperativa e associativa nel campo dei servizi. Insomma: l’impresa sociale-privata. Che può scaricare lo stato da molti oneri, e integrarlo». La prendo in parola, Professore. Ma perché allora non estendere lo schema anche all’economia privata? Magari senza illudersi di dover fare finanza cooperativa, sganciata da fini mutualistici... «Credo che il movimento cooperativo resti un’idea-forza della sinistra, oltre che una grande realtà economica figlia della tradizione socialista. Ma va detto che l’impresa privata classica ha un motore più forte, senza i vincoli di quella cooperativa. Ottima quest’ultima sul territorio, nella distribuzione, ma ancor più promettente nel campo chiave della solidarietà: i servizi sociali. È in questa direzione che va spinta, non in quella di un’improbabile competizione sul piano finanziario, che rischia di snaturare la mutualità e di renderla irriconoscibile. Aggiungo: inutile voler entrare nel salotto buono della finanza. Si finisce col confondere le regole dell’economia con il ruolo della politica. E una politica di sinistra non deve mescolarsi con l’economia, bensì guidarla e regolarla».
Veniamo a un tema classico, keynesiano e di sinistra: la piena occupazione. La sinistra deve promuoverla, o contentarsi di un lavoro perennemente flessibile e precario, da plasmare e «formare» alla bisogna? «No, la piena e buona occupazione deve essere obiettivo primario per una vera sinistra. Altrimenti facciamo del lavoro una merce come un’altra. Mentre è una questione di dignità, di identità. Che non tocca solo la sfera dello scambio e della prestazione materiale, ma l’intero arco delle relazioni umane. Sicché il mio criterio è il seguente: graduare la flessibilità a seconda delle età della vita. Vi sarà quindi un periodo di apprendimento e di flessibilità, nella vita di ciascuno. Che alla fine culminerà, o dovrebbe culminare, in un lavoro stabile, frutto di esperienze diversificate. Oltretutto un lavoro perennemente precario, non aiuta un’economia di qualità». Torniamo al capitalismo. Tra i suoi Mantra c’è la «concorrenza». E però c’è chi come Sarkozy - da destra! - espunge quell’imperativo dalla Costituzione europea. Che ne pensa? «Sarkozy, uomo abilissimo ed egemonico, fa benissimo a demistificarne l’aura sacrale. Anche da sinistra si può, e si deve dire: la concorrenza è un mezzo. Un vincolo di cui tener conto. Non l’obiettivo supremo di una società giusta».
E ora parliamo del Partito democratico, verso il quale parte della sinistra si avvia. Lei - che all’inizio fece parte del Comitato dei tredici per il manifesto inaugurale - ne è uscito subito. Come mai? «Perché mi sono accorto che su temi chiave il Pd era elusivo. Il primo è quello della collocazione internazionale del nuovo partito. Un problema esistenziale, rimasto inevaso. Chiedo: dove si schiererà il Pd in Europa? Non basta dire che si muoverà tra i demo-liberali e i socialisti. Che allargherà le frontiere. No, la sinistra europea che conta è il socialismo europeo. E senza tale ancoraggio, la nuova creatura sarà fragile e incerta. Il secondo punto di dissenso concerne la mancanza di un vero orizzonte progettuale. Che tipo di società propugna il Pd? Quali finalità generali? Quale economia? Tutto questo non è chiaro, benché la nuova leadership di Veltroni abbia reso più credibile questa scommessa, infondendole maggiore autorevolezza e incisività». Scusi Professore, ma il Pd non inclina verso un forte ridimensionamento del ruolo del lavoro, come asse del blocco sociale di riferimento? Massimo Cacciari per esempio, dice che privilegiare il lavoro dipendente è «reazionario», a fronte delle nuove figure sociali emergenti... «Guardi, sappiamo bene che la geografia sociale si è arricchita e che il lavoro è mutato! Ma Cacciari sbaglia, se pensa che il profilo del lavoro coincida con quello dell’individualismo di mercato, fatto di tante figure che scambiano le loro prestazioni. Ciò non corrisponde al peso maggioritario del lavoro dipendente. E non è nemmeno accettabile come paradigma etico». Ultima questione, l’Europa. La si è magnificata, caro Ruffolo. Ma appare sempre più come un recinto di scambi, finanza e regole monetarie. Domanda: che cosa ha fatto il socialismo europeo per fare dell’Europa una potenza democratica sovranazionale? «Senza dubbio pochissimo. E se consideriamo che fino a pochi anni fa erano 13 i governi a guida socialista su 15, allora il Pse deve prendersela solo con se stesso». Il Pse avrebbe dovuto contrastare gli alti tassi della Bce e promuovere così politiche di piena occupazione? «No, la Banca centrale fa il suo mestiere: controlla il tasso di inflazione. Il punto è un altro. Ci sarebbe voluta una politica economica in grado di attrarre capitali, per farne il volano di uno sviluppo forte. Parlo di grandi progetti infrastrutturali, per canalizzare risorse e farle fruttare in termini di indotto e opportunità di investimento. Era l’idea di Jacques Delors: del tutto dimenticata! E poi non è questione di Euro forte o meno. Semmai di come usare l’Euro forte. E qui che l’Europa e la sinistra sono mancate. Totale assenza di politiche industrali ed economiche...».
E la laicità, professore, non è un altro dei punti dolenti del Pd? «Giusto, quasi ce ne dimenticavamo. È un altro dei punti inevasi del Pd. E anche qui, è questione di dignità. Dignità del lavoro, della vecchiaia, delle donne, dei giovani, dei deboli. E dignità dei non credenti. Non mi pare che sia risultata centrale, negli intenti del Pd. E si tratta di una questione non negoziabile sul piano dei principi». Insomma professor Ruffolo, malgrado i suoi «paletti», il Pd sembra averla delusa per ora, o no? «Io gli auguri a Veltroni li ho fatti. Lui può farcela, a prescindere dalla ridda dei conflitti interni ed esterni sulla strada del Pd. Quanto all’essere deluso, non posso esserlo... Perché è da tanto tempo che non mi illudo più».

Repubblica 28.7.07
La dolce utopia di un mondo dove esiste una sola razza
di Timothy Garton Ash


Qualche tempo fa in occasione di un censimento fu chiesto ai brasiliani di specificare il proprio colore di pelle. Vennero fuori 134 diversi termini, tra cui alva-rosada (carnagione bianco-rosata), branca-sardenta (bianca con macchie brune), café-com-leite (caffèlatte), morena-canelada (bruno-cannella), polaca (fisionomia polacca), quase-negra (quasi nera) e tostada (tostata). Queste descrizioni spesso gioiosamente poetiche sono specchio di una realtà ben visibile soprattutto nelle aree più povere delle metropoli brasiliane. Girando per la Città di Dio, un quartiere povero di edilizia popolare nell´immediata periferia di Rio de Janeiro (dove è stato girato il film omonimo), ho visto ogni possibile sfumatura di colore e varietà di fisionomie talvolta all´interno di una stessa famiglia. Alba Zaluar, esimio antropologo che da anni lavora tra gli abitanti della Città di Dio, mi ha raccontato che la gente ironizza su questa cosa dandosi nomignoli come "latticino" o "moretto". E questa eterogenea miscela di tratti somatici risulta spesso di grande bellezza.
Il Brasile è un paese in cui la mescolanza delle razze è considerata una delle ricchezze della nazione e il termine "meticciato", brutta parola inappropriata assume qui una connotazione positiva. Ma c´è un rovescio della medaglia. Dall´inizio del Ventesimo secolo il Brasile si dipinge come una "Democrazia razziale" in contrapposizione alla segregazione razziale all´epoca vigente negli Stati Uniti. Ma la realtà ancora oggi è che la maggioranza dei non-bianchi è in condizione di inferiorità sotto il profilo economico sociale e dell´istruzione rispetto alla maggioranza dei bianchi. E questa disuguaglianza è in parte frutto di discriminazione razziale.
Ero in Brasile per porre domande sulla povertà, l´esclusione e l´ineguaglianza sociale. Nel giro di pochi minuti il discorso andava sulla razza. E´ accaduto regolarmente, anche a colloquio con l´ex presidente brasiliano, Fernando Henrique Cardoso.
In un vivace memoriale, Presidente del Brasile per caso , Cardoso ricorda la ricerca condotta quand´era un giovane sociologo nelle baraccopoli. Pur registrando l´ampia mescolanza di razze giunse alla conclusione che «in via generale essere nero in Brasile equivaleva ad essere povero».
Per affrontare il problema il suo governo diede avvio a progetti anti-discriminazione, incrementati sotto il presidente Lula. Oggi in molte università sono previste quote di ammissione per gli aspiranti provenienti dalle scuole statali e per i neri. Sulle quote per i neri si è aperta una feroce diatriba. I critici ne fanno innanzitutto una questione di principio. Stando alle cronache Maria-Tereza Moreira de Jesus, poetessa e scrittrice nera ha commentato: «Il razzismo esiste, dal modo in cui ti trattano nei negozi ai colloqui di lavoro, ma basare l´ammissione sulla razza è un´altra forma di razzismo». Un rapper nero che ho conosciuto in una favela di San Paolo, "MC Magus", si è detto contrario alle quote perché «siamo tutti uguali».
Esiste poi un ostacolo di ordine pratico: come stabilire chi è "nero" in una società così miscelata e multicolore? Il problema è emerso con chiarezza nel recente caso dei due gemelli identici Alex e Alan Teixera da Cunha, che avevano entrambi presentato domanda di ammissione all´Università di Brasilia in base al sistema delle quote. Alan è stato ammesso come nero, Alex respinto come non nero. L´ Università di Brasilia dispone in realtà di una commissione che determina la razza in base alle foto dei candidati considerando fenotipi come capigliatura, colore della pelle e tratti somatici. A raccontarmi questo episodio è stato un ebreo. «Puoi immaginare che cosa ne penso», ha detto.
Alcuni degli attivissimi movimenti neri preferiscono il termine "oriundi africani". Ma in base alle stime di un recente studio scientifico condotto sul Dna nucleare e mitocondriale fino all´85 per cento della popolazione, inclusi decine di milioni di brasiliani che si considerano bianchi, hanno nel loro genoma una componente africana superiore al 10 per cento. (I primi coloni portoghesi in genere non portavano le mogli con sé).
Resta valido quindi il sistema di definizione soggettiva tradizionalmente utilizzato in Brasile. I dati ufficiali più recenti forniti dall´istituto geografico e statistico indicano che circa il 50 per cento dei brasiliani si definisce "bianco", poco più del 40 per cento "bruno", poco più del 6 per cento "nero" e meno dell´un per cento "giallo" (cioè oriundo asiatico, soprattutto giapponese) o "indigeno" (traduzione letterale delle cinque categorie specificate). Con un´audace iniziativa i rappresentanti dei movimenti neri, alcuni dei quali finanziati da fondazioni americane hanno proposto che l´intera popolazione non-bianca venga classificata come nera. Tutto si semplificherebbe: o bianchi o neri.
Altri inorriditi gridano che una soluzione simile equivarrebbe ad importare il peggio della classificazione razziale all´americana negando la specificità dell´ibrido razziale brasiliano. Se proprio servono quote di ammissione all´università in base al colore della pelle (prassi giudicata discriminatoria dai tribunali negli Stati Uniti) che almeno si fondino sul metodo tradizionale brasiliano dell´autoidentificazione. In passato i brasiliani tendevano a collocarsi entro la sezione più chiara dello spettro, soprattutto con il migliorare della loro posizione economica ("il denaro sbianca" osserva senza tanti complimenti un sociologo). Se ora per via delle quote c´è qualcuno in più che preferisce essere nero, ben venga. Dopo tanti secoli in cui è stato molto più vantaggioso essere bianchi – la schiavitù è stata abolita in Brasile solo nel 1888 – è giusto mescolare un po´ le carte. E se questo significa che un giorno una ragazza generalmente considerata bianca farà domanda di ammissione all´università come nera, beh, buona fortuna.
Non essendo brasiliano non sono in condizione di esprimere un giudizio sull´argomento.Capisco le forti motivazioni contro le quote in base al colore della pelle e capisco anche che la dura realtà di discriminazione retaggio del passato va affrontata. La decisione spetta i brasiliani. Ma spero con tutto il cuore che il Brasile si avvicini a realizzare il suo antico mito di "democrazia razziale" invece che allontanarsene chiudendosi in classificazioni razziali anacronistiche e riducendo complesse identità ad un´unica caratteristica. Perché la realtà brasiliana apre una finestra sul futuro di noi tutti in un mondo che vedrà una sempre maggiore mescolanza di popoli.
Mi rendo ovviamente conto che posso dare l´idea del ricco straniero bianco ( più che bianco in realtà alva-rosada, soprattutto dopo quindici giorni trascorsi sotto il sole brasiliano) che fa una gita di un paio di giorni nelle favela ed esclama "com´è bella questa gente". Ma lo dico lo stesso: in Brasile anche in mezzo alla miseria e alla violenza, frutto della droga, della Città di Dio ho avuto modo di cogliere la bellezza della miscela di razze. E´ proprio questo ibrido che ha contribuito a fare dei brasiliani gli esseri umani più belli della terra. Se e ripeto, solo se, il Brasile saprà correggere i suoi spaventosi squilibri sociali ed economici, incluso il retaggio di discriminazione, qui si prefigura la possibilità di un mondo in cui il colore della pelle non è nulla più che una caratteristica fisica come il colore degli occhi o la forma del naso, un attributo da ammirare, di cui prendere pacatamente atto o su cui ironizzare. E di un mondo in cui l´unica razza che conta è la razza umana.

Repubblica 28.7.07
Stalin ingegnere del male
Settant'anni fa l’apogeo del terrore sovietico
di Maria Ferretti


La macabra gara tra signori locali
Confessioni estorte con la tortura
Al 30 luglio del 1937 risale l´azione repressiva più sanguinaria, portata alla luce solo dopo l’apertura degli archivi

Il 30 luglio 1937, il Politbjuro del partito comunista sovietico approvava il segretissimo ordine operativo 00447, stilato alla vigilia da Eov, il capo del Ministero degli interni (NKVD): prendeva così avvio l´ondata repressiva più sanguinaria del Terrore staliniano, responsabile, da sola, di più della metà delle vittime. Secondo le stime più recenti, ma non ancora definitive, le repressioni scatenate il 5 agosto in base all´ordine 00447 portarono alla condanna di 818.000 persone, di cui 436.000 furono fucilate, su un totale di 1.440.000 condannati e 725.000 giustiziati nel 1936-1938. Tenuta segreta, questa operazione terroristica di massa, ricostruita soltanto dopo l´apertura degli archivi, getta una luce nuova sul Terrore e sulla sua funzione nella società sovietica degli anni Trenta. Tradizionalmente considerato, come suggerivano i processi di Mosca in cui era stata sterminata la vecchia guardia bolscevica, il punto culminante delle purghe rivolte contro le élites politiche, militari e intellettuali con lo scopo non solo di eliminare gli oppositori a Stalin, ma anche di promuovere giovani quadri legati da un vincolo di fedeltà personale al dittatore, il grande Terrore appare oggi anzitutto il frutto di un preciso disegno di ingegneria sociale, volto a estirpare dal corpo sociale tutti quegli elementi che, per ragioni sociali o etniche, erano considerati "estranei" o "nocivi" per la nuova società socialista.
Questa logica è del resto esplicita nel preambolo dell´ordine 00447, che invitava la polizia politica a "farla finita una volta per tutte" con gli "elementi socialmente pericolosi", cioè con tutta quella schiera di figure del passato, di "uomini-ex" - ex-kulaki, i contadini benestanti già spodestati da Stalin con la collettivizzazione, ex religiosi, ex militanti di partiti soppressi dopo la rivoluzione e via dicendo - che, per via della loro stessa natura, erano sospetti di nutrire scarse simpatie per il regime. Per primi erano presi di mira i kulaki già deportati che, fuggiti dal confino o liberati allo scadere dei termini, avevano fatto ritorno ai villaggi, quando non avevano trovato lavoro nei cantieri dei primi piani quinquennali. Oltre ai kulaki, ai "banditi" e a sabotatori di ogni genere e tipo, finiva sotto la scure dell´ordine 00447 chiunque fosse tacciato di "attività antisovietica", un´etichetta, questa, affibbiata tanto al contadino che, per quanto povero, osava rimpiangere la sua fattoria, quanto all´operaio che si azzardava a protestare per le decurtazioni salariali o per l´aumento forsennato dei ritmi di lavoro imposto con l´industrializzazione forzata.
Gli "elementi antisovietici" andavano suddivisi, secondo l´ordine 00447, in due categorie. Per quelli di prima categoria, i più pericolosi, era prevista la fucilazione immediata. La condanna era pronunciata, dopo una sommaria istruttoria, dalle trojke, organi extragiudiziari formati dal segretario regionale del partito, il capo del NKVD locale e il pubblico ministero. L´inchiesta era rapida, per non allungare i tempi della campagna repressiva, che, come tutte le campagne del paese dei soviet, avanzava a tempi di record. La prova di colpevolezza principale era la confessione, estorta spesso agli imputati con la tortura, che proprio sul finire di luglio 1937 era tornata in auge nelle carceri sovietiche. La condanna a morte era segreta, anche per gli interessati. Segreto era pure il luogo dell´esecuzione. Per i condannati meno pericolosi - la seconda categoria - erano previsti invece 8-10 anni di lavoro forzato nei campi dell´arcipelago Gulag.
L´ordine 00447 stabiliva anche le "quote" di nemici del popolo da sradicare regione per regione e precisava quanti andavano fucilati - la "I categoria" - e quanti dovevano finire nei lager. Le quote erano fissate in base alle stime inviate al Cremlino, su richiesta del Politbjuro, dai responsabili regionali. La quota più elevata fu attribuita a Mosca, allora feudo di Chrušcev, che ottenne 35.000 vittime, di cui 5.000 di I categoria. Seguivano le terre di confino, la Siberia occidentale (17.000, di cui 5.000 di I) e gli Urali del sud (16.000, con 5.500 in I); un tributo meno esorbitante era chiamata a pagare Leningrado (14.000, di cui 4.000 in I), già martoriata dalle purghe degli anni precedenti. Fuori dalla Russia, la più colpita era l´Ucraina, con 28.800 arrestati e 8.000 fucilati. Macabro segno del fascino esercitato, negli anni dell´industrializzazione, da cifre e diagrammi, le quote non erano una novità assoluta. Già durante la collettivizzazione Mosca aveva assegnato alle regioni le quote di contadini da spodestare, specificando quanti andavano arrestati e quanti deportati. La differenza, nel 1937-1938, fu che ora la morte veniva decisa a tavolino, con un tratto di penna, una cifra nero su bianco in base a cui si sarebbero poi selezionati gli uomini.
Le cifre proposte dall´ordine 00447 - 75.950 fucilati e 193.500 internati - erano ben inferiori a quelli che saranno i risultati finali dell´operazione. In breve volgere di tempo, le quote assegnate da Mosca vennero esaurite e molti zelanti gerarchi locali, ansiosi di far bella figura davanti ai superiori, cominciarono a chiedere assegnazioni supplementari. Dalle province lontane giungevano al Cremlino telegrammi con richieste di aumentare le quote, perfino di 8 o 9 volte. E il Cremlino, compiacente, autorizzava, aizzando la macabra gara fra i signorotti locali. Invece che i 4 mesi previsti, l´operazione finì per durare più di un anno. A mano a mano che il tempo passava, gli aumenti di quote si facevano sempre più vorticosi. Nella primavera del 1938, Stalin concesse all´Ucraina l´aumento più elevato accordato a una sola regione: 30.000 vittime, e tutte di I categoria. Per realizzare le quote, gli agenti del NKVD, una volta esaurite le liste degli schedati, si lanciavano a caccia d´uomini circondando mercati e stazioni, dove si riuniva la povera gente in cerca di espedienti per sbarcare il lunario: chi era senza passaporto finiva nel mucchio. Con le retate e gli arresti notturni, le prigioni si riempivano fino a scoppiare. Per decongestionarle, Berija, futuro capo del NKVD, escogitò presto la soluzione: promuovere i prigionieri più pericolosi di categoria, passandoli in prima.
L´"operazione kulak", come era detta dagli uomini del NKVD, fu l´ondata repressiva più importante, ma non la sola, che si abbatté sulla società sovietica nel 1937-1938 per "purificarla" dagli "elementi estranei". Pochi giorni prima dell´ordine 00447, il 25 luglio, era stato diramato l´ordine 00439, che ingiungeva di arrestare, nel giro di 5 giorni, tutti i tedeschi impiegati in settori strategici (industrie legate alla difesa, ferrovie) e i sovietici che avevano un qualche rapporto con loro, tutti considerati spioni al soldo della Gestapo. Dopo i tedeschi, fu la volta dei polacchi (che pagarono il tributo più elevato: 143.810 condannati, di di cui quasi l´80% a morte), seguiti da lettoni e finlandesi, greci e rumeni, estoni e coreani. Fra luglio 1937 e novembre 1938 vennero condannate, nel quadro delle operazioni nazionali, 335.513 persone, di cui quasi i tre quarti alla pena capitale (247.157, cioè 73,6%), una percentuale ancora maggiore che per l´operazione kulak.
Che cosa scatenò la spaventosa mattanza del 1937-1938? Ci fu certo la personalità di Stalin, la paranoia del dittatore, incline a vedere ovunque tradimenti e complotti. Ci fu la psicosi di una guerra imminente, scatenata dal deteriorasi della situazione internazionale e dall´aggressività tedesca. Ma ci fu anche la volontà di stroncare sul nascere ogni possibilità di protesta sociale nel momento in cui si temevano nuove, gravi difficoltà economiche e, con l´adozione, nel 1936, della nuova Costituzione staliniana, il paese si apprestava ad andare alle urne, per quelle elezioni che la propaganda decantava come le più libere del mondo: da questo punto di vista, il Terrore fu un´operazione repressiva preventiva volta a terrorizzare la società e a privarla dei suoi possibili leader. Per dirla con Nicolas Werth, uno dei maggiori specialisti delle repressioni staliniane, il Terrore del 1937-1938 fu il culmine parossistico di quella gestione poliziesca del sociale che era stata inaugurata con la collettivizzazione e proseguita negli anni successivi con una serie di politiche volte a espellere dal corpo sociale, e soprattutto dai luoghi sensibili, come le grandi città e le regioni di frontiera, gli "elementi socialmente nocivi". Perché nulla potesse ostacolare il trionfo dello Stato che si era proclamato costruttore del socialismo.

Repubblica 28.7.07
Un'opera di pulizia "razionale"
La verità e le tre bugie di Krusciov
Massacro preventivo e differenze con la Shoah
di Andrea Graziosi


Nel giugno 1937, quando Stalin liquidò i vertici militari, l´opinione pubblica internazionale aveva già identificato il terrore con lo sterminio dell´élite sovietica. Questa identificazione, causata dalla risonanza dei processi e dalla notorietà degli imputati e poi favorita dalle memorie dei sopravvissuti nonché da romanzi come Buio a mezzogiorno, fu consacrata da Krusciov nel 1956. Malgrado il suo significato liberatorio e le verità che esso conteneva, il rapporto segreto si basava però su tre falsificazioni. La prima era che le sofferenze erano cominciate dopo il 1934, salvando con l´industrializzazione e la collettivizzazione l´essenza del sistema staliniano. Vi era poi la presentazione del partito come martire innocente, che nascondeva le responsabilità tanto dei vecchi bolscevichi vittime delle purghe ma protagonisti della guerra alla popolazione del 1929-33, quanto dei "compagni di Stalin", Krusciov compreso, che ammise di avere "le braccia immerse nel sangue fino ai gomiti". Soprattutto, il terrore era ridotto a quello contro i quadri dello stato e del partito.
Proprio alla fine del giugno 1937 Stalin decise però di effettuare, in tempo di pace, un intervento di chirurgia etnico-sociale sul corpo della popolazione attraverso "operazioni di massa" affidate alla polizia politica. La prima fu lanciata a luglio col decreto 00447 (vedi riquadro in alto a destra) che elencava le categorie da colpire e indicava le quote per regione delle persone da arrestare, divise in due categorie, quelle da giustiziare e quelle da deportare nei lager. Tra loro vi erano i membri dei vecchi partiti socialisti, religiosi ecc., ma la maggioranza era composta da contadini ("ex kulak") e piccoli criminali.
Lo 00447 fu seguito ad agosto dallo 00485, diretto contro "i membri dell´organizzazione militare polacca in Urss", vale a dire i cittadini sovietici di origine polacca. Esso servì da modello a decreti rivolti contro le altre nazionalità ritenute inaffidabili perché "soggette a governo straniero", benché risiedessero nel paese da lungo tempo: gli arrestati nel corso delle "operazioni nazionali" furono più di 330.000, di cui circa 250.000 fucilati.
Proseguiva intanto, estendendosi agli apparati locali, la purga dei quadri del partito e dello stato. In totale nel 1937 la polizia politica arrestò 937.000 persone, condannandone 791.000, di cui 353.000 a morte, quasi tutte dopo luglio. Nel 1938 vi furono invece 639.000 arresti e 554.000 condanne, di cui 329.000 a morte. Le esecuzioni di massa furono in genere condotte da piccoli gruppi di boia professionali che, facendo uso di vodka, giustiziavano i condannati singolarmente e in rapida successione con un colpo alla nuca di fronte a grandi buche scavate nelle foreste.
Nel 1936 le condanne a morte erano state invece circa 1.200 e ridiventarono 2.600 del 1939. Il terrore ebbe quindi un inizio e una fine precisi, e fu scandito da operazioni dirette da Stalin, che ne mantenne sempre il controllo.
In loco, però, il terrore ebbe un andamento caotico, prodotto da tre fattori. Ricevute le quote, i dirigenti della polizia politica controllavano quante persone delle categorie da colpire erano nei loro schedari. Il numero di regola non coincideva con quello indicato da Mosca. Ciò rendeva necessario "procurarsi" le persone mancanti. Poiché inoltre i decreti invitavano a eccedere le quote, chi si voleva distinguere si affannava a trovare altri colpevoli.
Il terrore che si innestò sulla purga dell´élite fu quindi insieme categoriale e preventivo: esso procedette cioè per categorie, ritenute pericolose e che quindi si decideva di liquidare preventivamente, in modo da rimuovere alla radice problemi futuri.
Questa essenza restò però segreta. L´ignoranza dei meccanismi del terrore ha influenzato anche le sue interpretazioni, che lo hanno a lungo presentato come un fenomeno casuale, teso ad atterrire, "atomizzandola", la popolazione. Ma se visto dall´esterno e cogli occhi delle sue vittime il terrore sembra cieco, una volta penetrata la sua logica esso ci appare come una opera "razionale" di pulizia, che procedette lungo due direzioni: l´eliminazione dei "detriti" ostili lasciati dalla costruzione del socialismo, proclamata dalla Costituzione del 1936, e quella di ogni quinta colonna potenziale in vista della guerra.
Il terrore del 1937-38 si ricollega perciò alla decosacchizzazione della guerra civile e alla dekulakizzazione del 1929-30. Esso è però anche la virulenta manifestazione di un fenomeno più generale, rappresentato dai tanti tentativi di manipolare la popolazione sulla base della sua suddivisione in categorie sociali, etniche o religiose, contrassegnate da un supposto maggiore o minore tasso di fedeltà o ostilità al potere. In epoca moderna tali pratiche sono state rafforzate dalla costruzione di stati in condizioni d´insicurezza, estremizzate dalle esperienze coloniali e poi generalizzate dalla prima guerra mondiale, quando raggiunsero il loro culmine con lo sterminio degli armeni. C´è a questo proposito da chiedersi se l´unicità della Shoah non consista anche nel suo essere slegata da ogni razionale, ancorché paranoica, preoccupazione di sicurezza, a meno di non voler ritenere tale la paura della contaminazione razziale. Anche in questo caso saremmo però lontani dal comportamento dei Giovani turchi del 1915 o dello Stalin del 1937-38, la cui lucida follia ci appare come un episodio estremo di quel terrorismo del potere che, come capì Burckhardt, stermina "gli avversari per categorie scelte secondo principi generali".

Repubblica 28.7.07
Il decreto n° 00477 che diede avvio allo sterminio
Sgominare senza pietà


Pubblichiamo parte del "Decreto operativo n° 00477 sulle operazioni di repressione degli ex kukak, dei criminali e degli altri elementi antisovietici", approvato il 30 luglio 1937

Dagli atti istruttori relativi alle formazioni antisovietiche trova conferma che nelle campagne si è rifugiato un gran numero di ex kulak, già repressi in passato, che si sottraggono alla repressione, fuggiti dai lager, dal confino e dalle colonie di lavoro. Vi si sono stabiliti molti degli ecclesiastici e dei membri delle sette, nonché degli ex partecipanti alle insurrezioni armate antisovietiche che in passato sono stati oggetto di repressione. Non sono stati pressoché colpiti nelle campagne i quadri principali dei partiti politici antisovietici (…) Una parte degli elementi su indicati, fuggendo dalle campagne verso le città, si è infiltrata nelle fabbriche, nei trasporti e nelle imprese edilizie. Inoltre, nelle campagne e nelle città hanno ancora il loro nido un numero considerevole di delinquenti comuni, di ladri di cavalli e di bestiame, di ladri recidivi, di rapinatori e di altri elementi che hanno scontato la pena, sono fuggiti dai luoghi di detenzione o hanno trovato scampo dalle repressioni. (...) Come è stato accertato, tutti questi elementi antisovietici sono i principali responsabili di ogni sorta di crimine antisovietico. Gli organi di Sicurezza hanno il compito di sgominare senza pietà questa banda di elementi antisovietici. In considerazione di ciò decreto di dare inizio il 5 agosto 1937 in tutte le Repubbliche e le regioni all´operazione di repressione degli ex kulak, degli elementi attivi antisovietici e dei criminali (…).
Per l´organizzazione e la direzione delle operazioni attenersi a quanto segue:
I. Categorie che soggiacciono alla repressione.
1. Gli ex kulak che hanno scontato la pena e continuano a condurre attività antisovietiche. 2. Gli ex kulak fuggiti dai lager o dalle colonie di lavoro, nonché quelli sfuggiti alla dekulakizzazione, che conducono attività antisovietiche. 3. Gli ex kulak e i soggetti socialmente pericolosi membri di formazioni insurrezionali fasciste, terroristiche e dedite al brigantaggio che hanno scontato la pena, sono scampati alle repressioni o fuggiti dai luoghi di detenzione e di nuovo impegnati in attività antisovietiche. 4. I membri dei partiti antisovietici, le ex guardie bianche, i gendarmi, i funzionari, i membri delle squadre punitive, i banditi e o loro complici, i favoreggiatori di fuggiaschi, i rimpatriati, coloro che sono scampati alle repressioni, gli elementi fuggiti dai luoghi di detenzione e tuttora dediti ad attività antisovietiche. (...)
II. Sulle misure punitive da adottare nei confronti degli elementi da reprimere e sul numero di coloro che soggiacciono alla repressione.
1. Tutti i kulak, i criminali comuni e gli altri elementi antisovietici contro cui dirigere la repressione vanno divisi in due categorie: a) nella prima categoria sono da annoverare tutti i soggetti più pericolosi tra quelli sopra nominati; costoro sono passibili di arresto immediato e di fucilazione; b) nella seconda categoria sono da annoverare tutti gli altri elementi meno attivi, ma ostili. Costoro sono punibili con l´arresto e la reclusione nei lager per un periodo da 8 a 10 anni (…)
Il Commissario del popolo agli Interni dell´Urss, N. Eov


il manifesto 28.7.07
Intervista a Cesare Salvi (Sd):
«Stanno tentando di farci fuori, dobbiamo unirci al più presto»

«E' in atto un'operazione che mira a sostituire la sinistra con nuovi alleati centristi». Sul protocollo sul welfare: «Se non vengono accettati i nostri emendamenti non lo votiamo, neppure se mettono la fiducia»
di Alessandro Braga


Roma. «Ci vogliono fare fuori». E quando dice «ci» Cesare Salvi, capogruppo al senato di Sinistra democratica, intende tutta la sinistra alternativa. I «killer» sarebbero il partito democratico e i moderati dell'Unione. Ma, avverte Salvi, «venderemo cara la pelle».

Senatore, sul protocollo sul welfare la tensione resta alta tra il governo e la sinistra alternativa.
Certo, perché a noi questo protocollo proprio non piace. Istituzionalizza di fatto il precariato a vita, non tiene conto del lavoro interinale. Se dovesse passare così com'è avrebbe effetti negativi incredibili.

Il ministro del lavoro Cesare Damiano ha detto che il documento è «inemendabile».
E già qui c'è un problema metodologico. Non è mai successo che un ministro abbia presentato un protocollo definendolo inemendabile, intoccabile.

Quindi che farete?
Abbiamo già pronti i nostri emendamenti, e li presenteremo. Devono essere discussi in parlamento.

E se non dovessero essere accettati?
Allora noi non voteremo il documento, in nessun caso.

Neppure se dovesse essere posta la fiducia?
No, neppure in quel caso. I provvedimenti che noi presentiamo non prevedono costi aggiuntivi e sono conformi con le direttive europee. Veniamo definiti estremisti, ma in realtà siamo solo coerenti con il programma dell'Unione. Per questo potremmo chiedere una verifica del programma di governo. Se ne tiene conto solo quando riguarda i moderati della coalizione, diventa invece carta straccia se siamo noi della sinistra a chiedere che venga rispettato.

La Cgil sta vivendo ultimamente una grossa crisi.
Il protocollo aggiuntivo è stato un grosso colpo alla Cgil. Un colpo basso a chi ha cercato di difendere l'unità sindacale e dei lavoratori. Noi come sinistra dobbiamo in qualche modo aiutarla e fare la nostra parte.

Negli ultimi tempi questi attacchi all'ala sinistra della coalizione sembrano essersi moltiplicati. Perché?
Faccio un'analisi politica del momento: Damiano ha riproposto una logica identica a quella di Berlusconi; Francesco Rutelli con il suo «manifesto dei coraggiosi» ha parlato di «centrosinistra di nuovo conio»; Piero Fassino parla di «scenari più avanzati» in fatto di alleanze e dice che bisogna aprire a Lega e Udc. Mi sembra siano tutti elementi che fanno parte di un unico grande piano.

Quale?
Quello di far fuori la sinistra. Mi sembra si stia cercando di logorarla, sperando in un suo scatto di nervi che faccia cadere il governo, riproponendo il problema del '98, oppure trovare nuovi alleati per rendersi autosufficienti da questa stessa sinistra e liberarsene.

Cosa deve fare allora la sinistra per difendersi da questi attacchi?
Accelerare il suo processo di unificazione. Tutti insieme dobbiamo portare avanti iniziative comuni. Ma è importante rivolgersi a tutti, dallo Sdi a Rifondazione comunista, senza esclusioni. Poi, se qualcuno si autoesclude, è un'altra questione.

Però sulla questione delle pensioni non siete stati uniti. Voi e i Verdi avete dato un giudizio positivo sull'accordo, Prc e Pdci si sono opposti.
E' vero, ma ora sul protocollo siamo uniti. Il passo successivo è quello di non ricompattarci solo sui No, ma proporre posizioni alternative nostre. Che devono essere il più possibile comuni, senza per questo rinunciare alle diverse identità che ognuno di noi ha. Io personalmente credo ancora che sia possibile rimanere in un ambito di socialismo europeo, rinnovato e nuovo, ma pur sempre socialismo.

Uno spazio lasciato libero dai Ds dopo la nascita del Pd. Qual è il tuo giudizio sul Pd?
Credo sia un partito neocentrista. Se rappresentasse davvero la sinistra riformista non lo avrei certo abbandonato. Non si ripresenta il problema delle due sinistre, perché il Pd non sarà di sinistra. E sarà, paradossalmente, il più vecchio nel panorama politico italiano perché si rifà a schemi degli anni '90: il neoliberismo, l'idea di un governo forte, presidenzialista. I dirigenti del partito democratico sono in ritardo. Anche quando parlano di democrazia che decide. Questa va costruita sul consenso, non con tentazioni presidenzialiste, che sono superate dai tempi.

A proposito di tempi, quando vedremo la sinistra unita? Qualcuno parla delle amministrative del prossimo anno.
Abituato al senato, dove si vive alla giornata, non ragiono in una dimensione temporale così lunga. Credo che già in autunno, con la discussione sulla finanziaria, ci sarà una sinsitra unita. Che deve smetterla di stare sulla difensiva e essere propositiva e aggressiva. Se altri nel centrosinistra credono di farci fuori, anche utilizzando il referendum sulla legge elettorale, si illudono.

il Riformista 28.7.07
Van Gogh, genio a prescindere (dalla sregolatezza)
Una nuova teoria contro il binomio creatività/follia
Secondo la psichiatra Annelore Homberg bisogna distinguere la dimensione artistica dalla malattia mentale
di Livia Profeti


Van Gogh muore il 29 luglio del 1890, due giorni dopo essersi sparato su un fianco. Tra gli ultimi dipinti quel Campo di grano con corvi dove un cielo tormentato e nero invade minaccioso il giallo solare di ben altri campi, dipinti solo un anno prima. Al fianco il fratello Theo, al quale era molto legato e che non gli sopravviverà a lungo, morendo anch’egli sei mesi dopo in una clinica psichiatrica, in preda a misteriosi sensi di colpa.
Figlio di un pastore protestante, Van Gogh diventa pittore relativamente tardi, a 26 anni, dopo il tentativo fallito di intraprendere la carriera ecclesiastica e la rottura del rapporto con i genitori. Theo, che si era schierato dalla sua parte, gli suggerì di guadagnarsi da vivere facendo il litografo o il bibliotecario, ma fortunatamente Vincent non accettò il consiglio. Si isolò per un anno nell’insopprimibile «necessità di conoscere più profondamente se stesso», racconta al fratello nel luglio 1880 in una lettera piena d’inquietudine: «se non faccio nulla, se non studio, se smetto di cercare, sono perduto (…) c’è qualcosa in me, ma cos’é? ». Troverà la risposta un mese dopo, quando, nel farsi inviare le stampe di Jean-François Millet per copiare i dipinti sui contadini, gli scriverà: «fino a quando riuscirò a lavorare supererò in un modo o nell’altro tutto quanto». Aveva compreso di essere un artista.
Nel 1885 con I mangiatori di patate il primo capolavoro, ma nel 1888 non aveva ancora venduto un solo quadro, conservava comunque un certo ottimismo che scomparirà invece a dicembre, dopo la lite con Paul Gauguin, l’automutilazione dell’orecchio sinistro e l’inizio della malattia, che lo accompagnerà a fasi alterne sino alla tragica fine.
La malattia del genio olandese è stata sempre presentata come un emblema del binomio arte e follia, tanto misterioso quanto indissolubile, e del prezzo che un genio pagherebbe per la propria “diversità”. Solo recentemente è stata osservata da un nuovo punto di vista secondo il quale gli artisti non sarebbero in realtà così diversi dagli altri, nel senso che la loro capacità corrisponde ad una condizione universale di creatività, esclusivamente e “sanamente” umana. Ne ha parlato la psichiatra Annelore Homberg in un recente intervento in Cina, presso la Facoltà di architettura e l’Accademia di arte contemporanea di Tianjin, riportato sul n. 2/07 de Il sogno della farfalla (NER).
Per la Homberg la dimensione artistica è un’esigenza che «esprime l’identità umana», tant’é che «non esiste consorzio umano in cui non si canti, non si faccia musica, non si balli o non si rappresenti con il corpo. In cui non si creino immagini: dipingendo, decorando, scolpendo o costruendo case». Un’identità che però in Occidente è stata ostacolata da 2500 anni di razionalismo, che con la filosofia greca ha dapprima condannato l’irrazionale come residuo animale e poi, con la fusione di elementi ebraico-cristiani, lo ha trasformato in nucleo congenito di malvagità, male originario e radicale. Un solco sul quale la psicanalisi, la psichiatria e la filosofia moderne si sono inserite senza grosse variazioni, associando ambiguamente l’irrazionale artistico al termine “follia” e finendo con il confondere la creatività umana con la malattia mentale.
Diversamente, gli artisti del secolo scorso hanno avuto il coraggio di fare una ricerca originale sulla creatività inconscia, abbandonando la rappresentazione della figura definita, troppo legata alla memoria cosciente. Una ricerca il cui pioniere è stato proprio Van Gogh, che nel dipingere faceva emergere l’immagine direttamente dal colore senza prima disegnarne i contorni. Secondo la Homberg - che confessa anche un proprio passato artistico - con l’olandese è venuta alla luce la possibilità di «ricreare e rappresentare, con tela e colori, una realtà umana molto nascosta e lontana nel tempo». Van Gogh, precisa la psichiatra tedesca facendo riferimento alla teoria fagioliana della nascita, «allude ad un’uguaglianza di tutti: perché tutti hanno un inizio della vita che si nutre di luce e colore». La sofferenza psichica o l’autodistruzione nelle quali spesso un artista cade fanno parte di una problematica molto complessa, ma non è a loro che si deve la riuscita di un’opera d’arte.
Laurence Madeline, ex curatrice del museo Picasso di Parigi, ha sostenuto che la vicenda di Van Gogh è stata sempre presente nello spagnolo, con una drammatica domanda esistenziale: «fino a che punto un artista deve mettere se stesso e la sua vita nella sua opera? Fino alla pazzia, fino alla morte? » (Van Gogh Picasso, Reliè). Un corpo a corpo con il suo geniale predecessore durato un’intera lunghissima vita, compiuta sul filo della regressione nel non cosciente forse ancora maggiore, senza però pagare alcun dazio a quella malattia nella quale era invece caduto il grande olandese. Un parallelo affascinante senza alcuna risposta facile, solo le due vicende umane di due geni straordinari, da studiare con calma, senza credenze di origine antica che negano all’arte il suo coraggioso contributo alla conoscenza.
Giovanni Pesce “Visone”
Nato a Visone d'Acqui (Alessandria) nel 1918. Era ancora un bambino quando la sua famiglia dovette emigrare in Francia. A 13 anni era già al lavoro in una miniera della Grand’Combe, la zona mineraria delle Cevennes in cui vivevano i suoi. Aderì nel '35 al Partito comunista e divenne anche segretario della Sezione giovanile. Fu uno dei discorsi a Parigi di Dolores Ibarruri, la "Pasionaria", a convincerlo della necessità di arruolarsi nelle Brigate Internazionali, che nella Guerra civile spagnola sostenevano il regime democratico contro i fascisti di Franco. Nel '36 fu tra i più giovani combattenti italiani inquadrati nella Brigata Garibaldi. Ferito tre volte, sul fronte di Saragozza, nella battaglia di Brunete e al passaggio dell’Ebro. Rientrato in Italia nel 1940, Pesce viene arrestato ed inviato al confino a Ventotene. Liberato nell'agosto del '43, nel settembre del 1943 è tra gli organizzatori dei G.A.P. a Torino; dal maggio del 1944 assume a Milano, sino alla Liberazione il comando del 3° G.A.P. "Rubini". Proclamato "eroe nazionale" dal comando delle brigate "Garibaldi", nel dopoguerra venne decorato di medaglia d'oro al valor partigiano.
Nella motivazione della Medaglia d’oro al valor militare concessa a "Visone" (questo il nome di battaglia di Giovanni Pesce), si legge tra l’altro "Ferito ad una gamba in un’audace e rischiosa impresa contro la radio trasmittente di Torino fortemente guardata da reparti tedeschi e fascisti, riusciva miracolosamente a sfuggire alla cattura portando in salvo un compagno gravemente ferito…In pieno giorno nel cuore della città di Torino affrontava da solo due ufficiali tedeschi e dopo averli abbattuti a colpi di pistola, ne uccideva altri due accorsi in aiuto dei primi e sopraffatto e caduto a terra fronteggiava coraggiosamente un gruppo di nazifascisti che apriva intenso fuoco contro di lui, riuscendo a porsi in salvo incolume…". Dal 1951 al 1964 ha rappresentato il PCI nel Consiglio comunale di Milano.
Giovanni Pesce è, dalla costituzione dell’A.N.P.I., membro del suo Consiglio nazionale. Dopo lo scioglimento del Pci aderì al Partito della rifondazione comunista. Tra la numerosa memorialistica sulla Resistenza, basti ricordare i suoi "Un garibaldino in Spagna" del 1955 e "Senza tregua – La guerra dei G.A.P." del 1967.

l’Unità 28.7.07
Addio Pesce, il fuoco della libertà
di Wladimiro Settimelli


«Visone», il partigiano con due pistole che liberò il Nord
La Resistenza del più celebre gappista italiano
L’infanzia in Francia con i minatori, poi il ritorno in Italia e il confino a Ventotene dove conobbe Pertini
In Lombardia guidò la lotta antifascista
Quando prese in spalla un compagno ferito sparando a 10 nazisti...

Come per tutti i ragazzini, le grandi imprese, il coraggio, la determinazione, l’impugnare una pistola in pieno giorno e andare all’attacco, richiedevano sempre un uomo grande e grosso, un eroe alto e massaccio, senza paura e pronto a scattare al minimo pericolo. Invece, Giovanni Pesce, medaglia d’oro della Resistenza, comandante dei Gap - i gruppi patriottici che attaccavano i nazisti e i repubblichini tra la gente, per strada, sul tram o in treno - era piccolino, tranquillo, silenzioso. Insomma, non parlava mai più del necessario e quando lo faceva erano parole senza ostentazione, protervia o sciocche vanterie.
Quando lo avevo visto la prima volta, da ragazzo appunto, ero quasi rimasto deluso. Poi, con il trascorrere degli anni, avevo capito e, in più di una occasione mi ero fermato a chiacchierare con lui a lungo, nella speranza di capirne fino in fondo la mente, il cuore, le scelte, la paura e la tragedia: quella di dovere sparare a qualcuno, per strada, senza battere ciglio.
L'altra notte Giovanni Pesce, nome di battaglia «Visone», è morto a casa sua, a Milano, assistito dalla moglie Onorina, nome di battaglia «Sandra», la cara staffetta che, nel 1943, era l'unica a poterlo avvicinare per consegnare gli ultimi ordini del Comitato di Liberazione nazionale e della direzione del Pci. Già, perché il più famoso gappista d'Italia era comunista e veniva da una famiglia antifascista abituata al lavoro e alla sofferenza.
La biografia di Giovanni ha dell’incredibile. Quando lui raccontava di quella sua vita complicata e diversa dal solito, potevi stare ore ad ascoltarlo. Era nato nel 1918 a Visone D'Acqui, in provincia di Alessandria. Il padre, presto, molto presto, era stato costretto ad andarsene da casa e ad emigrare in Francia con tutta la famiglia. I fascisti non davano tregua. Erano finiti in un paesetto con le miniere e Giovanni, nella piccola vineria aperta dal padre, trascorreva ore e ore con «musi neri». A volte, qualcuno finiva lo stipendio cercando di soffocare nel bere la miseria e la nostalgia. Ecco, Pesce ascoltava sempre quei minatori e da loro imparava e capiva. Poi, anche lui, a quattordici anni, era finito giù nelle gallerie per quattro soldi.
Il giorno che l'Italia fascista aveva attaccato la Francia ormai messa alle corde dai nazisti, lo avevano trasferito in un campo di prigionia. Poi il rientro, da solo, a Visone. Una spiata lo aveva fatto finire in carcere e poi al confino di Ventotene, dove aveva conosciuto Pertini, Terracini e tanti, tanti altri compagni.
Nel 1943, con il crollo del fascismo, «Visone» era tornato di nuovo a casa. Poi, il partito lo aveva mobilitato per fondare i Gap a Torino. Ma il lavoro più duro e difficile lo avrebbe, più tardi, affrontato a Milano. Era stato inviato in Lombardia per occuparsi delle grandi fabbriche perché fascisti e nazisti terrorizzavano gli operai. Centinaia di loro venivano, tra l'altro, trasferiti nei campi di sterminio. E guai a protestare o scioperare. C'erano, tra gli addetti alle macchine di alcune grandi industrie, capi e capetti che facevano la spia. O personaggi che, per una manciata di soldi e qualche chilo di sale (che Italia terribile e piena di odio e di terrore in quel ’43, ’44 e ’45) erano disposti a vendere davvero chiunque.
C’era bisogna, dunque, di una azione forte che facesse sentire agli operai che la Resistenza pensava a loro e alla loro protezione. Giovanni Pesce, dal nulla, aveva imparato a sparare. Non solo: portava sempre addosso due pistole, non una sola. Ed era diventato uno che non sbagliava mai un colpo. Viveva isolato in un microscopico appartamento e usciva soltanto per l'attacco improvviso e per incontrare altri due o tre compagni dei Gap. Ma quando entrava in azione era sempre solo: non si fidava di nessuno.
In uno dei tanti incontri, gli avevo chiesto: «Ma non avevi paura?», e lui: «Eccome». Poi aveva ancora spiegato: «Una volta ho detto ai compagni che quel comandante dei repubblichini addetto agli arresti nelle fabbriche, non era arrivato in ufficio. Invece c’era. Ma io ero stato colto dal tremito e dal panico e non avevo fatto nulla. La volta successiva, dopo alcune esitazioni, ero partito deciso ad assolvere all’incarico. Ero entrato nel bar dove il comandante stava facendo colazione. Mi ero avvicinato e avevo spianato la pistola. Per un attimo ci eravamo guardati negli occhi. Un attimo che non finiva più. Avevo letto in quello sguardo la sua paura, il suo terrore. Poi avevo visto che stava mettendo la mano alla pistola. Allora ho fatto fuoco tre o quattro volte. Subito dopo ero uscito e saltato sulla mia bicicletta. Dovevo giustiziare quel comandante. Sapevo dei nostri compagni e di tanti innocenti, torturati, impiccati, fucilati».
Quante volte hai sparato avevo chiesto a Giovanni. E lui aveva risposto: «Molte, molte volte. Non le ho mai contate». Poi ancora aveva aggiunto: «Sai che nel dopoguerra, su un tram a Milano, ho incrociato gli occhi con la moglie e figli di un famoso spione che avevo liquidato. Ci siamo sfiorati e ognuno è andato per conto proprio. Credimi è stata dura. Ammazzare, anche se in guerra e nella battaglia più grande per la libertà, non è facile. Ogni volta mi si stringeva il cuore».
Nella motivazione della medaglia d'oro, si ricorda che «Visone» era stato, insieme a un compagno dei Gap gravemente ferito, inseguito dai nazisti. Lui aveva preso sulle spalle quel ferito e, sparando come un pazzo, si era dileguato. Pochi giorni dopo, con altri, aveva assaltato «Radio Torino» ed era riuscito a distruggere parte degli impianti, nonostante la presenza di una decina di nazisti e un gruppetto di repubblichini. Imprese incredibili e straordinarie.
Nel 1945, a Milano, nei giorni della Liberazione, era stato affrontato da un gruppo di ragazzini con il fazzoletto rosso al collo che avevano gridato: «Comodo aspettare che i partigiani ti liberino. Comunque, puoi uscire dalla cantina dove ti eri rintanato come un topo». Lui non aveva risposto, ma aveva sorriso appena, appena per poi girare oltre l'angolo.
Caro «Visone», la tua parte per tutti e per la nostra Italia, l'hai fatta. Un abbraccio.

l’Unità 28.7.07
La commozione del capo dello Stato: «Esempio di libertà»
Napolitano: ci lascia passione e coraggio. Cordoglio anche dalle altre cariche dello Stato
di Luigina Venturelli

Bertinotti: un grande vecchio della nostra Repubblica


La commozione non è di circostanza, il dolore è profondo, come succede quando ad andarsene è un uomo che con la sua esistenza ha incarnato gli ideali e le aspirazioni d’intere generazioni di cittadini democratici. La politica italiana piange la scomparsa del comandante Visone. Con toni unanimi, che parlano di libertà, impegno, passione civile.
«Ho appreso con commozione la triste notizia della scomparsa di Giovanni Pesce, tenace assertore dei principi di libertà, di pace, di eguaglianza e di democrazia sanciti dalla Costituzione» ha scritto in una lettera all’Anpi il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricordando «i momenti di incontro, in cui ho potuto apprezzare e stimare la passione, il coraggio e gli ideali di cui ha dato testimonianza».
Commosso anche il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che ha saputo del lutto mentre presiedeva i lavori di Montecitorio: «Il dolore per la morte di questo grande vecchio della repubblica italiana si accompagna all’orgoglio di essergli stato amico. Comunista per tutta la vita, ha accompagnato in questo dopoguerra giovani di più generazioni all’antifascismo e all’impegno civile e politico. Il Paese gli deve molto e non lo dimenticherà». Poi, un minuto di silenzio e gli applausi bipartisan.
Sugli stesssi toni il presidente del Senato, Franco Marini: «Un esempio altissimo di valore umano e civile nella nostra ricostruzione democratica. Della sua storia personale il partigiano Visone ha lasciato memoria attraverso i suoi scritti, offrendo a noi e alle generazioni future una testimonianza preziosa».
Tutto il centrosinistra ha espresso il suo cordoglio. Il sindaco di Roma, Walter Veltroni, lo ricorda: «Con la sua scomparsa il Paese intero perde un importante protagonista della sua storia ma soprattutto un grande uomo», al ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero: «Un uomo che non aveva mai smesso di ricordarci che la coscienza civile di un Paese si misura nella sua capacità di combattere la discriminazione, il razzismo e il rifiuto della diversità».
Ma il lutto ha colpito soprattutto la sua città, Milano, che per dirgli addio ha messo a disposizione la sede del Comune: «Oggi è un giorno di tristezza - ha afferma il sindaco, Letizia Moratti - piangiamo la scomparsa di una figura molto importante per la storia della nostra Repubblica e molto significativa per le nostre vite. Milano gli deve molto e lo avrà sempre nel cuore. Per questo desideriamo offrire Palazzo Marino per l’ultimo saluto che gli vorranno dare i milanesi e tutti gli italiani».

Corriere della Sera 28.7.07
Nato nel 1918, fu a capo della Resistenza a Torino e Milano
Giovanni Pesce, il partigiano dei Gap
di Antonio Carioti


Il suo nome di battaglia, nella Resistenza, era «Visone». Niente a che vedere con l'animale dalla splendida pelliccia: veniva semplicemente dal paese in provincia di Alessandria, Visone d'Acqui, dove Giovanni Pesce, scomparso ieri a Milano, era nato nel 1918. Come «Visone», diresse la guerriglia urbana contro i tedeschi e i fascisti a Torino e a Milano, tra il 1943 e il 1945, guadagnandosi la medaglia d'oro al valor militare.
La vita di Pesce non era mai stata facile. Trasferitosi in Francia con la famiglia quando era bambino, aveva cominciato a lavorare a 11 anni e aveva intrapreso da ragazzo una militanza comunista durata tutta la vita, su cui insistono i molti messaggi di cordoglio degli esponenti della sinistra radicale, a cominciare da Fausto Bertinotti: «Il dolore per la morte di questo grande vecchio della Repubblica italiana — ha detto il presidente della Camera — si accompagna all'orgoglio di essergli stato amico». A sua volta il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha espresso la sua «commozione ». Per la sinistra riformista, il sindaco di Roma Walter Veltroni ha parlato di «importante e prezioso esempio di dedizione personale». E nel centrodestra il sindaco di Milano Letizia Moratti, nell'offrire Palazzo Marino per la camera ardente, ha definito Pesce «un uomo che ha dedicato tutta la sua esistenza all'impegno per la libertà».
Appena diciottenne, nel 1936, Pesce era partito volontario per la guerra di Spagna, dove era stato ferito tre volte e aveva ottenuto il grado di tenente nelle Brigate internazionali. Rimpatriato in Italia nel 1940, era finito in carcere e al confino, da dove era stato liberato nell'agosto 1943. Subito dopo, con l'8 settembre e l'occupazione tedesca, cominciò la fase più esaltante e più dura del suo impegno, come dirigente dei Gap (Gruppi d'azione patriottica): le formazioni create dal Pci per il sabotaggio e la guerriglia nelle città. Si trattava dell'aspetto più spietato e rischioso della lotta di Liberazione, sulle cui modalità ancor oggi restano vive le polemiche: attentati, rappresaglie, spionaggio, torture, tradimenti erano il pane quotidiano di quei partigiani, sottoposti a tensioni che solo un enorme sangue freddo poteva permettere di sopportare.
Pesce in un primo tempo operò a Torino. Poi, braccato dal nemico, si trasferì nel giugno 1944 a Milano, per riorganizzare i Gap pressoché annientati dalla polizia fascista. «Visone» riuscì a rilanciare la guerriglia, ma dovette in autunno passare a Rho, dopo essere sfuggito per un pelo a una trappola tesagli dai tedeschi. Solo a fine dicembre tornò a Milano, dove nel frattempo i Gap avevano subito colpi molto duri, e condusse la lotta nella metropoli lombarda fino alla Liberazione.
Sulla sua esperienza resistenziale Pesce scrisse un libro famoso, Senza tregua. La guerra dei Gap (Feltrinelli), che involontariamente fornì una qualche ispirazione anche all'estremismo di sinistra propenso alla lotta armata. Di recente, nel 2005, Franco Giannantoni e Ibio Paolucci gli hanno dedicato un volume pubblicato dalle Edizioni Arterigere-EsseZeta di Varese: Giovanni Pesce «Visone», un comunista che ha fatto l'Italia.

Repubblica 28.7.07
Milano, aveva 89 anni. Medaglia d'oro al valor militare
È scomparso Giovanni Pesce uno dei padri della Resistenza


MILANO - Se n´è andato uno degli ultimi grandi vecchi della Resistenza: Giovanni Pesce, Medaglia d´oro al valor militare, nome di battaglia «Visone», è morto ieri mattina in una stanza del Policlinico di Milano, dov´era stato ricoverato qualche giorno fa per un´emorragia cerebrale causata da una banale caduta in casa. Aveva 89 anni. L´impegno politico di Pesce comincia nel ‘35 in Francia, dove la famiglia emigra per trovare lavoro, quando decide di iscriversi al partito comunista. L´anno dopo è in Spagna, volontario delle Brigate internazionali che combattono contro le truppe del generale Franco e a fianco del governo del fronte popolare. Nel ‘40 il rientro in Italia, dove viene arrestato e confinato a Ventotene; liberato nel ‘43, comincia l´attività di Resistenza con i Gap, prima a Torino e poi a Milano. Dopo lo scioglimento del Pci, Pesce aderisce a Rifondazione comunista. «Tenace assertore dei principi di libertà, pace, eguaglianza, democrazia», scrive in un messaggio all´Anpi il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il presidente della Camera Fausto Bertinotti (lunedì sarà a Milano per i funerali) esprime «dolore che si accompagna all´orgoglio di essergli stato amico». E il sindaco di Milano Letizia Moratti: «Piangiamo la scomparsa di una figura importante per la storia della nostra Repubblica e significativa per le nostre vite; Milano lo avrà sempre nel cuore come grande e valoroso maestro di libertà». Lunedì la camera ardente a Palazzo Marino, «per l´ultimo saluto - dice il sindaco - che gli vorranno dare i milanesi e tutti gli italiani».

Senza tregua, La guerra dei GAP di Giovanni Pesce, Universale Economica Feltrinelli, pp.308, e.8,5
"Chi furono i gappisti? Potremmo dire che furono 'commandos'. Ma questo termine non è esatto. Essi furono qualcosa di più e di diverso da semplici 'commandos'. Furono gruppi di patrioti che non diedero mai 'tregua' al nemico: lo colpirono sempre, in ogni circostanza, di giorno e di notte, nelle strade delle città e nel cuore dei suoi fortilizi". Così Giovanni Pesce apre la sua rievocazione della lotta urbana contro il regime nazi-fascista.
Il libro, diventato ormai un classico della memorialistica partigiana, nonché uno dei rari documenti sul ruolo svolto dai Gruppi di Azione Patriottica (i GAP) nella Resistenza, "Senza tregua" (pubblicato per la prima volta da Feltrinelli nel 1967) si presenta oggi come insostituibile antidoto contro quella perdita della memoria storica che si profila come uno dei guasti della coscienza civile contemporanea. Il volume, che ha gli scatti e il ritmo della scrittura narrativa, restituisce i dettagli più drammatici della guerriglia urbana, il fitto calendario delle azioni isolate, la tensione degli agguati, la lotta contro il nemico armato e, al contempo, quella contro spie, delatori, reggicoda del franante regime fascista. Uno stile scarno, senza retorica; un racconto senza compiacimenti. Per una riflessione sulla violenza e sulla Storia. Per una Storia liberata dalla violenza.

Liberazione 28.7.07
«Abbiamo scelto di vivere liberi...»
di Giovanni Pesce


Da viale Romagna si raggiunge Piazzale Loreto lungo un rettilineo fino in via Porpora e si svolta a sinistra. Dappertutto cordoni di repubblichini: militi dietro militi, sempre più fitti, sempre più lugubri. In Piazzale Loreto urla folla sconvolta e sbigottita. Si respira ancora l'odore acre della polvere da sparo. I corpi massacrati sono quasi irriconoscibili. I briganti neri, pallidi, nervosi, torturano il fucile mitragliatore ancora caldo, parlano ad alta voce, eccitatissimi per aver sparato l'intero caricatore.
Sbarbatelli feroci, vicino a delinquenti della vecchia guardia avvezzi al sangue ed ai massacri, ostentano un atteggiamento di sfida volgendo le spalle alle vittime, il ceffo alla folla. Ad un tratto irrompe un plotone di repubblichini, facendosi largo a spinte e a colpi di calcio di fucile e andando a schierarsi vicino ai caduti.
"Via via, circolate", urlano. Spontaneamente il popolo è accorso verso i suoi morti. Ora la folla, ricacciata, viene premuta fra i cordoni dei tedeschi e dei fascisti. Urla di donne, fischi, imprecazioni. "La pagheranno!".
I repubblichini, impauriti, puntano i mitra sulla folla. Dall'angolo della piazza scorgo lo schieramento fascista accanto ai nostri morti. Potrei sparare agevolmente se i fascisti aprissero il fuoco. In quel momento, fendendo la calca, si fa largo una donna: avanza tranquilla, tenendo alto un mazzo di fiori; raggiunge le prime file, vicino al cordone dei repubblichini, come se non vedesse le facce livide e sbigottite degli assassini; percorre adagio gli ultimi passi.
Scorgo da lontano quella scena incredibile, un volto mite incorniciato da capelli bianchi, un mazzo di fiori che sfila davanti alle canne agitate dei fucili mitragliatori. I fascisti rimangono annichiliti da quella sfida inerme, dall'improvviso silenzio della folla. La donna si china, depone i fiori, poi si lascia inghiottire dalla folla. Comincia cosi un corteo muto, nato come da un improvviso accordo senza parole.
Altre donne giungono con altri fiori passando davanti ai militi per deporli vicino ai caduti. Chi ha le mani vuote si ferma un attimo vicino alle salme martoriate. Per ogni mazzo di fiori ci sono cento persone che sostano riverenti.
Si odono distintamente i rumori attutiti dei passi e si colgono i timbri alti delle voci. Accanto a me uno bisbiglia: "Vede quello li sulla sinistra? Tentava di scappare. Appena era sceso dal camion si era diretto di corsa verso una via laterale. Credevamo che ce l'avrebbe fatta. Era già lontano. L'hanno riportato indietro che zoppicava, ferito ad una gamba. L'hanno spinto accanto agli altri, già schierati, in attesa."
L'ultimo volto che vedo, abbandonando la piazza, è quello di un repubblichino, che ride istericamente. Quel riso indica l'infinita distanza che ci separa. Siamo gente di un pianeta diverso. Anche noi combattiamo una dura lotta, in cui si dà e si riceve la morte. Ma ne sentiamo tutto l'umano dolore, l'angosciosa necessità. In noi non è, non ci può essere nulla di simile a quello sguardo, a quella irrisione di fronte alla morte.
Loro ridono. Hanno appena ucciso 15 uomini e si sentono allegri. Contro quel riso osceno noi combattiamo. Esso taglia nettamente il mondo: da un lato la barbarie, dall'altro la civiltà. I cordoni di repubblichini sono sempre fitti. Ad ogni passaggio, ad ogni posto di blocco, mi imbatto nella loro insolenza, nella loro spavalda vigliaccheria: mitra ostentati, bombe a mano al cinturone, facce feroci, lugubri camicie nere.
Ancora una volta, come in Spagna di fronte alla spietata ferocia degli ufficialetti nazisti, si rivelano i due mondi in antitesi, i due modi opposti di concepire la vita.
Noi abbiamo scelto di vivere liberi, gli altri di uccidere, di opprimere, costringendoci a nostra volta ad accettare la guerra, a sparare e ad uccidere. Siamo costretti a combattere senza uniforme, a nasconderci, a colpire di sorpresa. Preferiremmo combattere con le nostre bandiere spiegate, felici di conoscere il vero nome del compagno che sta al nostro fianco. La scelta non dipende da noi, ma dal nemico che espone i corpi degli uccisi e definisce l'assassinio "un esempio."
La belva ormai incalzata da ogni parte, si difende col terrore.
Mi rifugio in casa. Mi raggiunge nel pomeriggio una staffetta. I repubblichini hanno sparato in aria per allontanare la folla che sfilava davanti ai caduti. Il giorno successivo alla Vanzetti, alla Graziosi, alle Trafilerie, alla Motomeccanica, alla O.M. ecc., gli operai abbandonano il lavoro in segno di protesta; alla Pirelli le maestranze si riuniscono in silenzio. Ora tocca a noi.
Nella medesima notte prepariamo otto bombe ad alto potenziale. Il tecnico, abituato ad un lavoro di precisione, esprime le sue preoccupazioni, ma si piega alle necessità. Il giorno dopo, all'alba, io, Narva e Sandra ci troviamo nella chiesa di via Copernico per la consegna dell'esplosivo. Il parroco si accinge a celebrare la prima messa, avanzando silenziosamente dalla sacrestia. Nella chiesa, deserta, regna un silenzio profondo, una pace incredibile. Arriva il tecnico con le borse. Il prete assiste alle consegne, immobile fra i chierichetti. Comprende? Non so.
Usciamo. Accompagno le ragazze all'appuntamento con Conti e Giuseppe, per l'ultimo scambio delle borse.
"Vi proteggerò le spalle, " dico, " calma e sangue freddo. Non ci sarà nessuna sorpresa."
I due gappisti con la calma e la sicurezza di professionisti, depositano le bombe, si eclissano in una viuzza scambiandosi un rapido cenno di saluto. Una, due, tre esplosioni scuotono l'aria, infrangono i vetri. Il ritrovo ufficiali del comando tedesco è devastato come un campo di battaglia. Abbiamo disposto le cariche in modo che gli esplosivi deflagrassero prima sulle finestre e successivamente all'uscita del circolo.
Il giorno dopo il Feldmaresciallo Kesserling invita le forze dipendenti ad agire con maggiore energia nei confronti dei sabotatori da impiccarsi sulle pubbliche piazze; il comandante della piazza di Milano anticipa il coprifuoco alle 22. Il nemico si rende conto che l'arma del terrore gli si ritorce contro. Dobbiamo insistete. Azzini e Bosetti attaccano il comando repubblichino nella sede dove convergono i lavoratori italiani da inviare in Germania. Il mattino del 14 agosto un alto ufficiale tedesco e due subalterni mentre discutono in un ufficio del Palazzo di Giustizia vengono uccisi con una "sipe" lanciata da una finestra.
Nei corridoi, tedeschi e fascisti fuggono in preda al panico. Il coprifuoco non ci ferma: il 16 agosto ancora Azzini e Bosetti giustiziano uno squadrista, ufficiale della milizia e delatore di partigiani e, due giorni dopo un'altra squadra abbatte un ufficiale delle SS a Porta Volta.
"La pagheranno!" era la parola d'ordine del popolo e la nostra.
Brano tratto da "Senza tregua. La guerra dei Gap" (Feltrinelli, prima edizione 1967)

Liberazione 28.7.07
Il lavoro in miniera, le ferite franchiste, il confino, i Gap, la Liberazione e quell'orgoglio mai domo d'essere un comunista
Giovanni Pesce, il compagno antifascista che non ha mai chiesto nulla per sé
di Maria R. Calderoni


A 13 anni è solo un "muso nero", un piccolo minatore italiano che scende 150 metri sotto terra per portare a casa miseri 100 franchi al mese, il sudato, prezioso denaro indispensabile ai suoi genitori per sopravvivere. La sua è infatti una famiglia di poveri emigrati: il padre Riccardo, scalpellino, di idee socialiste, "pizzicato" più volte dalla polizia fascista, nel '24 aveva deciso di lasciare il paese natio, Visone, 2mila anime in provincia di Acqui, per cercare lavoro in Francia, alla Grand' Combe, la zona delle miniere di carbone nelle Cevennes.
Arrivato in terra francese piccolissimo, lui parla solo quella lingua, lo chiamano Jeanu; e da "muso nero" lavora per quasi cinque anni, ragazzo con la lanterna da minatore e la tessera della " Jeunesse comuniste " in tasca. A 18 è già a combattere in Spagna nelle Brigate Internazionali. E da lì comincia la sua leggenda. La leggenda di Giovanni Pesce, classe 1918, garibaldino di Spagna, alla testa dei Gap in Italia, medaglia d'oro al valor militare nella lotta di Resistenza, eroe nazionale. Un comunista che ha fatto l'Italia, che è anche il titolo dell'ultimo libro-intervista uscito nel gennaio 2005 (Franco Giannantoni-Ibio Paolucci, "Giovanni Pesce, "Visone". Un comunista che ha fatto l'Italia", edizioni Arterigere di Varese).
In Spagna il ragazzino diventa soldato; dall'Ufficio Ricezione Volontari, dove già sono al loro posto Longo, Di Vittorio, Leo Valiani, Andrè Marty, passa direttamente al centro di addestramento militare di Albacete, Catalogna rossa, la città dove, il 3 novembre di quell'anno, ricordava sempre lui, «sorse il battaglione "Garibaldi"». Il suo incontro con la Spagna è una passione che durerà tutta la vita. Sarà per lui una grande lezione di coraggio, dedizione, umiltà. Imparò a combattere e a riflettere, ad essere audace ma anche prudente, duro e pietoso. Di tutto questo doveva far tesoro qualche anno dopo, durante la guerra di liberazione in Italia.
A Boadilla del Monte, una cittadina nei pressi di Madrid, ha il suo battesimo del fuoco, «con il fucile seguii i compagni in avanti, mentre i fascisti erano fuggiti. La battaglia si concluse con sette-otto caduti dalla nostra parte. Erano i primi morti che vedevo. Quello spettacolo mi fece un'impressione tremenda». La guerra non è bella, nemmeno se la fai dietro le bandiere delle Brigate internazionali. Il combattente-ragazzino si trova nel ferro e nel fuoco della battaglia di Guadalajara, marzo 1937, dieci giorni e dieci notti di sanguinosi attacchi, «nell'acqua e nel freddo, il terreno era ridotto a un pantano»; i fascisti sono battuti. Giovanni ha i piedi congelati, deve essere ricoverato in ospedale. Ma è ancora nei ranghi subito dopo, in luglio, a Brunete, e poi in agosto a Saragozza, dove viene ferito gravemente; e poi sull'Ebro, quel terribile combattimento durato un mese, che doveva concludersi con la sconfitta dei repubblicani. In Spagna ha vinto Franco, le Brigate internazionali devono andarsene, «lungo la "Diagonal" di Barcellona l'ultima sfilata prima della partenza».
E' ferito anche questa volta, ma ciò che più fa male è quella sconfitta, addio Madrid, il ragazzino torna a casa; ma lascia subito anche la Grand'Combe, rientra in Italia, presso parenti che l'aiutano a trovare lavoro. Qui però quasi subito la polizia lo trova: ex combattente in Spagna, lo processano e lo spediscono in carcere ad Alessandria e poi a Ventotene. Cinque anni di confino.
Una popolazione confinaria di settecento persone, «la metà era comunista - racconta - Per un gruppo di loro era stato previsto un pedinamento continuo. Erano giudicati i più pericolosi e, quando camminavano, erano seguiti come un'ombra dalla milizia. Si trattava dei comunisti Umberto Terracini, Pietro Secchia, Mauro Scoccimarro; dei "giellisti" Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Francesco Fancello, Vincenzo Calace, Nello Traquandi, Dino Roberto».
Il racconto del suo soggiorno al confino - la sua "università" - è fitto di aneddoti e popolato di umili sconosciuti compagni e anche di figure primo piano, lì Jeanu conosce anche Camilla Ravera, Arturo Colombi, Di Vittorio, Alberganti, Pertini, «e c'era persino una piccola orchestrina comunista, formata da tre mandolini e due chitarre, accompagnati dal violino di un eccellente Umberto Terracini».
Uscirà libero con il 25 luglio 1943, il regime è caduto, il re firma il tragico armistizio. Per il ragazzo della Spagna inizia un altro cammino.
«Con le cinquanta lire che ebbi dal partito, una volta giunto a Gaeta, feci il biglietto per Torino». Lì, preso in consegna dal compagno "Giuseppe" «che teneva i collegamenti con Pietro Secchia», Giovanni Pesce ha il rischioso incarico di organizzare i Gap (Gruppi di azione patriottica), nel capoluogo piemontese. Pietro Secchia lo nomina comandante. «Ci vollero le stragi, le torture di via Asti, di Villa Triste ed i partigiani impiccati al gancio da macellaio, perchè anche noi imparassimo ad odiare e a non avere scrupoli nel colpire un nemico crudele», scrive Arturo Colombi nel ricordare la nascita di queste formazioni partigiane clandestine. E del giovanissimo Pesce, appena giunto nei ranghi invisibii, dice: «Quando lo incontrai per la prima volta dopo ll suo nuovo incarico, mi chiese se si potevano avere delle mitragliette». Nome di battaglia "Ivaldi". Oscuro e crudele il "lavoro" del gappista. Nel suo libro - un libro drammatico, intenso, veloce come un film (e infatti un film ne è stato tratto) - Giovanni Pesce racconta il momento terribile della prima azione, quando l'ordine del Comando arriva. E l'ordine è: uccidere un fascista. «"Marco non sta bene", mi dice la donna porgendomi un pezzo di sapone. E' la parola d'ordine. Ora so chi è». Il fascista da uccidere ha un nome e un volto. «Devo giustiziare un maresciallo della milizia, Aldo Mores», responsabile della deportazione di oltre settanta patrioti. Il garibaldino coraggioso vacilla. «Questa è un battaglia solitaria, penso. Tu, solo con la tua coscienza e le tue pene». Ma deve accettare questo compito spietato, cui non era abituato, «in Spagna e in montagna il nemico si affrontava in combattimento: faccia a faccia».
Racconta: «L'assassino di tanti miei compagni è lì. Faccio un passo, mi appoggio allo stipite della porta, fingo di raccattare qualcosa. Non ce la faccio - penso - non ce la faccio. E' proprio paura. Mi trovo all'aperto, sollevato e furibondo. Adesso dovrò mentire. "Il maresciallo non c'era", dico ad Antonio, "torneremo domani"». E "domani" lo ucciderà, il fascista che deve morire. «Lo vedo. Sparo con tutte e due le pistole. Mentre l'uomo si piega, esco rapidamente, intasco le armi e inforco la bicicletta».
Saranno tante le azioni firmate dal comandante "Ivaldi" e dai suoi gappisti, i fascisti rispondono con arresti e fucilazioni, sulla testa di Pesce pende l'ottava taglia per chi lo avesse "catturato vivo o morto"; e lì intorno, per esempio a Barge, si è scatenato l'inferno, «truppe scelte di Salò e forze d'assalto tedesche avevano rastrellato tutta la zona per fare piazza pulita dei "ribelli"». Ilio Barontini gli insegna come si fabbricano le bombe; e le bombe fatte in casa dei ragazzi di Pesce lasceranno parecchi segni nei sabotaggi, negli assalti alle caserme, nei colpi inferti alla macchina da guerra del nemico. Già, «non si può far saltare una stazione radio restando seduti davanti a una finestra aperta, a fantasticare».
Viene il momento di cambiare aria, la polizia fascista è sulle tracce di "Ivaldi"; allora il Comando lo manda d'autorità a Milano e gli cambia nome, ora si chiamerà "Visone", come il suo paese d'origine. Nemmeno a Milano si può far saltare una stazione radio restando seduti davanti a una finestra. Per esempio di fu la "battaglia dei binari", in zona Greco-Pirelli, 24 giugno 1944. «Lungo i binari che transitano da Greco, sotto il ponte grigio del cavalcavia, sono sfilate a migliaia lunghe colonne di carri merci, una parte notevole del dramma dell'8 settembre è stata recitata davanti alla palazzina grigia della stazione di Greco. Dai vagoni bestiame, sprangati e sigillati, si sono levate, di giorno e di notte, invocazioni d'aiuto e sono stati lanciati biglietti disperati». Sono i convogli maledetti che portano ai campi di sterminio. "Visone" e i suoi, in una notte senza luna, strisciando tra le sentinelle tedesche in armi, fanno scivolare le loro bombe fatte in casa dentro i "forni" delle locomotive, una due tre cinque cariche. I binari saltano, i convogli nazisti si fermano, la rabbiosa rappresaglia tedesca colpisce anche gli innocenti; ma la 3a Gap di "Visone" non dà tregua, con le armi in pugno fino all'ultimo, fino al 25 aprile. «E' il grande giorno. Confuso in questa folla amica, è come se uscissi da un incubo. Mi accorgo che le case sono belle case, che le strade sono ampie e che sopra di me c'è il cielo». La guerra è finita e lui ha 27 anni. Verranno i suoi giorni normali, tanti giorni e tanti anni di un impegno diverso, ma sempre generoso, disinteressato, semplice, leale. Giovanni Pesce, eroe nazionale, stratega della guerriglia, per tutta la vita è stato "uno di noi", uno che non ha mai ostentato, mai preteso, mai chiesto nulla per sè.
Nel '45, finito tutto, tornato a casa, il comandante della 3ª Gap pensa di aver esaurito il suo compito. Pensa addirittura che forse è giunto il momento di tornare alla Grand' Combe, in miniera. Ma è Nori che lo trattiene. Nori - «la più bella delle mie staffette», come scrive lui - che ha appena sposato appunto nel '45. L'amore della sua vita, Jeanu lo racconta con parole schive e tenere. Nori la incontra appena giunto a Milano sotto il suo nuovo nome di battaglia, "Visone", lei si chiama Onorina Brambilla ma tra i Gap è "Sandra"; e «a prima vista rimasi come folgorato». Pochi mesi dopo quel primo incontro, "Sandra", vittima del delatore "Arconati", uno che fa il doppiogioco, viene arrestata, imprigionata presso il Comando SS di Monza, dove sarà a lungo interrogata e anche torturata. Incontrata e perduta, lui e gli altri compagni la cercheranno per giorni e giorni; ma "Sandra" la rivedrà, fortunatamente sana e salva, solo dopo il 25 Aprile, ai primi di maggio. Lei è un'esile ragazza di 21 anni, si sposano subito, il 14 luglio 1945, «il giorno della presa della Bastiglia, con uno dei primi riti civili, in un edificio accanto a Palazzo Marino che era stato devastato dai bombardamenti. Eravamo in ginocchio, senza una lira, senza casa». Ma il pranzo fu un successo, «cucinato dalla mamma di Sandra, alla Casa del Popolo nella sezione Venezia del Pci». Un tetto però lo ebbero, «in via Macedonio Melloni, 76, la "base" delle nostre azioni militari!».
Nel 1946 Pesce diventa presidente dell'Anpi di Milano; nel 1947 - in una piazza Duomo inondata di sole e traboccante di partigiani - riceve la medaglia d'Oro al Valor Militare dalle mani di Umberto Terracini; nel '48 è responsabile della Commissione Vigilanza a Botteghe Oscure; per oltre dieci anni è consigliere comunale a Milano.
E venne la Bolognina, la morte del Pci. «La mia reazione - racconta - fu di indignazione, di preoccupazione, di amarezza, anche se era chiaro da tempo che si stava andando in quella direzione. Non riuscivo a comprendere per quale ragione si dovesse cambiare quel nome carico di storia, di battaglie, di sacrifici. Votai contro». Sceglie subito di stare con noi, "Visone", con Rifondazione. E con noi è sempre stato, fino all'ultimo. Indomito, sicuro, fedele agli ideali della sua vita, semplice come la sua fede: perchè - amava dire, citando i versi di Eluard - «ci sono parole che fanno vivere. Una di queste è la parola comunista».
Come possiamo ringraziarti, "Visone"?.

Liberazione 28.7.07
"Beato quel popolo che non ha bisogno d'eroi", ci ha ammonito Bertold Brecht
di Franco Giordano


"Beato quel popolo che non ha bisogno d'eroi", ci ha ammonito Bertold Brecht. E io qui non voglio scrivere per onorare l'eroe Giovanni Pesce, ma l'uomo, il comunista, il combattente antifascista per la libertà e per la democrazia spentosi ieri. Perché, come le parole di Brecht, la storia della resistenza e le tragedie del Novecento dovrebbero averci insegnato una volta per tutte che non esiste gesta più eroica che esser semplicemente donne e uomini.
Per la generazione di Giovanni Pesce diventar donne e uomini è stato un obbligo precoce. E diventare eroi è stata, forse, quasi una condanna. Sì, una condanna. Pagata al prezzo di famiglie, amici, fratelli di lotta e di ideali persi in troppi e troppo presto. Il prezzo di un orrore rimasto indelebilmente fotografato sul fondo delle pupille. Che è poi il prezzo della libertà di cui godiamo quotidianamente il frutto, talora inconsapevoli, spesso immemori.
Negli occhi, nelle parole, nella memoria e nella tempra di Giovanni Pesce era inscritto il fondamento vivo della nostra Repubblica. E ora che si sono spenti non si può non provare uno smarrimento profondo per l'ineluttabile venir meno di quella memoria diretta, del ricordo vissuto di quelle donne e uomini che come lui sono stati fondatori della nostra repubblica. Ragazzi cui sono state sottratte troppo presto tutte le illusioni, tramutate in libertà da riconquistarsi al prezzo della vita e della morte. Giovani costretti a darsi alla macchia poco più che adolescenti e a diventar più maturi e responsabili di quanto si possa pensare di chiedere a qualunque giovane.
Giovanni Pesce ci ha raccontato nelle pagine scarne dei sui libri ("Senza tregua", "Un garibaldino in Spagna") l'inevitabile e inarrivabile crudezza di quelle esperienze, della guerra, della resistenza gappista. Dall'adolescenza in Francia, alla gioventù di volontario in Spagna, alla resistenza in Italia, Pesce ci ha narrato senza compiacimento alcuno l'avventura di una riconquista che si chiamava libertà, la ferma consapevolezza di ogni prezzo pagato e fatto pagare a difesa della democrazia, la lucida coscienza antifascista in cui una generazione ha trovato il fondamento del proprio essere comunista, che ha fatto di quell'impegno politico uno strumento di lotta per il presente e una speranza per il futuro. Quella speranza per cui Pesce ha scelto anche Rifondazione comunista.
Le sue pagine ci restano. La sua voce invece si è spenta. E con essa la sua narrazione in prima persona: la passione e l'avventura di un giovane comunista costretto a farsi uomo e eroe semplicemente per incarnare i suoi ideali di libertà. Perché questo era Giovanni Pesce: semplicemente un uomo, e un comunista. Di quegli uomini che hanno attraversato la storia facendosene carico.
Ricordo, poco più di un anno fa, che ci incontrammo a un Comitato politico di Rifondazione. Mi ha sempre colpito come fosse lui, anziano dall'aura eroica, a farsi largo per venire ad abbracciare noi più giovani. E ricordo come in quell'occasione mi confidò che la cosa che lo rendeva più felice era andare a parlare nelle scuole e trovare tanto ascolto e attento da parte dei giovani per la storia raccontata da protagonista diretto, quale lui era stato. "Questa è la mia missione di vita", mi confidò. Era una delle ultime volte che ci vedemmo.
Con Giovanni Pesce si è spenta ieri un'altra voce vissuta e viva della lotta antifascista, un'altra memoria si è secolarizzata in storia. Ci rendiamo tristemente conto che quel che per decenni ci è stato raccontato dalle voci, dalle lacrime, dalle piaghe dei protagonisti, va disponendosi immobile negli archivi, nelle biblioteche e nelle cineteche.
E a noi, comunisti di Rifondazione, non può darsi altra missione che far proprie quelle memorie di uomo, di comunista, tramandateci da Giovanni Pesce. E non per farci vestali di un'epica eroica scolpita nel marmo, ma per tener viva quella dolorosa necessità d'esser semplicemente donne e uomini liberi. Consapevoli che quel secolo insieme di straordinarie speranze di massa e di gigantesche tragedie che è il Novecento ci ha insegnato per sempre che "non c'è futuro senza memoria".

Liberazione 28.7.07
L'antifascismo al centro del conflitto sociale e culturale, sempre di classe, in cui stiamo
Cosa ci ha insegnato e ci lascia Visone
di Luigi Pestalozza


Non parlo del vuoto che ci lascia la morte di Giovanni Pesce. Parlo del pieno che ci, mi ha dato, a cominciare dagli anni della Resistenza. Anzi dell'antifascismo di cui la Resistenza era culminante momento armato, come in maniera precisa ci insegnò. Per quanto mi riguarda, a Milano, dove ero partigiano, quando il già conosciuto, ammirato Visone, arrivò nel maggio del 1944 da Torino dove con la sua già compagna - sempre da ricordare -, Nori, aveva compiuto azioni straordinarie per l'idea che puntualmente stava nel loro coraggio. Appunto l'antifascismo, non la semplicemente patriottica lotta armata. Ma, certo, la sua lezione non era impreparata, non avendo noi, i partigiani mai pensato che la Resistenza fosse soltanto lotta armata contro l'occupante tedesco, nazista, e il fascismo italiano al suo servizio. Meno che mai, si pensava, guerra civile. Al contrario, lotta antifascista direi mondiale come proprio Visione precisamente faceva capire. Di lui, Visone, si seppe subito quello che già allora teneva a mettere avanti di sé antifascista, non per esibirsi, ma appunto per l'idea vera della Resistenza: che era stato in Spagna, dentro la guerra antifranchista, con le Brigate Internazionali. Già allora gli italiani in Spagna, con lui, erano l'antifascismo della borghesia democratica, gobettiana, dei fratelli Rosselli e del movimento dei lavoratori di Gramsci, dei comunisti, esploso negli anni Venti in Italia e continuato fino alla Resistenza, fino a Visone: per combattere il fascismo con la lotta armata, come in Spagna, per cambiare la società e lo Stato, la storia, il senso sociale, culturale, civile, umano. Per andare oltre il capitalismo, oltre lo stato di cose presenti, per un altro mondo non solo italiano.
Questo il Pesce della Resistenza. Ogni sua azione armata, sempre al di là dell'immaginazione, non era coraggio, eroismo: era l'idea - per dirla con l'August Strindberg che nel 1903 aveva appena letto Marx - che "è più forte della cosa". Appunto Pesce in Spagna, che continua col Visone, il Pesce del e nel vero antifascismo della Resistenza italiana, internazionale e trasversale alle vere nazioni, contro ogni nazionalismo fino al fascismo. Esemplare Visone grazie alla sua eccezionale guerra partigiana, da giusta medaglia d'oro dopo la Liberazione, di come la lotta armata - le azioni della guerra partigiana - sia stata lotta contro il fascismo, nazismo compreso, ma in particolare italiano, fino alla Repubblica di Salò, della repressione antiumana, di classe, capitalista, borghese-liberale.
Non solo lui, certo: ma lui Visone a Milano definitivamente portò, questo verità senza perplessità, che la Liberazione non sarebbe stata semplicemente la vittoria, ma l'emancipazione storica antifascista dalla divisione del mondo, degli uomini e delle donne anche italiani, indominanti e dominati, in ammessi e non ammessi. Ovvero quell'antifascismo, entrato poi nella Costituzione repubblicana che ancora oggi è centrale in quest'Italia re-invasa dalla cultura, dai comportamenti, del regime precedente la Liberazione. Per cui Pesce, fino all'ultimo è stato comunista.
Così siamo diventati amici dopo la Liberazione, all'Anpi di Milano dove lui era Segretario e io lavoravo con Alfonso Gatto al "Settimanale dei partigiani". Amici fino a domani. Giovanni infatti continua. Ma su una cosa si è fondata in particolare la mia amicizia per lui. Sempre la Spagna. Sul come, con mirata coscienza storica, critica, del nostro tempo, portò avanti fino ad oggi il suo impegno di costruttore della memoria antifascista mai semplicemente documentata, ma sempre documentando in maniera meticolosa - libri, convegni, mostre, incontri, filmati -, in avanti appunto portando il parallelo antifascista e di cambiamento diciamo gramsciano e gobettiano/rosselliano insieme della guerra antifascista di Spagna e di quella antifascista d'Italia. Ossia interrelazioni di fondo, di rottura e rifondazione storica, del nostro tempo. Ossia per me, sempre, un insegnamento.
Per lo stato di cose presente da cambiare, il Pesce, il Visone da continuare: che non lascia un vuoto, che lascia un pieno tanto educativo di che cosa è stata veramente la Resistenza, di che cosa è stato l'antifascismo, da impegnarci qui, ora, domani, a metterlo al centro del conflitto sociale e culturale, sempre di classe, in cui stiamo.

Liberazione 28.7.07
I ricordi delle compagne e dei compagni


Un abbraccio fortissimo a Nori. I valori che ci ha insegnato in vita il comandante
Pesce rimarrano sempre vivi dentro di noi. La sua lezione di antifascismo e la sua vita sono un esempio per tutti. E in particolar modo per le giovani generazioni. Non lo dimenticheremo mai.
Griselda e Franco Giordano

La segreteria nazionale del partito della Rifondazione comunista ricorda e onora il compagno Giovanni Pesce "Visone" comandante partigiano, Medaglia d'Oro della Resistenza. A Nori Brambilla, compagna partigiana e moglie amatissima, l'abbraccio e la consolazione di tutti noi.
Ci lascia un compagno cui dobbiamo tanto. Il ruolo di combattente, "senza tregua", prima in Spagna e poi in Italia per la liberazione dal nazi-fascismo, il suo impegno nella costruzione della storia della Repubblica nel Pci, la sua tenacia nelle lotte per l'uguaglianza e la libertà, la coerenza e la determinazione della militanza comunista sono il tanto che ci resta, adesso, a lenire l'immenso dolore per la sua scomparsa.
Onore e grazie a te, "Visone". Non sarai dimenticato

Addio compagno mio. Insieme abbiamo fatto un cammino lungo, a volte duro, ma sempre abbiamo guardato avanti. Le tue azioni rimangono fra le pagine belle del nostro Novecento.
Alessandro Curzi

In questo momento di dolore ricordo con grande tenerezza la forza e la determinazione di Giovanni e mi stringo a sua moglie Nori, a sua figlia Tiziana e a suo nipote Davide
Paolo Ferrero

Il ricordo di Giovanni Pesce figura esemplare di comunista, antifascista e democratico rimarrà per sempre nei nostri cuori. Rivolgo un forte abbraccio a Nori Brambilla sua carissima compagna di lotta e di vita.
Patrizia Sentinelli

La morte di Giovanni Pesce è un grande lutto per me e per l'intero gruppo di Rifondazione al Senato. Esprimo commosso il profondo cordoglio per la scomparsa dell'ex partigiano, Medaglia d'Oro al Valor Militare. Il partigiano "Visone", questo era il suo nome di battaglia, resterà nei miti e nella leggenda per il suo coraggio, la sua lucidità e la coerenza di tutta una vita trascorsa nella battaglia contro i soprusi e l'ingiustizia sociale. Ci restano i suoi libri e ci resterà sempre il suo esempio
Giovanni Russo Spena

Il presidente Guido Cappelloni a nome del Collegio Nazionale di Garanzia saluta il comandante Giovanni Pesce

Nessuno conosce il prezzo della libertà meglio di chi vi ha dedicato la sua gioventù. Una conquista preziosa per noi e per le future generazioni
Grazie Giovanni
Vittorio Agnoletto

Il Gruppo parlamentare del Prc-Se al Parlamento europeo, ricorda la figura di
Giovanni Pesce comandante partigiano e Medaglia d'Oro alla Resistenza, per il ruolo che ha significato alla democrazia, alla Repubblica ed al pensiero comunista

Si è spento ieri il compagno Giovanni Pesce Comandante partigiano e Medaglia d'Oro della Resistenza. Resterà nella nostra memoria il ricordo di un uomo libero, che ha creduto e combattuto per la giustizia e l'uguaglianza. E' anche grazie a lui che possiamo dirci oggi liberamente antifascisti, che possiamo liberamente continuare a lottare ogni giorno.
Per questo lo ricorderemo sempre con grande affetto e profonda riconoscenza. Commossi ci uniamo al dolore della sua compagna Nori Brambilla e a quello di tutti coloro che gli furono vicini. Ti salutiamo a pugno chiuso comandante Visone!
I e le Giovani Comunisti/e

I compagni e le compagne della Federazione di Torino sono vicini a Nori e salutano con la tristezza nel cuore il compagno Giovanni Pesce "Visone"

Oggi il Partito della Rifondazione Comunista piange la scomparsa del compagno
Giovanni Pesce Comandante Partigiano, Medaglia d'Oro alla Resistenza. Esempio di una vita spesa nella difesa della giustizia sociale, del lavoro, della libertà e dell'antifascismo. Ha rappresentato in tanti momenti importanti della vita politica e civile la continuità della lotta partigiana con i movimenti sociali che hanno segnato la storia della nostra città e del nostro paese. Tra i fondatori del Partito della Rifondazione Comunista era dirigente nazionale del partito e componente il Comitato Politico Nazionale. Il Partito della Rifondazione Comunista mentre si stringe nelle condoglianze alla compagna Nori Brambilla Pesce e ai famigliari, è fiducioso che le istituzioni milanesi rendano pubblici onori all'ultima medaglia d'oro al valor partigiano della città di Milano
La segreteria della federazione Prc di Milano

Inge Feltrinelli, Carlo Feltrinelli, la Casa Editrice e la Fondazione "Giangiacomo Feltrinelli" ricordano con profondo affetto e grande emozione Giovanni Pesce Medaglia d'Oro al Valore Partigiano, la sua statura morale e politica, la sua memoria "senza tregua".

I/le compagni/e dell'Area della Conoscenza esprimono il loro cordoglio per la scomparsa del compagno Giovanni Pesce

La sua Medaglia d'Oro rifulgerà all'infinito
Il Paese intero perde un grande uomo
Non aveva mai smesso di impegnarsi
Ci inchiniamo tutti oggi dinanzi a lui. Grande è la commozione.
Sfilano in questo momento nella mente i ricordi della sua vita intensa e gloriosa. Corre in Spagna giovanissimo per difendere con le armi la democrazia repubblicana contro il fascismo. E poi ininterrottamente un'esistenza dedicata alla causa della libertà. Le sue memorie lasciatemi nei suoi numerosi scritti parlano meglio di qualsiasi altro discorso al nostro popolo, ai giovani. Costruttore e dirigente dei Gap, comandante di un gruppo di combattenti eroici prima a Torino e successivmente a Milano, diviene punto di riferimento per quanti, giovani soprattutto, si ribellano contro le ingiustizie dei potenti e dei forti. Dopo la Liberazione è in prima fila per la ricostruzione civile e democratica dell'Italia. Consigliere comunale, esponente stimato e riconosciuto della Resistenza che impersonifica dinanzi a tutti con altissima dedizione. Resterà a lungo nella nostra memoria. La sua Medagia d'Oro rifulgerà all'infinito. Ci inchiniamo tutti oggi dinanzi a Giovanni Pesce, compagno e combattente, figura esemplare di antifascista, di democratico, di comunista. Un abbraccio affettuosissimo a Nori, la sua carissima compagna di lotta e di vita.
Armando Cossutta

Un esempio per i giovani
La notizia della morte di Giovanni Pesce mi commuove e mi addolora. Con la sua scomparsa il Paese intero perde un importante protagonista della sua storia ma soprattutto un grande uomo. Esponendosi sempre fin da giovanissimo, in prima in persona, Giovanni Pesce ha dedicato l'intera esistenza, dalla guerra di Spagna alla Resistenza, all'affermazione di quei principi di eguaglianza e giustizia che hanno consentito all'Italia di crescere nella pace e nella democrazia. La sua vita e il suo impegno civile rappresentano, soprattutto per le nuove generazioni, un importante e prezioso esempio di dedizione personale alla causa della libertà, che deve essere salvaguardato e serbato nella memoria collettiva.
Walter Veltroni

Contro tutte le dittature
Adesso che "compagno" sembra una parola fuori moda, adesso che chi lotta per una società più giusta è accusato di essere un "conservatore", adesso che non sei più tra noi, Giuliano Pisapia ricorda con l'affetto più profondo e la stima più immensa l'amico Giovanni Pesce, il "compagno" Giovanni Pesce, che da ragazzo si è battuto contro tutte le dittature; che da adulto ha proseguito il suo impegno per una società libera, giusta e democratica; che, in tutta la sua vita, è stato coerente con le sue idee e i suoi, nostri, princìpi e valori. Luminoso rimarrà per tutti noi il ricordo di un ragazzo, un adulto, un uomo eccezionale. La sua memoria rimarrà nella storia passata, presente e futura. Grazie Giovanni, grazie per i tuoi insegnamenti, grazie per la tua coerenza, grazie per la tua amicizia, grazie di tutto.
Giuliano Pisapia

Sempre in prima fila
Giovanni Pesce è morto oggi, alle 12.30, a Milano, per le conseguenze di un ictus che lo aveva colpito la settimana scorsa. Giovanni era stato quasi sul punto di riprendersi, dimostrando di avere ancora la pelle dura del combattente, come fu nella guerra di Spagna, nella Resistenza, nei Gap di Torino e Milano. Questa volta, però, di fronte all'ultima battaglia, dinanzi a un nemico molto più forte dei repubblichini che era riuscito a sconfiggere, il "comandante Visone" si è dovuto arrendere. Giovanni Pesce aveva 89 anni, ma la mente e il cuore ancora forti. Non aveva mai smesso di impegnarsi, era stato sempre in prima fila nel dibattito di Rifondazione Comunista, nella lotta politica per la difesa della memoria e dei valori della Resistenza, la vicenda che lo aveva formato come uomo e come comunista. Autore di diversi libri -"Soldati senza uniforme" (1950), "Un garibaldino in Spagna" (1955) e "Senza tregua - La guerra dei Gap" (1967) - Giovanni è stato uno dei più fedeli interpreti della grande stagione della liberazione dal nazifascismo, e ne impersonava i valori più alti e profondi e l'impegno per continuarne l'opera, nell'aspirazione a una più compiuta democrazia, all'eguaglianza e alla giustizia sociale. Le compagne e i compagni dell'area politica e della redazione di "Essere Comunisti" si stringono intorno al dolore di sua moglie, Nori Brambilla Pesce, staffetta partigiana. E lo salutano col pugno chiuso e le lacrime agli occhi. Ciao Giovanni. Nel nostro lavoro politico quotidiano sentiremo sempre la tua assenza, e seguiremo la tua strada e il tuo insegnamento. Giovanni Pesce, la sua vita per la libertà, per il comunismo.
Le compagne e i compagni dell'area politica e della redazione di Essere Comunisti

Lo ricorderemo sempre
Con immensa tristezza il Comitato Nazionale Anpi, a nome di tutti gli associati, si unisce al dolore dei famigliari e dei compagni per la scomparsa del Comandate Partigiano Giovanni Pesce "Visone", Medaglia d'Oro al Valor Militare. Garibaldiino nella guerra civile in Spagna ed eroe della Lotta di Liberazione a Torino e a Milano, lo ricorderemo sempre per le doti innate di combattente determinato e coraggioso, per l'inestinguibile passione civile nel testimoniare gli ideali di libertà e di democrazia della Resistenza, per le sue straordinarie qualità di umanità e simpatia.
Comitato nazionale Anpi

Il nostro profondo dolore
Il Comitato Provinciale dell'Anpi di Milano, cui Il comandante Visone era iscritto, esprime profondo dolore e commozione per la perdita del suo vicepresidente provinciale. Tutti gli iscritti provinciali di Milano sono vicini alla famiglia sentendosi profondamente partecipi del lutto che li ha toccati.
Anpi Milano

Il suo impegno antifascista
Il presidente e i soci del Centro culturale "Concetto Marchesi" e della cooperativa "Aurora" annunciano costernati la scomparsa di Giovanni Pesce, partigiano Medaglia d'Oro della Resistenza e tra i soci fondatori del Centro culturale "Concetto Marchesi" e della Cooperativa editrice "Aurora". Giovanissimo, costretto dal regime fascista all'emigrazione in Francia con la famiglia, lavora in miniera alle Grand Combe. A 18 anni accorre, con le Brigate Garibaldi, a difendere la giovane Repubblica spagnola aggredita dal regime fascista. Tornato in Patria entra nella Resistenza al comando dei Gap che operano a Milano e a Torino. A liberazione avvenuta viene insignito della Medaglia d'Oro della Resistenza. Da comunista partecipa alle vicende del secolo da poco conclusosi con la stessa fermezza e convinzione negli ideali che lo hanno accompagnato per tutta la vita. E' tra i fondatori del Partito della Rifondazione Comunista, membro del suo comitato politico nazionale, la sua figura e il suo costante impegno antifascista e internazionalista restano un fulgido esempio per le generazioni a venire e memoria perenne per tutti noi che con lui abbiamo lavorato e lottato per lunghi anni. Alla cara Nori, a Tiziana e a Davide il nostro abbraccio affettuoso.
Centro Culturale "Concetto Marchesi" Milano

Ciao, compagno
Siamo da poco stati in Spagna, per un altro viaggio nella Storia, nella Memoria. Un viaggio che è stato voluto, fortemente, ancora una volta da Giovanni Pesce, "garibaldino" di Spagna, partigiano, instancabile compagno. Abbiamo inaugurato, a Madrid, come Associazione Aicvas, di cui Pesce è presidente, la targa di commemorazione dei 4.500 volontari antifascisti italiani che accorsero in Spagna, nel 1936. Il viaggio l'avevamo organizzato da tempo con una delegazione che partiva dall'Italia, in collaborazione con la Camera del Lavoro di Milano, per inaugurare questa splendida targa, realizzata dai compagni artisti di Carrara, su "ordinazione" del Comandante. Siamo stati a Madrid, senza la sua presenza. E, naturalmente, rispetto a tanti altri "Viaggi della Memoria", questo è stato particolarmente toccante. Eravamo già in apprensione per la sua salute, ma, al ritorno, sono riuscita a presentargli la relazione e la documentazione della cerimonia, svoltasi alla presenza delle autorità di Madrid e delle associazioni spagnole che si dedicano alla Memoria. Non ci sono parole per esprimere la mia profonda gratitudine per tutto quello che ho appreso, nel corso dei molti meravigliosi anni che ho avuto la fortuna di passare in amicizia con lui e con Nori. Ho avuto la fortuna di condividere con loro passione politica, impegno civile e il grande onore della loro conoscenza, fonte inesauribile di esperienze e positività. Le sue ultime parole sono rimaste legate ai ricordi della Guerra civile di Spagna e di questo periodo dal quale è nato il suo grande impegno e i suoi ultimi pensieri sono stati rivolti ai giovani. Dalle sue parole, che ho avuto l'onore di leggere a Fuencarral, all'inaugurazione della targa; «E' importante proseguire con l'attività di memoria e divulgazione dei valori di libertà, che attraverso il racconto delle nostre esperienze e testimonianze rappresentano la Storia, ma si mantengono vivi per l'energia e la passione dei giovani». Un caldo abbraccio, non potremo mai dimenticare i tuoi racconti e la tua voce, Un saluto, con una parola che non finiremo mai di dire che a te piaceva tanto: ciao, compagno.
Ketty Carraffa Milano

Un grande combattente
E' morto il compagno "Visone", un grande combattente antifascista. Ci mancherà e ci mancheranno le sue battaglie per i diritti democratici che ha sempre condotto lungo tutta la sua lunga e straordinaria esistenza, dalla Resistenza in Spagna e poi in Italia fino ai nostri giorni. Abbiamo conosciuto Giovanni Pesce come militante comunista e poi nelle fila del Prc, sempre lucido e fermo nella rigorosa difesa dei principi a fondamento della Costituzione repubblicana, contro ogni revisionismo storico e contro qualsiasi cedimento ad abbassare la guardia di fronte al risorgere dei veleni del fascismo comunque mascherato. Così come nel riaffermare l'aspirazione verso una società più giusta, una società socialista. A Nori Brambilla, suacompagna di vita e di lotta un grande abbraccio da tutti e tutte noi.
Gigi Malabarba, Salvatore Cannavò, Franco Turigliatto
a nome dell'Associazione Sinistra Critica

Per problemi di spazio, non abbiamo potuto pubblicare oggi tutti i ricordi arrivati. Ci scusiamo con i nostri lettori. Nei prossimi giorni, pubblicheremo messaggi e ricordi del Comandante Giovanni Pesce.

il manifesto 28.7.07
Giovanni Pesce, antifascista
E' morto ieri a Milano l'uomo dei Gap, un simbolo della Resistenza


E' morto ieri al Policlinico di Milano Giovanni Pesce, comunista, partigiano, medaglia d'ora della Resistenza. Aveva 89 anni. Se ne va una figura mitica dell'antifascismo e della sinistra italiana. La camera ardente verrà aperta lunedì mattina alle 8 a Palazzo Marino, dove - alle 15 - si terranno i funerali.
Pesce era nato a Visone d'Acqui, in provincia di Alessandria nel 1918. Era ancora un bambino quando la sua famiglia emigrò in Francia. Minatore a soli 13 anni nella miniera della Grand'Combe, la zona mineraria delle Cévennes, nel '35 aderì al Partito comunista, diventando segretario della sezione giovanile. Un anno dopo, ascoltando a Parigi un discorso della «Pasionaria» Dolores Ibarruri, decise di andare a combattere in Spagna contro i militari di Franco e in difesa della Repubblica. Inquadrato, a soli diciotto anni nelle Brigata Garibaldi, fu ferito per tre volte: sul fronte di Saragozza, nella battaglia di Brunete e al passaggio dell'Ebro. Rientrato in Italia nel 1940, venne arrestato e inviato al confino a Ventotene. Liberato con la caduta del fascismo, nel settembre del 1943 fu tra gli organizzatori dei Gap (Gruppi di azione patriottica) a Torino, col nome di battaglia di «Visone»; dal maggio del 1944 sino alla Liberazione, comandò a Milano, la Gap «Rubini».
Il suo coraggio e la sua spregiudicatezza durante la clandestinità sono testimoniati dalla motivazione con cui fu decorato con la medaglia d'oro al valor militare: «Ferito a una gamba in un'audace e rischiosa impresa contro la radio trasmittente di Torino fortemente guardata da reparti tedeschi e fascisti, riusciva miracolosamente a sfuggire alla cattura portando in salvo un compagno ferito... In pieno giorno nel cuore di Torino affrontava da solo due ufficiali tedeschi, ne uccideva altri due accorsi in aiuto dei primi e sopraffatto e caduto a terra fronteggiava un gruppo di nazifascisti, riuscendo a porsi in salvo». Dal 1951 al 1964 è stato consigliere comunale del Pci a Milano, dalla costituzione dell'Anpi ne è stato consigliere nazionale. Allo scioglimento del Pci, Pesce aderì a Rifondazione comunista, cui era ancora iscritto. Scrisse «Senza tregua, la guerra dei Gap», libro-simbolo sull'attualità dell'antifascismo per la generazione del '68. Una delle sue azioni militari più importanti - quella contro la rappresaglia nazista in seguito allo sciopero degli operai della Caproni - costituisce la trama di una canzone scritta da Dario Fo che, ovviamente, si intitola «La Gap». Sulla figura di Giovanni Pesce ritorneremo domani sul manifesto con un articolo di Angelo D'Orsi.