venerdì 1 maggio 2015

Repubblica 1.5.15
Leonardo
L’autoritratto dalle molte vite
di Guido Ceronetti


E il mondo cieco non saprà di quante vite era il germe ascoso in te, Niccolò Tommaseo
Leonardo forse, nella immagine interiore di sé in qualsiasi luogo e momento, vide se stesso come la Luce del Verbo

A TORINO, dal 24 aprile al 2 giugno, è esposto nel Palazzo Madama, in una sala allestita a parte, un talismano straordinario. Non primitivo, anzi rinascimentale; creato dalle mani di un uomo unico, a sanguigna: l’autoritratto di Leonardo conservato fuori del Tempo nella Biblioteca Reale della città, dove molti anni fa per la prima volta lo vidi. Talismano perché protettivo della collettività che lo ospita, per l’incalcolabile profondità della sua emanazione. Nelle altre sale ci sono opere di artisti, tra l’egregio e il mediocre, in quella soltanto l’autoritratto-talismano irradia luce e placamento del dolore sul mondo.
Il colore a sanguigna, dopo cinquecento anni, ormai non lo vedi che nei miliardi di cartoline che trovi nelle tabaccherie di tutti i continenti, ma di fronte a quella cornicetta che limita la figura impallidita ti getteresti in ginocchio.
Nelle ultime pagine di On the Road di Kerouac compare un vecchio (che nella storia narrata non sembra affatto entrarci) che dice-passa-scompare; e dice così: — Va’, e piangi per l’uomo — al ragazzo che ha tanto viaggiato e tanta gente incontrato. Quel vecchio è lo sguardo dell’Autoritratto, che piange senza lacrime, che contempla avvolgendosi a tutto ciò che è animato e soffre. Leonardo forse, specchiandosi nell’immagine interiore di sé in qualsiasi luogo e momento del mondo, vide se stesso come la Luce del Verbo che la Tenebra lambisce senza poterla ghermire, il Verbo Soffrente delle visioni gnostiche. L’ omo sanza lettere, che affida alla pittura muta la sua verità parlante, aveva molti fini che oltrepassavano la stessa pittura amata ed esaltatissima, con tutta la sua rivelazione simbolica. Che cosa cercava, frugando incessantemente nei corpi morti che si procurava per le sue dissezioni? Le prove di qualche segno superstite — un punto che riteniamo introvabile nella disfazione carnale — dell’anima volata via? Con quanta delusione di non averla trovata, che in quel volto infinitamente malinconico possiamo vedere iscritta?
La Stampa TuttoLibri 1.5.15
Il Primo Maggio di De Amicis e i fighetti di Rushdie
di Mario Baudino


Troppo Cuore
«Alle sette in punto, il signor cavaliere Bianchi saltò giù dal letto e, affacciandosi alla finestra, ebbe due dispiaceri: vide che il cielo era tutto azzurro e che il muratore Peroni non era andato al lavoro... Diamine! Se festeggiava il 1° Maggio il Peroni, un operaio vecchio e tranquillo, c’era da credere che lo festeggiassero tutti gli operai di Torino». Non è l’incipit del libro di Maurizio Landini (I miei primi maggio. Ma perché oggi non vado a scuola?, uscito però il primo aprile con titolo indovinello - e ora non stiamo a maramaldeggiare, la risposta non è «devo andare in tv»). È l’antico De Amicis, nel suo Primo Maggio, romanzo assemblato postumo da materiali sparsi. Lo si trova solo in rete, al sito di Liberliber. Lettura interessante, data la giornata: si scoprirà che il buon Edmondo divenne anche lui massimalista, prendendosela malamente con il riformismo di Turati. Eccesso di Cuore?
Troppo carattere
Salman Rushdie si è arrabbiato di brutto quando Peter Carey, Michael Ondaatje, Francine Prose, Teju Cole, Rachel Kushner e Taiye Selasi (simpatica giurata italofona a Masterpiece) hanno detto no al Pen Club International, che com’è noto ha deciso di dedicare il galà newyorkese alla memoria dei vignettisti di Charlie Hebdo. Si erano dissociati per ragioni diverse, «politicamente corrette», fra sottili distinguo, ma lo scrittore colpito dalla fatwa degli ayatollah non ci sta. Dichiara al New York Times che i sei commettono un orribile errore, e sbotta su Twitter: «Sono fighetti in cerca di carattere». Purtroppo (per lui?) si sono già moltiplicati. Ora sono più di una ventina, in prima fila Joyce Carol Oates. Troppo carattere.
Molta eleganza
«La biblioteca personale di un uomo - scrive Luigi Mascheroni su ilLibraio.it - ha la medesima importanza del suo guardaroba» , perché «anche i libri, come gli abiti, si sfoggiano per fare colpo. E anche le giacche, come i libri, si comprano pur sapendo che non si indosseranno mai». Infatti al momento buono non abbiamo mai niente da metterci. Le signore, non si sa.
Corriere 1.5.15
Da Auschwitz non ci si libera mai
La memoria e lo sgomento: una ex deportata scrive al padre morto nel lager nazista
di Paolo Giordano


N on restano che i più giovani fra i sopravvissuti ai campi di sterminio. Coloro che al momento della cattura avevano 15 anni, la soglia dell’età della ragione, e oggi ne hanno quasi 90, come Marceline Loridan-Ivens. I deportati bambini venivano eliminati subito, inabili al lavoro com’erano. Perciò, fra altri quindici, vent’anni al massimo, non ci sarà più nessuno al mondo in grado di ricordare. Scomparirà anche l’ultimo superstite — una soglia che verrà attraversata dall’umanità in silenzio, forse non ce ne accorgeremo, eppure si tratta di un confine quanto mai pericoloso. Sarà come perdere il contatto con una navicella che s’inabissa sempre più nel buio del cosmo, fino a trovarsi fuori portata. Ma a bordo di quella navicella ci saremo noi tutti, orfani di un passato orribile che per decenni ci ha forse protetti da noi stessi .
Anche Marceline Loridan-Ivens teme l’oblio. Nelle interviste ribadisce che «bisogna testimoniare». Incessantemente. Dopo una vita come cineasta che l’ha portata a seguire ovunque nel mondo le nefandezze dell’uomo — Cina, Vietnam, Algeria — quasi che dopo lo sterminio non potesse staccare lo sguardo dall’Arancia meccanica della civiltà, Marceline torna al campo. Ci ritorna perché è là che vide per l’ultima volta suo padre. Lei fu destinata a Birkenau, lui ad Auschwitz, tre chilometri appena li separavano, ma «erano come migliaia».
Un giorno, tornando da una giornata in cui avevano spaccato sassi, si rincontrarono, padre e figlia. I commando rispettivi sfilarono uno accanto all’altro e loro si corsero incontro per abbracciarsi. Le guardie trattarono lei come una puttana e picchiarono lui. L’indomani, sfiorandosi di nuovo, non osarono avvicinarsi. Solo, un giorno Schloïme riuscì a far recapitare a Marceline una cipolla e un pomodoro. Un’altra volta, «un mot», un biglietto. Marceline ha dimenticato che cosa ci fosse scritto, estirpati com’erano i sentimenti dalle sue viscere già nel momento in cui lo lesse. Rammenta solo che cominciava con le parole «Ma chère petite fille» e terminava con la firma. Nient’altro. Al contrario di lei, il padre non sopravvisse. Morì a Gross-Rosen o forse a Dachau, durante gli spostamenti nevrotici da un campo all’altro, gli ultimi spasmi del nazismo ormai pressato dall’avanzata russa.
In tutti questi anni Marceline non aveva risposto al biglietto. Ha deciso di farlo oggi, ottantaseienne, per raccontare al padre la vita che dal giorno in cui il treno li inghiottì insieme ha, quasi suo malgrado, vissuto. Cento pagine appena, limpide e fatalmente necessarie, redatte con l’ausilio della scrittrice Judith Perrignon e che portano il titolo E tu non sei tornato . «Era un altro modo di invocarti. Io ero la tua cara figlioletta. Lo si è ancora a quindici anni. Lo si è a tutte le età. Io ho avuto così poco tempo per fare scorta di te». Con questo tono nudo e affezionato, che appartiene alla quindicenne e insieme alla donna matura, Marceline racconta tutto al genitore che l’è mancato, gli racconta del campo sì, ma soprattutto del dopo , di ciò che lui non ha visto: come Birkenau-Auschwitz non sia mai finito per lei, e mai potrà finire.
Riteniamo, forse, che il nostro immaginario riguardo ai campi di sterminio sia pressoché saturo. Abbiamo letto e visto molto; ricostruzioni più o meno meticolose sono impresse in noi a partire dal giorno in cui, ognuno a proprio modo, abbiamo fatto conoscenza con quell’abisso della storia, un abisso così in-credibile , che apprenderne l’esistenza costituisce un trauma di per sé. Come perdere d’un tratto una fiducia aprioristica nell’uomo, oppure in Dio. Eppure, la descrizione stringata che Marceline L.I. fa del campo è ancora nuova, ancora scioccante: i cumuli di vestiti, le ispezioni di Mengele, i tradimenti e i sotterfugi — dettagli che devono averle insidiato la mente ogni giorno e ogni notte, da allora.
Ciò che scuote maggiormente la coscienza del destinatario della lettera, tuttavia, riguarda la vita oltre il campo. È il resoconto di come Marceline, libera, viene infine reintegrata nella propria famiglia, in Francia. Lo zio Charles, che l’attende sulla banchina della stazione, l’ammonisce subito: «Ero ad Auschwitz. Non raccontarlo a nessuno, non capiscono niente». Ma non c’è il rischio di raccontare, perché nessuno fa domande. La madre di Marceline si accerta esclusivamente che la figlia non sia stata violentata, che sia ancora buona per prendere marito. Quanto al fratello minore Michel, Marceline ha l’impressione che avrebbe preferito veder tornare il padre piuttosto che lei. Morirà suicida. «Aveva la malattia dei campi senza esserci andato».
Lo sterminio non finisce ad Auschwitz. Lo sterminio si propaga nello spazio e nel tempo. «Mi sarebbe piaciuto darti delle buone notizie, dirti che, dopo essere caduti nell’orrore e aver atteso invano il tuo ritorno, ci siamo ripresi. Ma non posso. Sappi che la nostra famiglia non è sopravvissuta a quello che è successo». Non è sopravvissuta la famiglia e non è sopravvissuta l’umanità tutta. L’ultima parte del libro esprime lo sgomento di una donna — una donna che credeva di avere saggiato la malvagità dell’uomo in ogni suo raccapricciante anfratto — mentre guarda in televisione i grattacieli di New York sbriciolarsi al suolo. È lo sgomento di chi, dopo tutto ciò che è stato, vede le illusioni cadere «come pelli morte», l’antisemitismo riaccendersi ovunque nel mondo e la propria appartenenza rafforzarsi, come unica difesa. «Non so se l’orrore abbia risvegliato l’orrore, ma a partire da quel giorno, ho sentito quanto ci tenessi a essere ebrea. È come se fino a quel momento ci avessi girato intorno, ma in fin dei conti essere ebrea è quello che di più forte c’è dentro di me» .
È bene che mi fermi. Mentre scrivo, avverto quanto sia sconveniente versare parole sopra un libro tanto parsimonioso, che economizza su ogni frase, su ogni pensiero e soprattutto sul dolore, che nondimeno è soverchiante in certi passaggi.
Nei giorni successivi alla lettura di E tu non sei tornato, cercavo d’immaginare come debbano apparire certi frangenti, gravi oppure futili, agli occhi pieni di amarezza di Marceline Loridan-Ivens. Mi sembrava di riuscirci, almeno in parte. Per questo le sono riconoscente. Il suo libro è uno fra gli ultimi segnali diretti che riceveremo dai campi di sterminio degli ebrei. Mano a mano che i testimoni scompaiono, il peso della memoria grava sempre di più su chi rimane — ben presto sarà per loro insopportabile. E noi, perduti gli ormeggi, ce ne andremo piano piano alla deriva nella dimenticanza, forse nell’incredulità. Leggete questo libro .
La Stampa TuttoLibri 1.5.15
I miti di Platone per ridare senso al mondo
di Giorgio Fontana


Esce finalmente per il Melangolo a cura di Susanna Mati una chicca di Karl Reinhardt: I miti di Platone. Smessi per un solo libro i panni del rigoroso filologo novecentesco, Reinhardt si lascia andare a una forma espositiva più libera e ricca di pathos, non priva di punte liriche. La tesi di fondo del saggio è semplice: i miti presenti nei dialoghi sono «il linguaggio dell’anima», a sua volta l’elemento fondante della filosofia platonica: qualcosa che «cresce e si estende fino a diventare Stato e cosmo, sacerdozio e divinazione, contemplazione delle Idee e mondo dei miti». Tale crescita è il ritmo di una riconquista: davanti a un mondo in crisi quale l’Atene a cavallo fra V e IV secolo, Platone accetta la sfida della sofistica rilanciandola a un livello ben più alto — il risveglio dell’antica anima ellenica sotto nuove spoglie, individuali come sociali.
Lo smarrimento che Platone deve affrontare porta così al primo grande rivolgimento verso l’interiorità, che Socrate aveva soltanto intravisto. Il dialogo invita a calarsi dentro di sé per interpretare e ridare senso a ciò che sta fuori: e il mezzo principe di questa straordinaria operazione filosofica e politica è proprio il mito. Il quale tuttavia non entra in contraddizione con l’altro pilastro del sistema platonico: la dialettica.
Certo, è solo ora che logos e mythos si separano in due forme differenti; ma al contempo si attraggono in una tensione tutta nuova: strade diverse per giungere a una più alta conoscenza dell’anima. Come il metodo dialettico si raffina di dialogo in dialogo, così gli sparsi elementi del mito si collegano in affreschi sempre più vasti — in veri e propri cosmi. «Contemplazione e produzione si equilibrano», scrive l’autore: la dialettica si rovescia in mitografia, e viceversa.
Scegliendo un andamento cronologico, Reinhardt traccia un sentiero molto simile al «romanzo della coscienza» della Fenomenologia dello spirito. La storia dei dialoghi platonici diviene così la storia della nuova anima greca: dalla sua dolorosa nascita nei primi lavori aporetici o dall’andamento erratico (il Gorgia su tutti), passando per l’affascinante duello del Simposio (dove Socrate stesso comincia a diventare sempre più una figura mitizzata), fino ai grandi racconti della maturità: la biga alata del Fedone, l’aldilà orfico del Fedro, la perfetta organizzazione della Repubblica. Per trovare compimento nella straordinaria summa del Timeo, dove «il mito si dispiega in una chiarificazione metaforica, cioè imitativa, del mondo, o più esattamente in una produzione del mondo»: non più spiegazione o esempio, ma vera e propria «dottrina sacra» — l’antico mistero cosmogonico sotto nuove vesti.
Di qui la lettura reinhardtiana della teoria delle idee: chi contempla le forme eterne diviene in automatico esperto della misura (dunque dialettico e geometra) e sfrenato creatore di immagini (da cui i miti). Un’interpretazione sulla quale si può discordare, ma che in ogni caso non inquina il valore del percorso, così suggestivo, indicato dall’autore. Un percorso dove l’elaborazione mitica è insieme lo sforzo immenso di creare un nuovo mondo e la reminiscenza dell’universo perduto da dove proveniamo. La lotta esposta nel Crizia fra l’Atene arcaica degli eroi e l’Atlantide delle leggi perfette, e la necessità di trovare una sintesi «impossibile» fra questi due modelli. Nostalgia non consolatoria, e dunque rivoluzione.
La Stampa 1.5.15
Abusi sui bambini in Centrafrica
Sotto inchiesta 16 caschi blu francesi
di Leonardo Martinelli


Chiedevano prestazioni sessuali in cambio di una manciata di spiccioli o di un po’ di cibo, così attraente per quei bambini denutriti, spesso orfani, buttati nel centro per sfollati dell’aeroporto di Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana. L’infamante accusa pesa su 16 soldati francesi, che tra la fine del 2013 e i primi mesi del 2014 si trovavano nell’ex colonia di Parigi in missione di pace. Ieri, dopo che i sospetti sono diventati di dominio pubblico, il presidente François Hollande ha avuto parole durissime: «Se alcuni militari si sono comportati male, sarò implacabile».
Due Paesi sotto choc
Davvero una brutta storia, che rappresenta uno choc per tutti, a Bangui ma anche a Parigi. Nel dicembre 2013 Hollande decise di intervenire nel Paese come aveva già fatto in precedenza (e con successo) in Mali. Nella Repubblica Centrafricana si affrontavano a suon di machete e di violenze i ribelli musulmani Séléka e le milizie cristiane anti-balaka. «Sarà un intervento rapido», disse il presidente lanciando l’operazione Sangaris, con l’avallo dell’Onu e il successivo sostegno dei caschi blu. Ma in realtà duemila soldati francesi si trovano ancora sul posto. Ed è proprio Parigi a sostenere il grosso dell’iniziativa, tra la diffidenza e lo scetticismo degli alleati e dell’Onu stesso. Mentre nel Paese africano la situazione è migliorata rispetto a un anno fa ma resta difficile: è in questo contesto che arriva lo scandalo degli abusi sessuali.
La rivelazione
A togliere il velo su questa drammatica storia è stato il «Guardian» mercoledì costringendo la procura di Parigi ad ammettere di aver avviato già nel luglio 2014 un’inchiesta preliminare sulla base di un rapporto confidenziale dell’Onu sulle presunte violenze. E qui si arriva a uno scandalo supplementare, perché quel testo è stato inviato alle autorità francesi dallo svedese Ander Kompass, direttore per le operazioni di terra dell’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, segretamente, tanto che ormai è stato sospeso dalle sue funzioni e potrebbe addirittura essere licenziato. Secondo il quotidiano britannico, Kompass avrebbe reagito in quel modo perché scioccato dalla lentezza con la quale l’Onu stava reagendo.
Il ricatto
L’inchiesta della magistratura è in corso. Si sa che nel mirino ci sono 16 soldati, ma che solo una minoranza è stata individuata. Sono quattro i ragazzi che sarebbero stati vittime degli abusi sessuali, dall’età compresa fra i 9 e i 13 anni. Sono già stati ascoltati dai funzionari Onu all’origine del rapporto e probabilmente anche dai magistrati francesi, che si sono recati a più riprese sul posto. Ieri al telegiornale delle 13 di «France 2», la conduttrice, prima di lanciare il servizio, ha chiesto ai telespettatori di allontanare i loro bambini. Poi il giornalista ha spiegato che i soldati si trovavano a un check-point e chiedevano a quei bambini prestazioni sessuali. In cambio di qualche meschino regalo.
Corriere 1.5.15
Anatema di Roger Waters contro Robbie Williams
«Cantando il 2 maggio a Tel Aviv, tu dai il tuo consenso silenzioso alla morte di più di 500 bambini uccisi l’estate scorsa a Gaza. E giustifichi la prigionia, gli abusi di cui soffrono ogni anno centinaia di bambini palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana»
di Francesco Battistini


GERUSALEMME Comincia la lettera aperta con un «caro Robbie». Ma la cortesia finisce qui. Poche righe e Roger Waters sa subito che corde pizzicare. Liquida il collega Robbie Williams come un «popolare intrattenitore inglese». Poi gli dà dell’ipocrita. Quindi gli rimprovera una «spaventosa indifferenza». E infine viene alla sostanza: caro Robbie, «cantando il 2 maggio a Tel Aviv, tu dai il tuo consenso silenzioso alla morte di più di 500 bambini uccisi l’estate scorsa a Gaza. E giustifichi la prigionia, gli abusi di cui soffrono ogni anno centinaia di bambini palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana».
Voci contro. L’ex Pink Floyd trova stonatissimo che l’ex Take That tenga un concerto nell’Israele delle «politiche razziste di Netanyahu». Pacifista che ha manifestato contro il Muro, spesso accusato d’antisemitismo, Waters in un suo concerto fece volare in cielo un maiale con la stella di David e ora le canta chiare a Williams: «So che sei tifoso di calcio e ambasciatore Unicef per la Gran Bretagna. Uno dei crimini peggiori dell’ultima guerra a Gaza fu l’uccisione di quattro bambini palestinesi che giocavano a pallone in spiaggia. E allora: o cancelli il concerto, o ti dimetti dall’Unicef».
Nessuna risposta da Robbie Williams, solo la conferma che il concerto di Tel Aviv si farà. Gli organizzatori un po’ se l’aspettavano: dagli Usa e dall’Inghilterra, sono quasi la regola questi attacchi a chi s’esibisce in Israele. E anche l’invito al boicottaggio della serata di Williams è in Rete da mesi. Molti musicisti cancellano le date israeliane per convinzione (Brian Eno, Annie Lennox, Vanessa Paradis) o per paura delle minacce (Carlos Santana, Elvis Costello), spesso pagando penali salate. Solo Madonna fece partire da Tel Aviv un suo tour. E solo Lady Gaga, una volta, osò salire sul palco con la bandiera israeliana addosso. Williams ha già fatto il tutto esaurito. In suo sostegno, c’è un social group intitolato come una sua canzone: «I’ve Been Expecting You».
La Stampa 1.5.15
Gerusalemme: «Uniti contro il razzismo», «Gerusalemme come Baltimora»
Gli ebrei etiopi in piazza: agenti razzisti
di Maurizio Molinari


«Uniti contro il razzismo», «Gerusalemme come Baltimora», «Tutti contro la polizia»: sono oltre mille gli etiopi che si ritrovano sulla French Hill, vicino all’università, per denunciare la «brutale aggressione di uno di noi» avvenuta poche ore prima a Holon. La protesta monta perché le tv trasmettono le immagini del pestaggio di Demas Fekadeh, soldato israeliano di origine etiope, da parte di due poliziotti nella cittadina di Holon. Uno degli agenti gli aveva chiesto di fermarsi, lui non lo ha fatto ed è stato quindi aggredito e picchiato. 
A French Hill c’è il quartiere generale della polizia, gli etiopi che vi arrivano spontaneamente prima sono piccoli gruppi poi crescono fino a superare i mille. Sfidano gli agenti a viso aperto ritmando «Faremo come a Baltimora» e marciano verso il centro della città, attraversandolo e paralizzando il traffico. Nel tentativo di smorzare la protesta da parte degli immigrati arrivati dall’Etiopia a partire dalla fine degli Anni 80, interviene il presidente Reuven Rivlin invitando nel pomeriggio un gruppo di giovani etiopi nel suo ufficio privato: «Israele è uno Stato di Diritto, puniremo i responsabili di ogni violenza, avete gli stessi diritti di tutti gli altri israeliani». Ma i disordini continuano e tocca al premier Benjamin Netanyahu dare la promessa richiesta dai manifestanti: «Su quanto avvenuto a Holon vi sarà un’indagine e gli agenti dovranno rispondere del loro operato». Per l’opposizione laburista non basta. I portavoce del leader Isaac Herzog accusano la polizia di «razzismo» perché «nei confronti di un ashkenazita - un ebreo di origine mitteleuropea - qualcosa del genere non sarebbe mai avvenuto». E oggi alla manifestazione del Primo Maggio a Tel Aviv i sindacati sfileranno per sostenere le ragioni della minoranza etiope, ovvero degli unici israeliani neri.
«Uniti contro il razzismo», «Gerusalemme come Baltimora», «Tutti contro la polizia»: sono oltre mille gli etiopi che si ritrovano sulla French Hill, vicino all’università, per denunciare la «brutale aggressione di uno di noi» avvenuta poche ore prima a Holon. La protesta monta perché le tv trasmettono le immagini del pestaggio di Demas Fekadeh, soldato israeliano di origine etiope, da parte di due poliziotti nella cittadina di Holon. Uno degli agenti gli aveva chiesto di fermarsi, lui non lo ha fatto ed è stato quindi aggredito e picchiato. 
A French Hill c’è il quartiere generale della polizia, gli etiopi che vi arrivano spontaneamente prima sono piccoli gruppi poi crescono fino a superare i mille. Sfidano gli agenti a viso aperto ritmando «Faremo come a Baltimora» e marciano verso il centro della città, attraversandolo e paralizzando il traffico. Nel tentativo di smorzare la protesta da parte degli immigrati arrivati dall’Etiopia a partire dalla fine degli Anni 80, interviene il presidente Reuven Rivlin invitando nel pomeriggio un gruppo di giovani etiopi nel suo ufficio privato: «Israele è uno Stato di Diritto, puniremo i responsabili di ogni violenza, avete gli stessi diritti di tutti gli altri israeliani». Ma i disordini continuano e tocca al premier Benjamin Netanyahu dare la promessa richiesta dai manifestanti: «Su quanto avvenuto a Holon vi sarà un’indagine e gli agenti dovranno rispondere del loro operato». Per l’opposizione laburista non basta. I portavoce del leader Isaac Herzog accusano la polizia di «razzismo» perché «nei confronti di un ashkenazita - un ebreo di origine mitteleuropea - qualcosa del genere non sarebbe mai avvenuto». E oggi alla manifestazione del Primo Maggio a Tel Aviv i sindacati sfileranno per sostenere le ragioni della minoranza etiope, ovvero degli unici israeliani neri.
Corriere 1.5.15
Screzi Vaticano-Turchia, a ciascuno il suo ruolo
risponde Sergio Romano


Francesco, il Papa che si è costruito la reputazione di essere più parroco che Pontefice, lui che dice «chi sono io per giudicare», è intervenuto nei rapporti con la Turchia. Come si spiega la sua condanna esplicita del massacro degli armeni, avvenuto cento anni fa da parte del governo Ottomano (non turco), se non come la volontà di mantenere i turchi fuori dall’Europa «cristiana»? Quando si discute su chi si oppone in Europa all’ingresso della Turchia in Europa, forse si sottovaluta la posizione e l’influenza del Vaticano che è nettamente ostile. Quanto ai rapporti fra gli Stati Uniti e Cuba, sembra che di nuovo il Vaticano abbia avuto un ruolo chiave. Dunque, nonostante i modi da parroco, questo Papa non e’ poi tanto diverso dai suoi predecessori che hanno sempre avuto anche loro una politica estera. Allora si può cominciare a intravedere una «Dottrina di Francesco»?
Enrico Guisa

Caro Guisa,
Approfitto della sua lettera per una precisazione. Papa Francesco non ha definito «genocidio» il massacro degli armeni, e le parole usate in quella circostanza non sono nuove. Dal resoconto dell’ Osservatore romano del 13/14 aprile, Francesco, nel corso di un incontro con il presidente della Repubblica armena e il Catholikos Karekin II, il 12 aprile, ha colto un’occasione (la proclamazione di San Gregorio di Narek «Dottore della Chiesa») per dichiarare: «La nostra umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come “il primo genocidio del XX secolo” (…) ha colpito il vostro popolo armeno». Le parole virgolettate all’interno della frase sono tratte dalla dichiarazione congiunta di Giovanni Paolo II e Karekin II a Etchmiadzin, (la città sacra degli armeni a 20 km da Erevan) il 27 settembre 2001. Ma nella stessa occasione Francesco ha consegnato alle autorità civili e religiose dell’Armenia un messaggio in cui è detto, tra l’altro: «un secolo è trascorso da quell’orribile massacro che fu un vero martirio del vostro popolo, nel quale molti innocenti morirono da confessori e martiri per il nome di Cristo».
Nel corso di un intervento dedicato in buona parte ai pericoli che minacciano la sorte del cristianesimo medio-orientale, il Papa non poteva usare espressioni meno incisive di quelle del suo lontano predecessore. Ma in un altro testo ha preferito usare la parola «massacro». Diplomazia vaticana? Forse, ma il governo turco ha preferito ignorare la cautela del Papa e ha convocato il nunzio per manifestare il suo disappunto. Non ho l’impressione, tuttavia, che questo annunci una crisi dei rapporti turchi con la Santa Sede. Ciascuno dei due Stati ha fatto la sua parte ed è pronto, probabilmente, a voltare pagina.
Lei non ha torto, tuttavia, quando osserva che l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea non piacerebbe alla Chiesa. Ma non credo che la Santa Sede abbia motivi per preoccuparsi di una tale prospettiva. Come è stata scritto da Ricardo Franco Levi sul Corriere e da me su questa pagina, i tempi non sono maturi. Quanto all’esistenza di una nuova dottrina riferibile a Francesco, penso che nel caso di questo Papa converrebbe parlare di stile piuttosto che di dottrina.
La Stampa 1.5.15
Da Baltimora a New York Freddie incendia l’America
Dilagano le proteste per il 25enne nero morto poco dopo l’arresto La polizia: voleva farsi male, batteva la testa contro le pareti del furgone
di Paolo Mastrolilli


La polizia di Baltimora ha completato e consegnato al procuratore Marilyn Mosby l’inchiesta sulla morte di Freddie Gray, mentre le proteste provocate dal suo decesso quando era in stato di arresto si sono allargate a una mezza dozzina di città, con oltre 140 arresti solo a New York.
L’arresto
Gray era stato fermato il 12 aprile scorso, quando la polizia lo aveva bloccato in strada, arrestandolo poi perché gli aveva trovato addosso un coltello a scatto. Gli agenti lo avevano caricato su un van, dove era rimasto per circa 40 minuti. Alla fine del trasferimento era stato portato in ospedale, dove era morto poco dopo, a causa di una lesione alla spina dorsale.
Questo episodio ha provocato le proteste violente che hanno sconvolto Baltimora, e dall’inchiesta dipende ora la stabilità della città. Come è stato ferito Gray? I poliziotti lo hanno picchiato? Qualcuno verrà portato davanti alla giustizia? La decisione cruciale sta ora nelle mani di Marilyn Mosby, una procuratrice nera di 35 anni, figlia di poliziotti, che può archiviare la pratica, incriminare qualcuno, o convocare un Grand Jury popolare a cui sottoporre le prove per stabilire se sono stati commessi reati. La magistrata però ha già detto che non si baserà solo sull’inchiesta condotta dalla polizia, e la continuerà con gli strumenti a disposizione del suo ufficio.
La sosta imprevista
Il rapporto consegnato ieri è segreto, ma la polizia ha rivelato un particolare finora sconosciuto. Il giorno dell’arresto, gli agenti avevano detto di aver fatto tre soste con il van, prima di arrivare in ospedale. L’inchiesta però ha rivelato che le fermate erano state quattro, e questo pone due problemi. Primo: perché i poliziotti avevano inizialmente nascosto questo stop, scoperto solo grazie all’analisi dei video ripresi dalle telecamere della sicurezza? Secondo: cosa è successo durante questa sosta imprevista?
Il rapporto, secondo le indiscrezioni raccolte dal «Washington Post», contiene anche la testimonianza di un altro detenuto, secondo cui Gray durante il viaggio aveva cercato di farsi male, sbattendo la testa sulle pareti del mezzo. Il detenuto era nello stesso van e non poteva vedere Freddie, perché erano separati da un pannello metallico, ma lo avrebbe sentito sbattere. Questo potrebbe significare che si è provocato la lesione da solo, volontariamente, ma l’avvocato della sua famiglia ha smentito.
Nuova inchiesta
La procuratrice Mosby, anche per allentare la pressione, ha deciso che le conclusioni raccolte dagli investigatori della polizia non sono sufficienti. Quindi cercherà di chiarire meglio i fatti, avviando una propria inchiesta. È una scelta cruciale, perché quando a Ferguson l’agente Darren Wilson non fu incriminato per l’uccisione del diciottenne nero Mike Brown, le proteste riesplosero in tutta l’America.
Le altre manifestazioni
Nel frattempo, però, come era avvenuto ad agosto scorso, le manifestazioni di solidarietà si stanno già moltiplicando in molte città. Mercoledì ci sono state proteste a New York, Denver, Boston, Minneapolis e Washington, ma la tensione sta salendo nell’intero Paese. A New York la manifestazione è cominciata nel tardo pomeriggio a Union Square, ma ha perso presto il carattere pacifico. Alla fine la polizia ha arrestato più di 140 persone, alcune perché avevano aggredito i poliziotti.
Corriere 1.5.15
Londra debole preoccupa gli Stati Uniti


Il Regno Unito indebolito preoccupa Washington. A sottolinearlo è Nicholas Burns con un editoriale sul Boston Globe . Londra è l’alleata storica e più solida degli Stati Uniti. Ma i segnali di malessere, per un declino che appare evidente, inducono a guardare con maggiore attenzione alle prossime elezioni del 7 maggio. Burns evidenzia come, soprattutto sul versante militare, il Regno Unito abbia deciso un ridimensionamento che potrebbe comportare una limitazione del ruolo
di Londra sullo scenario internazionale. Decisioni figlie del governo conservatore di Cameron che porteranno l’esercito britannico al numero più basso di soldati dal tempo delle guerre napoleoniche.
Repubblica 1.5.15
Le nuove sfide della Gran Bretagna
di Ed Milliband
leader del Partito laburista britannico


CON David Cameron la Gran Bretagna ha subito la più rilevante perdita di influenza nel mondo nell’arco di una generazione. Se il 7 maggio sarò eletto primo ministro questa situazione cambierà. Il prossimo governo laburista assumerà le difese della Gran Bretagna e si adopererà affinché il nostro Paese occupi una posizione di prestigio nello scacchiere internazionale, godendo della fiducia altrui. Un governo laburista guarderà all’estero e sarà ottimista sul nostro ruolo nel mondo: utilizzerà l’ascendente della Gran Bretagna, in cooperazione con gli altri, per promuovere i nostri valori e difendere i nostri interessi.
Siamo alle prese con un mondo caratterizzato da molteplici sfide complesse che travalicano ogni confine. Il cambiamento del clima minaccia il futuro di tutti, a prescindere da dove si vive. Povertà e malattie dilagano in ogni continente. L’Is è ossessionato da un’ideologia perversa che non riconosce i confini nazionali. Intere regioni del pianeta sono interessate da migrazioni di massa e da profughi in movimento.
Le scene di disperazione alle quali abbiamo assistito nel Mediterraneo sono un monito sconvolgente dell’aggravarsi della crisi alle porte d’Europa. Non possiamo distogliere lo sguardo e astenerci dalle nostre responsabilità. Di conseguenza, è estremamente importante che l’Europa abbia promesso di ampliare la propria missione in mare. Altre navi e risorse giungeranno gradite, tanto quanto l’intervento di Europol per arrestare gli spietati trafficanti. Per affrontare e risolvere questa crisi, però, occorrerà una strategia a tutto campo sul lungo periodo. In previsione del Consiglio dell’Unione europea di giugno la comunità internazionale farà attenzione a garantire che la nuova missione disponga di attrezzature, risorse e competenze necessarie a contribuire a salvare vite umane.
Come dimostra la recente tragedia, nel mondo sempre più interconnesso le minacce e le sfide non possono essere affrontate da un Paese solo. Esse impongono l’azione concertata di istituzioni multinazionali quali le Nazioni Unite, la Nato e la Ue. Per questo motivo, il governo che guiderò si impegna a lavorare di nuovo con gli alleati in un multilateralismo genuino e determinato, perché i nostri tempi esigono questo.
Desidero che la Gran Bretagna faccia con fiducia un passo avanti verso la comunità internazionale, ma desidero che lo faccia apprendendo dalle esperienze del passato, compresi i precedenti interventi militari. Ciò significa lavorare insieme ai partner internazionali, regionali e locali e non cercare di risolvere i problemi mondiali da soli. Il ruolo che la Gran Bretagna riveste all’interno della Ue è di vitale importanza. La deriva verso un’uscita dall’Europa e l’isolazionismo ai quali abbiamo assistito sotto il governo dei conservatori, però, hanno compromesso il ruolo che la Gran Bretagna occupa nel mondo. E ora è indispensabile porvi rimedio. L’unità e la determinazione sono essenziali nella Ue non soltanto per poter affrontare e risolvere le nuove sfide, ma anche per difenderci dalle aggressioni esterne ai confini d’Europa, come quella in Ucraina orientale da parte della Russia alla quale abbiamo assistito. L’azione continua dell’Unione e l’intervento diplomatico concertati a livello europeo devono proseguire per far sì che il presidente Putin inverta la rotta e che gli accordi di Minsk siano debitamente applicati e rispettati.
Il partito laburista argomenterà la necessità per la Gran Bretagna di restare in Europa e di indurre in quest’ultima un cambiamento, così che funzioni meglio per chi vi lavora. In quasi tutti gli Stati membri si levano richieste di cambiamento in relazione alla Ue, sulle politiche per l’immigrazione, i sussidi, i diritti dei parlamenti nazionali. La minaccia di David Cameron di indire un referendum a risposta secca sull’uscita dalla Ue in data del tutto arbitraria, senza un chiaro obiettivo di proporre all’Europa una rinegoziazione e senza alcuna strategia precisa, tale da indurre un vero cambiamento, ha indebolito, invece di rafforzare, la sua influenza a Bruxelles.
Per tutto ciò io credo che il 7 maggio la Gran Bretagna debba prendere una decisione molto importante e scegliere tra idee diverse su come far conseguire il successo al nostro Paese a livello interno, ma anche su quale posizione esso voglia occupare nel mondo. La visione dei conservatori indebolirà ancor più la nostra posizione all’estero con un isolazionismo negativo, che apprende male e in modo sbagliato dalle esperienze del passato e pregiudica il futuro della nostra nazione. La visione dei laburisti è quella di chi crede che come Paese saremo più forti guardando con coraggio e fiducia all’estero, invece di ripiegarci su noi stessi o agire da soli. Io credo che così la Gran Bretagna riuscirà a conseguire il successo. L’autore è leader del partito laburista britannico Traduzione di Anna Bissanti
Repubblica 1.5.15
Luigi Manconi
“È discriminazione etnica il governo deve intervenire”
intervista di Fa. To.


ROMA «Quello che si sta verificando al Brennero si può chiamare discriminazione etnica, intolleranza istituzionale, respingimento di massa, insomma una sorta di “cattivismo” organizzato di Stato. E tutto ciò avviene nel 2015, in un’Europa che per un verso si mostra indifferente, per l’altro è incapace di rispondere a un fenomeno che non ha nulla di transitorio». Così il se- natore pd Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, dopo l’articolo di Repubblica che ha denunciato le discriminazioni nei confronti dei migranti che vogliono raggiungere, in treno, l’Austria.
Sono casi isolati?
«No, questa situazione va avanti da un anno. Prima degli eritrei, erano i siriani a percorrere lo stesso itinerario della vergogna. La stessa cosa accadeva nel 2011 a Ventimiglia, con i tunisini che volevano raggiungere la Francia. E, ancora, gli eritrei che si dirigono verso la Svizzera. Una condizione analoga è quella che riguarda gli afgani provenienti dalla Grecia che, con i traghetti di linea, arrivano nei porti di Venezia, Ancona e Bari. E in base a un accordo cosiddetto di “riammissione” con la Grecia, vengono respinti dal nostro Paese».
Si può parlare di apartheid?
«Penso che non sia indispensabile, per parlare dell’orrore, evocare l’apartheid o i lager. Dunque se il riferimento è al Sud Africa la risposta è no, ma questo non può bastare a tranquillizzarci, né a garantire che non possa accadere anche in Italia» L’Austria stessa però non vuole che i migranti arrivino nel suo territorio. Quindi che fare?
«La prima battaglia politica che il governo italiano deve fare, e finora non ha fatto, è quella per superare “Dublino 3”, che pure ha consentito qualche piccola apertura: il ricongiungimento familiare non solo limitato a bambini e genitori, ma anche bambini e altri parenti. Tuttavia è utilizzato pochissimo. Esiste al Viminale un ufficio che si chiama “Unità Dublino”. Quanti lavorano lì? Il numero è comunque irrisorio».
L’Italia ha convinto l’Europa a triplicare i finanziamenti di Triton. Servirà a qualcosa?
«Quella missione — lo ha dichiarato anche Juncker — è un vero fallimento. L’errore micidiale del nostro governo è stato quello di cedere alla demagogia della destra italiana e abbandonare Mare Nostrum per un motivo esclusivamente economico. L’Italia doveva battersi fino in fondo per trasformare Mare Nostrum in una missione a dimensione europea».
Repubblica 1.5.15
La vergogna di quei treni con i neri divisi dai bianchi
di Michele Serra


L’UOMO bianco può salire sul treno. L’uomo nero no. Il criterio è il colore della pelle, una forma di identificazione a vista che più primitiva, più rude, più discriminante non ce n’è. Lo raccontava ieri un reportage di Jenner Meletti dalla stazione di Bolzano.
UNA vicenda quasi incomprensibile per quanto anacronistico e detestabile è il criterio applicato dalle pattuglie italo-austro-tedesche che hanno l’incarico (tra l’altro del tutto velleitario) di frenare l’approdo nel Nord Europa dei profughi africani che cercano di raggiungere i parenti in Germania, Svezia, Norvegia.
Il presidente del Consiglio ha dichiarato nei giorni scorsi che, finito il travaglio spossante della riforma elettorale, il governo si occuperà di diritti. Viene da dire: si occuperà della sostanza della politica e non più solamente della sua forma, con tutto il rispetto per la forma e per la faticosissima, contrastatissima ri-forma. Ecco una eccellente occasione per farlo. Chiedersi come sia potuto accadere, per quale assurdo accidente procedurale o per quale dolosa rozzezza, che in territorio italiano uomini in uniforme siano costretti, umiliando anche se stessi e il proprio ruolo, a dire “tu no” e “tu sì” ai passeggeri di un treno a seconda della loro razza, abbiano o non abbiano un biglietto in tasca.
Di questi rifiutati, compresi i bambini, esistono bivacchi che vivono ai margini delle stazioni affidandosi al soccorso di volontari e di associazioni umanitarie. Sono la testimonianza vivente dell’inesistente visione europea sulla questione, enorme, dell’esodo africano, malamente avviato alle coste italiane e poi rimpallato dai nostri partner europei. Una risacca che trova lungo le Alpi un secondo vaglio, dopo il mare le montagne, replicando anche su terra ferma quella negazione del diritto di viaggiare (non di risiedere: di viaggiare) che a ogni europeo sembra il più naturale dei diritti, almeno dalla caduta del Muro in poi. E per molti africani è diventato un azzardo, una scommessa, un rischio assurdo. Per quanto enorme sia il problema, per quanto delicato affrontarlo, lo spettacolo di un treno sgomberato dai neri e riservato ai bianchi non è ammissibile, rimanda a discriminazioni la cui fine è giustamente celebrata come una liberazione in ogni parte del mondo dove vigevano forme di segregazione. La liberazione da un incubo. Il ministro degli Interni e le altre figure istituzionali interessate riaprano i loro cassetti (pare che quelle pattuglie “trilaterali” siano un portato degli accordi di Schengen), cerchino di capire come rimediare a un così maldestro obbrobrio, non costringano uomini dello Stato a individuare la pelle nera come un pericolo e la pelle bianca come un lasciapassare.
Per quanto difficile sia capire, sulla questione dei migranti e dei profughi, che cosa bisogna fare, è facilissimo capire che cosa non bisogna fare. Non bisogna che il criterio razziale trovi una benché minima forma di leggibilità, di dicibilità. “Tu non puoi perché sei nero” è indicibile, e basta. Che il governo Renzi si occupi di diritti non è, in questo caso, un buon proposito o un punto della futura agenda politica. È qualcosa da fare e da risolvere oggi, stamattina. Adesso.
Repubblica 1.5.15
“La caccia al nero è uno scandalo i profughi siano liberi di varcare il confine”
Dal Pd alla Caritas, indignazione e critiche per i controlli di polizia sui treni diretti in Austria
di Vladimiro Polchi


ROMA «I controlli su base etnica sono inaccettabili: fermate la caccia al nero». Negli uffici della Caritas e delle organizzazioni internazionali esplode il caso “apartheid sui treni”. Col Pd che chiede immediati chiarimenti al Viminale: «È una gravissima discriminazione, intollerabile in un Paese civile».
Il fatto: in questi mesi, come ha raccontato ieri Repubblica , i treni in partenza da Bolzano e diretti oltre confine vengono controllati da pattuglie miste di poliziotti italiani, tedeschi e austriaci che bloccano chi non è bianco e impediscono ai migranti di salire sulle carrozze. «La polizia di frontiera sta facendo qualcosa di inaccettabile — attacca Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas — i controlli legati al colore della pelle fanno tornare in mente vicende terribili che non vorremmo più vedere in Europa. Anche la Caritas di Bolzano ci ha confermato queste ispezioni. Lo stesso avveniva nel 2011 coi tunisini alla frontiera francese. È una vicenda preoccupante. I controlli ci sono sempre stati, ora si è superata la misura. L’Europa dimostra la sua incapacità nel gestire un fenomeno che non può rimanere solo italiano. Il nostro governo deve attivarsi con quello austriaco per fermare la caccia allo straniero». Va giù duro anche Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano rifugiati: «Questa è una storia incredibile. La sostanza è sempre la stessa: sono responsabili la polizia italiana e l’Europa, che preme sul nostro Paese per non far uscire gli immigrati, in applicazione del sistema di Dublino che impedisce la circolazione dei rifugiati. Ma sono le modalità nuove e incivili a stupire: ricordano il 1937. E attenzione, non accade solo sui treni. Mi è capitato di assistere a controlli basati sul colore della pelle anche di ritorno da Algeri. I passeggeri africani venivano controllati sulla pista, appena scesi dall’aereo, senza neppure farli entrare nel terminal. Si sta diffondendo una cultura di chiusura. L’Europa deve permettere la libera circolazione di chi scappa dalle guerre». Hein chiede due interventi urgenti: «Il ministero dell’Interno deve impartire istruzioni affinché cessino questi controlli. E l’Italia deve chiedere al Consiglio europeo di superare le rigidità di Dublino».
A essersi già rivolto al Viminale è Khalid Chaouki (Pd) coordinatore dell’intergruppo parlamentare sull’immigrazione: «Ciò che sta accadendo al confine con l’Austria è una gravissima discriminazione, intollerabile in un Paese civile. Ho sentito informalmente il ministero dell’Interno. Non ci possono essere controlli su base etnica. I Paesi europei stanno dando il peggio di sé, non rispettando neppure gli impegni di collaborazione presi a Bruxelles. L’Italia non può fare il guardiano dei rifugiati. Credo che quello che sta avvenendo alla frontiera debba spingerci ad aprire un fronte di crisi diplomatica con alcuni Paesi confinanti». Critico anche Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni: «Molti migranti che arrivano in Italia via mare vogliono ricongiungersi con i propri familiari residenti in altri Stati Ue. Sarebbe opportuno prevedere un approccio all’accoglienza di queste persone a livello europeo, per evitare che diventino vittime dei trafficanti anche all’interno dell’Unione».
Corriere 1.5.15
Un avviso al governo


È incostituzionale far cassa sulle pensioni, specialmente se di importo medio-basso, anche quando la situazione è di emergenza. Questo significa la sentenza depositata ieri dalla Corte costituzionale sul blocco dell’adeguamento delle pensioni superiori a tre volte il minimo deciso alla fine del 2011, per i due anni successivi, dal governo Monti col decreto Salva Italia. Non è lecito a nessun governo bloccare il potere d’acquisto delle pensioni di importo modesto, dice la Corte. Che, per questa platea, conferma la linea di difesa dei diritti acquisiti. Le ripercussioni per il bilancio pubblico saranno pesanti e permanenti, con un aggravio di spesa di alcuni miliardi ogni anno.
La sentenza ovviamente si può discutere. Ma il governo e il Parlamento devono innanzitutto prenderne atto, al fine di evitare nuovi e costosi infortuni. Tanto più in questa fase dove è aperto un dibattito sulla opportunità o meno di intervenire sulle pensioni liquidate col vecchio e generoso calcolo retributivo. Un dibattito che ha mille buone ragioni, pro e contro lo stesso concetto di «diritti acquisiti», che non si esaurisce nei confini del diritto costituzionale e che sarebbe sbagliato abbandonare. Ma chi ha la responsabilità di decidere, cioè governo e Parlamento, si muove su un piano diverso, che non può prescindere dalla sentenza di ieri. La lezione è questa: per far cassa bisogna ingegnarsi e trovare soluzioni diverse dal facile taglio delle pensioni.
Il Sole 1.5.15
Renzi preoccupato per i saldi: non sarà facile
di Davide Colombo


ROMA La riforma delle pensioni varata dal Governo Monti con il decreto “Salva Italia” del 2011 prevedeva tre tipi di interventi per ridurre la spesa previdenziale: misure con effetti immediati (come il blocco per il 2012 e il 2013 della rivalutazione automatica di tutte le prestazioni pari o superiori a tre volte il minimo), misure con effetti sulla fase di transizione (come l’abolizione del meccanismo delle «finestre» e del sistema delle «quote») e misure con effetti di lungo termine (come l’aumento dell’età di vecchiaia).
La sentenza della Consulta di ieri ha intaccato per la seconda volta il primo gruppo di norme, dopo aver cancellato il contributo di solidarietà sulle pensioni oltre i 90mila euro. Con un impatto sui saldi notevole e certo: 1,8 miliardi per il 2012 e circa 3 miliardi per il 2013, secondo l’Avvocatura dello Stato. Ma è prevedibile un conto ben maggiore, anche oltre 6 miliardi per l’effetto trascinamento sui saldi del biennio successivo al blocco. «Stiamo verificando l’impatto che la sentenza della Consulta può avere sui conti pubblici, non sarà una prova facile ma non siamo molto preoccupati» hanno fatto sapere in serata fonti di Palazzo Chigi, sottolineando poi che «siamo al governo per risolvere questioni complesse, quindi calma e gesso: studieremo la sentenza e troveremo la soluzione».
La maggiore spesa imprevista che si determina con la sentenza della Consulta non certo prevista nel Def appena inviato a Bruxelles e sul quale già pesa l’incognita da 1,7 miliardi per l’eventuale bocciatura delle norme sullo split payment e sul reverse charge per la grande distribuzione. Mentre gli effetti dell’altra bocciatura di febbraio della Corte, quella sulla Robin Tax, sono stati inseriti nei tendenziali (700 milioni di minori entrate nel 2015 e circa 800 milioni a decorrere dal 2016).
Alla luce di questa nuova situazione le ipotesi che si fanno di utilizzo del cosiddetto “tesoretto” da 1,6 miliardi, indicato nel differenziale tra il disavanzo tendenziale e quello programmatico per l’anno in corso, tornano a ballare. Ieri il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, s’è detto «stupito» per l’assenza di un bilanciamento rispetto all’articolo 81 della Costituzione. E poi, pur riservandosi di leggere la sentenza, ha avanzato un ragionamento fin troppo chiaro: «quel blocco (delle indicizzazioni, ndr) dev’essere interamente superato, determinando, sembrerebbe, conseguenze di tipo strutturale sul bilancio che riguardano anche tutti gli anni dopo il 2013».
La scure della Consulta rischia di condizionare anche un altro dibattito che si sta sviluppando ormai da mesi per chiedere una maggiore flessibilità sulle regole del pensionamento. Secondo le analisi contenute nel Def, da quest’anno, in presenza di un Pil in crescita, si aprirebbe un quindicennio di spesa previdenziale in decrescita (anche se aumenterà ancora del 2,7% l’anno tra il 2017 e il 2019 contro una spesa corrente in aumento solo dell’1,3%). Ma si tratta, appunto, di tendenze scritte con la clausola delle politiche invariate. Toccare la flessibilità rimetterebbe invece in discussione quei trend se gli interventi non venissero accompagnati da coperture certe e strutturali.
Facciamo solo due esempi tratti dalla relazione tecnica del Governo al «Salva Italia». L’abolizione del meccanismo delle «finestre mobili» e delle «quote» e le penalità per le pensioni anticipate: 1% dell’importo maturato della pensione per ogni anno di anticipo rispetto ai 62 per i primi due anni e del 2% per ogni anno successivo. Due misure con effetti, appunto, sulla fase transitoria e che garantiscono una minore spesa pensionistica per 5 miliardi di euro nel 2015 e 10,9 miliardi di euro nel 2018. Per l’anno prossimo i tecnici del Governo sono impegnati a ridurre strutturalmente di 10 miliardi la spesa per scongiurare l’aumento automatico di Iva e accise. Risulta che quattro miliardi ancora manchino all’appello. Un’altra cifra da tenere in mente prima di mettere in campo nuovi (e onerosi) interventi previdenziali
Il Sole 1.5.15
Opposizioni e sindacati: «Restituire il maltolto»
di M. Rog.


I sindacati invocano subito la «restituzione del maltolto» Gran parte dell’opposizione, dalla Lega fino a Sel, va in pressing sul Governo per modificare la legge Fornero, con il M5S che parla di pietra tombale sul «tesoretto che non esiste». E dalla stessa maggioranza c’è chi, come il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd), invita Matteo Renzi a riaprire il capitolo previdenziale. Le reazioni alla pronuncia della Consulta sul blocco delle indicizzazioni delle pensioni oltre tre volte il minimo deciso dal Governo Monti hanno fatto repentinamente riemergere la patata bollente delle pensioni che invece il Govenro sembrava orientato a gestire con molta cautela. Nel mirino dei sindacati e di parte dell’opposizione finisce soprattutto l’ex ministro Elsa Fornero. Che però si difende: «Vengo rimproverata per molte cose» però «quella scelta non fu mia ma di tutto il Governo» per realizzare risparmi in tempi brevi. «Fu la cosa che mi costò di più», aggiunge Fornero che annunciò il provvedimento in diretta tv con le lacrime agli occhi.
In difesa dell’ex ministro arriva l’ex sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova: «Quattro anni fa votai, sapendo cosa votavo, quelle misure del Governo Monti grazie alle quali l’Italia si salvò dall’incubo del default e oggi lo rifarei». Resta però da turare la crepa che rischia di aprirsi nei conti pubblici. L’impatto sui saldi sarà di almeno 5-6 miliardi. Una conferma arriva dal presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia (Pd): «Le somme arretrate incideranno inevitabilmente sulla riclassificazione delle poste di bilancio degli esercizi 2012 e 2013. La scelta della Consulta impone una valutazione sul saldo netto da finanziare».
Ma l’opposizione chiede d’intervenire sulla riforma. «È un bello sberlone alla Fornero e al Pd», dice Matteo Salvini. «Per una volta non sorridono solo i pensionati d’oro», fa notare Giorgia Meloni mentre Nichi Vendola chiede al Pd di cambiare la norma in sintonia con le richieste della Cgil. Nella maggioranza Maurizio Sacconi (Ap) scrive su twitter: «Sentenza evidenzia linea Corte in favore trattamenti pensionistici comunque definiti e loro diritto a perequazione periodica».
Repubblica 1.5.15
Su Palazzo Chigi il macigno previdenza
Così svanisce il sogno di un “tesoretto” ora rischiamo un deficit fuori controllo
di Federico Fubini


ROMA Se nel dicembre 2011 i mercati avessero capito che un muro portante della riforma pensioni era incostituzionale, e destinato a cadere, le conseguenze si sarebbero viste subito: probabilmente l’Italia avrebbe fatto default, o avrebbe chiamato la Troika, e quegli adeguamenti previdenziali strappati ieri grazie alla Corte costituzionale sarebbero parsi quasi irrilevanti. La difficoltà a monte sarebbe stata la stessa che hanno conosciuto milioni di greci: incassare gli assegni di cui da ieri 5,5 milioni di italiani attendono, con buoni argomenti legali, una nuova rivalutazione.
Ma è noto che la storia non si fa né con i “se”, né con il senno di poi. Pochi del resto ieri hanno pensato che, senza la rete di sicurezza della Banca centrale europea, dopo la sentenza della Consulta di ieri lo spread sui titoli di Stato si sarebbe di nuovo impennato. Ciò che conta ora è tutti i pensionati sopra i 1.450 euro lordi al mese — più di un terzo dei 16,3 milioni di italiani a riposo — andranno indennizzati. Sul passato, e sul futuro. Aspettano i rimborsi per il mancato adeguamento sul 2012, per quello del 2013, quindi gli interessi per entrambi gli anni e da ora potranno ricalcolare gli adeguamenti futuri del valore del loro trattamento di quiescenza a partire da una base più alta.
L’impatto è a più stadi. Il costo della sentenza per il contribuente è così complesso che anche il Tesoro ieri sera faticava a calcolarlo, o a capire come coprire l’ammanco. Le rivalutazioni il 2012 e 2013 valgono 4,8 miliardi, gli interessi di mora li portano a cinque, il ricalcolo degli adeguamenti futuri può valere (nel tempo) altre decine di miliardi. A sentenza ancora calda, nei cor- ridoi di Palazzo Chigi qualcuno ieri dava sfogo al fastidio per una decisione che mette la Corte costituzionale sopra al potere esecutivo e del parlamento su una materia così vitale. Ma l’ira non è una politica. Di certo, quando si depositerà nelle prossime ore, Palazzo Chigi e il Tesoro metteranno avvocati e tecnici al lavoro per cercare di opporsi, compensare, rimediare, coprire. È tutt’altro che certo che ci riusciranno, perché le falle aperte dai giudici costituzionali sulla previdenza sono almeno tre.
La più immediata è politica: Matteo Salvini ha incardinato la “politica economica” della Lega sull’assalto alla riforma pensioni cui Elsa Fornero, allora ministro, dette il nome e l’impianto. Il testo di quel provvedimento, inserito nel decreto “salva-Italia” del 22 dicembre 2011, si appella alla «contingente situazione finanziaria» di allora per congelare per due anni gli scatti sulle pensioni almeno tre volte più alte del minimo. Secondo i giudici costituzionali (la cui età media è 70 anni, otto su dodici in età di pensione) «le esigenze finanziarie del governo » — evitare il collasso allora imminente ed evidente — «non sono illustrate in dettaglio». Quel tassello della riforma dunque «valica i limiti di ragionevolezza e proporzionalità ». Si sa che la Consulta può solo decidere sulla base della Costituzione in merito a un ricorso specifico, senza doverne calcolare le conseguenze finanziarie o politiche. Ma da ieri Salvini ha un’arma in più da brandire, anche lui senza curarsi delle conseguenze.
C’è poi una falla di bilancio di impatto immediato. Se saranno da sborsare subito, quei cinque miliardi rischiano di cancellare qualunque discussione su un eventuale “tesoretto” e alzare il deficit di quest’anno dal 2,6% del Pil verso il 2,8%. Molto dipenderà da come il governo, come si anticipa in queste ore, riuscirà a “sterilizzare” l’impatto della sentenza della Consulta. Se non sarà possibile, o solo in parte, sarà ancora più difficile scrivere la Legge di stabilità da presentare in ottobre con un pacchetto di tagli di spesa. Servirà una manovra da almeno 15 miliardi, per evitare che scattino gli aumenti dell’Iva già previsti.
L’alternativa è una Finanziaria in deficit, ma ciò inizierebbe a rivelare la terza falla. È la meno visibile, ma la più profonda e pericolosa. Prima della sentenza di ieri, in base alle stime del Documento di economia e finanza, il costo delle pensioni in Italia sta esplodendo. Passa dai 248,9 miliardi del 2012 ai 283,9 miliardi del 2019. Un salto di 35, o meglio ora almeno 40 miliardi. Dal 2014 al 2019, il peso della previdenza cresce già ora oltre il doppio più in fretta del prodotto interno lordo (calcolato includendovi l’inflazione). Con la sentenza di ieri lo squilibrio può solo peggiorare. È il segno di un Paese che invecchia in modo impressionante. L’anno scorso sono nati in Italia appena mezzo milione di bebé, la metà del 1964 e il livello più basso da inizio ‘700. In Liguria ci sono già quasi 50 pensionati ogni 100 persone in età da lavoro, di cui metà inattive, e questo è il futuro di tutt’Italia. Matteo Renzi ha promesso di non toccare le pensioni e da ieri sappiamo che la Costituzione è dalla sua parte. Ma neanche i giudici della Consulta, nella loro saggezza, sanno come conciliare la biologia di una nazione con la sua Carta fondamentale.
Corriere 1.5.15
Giulia, la compagna (a sinistra) di Civati:
Pippo è la minoranza. Oltre il Pd c’è spazio
di Renato Benedetto


MILANO A vedere Pippo Civati, mercoledì davanti a Montecitorio, solo deputato dem a prendere la parola alla manifestazione di Sel contro l’Italicum, non è stata sorpresa. «La minoranza vera, quella che può essere descritta come tale, è rappresentata solo da Pippo. L’unico che agisce in modo coerente, che non dice una cosa facendone un’altra». Parola di Giulia Siviero ( foto ): laureata in filosofia, lavora sulle questioni di genere, collabora con il Post e il manifesto ed è la compagna di Civati, con il quale ha una bambina. L’esponente della sinistra dem, con un gruppo di deputati, proprio in queste ore sta pensando alla possibilità, nell’aria da tempo, di lasciare il Pd: «Se fossimo stati in 100 a dire no all’Italicum ci sarebbe stata la possibilità di fare qualcosa dentro il Pd. Ma così non è più possibile. E se non c’è uno che lo fa per primo, non lo farà mai nessuno», ha spiegato lui. E cosa dice lei, che, come Civati ha più volte ammesso, è elettrice di Sel e più a sinistra di lui? «Il Pd ha tradito il suo progetto iniziale, anche se io non ho mai votato Pd». Si potrebbe allora pensare che sia ben felice di vedere il suo compagno spostarsi a sinistra e raggiungerla. Gli darebbe una spinta? «Non darei una spinta, perché non funziona così la nostra relazione, non do nessun consiglio. Ma da osservatrice — prosegue Siviero —, muovendomi in un mondo che è più a sinistra del Pd, composto soprattutto da donne, molte femministe, posso testimoniare che c’è richiesta di rappresentazione. Uno spazio immenso». E chi potrebbe riempirlo, con Civati, gli altri membri di minoranza? «Credo non ci sia una minoranza del Pd. Ci sono deputati a cui fanno riferimento altri deputati, senza un accordo compatto tra loro. Ma c’è molta insofferenza». Civati l’ha mostrata più volte. «Ne soffrono moltissimi parlamentari del Pd, mi pare, ma non sempre agiscono per togliersela, l’insofferenza. Ci vorrebbe più coraggio e più creatività. Che non ci sia alternativa è una narrazione che circola, ma un’alternativa c’è sempre». Sì, ma nella «narrazione» di Renzi quell’alternativa ha il limite del 3%. «Renzi fa il suo gioco, sminuire fa parte della sua tecnica comunicativa». Forse anche il premier sarebbe felice di non avere un controcanto continuo all’orecchio sinistro. D’altronde, ha spesso invitato chi vuole a uscire. «Sono d’accordo, ognuno è libero di fare quello che vuole. Così come gli elettori e le elettrici, che vanno sempre meno a votare». Alla fine un punto di accordo con Renzi lei lo trova.
Corriere 1.5.15
Dissidenti alla ricerca di un leader. Ma il nome e le strategie dividono
Le suggestioni: da Speranza a Letta, da Cuperlo a Bersani. Fassina: prima una prospettiva
di Al. T.


ROMA «Serve un congresso presto, visto che neanche Cenerentola potrebbe credere ad elezioni nel 2018. E serve un nuovo leader alternativo a Renzi. Una figura di nuova generazione». Alfredo D’Attore è uno dei 38 deputati pd che non hanno votato la fiducia a Renzi. E guarda avanti, a come ricompattare la nuova minoranza uscita dal voto e a come dargli un volto riconoscibile: «È presto per dargli un nome. Roberto Speranza ha compiuto un gesto forte che ne ha rafforzato la leadership. Ma i leader non si scelgono più a tavolino o per cooptazione: sarà nel vivo della battaglia che ci sarà la selezione naturale».
La battaglia però è già cominciata e la ricerca di un leader anche. Perché contro il renzismo i ribelli del Pd schierano un piccolo stuolo di nuovi leader o aspiranti tali e un grande numero di big spesso «in contumacia», perché non più in Parlamento o in ruoli dirigenziali nel partito.
«Ci sono più leader che esponenti della minoranza in Parlamento e più minoranze nel Pd che partiti d’opposizione al governo». Sintetizza così la situazione un deputato deluso, che non ha votato la fiducia sulla riforma elettorale. E in effetti il voto di mercoledì ha paradossalmente ricompattato giovani e vecchi leader, frantumando le truppe in mille tronconi. Ad andare a pezzi è stata soprattutto Area Riformista. Speranza è stato contestato una cinquantina di «responsabili», che hanno detto sì alla fiducia. Ma ora, libero dal vincolo di essere un mediatore, lasciato il ruolo di capogruppo, Speranza è visto da molti come il leader emergente della sinistra.
Dietro di lui, come di altri, l’ombra dei big. «È stato D’Alema a suggerirgli le ultime mosse» dice un renziano. «Stupidaggini», risponde chi conosce bene Speranza. I «responsabili» dell’Area riformista, da Matteo Mauri a Enzo Amendola, guardano a Maurizio Martina. Sull’altro lato c’è Gianni Cuperlo, con i suoi 21 deputati (ma lo hanno seguito in 14). Dietro, una miriade di big: Enrico Letta, il cui approdo parigino a Science Po incrina le speranze di chi continua a puntare su di lui, Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi, Guglielmo Epifani, Massimo D’Alema. E Romano Prodi, il fondatore, nel cui nome si dibatte sull’opportunità di fondare una corrente ulivista.
Margherita Miotto, considerata bindiana, è scettica: «Non credo che sia necessaria alcuna riorganizzazione delle minoranze. Ci si divide e ci si unisce sugli argomenti, dal Jobs act, alla riforma costituzionale, alla legge elettorale». Anche Stefano Fassina, tra i più irrequieti, di leadership non ne vuole sentire parlare: «Dobbiamo mettere in campo una prospettiva, non un leader. Lo schema congressuale è saltato, la minoranza sono solo quelli che non hanno votato la fiducia». Posizione condivisa da Pippo Civati, che stigmatizza la «minoranza tattica che cambia posizione ogni momento»: «Un leader anti Renzi? Ah non lo so, a me non mi chiamano. Sono considerato uno strano. E comunque, ci sono altre forme di vita oltre al Pd».
Repubblica 1.5.15
Il cantiere tutto da aprire dell’alternativa a Renzi
Con l’Italicum ogni partito dovrà rivedere le proprie strategie
Oggi al ballottaggio col Pd andrebbe l’M5S
di Stefano Folli


ALLA fine il Generale Primo Maggio ha dato una mano a Renzi. Più che un altro Aventino per contrastare il nuovo fascismo, abbiamo visto una discreta fuga dal Parlamento verso il lungo week-end alle porte. E nulla fa pensare che le munizioni dei dissidenti siano tenute in serbo per il voto segreto conclusivo sull’Italicum, previsto per lunedì pomeriggio. Tutto è possibile, s’intende, ma proprio la segretezza suggerisce che i «franchi tiratori» possano camminare nei due sensi di marcia: quelli nel centrosinistra che votano «no» per colpire il premier e quelli che da destra o da altre formazioni votano «sì» per tenerlo a galla. Nessuno si stupirebbe dell’incrocio e Renzi non è tipo da affidarsi al caso.
Se ne deduce che la riforma elettorale non è più una questione scottante. Rimangono gli strascichi all’interno del Partito Democratico, ma sul piano parlamentare la partita è chiusa. Si aprono invece gli interrogativi politici sul dopo. L’Italicum, come ormai si è capito, obbliga tutti a rivedere le proprie strategie. Non solo quanti restano affezionati al loro «canile del 3 per cento», come ha detto Arturo Parisi: ossia a una minima rendita di posizione che non basta certo a condizionare il listone vincitore, forte del 55 per cento dei seggi. Ma soprattutto saranno i competitori di Renzi a doversi rimboccare le maniche.
È finito un certo modo d’intendere il partito e di organizzare il rapporto con l’opinione pubblica. Il che riguarda il panorama sfilacciato di Forza Italia, ma anche la Lega di Salvini e gli imprevedibili Cinque Stelle. Ognuno deve riconsiderare il futuro a medio termine, sulla base di una semplice riflessione. Se si votasse oggi, tutti i sondaggi collocano il movimento di Grillo al secondo posto, intorno al 19-20 per cento, quindi pronto per il ballottaggio. Tuttavia, proprio l’integralismo dei Cinque Stelle, il rifiuto di qualsiasi ipotesi di apertura ad altre forze o solo ad altre idee, rende poco competitiva la lista grillina (ad eccezione, s’intende, di scenari drammatici che oggi non sono prevedibili).
Vero è che non tutto è sotto controllo per il presidente del Consiglio. Nel momento in cui sta per ottenere l’agognata riforma elettorale, ecco che i dati sulla disoccupazione a marzo — resi noti proprio alla vigilia del Primo Maggio — sono peggio di una doccia gelata. Sul piano politico-mediatico vanno a incrinare quel rapporto semi-carismatico con l’opinione pubblica che per il leader del «partito di Renzi» è vitale. Del resto, in sette regioni siamo in campagna elettorale e il cosiddetto «Jobs Act», la riforma del lavoro, è forse la principale bandiera sventolata dal governo. I dati insoddisfacenti complicano tutto e incoraggiano il ricorso alla demagogia per coprire risultati meno brillanti del previsto. C’è il rischio concreto che un quadro economico e sociale mediocre accentui la spinta verso le forze anti-sistema o semplicemente votate a un’opposizione intransigente, benché priva di un’idea del governo.
Per un altro verso, il partito di Berlusconi non è oggi in grado di proporsi come l’alternativa a Renzi. Cioè non è in grado di arrivare secondo al primo turno, impedendo al Pd di superare la barriera del 40 per cento. Il vecchio leader sembra catturato da altre priorità, la vendita del Milan e la ristrutturazione di Mediaset in primo luogo. Chi se ne rende conto, dentro Forza Italia, cerca di salvare il salvabile. Qualcuno lavora a definire una visione del paese fondata su alcune opzioni liberali (Fitto, Capezzone); oppure — come Brunetta — immagina un’alleanza con Salvini e con Fratelli d’Italia in vista di superare il blocco Cinque Stelle. Ma è un progetto ancora confuso, tale da presupporre, in ogni caso, la consegna della leadership al capo della Lega.
In campo per ora c’è solo il renziano «partito della nazione». Ma il premier farebbe male a sottovalutare le incognite che vengono non tanto dai suoi avversari, quanto dalla condizione economica del paese. In certi casi, nemmeno le regole dell’Italicum basterebbero a contenere il malessere sociale.
Repubblica 1.5.15
“Famiglie” spezzate drammi e parricidi l’ultima maledizione che frantuma la sinistra
di Filippo Ceccarelli


PARRICIDI all’acqua di rose, fratricidi light, scannamenti presunti di figli e figliastri invocati come miti fondativi nel conflitto sull’Italicum.
Singolare coincidenza: più la politica perde idealità, più vivacchia nel presente, più si rimpicciolisce e involgarisce riducendosi a zuffa di tifoserie e più riemergono, per giunta in forma pretàporter, energie e figurazioni di uccisioni simboliche tra consanguinei e drammoni famigliari di ardua manegevolezza.
All’origine grosso modo c’è la rottamazione, nella sua variante pulp . Indecifrabili e al tempo stesso fin troppo chiare, le peripezie della composita minoranza dem paiono coagularsi attorno al sacrificio umano di Pier Luigi Bersani da parte di tanti suoi ipotetici figlioli e figliole da lui stesso a suo tempo entusiasticamente, ma incautamente favoriti. Mentre alcuni, come l’innocente Speranza, sarebbero stati da lui costretti a immolarsi.
Resta da vedere se l’ex segretario sia stato o possa in effetti considerarsi un padre, o un fratellone, o magari e più semplicemente uno dei tanti leader che per consolidata tradizione oligarchica pre-renziana la sinistra promuoveva, eleggeva, sosteneva e poi regolarmente abbatteva - senza che mai, però, tali personaggi finissero nel definitivo dimenticatoio (a parte il povero Occhetto).
Oltretutto Bersani, che possiede una sua solarità, ha sempre rifiutato questo approccio arcaico e sanguinolento designandolo qualche anno fa: «Roba da psicanalisi». E può anche esserlo, sennonché è sintomatico che proprio lui si trovò a rivendicare per il Pd «un presidio di esperienza», entità invero evanescente che tuttavia nel partito venne prontamente interpretata come un modo per tenersi buoni i nonnetti.
Certo con il senno di poi non diede il giusto peso a un Renzi della prima ora: «Bersani - disse con maligno candore - ha l’età di mio padre ». Aggiungendo, se è per questo, che Berlusconi aveva quella di sua nonna. Ora, anche il Cavaliere ha avuto, ieri con Alfano e oggi con Fitto, i suoi bei trambusti generazionali. Così come nella Lega prima Maroni e poi Salvini hanno brutalmente fatto capire all’anziano e malandatissimo Bossi di non avere troppi scrupoli, nel caso fosse necessario toglierselo di torno.
La politica è infatti un gioco crudele e spesso proprio l’ingratitudine ne certifica gli sviluppi. In questo gli annali della Prima Repubblica non differiscono dal presente se non nel fatto che l’avvenuto parricidio, singolo e collettivo che fosse, era pubblicamente riconosciuto a babbo morto.
Vedi il Midas craxiano ai danni del professor De Martino; o la congiura con cui Occhetto e D’Alema si accordarono nel garage di Botteghe Oscure per mettere fine alla segretaria di Natta, che si trovava in un letto d’ospedale, senza troppo compulsarne la cartella clinica. Vedi anche le tante uccisioni - per lo più avvelenamenti, ma anche stilettate o finti incidenti - che si contarono nello scudo crociato: il giovane Bisaglia contro il suo scopritore Rumor, l’ardente De Mita contro Sullo, il sardonico Forlani versus Fanfani (ma senza vittoria definitiva).
Ecco, rispetto ad allora, nella Terza Repubblica il parricidio avviene piuttosto in streaming o addirittura in anticipo sui tempi dell’ordinario cannibalismo. Ciò non di meno, sulla scorta di una abbastanza famosa analisi di Umberto Saba, da qualche tempo diversi osservatori stanno valutando l’ipotesi che le più belluine dinamiche simboliche del potere in Italia più che sul parricidio siano in realtà basate sul fratricidio: Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani : «Gli italiani - si concludeva una delle “ Scorciatoie” di Saba - vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli» In questo senso la divaricazione sarebbe fra una matrice greca, dominata dal conflitto verticale (Zeus, Edipo, Prodi) e un’altra orizzontale di derivazione ebraicosemita, caratterizzata da uno scontro primigenio che da Caino e Abele arriva fino a al ventennale duello tra D’Alema e Veltroni.
Ora, l’oscura faccenda storicoantropologica sembra piuttosto impegnativa da sciogliersi in quattro e quattr’otto; e anche senza scomodare ulteriori e feroci divinità tipo la Grande Madre Mediterranea, il paradigma pare onestamente spropositato rispetto al reticolo di vicissitudini che legano Bersani e la sua pretesa, cospicua progenie di onorevoli che, nel mollare lo smacchiatore di giaguari sull’Italicum, lo hanno dato in pasto al Rottamatore Supremo.
E’ quest’ultimo semmai, l’impetuoso e tracotante Renzi, che tale genere di analisi consentono forse di decifrare in modo meno convenzionale. Certo nessuno come lui si è guadagnato la fama di parricida; ma quando si è trattato di fare secco Enrico Letta, Renzi si è mostrato straordinario anche come fratello- coltello. Se poi si aggiunge che nell’inner circle del Giglio si comporta come un dio che atterra e suscita, tanto da aver già prodotto diverse vittime, beh, Matteuccio assomma un tris di competenze da omicida politico di consimili. Detta così, fa impressione. Ma nella post-politica, dove tutto è leggero, le parole sono anche un gioco, un sogno, un abbaglio, un curioso mistero.
La Stampa 1.5.15
Violante: le riforme di Renzi non sono quelle di noi saggi
“È il governo del premier. Senza contrappesi si rischia”
di Jacopo Iacoboni


In questi giorni è un continuo evocare «i saggi di Napolitano», oppure «la Commissione per le riforme». Per usarli. Sia “i saggi”, sia la Commissione istituita da Enrico Letta, scrissero testi importanti su legge elettorale e riforma costituzionale. I testi li stese materialmente, in entrambi i casi, Luciano Violante.
Violante, sostengono Ceccanti e Barbera che le linee principali della legge elettorale sono le stesse che scriveste voi «saggi».
«Le leggi elettorali non vanno considerate da sole perché sono parte essenziale della forma di governo. Il mix tra legge elettorale e riforma costituzionale, nelle attuali proposte di maggioranza, ci fanno passare da un “sistema parlamentare razionalizzato” al “governo non parlamentare del primo ministro”. È un modello diverso, dal punto di vista costituzionale e politico. Senza idonei contrappesi può diventare un modello preoccupante ».
Ha ragione Enrico Letta nella sua lettera alla Stampa?
«Letta ricorda giustamente che c’è differenza tra una commissione di esperti, e il Parlamento».
Renzi ci ha scritto: sono stato costretto alla fiducia, altrimenti finivo preda della melina della minoranza. Letta sostiene che su una legge così cruciale bisognava andare avanti il più possibile «insieme». Del resto, aggiungerei, anche Renzi lo diceva, mesi fa. Che ne pensa?
«La fiducia sulle leggi costituzionali e su quelle elettorali non andrebbe mai messa, come del resto scrive chiaramente la Commissione».
Scriveste: «Una legge così delicata deve essere sottratta al capriccio delle maggioranze occasionali».
«Appunto. C’è stato anche un eccesso di emendamenti, e di furbizie, da parte di alcuni partiti di opposizione. Quando l’opposizione parlamentare abusa dei propri diritti è inevitabile che la maggioranza abusi dei propri poteri».
Il premio di maggioranza è al 40%, mentre - voi lo scrivete - chiedevate una soglia più alta. La soglia di accesso del 3% è troppo bassa, voi indicavate il 5.
«E’ così. Ma ribadisco che il problema principale è il cambiamento della forma di governo e la necessità di costruire forti contrappesi parlamentari».
Ora non è tardi? Quali contrappesi si possono introdurre a un Senato concepito con pochi senatori, non eletti, e senza veri poteri fiduciari, né di revisione dei conti?
«Renzi ha fatto qualche positiva apertura a modifiche. A mio avviso dovrebbe trattarsi di un aumento dei poteri di controllo del Senato e del riconoscimento di effetti più incisivi alle proposte di iniziativa popolare».
Renzi si riferisce solo al sistema di elezione dei senatori, non ai poteri.
«Parrebbe. Ma se non si interviene corriamo il rischio che vengano trasformati in contropoteri i “poteri neutri”, come il capo dello Stato e la Corte costituzionale. Uno snaturamento che nessuno si augura. Credo nemmeno il premier».
Cosa si potrebbe, o si sarebbe potuto, fare?
«Introdurre la sfiducia costruttiva; ma un emendamento del genere è stato respinto dalla maggioranza. Segno che la linea era quella del governo “non parlamentare” del primo ministro. Le accuse del ritorno al fascismo sono ridicole; ma questa inedita forma di governo necessita, per restare nel solco costituzionale, di idonei contropoteri. Noi proponevamo inoltre una diversa proporzione tra i parlamentari: 450-480 deputati, e 150-200 senatori. Invece, i senatori sono troppo pochi e i deputati sono troppi».
E sui capilista nella legge elettorale, o sulle candidature plurime, che idea ha?
«Sui capilista io non faccio una tragedia. Ma se si accettano candidature in più collegi, serve una norma per obbligare il candidato “plurimo” a essere eletto dove ha il coefficiente più alto. Altrimenti spetta a lui scegliere chi è eletto, con inevitabili ulteriori distorsioni».
La Stampa 1.5.15
Nasce il comitato referendario
I renziani: armata Brancaleone
Brunetta guida l’iniziativa trasversale, con Sel, grillini e Lega
di Amedeo La Mattina


La galassia dell’opposizione all’Italicum dallo stato gassoso prova a solidificarsi nel Comitato referendario del No. La riforma elettorale non è ancora legge ma già si pensa di abrogarla mettendo insieme uno schieramento che più eterogeneo non si può. Brunetta parla di «idem sentire» con i compagni di Sel, con i 5 Stelle di Grillo, i leghisti di Salvini, i Fratelli d’Italia della Meloni. Il capogruppo azzurro da tempo si muove in sintonia con il collega vendoliano Scotto e quello del Carroccio Fedriga. Fila d’amore e d’accordo con il grillino Toninelli. Ieri insieme hanno deciso di non partecipare alla chiama per il terzo voto di fiducia. E lunedì alle 11 i nuovi crociati del No si incontreranno per definire cosa fare al voto finale: chiedere il voto segreto o palese oppure lasciare l’aula in un nuovo Aventino? Sarà di fatto la prima riunione del Comitato del No che sfiderà il futuro Comitato del Sì che vedrà Renzi in prima fila affiancato da Alfano, Alleanza popolare e Scelta civica. Bisognerà vedere se nello schieramento del No entreranno anche i dissidenti del Pd che non hanno votato la fiducia, seguendo Bersani, Cuperlo, Fassina, Bindi e Speranza. Tra i Democratici chi si è già lanciato per il referendum abrogativo è Civati: «Quello che i parlamentari non hanno potuto fare, cioè votare i necessari miglioramenti dell’Italicum, lo potranno fare i cittadini con un bel referendum».
Timore del voto segreto
Dietro la decisione su cosa fare lunedì al voto finale ci sono motivazioni non confessabili. Già ieri la non partecipazione al terzo e ultimo voto di fiducia da parte di Forza Italia e degli altri gruppi d’opposizione era dovuta alla mancanza in aula di molti deputati tornati a casa. Lunedì molto probabilmente il «Comitato del No» deciderà un altro Aventino per evitare che nel segreto dell’urna i voti a favore dell’Italicum possano aumentare ed essere più della maggioranza che finora ha espresso la fiducia. La paura che la legge elettorale non passi e si vada a casa potrebbe scatenare il soccorso dalle fila forziste, grilline e leghiste. E infatti quello che sembrava scontato, cioè la richiesta del voto segreto, sembra sia svanita.
Referendum abrogativo
La variopinta armata referendaria (già i renziani la chiamano «Brancaleone») ieri ha cominciato a emettere i primi bollettini di guerra contro una legge che Salvini ha definito una legge «schifissima». «Dopo lunedì, comunque vada, noi saremo determinati a chiedere un referendum abrogativo», ha annunciato Brunetta. «La battaglia - ha spiegato il pentastellato Toninelli - non vogliamo farla da soli e potrebbe interessare tutte le forze politiche e della società civile che contestano questo tentativo di accentramento del potere di Renzi». Anche il capogruppo Sel Scotto pensa a un fronte ampio che comprenda i dissidenti del Pd. Bene, ha ironizzato il falco renziano Rosato, «sarà un grande successo: vedo già gli italiani fare la fila per poter votare».
il Fatto 1.5.15
Coincidenze
Figlia ministra, mamma “premiata”
di Alex Corlazzoli


Lei è bella e brava, dicono. Ma anche la mamma non scherza. Stefania Agresti non ha solo il merito di essere la madre di Maria Elena Boschi, ministro per le Riforme costituzionali, ma anche quello di dirigere una scuola, la primaria “Bani” di San Giovanni Valdarno (Arezzo), che ha conquistato il podio dell’Expo partecipando al progetto “Kids Creative Lab” ideato da Ovs e dalla Collezione Peggy Guggenheim con la collaborazione di Padiglione Italia e il patrocinio di Scuola Expo Milano. Il plesso è stato, infatti, selezionato per la Toscana, insieme agli altri 18 scelti a rappresentare ogni regione, grazie a un’opera fatta dai bambini e che ora farà parte di una video installazione realizzata per l’Esposizione Universale. Una sorpresa per il senatore del Movimento 5 Stelle, Vincenzo Maurizio Sant’Angelo che su Facebok ha scritto: “Ma guarda un po’ che fortuita combinazione! La scuola dell'infanzia ‘Bani’ è l’unica scuola in Italia che
andrà all'Expo con un regolare sorteggio. Fa parte dell'istituto ‘Marconi’ dove, guarda caso, la preside è proprio lei, la mamma del ministro Boschi”. La polemica impazza in Rete. Il direttore generale di Ovs Francesco Sama ha chiarito che non si è trattato di un sorteggio, ma di una scelta oggettiva: “Abbiamo selezionato la scuola che per ogni regione ha partecipato con il maggior numero di bambini. Non avevamo la minima idea di chi fosse la dirigente di quel plesso”. Coincidenze.
Corriere 1.5.15
Un esito che perpetua i conflitti tra i partiti
di Massimo Franco


Di fiducia in fiducia, tra lunedì sera e martedì l’Italicum sarà legge. E Matteo Renzi potrà dire ufficialmente di avere vinto la sua sfida con il resto del Pd e con le altre opposizioni. Rimane un residuo di cautela, del quale si fa portavoce il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi. Ma l’eventualità che ci siano intoppi è sempre più remota. Semmai, per il presidente del Consiglio il rischio è di festeggiare con l’aula della Camera abbandonata dal «cartello» degli avversari: una sorta di «strategia dell’assenza» composta trasversalmente da minoranza del Pd, Forza Italia, M5S, Lega e Sel. La prospettiva, però, non assilla solo Palazzo Chigi.
Lo strappo deciso dal premier ponendo la fiducia per arrivare al «sì» alla riforma elettorale tende a ricompattare le opposizioni. Ma potrebbe anche rivelarne le crepe, come è già accaduto con i Democratici, che si sono divisi sul «no». Per questo l’ipotesi dell’uscita dall’aula al momento del voto non viene esclusa, e nemmeno data per scontata. Si sa che dentro FI esiste una filiera «renziana» favorevole alle riforme; e pronta a sottolineare il dissenso rispetto a una deriva ritenuta estremista. Ieri il ministro Boschi ha dovuto rispondere all’ex capogruppo Roberto Speranza che «Denis Verdini non si iscriverà al Pd», citando il berlusconiano più governativo.
Nella stessa Lega succedono fatti strani: come l’ex leader Umberto Bossi che partecipa alle votazioni mentre il resto dei deputati del Carroccio resta fuori. Insomma, a temere brutte sorprese non è solo Renzi ma anche chi lo contrasta. L’immagine finale rimane comunque quella di un Parlamento lacerato e inquieto; e di un partito di maggioranza incapace di trovare una coesione, perché gli sconfitti appaiono esasperati e pronti a tutto per colpire Renzi, soprattutto in vista del passaggio dell’ Italicum al Senato, dopo l’estate.
Di questa esasperazione è testimone la tentazione intermittente di una scissione del Pd: anche se certificherebbe solo l’istinto suicida e l’impotenza della minoranza. Il fatto che FI, e non solo, accarezzi l’ipotesi di sottoporre la riforma elettorale al referendum abrogativo, proietta lo scontro fuori dalle aule parlamentari; e allunga sulla legge un’ombra di precarietà. Almeno in apparenza, perché un referendum potrebbe, per paradosso, rivelarsi un favore a Renzi, pronto a presentarsi al Paese come il riformista frenato da un fronte di conservatori passatisti.
Ma l’impressione è che l’ostilità al nuovo sistema elettorale nasca più da ragioni politiche che dal contenuto in sé. Il Pd ci vede la premessa di «una mutazione genetica del partito», nelle parole della presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi: una tappa verso quel «partito della Nazione» caro a Renzi, attento al mondo moderato e pronto a dire di no al sindacato. «In passato il partito non ha avuto il coraggio di fare le riforme per non perdere i voti della Cgil», ha ricordato la Boschi. Oltre a questo, però, il sospetto rilanciato dalle opposizioni è che l’ Italicum sia un sistema presidenziale su misura per Renzi: una scorciatoia foriera di nuovi conflitti.
Corriere 1.5.15
Il governo del leader non minaccia la democrazia
di Michele Salvati


Questa fase della vita politica italiana — il «tutti contro Renzi» sul tema della legge elettorale — sembra la meno adatta a riflessioni pacate sulle radici lontane della crisi che stiamo vivendo.
Per semplificare il tentativo, non mi soffermo sul perché siano contro Renzi movimenti o partiti populisti e antieuropei: esclusi dal gioco, ogni pretesto è buono per aggredire il governo. E lascio anche da parte quel partito, Forza Italia, che ai tempi del patto del Nazareno Renzi pensava di coinvolgere nel gioco, come rappresentante di un elettorato con il quale poteva instaurarsi una dialettica democratica simile a quella che si svolge in altri grandi Paesi europei, centrodestra contro centrosinistra. A Berlusconi non è riuscito il tentativo (ma c’è mai stato?) di «trasformare il carisma in istituzione», di stabilizzare e dare una consistenza organizzativa al suo partito e un indirizzo politico al suo popolo: compito certo difficilissimo in Italia, ma che ad altri leader carismatici è pur riuscito altrove. Perché non sia riuscito a lui per ora nessuno l’ha spiegato meglio di Giovanni Orsina ( Il berlusconismo nella storia d’Italia , Marsilio) e devo lasciare il lettore in sua compagnia.
Vengo allora al Pd. Nessuno, credo, si lascia ingannare dalla maggior correttezza della polemica — i toni di Salvini non si adattano a una polemica interna, e poi tradizione e cultura ancora un poco contano — ma l’ostilità e l’insofferenza della minoranza per il segretario sono ancor più intense di quelle manifestate dai partiti di opposizione, cosa che spesso avviene nei conflitti in famiglia. E nessuno, credo, è convinto dall’idea che queste difficoltà siano dovute a incomponibili conflitti sul merito delle riforme istituzionali proposte da Renzi, come invece la minoranza vorrebbe far credere. Tanti commentatori ci hanno già ricordato, con nomi e date, che una concezione di democrazia maggioritaria come quella adottata dall’attuale proposta di legge elettorale era già discussa e largamente accettata all’interno dei partiti dell’Ulivo, e che l’idea di un Senato senza potere fiduciario e invece con una funzione di rappresentanza delle autonomie era un obiettivo sul quale esisteva un ampio accordo. Anche sul rafforzamento del ruolo del presidente del Consiglio, pur temperato da istituzioni di garanzia che il progetto Renzi lascia inalterate nei loro poteri, il consenso nei partiti dell’Ulivo, poi confluiti nel Partito democratico, era molto ampio. E lascio da parte l’incredibile polemica sulle preferenze: contro le preferenze era schierato l’intero Pds-Ds, e una parte non piccola di Margherita.
Facciamo allora un piccolo esperimento intellettuale e poniamoci la seguente domanda ipotetica: se le riforme che ora vuol fare Renzi le avesse proposte Bersani con l’avallo del vecchio gruppo dirigente ex comunista ed ex sinistra dc — alla luce della storia che ho brevemente ricordato non è un’ipotesi inverosimile, le premesse c’erano tutte — ci sarebbe forse stato uno scatenamento polemico di questa intensità? Che arriva a riesumare il vecchio slogan di «minaccia alla democrazia» già usato ai tempi di Berlusconi? Quali tabù ha toccato Renzi per suscitare questa reazione? Non può trattarsi solo della comprensibile resistenza di un ceto dirigente sconfitto: in un partito sano la sconfitta si archivia e ci si prepara a una rivincita in futuro, confidando che i fatti e la propria azione politica dimostrino l’erroneità della linea adottata dal leader. In gioco c’è qualcosa di più grosso, il passaggio da una concezione di partito a un’altra. Da un partito di notabili in servizio permanente effettivo, in cui la strategia del partito emerge da accomodamenti e mediazioni continue, a un partito del leader il quale giudica quando il tempo delle mediazioni è finito e l’ulteriore dilazione nella decisione contrasterebbe con l’efficacia della decisione stessa. Un partito che non guarda prevalentemente al proprio interno, ma guarda alla sua azione di governo e al consenso che questa può riscuotere nel Paese. Se si aggiunge che — mirando al successo esterno e non alla conservazione delle oligarchie e dei santuari ideologici cui prestano osservanza — il leader può essere indotto a forti modifiche delle strategie adottate in passato, si vedono bene i tabù che Renzi ha abbattuto e si capisce la violenza della reazione: l’opposizione è stata sbalzata in un mondo radicalmente estraneo a quello cui si era assuefatta.
È il nuovo mondo che Mauro Calise spiega assai bene nel suo saggio sull’ultimo numero de «il Mulino» ( La democrazia del leader ) e di cui consiglio una lettura attenta, ai dissidenti del Pd e non solo. Il governo del leader non è una minaccia per la democrazia — non siamo a Weimar — ma un tentativo di conciliare democrazia e capacità di decisione, nella consapevolezza che la vera minaccia della democrazia è la sua incapacità di decidere.
Corriere 1.5.15
Il premier: li abbiamo distrutti e non andremo sotto neanche a Palazzo Madama
Il segretario ai suoi: ora dobbiamo occuparci delle tasse troppo alte
di Maria Teresa Meli


ROMA «Abbiamo stravinto, li abbiamo distrutti: così andiamo tranquilli fino al 2018». Alla terza fiducia Matteo Renzi non riesce a trattenere l’entusiasmo per l’esito della vicenda dell’Italicum.
La parola fine verrà pronunciata lunedì prossimo, ma il presidente del Consiglio, facendo il punto con i fedelissimi, dà già per vinta la partita.
Non solo. Il premier fa mostra di non temere nemmeno le prove del Senato, dove i numeri sono ballerini e la minoranza del Partito democratico potrebbe rivelarsi determinante per il governo. Renzi scruta i sommovimenti in quel ramo del Parlamento e nota come Forza Italia è il «Movimento 5 stelle» continuino a «perdere pezzi». «Secondo me — spiega il premier ai suoi — non andremo sotto nemmeno a Palazzo Madama. I senatori non seguono Bindi, Bersani e Letta in questo potenziale suicidio».
Insomma, l’inquilino di Palazzo Chigi non sembra temere il «dopo strappo» sulla riforma elettorale. Il che non significa che sul disegno di legge costituzionale non aprirà a delle modifiche. Ma lo farà non tanto per ricostruire un canale di comunicazione con i suoi oppositori interni, quanto perché ha capito che potrebbero essere anche altri i voti che mancano all’appello per mandare in porto quella riforma.
Intanto Renzi si accontenta di aver segnato il punto. Si può presentare alle elezioni regionali, sbandierando il risultato dell’Italicum e dimostrando che non è vero quello che si dice di lui, ossia che promette e non mantiene: «Avevamo detto che questa era una riforma fondamentale, dalla quale si poteva partire per portare avanti le altre, e siamo stati di parola».
Dunque, non possono essere certo l’Italicum, e le polemiche che lo accompagnano, ragioni di cruccio per il presidente del Consiglio.
Semmai, Renzi è preoccupato per la decisione della Corte costituzionale. Quella sì che non ci voleva. Trovare tutti quei soldi, con la situazione economica che è quella che è, non sarà un passeggiata. Lo ammette lo stesso premier, che pure è solito spandere ottimismo: «Non sarà una prova facile. Dobbiamo verificare quale impatto può avere la sentenza della Consulta sui conti pubblici».
Dopodiché l’indole ottimista di Renzi prevale anche in occasioni complicate come questa. E il premier tenta perciò di rassicurare i suoi, preoccupati per le possibili conseguenze della sentenza della Corte costituzionale. «Calma e gesso, ragazzi, vediamo di studiare bene la sentenza e vedrete che troveremo una soluzione anche questa volta», è l’esortazione che Renzi ha rivolto ai suoi. «Io — ha spiegato il premier — non sono molto preoccupato. Non ce n’è motivo. Siamo al governo proprio per risolvere questioni complesse, per dare risposte chiare e certe, per trasformare le eventuali criticità in opportunità. Quindi non fasciamoci la testa».
Parla così, Matteo Renzi, però questa sentenza della Consulta giunge come un fulmine a ciel sereno nel momento in cui il premier già pensava a come affrontare il problema dei problemi, ossia la situazione economica. È su quella che il presidente del Consiglio si vuole concentrare, una volta passata la boa della riforma elettorale. Ci sta riflettendo sopra da tempo, convinto che la mossa vincente può essere solo in quel campo. Secondo lui servirà anche a fugare le polemiche di questi giorni sull’Italicum e a far dimenticare divisioni e contrapposizioni.
«Dobbiamo occuparci del problema delle tasse che sono troppo alte» è il ritornello dell’inquilino di Palazzo Chigi. Con questa aggiunta: «Perciò dobbiamo vedere come sostenere i tagli». Sì, la questione è «tagliare nella pubblica amministrazione per poi tagliare le tasse. È una cosa su cui dobbiamo lavorare seriamente».
Ovviamente non sarà questa la priorità. O, meglio, non verrà indicata pubblicamente come tale, perché questo è un punto più che delicato. Ma Renzi sa che per «arrivare fino al 2018» è necessario operare in quel campo. «Nei prossimi dodici mesi — ha spiegato il presidente del Consiglio ai suoi collaboratori — l’economia crescerà e noi non possiamo perdere questa occasione. È su questo che ci giocheremo tutto, governo e faccia».
Repubblica 1.5.15
Renzi prepara l’affondo: “Alle regionali la resa dei conti”
di Francesco Bei, Goffredo De Marchis


ROMA Sulla legge elettorale gli irriducibili alzano bandiera bianca. Nel voto segreto di lunedì, i 38 che non hanno votato la fiducia potranno crescere «fino a 50», è la previsione di Roberto Speranza. Ma non sposteranno gli equilibri, non creeranno alcun affanno a Matteo Renzi e all’Italicum che diventerà legge. Perciò la minoranza si prepara a nuove battaglie, per tenere vivo lo strappo consumato in aula a Montecitorio. La prossima settimana si voterà il nuovo capogruppo del Pd. L’obiettivo è ridurre al minimo i voti del vincitore mentre Speranza, quando fu eletto due anni fa, incassò, a scrutinio segreto, un plebiscito. Poi, ci sono le manovre sulle regionali, in particolare sulla Liguria dove la candidata ufficiale di Renzi, Raffaella Paita, subisce la rimonta, da sinistra, del civatiano Pastorino. E tra la minoranza dem il passa parola è quello di usare il voto disgiunto (a favore di Pastorino) per colpire la candidata renziana. Se il premier, oltre che in Veneto, perdesse in una regione rossa, i ribelli sognano “l’effetto D’Alema”, costretto a lasciare palazzo Chigi dopo la disfatta alle regionali del 2000. Ma il terreno di scontro immediato può diventare la scuola. Il premier vuole conquistare un’altra medaglia da esibire nella campagna elettorale per il 31 maggio: il primo voto della Camera sul disegno di legge “la buona scuola”. Che assume 100 mila precari, offre ai presidi poteri di scelta dei professori e garantisce un finanziamento per la ristrutturazione degli edifici. Il 19 maggio è previsto il voto finale a Montecitorio. È una corsa contro il tempo che la minoranza, soprattutto i duri e puri, pensa di usare per ostacolare il progetto renziano. La scuola parla al popolo della sinistra, riconnette la politica a un mondo tradizionalmente schierato, ai sindacati, all’opposizione verso l’esecutivo che esiste nel Paese. Non a caso, Nichi Vendola lo ha capito per primo e il 5 maggio cavalcherà lo sciopero degli insegnanti e del personale Ata. Sel sarà in piazza, il Movimento 5stelle pure. Accanto a loro, scommettono al Nazareno, ci saranno anche i dirigenti dello strappo. Da Fassina a Civati, senza escludere la possibile presenza di Speranza. La scuola è stato anche un argomento di polemica di Enrico Letta: «Quando fai tante promesse disattese poi ti ritrovi la gente in corteo e uno sciopero, come quello del 5 maggio».
Prima di pensare alle contromosse sulla scuola Renzi punta comunque a portare a casa la nuova legge elettorale. Se il risultato finale sembra scontato è anche per la probabile scelta dell’opposizione di disertare in massa l’aula, lasciando alla sola maggioranza l’onere di approvarsi da sola la riforma. È stato il capogruppo forzista Renato Brunetta, ieri pomeriggio, a convincere i colleghi di Sel, FdI, Lega e M5S a quest’ennesimo Aventino. «Una mossa disperata», commentano i deputati forzisti ostili al capogruppo, per mascherare le divisioni interne al partito. «Se restassimo tutti in aula, con il voto segreto Renzi avrebbe cinquanta voti in più». Lunedì mattina si terrà un’ultima riunione di vertice tra tutte le opposizioni per decidere come comportarsi. E non è nemmeno esclusa l’ipotesi che Brunetta rinunci al voto segreto, proprio per costringere tutti i forzisti a votare contro l’Italicum. Del resto già ieri, un po’ per il ponte del 1° maggio e un po’ per le tensione intestine, i votanti di Forza Italia erano scesi durante la prima fiducia della mattina. Così Brunetta ha dato l’ordine: «Tutti fuori alla seconda fiducia». E gli azzurri non si sono contati.
Appare difficile, per il momento, una ricucitura dei rapporti nel Pd. Pippo Civati e Stefano Fassina sono dati in uscita. Potrebbero scegliere l’addio dopo le regionali. Questa scissione, criticata da Bersani, Speranza, D’Attorre e altri irriducibili, intende aprire la strada ad altre uscite, con l’idea di costituire un gruppo autonomo in Parlamento a partire dal Senato. Ma la necessità di una tregua con la sinistra, per non perdere quella storia e quel seme nel Pd, è ben presente anche a Renzi. Per questo si attende, dopo il duello a colpi di fiducia, un gesto del premier. E potrebbe davvero arrivare sulla riforma del Senato «per farlo assomigliare al Bundesrat», dice Francesco Boccia. Con poteri diversi dalla Camera, ma con consiglieri regionali espressamente eletti per occupare il ruolo di senatori. Un contrappeso all’-Italicum.