sabato 26 aprile 2014

Repubblica 26.4.14
Riforme, ecco il piano B di Renzi
“Italicum pure al Senato e poi al voto in autunno”
di Francesco Bei Giovanna Casadio


ROMA. Ne ha parlato soltanto con pochissimi e fidati. Ma il piano esiste, eccome. Se tutto dovesse finire nelle sabbie mobili, se Berlusconi si dovesse rivelare un ostacolo insormontabile sulle strade per le riforme, Matteo Renzi ha in già in mente cosa fare. «Non mi faccio cuocere a bagnomaria. Facciamo l’Italicum anche per il Senato e torniamo a votare».
Certo, per ora si tratta di una nube lontana, un’operazione rischiosa da adottare soltanto come extrema ratio. Escluso che Renzi solleverà la questione oggi al Quirinale, nel colloquio che avrà con Napolitano. Per il momento il premier ha ordinato di gettare acqua sul fuoco rispetto ai proclami bellicosi di Forza Italia. «Keep calm and carry on», come ha scritto in un sms. Tanto più che, nei numerosi contatti di ieri tra palazzo Chigi e il quartier generale forzista, a Renzi è stato assicurato che solo di campagna elettorale si tratta. Tanto è vero che la linea pacta servanda sunt è stata ribadita in serata da una dichiarazione alla camomilla di Giovanni Toti: «Nessuno può osare pensare che Forza Italia non rispetti i patti». Eppure l’operazione Italicum di Renzi resta nei cassetti di palazzo Chigi, pronta a essere dispiegata nel caso le elezioni europee portassero il Pd a un risultato lusinghiero e la riforma della Costituzionale finisse impantanata. La legge elettorale per il Senato sarebbe ricalcata su quella della Camera – ballottaggio compreso – ma per venire incontro al Nuovo centrodestra le soglie di sbarramento interne alle coalizioni sarebbe abbassate al 4 per cento. Perché è chiaro che, se Forza Italia si sfilasse, il nuovo Italicum dovrebbe passare con i soli voti della maggioranza. «Se Fi dovesse cambiare idea e tirarsi indietro – ha ribadito ieri sera Maria Elena Boschi - andremo avanti con la maggioranza, con i numeri che abbiamo». A quel punto, Napolitano permettendo, sarebbe solo un problema di convenienza elettorale. Votare a ottobre 2014 sarebbe possibile, anche se ovviamente durante il semestre europeo il capo dello Stato farà di tutto per non “regalare” al paese un’altra campagna elettorale. Altra ipotesi sarebbe quella della primavera 2015. Entrambe le finestre elettorali darebbero comunque a Renzi la possibilità di ripresentarsi davanti agli elettori senza il pesante fardello di tagli – 17 miliardi – che la spending review prevede per il 2015. Oltretutto sarebbe il prossimo Parlamento, a quel punto, a scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Il premier potrebbe contare su gruppi parlamentari più fedeli e meno a rischio di imboscate come quelle dei 101 che tradirono Prodi.
E tuttavia, almeno fino al voto del 25 maggio, questi discorsi restano tra le quattro mura dello studio del premier. Ora è il momento di concentrarsi sul presente ed evitare quella che Renzi con i suoi definisce la «bersanizzazione della campagna elettorale ». Ovvero la sindrome pericolosissima che prende il Pd quando i sondaggi sono favorevoli. Quell’atteggiamento “abbiamo già vinto” che costò la vittoria a Bersani. Il premier è fiducioso sul risultato ma resta prudente. «Grillo inventa la storia della rimonta ma non è così. Comunque non dobbiamo mollare ». Semmai i renziani iniziano a essere preoccupati per i sondaggi al ribasso del Cavaliere. Gli esperti elettorali democratici hanno infatti rilevato che ogni voto in uscita da Forza Italia, invece di andare all’Ncd, finisce per ingrossare il paniere del M5s. Per cui una Forza Italia crollata al 16 per cento equivarrebbe a un M5S cresciuto oltre il 26 per cento. Un risultato che certo a palazzo Chigi nessuno si augura.
In ogni caso gli sforzi di Renzi e dei suoi collaboratori sono ora tutti concentrati a far rientrare la fronda interna al Pd, una ricucitura indispensabile per andare avanti. Sms sono partiti in queste ore dal ministro Boschi, dal sottosegretario Delrio e dallo stesso Renzi indirizzati ai dissidenti. L’appello è: non offriamo sponde a Berlusconi, «evitiamo le divisioni». Ma il premier ha anche ammesso che il governo non si impiccherà su una settimana in meno o in più di discussione. Lo fa sapere in un giro di telefonate alle «teste calde» dem Lorenzo Guerini, il vice segretario: «I tempi slittano, è inevitabile. Il 16 maggio il Senato sospende l’attività. Però entro quella data potremmo chiudere in commissione. Il risultato politico ci sarebbe comunque».
La sinistra del Pd spera in questo allungamento dei tempi per cambiare il testo. I dissidenti dem sono convinti che sia l’unico effetto positivo del caos scatenato da Berlusconi. «Togliere la riforma del Senato dalla campagna elettorale per le europee è un bene, così possiamo riprendere a parlare dei contenuti», osserva Felice Casson. Tutto questa apertura al dialogo non convince un renziano duro e puro come Giachetti, sempre più pessimista. «Il nostro problema – confida - non è Berlusconi ma la minoranza interna. Si accaniscono sulla riforma del Senato ma è l’Italicum il loro vero obiettivo. Faranno di tutto per fermarlo».

Corriere 26.4.14
Le troppe mete esotiche per il nuovo Senato
Tante idee sulla riforma del Senato ma non diventi una Camera secondaria
di Michele Ainis


Un Senato? No, 52. Perché sono 52 i progetti di riforma che ingombrano la commissione Affari costituzionali, e ogni testo è un viaggio verso mete esotiche, e nessun viaggio è uguale all’altro.Ma il rischio è di rimanere ametà strada, inchiodatiin un aeroporto di scalo. Succede, quando i voti si trasformano in veti. E conle riforme ci succede da trent’anni. Come nel gioco dell’oca: gira e rigira, ti ritrovi sempre alla stazione di partenza. Scoprendo infine che i partiti nonsono mai partiti, che era tutta una finta, una manfrina. Siccome però a questo viaggio ormai ci abbiamo preso gusto, siccome la riforma del Senato è l’architrave su cui poggia ogni altra riforma economica e sociale, siccome sul nuovo Senatosi è scatenata una bagarre, almeno stavolta converrà attrezzarsi.
Attrezzarsi come? Intanto con un vademecum per i viaggiatori: tre avvertenze per le loro partenze.
Primo: la fantasia costituzionale. È una qualità, ma senza esagerare. Resistendo alla tentazione di creare il mondo daccapo ogni lunedì, ma resistendo pure al copia-incolla, alla scimmiottatura delle esperienze altrui. Ogni Paese ha le proprie tradizioni, anche se in Italia la prima tradizione è il tradimento. Dunque bene sui sindaci a Palazzo Madama, benché il Bundesrat tedesco — cui s’ispira il progetto del governo — non ne contempli la presenza: dopotutto i municipi innervano la nostra storia nazionale, a differenza che in Germania. Male, molto male, l’idea bislacca dei 21 senatori nominati dal Colle. Nel Senato attuale equivalgono a due gruppi parlamentari; nel nuovo Senato a ranghi dimezzati peserebbero come quattro partiti. Partiti del presidente, presidenzialisti per definizione. E il capo dello Stato verrebbe tirato dentro suo malgrado nella mischia: un dono avvelenato.
Secondo: i posti (e i quattrini). A quanto pare s’è aperta una gara a chi sa usare le forbici più lunghe; vincerà Caligola, che in Senato ci voleva soltanto il suo cavallo. Ma l’efficienza delle istituzioni dipende anche dal numero dei loro inquilini. Troppi, s’intralciano a vicenda; pochi, non riescono a smaltire l’arretrato. E in questo caso il Senato diventerebbe un costo inutile, pur senza l’indennità dei senatori. Ma infine smettiamola di misurare la qualità della riforma sulla fattura da pagare: stiamo ristrutturando il bicameralismo, non un bilocale.
Terzo: la coerenza, virtù dimenticata. Ce n’è ben poca nei progetti alternativi di chi (come Calderoli) difende con le unghie l’elezione diretta del Senato: se quest’ultimo mantiene la stessa legittimazione popolare della Camera, perché negargli il voto di fiducia sul governo? Ce n’è ancora meno nel testo presentato da Chiti, dove il Senato approva ogni legge che incida sui diritti: in pratica, tutte le leggi. Tanto vale lasciare le cose come stanno, si fa meno fatica. Ma è poco coerente anche la proposta dell’esecutivo, con un’elezione di secondo grado affidata ai Consigli regionali, anziché alle giunte: ne uscirebbe un doppione della Camera, più o meno con la stessa proporzione fra i partiti.
La soluzione? Rafforzare il ruolo di garanzia del nuovo Senato. Inserendovi (per una legislatura) gli ex presidenti della Consulta, della Cassazione, delle principali Authority . Magari aggiungendovi una quota di cittadini estratti per sorteggio fra categorie qualificate: non è un’eresia, lo suggerisce un gruppo di fisici e d’economisti (dopo una simulazione al calcolatore) per migliorare il rendimento delle assemblee rappresentative. Miscelando queste quote con i delegati regionali o comunali. E miscelando altresì le competenze, in aggiunta a quelle concernenti il rapporto fra Stato e Autonomie. Significa attribuire al Senato ogni decisione sulla quale i deputati versino in conflitto d’interesse (dalle immunità alla verifica dei poteri, dalla legge elettorale al finanziamento dei partiti). Significa assegnargli il parere vincolante su tutte le nomine dei dirigenti apicali dello Stato. Ma soprattutto significa costruire una seconda Camera, anziché una Camera secondaria.

Corriere 26.4.14
Ma la convivenza resta obbligata
I due obbligati a convivere
Tanti freni all’idea delle urne
Nei conti dell’ex premier il saldo delle riforme è negativo
Dietro le dichiarazioni minacciose e i toni bellicosi, oltre i ripensamenti e gli ultimatum, al di là dei patti che sembrano rompersi come piatti, resta al fondo una domanda: ma dove vanno?
di Francesco Verderami


Dove potrebbe andare Berlusconi e dove mai potrebbe andare lo stesso Renzi? La verità è che nessuno — per interessi diversi — pensa oggi di sfidare la sorte, precipitando verso elezioni politiche anticipate. Non le vuole il Cavaliere e neanche il premier, «l’unico a sperare che salti tutto è Grillo», dice infatti il vice segretario del Pd, Guerini: «Grillo soltanto, però. Non i grillini che stanno nel Palazzo».
Certo, l’incidente di percorso va sempre messo in conto, ma ai partiti di centrodestra e centrosinistra già basta e avanza la roulette russa del voto europeo, autentico spartiacque in questa fase di transizione, perché in base al risultato saranno tracciati i confini del futuro sistema politico. E a meno di non volersi consegnare ai Cinquestelle, sanno di essere condannati a fare insieme le riforme.
D’altronde c’è un’analogia tra l’attuale legislatura e quella passata alla storia come il «Parlamento degli inquisiti», ultimo atto della Prima Repubblica. Allora le forze del pentapartito erano consapevoli che solo producendo riforme avrebbero potuto sperare di sopravvivere: non si erano mai visti deputati e senatori tanto operosi. Ma quando il Pds decise di rompere gli indugi, pensando finalmente di conquistare Palazzo Chigi, al voto vinse Berlusconi.
È un precedente da tenere in considerazione. E adesso che la Seconda Repubblica volge al termine, «solo con le riforme — come dice il coordinatore del Nuovo centrodestra, Quagliariello — si può confidare in una transizione morbida. Altrimenti...». Perciò non è un caso se — dietro un surplus competitivo dovuto alla campagna elettorale — tanto Berlusconi quanto Renzi non sono interessati alla rottura. «Vogliamo andare avanti», dice infatti il premier: «Non per durare ma per fare». Certo è piccato per l’atteggiamento del leader di Forza Italia, che però non ha rotto il patto del Nazareno — così si è affrettato a precisare — ma ha chiesto di «rivederne i termini».
E qui si entra nei «dettagli» a cui Renzi si mostra allergico, e che tuttavia fanno parte delle regole del gioco in una trattativa assai complessa. Di sicuro non sono stati i «costituzionalisti» a far capire a Berlusconi che la riforma del Senato «così com’è non va bene», e che l’Italicum è «incostituzionale»: più semplicemente si è fatto (fare) due conti e ha capito che le due riforme sono per lui a saldo negativo, che soprattutto la legge elettorale «è tagliata su misura per Renzi. Troppo su misura». E siccome la trattativa per Forza Italia è stata gestita da Verdini, la considerazione del Cavaliere ha fatto di nuovo levare nel movimento azzurro quel venticello sull’affinità elettiva tra il premier e il plenipotenziario forzista, anch’egli fiorentino, che avrebbe esortato il suo leader a non spezzare il filo — come fece a suo tempo con D’Alema e Veltroni — per non perdere di credibilità.
Di sicuro c’è che Berlusconi si sente ed è incastrato: se rompesse sulle riforme, romperebbe con una parte consistente dei suoi elettori (che le vuole) e con una parte altrettanto consistente del suo partito (che non vuole le elezioni). Per certi versi anche Renzi è incastrato: la minaccia delle urne infatti è un’arma scarica, siccome l’Italicum — che ancora non è nemmeno legge — è inservibile perché è stata pensata per una sola Camera, e il Consultellum lo costringerebbe quasi certamente dopo il voto alle larghe intese. Eppoi, come ai tempi del «Parlamento degli inquisiti», deputati e senatori faranno di tutto pur di non venire rottamati in anticipo.
Ma la sortita del Cavaliere non ha solo infiammato la campagna elettorale, ha anche prodotto un paradosso politico, perché — come sostiene Quagliariello — «con la sua nuova posizione, che è strumentale e in quanto tale inaccettabile, sui contenuti delle riforme Berlusconi si è portato sulle nostre posizioni». Che il Senato non possa trasformarsi in un «dopolavoro» l’aveva già detto proprio il coordinatore del Nuovo centrodestra, e fin dall’approvazione alla Camera il suo partito aveva chiesto di «modificare l’Italicum».
Si vedrà come si svilupperà la trattativa, quale tattica e quale tempistica adotterà Renzi, che nel suo partito incontra ancora forti resistenze ed è deciso a superare l’impasse con un passaggio ai gruppi parlamentari e in direzione. Non c’è dubbio però che i protagonisti delle riforme non vogliono e non possono rompere. La difficoltà di un’intesa non è dettata dalla vicinanza delle elezioni, sta piuttosto nel fatto che non si conosce l’esito delle elezioni. Perché i futuri rapporti di forza avranno un peso determinante nella conclusione della vertenza. Cosa accadrebbe, per esempio, se uno dei contraenti il patto dovesse fare crac?

Corriere 26.4.14
Il confronto sul patto a rischio e le leggi-chiave
di Massimo Franco


Non ha battuto ciglio, Giorgio Napolitano, mentre ieri mattina gli riferivano nei dettagli l’affondo dell’ex Cavaliere sulle riforme. Si è concesso solo una smorfia quando, dopo avergli riassunto l’ultima variante berlusconiana della teoria del complotto (l’abbandono di Fini sarebbe maturato «dietro istigazione del Quirinale»), gli hanno spiegato gli sconcertanti due tempi della performance televisiva nel salotto di Bruno Vespa: per tre quarti della trasmissione stanco, frenato e quasi soporifero per gli spettatori, per poi chiudere con i bioritmi di colpo alle stelle, incontenibile e arcipolemico. Nessun commento agli attacchi, nessuna replica, ha fatto capire ai suoi il capo dello Stato, con un’alzata di spalle al termine del resoconto. In questi giorni, del resto, ci sono ben altri motivi di preoccupazione, per lui. Glieli ha fatti intuire poco più tardi, durante la cerimonia per il 25 aprila al Vittoriano, Matteo Renzi, chiedendogli un incontro urgente. «Devo parlarle… Attendo convocazione per domani, a qualsiasi ora». Sul Colle non anticipano nulla dell’imminente colloquio. Tendono anzi a derubricarlo al rango di «normale dialettica tra istituzioni», anche se di normale oggi c’è poco sulla scena politica: con un governo nato da appena due mesi e che, dopo la sortita di Berlusconi, teme di vedere compromesso il patto su cui ha fondato la propria missione principale, le riforme. Tre i dossier sensibili, sui quali presumibilmente si concentreranno il presidente della Repubblica e il premier. Anzitutto le prospettive di una manovra economica che dall’altra sera ha preso il via con il decreto sull’Irpef, ma che dovrebbe essere presto corroborata da altri provvedimenti, in modo che si evitino falle e si agganci sul serio la ripresa. Come sarà meglio presentarla a un’Unione Europea che, nonostante qualche provvisoria apertura di credito, continua a tenerci sotto occhiuta osservazione? C’è poi la questione della riforma del Senato, che si sta complicando. L’esecutivo vorrebbe accelerare i tempi, ma il leader di Forza Italia l’ha seccamente definita «invotabile» e da smontare, ciò che di fatto lo associa al gruppo di dissidenti di Pd e 5 Stelle, tutti in disaccordo anche sul progetto per un nuovo sistema di voto che sostituisca l’anticostituzionale Porcellum. E c’è, infine, il tema più complessivo della tenuta di una maggioranza che a giorni alterni entra in fibrillazione. Tensioni acuite dalla campagna elettorale, certo. Dunque, per molti aspetti scontate. Giorgio Napolitano, nella sua lunga esperienza politica e dentro le istituzioni, ne ha viste tante. Pragmatico per metodo e freddo per carattere, probabilmente suggerirà di evitare azzardi e prove di forza estreme. Nella sua logica, insomma, meglio fissare i punti davvero irrinunciabili delle riforme che si intendono portare avanti, costruirci intorno l’indispensabile consenso, e negoziare sul resto.

Il Sole 26.4.14
Mediazione cercasi
di Stefano Folli


È il momento di mediare sulle riforme. Nulla è davvero compromesso, visto che in effetti siamo proprio in campagna elettorale: e questo vale per Berlusconi come per Renzi. Tuttavia i vecchi patti sembrano finiti in briciole e per riannodare i fili occorrerà un lavoro non facile.
Una tessitura che forse comincia ora con il colloquio atteso fra Giorgio Napolitano e il premier Renzi.
Il risultato di questa fase piuttosto confusa consiste nel restituire al Quirinale quel ruolo di baricentro istituzionale che è stata la caratteristica degli ultimi anni e che sembrava appannato dopo il pieno insediamento a Palazzo Chigi di un governo politico come quello di Renzi. Viceversa, sono bastati appena due mesi per capire che la fisionomia di un sistema non muta dall'oggi al domani. E nel nostro ordinamento il presidente della Repubblica non svolge – tanto meno nella stagione attuale – una funzione protocollare. Agisce come punto di equilibrio generale, almeno fin quando il rinnovamento istituzionale sarà completato. A maggior ragione se il presidente del Consiglio, nonostante l'indubbio talento, è costretto dalle circostanze a pagare un certo scotto all'inesperienza. Ne consegue che sui temi caldi, in particolare sulla trasformazione del Senato e sulla connessa riforma della legge elettorale, Renzi i suoi collaboratori hanno tutto l'interesse ad affidarsi al consiglio del capo dello Stato. Il quale, da parte sua, è sempre stato il più strenuo sostenitore delle riforme, offrendo negli ultimi tempi una solida sponda al dinamismo renziano.
In altri termini, il pericolo oggi non è tanto che le riforme siano lentamente svuotate, quanto che, in assenza di una corretta mediazione, l'intero pacchetto vada incontro al fallimento. Sarebbe un esito drammatico e non rimediabile per l'intera strategia politica del presidente del Consiglio. Per cui la priorità nelle prossime settimane è abbastanza evidente: correggere le ambiguità e i punti meno convincenti del progetto originario riguardante Palazzo Madama e tener conto delle resistenze che si sono manifestate nelle ultime settimane soprattutto all'interno del Partito Democratico.
In fondo la mossa di Berlusconi, il cui risvolto elettorale è talmente ovvio da non dover essere sottolineato, si è innestata sul malessere che cova nel partito del presidente del Consiglio. Il capo di Forza Italia ha oggi motivo di rilanciare gli argomenti della minoranza del Pd, ma in questo c'è molta tattica. Il che porta a una doppia conclusione. Primo, la mediazione dovrà avere come interlocutori soprattutto i gruppi parlamentari del Pd, a cominciare da quello del Senato. Secondo, lo stesso Renzi dovrà capire che, in assenza di numeri certi, è inutile correre sempre avanti a testa bassa. Né serve a molto affermare, come ha fatto la ministra Boschi rivolta al centrodestra, che «i patti ci sono e devono essere rispettati». Come è noto, e Renzi è il primo a saperlo, in politica i patti sono quasi sempre smentiti, se la convenienza lo suggerisce.
Quindi allo stato delle cose la mediazione è più che logica. Anche se in mezzo ci sono le elezioni europee ed è in quella sede che si misureranno i rapporti di forza. In fondo il presidente del Consiglio ha puntato le sue carte sul voto di maggio, il cui peso politico sarà rilevante. Un eventuale successo gli darà la spinta per rinegoziare i patti, quelli di maggioranza e quelli con l'interlocutore berlusconiano. Di certo invece le elezioni anticipate restano fuori dai radar. Almeno fino al 2015, quando si presume che l'Italia avrà una nuova legge elettorale. Prima c'è il semestre di presidenza dell'Unione, un passaggio chiave per la nostra credibilità.

con l’aiuto dei «convertiti» Bondi, Bonaiuti, Galan...
Corriere 26.4.14
Al Pd quasi un consenso su due da chi votava altro
di Nando Pagnoncelli


Chi aveva scelto il centrodestra nel 2013 per il 59% preferisce Forza Italia mentre l’8% va al partito di Alfano Le elezioni dello scorso anno sono risultate un vero e proprio terremoto politico. Secondo il Cise del professor D’Alimonte si è registrato il più elevato tasso di volatilità di sempre, ossia la percentuale di elettori che hanno modificato il proprio comportamento di voto rispetto alla tornata elettorale precedente. Ebbene, nel 2013 quasi due elettori su cinque (39,1%) hanno cambiato la scelta del 2008, tradendo il partito votato allora. È un dato che risulta ancor più eclatante se si considera il confronto internazionale: infatti analizzando le 279 elezioni legislative che si sono tenute in 16 paesi europei dal 1945 al 2013, il dato italiano dello scorso anno si colloca al terzo posto. L’emorragia di voti dei principali partiti è stata davvero impressionante: il Pdl, che aveva trionfato nel 2008, ha perso 6,3 milioni di elettori; il Pd ne ha persi 3,5 milioni, la Lega Nord ha più che dimezzato il proprio elettorato perdendo 1,6 milioni di voti, e così via.
Il calo di voti dei principali partiti ha determinato anche una sorta di sconvolgimento nel profilo degli elettorati, facendo perder loro i tradizionali riferimenti sociali e mettendoli in forte difficoltà nell’individuare domande e aspettative e nell’elaborare nuove proposte. Il Movimento 5 stelle, al debutto nazionale, si è affermato come primo partito ottenendo circa 8,7 milioni di voti. L’analisi dei flussi elettorali, che consente di stimare gli spostamenti di voto da un partito ad un altro, ha messo in evidenza la straordinaria trasversalità del movimento di Grillo che lo scorso anno è stato capace di intercettare quasi in egual misura gli elettori delusi dai partiti di centrosinistra e di centrodestra e di richiamare al voto elettori che nel 2008 non avevano votato. A poco più di un anno da quel terremoto è interessante verificare le dinamiche elettorali attuali, per capire se siamo in presenza di un perdurante «sciame sismico» oppure se le «scosse di assestamento» abbiano lasciato spazio a un nuovo equilibrio. Dall’analisi, effettuata su più campioni per aumentare l’affidabilità delle stime, emerge un livello di fedeltà ai partiti decisamente più elevato rispetto a quanto registrato lo scorso anno. In particolare circa due terzi degli elettori del Pd e della Lega Nord appaiono propensi a confermare il proprio voto e il 59% degli elettori del M5S risulta fedele alla scelta del 2013. Tra coloro che avevano votato il Pdl il 59% intenderebbe votare Forza Italia, l’8% Ncd e il 7% Pd. Quest’ultimo è un dato davvero inedito, tenuto conto della tradizionale impermeabilità tra il partito di Berlusconi e il principale partito antagonista. D’altra parte si è più volte sottolineato il grande appeal di Matteo Renzi presso l’elettorato di centrodestra e quello centrista. Gli indecisi e gli astensionisti sono più numerosi tra le fila della sinistra (Sel e Rc 39%), di Fratelli d’Italia (27%), di Udc e Fli (26%) e del Pd (26%), a conferma del fatto che il nuovo corso renziano attrae sì nuovi elettori ma determina anche delusione in una parte di elettorato più tradizionale del Pd che al momento preferirebbe astenersi anziché scegliere altri partiti. I flussi di provenienza del voto di ciascun partito evidenziano infatti che tra quanti oggi voterebbero il Pd solo la metà (54%) aveva votato per lo stesso partito lo scorso anno: più bassa è questa percentuale e più elevata risulta la capacità di attrazione di nuovi elettori che, nel caso del Pd, si stima provengano soprattutto da M5S (13%), da Scelta civica (12%), dal Pdl (5%) ma anche da chi si era astenuto lo scorso anno (8%). Il movimento di Grillo ha una fortissima componente di elettori del 2013 (80%) e attrae in misura uguale elettori Pd e Pdl (4%). Fi ha un elettorato concentrato tra gli ex elettori del Pdl (77%) e fatica ad attrarne di nuovi. La Lega dopo il severo risultato dello scorso anno appare in crescita, attirando voti dal Pdl (15%) da Scelta civica (12%) e dal M5S. Da ultimo, Ncd e Fdi, due partiti molto trasversali: il partito di Alfano al momento avrebbe un elettorato proveniente per quasi la metà dal bacino originario (31% da elettori Pdl e 15% da elettori Udc e Fli), per il 20% da Scelta civica, per l’8% dal M5S, per il 6% da Fdi e per l’8% da chi nel 2013 si era astenuto. Tra gli elettori del partito di Giorgia Meloni solo un quarto proviene da elettori che avevano votato per Fdi nel 2013 mentre il 23% proviene da elettori Pdl, il 15% dal M5S, il 7% dalla Lega e ben 11% da astensionisti. E analizzando le intenzioni di voto rilevate dopo le festività pasquali l’unica novità di rilievo è costituita dalla lieve crescita del consenso per Fdi che al momento si collocherebbe al di sopra della soglia del 4%. Gli altri partiti presentano scostamenti minimi rispetto alla scorsa settimana: d’altra parte, è difficile immaginare spostamenti di voto di centinaia di migliaia di elettori in poco tempo. E, ancora una volta, è opportuno ricordare che non si tratta della previsione dell’esito finale delle europee ma di stime: va tenuto in debito conto l’elevata incertezza che ancora permane, l’incognita dell’astensione e il fatto che le campagne elettorali servono a «smentire» le stime dei sondaggi, dato che ogni partito investe tempo, energie e denaro per mobilitare elettori e aumentare il proprio consenso, contraddicendo quanto i sondaggi fotografano nel corso della competizione.

Repubblica 26.4.14
Se le urne restano l’ultima speranza
di Franco Cordero



Così dinamico, sicuro, attore d'istinto, pronto alla battuta (gl'italiani consumano melodrammi, commedie, farse), sarebbe irresistibile nel milieu d'Arcore, erede naturale, perché Angelino Alfano e concorrenti distano anni luce: Re Lanterna l'aveva invitato a Villa San Martino; gli decretava lodi «Chi», organo della Versailles berlusconiana, ma viene da ceppo religioso (tra gli ascendenti nominerei La Pira, con qualche cromosoma savonaroliano, senza mania profetica); l'innesto quindi risulta biologicamente impossibile. Definirlo «B. ringiovanito» è insulto gratuito: sotto maschera ilare (ai bei tempi, ormai è cupa) il senior impersona una nomofobia narcisistica: pirata fraudolento, corruttore, plagiario, senza le quali risorse, sarebbe ignoto; la dynamis dello junior sottintende scelte morali. L'Olonese lo teme. Nei preliminari al governo Letta aveva opposto un veto sul nome M.R.
A Palazzo Chigi emergono subito le anomalie. I piani quirinaleschi intricano l'uomo nuovo nelle riforme costituzionali (esisteva un ministero ad hoc, sotto Letta jr. gestito da mano berlusconiana): ha bisogno dei voti e siccome le Cinque Stelle li negano, deve prenderli dove ve ne siano, pattuendoli con Sua Maestà d'Arcore; non siamo al meglio del decoro ma vi era costretto. L'estromesso da Palazzo Madama riappare partner insostituibile d'una manovra che ridisegna lo Stato. Va al Nazareno, discutono, trovano l'accordo, quasi fosse una lite transatta da operatori d'affari. L'esordiente commette una gaffe dichiarandosi in «profonda sintonia» col pirata.
Erompeva dal Quirinale l'onda delle «riforme», come se parlamento monocamera o un «capo del governo» più libero d'agire fossero farmaco miracoloso. Nossignori. Inedia produttiva, impoverimento, inquietudine sociale (così è malata l'Italia 2014) hanno cause economiche strutturali. Sabato 12 novembre 2011 B. cade perché saremmo in bancarotta restando in quelle mani. Dopo cure eroiche, iniquamente distribuite sui deboli, l'enorme deficit cresce ancora: corruttori, corrotti, evasori fiscali, parassiti vari succhiano miliardi; fermata l'emorragia, staremmo bene ma l'impresa richiede procedure serie, apparati sicuri, congrue norme penali (ad esempio, sul falso in bilancio: se l'era subi- to abolito, mossa strategica). Impossibile, finché nel governo sieda la lobby del malaffare in colletto bianco: vedi il taglio alle pene nella norma sul mercato mafioso dei voti; lo Stato e una evoluta criminalità coesistono tranquillamente; in accuse sub iudice stipulano dei patti. Infine, riscrivere la Carta non è affare giudiziosamente confidabile a Camere elette con una legge invalida. Cosa uscirà dall'alambicco, lo sanno le Parche: può darsi che tutto svanisca come la Bicamerale (al qual proposito, D'Alema pare in predicato quale commissario Ue, e sarebbe vecchia Realpolitik); la riforma elettorale concertata têteàtête declina a un futuro indeterminato, sebbene l'iter dovesse cominciare lì. Patti solenni ammettono ripensamenti, colpi di mano, happening. Nemmeno Renzi fa miracoli, quindi incombe la prospettiva d'un torpido sur place, mentre le Camere disquisiscono de re publica condenda in chiave bizantina. Ora, a chi giova una XVII legislatura che duri ancora quattro anni? I conti sono presto fatti. Vi profitta l'Olonese in due figure: populista facinoroso e autorevole costituente; ogni tanto ripropone una «pacificazione » agitando spettri d'inferno se non fosse esaudito. S'illude chi lo dà spento: l'immaginario collettivo, drogato dal medium, gli forniva 13 milioni 700 mila voti; e dopo la débâcle, in rimonta spettacolare ne recupera 7 milioni 300 mila. Gli ex caudatari, ora Ncd, non s'erano mai sognati così visibili, sicché qualcosa raccattano. La delusione nelle file Pd porta acqua al mulino siderale, monopolista del dissenso dalle sciagurate «larghe intese». Quanto più durano, tanto meno agevole sarà il sèguito. Le urne possono rompere equilibri nefasti ma la chiave sta nel Quirinale, chiuso all'idea d'un autentico rivolgimento.

il Fatto 26.4.14
Ecco perché il colle punta su Padoan come garante
Economista cresciuto in zona Pci, consigliere a Palazzo Chigi di D’Alema e Amato, grande carriera internazionale. È tutto quel che Renzi non è
di Marco Palombi


Oggi è il giorno dell’incontro riparatore: Matteo Renzi ascenderà al Colle più alto di Roma per chiacchierare con Giorgio Napolitano dopo che giovedì il capo dello Stato lo aveva snobbato convocando il suo ministro Pier Carlo Padoan e non lui per avere “ulteriori chiarimenti” sul decreto Irpef. Il premier, come vi abbiamo raccontato ieri, non l’aveva presa bene (“una cosa mai vista”) e così oggi potrà riassumere formalmente il suo ruolo (“attendo la convocazione”, ha detto ieri, deferente, al capo dello Stato durante la cerimonia per il 25 aprile al Vittoriano).
IN REALTÀ, Napolitano ha anche due cosette da dire al giovane capo del governo: non gli sono piaciute le uscite dei renziani – tipo quella di Roberto Giachetti – che invocavano il voto visto la mezza retromarcia di Silvio Berlusconi sulle riforme. La stabilità, il nuovo bicameralismo e l’Italicum – per il Quirinale – valgono più di ogni altra cosa.
L’incontro, insomma, non cambierà la scenografia in cui il presidente della Repubblica ha inserito la vita politica italiana giovedì: il garante della tenuta dei conti pubblici è Padoan, quello della riuscita delle riforme lui (la chiamata a rapporto della recalcitrante Anna Finocchiaro lo ha sancito sempre giovedì). Ma perché Napolitano si fida così tanto del ministro dell’Economia tanto da farne il garante di un pezzo così rilevante degli obiettivi del suo fine regno? Il motivo sta nella biografia di Pier Carlo Padoan (Pcp): se Mario Monti era “il più tedesco degli economisti italiani”, l’attuale ministro è il più politico dei tecnici. Non solo: è un politico che viene da un mondo particolarmente consonante con quello del capo dello Stato. Pcp, infatti, all’ingrosso viene dal Pci ed è arrivato a Bruxelles. Come Napolitano.
Classe 1950, laurea alla Sapienza, vicino in gioventù al circolo di Franco Rodano – nume tutelare dei cattocomunisti d’antan – il suo nome comincia a farsi conoscere nel mondo della sinistra italiana nel 1975, quando pubblica su Critica marxista una relazione intitolata nientemeno che Il fallimento del pensiero keynesiano, che bordeggia con una certa insistenza certe critiche al riformismo socialdemocratico care agli amendoliani del Pci, il più famoso tra i quali è proprio Giorgio Napolitano.
Padoan cercava una sua terza via – ieri, per confermarlo, ha citato sul Foglio un articolo del 1980 sulla rivista del Mulino in realtà somigliava molto a un superamento da sinistra del capitalismo. Non che si tratti di scetticismo sull’autobiografia del nostro: le radici di certe conversioni sono sempre profonde e difficilmente accertabili dall’esterno.
L’ACCADEMIA, levatrice e culla del nostro, viene abbandonata nel 1998, quando Padoan se ne va a Palazzo Chigi a fare il consulente di Massimo D’Alema per l’economia internazionale in un trittico di economisti che comprende il suo amico Claudio De Vincenti (oggi viceministro allo Sviluppo) e Nicola Rossi. Insieme a Marcello Messori – oggi alla Luiss – formano il gruppo che ai tempi veniva chiamato con un certo disprezzo – e a torto, per la verità – dei “blairiani alle vongole”. Va detto che dopo Palazzo Chigi – dove rimase fino al 2001, quando premier era Giuliano Amato – la carriera di Pier Carlo Padoan esplose: dal 2001 al 2005 è stato direttore esecutivo per l’Italia del Fondo monetario internazionale (l’ex viceministro Stefano Fassina fu suo assistente), incarico che lasciò per diventare direttore della fondazione ItalianiEuropei, fondata da D’Alema e che vedeva Amato alla guida del comitato scientifico.
L’ARIA DI FAMIGLIA, insomma, l’inquilino del Colle la sente lontano alcune miglia, ma non è solo quello che ha fatto di Padoan il suo garante: ancor più rilevante è la confidenza che il nostro vanta coi circoli economici internazionali. Il ministro dell’Economia, infatti, oltre che al Fmi ha fatto il consulente per la Banca mondiale e la Commissione europea, ha insegnato al “College of Europe” di Bruges, che è la principale sede produttiva della suprema burocratja bruxellese e – soprattutto – lavorato all’Ocse dal 2009 all’inizio di quest’anno: vicedirettore e capo economista.
In questa veste il nostro è rimasto anti-keynesiano come nel 1975, ma non pare cercare più alcuna terza via, andandogli bene la prima. Ad esempio Paul Krugman – premio Nobel per l’Economia, keynesiano – ha duramente attaccato i report prodotti sotto la guida di Padoan per ben due volte nell’ultimo anno nel suo blog sul sito del New York Times, classificando l’Ocse tra i più pervicaci sostenitori dell’austerità (e il Def recentemente pubblicato dal ministro o le sue interviste decisamente non danno torto al polemista statunitense).
In definitiva, Pier Carlo Padoan è il garante di Napolitano perché è in perfetta continuità – tolta la vernice della personalità e le mutate condizioni nel dibattito europeo – con i gabinetti Monti e Letta, entrambi voluti, creati, tenuti in vita e infine giubilati dall’attuale presidente della Repubblica in nome della stabilità e del rispetto dei vincoli di bilancio europei. In questo senso, e solo in questo caso, venire da sinistra dà persino una certa precedenza.

Le bugie di Renzi
Il Sole 27.4.14
L'effetto sulle famiglie. Il ministero dell'Economia stima l'impatto dell'aumento dal 20 al 26% della tassazione sui prodotti finanziari
Rendite, da 10 a 636 euro di prelievo procapite
L’aumento del prelievo su conti correnti (...) alla fine peserà per non più di 200 milioni su circa il 45% delle famiglie con redditi bassi e comprese nei primi cinque decili di reddito
di Marco Mobili e Giovanni Parente


ROMADa 10 a 636 euro pro capite. È quanto peserà dal prossimo 1° luglio l'aumento dal 20 al 26% della tassazione sulle rendite finanziarie. A spiegare gli effetti distributivi sui 24 milioni di famiglie italiane direttamente coinvolte dalla stretta su tutti gli strumenti finanziari è lo stesso ministero dell'Economia. Nella tabella riprodotta a lato emerge comunque che dei 2,6 miliardi di maggior gettito atteso nel 2015 – tutto destinato a coprire il taglio delle aliquote Irap – oltre un miliardo e mezzo sarà versato dai contribuenti con redditi più elevati. Che nella classificazione statistica dell'Economia si trovano nel decimo decile di reddito familiare disponibile equivalente.
Dalla stessa elaborazione dell'Economia emerge che l'aumento del prelievo su conti correnti, depositi, titoli, obbligazioni e altri strumenti finanziari alla fine peserà per non più di 200 milioni su circa il 45% delle famiglie con redditi bassi e comprese nei primi cinque decili di reddito. A metà classifica, infatti, il carico pro capite del nuovo prelievo che scatterà dal prossimo 1° luglio si ferma, secondo l'Economia, a 32 euro.
Dall'elaborazione degli effetti distributivi sulle famiglie emerge anche che soltanto negli ultimi tre decili (dal settimo al decimo) il costo peserà sulle famiglie per più di 100 euro a testa, con un divario enorme tra il IX e il X decile dove dai 138,3 euro per famiglia si passa direttamente a un prelievo massimo di 635,9 euro.
La metodologia utilizzata per determinare gli effetti finanziari dell'aumento della tassazione sulle rendite così come del peso che questo avrà sulle famiglie italiane è la stessa che i tecnici dell'Economia avevano utilizzato nello stimare gli effetti della riforma delle rendite finanziarie targata Tremonti del 2011. E che dal 1° gennaio 2012 ha previsto l'aumento dal 12,5 al 20% dell'aliquota su titoli e obbligazioni diversi da quelli pubblici (i titoli di Stato avevano e continuano a mantenere l'imposta del 12,5%), nonché la riduzione dal 27 al 20% della tassazione sugli interessi di conti correnti e depositi.
Occorre comunque ricordare che oggi come allora (e i dati non hanno tradito le previsioni del Fisco) la simulazione degli effetti prodotti dal nuovo aumento sulle rendite non tiene conto di possibili variazioni di comportamento degli investitori così come sono stati lasciati immutati i possibili rendimenti. Situazioni che, però, non si possono ritenere scontate in considerazione dell'estrema facilità e velocità di circolazione dei capitali nei mercati finanziari.
In pratica, un vero e proprio atto di fiducia dell'Economia nei confronti dei contribuenti. Infatti nonostante aumenti il divario tra strumenti finanziari privati (tassati al 26%) e i titoli di Stato e i buoni fruttiferi postali (l'aliquota resta al 12,5%) secondo l'amministrazione non si dovrebbe assistere a un effetto di sostituzione tra titoli di debito, partecipativi o di rischio emessi da società finanziarie o non e i titoli pubblici. E questo alla luce del rendimento di gran lunga inferiore dei titoli pubblici.
L'obiettivo del Governo è comunque confermato dalla relazione tecnica bollinata dalla Ragioneria e che ora da martedì prossimo accompagnerà il decreto Irpef (da giovedì 24 aprile in vigore con il n. 66) all'esame del Senato per la conversione in legge. Per il 2014 l'aumento delle rendite dovrà garantire 732 milioni di euro necessari per coprire il taglio degli acconti Irap a fine novembre. Per il 2015 l'asticella del maggior gettito salirà a oltre 2,6 miliardi di euro e contribuiranno anche i 755 milioni di euro che arriveranno dall'aumento della tassazione su conti correnti e depositi.
Va ricordato che l'aumento delle rendite finanziarie in vigore da luglio è un intervento aggiuntivo agli aumenti nella tassazione del risparmio varati negli ultimi anni, alcuni dei quali sono scattati anche a partire dal 2014. È il caso, per esempio, dell'aumento del bollo dallo 0,15% allo 0,2 per cento. Una misura a cui la relazione alla legge di stabilità aveva attribuito un aumento degli incassi per l'Erario di circa mezzo miliardo di euro. Né va dimenticata la Tobin tax (allo 0,20% per le transazioni sui mercati non regolamentati e allo 0,10% per gli scambi di Borsa), anche se il bilancio del primo anno di applicazione si è chiuso a 260 milioni di euro (risultato al di sotto della cifra attesa). Se si considerano anche queste componenti di tassazione, in alcuni casi l'aumento dell'imposizione sulle rendite può spingere il prelievo complessivo fin quasi alla soglia del 40% (si veda il Sole 24 Ore del 22 aprile scorso).
Prendiamo l'esempio di un piccolo risparmiatore che abbia investito 3mila euro in azioni italiane quotate (non qualificate). Ipotizzando un rendimento lordo del 3% (90 euro), il peso complessivo di tutte le componenti di prelievo arriverà al 36%: in pratica se ne andranno in imposte 32,4 euro e il rendimento netto si fermerà a 57,6 euro.

l’Unita 26.04.14
Sul nazifascismo mai abbassare la guardia
di Moni Ovadia


QUESTO 25 APRILE,COMEOGNI 25 APRILE, NOI RICORDIAMO LA RESISTENZA ANTIFASCISTA, la riconquista della libertà e l’attraversamento di quello spartiacque etico-sociale che avrebbe traghettato le nostre società dalla barbarie dell’odio, della guerra e del razzismo alla civiltà della pace e della democrazia. La solenne promessa che l’umanità, uscita dall’immane catastrofe, fece a se stessa impegnandosi con il futuro, fu: «Mai più!». Le Carte costituzionali e le Carte universali sorte dalla lotta antifascista sancirono un patto sacrale che istituì i fondamenti per una nuova umanità redenta da discriminazioni, violenze, sopraffazioni dell’uomo contro i suoi simili, da classismo e sfruttamento. Ma più di ogni altro principio il patto sacrale e la solenne promessa affermarono la messa al bando di ogni forma di fascismo dal nuovo orizzonte aperto con il tributo di sofferenze e del sangue di milioni e milioni di donne e uomini. Cosa è rimasto di quel giuramento fatto di fronte alle macerie ancora fumanti dell’Europa martoriata? Poco. E quel poco è immerso in un profluvio di falsa coscienza e di retorica, intossicato da un revisionismo anti-partigiano sconcio e strumentale.
I grandi valori dell’antifascismo sono stati progressivamente svuotati. Le ragioni della cosiddetta realpolitik hanno permesso agli ex fascisti di rientrare a pieno titolo negli organi più strategici degli apparati di molti Stati fra cui, in modo vergognoso, l’Italia. Nei Paesi centro-orientali della Ue, la fine del socialismo reale, spesso, è stato interpretata come segnale per la riabilitazione delle forze di ispirazione collaborazionista e neonazista. Gravissimo il caso dell’Ungheria. La crisi ucraina per molti aspetti narra la stessa fabula. Avvitata sul delirio economicista e finanziario la dirigenza europea incassa con nonchalance il trionfo del Front National, il cui nazionalismo fascistoide è appena camuffato da un abile maquillage di Marine Le Pen. Proprio in Francia, il Paese simbolicamente più importante perla cultura dei diritti e dell’uguaglianza. Per uscire da questo declino, oggi, in prossimità delle elezioni europee, si apre una preziosa opportunità. L’Ue deve diventare un’unione politica e dotarsi di una Costituzione votata dai cittadini. Detta Costituzione deve dichiarare nei primi articoli il proprio carattere risolutamente antifascista e deve essere premessa di una legislazione che non consenta alle forze di ispirazione nazifascista di essere rappresentate in Parlamento, in quanto incompatibili con le culture democratiche. Se qualcuno avesse qualche perplessità su una simile proposta, faccia uno sforzo di immaginazione per domandare a se stesso in quale Europa vivremmo se avessero vinto «loro».

l’Unita 26.04.14
La debolezza di Berlusconi
di Claudio Sardo


SILVIO BERLUSCONI È STATO PER VENT’ANNI IL PRINCIPALE OSTACOLO ALLE RIFORME. NON HA sbagliato Matteo Renzi a cercare di nuovo il dialogo, ma commetterebbe un grave errore se fondasse i suoi progetti su un asse privilegiato con l’uomo che ha fin qui sempre fatto saltare il tavolo. In realtà, se oggi una nuova legge elettorale e la modifica della seconda parte della Costituzione appaiono obiettivi possibili, ciò non dipende dagli impegni assunti dal leader di Forza Italia, bensì dalla sua debolezza politica.
Le riforme si possono finalmente fare proprio perché Berlusconi non è mai stato così debole: se riacquistasse forza, il fallimento sarebbe praticamente certo.
Non sappiamo quanta propaganda elettorale ci fosse, l’altra sera, nei siluri lanciati dal Cavaliere contro la riforma del Senato e contro quella legge elettorale, che è così brutta proprio per le condizioni da lui poste a Renzi. Bisognerà attendere i risultati del 25 maggio per capire. Anche perché la dinamica tripolare potrebbe riservare sorprese sgradite a Berlusconi e così mutare radicalmente le sue convenienze. Il destino dell’Italicum, in questa prospettiva, appare persino più incerto delle altre riforme: ma è bene rimettere le mani su quella legge, che oggi somiglia in modo insopportabile al Porcellum.
Berlusconi ha sempre contrastato una riforma organica del sistema. E lo ha fatto per ragioni che vanno al di là delle sue vicende giudiziarie e del primato assunto dalle leggi ad personam nelle politiche dei suoi governi. Il Cavaliere è riuscito a costruire la propria leadership e a comporre un nuovo blocco sociale - assai diverso da quello su cui poggiava l’egemonia democristiana - facendo leva proprio su un sistema declinante e sempre più disarticolato. La narrazione della destra berlusconiana aveva bisogno assoluto di rabbia anti-statuale e disprezzo per la politica: del resto, il mito populista non disdegnava mai di marcare l’alterità rispetto alle «regole».
La Bicamerale di D’Alema non è saltata solo perché Berlusconi era insoddisfatto del capitolo sulla giustizia. L’ha fatta saltare perché non voleva una riforma condivisa, che avrebbe posto un vincolo alla sua politica e gli avrebbe impedito di lucrare sulla delegittimazione reciproca, che lui per primo alimentava. Non è un caso che gli eccessi di anti-berlusconismo a sinistra hanno sempre giocato a suo favore. E quando il Cavaliere ha tentato di fare la «sua» riforma costituzionale, l’ha blindata all’interno della maggioranza di centrodestra. Voleva una Costituzione ridotta quasi a legge ordinaria, disponibile all’uso dei governi pro-tempore. Alla fine, anche il negoziato con gli alleati risultò più complicato del previsto. Venne fuori un testo sgangherato, che neppure i giuristi di destra osavano commentare positivamente. Per fortuna, il popolo sovrano lo cancellò. Ma Berlusconi riuscì a concentrare il veleno nella coda della legislatura 2001-2006, dando vita al Porcellum.
Buone riforme erano necessarie già negli anni ’90. Oggi lo sono cento volte di più. E il metodo della ricerca di ampie convergenze non è derogabile: i mezzi, in questi casi, valgono come i fini. Si dovrebbe aprire il tavolo non solo a Berlusconi, ma anche a Grillo, solo che derogasse alla linea integralmente sfascista. La politica però non è solo metodo. È arte del possibile. E oggi a creare opportunità positive per il premier Renzi sono anzitutto le realtà scaturite dalle rotture con Berlusconi e con Grillo. Da un lato c’è il Nuovo centrodestra, che consente al governo a guida Pd di gestire un Parlamento senza una maggioranza omogenea. Dall’altro lato uno spiraglio si è aperto con il gruppo di ex-grillini che si sono ribellati alla linea del «tanto peggio tanto meglio» e che potrebbero trovare in Sel dei compagni di strada. È vero che il nostro sistema è ormai stabilmente tripolare. Ma i tre partiti maggiori non comprendono tutto. E questi nuovi interlocutori sono, quantomeno per necessità, vitalmente interessati a definire un nuovo sistema che contemperi le esigenze di governo con gli equilibri costituzionali. Sarebbe un suicidio consegnarsi a un patto Pd-Forza Italia. Molto meglio partire dalla maggioranza di governo, senza regalare a Berlusconi poteri di veto che userebbe anzitutto per ridurre l’autonomia del partito di Alfano. Molto meglio tenere in conto le critiche che vengono da sinistra e usarle per trovare maggiore equilibrio sui nodi costituzionali più controversi. Ovviamente, cambiando così la prospettiva, diventerà molto più facile per Renzi ricomporre le divisioni nel Pd. Se il governo sviluppasse coerentemente il disegno di un Senato delle Autonomie, con una netta prevalenza della rappresentanza delle Regioni e con competenze chiare, il testo «alternativo» di Chiti finirebbe di essere un problema. La cosa più ridicola è concentrare la discussione sull’elettività dei senatori o sul loro stipendio: bisognerebbe ripartire dalla forma di governo, chiarire quali contrappesi costruire a fronte di una legge elettorale iper-maggioritaria, e ammettere che, con elezioni di secondo grado per i senatori, almeno i deputati devono essere scelti dai cittadini e non nominati dai capi di partito. Berlusconi porrà il veto? Per vanificarlo bisognerà arrivare al momento cruciale con una maggioranza potenziale, in cui Forza Italia non sia determinante. Non è affatto impossibile. I numeri ci sono. E saranno persino più agevoli con una rinnovata unità nel Pd e con miglioramenti sostanziali ai testi attuali. L’ipotesi di elezioni anticipate appartiene a scenari avventuristici: in ogni caso, a nessuno convengono meno che al Pd e al governo Renzi.

laici veri!!!
l’Unita 26.04.14
Il Papa lo chiama e Pannella sospende lo sciopero della sete


Papa Francesco ha telefonato a Marco Pannella per informarsi delle sue condizioni di salute. Lo storico leader dei radicali infatti, dopo l’intervento chirurgico d’urgenza a cui è stato sottoposto a inizio settimana all’aorta addominale, ancora in ospedale aveva fatto sapere di continuare lo sciopero della sete come segno di protesta per le condizioni delle carceri italiane.
Con lui il pontefice - che pare sia stato chiamato, per primo, da Emma Bonino - ha usato lo stesso “metodo” usato con decine e decine di altre persone: lo ha chiamato, si è presentato ed è così iniziata un’affabile chiacchierata. Che ha ottenuto i suoi risultati. Dopo la telefonata del Papa, Pannella ha infatti accettato due trasfusioni di sangue prescritte dai medici e ha deciso di interrompere, almeno momentaneamente, lo sciopero della sete. La telefonata sarebbe durata più di venti minuti e secondo quanto riferito da Radio Ra dicale, il Pontefice avrebbe detto a Pannella: «Ma sia coraggioso, eh! Anche io l’aiuterò, contro questa ingiustizia... Io ne parlerò di questo problema, ne parlerò dei carcerati». Pannella ha spiegato che in seguito al colloquio con il pontefice ha «accettato per riconoscenza verso di lui di bere una tazza di caffè. Per il resto, continuerò lo sciopero della sete e il Satyagraha, accettando però di sottopormi a due trasfusioni di sangue nei prossimi giorni, secondo la prescrizione dei medici».
Dal Policlinico Gemelli, dove è tuttora ricoverato, Pannella aveva lanciato un appello a Papa Francesco appena l’altro giorno, invitandolo a chiedere «subito» amnistia e indulto, come fece Papa Wojtyla.

il Fatto 26.4.14
Grandi inchieste
“Il Mondo” del sacro catasto
Il giornale diretto da Mario Pannunzio fece l’elenco delle proprietà del Vaticano
E l’Europeo calcolò che un quarto di Roma era della Chiesa
di Daniela Ranieri


Alla fine del 2011 lo spettro dello spread fece tintinnare catene che tacevano da tempo: e se facessimo pagare l’Ici alla Chiesa? Apriti cielo. Vedevamo già il loden di Monti lacerato nella mischia con le scarpette rosse e le sciarpe dorate di Ratzinger. Nella guerra della simpatia, sapevamo con chi stare. Ma non accadde niente. Perché? “Appia Antica. All’altezza della chiesetta del Quo Vadis, dove l’Appia si incontra con l’Ardeatina, c’è un cancello da cui si intravede una larga fetta di terra; si contino 323.323 mq e si avrà il senso dell’ampiezza della tenuta della Santa Sede”. Cominciava così, il 2 aprile 1957, l’ultima puntata dell’inchiesta de Il Mondo sui beni terreni della Chiesa di Roma a firma di Enrico Mantegna .
DI OGNI EDIFICIO, il giornale di Pannunzio forniva indirizzo e valore in lire, sotto titoli come Il catasto sacro e La capitale nera, in un elenco che traduceva la vertigine in sdegno .
Era “la roba” vista nella sua reale natura di fulcro del potere più che di bene sottratto alla collettività, visto che Il Mondo era anticlericale quanto era anticomunista.
Mentre dentro le chiese turbinava la radiosità nuda di putti e madonne, negli istituti, nei conventi e in tutti gli edifici che il Vaticano si era preso o ripreso grazie ai Patti fascisti del ’29 germinava il potere vero, così intrecciato con la politica da conservarsi inalterato fino a noi.
Era il potere che oliava le ruote incessanti di Propaganda Fide, che condivideva suolo e palazzi secondo l’istituto del livello con conti, marchesi, frattaglie di aristocrazia romana in qualità di usufruttuari. Con la svalutazione della lira, il livellario, cioè la Chiesa, diventò di fatto proprietario dei fondi, lasciando il generone in credito perenne di favori e appoggi. Possiamo recarci oggi in quei luoghi e leggere sui citofoni sante diciture che li spogliano di ogni obbligo fiscale.
Non solo borrominiani palazzi del centro, come quello in piazza di Spagna sede della Congregazione: in una città esplosa in sprawl selvaggio, il Vaticano capì di doversi prendere la periferia, tra schieramenti di laide costruzioni abusive che si specchiavano nelle facciate littorieggianti delle stazioni, o nella pace dei Castelli, lungo la via dei Laghi. Dentro le ville, tra Sante Te-rese in deliquio e inestimabili Giorgioni, mise suore e frati, agostiniani, salesiani, rogazionisti, cappuccini, tutto l’esercito del bene schierato a difesa del mattone nero. Nel ’77, Paolo Ojetti calcolò su L’Europeo che un quarto di Roma era della Chiesa.
Il sistema è filato per oltre 50 anni, grazie alla protezione della Dc prima, e alle amicizie pericolose tra politica di tutti i colori ed eminenze reverendissime poi. Non ci stupimmo neanche troppo quando un’inchiesta di Piazzapulita rivelò che Cosentino comprò casa dal cardinal Sepe, allora a capo di Propaganda Fide.
Con un rogito in una mano e l’acqua santa nell’altra, la Chiesa ha difeso attività inequivocabilmente commerciali – università private, hotel, persino solarium – da manovre, finanziarie, decreti dei vari e fallimentari governi, che piuttosto hanno falciato la Sanità. Giocando sul confine tra “commerciale” e “di culto”, più mistero di fede che distinzione giuridica, centinaia di migliaia di immobili in Italia (il 20% del totale) sono tuttora gioiosamente esenti da Imu, Tasi, Tari e, scommettiamo, qualsiasi altro acronimo futuro.
La tenzone è ferma all’ideuzza di Monti e all’altolà dell’amministrazione Ratzinger. L’uno, il bocconiano, bravo a mettere a posto i conti con sciabolate di sobrietà; l’altro, il Santo Padre, esponente della più alta delle caste fin sulla punta dei capelli, teologo, amante di ori e vezzose fatuità. La Chiesa era lui, distante dal popolo come al tempo dei Borgia.
UN MOVIMENTO di opinione si consolidava, per una volta non sostenuto da giacobini assetati di sangue, ma da burocrati con la faccia di sale. Se lo dice Monti, pensavano pure i più boccaloni, si potrà fare. E invece no. Semplicemente, abbiamo smesso di pensarci. Anzi, ci pare pure un po’ volgare star lì a rivangare la cosa, e ci farebbe specie andare a reclamare tasse sotto le finestre di un Papa umile, pauperista, anticasta, che ha in spregio denaro e privilegi. Certo non lo farà il premier-boy scout, debitore al Papa di avergli agevolato l’onda che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa. Bergoglio ha disintegrato la logica amico-nemico, mettendosi tutto dalla nostra parte. È uno di noi, volto di una Chiesa che, a parte il supermanager Bertone coi suoi mega-attici, sta ridimensionando le sue gerarchie e le sue opache ricchezze a favore dei poveri. Per chi crede in queste cose, Bergoglio per la Chiesa è davvero l’uomo della Provvidenza.

l’Unita 26.04.14
Napolitano frena i tagli degli aerei F35
Il presidente sui risparmi per la Difesa: attenti ai nuovi antimilitarismi
di M. Fr.


Riformare sì, ma senza tagli indiscriminati. Anche nel campo della difesa. Senza mai citare l’oggetto del contendere - i caccia F-35 - il presidente della Repubbica Giorgio Napolitano prende posizione sulla questione tagli alla difesa: «Soddisfare esigenze di rigore e di crescente produttività nella spesa per la Difesa senza indulgere a decisioni sommarie che possono riflettere incomprensioni di fondo e persino anacronistiche diffidenze verso lo strumento militare, vecchie e nuove pulsioni antimilitariste », ha detto il capo dello Stato nel corso dell’incontro al Quirinale con gli esponenti delle associazioni combattentistiche e d’arma nella ricorrenza del 69esimo anniversario della Liberazione. «Dobbiamo procedere - ha indicato Napolitano - nella piena, consapevole valorizzazione delle Forze Armate che continuano a fare onore all’Italia, in un serio impegno di rinnovamento e di riforma, razionalizzando le nostre strutture e i nostri mezzi, come si è iniziato a fare con la legge in corso di attuazione, e sollecitando il massimo avanzamento di processi di integrazione a livello europeo».
Parole subito sottolineate dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, che le valuta come un appoggio all’azione del governo su questo scottante fronte. «Il presidente ha detto una cosa importante: bisogna immaginare una spesa produttiva, non tagliare qualsiasi cosa a prescindere. Il riferimento è a chi fa demagogia dicendo che tutte le spese sono inutili».
Chi invece spinge fortemente per una riduzione delle spese militari è la presidente della Camera Laura Boldrini. Prima parlando da Marzabotto, commemorando le vittime della strage nazista del 29 settembre 1944 e poi inviando un messaggio all’incontro pacifista all’Arena di Verona, promosso dalla rete delle associazioni per la pace e il disarmo. Nel testo Boldrini ha sottolineato chiaramente che la spesa per gli armamenti in questo momento storico non rappresenta una priorità per il Paese. «È chiaro che, in una situazione di risorse collettive scarse o scarsissime - ha scritto Boldrini nella nota inviata alla manifestazione veronese - a tutti è richiesto di indicare le priorità. E dunque anche l’impegno per gli armamenti non può essere considerato affatto irrilevante rispetto agli impegni che la nostra Repubblica pensa di poter mantenere coi suoi cittadini in materia di asili-nido, o di sostegni all’occupazione, o di assistenza agli anziani».
I tagli alla difesa sono tra quelli che hanno maggiormente alimentato il dibattito politico negli ultimi tempi. Un tema che divide al suo interno la maggioranza di governo e lo stesso Pd.
Nei giorni scorsi si è parlato insistentemente della possibilità che il governo riveda almeno in parte il programma di acquisto sugli F35, all’interno della Spending review.
Il programma prevede l’acquisto di 90 velivoli - originariamente erano 131 - nei prossimi anni. Attualmente il governo Renzi ha sospeso ogni nuovo ordine: una scelta che permetterà di risparmiare circa 150 milioni in un solo anno. Ma l’obiettivo del premier è quello di rimodulare tutto il calendario degli acquisti rinviandoli nel tempo in modo da salvare fondi e ottenere esemplari con minori problemi di messa a punto. Non viene esclusa anche l’ipotesi di dimezzare la commessa, limitandola a soli 45 esemplari: la discussione verrà presa sulla base del Libro Bianco sul modello militare per il nostro paese, che il ministro Roberta Pinotti intende redigere prima dell’estate.
QUESTIONE OCCUPAZIONALE
La questione per il governo è molto delicata. Innanzitutto per le conseguenze industriali che potrebbero esserci sullo stabilimento di Cameri e sull’indotto, circa 40 piccole e medie imprese, che lavorano alla costruzione delle ali dell’F35 e all’assemblaggio degli aerei italiani e olandesi. In caso di ridimensionamento del programma da parte del governo, la Lockheed Martin - la società americana produttrice dei caccia - potrebbe decidere di tagliare le commesse per l’Italia.
Al momento a Cameri, dove vengono assemblati gli aerei italiani e olandesi e costruite le ali (circa 800 quelle che dovrebbe produrre l’Alenia Aermacchi) lavorano meno di 2.000 addetti. Nel caso in cui il governo dovesse procedere davvero con un dimezzamento degli ordini, il problema Cameri sarebbe di non facile soluzione. Rischierebbero di restare a casa migliaia di lavoratori.

il Fatto 26.4.14
Onore ai marò Il 25 aprile del generale Napolitano
L’onore di Giorgio per i marò
Il 25 aprile del Presidente: invoca la liberazione di Girone e Latorre “ingiustamente trattenuti” e poi fa l’apologia del militarismo
di Fabrizio d’Esposito


Dice che i due fucilieri accusati di aver ucciso due pescatori indiani sono “ingiustamente detenuti e rendono onore alla Patria” Poi difende gli investimenti in armamenti: “Basta pulsioni antimilitariste”
Il Generalissimo Giorgio. Nel giorno della Liberazione e della Resistenza antifascista. Al Quirinale si celebra il sessantanovesimo anniversario del Venticinque Aprile. Il capo dello Stato ha preparato un discorso che, per quattro quinti, è molto bello, toccante. In sala ci sono i rappresentanti di alcuni comuni devastati dalla ferocia nazifascista nel 1944. Napolitano vuole mettere in evidenza la sofferenza immane dei civili in quel periodo. Ricorda pure un eccidio dimenticato: “Saluto in primo luogo – perché meritano una riparazione per l’aver lasciato, tutti noi, troppo a lungo in ombra quella dolorosissima esperienza – i familiari dei 103 ufficiali del Decimo reggimento ‘Regina’, che nell’isola greca di Kos nell’ottobre del 1943 furono sommariamente processati e barbaramente trucidati per non essersi piegati alle pretese germaniche”. È presente anche un veterano di quel reggimento, che si commuove, come tutti.
LE SORPRESE arrivano alla fine, in coda a un discorso che cita parecchie volte i valori della Resistenza e del movimento partigiano. Re Giorgio si ricorda di essere comandante in capo delle forze armate e s’infila in un’apologia del militarismo senza se e senza ma. L’abbrivio lo conduce a un omaggio contraddittorio, che divide: “Desidero non far mancare una parola per come fanno onore all’Italia i nostri due Marò a lungo ingiustamente trattenuti lontano dalle loro famiglie e dalla loro Patria”. “Trattenuti”, cioè, in India. Il Generale Giorgio procede, incurante di eventuali proteste diplomatiche di quel Paese. E incurante che quei due militari sono diventati il simbolo di una battaglia portata avanti dalla destra postfascista, non antifascista. Non a caso, uno dei due marò, Latorre, su Facebook, manda gli auguri ai fratelli del San Marco perché “oggi si celebrano più ricorrenze”. Per il suo riferimento è come se il discorso di Napolitano andasse oltre quello noto di Violante sulla pacificazione. Qui c’è l’ex comunista che dal militarismo filosovietico del ‘56 (l’invasione di Budapest) passa a quello non patriottico ma nazionalista.
Subito dopo l’omaggio ai marò, il capo dello Stato si fa garante del “rinnovamento dello strumento militare” e avverte: “Potremo così soddisfare esigenze di rigore e di crescente produttività nella spesa per la Difesa, senza indulgere a decisioni sommarie che possono riflettere incomprensioni di fondo e perfino anacronistiche diffidenze verso lo strumento militare, vecchie e nuove pulsioni demagogiche antimilitariste”.
TRA QUEST’ULTIME, tra le “nuove pulsioni demagogiche antimilitariste”, va certamente annoverata Laura Boldrini, presidente della Camera, che nello stesso giorno è andata nella direzione opposta a quella di Napolitano: “È chiaro che, in una situazione di risorse collettive scarse o scarsissime a tutti è richiesto di indicare le priorità. E dunque anche l’impegno per gli armamenti non può essere considerato affatto irrilevante rispetto agli impegni che la nostra Repubblica pensa di poter mantenere con i suoi cittadini in materia di asili-nido, o di sostegni all’occupazione, o di assistenza agli anziani”.
La Boldrini con gli asili-nido, Napolitano con gli F-35. Perché il messaggio in controluce del discorso di Napolitano è chiaro: bisogna mantenere i patti come ha detto Obama quando è venuto a Roma. Un avvertimento diretto soprattutto a quella parte del Pd che vuole rivedere gli accordi in Parlamento nella prima settimana di maggio. Repubblica presidenziale o parlamentare? Ci sono ancora dubbi?

il Fatto 26.4.14
La versione indiana: hanno ammazzato due pescatori
Ajeesh Pink amava il calcio ed era al suo nono giorno in barca. Dora, la moglie di Jelestine Valentine, 45 anni, l’altra vittima, ha detto di aver già perdonato
di Marco Lillo


Cosa c’entra la liberazione dall’occupazione nazifascista con la liberazione dei fucilieri accusati di avere ucciso due pescatori indiani? Eppure il presidente Napolitano è riuscito a unire in un solo discorso due questioni che dovrebbero restare separate per rispetto alla storia e anche per mero calcolo politico: dopo due anni e due mesi di attesa c’è bisogno di una strategia diplomatica silenziosa non di proclami buoni solo per gonfiare il torace. Napolitano ieri prima ha celebrato in ordine sparso: “Il senso della patria; i valori della Resistenza; la scelta combattente, la dichiarazione di guerra alla Germania”. Poi ha salutato “i familiari dei 103 ufficiali del reggimento Regina trucidati nell’isola di Kos per non essersi piegati ai tedeschi”. Infine ha virato sul giusto tributo alle missioni in Kosovo e Libano che “fanno onore all’Italia” ed è a questo punto che, legando idealmente la forza giusta di ieri (della Resistenza) alla forza giusta di oggi (le missioni di pace) ha ricordato i fucilieri. Così poco prima di “Viva la Resistenza, Viva le Forza Armate, Viva la Repubblica” ha scandito: “Desidero non far mancare una parola per come fanno onore all’Italia i nostri due marò a lungo ingiustamente trattenuti lontano dalle loro famiglie e dalla loro patria”.
PREMESSO che va fatto di tutto per riportare i nostri militari in Italia al più presto e che quanto è accaduto nel 2012 deve essere ancora accertato, magari con un arbitrato internazionale, si può ancora dire, senza essere tacciati di anti patriottismo che il richiamo di ieri all’onore dei fucilieri nel discorso della Liberazione è un grave errore storico, politico e diplomatico? Si può dire che Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, anche se devono essere liberati perché erano in missione in acque internazionali, non c’entrano nulla con i 103 ufficiali di Kos?
Prima di dire che i due fucilieri italiani fanno onore all’Italia, Napolitano dovrebbe provare a vedere la storia con gli occhi dell’India e della comunità internazionale. Tutti gli italiani dovrebbero provare a pensare alla reazione che può suscitare in India, un Paese che va alle elezioni a maggio, questo atteggiamento. Chi si informa non su Libero o Il Giornale ma su Bloomberg e Bbc non vede la storia con gli occhi di Latorre e Girone, ma con quelli di Ajeesh Pink, un pescatore di 25 anni del villaggio di Eraiyumanthurai nel sud del Tamil Nadu. Suo padre, dopo un incidente che gli portò via due arti nel 2003, morì. Una brutta malattia portò via anche la mamma nel 2005 e Ajeesh fu costretto a lasciare la scuola a 14 anni per mantenere le due sorelle minori. Viveva con la zia quando cominciò a lavorare nella pesca per portare il pane a casa. Amava il calcio e aveva un fisico da body builder. Secondo il racconto dei suoi compagni di pesca, che va verificato in un processo, il 15 febbraio 2012 era al suo nono giorno sul peschereccio St Anthony. Come il timoniere, Jelestine Valentine, 45 anni, aveva chiuso gli occhi mentre il peschereccio purtroppo andava alla deriva. Scambiato per una minaccia terroristica, secondo gli indiani, il timoniere è stato colpito per primo alla testa. Ayesh invece correva con gli altri sotto la pioggia di colpi quando fu colpito sul petto. Secondo il racconto del suo capitano cominciò a sanguinare a destra poi cadde a terra gridando : “Mamma, mamma”. La sorella più piccola aveva 17 anni e nell’intervista televisiva trasmessa da Bloomberg piangeva guardando una sedia di plastica con sopra la foto del fratello. Certo, le sorelle hanno ricevuto 189 mila dollari di risarcimento dall’Italia per ritirare la causa civile ma preferivano il fratello. La moglie di Jelestine Valentine, 45 anni, si chiama Dora. Oltre ai soldi italiani ha ottenuto un lavoro al dipartimento della pesca del Kerala. È cattolica e ha perdonato. È convinta della colpevolezza dei due marò ma non vuole che siano condannati. Su quello che è accaduto il 15 febbraio del 2012 esistono due versioni. Per il Governo italiano: “Alle ore 12 la petroliera italiana Enrica Lexie veniva avvicinata da un’imbarcazione da pesca, con a bordo cinque persone armate con evidenti intenzioni di attacco. I militari del battaglione San Marco in accordo con le regole d'ingaggio in vigore, mettevano in atto graduali misure di dissuasione con segnali luminosi fino a sparare in acqua tre serie di colpi d’avvertimento, a seguito dei quali il natante cambiava rotta”.
SECONDO i pescatori indiani sul St Anthony dormivano tutti dopo una notte di pesca. La barca avanzava senza essere governata in rotta di collisione con la petroliera. Il capitano Freddy Louis, ha raccontato di essere stato svegliato dal suono della sirena e di avere scoperto il timoniere Jelestine già morto. Poi un ‘fuoco continuo a distanza di circa 200 metri’ avrebbe ucciso anche Ajesh. Il rapporto – pubblicato da Repubblica – del capo del terzo reparto della marina italiana, inviato in India dopo l’incidente, non è molto favorevole ai marò. Secondo l’ammiraglio Alessandro Piroli, le perizie balistiche eseguite dagli indiani davanti ai nostri Carabinieri, asseverano che “le munizioni sono del calibro Nato 5,56 mm fabbricate in Italia. Il proiettile tracciante estratto dal corpo di Valentine Jelastine è stato esploso dal fucile con matricola assegnata al sottocapo Andronico. Il proiettile estratto dal corpo di Ajiesh Pink è stato esploso dal fucile con matricola assegnata al sottocapo Voglino”. Insomma, in un caso così complesso, prima di parlare di onore dell’Italia bisognerebbe ricordare una frase di Einstein: “Il nazionalismo è una malattia infantile. È il morbillo dell’umanità”. Napolitano a 88 anni ne dovrebbe essere ormai immune.

il Fatto 26.4.14
Il magistrato Raffaele Guariniello
“Sentenza Thyssen, stavolta i manager pagheranno”
di Andrea Giambartolomei


Torino. I responsabili delle morti sul lavoro resteranno impuniti? Per Raffaele Guariniello la risposta è negativa. Secondo il sostituto procuratore della Repubblica di Torino il verdetto della Cassazione dà fiducia e speranza. La decisione della Cassazione può avere degli effetti positivi. Giovedì notte i giudici della Suprema corte hanno stabilito che si deve rifare il secondo grado del processo Thyssen-Krupp, quello contro sei manager e dirigenti ritenuti responsabili della morte di sette operai nel rogo del 6 dicembre 2007. I familiari delle vittime sono rimasti davanti al “Palazzaccio” fino a notte fonda per protestare contro una decisione all’apparenza negativa, che però lascia molti spiragli.
Può dare una sua opinione sulla sentenza?
È un’ottima sentenza perché convalida una serie di nostre impostazioni che potranno essere utilizzate anche in altri processi per le morti sul lavoro. Ancora una volta la Cassazione è stata molto efficace.
Quali impostazioni sono state convalidate?
Ce n’è più di una. La prima riguarda i soggetti responsabili. Nei processi alla Thyssen-Krupp e poi all’Eternit, i miei colleghi e io ci siamo posti un problema: questi infortuni e morti sono un evento episodico o sono il frutto di una scelta? Se la risposta è la seconda, come noi riteniamo, la conseguenza è che non possiamo prendercela con le ultime ruote del carro, ma dobbiamo individuare i responsabili nelle stanze dei consigli di amministrazione dove si decide la politica aziendale sulla sicurezza. La Cassazione su questo è chiara e lo convalida dicendo che sono irrevocabili le responsabilità degli imputati. Sono loro i responsabili e si dovrà solo rideterminare la pena.
Quali altre impostazioni sono state confermate?
Quello sulla responsabilità della società. Noi abbiamo applicato la legge e la Cassazione ha respinto il ricorso della ThyssenKrupp che ne chiedeva l’annullamento. Inoltre c’è una cosa che mi pare sia stata fraintesa. Nel dispositivo si legge che un’aggravante viene annullata senza rinvio della Corte d’assise d’appello. I magistrati hanno deciso così accogliendo il nostro ricorso: i giudici del secondo grado avevano assorbito il reato di disastro nell’omissione dolosa di cautele antinfortunistiche e quindi diventava un solo reato. La Suprema corte dice che sono due reati distinti e questo potrebbe indurci a chiedere una pena ancora più alta.
Però la vostra impostazione iniziale, l’omicidio volontario, non è stata accolta.
Rimane questo punto sul “dolo eventuale”, ma i giudici dicono che i reati commessi sono aggravati dalla “colpa cosciente”, cioè quando l’imputato prevede dei rischi provocati dalla sua azione e ciò nonostante la realizza comunque.
Ora dovrà esserci il nuovo processo davanti a una sezione diversa della Corte d’appello. Come avverrà?
La questione potrebbe essere risolta in una giornata perché si tratta solo di rideterminare le pene. Io spero di rappresentare ancora la pubblica accusa.
C’è il rischio della prescrizione?
No, perché i giudici della Cassazione scrivono che le responsabilità sono irrevocabili. Ormai sono passate in giudicato. Resta però un problema di natura generale di cui dobbiamo tenere conto. Quando succedono questi eventi le vittime chiedono giustizia, ma l’accertamento non deve essere troppo in là. Le risposte devono essere più rapide. Sei anni per una sentenza sono troppo. In questo caso noi abbiamo avuto un vantaggio: grazie alla specializzazione della nostra procura le indagini sono state fatte in tre mesi. In altre parti del paese ai sei o più anni di processo si aggiungono gli anni impiegati per le indagini. Questo è il pretesto affinché il governo si faccia carico di questo problema.
Quali soluzioni propone?
Per quanto riguarda le indagini, io ho già proposto da tempo una procura nazionale che si occupi degli infortuni sul lavoro in modo da avere un organo specialistico. Per avere giudizi più rapidi bisogna trovare un sistema che incentivi una maggiore rapidità dei processi. Bisogna ripensare la prescrizione: incentiva anche appelli e ricorsi alla Cassazione che intasano le corti. È un problema non solo italiano, ma internazionale.
In che senso?
Le esperienze di Torino con la ThyssenKrupp e l’Eternit sono viste al mondo come esempi. Mi hanno chiamato a Bruxelles la scorsa settimana per fare una conferenza sul diritto dei popoli e dei cittadini ad avere un ambiente di lavoro e di vita sicuro e sano. C’erano persone da tutte le parti del mondo e ovunque si sente questa esigenza di giustizia che però non è soddisfatta. Noi dobbiamo dare delle risposte sennò c’è un senso di impunità tra i responsabili e di ingiustizia tra le vittime. Dobbiamo combattere questi due sentimenti contrastanti.

Repubblica 27.4.14
Il Pm Guariniello
“Colpe ormai certe per la prima volta pagheranno i vertici”
di Paolo Griseri


TORINO. Fin dalla tarda notte di giovedì Raffaele Guariniello ha analizzato ogni codicillo della decisione della Cassazione. Poi ieri ha emesso la sua personale sentenza: «Sono molto soddisfatto. La Cassazione ha stabilito un principio molto importante: per la prima volta si riconosce che i colpevoli di un incidente sul lavoro siedono anche in consiglio di amministrazione».
Dottor Guariniello, i parenti delle vittime protestano. Che cosa risponde loro?
«Rispondo che hanno ragione a chiedere giustizia. Siamo al termine di una vicenda paradossale: noi ci abbiamo messo tre mesi a chiudere le indagini complesse su un dramma che ha scosso il Paese. Lo abbiamo fatto grazie a una preparazione specifica che si è accumulata nel corso del tempo alla Procura di Torino. Poi però ci sono voluti sei anni per arrivare al giudizio della Cassazione. Questa è una distorsione che va sanata. Lo dico a chi governa: a mio parere è necessario mettere mano a un sistema così. Per evitare che i tempi lunghi diano l’idea dell’impunità ai colpevoli e della giustizia negata alle vittime».
Nel processo Thyssen c’è il rischio della prescrizione dei reati?
«Quel rischio non c’è ma bisogna agire comunque in fretta. Per rispondere a una legittima domanda di giustizia da parte dei cittadini e dei parenti delle vittime. Io considero la Cassazione un punto di riferimento imprescindibile per la giustizia italiana. Dal 1988 mi leggo tutte le sentenze. Quante volte ho trovato scritto che un certo fatto era reato ma che non era più perseguibile perché era passato troppo tempo? Ecco, questa è la distorsione da superare».
Che cosa la convince della sentenza della Cassazione?
«Il riconoscimento della colpevolezza di tutti gli imputati. Fino a poco tempo fa di fronte a un incidente sul lavoro ci si limitava a indagare sulla meccanica dei fatti e sul comportamento delle figure intermedie, capisquadra e capireparto, responsabili di quel tratto del processo produttivo. Ora invece si è riconosciuto che la responsabilità è anche di chi compie le scelte strategiche dell’azienda. Per questo dico che con questa sentenza il processo per un incidente sul lavoro entra per la prima volta nella stanza del consiglio di amministrazione».
Nel nuovo appello potrete chiedere pene più severe?
«Certamente e, se mi sarà assegnato, come mi auguro, l’incarico di seguire quel processo, credo che lo farò. Fino a ieri i reati ascritti agli imputati erano due (omicidio colposo e disastro colposo) e ora diventano tre».

Corriere 6.4.14
Divorzio facile davanti all’avvocato: in Italia la strada appare in salita
di Cesare Rimini


Il ministro della Giustizia ha annunciato alla Camera grandi novità «nell’immediato» in tema di diritto di famiglia. Ma la cautela sui tempi si impone. Basta pensare che da molti anni si parla della legge che dovrebbe abbreviare i tempi fra separazione e divorzio: da tre anni a un anno, se non ci sono figli minori, o a due anni se ci sono. Parole che si sono inseguite finora senza successo.
Anche il nuovo annuncio del ministro Andrea Orlando è importante e alleggerirebbe il lavoro dei giudici: fa riferimento al «divorzio collaborativo» e alla «negoziazione assistita», una pratica che ha molto successo nel mondo anglosassone e che fa risparmiare tempo e denaro.
Sono gli avvocati — secondo un orientamento dottrinale — che gestiscono la crisi coniugale prima che diventi lite e la concludono consensualmente; l’accordo viene poi semplicemente formalizzato dal giudice.
Il ministro però — ispirandosi alle modalità francesi — auspica che, se non ci sono figli minori, l’accordo non abbia bisogno di essere formalizzato davanti al magistrato, ma che basti... un cancelliere o un pubblico ufficiale.
Sarà il caso di ricordare in questa visione schematica che in Russia e in Francia le parti se sono d’accordo possono comparire spontaneamente di fronte a un pubblico ufficiale e dichiarare se il loro matrimonio è finito nel cestino, tutto con la semplicità che si usa in molti Paesi per contrarre le nozze, tipo Las Vegas.
Poco lavoro per gli avvocati, ma in Italia non va dimenticato che gran parte dei matrimoni sono concordatari (in virtù dei Patti tra lo Stato e la Chiesa). Tanta semplicità incontrerà fatalmente gravi ostacoli, come ai tempi dell’introduzione del divorzio. Dunque, come è di moda dire in questi giorni, «buon lavoro» per far risparmiare tempo ai giudici e denaro ai cittadini, ma più il progetto è audace più è in salita.

il Fatto 26.4.14
Cronache marziane
Il passo falso di Giulietto


Il realista Giulietto Chiesa, pardon lo “zarista” Giulietto, ancora una volta si è mostrato più zarista dello zar Putin. Tutto impegnato a spiegare su Pandora tv – una multipiattaforma via web che si definisce portatrice di informazione indipendente, ma che in realtà veicola le veline di Russia Today, il network mediatico del Cremlino, come si legge sul sito ufficiale – quanto i soliti Stati Uniti siano ancora una volta i manovratori occulti e i responsabili della crisi ucraina, non si accorge del suo lapsus freudiano e va dritto alla meta: convincerci della generosità di Putin che vorrebbe proteggere i fratelli russofili dai cattivoni occidentali. Peccato che, parlando dei prodi ucraini dell’est che combattono per tornare a far parte della Russia, li definisca “russi”. Se lo sentisse Putin, che nega di aver mandato in territorio ucraino suoi agenti a combattere travestiti da separatisti, lo licenzierebbe.

l’Unita 26.04.14
Verso le Europee/Londra
Il boom degli euroscettici
L’Ukip per i sondaggi è al 27%
Sorpasso con i Tory del premier Cameron
di Marco Mongiello


Il leader dell’Ukip, Nigel Farage, è pronto a godersi il trionfo. I sondaggi danno il suo partito euroscettico al 27%: davanti ai conservatori del premier britannico David Cameron, fermi al 22%, subito dietro ai laburisti accreditati al primo posto con il 30%.
«L’uscita della Gran Bretagna dall’Ue non è inevitabile», sostiene Charles Grant, fondatore e direttore del think tank britannico Cer (Centre for European Reform) ed ex inviato a Bruxelles dell’Economist. Gli europeisti nel Regno Unito ci sono e nell’eventualità di un referendum si faranno sentire. Ora però è il momento degli euroscettici, perché sono riusciti a cavalcare la paura dell’immigrazione e ad associarla al potere di Bruxelles.
Perché non è inevitabile l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea?
«Una delle ragioni è che fino ad oggi abbiamo avuto un dibattito sull’Europa a senso unico. Nei giornali gli euroscettici fanno molto rumore. I principali leader euroscettici parlano molto dei problemi dell’Europa mentre le persone a favore dell’Ue, i laburisti in particolare ma anche alcuni conservatori moderati, restano in silenzio o quasi perché lo ritengono conveniente nel breve termine. Ma in una campagna referendaria o nella prospettiva di una campagna referendaria mi aspetto che più persone inizierebbero a far sentire la propria voce: gli industriali, i politici, ecc... Penso che sarebbe un dibattito più paritario ed equilibrato e questo è bene perché quello che ho imparato partecipando a vari dibattiti è che anche se in Gran Bretagna le persone sono molto euroscettiche vogliono sapere di più sull’Ue e sanno di essere ignoranti sulla materia».
Eppure gli ultimi sondaggi indicano che il partito Ukip arriverà al 27%, molto più avantidel22%previstopericonservatori di David Cameron. Come lo spiega?
«Innanzitutto si tratta di sondaggi sulle elezioni europee, di cui a nessuno importa nulla. Nessuno, incluso lo stesso Ukip, pensa che questo risultato possa essere riprodotto nelle elezioni britanniche. Inoltre Nigel Farage, il leader dell’Ukip, è un politico molto eloquente, efficace e carismatico, ed è piuttosto bravo nei dibattiti, migliore di molti pro-Ue. Lui avrà successo perché è riuscito a mettere insieme due questioni separate: immigrazione e Unione europea. La maggior parte delle persone non è molto interessata all’Unione europea ma è molto interessata alla questione immigrazione perché ne vorrebbe di meno. Farage dice che se si vuole meno immigrazione bisogna uscire dall’Ue. Ed è vero che se veramente vuoi avere il controllo dei confini britannici devi uscire dall’Ue. Questo è un argomento molto potente a cui i pro europei non sono riusciti a rispondere adeguatamente. In secondo luogo c’è il fatto che il governo non è molto popolare, anche se l’economia sta andando bene. Terzo, il partito laburista ha un leader che, secondo molti, non è carismatico: Ed Miliband».
Pensa che gli euroscettici britannici siano un caso a parte o che possano essere accomunati agli altri movimenti populisti in aumento in Europa, come il Front National di Marine Le Pen in Francia o il Partito della Libertà di Geert Wilders in Olanda?
«Penso che siano molto simili ai movimenti populisti più moderati come il Front National o il Partito della Libertà, ma non sono molto simili allo Jobbik o ad Alba Dorata (movimenti di estrema destra di, rispettivamente, Ungheria e Grecia, ndr) perché quelli dell’Ukip non sono fascisti. Certo ce n’è qualcuno. Uno lo hanno sospeso oggi per dei disgustosi commenti razzisti e anti islamici (Andre Lampitt, ndr), ma la maggior parte non è fascista. E, allo stesso modo di Marine Le Pen, Farage è riuscito a rendere il suo partito socialmente accettabile. Non sono più visti come una banda di matti. La differenza è che Le Pen è più di sinistra sulla politica economica, più statalista o interventista, mentre Farage è più a favore del libero mercato, ma a parte questo hanno molto in comune».
Ritiene che la maggiore integrazione dell’eurozona spingerà la Gran Bretagna fuori dall’Ue o che la realtà economica la costringerà a restare dentro?
«Temo che la realtà economica spinga nella direzione opposta perché al momento l’economia britannica è quella di maggiore successo nell’Unione europea, probabilmente quest’anno anche migliore di quella tedesca. Grazie al fatto di essere semi-distaccati dall’Ue e di non appartenere all’eurozona stiamo ottenendo enormi benefici economici e anche un europeista come me deve dire: grazie a Dio non siamo nell’euro! Quindi concordo sul fatto che l’eurozona continuerà a integrarsi, ma secondo me non così tanto, perché la maggior parte dei governi dell’eurozona non vuole spingersi troppo in là in un futuro federale. La Gran Bretagna e gli altri 8 Paesi resteranno fuori dell’euro. Ci sarà un’Europa a due velocità: l’eurozona e quelli fuori. La differenza è che la Gran Bretagna potrebbe anche uscire dall’Ue.
La Gran Bretagna ha beneficiato enormemente dall’essere fuori dell’eurozona, ma anche dall’essere dentro l’Ue. Pensa che se uscisse avrebbe gli stessi benefici ottenuti nei decenni passati?
«No, sono d’accordo, non avrebbe gli stessi benefici. In quanto europeista io vorrei che la Gran Bretagna restasse nell’Ue, anche per i suoi benefici economici. Ma devo ammettere che questi non sono enormi. A dirla tutta se la Gran Bretagna lasciasse l’Ue se la caverebbe, così come se la cavano la Svizzera e la Norvegia. Andremmo meno bene di ora perché perderemmo gli investimenti diretti, perché ci sarebbero delle limitazioni nell’accesso al mercato unico europeo e perché non ci sarebbero i benefici dei negoziati commerciali internazionali portati avanti dall’Ue».
Pensa che la crisi in Ucraina porterà a una maggiore integrazione europea anche nel campo degli affari esteri?
«Lo spero. Forse solo un po’, ma è molto difficile quando ci sono Paesi come Italia, Spagna o Germania che non sono in grado di dire alcunché ai russi per ragioni economiche o culturali. Penso che qualsiasi cosa farà la Russia in Ucraina Paesi come Italia, Spagna o Germania lo accetteranno ed eviteranno il confronto. Spero che questo atteggiamento cambi. Sono stato in Germania recentemente e ho notato dei cambiamenti. Spero di vedere in futuro una politica estera europea più unita ed efficace».

Repubblica 26.4.14
Mustafa Barghouti.
Il negoziatore di Fatah ha appena firmato la riconciliazione con Hamas
“Anche gli islamisti di Gaza - assicura - accetteranno la non violenza”
E a Usa e Ue dice: “Aiutateci, solo così il nostro popolo avrà la democrazia”
di Vanna Vannuccini


BETLEMME. «NETANYAHU ha mostrato la sua vera faccia: la verità è che non vuole la pace. Finora usava la divisione palestinese come scusa per dire che non era possibile fare la pace con noi perché non rappresentavamo tutti i palestinesi. Ora rovescia il discorso e usa l’unità palestinese come pretesto al contrario. Ma io dico: dov’è la contraddizione tra l’accordo che abbiamo fatto con Hamas e i negoziati di pace, se Hamas voterà per il governo unitario che si farà entro cinque settimane?». Mustafa Barghouti è di ritorno da Gaza dove ha firmato con Ismail Haniyeh l’accordo di riconciliazione tra Autorità Palestinese e Hamas. Medico, laureato a Stanford e cugino di Marwan Barghouti, che da dodici anni è detenuto in un carcere israeliano ma resta ancora il politico più popolare tra i palestinesi, Mustafa è membro influente del Consiglio Legislativo Palestinese che si riunisce a Ramallah.
Quale sarà il primo passo dopo l’accordo tra Fatah e Hamas?
«Il compito del governo unitario sarà di riportare la democrazia in Palestina. Sarà un governo di consenso nazionale, formato esclusivamente da tecnocrati, cioè da personalità non legate a nessun partito, e preparerà le elezioni parlamentari e presidenziali da tenersi entro sei mesi. Come può essere contraria a questo l’Europa? Come possono esserlo gli Stati Uniti?».
Gli Stati Uniti si sono rammaricati dell’accordo. Hamas è un partito islamista che non ha mai abbandonato la violenza e rifiuta di riconoscere Israele e di accettare i negoziati di pace.
«Abu Mazen sarà il primo ministro anche del governo unitario, e ribadirà l’accettazione delle condizioni messe dal Quartetto per i negoziati. Hamas è un partito, e come tale può avere posizioni proprie, ma se vota per il governo che accetta le condizioni poste dal Quartetto, vuol dire che implicitamente le fa proprie. Anche noi potremmo porre a Netanyahu le stesse obbiezioni per Naftali Bennett e il suo partito, che hanno sempre ripetuto che non accetteranno mai uno Stato palestinese».
Il governo israeliano è stato colto di sorpresa dall’accordo. Lei è stato due giorni a Gaza. Come siete riusciti ad arrivare così rapidamente a un’intesa dopo uno scisma che durava da sette anni?
«C’è stato molto lavoro di preparazione. Gli incontri che c’erano stati negli anni passati, con le mediazioni di paesi arabi, non erano stati infruttuosi. Abbiamo parlato e siamo giunti a questa conclusione anche perché siamo consapevoli di quanto la divisione erodesse il sostegno popolare e frustrasse le aspettative dei palestinesi».
Kerry ha detto di non ritenere che il negoziato sia finito. C’è una chance di riprenderlo secondo, nonostante il no del governo israeliano?
«Gli Stati Uniti hanno avuto sempre una posizione chiaramente a favore di Israele, ma i colloqui di pace sono arrivati a un punto morto perché Israele li ha deliberatamente sabotati, e ha continuato a costruire nuovi insediamenti. Del resto la separazione tra Gaza e la Cisgiordania era stata provocata da Israele proprio per impedire la realizzazione degli accordi di Oslo. L’accordo con Hamas toglie ora di mezzo un ostacolo».
Israele parla di applicare sanzioni economiche.
«Già da alcune settimane Israele non ci versa denaro nostro proveniente dalle tasse che Israele raccoglie per conto nostro, trattenendosi peraltro il 3 per cento. Si tratterebbe di un vero e proprio atto di pirateria. Vogliono strangolarci, impoverire la popolazione. Ma non sarà così che ci piegheranno».
E come risponderete?
«Consolideremo l’unità palestinese e cercheremo l’aiuto dei paesi arabi per sopravvivere. Ci sarà una resistenza non violenta della popolazione. L’unità e la non violenza sono i due princìpi che animeranno il governo unitario, in preparazione di elezioni democratiche. Abbiamo deciso di riattivare il Comitato di riforma dell’Olp, al quale parteciperanno tutti i leader dei diversi gruppi palestinesi. E riattiveremo il Comitato per la Libertà, il Freedom Committee, che io presiederò e che avrà il compito di occuparsi dei diritti umani, e della libertà di azione politica. Non credo che l’Europa possa essere contraria. E anche gli Stati Uniti dovranno rivedere la loro posizione. Parleremo con loro, capiranno che si tratta di riportare la democrazia per tutti i palestinesi».

La Stampa 6.4.14
Israele “arruola” i cristiani
Record di presenze nell’esercito
Il ministero della Difesa invia cartoline a casa di chi è in età militare.
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 26.4.14
Cristiani alle armi per difendere Israele: «È l’unica nazione che ci protegge»
Grande balzo in avanti delle reclute arabo-israeliane nell’esercito dello Stato ebraico nella seconda metà del 2013
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 26.4.14
“Lo stupro usato come arma da guerra”
Un rapporto delle Nazioni Unite: sono 21 le nazioni dove la violenza sessuale viene adoperata in modo sistematico nei conflitti
di Maurizio Molinari

qui

l’Unita 26.04.14
Il personaggio
Cosa sognano i pellerossa?
Storia di Devereux che mise sul lettino i Mohave
di Cristiana Pulcinelli


«IO STO BENE SOLO CON GLI INDIANI E CON I CANI», ERA SOLITO DIRE GEORGES DEVEREUX. CON GL IINDIANI IN EFFETTI TRASCORSE DUE ANNI DELLASUA VITA, IMPARANDO LA LORO LINGUA E I LORO COSTUMI. Era arrivato tra i Mohave, un popolo di nativi americani che vive tra la California e l’Arizona, all’inizio degli anni Trenta per completare i suoi studi di antropologia. Ma furono loro che lo «convertirono a Freud», secondo le sue stesse parole.
Antropologo, etnologo, psicoanalista, Georges Devereux lo vediamo in questi giorni al cinema, nell’interpretazione di Mathieu Amalric, coprotagonista di Jimmy P, un film di Arnaud Desplechin. La storia è tratta da un libro scritto dallo stesso Devereux, Psychothérapie d’un Indien des plaines (Psicoterapia di un indiano delle pianure), resoconto del lavoro terapeutico fatto con Jimmy Picard, indiano della tribù dei Piedi Neri ed ex combattente durante la seconda guerra mondiale che soffre di attacchi di mal di testa, cecità, dislessia, perdita dell’udito. Picard viene ricoverato in un ospedale militare a Topeka, in Kansas, ma i medici non riescono a venire a capo della questione e chiamano Georges Devereux che con gli indiani sa parlare. E, in effetti, paziente e psicoanalista parlano a lungo. Tanto a lungo che dai loro colloqui emerge un libro.
Ma chi era questo strano personaggio di cui finora si sapeva assai poco? «Era un uomo transculturale anche nella vita: nato con il nome di Gyorgy Dobó a Lugoj, una città ungherese che diventerà parte della Romania, si trasferì poi in Francia cambiando nome in Georges Devereux e successivamente negli Stati Uniti. Parlava sei lingue, anche un po’ di italiano», racconta Alfredo Ancora, psichiatra italiano che lo ha conosciuto nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Ancora è l’autore dell’introduzione all’edizione italiana di Etnopsicologia complementarista di Devereux, uscita per la casa editrice Franco Angeli (pagine 256, euro 31,00). «Aveva studiato fisica e chimica, seguendo le lezioni di Marie Curie a Parigi, poi era passato all’antropologia e all’etnologia; era anche un grecista raffinato, un uomo di vasta cultura che però era dotato anche di un notevole sense of humour. Ricordo che quando lo incontrai per la prima volta, avevamo appuntamento a casa sua, in un quartiere fuori Parigi. Arrivai in ritardo e, per scusarmi, gli dissi di non essere riuscito a trovare un taxi. “Non sa che nella banlieu i taxi non arrivano», mi apostrofò, «e lei vuole occuparsi di antropologia, di usi e costumi...”. Incassai il colpo».
Georges Devereux è considerato uno dei padri dell’etnopsicoanalisi, quella disciplina che si trova al crocevia tra la psicoanalisi, l’antropologia, l’etnologia, la psichiatria transculturale. Tuttavia, molti analisti oggi non lo considerano dei loro. In realtà, Devereux faticò anche in vita a far accettare le sue idee. E non solo quelle: venne criticato perché aveva avuto sei mogli e veniva da molti considerato un asociale.
«La sua idea di fondo - prosegue Ancora - era che la psicoanalisi dovesse aprirsi alle altre scienze. Secondo lui, bisognava tornare all’anthropos che un tecnicismo troppo spinto della psicoanalisi aveva fatto dimenticare. Devereux è freudiano, utilizza la tecnica psicoanalitica classica, ma vuole vedere come può essere applicata ad altre realtà e così facendo si accorge che l’elemento culturale è fondamentale. Il monito che ci ha lasciato e che io trovo ancora validissimo è: «non chiudiamoci in una stanza». Lui in effetti non si chiuse in una stanza: andò a vivere con gli indiani Mohave, imparò la loro lingua, si fece raccontare i loro sogni. E lì si accorse di una cosa fondamentale, come scrisse in seguito: «se non capivo le loro usanze, non capivo i loro sogni ».
«La lezione che ci ha lasciato - aggiunge Ancora - è quella di una grande apertura alla conoscenza delle persone e del contesto. Non possiamo avere delle griglie già pronte e pretendere che le persone vi rientrino: anche quello psicoanalitico è un rapporto tra persone che avviene in un contesto. Una verità detta da molti ma praticata da pochi. Devereux invece l’aveva fatta sua».
Quando morì, nel 1985, le sue ceneri, secondo la sua volontà, furono portate presso i Mohave.

l’Unita 26.04.14
E Adorno sfidò Canetti in radio
Il duello del 1962 con in mezzo Gramsci in un libro di De Nunzio
Lo scontro avvenne in Germania e al centro c’era «Massa e potere» uscito nel 1960. Ecco come l’illuminista critico contrastò lo sciamano
di Bruno Gravagnolo


ADORNO, CANETTI E IN MEZZOGRAMSCI. Strano trio, fatto di personaggi che sembrano avere poco in comune. Invece Fabrizio De Nunzio, studioso dell’Università di Salerno e autore di saggi su Benjamin, Tv e cinema, li mette in risonanza in un acuto volumetto. Che riesuma un evento del 1962: il colloquio intervista tra Adorno ed Canetti svoltosi nel marzo 1962 alla radio tedesca. Tema, Massa e potere. Il capolavoro di Elias Canetti uscito nel 1960. Il libro si intitola Metamorfosi del potere (Ombre corte, pp. 142, Euro, 13) ed è costruito attorno all’intervista radiofonica, sorta di confronto- scontro tra il fondatore della scuola di Francoforte e lo «sciamanico» Premio Nobel per la letteratura, che era ben più che un letterato. In ballo ci sono temi come il potere, l’illuminismo, la tecnica, la comunicazione. E il rapporto tra strati arcaici della mente e meccanismi gregari di massa, che conducono al totalitarismo e al dominio tra gli uomini. Attraverso l’immaginario collettivo irradiato dai media: l’«immaginativo», come preferiscono chiamarlo i duellanti. E Gramsci che c’entra? Denunzio lo fa intervenire in lunghe note a piè di capitoli, come interlocutore e chiosatore invisibile. Che ha intuito tante cose. Dal carattere astratto e immateriale del lavoro moderno (nella scrittura e nel lavoro intellettuale). Al ruolo della radio e del cinema nel modulare appartenenze e scelte politiche. Alla fluidità dell’individuo dentro i flussi della comunicazione di massa. Al rapporto cesaristico masse-capi, mediato dal mito politico.
Ma veniamo allo scontro Adorno-Canetti. Da una parte c’è la ragione critica francofortese, nemica del mito e anche della ragione critica intesa come mito (l’onnipotenza della tecnica).Un tema classicamente declinato nella celebre Dialettica dell’Illuminismo, opera fondativa della scuola di Francoforte, scritta con il «dioscuro» Horkheimer. Dall’altra agisce il pensiero «medianico» di Canetti, che fa del mito una fonte perenne di conoscenza. Proprio per intendere le catastrofi e le regressioni della modernità. Insomma, due visioni profondamente diverse della contemporaneità. La prima «rischiaratrice» e antagonista. La seconda sciamanica e aristocratica. Entrambe tese a capire le tragedie del secolo, con strumenti diversi. Mentre infatti Adorno vuol liberare la «soggettività » dai ceppi del feticismo economico e tecnico, Canetti suggerisce una via di fuga dal moderno e un ripiegamento nella creatività dell’«arcaico »: come dimensione stabile della mente e ancora di salvezza.
Attenzione, Canetti non è un reazionario. Incarna piuttosto la figura del «saggio», nutrito di scienze umane, che tende a ricomporre le fratture del singolo entro una visione cosmica del mito, inteso come sfera eterna del rapporto uomo-natura, che si riproduce all’infinito. I suoi miti sono «prototipi» alla Kereny, più che archetipi alla Jung. Ma il suo «inconscio» non tende alla luce razionale del’Io, come in Freud. Quanto alla pienezza romantica del conoscere e dell’esistere tramite le «metamorfosi»: la capacità mimetica, «psicotica », di sintonizzarsi con tutto (come nel mito di Ulisse). E con tutte le esperienze dell’umanità, che si riproducono nel ciclo cosmico degli eventi. Una prospettiva che ricorda non solo Jung, ma anche Mircea Eliade, rovesciata nell’attualità. Sicché la massa umana moderna riprodurrebbe non i fenomeni arcaici dell’orda freudiana, che uccide il padre e lo santifica. Bensì le «mute» vaganti e in fuga dei cacciatori e dei guerrieri. Volte a riprodursi e a generare pianto rituale e sacrifici, prima di stabilizzarsi in entità tribali. Dunque la «massa » rigenera in Canetti la sua potenza «difensiva», rendendo l’individuo «totipotente» ed eccitato. Contro l’angoscia di morte,altro concetto chiave in Canetti, che poi in Potere e sopravvivenza, si tramuta nella spinta a dare la morte all’Altro o a divorarlo, per liberarsene. Con un meccanismo di assimilazione ed espulsione.
Sostrati tragici questi, che si rivelano suggestivi, per capire la pulsione di morte e il suo ruolo, nelle dinamiche intersoggettive e di massa del potere (si pensi al razzismo, ai pogrom e all’annientamento etnicida). E che colgono Adorno in contropiede, al punto da spingere il filosofo intervistatore a usare una precisa strategia: taglio dei tempi per la risposta. E riscrittura e addomesticamento delle idee di Canetti. Per isolarlo, facendolo apparire inattuale vox clamans nel deserto. La partita in radio la vinse Adorno. Ma le copie vendute di Massa e potere aumentarono in Germania. E il passaggio radiofonico giovò all’anti-mediatico Canetti. Aiutandolo a diventare di moda.

Repubblica 26.4.14
I cittadini “ibridi” contro il populismo
In edicola con “Repubblica” il nuovo iLibra Ilvo Diamanti indaga le ultime forme di rappresentanza democratica
di Guido Crainz



È PIÙ che mai necessaria oggi la riflessione che Ilvo Diamanti pone al centro di Democrazia ibrida , il nuovo titolo della collana iLibra di Repubblica e Laterza, intrecciando domande e nodi attinenti alla crisi della democrazia rappresentativa, al suo deperire o al suo trasformarsi. Oggi essa glissa, scivola, scrive Diamanti, tra diversi modelli di partito, di comunicazione e di opinione pubblica. Sullo sfondo vi è la crisi dei partiti di massa novecenteschi basati sulla militanza e l’appartenenza identitaria, capaci di comunicare direttamente con le società; e vi è l’irrompere in questa crisi di quella «democrazia del pubblico» analizzata anni fa da Bernard Manin. Segnata dal deperire della partecipazione sociale e da una personalizzazione della politica e della comunicazione, in primo luogo televisiva, che tende a trasformare i cittadini in spettatori. Che sostituisce la appartenenza collettiva con la fiducia personale.
Processi e fenomeni non solo italiani ma caratterizzati in Italia da una doppia specificità: l’assenza di alternanza nella Prima Repubblica, per la conventio ad excludendum nei confronti del Pci, e poi l’irrompere sulla scena di un imprenditore mediatico che fonda un partito personale in senso proprio. Ma in qualche modo “partito personale”, bisognoso del leader per la sua coesione interna, è anche la Lega, pur con il suo radicamento nel territorio e la sua identità. E la personalizzazione coinvolgerà poi in più forme anche le forze minori della Seconda Repubblica, e vedrà infine l’esplosione - e in qualche modo l’anomalia - del Movimento 5 Stelle. Ha trovato freni robusti invece nella storia del Partito democratico, frutto di una tormentata fusione di anila me diverse: ma anche qui le “primarie” inducono comunque una valorizzazione del leader.
Da questo punto di vista, annota Diamanti, Matteo Renzi rappresenta sostanzialmente la prima vera risposta del Pd al nodo del “partito personale”. Ed è anche l’ultima risposta che viene in una «Seconda Repubblica fondata da - e su - Berlusconi»: che viene, anche, quando la stessa «democrazia del pubblico» mostra segni di usura e di crisi. Il suo stesso agire, infatti, ha indebolito e consumato quel legame di fiducia fra leader, partiti e società su cui si fondava: ha prodotto cioè, quasi inevitabilmente, «partiti senza società, e dunque leader senza partiti». Un legame di fiducia consumato anche dalla crisi economica, e messo alla prova poi dal modificarsi stesso del- comunicazione con l’irrompere della Rete. E con il conseguente trasformarsi del “pubblico” in frammentati “pubblici”.
Per molte vie siamo entrati così in una sorta di età della diffidenza in cui «nessuno si salva, e da cui nessuno ci salva»: si pensi al crollo di credibilità dell’Europa, ad esempio, o a quello di istituzioni politiche e di governo. È dunque in trasformazione e in discussione la stessa democrazia rappresentativa, e in questo scenario si diffondono processi spesso racchiusi (o esorcizzati) nelle formule del populismo e dell’antipolitica: formule «indefinite e suggestive» in senso proprio, annota Diamanti, perché suggeriscono ed evocano ma non definiscono, non racchiudono in categorie rigorose. Rischiano di diffondere semmai ulteriori nebbie, e una parte del libro è dedicata invece a scomporre “populismi” e “populisti”: sottolineando che il loro rapporto con i cittadini è sempre più basato non sulla fiducia ma sulla sfiducia (nei confronti degli altri) e su ingannevoli icone della “democrazia vera” come la Rete. Che irrompe, certo, ma affiancandosi e intrecciandosi ai precedenti attori della comunicazione, così come si intensificano contaminazioni fra diversi modelli di democrazia e compaiono al tempo stesso nuovi metodi di protagonismo e di protesta.
Prende così corpo - è il cuore del libro - una “democrazia ibrida”. Si formano cittadini “ibridi” che sperimentano differenti linguaggi e inedite forme di partecipazione, e hanno di fronte a sé la sfida di restituire un futuro alla democrazia rappresentativa. Nodi irti, come si vede, e su di essi il libro si arricchisce con interviste ad alcuni dei principali protagonisti di questo dibattito: da Pierre Rosanvallon a Yves Mény, da Manuel Castells a Umberto Eco, da Dominique Schnapper a Evgeny Morozov.