sabato 30 agosto 2014

il Fatto 30.8.14
Il giornale di Gramsci è tornato online (e volontario)

L’Unità è ritornata dopo un mese, ma solo online. L’annuncio arriva dal direttore Luca Landò, che nell’editoriale dedicato alla riapertura del sito ha scritto: “Scusate il ritardo. Dopo trenta giorni di chiusura forzata, l’Unità ritrova la voce. Lo fa grazie al lavoro gratuito e volontario di poligrafici e giornalisti che hanno deciso di rompere il silenzio e organizzarsi per rimettere in piedi il nostro sito in attesa che anche il giornale di carta, ne siamo convinti, ritrovi presto la strada delle edicole”. Prende intanto corpo l’ipotesi di un interessamento del patron di Sator, il finanziere Matteo Arpe, che con la società News 3.0 ha allargato i suoi interessi all’editoria. Il finanziere, secondo quanto risulta all’Adnkronos, starebbe lavorando al dossier con l’obiettivo di riportare il quotidiano nelle edicole.

il Fatto 30.8.14
L’Unità, Europa e la sindrome 40%
di Pino Corrias

Chissà se c’è una relazione tra il massimo consenso elettorale incassato dal Pd – sopra il 40 per cento alle ultime Europee – e il minimo interesse degli elettori per i suoi giornali di carta, di pensiero, di tradizione, L’Unità che si è dissolta dalle edicole lo scorso luglio, ed Europa che sta per farlo. Come se la visione del mondo incorporata in una scelta elettorale non abbia più bisogno di quel rito quotidiano che era sfogliare le cronache del mondo per condividerle e interpretarle. Neppure nella minima percentuale a cui si era già ridotto. Si dirà che la collettiva esecuzione di quei giornali è legge di mercato, è carta stracciata dal digitale, e che i quotidiani superstiti così lietamente renziani, bastino e avanzino a nutrire quel po’ di identità che ancora si chiede alla politica. Vista anche la velocità con cui procede il collettivo naufragio, quando c’è da salvarsi la pelle e al diavolo i giornali. Peccato che almeno per i giornalisti di quelle testate le due cose coincidano. Con una maledizione in più: quella di subire gli ipocriti tweet dei politici addolorati e l’esultanza del nuovo califfato di Grillo. Speriamo non si aggiungano i 100 euro della Littizzetto.


il Fatto 30.8.14
Pd, Bersani: “Io e Renzi? Ho il difetto che non riesco a dire che gli asini volano”

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il Fatto 30.8.14
Pd, Bersani: “Io se fossi diventato premier avrei lasciato segreteria del partito”
di David Marceddu
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Corriere 30.8.14
Ma Bersani punge Matteo «Rischia l’effetto disillusione»
di Francesco Alberti

BOLOGNA — «Io, per carattere, non riesco a raccontare che gli asini volano…». Gli viene di getto, in apertura di dibattito, sulla scia dell’affettuosa standing ovation che gli riservano le circa 300 persone sotto il tendone centrale della Festa dell’Unità. La gente ride. Il moderatore Massimo Giannini lo incalza: «Si sta riferendo a Renzi?». Lui si arrotola le maniche della camicia e tenta di ricalibrare il concetto: «A Matteo riconosco la capacità di trasmettere ottimismo, ma consiglierei più equilibrio: è bene che la comunicazione tenga conto delle aspettative, altrimenti si innesca un effetto disillusione».
È tornato, Pier Luigi Bersani, l’ex segretario, il quasi-premier che ha vissuto in prima persona l’onta dei cecchini contro il Prodi quirinalizio. In forma, sorridente, tra gli stand della Festa nazionale. Con qualche artigliata al Renzi piglia-tutto: «Il fatto di avere un premier che è anche segretario del partito inibisce e condiziona il dibattito. C’è sempre il rischio che qualsiasi cosa uno dica ricada sul piano del governo e quindi alla fine il confronto nel Pd diventa complicato». Gli chiedono se lui, al posto di Renzi, avrebbe tenuto i due ruoli: «No, ma sono scelte legittime».
È una serata di ombre buie sul sistema Italia. Recessione, deflazione dopo 55 anni. Bersani non infierisce sull’ex rivale alle primarie, ora premier, ma di messaggi ne manda: «Devo dire con amarezza che questi dati, per me, non sono una sorpresa. Dobbiamo tornare a concentrarci sulle politiche industriali, abbiamo perso troppi pezzi…». Gli 80 euro? Sospira: «No, non sono una mancia elettorale, ma serve di più». E anche sul patto del Nazareno l’ex segretario mette paletti: «Giusto il confronto con tutti, ma il Pd ha la forza sufficiente per non lasciare l’ultima parola a nessuno». Quindi, escluso che la giustizia rientri nell’accordo con Berlusconi, aggiunge: «Non ci sono motivi né politici, né numerici per trasformare un dialogo costruttivo in un patto stringente».
Alle primarie del 28 settembre in Emilia per la successione all’ex governatore Vasco Errani, sfida tutta renziana tra i modenesi Matteo Richetti e Stefano Bonaccini, Bersani avrà un suo candidato ma per ora non lo svela («Siamo in buone mani, è tutta gente di serie A»). Qualche sassolino però se lo leva: «Invito i contendenti a risparmiarci giaculatorie sull’innovazione. L’Emilia-Romagna è da sempre al vertice in questo campo, sin dai tempi del primo presidente Guido Fanti: non vorrei che passasse il concetto che aver fatto la gavetta ora diventa un handicap». L’ex segretario non nasconde che nell’arena delle primarie emiliane avrebbe visto bene anche un altro candidato: il sindaco di Imola, Daniele Manca, lanciato da Errani come possibile mediazione tra il nuovo corso renziano e la vecchia «ditta», ma poi affondato dalle divisioni interne. Bersani nega patti segreti con Renzi, ma su Manca ci puntava: «Un peccato, il suo profilo ci stava bene…».

Repubblica 30.8.14
Bersani punge Renzi “Un po’ più equilibrio e lasci discutere il Pd”
Alla Festa dell’Unità l’ex segretario critica la linea comunicativa e il doppio incarico del premier. “Io mi sarei dimesso da leader”
di Alessandra Longo

Matteo sa rilanciare la fiducia. Ma sarebbe bene accorciare la forbice tra aspettative e realtà Molto positivo che al Senato siano partite le riforme. In quella elettorale però vanno inserite le preferenze

BOLOGNA Mentre Matteo Renzi offre gelati a Palazzo Chigi, nel giorno che segna il record più negativo di deflazione da 50 anni, Pierluigi Bersani si prende la scena alla Festa nazionale dell’Unità. Arriva abbronzato, con il sorriso, e mena fendenti al capo del governo: «Lo dico in amicizia. Bisogna evitare un effetto disillusione, bisogna accorciare la forbice tra attese e realtà». E meno male che lo dice in amicizia, «perché qua tutti si devono dare una mano». No, non gli piace lo stile del presidente del consiglio, nonché segretario del partito («Io ho altri gusti, se fossi diventato premier avrei lasciato la guida del Pd»), ammette di essere diverso, lui, Bersani: «Ho un difetto, non so dire che gli asini volano. Al massimo potrei dire che gli asini volano basso basso... Al contrario riconosco in Renzi l’ottimismo. Però, ripeto, gli consiglio di mettere in equilibrio ottimismo e realtà perché per far ripartire il Paese c’è bisogno di fiducia e la fiducia viene dalla verità ».
La sala è piena, il clima caloroso. Bersani non avrà smacchiato il giaguaro ma è uno di quelli che ha ancora una fisicità di rapporto con i militanti. E lui non resiste alle sue consuete metafore: «Va chiarito un punto di fondo: dobbiamo fare una gara da centometristi oppure la partenza veloce di una gara di mezzo fondo?». Tradotto: non capisco dove va a parare la strategia governativa, ma so che ci «vuole tempo, almeno mille giorni» per raddrizzare l’Italia. Stiamo andando nella direzione giusta?, gli chiede Massimo Giannini. Si vede che fa una media di quel che può dire e quel che è meglio tenersi in gola. Gli 80 euro? «Un’operazione ridistributiva con qualche difettuccio », peccato per i pensionati che non li hanno presi. Va bene anche questo ma «non basta mai una misura sola». Lui è per un pacchetto di misure che siano fuori dal patto di stabilità, «misure di sollecitazione e pianificazione di investimenti privati». Lui è per «l’umiltà perché nessuno nasce imparato e bisogna ascoltare anche le idee dei soggetti sociali...».
Lui ha le sue idee ed è chiaro che non sono quelle del premier. Le riforme al Senato? «Molto positivo che il convoglio sia partito. Chapeau. Ma sulla legge elettorale suggerirei di mettere mano ancora. I cittadini devono scegliersi i propri deputati. Piuttosto dei nominati mi bevo le preferenze ». Lui ha «altri gusti» anche in tema di giustizia. Troppo alto il prezzo pagato sull’altare del Nazareno? «Non mi risulta che la giustizia stia dentro il patto. Quanto alla legge elettorale, il Pd non deve lasciare l’ultima parola a nessuno, neanche a Verdini e Verdini se ne farà una ragione. Non ci sono i motivi per andare, con Forza Italia, oltre un dialogo costruttivo per trasformarlo in un patto stringente senza il quale non si può fare un passo». La destra è morta, dice, o perlomeno non sta bene, da quando non ha più la maggioranza per fare le leggi ad personam: «Tocca al Pd, tocca a noi. Loro non sono in grado di attrezzarsi in tempi ragionevoli ».
In gran forma, commentano i suoi, trascinandolo all’Osteria del Sindaco, per uno spot sulla Festa. Prima di salire sul palco si concede anche una breve riunione a porte chiuse. Ci sono le elezioni dell’Emilia Romagna: «Peccato per Daniele Manca, ci sarebbe stato bene in lizza. Ho il mio candidato preferito ma non lo dirò». Stefano Bonaccini, pare. Anche se fu lui a twittare contro l’ipotesi Marini al Quirinale. Bersani il saggio sa non legarsela al dito. Difende le primarie, «strumento ottimo purché ci sia dietro un partito, un soggetto politico che organizzi il confronto delle idee e dia anche indicazioni rischiando di essere smentito». Il partito: il Pd è in sofferenza secondo l’ex segretario: «C’è una questione strutturale quando il segretario è anche capo del governo. Inevitabilmente il dibattito viene inibito perché si scaricherebbe sul governo, che non è del Pd, ma del Paese».
Prevale la sua nota ostilità contro i personalismi in politica, contro «i partiti occasionali» che hanno contribuito «all’attuale decadenza». Vorrebbe fermarsi, riflettere, mettere a fuoco il ruolo dei soggetti politici... Ma sa che rischia di passare per vetero, poco veloce, poco «innovatore» («Non usate questa storia in Emilia, vi diffido, qui siamo sempre stati innovatori da Fanti a Errani »). La crisi morde, i dati della disoccupazione sono disastrosi. La spending review lo preoccupa: «Tagliare, tagliare non è la ricetta. Riqualificare sì». Una manovra da 17 o 18 miliardi è «una cosa di cui dobbiamo farci carico ma non ci fa ripartire». Si chiede se, ad un certo punto, non sarà toccato «qualche pilastro sociale ». Insiste «sul lavoro», la vera sfida. Propone meno tasse alle imprese che assumono e fiscalmente fedeli. In finale, fornisce a Crozza qualche spunto: «Quando il cavallo è grasso cammina poco. Quando è magro cammina poco. Ecco: dobbiamo prendere il grasso e ridistribuirlo».

il Fatto 30.8.14
Festa dell’Unità
Pd, il ritorno dei rottamati viventi
Bersani: basta slide, ci vuole concretezza
di Luca De Carolis

Io non riesco a dire che gli asini volano. Al limite potrei dire che volano bassi bassi…”. Pier Luigi Bersani in purezza, alla festa dell’Unità di Bologna, praticamente in casa. In forma, bonariamente feroce con Renzi. Dal partito che non c’è (“Io da premier avrei lasciato la segreteria”), agli 80 euro che “non fanno certo ripartire i consumi”, al bisogno di “accorciare la forbice tra annunci e realtà”, l’ex segretario piazza critiche e punture di spillo, fuori e dentro il dibattito in programma per le
   19. Con i toni e le metafore alla Bersani, sospese tra zoologia (“se il cavallo è troppo magro gli devi mettere un po’ di grasso”) e atletica leggera (“In questa crisi dobbiamo capire se fare i 100 metri o il mezzofondo”). Chiaro il filo conduttore: il rottamatore annuncia che è un piacere, ma fa troppo poco. L’uomo che non smacchiò il giaguaro arriva alle 18 e qualcosa di un afoso pomeriggio. Abbronzatissimo, giacca blu, pantaloni chiari. Si concede presto a telecamere e taccuini. Gli chiedono subito delle primarie per la Regione, disfida tra il renziano doc Matteo Richetti e il renziano ex bersaniano Stefano Bonaccini. E lui parte, voce bassa e parole forti: “Io un candidato preferito ce l’ho e in seguito lo dirò (dovrebbe essere Bonaccini, ndr), ma il problema è che avete detto che io volevo un patto (per convergere su Daniele Manca, ndr) togliendo le primarie. Per me le primarie ci vogliono, ma le puoi fare se c’è un partito, un soggetto politico che organizzi il confronto e magari dia indicazioni, anche rischiando che gli votino contro”. Tradotto, Renzi fa male a non esporsi sulla partita. E comunque la guida del partito non può essere un secondo lavoro: “Io se fossi stato eletto premier mi sarei dimesso da segretario. Poi Renzi ha fatto una scelta diversa: ma si possono organizzare meccanismi appositi. Con un segretario-premier la discussione interna è un po’ inibita”. Lo vogliono portare via, ma lui continua a parlare, volentieri. Lo stuzzicano sul governo che ha rinviato i provvedimenti su scuola e infrastrutture. C’è troppo caos nell’azione di governo? “Bisogna sorvegliare il rapporto tra comunicazione e aspettative”. Bersani non mostra i canini, ma il segno del morso lo puoi intuire. Attorno alle 19 sale sul palco con Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato imprese, e il moderatore Massimo Giannini. La gente non è molta, ma affettuosa. Quasi tutti si alzano in piedi, Bersani ricambia lanciando baci. “Il cdm è appena finito, da questo sblocca italia non pare uscire granché”, la butta lì Giannini. Bersani aspira forte, guarda in basso. Sulla crisi ripete che “non esistono scorciatoie” e che “bisogna creare lavoro, subito: non vorrei che si perdessero due o tre mesi a parlare delle regole. Mio padre diceva: il lavoro c’è o non c’è”. Si parla degli 80 euro: “Un provvedimento di redistribuzione, con i suoi bei difettucci. Ora dobbiamo tenerlo, ma una misura da sola non basta”.
MENTRE Bersani parla una signora dall’amplificatore monita, coprendo la sua voce: “C’è da spostare una Turbo nera”. Lui sorride: “Un capogruppo la vada a spostare…”. Sullo sblocca Italia non ride: “Semplificare significa creare un’altra norma, io quando ho potuto ho abolito”. Merletti ci va giù duro: “Se mi portano all’ospedale con scompenso cardiaco e l’unghia incarnita, prima di tutto mi devono salvare la vita. Il governo in questi mesi abbia perso tempo con l’unghia. Bersani con le sue lenzuolate era andato contro i salotti…”. Sul finale, le riforme: “Il nuovo Senato deve arrivare in porto - dice l’ex segretario - ma con questa riforma e con l’Italicum i deputati decidono tutto. Servono modifiche alla legge elettorale, io sono per i collegi”. Chiosa su Manca. “In mezzo a questi candidati ci sarebbe stato bene”. Bersani si alza. Contento.

il Fatto 30.8.14
Cono d’ombra
di Antonio Padellaro

Con tutti i problemi che abbiamo non si sentiva proprio il bisogno di un replay di Berlusconi che fa il clown e passeggia per il cortile di Palazzo Chigi leccando un gelato. Anzi, duole dirlo, ma perfino l’ex Cavaliere avrebbe evitato di fare il pagliaccio con il governo nel bel mezzo di una crisi economica ogni giorno più devastante. Ma, come il Pregiudicato (con il quale non a caso è culo e camicia e stringe patti segreti), Renzi pensa di fare fessi gli italiani con queste piccole armi di distrazione di massa. Non gira un euro, i negozi sono vuoti, le imprese chiudono, le famiglie affrontano il peggiore autunno dagli anni 50, ma il premier giovanotto viene immortalato mentre mangiucchia banane o si tira una secchiata d’acqua in testa. Come dire: ragazzi va tutto benone, e se i gufi dell’Economist mi dipingono come un adolescente immaturo accanto a Hollande e alla Merkel mentre la barchetta dell’euro affonda, io ci rido sopra e fo il ganzo. Purtroppo, la bibbia della grande finanza voleva comunicargli che i grandi investitorinonsannochefarsene del governo degli annunci ai quali quasi mai seguono i fatti. Dopo la figuraccia della riforma scolastica (con i centomila precari assunti da un giorno all’altro, secondo i giornali di corte) che aveva detto “vi stupirà” e che infatti molto ci ha stupito per la sua assenza, Renzi invece di chiudersi in un imbarazzato silenzio si è sparato la mirabolante riforma della giustizia civile che, venghino signori venghino, durerà la metà e mi voglio rovinare. Se continua così, lo statista di Rignano non farà l’annunciato big bang, ma un grosso botto sì. Al gusto di limone.

La Stampa 30.8.14
I giardini di Renzi
di Massimo Gramellini

Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati. Quell’uomo è il presidente del Consiglio. Il quale - nonostante l’Italia sia sull’orlo del baratro e la nuova parola d’ordine «passo dopo passo» prometta di fargliene fare uno in avanti - ha trovato il tempo di rispondere alla copertina dell’Economist che lo ritrae con un gelato in mano a bordo di una nave che affonda. Nella politica a fumetti, dove immagini e slogan rimpiazzano i pensieri, il nostro vanta predecessori illustri, ma non conosce rivali. Ieri ha fatto installare nel cortile di Palazzo Chigi il carretto di un noto marchio artigianale, che ringrazierà per la pubblicità gratuita, e ha passeggiato a favore di telecamera con un cono che ha tentato di sbolognare a qualche cronista, invano: siamo gente dallo stomaco dritto, noi. Il siparietto, tristissimo, si è concluso con la consegna del manufatto sgocciolante a una funzionaria, imbarazzata come tutti. 
Che il premier abbia perso «il tocco»? Forse è il peso della realtà che sovrasta persino chi cerca di imbellettarla con trovate goliardiche e incitamenti da allenatore di provincia. Questo governo di mediani con un solo fantasista ancora a caccia del primo gol, più che dell’incipit di «Giardini di marzo» farebbe meglio a occuparsi del secondo verso: al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti.

il Fatto 30.8.14
Un cono gelato e poco altro, Renzi soffocato dagli annunci
Lecca crema e limone a Palazzo Chigi per rispondere alla copertina dell’Economist
Poi mille riforme, pochi decreti e quasi zero soldi
di Stefano Feltri

Si capisce che non è il momento migliore per Matteo Renzi, da centravanti di sfondamento deve improvvisarsi mediano, difendere invece che attaccare. E gli costa fatica. “Il carretto passava e quell'uomo gridava gelati, al 21 del mese i nostri soldi erano già finiti”. Lucio Battisti, I giardini di marzo, offre la sintesi della giornata politica.
CREMA&LIMONE. Cortile interno di Palazzo Chigi: Matteo Renzi scende al termine del Consiglio dei ministri e c’è un gelataio della catena Grom con apposito carretto. Un cono crema e limone per rispondere all’Economist che ha ritratto il premier sulla barca di carta dell’economia europea mentre fissa il vuoto e tiene un gelato in mano.
“Il gelato artigianale è buono, non ci offendiamo per le critiche, perché facciamo un lavoro serio”, il premier lecca e offre ai giornalisti di condividere (non succede), abbronzato dopo le vacanze a Forte dei Marmi, ma ancora un po’ appesantito nonostante il tennis pomeridiano. Poi conferenza stampa.
PASSODOPOPASSO. Ormai ci vuole un dizionario per orientarsi nella propaganda governativa: Renzi presenta una nuova serie di slide, nome in codice “passodopopasso” che servono a indicare la traccia del “programma dei mille giorni” che verrà presentato in un’altra conferenza stampa e servirà a dare sostanza alla promessa di “cambiare verso” all’Italia.
Tutto questo si sostanzia in una serie di provvedimenti, qualche decreto e molti disegni di legge delega dai tempi lunghi, testi – come sempre – non se ne possono leggere, bisogna affidarsi alla trasmissione orale delle promesse. Che sono, ovviamente, tantissime. Ma per una volta non trasmettono la consueta frenesia renziana, bensì un po’ di affanno. “Tanta roba”, dice l’ex sindaco di Firenze con una delle espressioni più à la page del vocabolario renziano, ma non ci crede neppure lui.
I SOLDI. Quanto vale il decreto sblocca Italia? Non si sa. “Zero”, dice il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, riferendosi all’impatto netto sulla finanza pubblica. Renzi aveva promesso di “sbloccare” 43 miliardi di euro per le opere pubbliche. A sentire il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, ce ne sono giusto 3,8. Soldi che già c’erano e che cambiano destinazione. Il premier prova a riassumere: il decreto Sblocca Italia “tenta di risolvere e anticipare una serie di problemi burocratici che si sono creati”. Sbadigli in sala.
LA MINISTRA. Renzi sa che giornali e tg si eccitano per i numeroni e le grandi riforme, questa volta non ne ha da offrire e quindi snocciola elenchi di misure che sembrano più da amministratore di condominio che da presidente del Consiglio. Il colpo doveva essere la riforma della scuola, ma il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha rubato i titoli dei giornali al premier, anticipandone i contenuti. Risultato? Niente riforma. “Si farà mercoledì”, dice Renzi che si riappropria del dossier e anticipa che “non ci sarà la stabilizzazione dei precati”, ma un misto di posti per chi è in graduatoria combinato con la valutazione della performance. Vedremo. Di giustizia Renzi non vuole parlare troppo: si capisce che la considera una fastidiosa eredità della Seconda repubblica segnata dai guai di Silvio Berlusconi. Al premier piace presentare la riforma della giustizia civile, “dimezzeremo i processi”. Il resto lo lascia al Guardasigilli Andrea Orlando (vedi pezzo qui sotto).
80 EURO SBIADITI. La deflazione, la recessione, i consumi che continuano a crollare. Anche sull’unica misura importante del suo governo, il bonus Irpef da 80 euro al mese per i redditi bassi, Renzi deve giocare in difesa, parare critiche di aver speso male 6,6 miliardi e di prepararsi a buttarne 10 all’anno con la legge di Stabilità. “Apprezzo chi mi contesta sugli 80 euro perché dimostra d avere un’altra filosofia, un’altra idea dell’Italia. Noi il bonus lo confermeremo”. Traduzione: io taglio le tasse ai dipendenti, mentre gli economisti, Forza Italia e la Confindustria vorrebbero usare quei soldi a favore delle imprese (il Pil salirebbe, ma non i voti al Pd).
MOGHERINI FOREVER. Renzi elenca la lunga teoria di vertici domestici e internazionali che lo attendono. Ma soltanto uno gli interessa davvero: quello di oggi a Bruxelles, il Consiglio europeo che ratificherà la nomina di Federica Mogherini, oggi ministro degli Esteri, ad alto rappresentante per la politica estera dell’Unione. Il premier si è impuntato, si è giocato la reputazione su una nomina di prestigio e – nonostante una vasta opposizione di giornali e governi – dovrebbe vincere. Questa notte, quando arriverà in conferenza stampa a Bruxelles, Renzi confida di tornare ai toni trionfalistici che gli sono più consoni.

La Stampa 30.8.14
Scuola, niente assunzioni
Il governo promette un patto con le famiglie
Renzi rinvia la riforma al 3 settembre e avverte “C’è chi chiede di valutare il lavoro dei docenti”
di Lorenzo Vendemiale

Mercoledì 3 settembre. C’è una nuova data segnata in rosso sul calendario della riforma della scuola. Matteo Renzi lo ha annunciato ieri, al termine della conferenza stampa sul consiglio dei ministri. Sarà breve l’attesa per il mondo dei docenti, che aspettava con ansia l’annuncio del «pacchetto» ed in particolare del piano di assunzioni da 100mila posti di cui si è parlato negli scorsi giorni. Anche se – ha tenuto a precisare il premier, forse freddando gli entusiasmi – «la riforma non si articola sulla stabilizzazione dei precari, è l’assunzione di un patto con le famiglie e gli insegnanti». E ha aggiunto: «C’è un’Italia che chiede di valutare il lavoro dei docenti», aprendo all’ipotesi di un sistema di premialità che piace poco ai sindacati. Quanto ai presunti dissapori col ministro Giannini, anche qui Renzi ha smentito su tutta la linea: «Ho letto di litigi ma non c’è stato nessun contrasto. Dopodiché non sempre condivido quello che dice la Giannini, ma credo sia un fatto di sanità mentale».
E chissà se Renzi approva le novità in tema di università che ha in serbo la Giannini. Parallelamente alla scuola, infatti, la titolare di viale Trastevere lavora ad una vera e propria rivoluzione per la facoltà di Medicina: l’abolizione dei test d’ingresso. L’ipotesi era stata avanzata negli scorsi mesi ed è stata confermata mercoledì sera in un incontro con la Conferenza dei rettori (Crui), nettamente contraria alla proposta. L’idea del Miur è di eliminare lo sbarramento iniziale, e spostarlo al termine del primo semestre o del primo anno di corso, prendendo spunto dal modello francese. La perplessità maggiore delle università riguarda l’invasione di studenti a cui sarebbero sottoposte. Per farvi fronte, il Ministero ipotizza una riorganizzazione di tutti i corsi riguardanti le professioni sanitarie (medicina, farmacia, biotecnologia), in un unico tronco iniziale, con esami comuni.
Anche su questo punto, però, i rettori restano dubbiosi: «Ci vorrebbe una revisione dei programmi radicale», spiega Roberto Lagalla, vicepresidente della Conferenza e delegato alla Medicina. «Al massimo si arriverebbe ad un bacino di 30mila studenti: più di tanti allo stato attuale non potremmo ospitarne, proprio per una questione normativa. C’è un rapporto minimo di studenti/docenti da rispettare». Mentre all’ultimo concorso i candidati erano quasi 65mila.
La Crui, dunque, continua ad escludere «categoricamente» la possibilità di un accesso libero nel rapporto di 1 a 1 (come ventilato dal Ministero). L’obiettivo è quello di raggiungere un compromesso su una forma di preselezione oltre la soglia dei 30mila posti complessivi. «La riunione comunque è stata positiva», commenta Lagalla. «Siamo felici di vedere disponibilità al dialogo. Anche noi siamo convinti della necessità di rivedere profondamente il sistema attuale. Ma certi cambiamenti vanno ponderati bene».
Nelle prossime settimane partiranno i tavoli di lavoro congiunti. Punto fermo, comunque, la programmazione della professione su base nazionale: non ci sarà una sovrapproduzione di medici; la selezione potrà solo spostarsi in uscita (o nel corso degli studi). Il Ministero vorrebbe la riforma pronta già per l’avvio del prossimo anno accademico. Per cui, dunque, potrebbe non esserci alcun test d’ingresso. à solo spostarsi in uscita (o nel corso degli studi). Il Ministero vorrebbe la riforma pronta già per l’avvio del prossimo anno accademico. Per cui, dunque, potrebbe non esserci alcun test d’ingresso.

La Stampa 30.8.14
Non basta un miliardo per stabilizzare i precari. Palazzo Chigi dovrebbe trovarne tre
Per 27mila insegnati adesso lo Stato risparmia ogni anno due mensilità e per altri 42mila non paga l’anzianità
di Lorenzo Vendemiale
qui

Repubblica 30.8.14
Il rinvio per assunzioni e novità della didattica
Scuola, la delusione di studenti e sindacati

ROMA. Dai sindacati, un coro di proteste per il rinvio del capitolo scuola al consiglio dei ministri di mercoledì prossimo. «È sconcertante — afferma Domenico Pantaleo, Cgil — questo rinvio dopo gli annunci ad effetto dei giorni scorsi». «Se vogliamo una scuola di qualità — incalza per l’Ugl-Scuola Giuseppe Mascolo — dobbiamo cercare di attuare soluzioni reali e definitive». Delusi anche gli studenti. «Ci chiediamo se la scuola sia una priorità del governo o solo un richiamo giornalistico», commenta Alberto Irone, portavoce “Rete studenti medi”. E aggiunge: «Che figuraccia: rinviare di nuovo le linee guida sulla scuola a poco più di due settimane dall’inizio delle lezioni è chiaramente smentire quello che è stato detto da mesi a questa parte». Sulla stessa linea Danilo Lampis, coordinatore Unione degli Studenti: «Non aspetteremo nuovi annunci, presenteremo le vere priorità del Paese in materia di istruzione nelle piazze a partire dal 10 ottobre: istruzione gratuita, welfare, cittadinanza e stop alla precarietà». (a. cus.)

il Fatto 30.8.14
Nuovi guru
Così Eataly taglia e affetta i lavoratori
Firenze, a casa 60 dipendenti negli ultimi sei mesi
Oggi e domani sciopero nel regno di Farinetti
di Davide Vecchi


Da 120 dipendenti a meno della metà in appena otto mesi. No, non è un piano messo in atto da Sergio Marchionne per rilanciare la Fca che inchioderà al tavolo per mesi i sindacati a discutere. No. È quanto già accaduto a Eataly Firenze, senza neanche disturbare Cgil, Cisl e Uil perché i contratti in questione erano di quelli atipici, senza garanzie, e la rappresentanza sindacale lì dentro non c'è. Solo nell'ultimo mese, 13 lavoratori del supermercato di lusso sono stati lasciati a casa. E così gli “schiavi”, come si definiscono, hanno deciso di rispolverare i vecchi metodi di lotta: sciopero e picchetti. Per 48 ore. Da questa mattina e per tutta la domenica. Certo a incrociare le braccia saranno in pochi, per timore delle possibili ritorsioni, ma quelli che sono stati già lasciati a casa (e sono ormai quasi la maggioranza) si presenteranno fuori dal negozio a protestare e illustrare a chi si avvicina quali sono le condizioni di lavoro nel meraviglioso mondo Eataly.
Il negozio ha aperto nel dicembre 2013. Dei 120 dipendenti iniziali, una dozzina avevano contratti a tempo indeterminato, gli altri sono stati reclutati attraverso due società interinali, Openjob e Adecco.
AL RINNOVO dopo il primo mese ai “dipendenti” viene proposto un part time da 20, 24 o 30 ore, che però in realtà è un full time: la fascia oraria prevista è dalle ore zero alle 24, da lunedì alla domenica. Le paghe? Dai 6 agli 8 euro lordi orari. Gli stipendi variano in media tra 600 e i 1.000 euro. Dopo quattro o sei mesi il contratto scade di nuovo. E a giugno iniziano i problemi. Molti non vengono rinnovati. L'azienda inizia a tagliare. Sulla bacheca appare un avviso con cui Eataly riduce l'acqua ai dipendenti e comunica loro che hanno a disposizione una bottiglietta da mezzo litro al giorno. Sull'avviso qualcuno scrive: “Siete degli schiavisti”. Quel ‘siete’ è Eataly ed Eataly è Natale Farinetti detto Oscar, grande sostenitore e amico del premier Matteo Renzi, che aveva intenzione di nominarlo ministro del suo esecutivo. Farinetti è “uno di quelli che ci indica la strada”, per usare le parole precise pronunciate da Renzi per presentare Farinetti alla Leopolda 2013. Ma aveva già partecipato a quella del 2012. E distribuito ricette. Non di cibo ma di riforma del lavoro. “Governo e parti sociali devono trovare un accordo più profondo per il futuro del Paese: mettere in condizione chi fa impresa di poter arricchire l’azienda e i collaboratori e di potersi liberare di chi non ha voglia di lavorare”, dice al Corriere della Sera nell'ottobre 2012. Al Fatto Quotidiano che aveva sollevato il problema delle forme contrattuali adottate nei suoi supermercati, garantì: “Entro due anni assumiamo tutti, abbiamo dato lavoro a tremila persone”. Era il dicembre 2013. A Firenze ne sono rimaste una sessantina. All'ingresso, però, come in tutti i santuari del buon cibo sparsi in Italia, è appeso il “Manifesto dell'armonia di Eataly”, redatto di suo pugno da Farinetti. Una sorta di decalogo motivazionale.
“IL PRIMO modo per stare in armonia con le persone è saper ascoltare cercando spunti per cambiare o migliorare le proprie idee”, recita il punto due. “Il denaro può allontanare dall'armonia. Bisogna avere sempre ben presente che il denaro è un mezzo e non un fine. Deve essere meritato”, si legge al punto tre. Ma allora, si chiedono i lavoratori di Eataly, perché l'azienda non ha mai accettato di incontrare i dipendenti? E perché se il denaro non è così importante le paghe sono minime? Risposte che cercano di avere con lo sciopero di oggi e domani. Intanto hanno ricevuto il sostegno dei Cobas e la solidarietà dell’unica opposizione presente a Palazzo Vecchio: i consiglieri Tommaso Grassi, Giacomo Trombi e Donella Verdi. “È il nuovo modello renziano di azienda: costruire un impero, aprire negozi a ripetizione, tutto a spese della collettività e dei dipendenti che hanno contratti da fame”, ha detto Grassi ieri annunciando che sarà presente al presidio davanti Eataly. Infine è arrivata la Cgil cittadina che ha bollato come “inaccettabile che si viva solo di interinale” e ha proposto a Farinetti di avviare un tavolo. Ma intanto i contratti scadono. Non è mica Marchionne.

Il Sole 30.8.14
Italia in deflazione, disoccupazione al 12,6%, Pil fermo

Inflazione a -0,1%, non accadeva dal '59 A luglio persi mille posti al giorno L'Istat: Pil stagnante nel terzo trimestre
Dopo i timori dei mesi scorsi, ora è ufficiale: l'Italia è in deflazione. Ad agosto, secondo le stime preliminari, i prezzi al consumo sono saliti dello 0,2% rispetto a luglio ma calano dello 0,1% sull'agosto 2013: era dal 1959 che non si registrava una flessione su base annua. Sempre ieri l'Istat ha diffuso i dati sulla disoccupazione, che torna a salire e a luglio balza al 12,6%, in rialzo di 0,3 punti su giugno (pur con una lieve riduzione di quella giovanile al 42,9%). Si calcola che siano stati persi mille posti al giorno. Sul fronte del Pil, infine, l'Istat oltre a confermare la recessione tecnica con -0,2% del secondo trimestre ha previsto nel terzo «una sostanziale stagnazione dell'economia».

il Fatto 30.8.14
L’Italia in deflazione dopo 55 anni
In agosto i prezzi al consumo scendono dello 0,1 rispetto al 2013
Ma è un sintomo della crisi, non la causa
di Franco Mostacci


Nell’ottobre del 1982, quando iniziai a lavorare per l’Istituto centrale di statistica (poi divenuto nazionale), i prezzi aumentarono del 2% in un mese e l’inflazione toccò il 17,2%. In quel periodo il potere d’acquisto delle buste paga diminuiva, nonostante il meccanismo automatico di rivalutazione trimestrale dell’indennità di contingenza. Se si aveva in mente di acquistare qualcosa era meglio affrettarsi, per non incorrere in nuovi aumenti dei prezzi. Altri tempi.
AD AGOSTO del 2014 i prezzi sono diminuiti rispetto a un anno prima: -0,1 per cento. Non accadeva dal 1959, quando però il Pil cresceva del 7%. L’ultimo dato dell’Istat sancisce una situazione che era inimmaginabile 30 anni fa. Il processo di disinflazione ci ha accompagnato negli anni 80 e 90 e ha consentito all’Italia di accedere all’euro. Dopo l’introduzione della moneta unica nel 2002, l’inflazione italiana ha continuato a seguire una crescita moderata, in linea con il mandato della Bce. La diminuzione degli ultimi due anni (da 3,2% di agosto 2012 a -0,1% di agosto 2014) è, invece, il frutto della crisi economica, che ha ridotto la produzione e l’occupazione, diminuito il reddito disponibile, eroso il risparmio delle famiglie, bloccato i consumi. Nel variegato paniere degli indici dei prezzi al consumo si ritrovano i principali beni e servizi consumati dalle famiglie italiane, ognuno pesato rispetto all’importanza che riveste sulla spesa. L’inflazione è la somma dei contributi di ciascun prodotto, positivi o negativi se i prezzi sono rispettivamente aumentati o diminuiti nell’ultimo anno. Il contributo all’inflazione è proporzionale al peso del prodotto e alla sua variazione di prezzo. Negli ultimi mesi è aumentata la proporzione di prodotti con i prezzi in diminuzione, che sterilizzano l’effetto inflattivo di quelli il cui prezzo aumenta. Ora le componenti positive e negative sono praticamente equivalenti.
In attesa di conoscere i dati definitivi di agosto ci si può soffermare su quanto accaduto lo scorso mese. A far aumentare l’inflazione ci hanno pensato soprattutto la tariffa sui rifiuti, l’acquisto di automobili, il pedaggio autostradale, la colf e le spese condominiali. Ma a farla scendere hanno contribuito la bolletta del gas e i servizi di telefonia mobile, ma anche lo smartphone, il viaggio aereo in Europa, i medicinali di fascia A e la fede in oro.
GENERI ALIMENTARI, prodotti energetici e beni tecnologici stanno ora contribuendo negativamente all’inflazione. Negli anni recenti i livelli più alti di inflazione si sono registrati nel 2011 e 2012 in concomitanza con gli aumenti dei beni energetici. I prodotti alimentari con il segno meno hanno ora sorpassato quelli con il segno più. I beni tecnologici sono invece stabilmente in diminuzione per un decimo di punto all’anno. Lo spettro della deflazione, intesa come una diminuzione generalizzata del livello dei prezzi, è un male assoluto? La deflazione riguarda l’intero sistema economico, mentre l’inflazione è comunemente riferita ai soli consumi delle famiglie. Il deflatore implicito del Pil, che indica la misura della crescita nominale dovuta ai prezzi, è aumentato di 0,9% nei primi 6 mesi dell’anno, più di quello dei consumi privati (0,6%). Nel contempo, il deflatore delle importazioni è diminuito del 2,2%, con un indubbio vantaggio per il sistema economico nazionale, che ha importato le materie prime a prezzi più bassi, e per i consumatori finali che risparmiano sui rifornimenti di carburante.
La bassa inflazione o la deflazione sono una conseguenza della crisi economica, ma non la sua causa. Va ricordato poi che l’indice dei prezzi al consumo riflette anche le variazioni di qualità dei prodotti. Acquistando oggi l’ultimo modello di smartphone si paga di più rispetto al passato, ma si ha un prodotto con maggiore potenza e funzionalità. La spesa aumenta, ma l’indice dei prezzi diminuisce, senza causare deflazione monetaria.
Chi acquista preferisce prezzi stabili o in diminuzione. Ma la deflazione non giova all’economia nel suo complesso. La Bce ha il compito di rimuovere le cause della scarsità nell’offerta di moneta (deflazione monetaria) e il governo deve impegnarsi a far aumentare il reddito disponibile delle famiglie per rilanciare l’acquisto di beni e servizi e ripristinare una crescita moderata dei prezzi. Solo con interventi congiunti sul fronte della politica monetaria e fiscale è possibile interrompere la spirale deflazionistica che si sta innescando.
NON APPENA RIPARTIRÀ la crescita economica i prezzi riprenderanno a salire, ma non può accadere il viceversa. Per di più, un livello dei prezzi più alto sarebbe catastrofico per molte persone che oggi non riescono a far quadrare il proprio bilancio. In questo momento, un’inflazione al consumo bassa o negativa sta semmai aiutando a salvaguardare la tenuta sociale del Paese.
* ricercatore e statistico

La Stampa 30.8.14
Non basta sperare che passi
di Luca Ricolfi


Italia di nuovo in recessione, Italia in deflazione, fiducia dei consumatori di nuovo giù, disoccupazione ai massimi. La raffica di dati negativi che arrivano dall’Istat non è di quelle che tirano su il morale.
E tuttavia, a mio parere, la notizia non c’è, o meglio c’è solo per il governo e per gli osservatori più ottimisti, che hanno passato mesi a intravedere una svolta di cui non si aveva alcun indizio concreto.
Dapprima non si è voluto credere alle ripetute revisioni delle previsioni sul Pil pubblicate dagli organismi internazionali, senza accorgersi che non erano troppo pessimistiche ma semmai ancora troppo ottimistiche. Poi si è alimentata l’ingenua credenza che i 10 miliardi stanziati per il bonus avrebbero potuto rilanciare i consumi, salvo poi amaramente confessare che «ci aspettavamo di più». Infine non si è voluto dare alcuna importanza ai drammatici dati sul debito pubblico, cresciuto di 100 miliardi in appena 6 mesi, una cosa che non era mai successa dall’inizio della crisi.
Nonostante tutto ciò, e nonostante i dati Istat dei giorni scorsi non mancheranno di suscitare qualche reazione, penso che torneremo presto a infischiarcene e ad ascoltare la canzoncina del paese che «cambia verso», dello sblocca-Italia, della svolta epocale, dell’Europa che deve fare la sua parte, di papà Draghi che deve proteggerci da lassù (per chi non lo sapesse, il governatore della Banca Centrale Europea abita in una torre altissima, detta appunto Eurotower).
La ragione per cui penso che poche cose cambieranno è molto semplice, ed è che una cosa è la crisi, una cosa diversa è il declino; una cosa è una società povera, una cosa diversa è una società ricca. Una società povera che incappa in una crisi ha molte possibilità di rialzarsi perché non può non accorgersi della gravità di quel che le succede, e non può non sentire la spinta ad automigliorarsi. Una società ricca che è in declino da due decenni (ma secondo molti studiosi da più tempo ancora) può benissimo sottovalutare quel che le succede, e avere ormai esaurito la spinta all’automiglioramento. L’Italia, se si eccettua il segmento degli immigrati (che alla crisi hanno reagito e continuano a reagire molto bene: 91 mila posti di lavoro in più negli ultimi 12 mesi), è precisamente nella seconda condizione. Dal momento che il nostro declino è lento (perdiamo l’1-2% del nostro reddito ogni anno), e la maggior parte della popolazione ha ancora riserve di denaro e di patrimonio, è molto facile cullarsi nell’illusione che basti aspettare, che prima o poi il sole tornerà e la ripresa dell’economia rimetterà le cose a posto.
Di fronte a questo deprecabile ma comprensibile stato d’animo dell’opinione pubblica, molto mi colpisce che anche la classe dirigente del paese, che pure dovrebbe avere occhi per cogliere il dramma del nostro declino, si mantenga tutto sommato piuttosto calma e compassata, limitandosi alle solite invocazioni che sentiamo da trent’anni (ci vuole un colpo di reni, dobbiamo fare le riforme), senza alcuna azione incisiva o idea davvero nuova.
E qui non penso solo alla insostenibile leggerezza del premier, che un mese fa snobbava i primi dati negativi sul Pil («che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente per la vita quotidiana delle persone»), e provava a tranquillizzare gli italiani con ardite metafore metereologiche (la ripresa «è un po’ come l’estate, arriva un po’ in ritardo ma arriva»). Penso anche alla mancanza di idee coraggiose da parte del sindacato, ancora impigliato nei meandri mentali del secolo scorso. O alla leggerezza con cui la Confindustria ha avallato il bonus da 80 euro, una misura che non ha rilanciato i consumi e in compenso ha bruciato qualsiasi possibilità futura di ridurre Irap e Ires, ossia una delle pochissime cose che un governo può fare per sostenere subito, e non fra 1000 giorni, la competitività e l’occupazione (per inciso: ieri Squinzi ha picchiato duro contro il bonus, scordandosi completamente delle sue dichiarazioni di giugno, quando aveva spiegato di non averlo contrastato per ragioni politiche, perché «le elezioni europee erano più importanti»).
Ecco perché mi è difficile essere ottimista. Se l’opinione pubblica è incline al vittimismo ma si limita a sperare in tempi migliori, se la classe dirigente vive di annunci e piccole manovre, è del tutto illusorio pensare di «fermare il declino», per riprendere il nome di una sfortunata lista elettorale. Ma, attenzione, il declino potrebbe anche non essere lo scenario peggiore. La notizia che l’Italia è entrata in deflazione sarà probabilmente seguita da sempre più insistenti richieste di misure di «sostegno della domanda», anche a costo di aumentare ulteriormente il nostro debito pubblico. E’ possibile che tali misure vengano attuate. E che lo siano con il consenso dell’Europa, sempre più spaventata dallo spettro della stagnazione. Quello che nessuno sa, tuttavia, è come i mercati finanziari reagirebbero a un eventuale ulteriore peggioramento del nostro rapporto debito-Pil. Può darsi che stiano zitti e buoni, intimiditi dalla volontà di super-Mario di fare «qualsiasi cosa occorra» per proteggere l’eurozona. Ma può anche darsi che i mercati rialzino la testa, e qualcuno ci rimetta le piume.
Anzi, in realtà qualcosa è già successo, anche se in modo invisibile, perché oscurato dalla discesa degli spread con la Germania. Dal 9 aprile di quest’anno i rendimenti dei titoli di stato decennali dei principali paesi dell’euro hanno cominciato a muoversi in modo difforme, ossia a divergere sempre più fra di loro: è lo stesso segnale che, nel 2011, precedette e annunciò la imminente crisi dell’euro. Ma quel che è più grave è che a questo segnale, che indica che i mercati stanno ricominciando a distinguere fra paesi affidabili e paesi inaffidabili, se ne accompagna un altro che riguarda specificamente l’Italia: a dispetto del miglioramento dello spread con la Germania, la nostra vulnerabilità relativa rispetto agli altri 4 Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) è in costante aumento dal 2011, e nell’ultima settimana ha toccato il massimo storico. Tradotto in parole povere: tutti i paesi stanno beneficiando di tassi di interesse via via più bassi, ma nel cammino di generale avvicinamento alla virtuosa Germania noi siamo più lenti degli altri, perché i mercati si accorgono che non stiamo facendo le riforme necessarie per aumentare la nostra competitività.
La conseguenza è molto semplice, ma terrificante: se ci fosse un’altra crisi finanziaria, noi saremmo più vulnerabili di Spagna e Irlanda.
Ecco perché rallegrarsi degli spread bassi può essere molto fuorviante. E continuare a rimandare le scelte difficili, come finora hanno fatto un po’ tutti i governi, potrebbe rivelarsi catastrofico.
Lo so: Cassandra dixit, direte voi. Ma a differenza di Cassandra non vedo nel futuro, e continuo a pensare che il futuro che verrà sarà esattamente quello che ci saremo meritati.

La Stampa 30.8.14
Ottimismo, espediente o necessità?
di Elisabetta Gualmini


Ha resistito per un po’ Matteo Renzi durante la conferenza stampa di ieri. Prima ha presentato il nuovo slogan della fase 2 del suo governo, passo dopo passo, dando l’idea di voler affrontare con calma, serietà e concretezza i diversi problemi che l’Italia ha davanti, in particolare la riforma della giustizia e le misure per sbloccare le opere pubbliche.
Poi però non ce l’ha più fatta ed è tornato il leader motivazionale di sempre. Il Renzi della rivoluzione, delle cose che nessuno ha mai fatto, di un Paese che tra 1000 giorni sarà completamente trasformato. La riforma della giustizia civile è una ri-vo-lu-zio-ne! E il nuovo codice sugli appalti con norme uguali a quelle degli altri Paesi europei è un’altra ri-vo-lu-zio-ne.
E così in una delle giornate più buie dell’economia italiana, in cui recessione e deflazione fanno a gara ad alimentarsi a vicenda, in cui le famiglie non consumano praticamente più e gli imprenditori fuggono a gambe levate da qualsiasi investimento, il Premier riesce a fornire un racconto diverso e a lanciare - ancora una volta - un messaggio rassicurante. D’altro canto, anche l’Europa ha problemi simili, e dalla crisi si esce con uno sforzo comune.
C’è da chiedersi se l’ottimismo e il continuo sforzo motivazionale del Premier siano solo un espediente per distogliere l’attenzione dall’enorme complessità dei problemi che devastano il nostro Paese o se - soprattutto finché non ci sarà una vera e propria svolta in Europa verso politiche di crescita - non sia proprio l’unica cosa da fare. Sì, certo, il siparietto con il banchetto dei gelati e il cono offerto ai giornalisti come risposta (stizzita) alla copertina dell’Economist ce lo poteva risparmiare, anche perché nessun giornalista si è sbellicato dalle risate e ha deciso di stare al gioco.
Renzi ci sta provando a mettere in fila una serie di provvedimenti utili ad allentare i vincoli che flagellano i settori più importanti per lo sviluppo del nostro Paese. Con qualche stop-and-go, tra avanzate e retromarce (come quella, che gli deve essere costata molto, sulla scuola), le novità ci sono e, se fossero realizzate, avrebbero un impatto significativo. E’ per questo forse che il premier mantiene livelli di popolarità tuttora molto elevati tra i cittadini italiani, i quali continuano a interpretare la «missione di Matteo» come la lotta di Davide-l’innovatore contro la falange armata dei Golia (i poteri forti, gli interessi corporativi, i privilegi diffusi) che vogliono mantenere le cose identiche a sempre.
Con lo Sblocca-Italia si cerca di mobilitare fondi già disponibili e sveltire i percorsi di realizzazione (promettendo ad esempio di completare la Napoli-Bari e la Palermo-Messina-Catania nel 2015 invece che il 2017). Si liberano risorse per altre opere cantierabili, di taglia media e mini, che daranno soddisfazione ai sindaci, con l’acqua alla gola tra tagli e patto di stabilità. E poi gli incentivi per la banda larga nelle zone bianche, l’utilizzo dei fondi europei, ancora non spesi, le modifiche alla Cassa depositi e prestiti, il sostegno all’edilizia e gli incentivi all’export delle piccole e medie imprese. Con anche un occhio alla situazione di Bagnoli e agli investimenti per l’estrazione di idrocarburi. Il nuovo codice sugli appalti viene invece affidato a un disegno di legge delega.
Sulla giustizia le norme contenute nel Dl sono più che apprezzabili. Il dimezzamento dell’arretrato e dei tempi del contenzioso sarebbe in effetti una rivoluzione. Per i nostri investitori e per quelli internazionali. Questo è il vero cuore della riforma al di là di misure minori come il taglio delle ferie dei giudici e l’iter semplificato per le separazioni senza figli. Anche le norme sul falso in bilancio e sul reato di autoriciclaggio vanno nella giusta direzione. Il decreto legge dunque non partorisce un topolino. E Matteo se lo dice naturalmente da solo: tanta roba eh?
Lo stile del Premier non cambia. Ottimismo e sorrisi contro il buio pesto. Energia e gelati contro rassegnazione. Entusiasmo a palla contro i cantori del declino. O meglio, tentarle tutte invece che stare fermi a guardare. Bisogna dirla tutta. Pure con i rischi del caso (eccesso di promesse e risultati inferiori alle aspettative), siamo sicuri che ci siano alternative? 

Corriere 30.8.14
A passettini sparsi
di Darioi Di Vico


La gradualità ha dunque preso il sopravvento sulla velocità fine a se stessa. Con la parola d’ordine del «passo dopo passo» il premier Renzi sembra aver preso atto, almeno a livello di comunicazione, che nell’azione di governo c’è bisogno di meno foga e più raziocinio. Da sprinter di valore intermedio il presidente si candida ora a diventare un buon mezzofondista. Confidiamo, di conseguenza, che da oggi in poi i provvedimenti siano ben scritti, che i decreti attuativi seguano per tempo e che l’implementazione delle norme non resti impigliata nelle trappole tese, più o meno ad arte, dalla burocrazia.
Peccato però che questa svolta all’insegna del buon senso si sia confusa ieri con un piccolo show di cui avremmo fatto volentieri a meno. Il presidente del Consiglio che gusta polemicamente un gelato nel cortile di Palazzo Chigi per replicare a una pessima copertina dell’Economist non è certo un’immagine destinata ad aiutare la nostra credibilità internazionale, si presenta invece come una scelta assai discutibile di marketing politico. Onestamente non ci viene in mente un altro grande leader europeo in carica che avrebbe dato vita alla stessa performance. Quantomeno qualcuno a lui vicino avrebbe avuto il fegato per fermarlo in tempo.
Guardando alla sostanza delle scelte del Consiglio dei ministri di ieri si può dire che dalla riunione è uscito un film ricco di abbondante trama e di altrettanti annunci. Insieme al tema della giustizia il nocciolo è rappresentato dal provvedimento sblocca Italia che, pur sceso dai 43 miliardi sbandierati fino a qualche giorno fa a numeri più realistici, si compone di almeno tre parti. La prima è un elenco di opere pubbliche che a detta di Renzi e del ministro competente Maurizio Lupi saranno rese cantierabili entro il 2015, la seconda è uno scambio (che farà discutere a Roma come a Bruxelles) tra il governo e le società autostradali che si impegnano a investire e incassano la proroga delle concessioni, la terza — infine — è la tranche autenticamente liberale che promette di semplificare le ristrutturazioni degli appartamenti e abbassa il tetto per le defiscalizzazioni delle piccole opere. Rinviata in extremis, invece, l’idea di incentivare fiscalmente l’affitto delle abitazioni. Le tre parti, a un primo esame e in base alle cose che sappiamo finora, non appaiono però in equilibrio tra loro, i passettini prevalgono sui passi. Ed è la lunga lista delle infrastrutture da realizzare ad avere nettamente la meglio con qualche scelta che ha del sorprendente, come l’alta velocità/alta capacità sulla tratta ferroviaria Palermo-Messina-Catania. Una priorità che darà adito ai maliziosi di formulare un cattivo pensiero: quello di un premier che coltiva segretamente l’ipotesi di andare nel 2015 a elezioni anticipate. Senza però volersi lanciare nelle previsioni sull’esito della legislatura e solo attenendosi agli annunci, lo step successivo consisterà nel verificare opera per opera le ipotesi di copertura e i meccanismi di finanziamento di lavori che, giova ricordarlo, interessano alla fine almeno una dozzina di Regioni.
Un’idea di dubbia attrattiva e neppure tanto originale, marcata com’è dagli stessi virus che scorazzano già da tempo nell’organismo malato della giustizia: il subappalto ai privati come stabile puntello all’emergenza; la progressiva svalutazione delle garanzie di indipendenza e imparzialità connesse alla giurisdizione; il messaggio che, fuori dalle corsie preferenziali aperte per sorridere ai mercati internazionali (tipo il «Tribunale delle imprese»), giustizia ordinaria resti solo per chi se la può pagare; e l’equivoco di forme di risoluzione alternativa delle controversie non come opzione culturale per ridurre la propensione alla litigiosità, ma come espediente imposto per legge per dirottare su laghetti privati i fiumi di contenzioso civile che tracimino dagli acquedotti tribunalizi.
Eppure il resto della riforma contiene anche misure promettenti, altre che meritano di essere sperimentate, e altre ancora il cui successo o insuccesso dipenderà dalla capacità di abbandonare l’illusorio pensiero unico delle riforme «a costo zero» (e qui già depone male l’impegno di appena 150 assunzioni a fronte della carenza in organico di quasi 8.000 cancellieri).
Certo, per coglierle bisogna andare oltre i tweet con i quali Renzi si è già portato parecchio avanti: «Garantire un processo civile di primo grado in un anno invece di tre come oggi» è infatti un cinguettìo curioso, se a scriverlo è il capo di un governo sul cui sito online i dati Ue mostrano che in materia commerciale una causa civile di primo grado dura in media oggi poco meno di 600 giorni, dunque circa un anno e otto mesi, non tre.
Ma al netto del marketing politico, e della rivendita di misure già avviate da altri (il «Tribunale delle imprese» è stato introdotto nel 2012 per la nicchia di cause di proprietà intellettuale-conflitti societari-antitrust, e il Processo Civile Telematico sta entrando ora a regime ma è frutto di 15 anni di travagliata marcia), fa benissimo la riforma ad alzare il tasso di mora dall’attuale 1% all’8,15%, in modo da disincentivare la beffa di chi oggi, avendo torto marcio in una causa, usa i tempi lunghi del tribunale come scudo per resistere contro chi ha ragione, contando sul fatto che nel peggiore dei casi a distanza di anni gli tocchi pagare solo il dovuto più un interesse infinitamente meno caro di quello per prendere soldi in prestito.
Opportuno — a condizione che non si creda che il rito da solo sia tutto — asciugare i tempi morti dell’attuale procedura civile, spingendo le parti ad anticipare e concentrare il «botta e risposta» che oggi arriva a consumare anche 8/12 mesi prima di approdare alla trattazione vera e propria della causa, Anche la «negoziazione assistita» dagli avvocati dei litiganti, prima che le nuove cause arrivino in tribunale e anzi nel tentativo di non farcele proprio arrivare grazie alla condivisione di una «convenzione» con valore di sentenza, è un esperimento francese da provare. Di buonsenso é l’idea che marito e moglie per divorziare, se non hanno figli piccoli e sono d’accordo sulle condizioni economiche, possano non intasare i tribunali. E una gran cosa, se ben coordinata, sarebbe la fusione in un unico «Tribunale della famiglia e per i diritti della persona» delle oggi frammentate competenze di giudici ordinari, minorili e tutelari (più le richieste di asilo politico).
È invece nel penale che il baldanzoso piglio del premier è evaporato nella stretta tra il quasi alleato di governo — Berlusconi — protagonista per anni di incostituzionali leggi ad personam , e l’alleato vero di governo — il ministro dell’Interno Alfano — che molte di quelle leggi incostituzionali fabbricò da Guardasigilli di Berlusconi. Il risultato del sandwich é un ripiegamento tattico su 5 titoli da «vorrei ma non posso», utili a far dire a tutti che tutti hanno vinto: chi sulla formulazione di falso in bilancio e autoriciclaggio, chi sull’ossessione di limiti alla pubblicabilità delle intercettazioni demandati a una legge delega «dopo confronto con i direttori dei giornali». In definitiva si compra tempo in attesa di tempi migliori, per contenuti sui quali il governo somiglia a un capofamiglia che, frastornato da commensali reclamanti ciascuno una pietanza diversa, affastella nel carrello della spesa ingredienti contraddittori, presi al supermarket delle tante commissioni ministeriali autrici di progetti che però almeno erano organici e coerenti. Tipica la scelta di non cancellare la berlusconiana legge ex Cirielli, ma di bloccare i termini di prescrizione dopo la condanna di primo grado, facendoli rivivere e ripartire dopo 2 anni se per allora non si sia celebrato l’appello (non è chiaro se anche nei processi già iniziati come per Berlusconi a Napoli o Formigoni a Milano, o solo per i nuovi rinvii a giudizio come sarebbe più logico). Ma così da un lato si ignora che di questi 2 anni già 8/10 mesi nella realtà si consumano prima che il processo arrivi fisicamente in appello, tra impugnazioni da attendere e formazione del fascicolo in cancellerie sotto organico. E dall’altro lato si lascia l’imputato esposto all’eventuale inerzia giudiziaria: sia perché lo scoccare del supplemento di tempo non determina l’estinzione dell’accusa (come invece suggeriva la commissione Canzio), sia perché il blocco della prescrizione non viene bilanciato da un meccanismo di controllo da parte del giudice sul trattamento tempistico da parte del pm della notizia di reato nelle indagini preliminari, fase dove le statistiche mostrano che ad esempio nel 2011 si sono concentrate 86.000 delle 120.000 prescrizioni dell’anno.

Corriere 30.8.14
Le grandi riforme prive di padri sono spia di un’emergenza crescente
di Antonella Baccaro


Salva Italia, cresci Italia, semplifica Italia, decreto del Fare, Destinazione Italia. Alzi la mano chi si ricorda quale governo abbia emanato questi provvedimenti e soprattutto quale ministro li avesse proposti e che cosa contenessero.
Facciamo un ripasso: i primi tre sono del governo Monti, gli ultimi due dell’esecutivo Letta. Il salva Italia ha portato nelle nostre vite una nuova tassa sulla casa chiamata Imu e la riforma delle pensioni per la quale l’allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero, versò qualche lacrima in pubblico. Il cresci Italia di Corrado Passera, ministro dello Sviluppo del governo Monti, si pose in continuità ideale con la «lenzuolata» di Bersani sulle liberalizzazioni. Il semplifica Italia si annunciò come il provvedimento del cambio di residenza in tempo reale. E potremmo andare avanti così. Perché, ieri, ad esempio, il governo Renzi ha approvato il decreto sblocca Italia, ponendosi per una volta in continuità con i suoi predecessori.
Ma da cosa nasce il vezzo di battezzare i provvedimenti con nomi che poi, a distanza di tempo, dicono molto poco? Una volta bastava il cognome del ministro a individuare il provvedimento: legge Basaglia, legge Marcora, legge Merloni, legge Bassanini. Le grandi riforme, buone o brutte, avevano un «padre» facilmente individuabile, dunque un responsabile.
Con il tempo la componente oggettiva ha preso il sopravvento: perché i governi sono diventati esecutivi del presidente e i singoli ministri hanno perso peso e visibilità. Perché i provvedimenti sono diventati più frequenti e più frammentati, finendo per contenere materie disomogenee e dunque non riportabili all’operato di un singolo dicastero.
Ma questa non può essere l’unica spiegazione. Questo modo di denominare le leggi è figlio di uno stato di emergenza crescente, in cui le leggi appaiono gli unici strumenti per sconfiggere la crisi in mano a «uomini della salvezza». Salva, cresci, sblocca: l’Italia non è mai stata così strattonata. Ma il paziente, per ora, reagisce male e quegli appellativi muscolari, a distanza di tempo, appaiono in qualche caso velleitari.

Repubblica 30.8.14
Non bastano i treni a far ripartire il Paese
di Tito Boeri


IL TEMPISMO , sul piano della comunicazione, è perfetto. Nel giorno in cui l’Istat certifica il ritorno dopo 50 anni alla deflazione e con un mercato del lavoro sempre più in sofferenza il governo vara un decreto dal titolo molto promettente: sblocca-Italia.
Interviene in ritardo rispetto allo scadenziario che lo prevedeva per metà luglio, ma proprio per questo permette al governo di reagire ai dati sui consumi degli italiani dopo l’introduzione del bonus di 80 euro, dati che confermano l’impressione che lo sgravio non abbia avuto gli effetti sperati di stimolo della domanda. Se si va al di là dei titoli e dei relativi cinguettii telematici, affiorano però non pochi dubbi sull’efficacia delle misure varate ieri e, a dispetto delle rivoluzioni annunciate, in molte di loro si respira l’odore stantio del déjà vu.
Di sblocco sulla carta ci sono quasi solo i cantieri delle opere su rotaia. Il bonus edilizia viene semmai bloccato, non rinnovato nel 2015 almeno fino all’approvazione della legge di Stabilità. Le 1617 mail ricevute dai Comuni con segnalazioni di ritardi in piccole opere dovranno aspettare. Non ci sono fondi per le misure contro il dissesto idrogeologico. Non è la prima volta che un governo italiano si affida ai trasporti e soprattutto alle Ferrovie dello Stato (che continuano a non assicurare la pulizia dei treni su gran parte delle tratte) per rilanciare un’economia che non riesce a ripartire. I fallimenti del passato, quando peraltro c’erano ben più risorse da destinare a queste opere, non sembrano essere stati metabolizzati.
Sono lastricate le strade di Palazzo Chigi di comunicati in cui si annunciano miliardate di opere pubbliche di immediata attuazione, a partire dalla faraonica legge obiettivo del 2001 per arrivare al “decreto del fare” (e disfare) lasciato in testamento da Letta. Il fatto stesso che si peschi una volta di più dall’elenco annunciato da Berlusconi a Porta a Porta, attuato solo in minima parte (attorno al 10 per cento) in 15 anni, certifica che non basta decretare per avviare i lavori. E anche questa volta, quando si studiano i singoli dossier, ci si accorge che gran parte delle opere non sono immediatamente cantierabili. Tre quarti di queste potranno, nella migliore delle ipotesi, partire nel 2018. Del resto è lo stesso profilo temporale dei finanziamenti a certificare che non si tratta di misure di impatto immediato: 40 milioni nel 2014, 415 nel 2015, 888 nel 2016. Non è questo tipicamente l’orizzonte delle misure congiunturali che vogliono evitare una nuova prolungata recessione agli italiani.
Una volta di più si annunciano queste misure a costo zero, come se destinassero nuove risorse alle infrastrutture senza sottrarle ad altri interventi. Ma come può un governo che chiede un consenso attorno ad un’operazione politicamente costosa come la spending review, come può un esecutivo che dovrà racimolare nella legge di Stabilità qualcosa come 16 miliardi di tagli alla spesa nel 2015, dire agli italiani che ci sono tutti questi miliardi piovuti dal cielo? È fin troppo evidente a tutti che le risorse che verranno destinate a queste opere, anche quelle che vengono da fondi europei, verranno sottratte a destinazioni alternative. È dovere di un governo spiegare perché queste opere sono più importanti di altre cose che si potevano fare con questi soldi. A partire dalle stesse opere infrastrutturali alternative che potevano essere avviate (perché, ad esempio, il terzo valico Milano-Genova e non il raccordo Fiumicino-alta velocità verso Firenze?). Le analisi costibenefici delle singole opere servono proprio a questo, ma non ce n’è traccia. Offrono le stesse valutazioni che ogni imprenditore compie quando deve decidere se fare o meno un investimento. Perché i contribuenti italiani, al pari degli azionisti privati, non devono avere il diritto di sapere come vengono utilizzati i loro soldi rispetto a diversi scenari e opzioni alternative?
La dimensione del dispositivo entrato in Consiglio dei ministri (125 pagine e, come ormai è prassi, non c’è un testo in uscita) e i commi e sottocommi dei diversi articoli danno l’impressione di burocrazie ministeriali tutt’altro che rottamate. Se il decreto avesse mantenuto l’obiettivo della semplificazione normativa, avremmo un precedente cui appellarci sul piano del metodo. Speriamo che dietro al formalismo non si celino troppi giochi di potere: homo homini lupus . E l’impressione è che almeno al ministero dei Trasporti siano ancora le alte burocrazie a governare.
Forse sarebbe stato più saggio ieri limitarsi alle misure sulla giustizia civile, che hanno potenzialmente un rilievo economico molto importante se sapranno davvero intervenire sugli arretrati, e rinviare le altre misure alla prima legge di Stabilità del Governo Renzi, nella quale confluiranno anche le norme sulle società partecipate. Ci dirà qual è la strategia di politica economica di questo governo.

Repubblica 30.8.14
Il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli
“Magistrati lumache? Il premier ci offende. Questo progetto non aiuta l’efficienza”
“Spero che il ricorso alla legge-delega non provochi un rinvio sine die”
intervista di L. Mi.


ROMA È in allarme come ai tempi di Berlusconi? «No, non parlerei di allarme». Qual è il punto della riforma che le piace di meno? «Non mi pare che oggi risolva alla radice la questione dell’efficienza ». Questo è il giudizio del presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli.
Orlando dice invece che è stato “raggiunto un punto di equilibrio tra garanzie ed efficienza”. È così?
«Spero sia davvero così, e non solo un punto di compromesso. Mi auguro soprattutto che il ricorso alla legge-delega sia giustificato da ragioni di complessità e non dalla difficoltà di trovare un accordo. In tal caso si rischia il rinvio sine die ».
Sulla responsabilità civile Renzi lancia di nuovo lo slogan “il giudice che sbaglia paghi”. La giudica una provocazione?
«È soprattutto una semplificazione. Il problema è che su questa materia spesso i luoghi comuni sono diventati delle verità nell’immaginario collettivo”.
Per il premier la nuova legge sulla responsabilità non è punitiva, ma di buon senso. È vero?
«Una legge si giudica in termini di qualità ed efficacia. È affrettato togliere il filtro, senza fare prima una reale verifica di come ha funzionato al di là delle chiacchiere”.
La prescrizione bloccata è una novità significativa?
«È un miglioramento ma debole, perché da un lato non tocca la struttura dell’ex-Cirielli, dall’altro si limita a introdurre due nuove ipotesi di sospensione collegate ad Appello e Cassazione che finiscono però nella legge delega. Ci saremmo aspettati di più”.
A palazzo Chigi molti ministri hanno ironizzato sui “giudici lumaca” ipotizzando una relazione sul loro operato e pure l’azione disciplinare.
«Simili affermazioni sono gravemente offensive. La magistratura italiana è in Europa tra le più produttive e sono i dati indipendenti del Consiglio d’Europa a dimostrarlo. Spetta al legislatore trovare delle soluzioni al carico abnorme. E per questo ci saremmo aspettati degli interventi immediati anche sulle impugnazioni. E comunque gli strumenti disciplinari già esistono”.
Renzi dice che se in un’intercettazione “c’è del tenero” e non un reato allora non si pubblica. Ha ragione?
«Sì, se si tratta di conversazioni irrilevanti».
Quindi è d’accordo a non pubblicare telefonate senza rilevanza penale”?
«La riservatezza va tutelata sino a quando non c’è una necessità di prova».
La convince l’udienza stralcio?
«Su quella sono d’accordo, mentre sono contrario al divieto di usare il testo delle conversazioni nei provvedimenti giudiziari».

Repubblica 30.8.14
Il giudice e i diritti ignorati
di Stefano Rodotà


CON una decisione saggia e rigorosa il Tribunale per i minorenni di Roma ha concesso l’adozione di una bambina da parte di una donna convivente con la madre biologica. Le ragioni di questa decisione sono indicate nitidamente nella sentenza, dove si sottolinea che «la legge italiana consente al convivente del genitore di un minore di adottare quest’ultimo a prescindere dall’orientamento sessuale dei conviventi. Una diversa interpretazione della norma sarebbe non solo contraria al dato letterale, alla ratio legis e ai principi costituzionali, ma anche ai diritti fondamentali garantiti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo». Si può ben dire che si tratta di una decisione storica, nella quale tuttavia non si può cogliere alcuna forzatura o “supplenza” giudiziaria.
LEPAROLEa ppena ricordate mettono in evidenza come la via scelta dal Tribunale fosse l’unica percorribile, se si vuol rispettare quella soggezione del giudice alla legge di cui la Costituzione parla all’articolo 101. Da tempo, infatti, la legge italiana e sentenze nazionali e internazionali hanno indicato con chiarezza quali siano i criteri da seguire perché, in una materia così delicata, possano essere garantiti i diritti fondamentali delle persone, in primo luogo quelli dei minori.
Per evitare equivoci interessati, bisogna subito ricordare che il Tribunale non ha affrontato questioni come il riconoscimento di un legame matrimoniale tra persone dello stesso sesso o l’attribuzione a queste coppie del diritto all’adozione legittimante, materie per le quali ha riconosciuto esplicitamente la competenza del legislatore. La sentenza è fondata sull’articolo 44 della legge del 1983, che prevede l’adozione «in casi particolari » sottolineando che «l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato ». È evidente, quindi, che questo tipo di adozione prescinde tanto dall’esistenza di un matrimonio, quanto dall’orientamento sessuale di chi intende adottare; e l’articolo 44 non lo vieta né ai single né alle coppie formate da persone dello stesso sesso. Ignorare questo dato normativo porterebbe a una illegittima discriminazione tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali.
La sentenza ricorda una decisione della Corte costituzionale del 2010, che ha riconosciuto la rilevanza costituzionale delle unioni omosessuali, poiché siamo di fronte ad una delle «formazioni sociali» di cui parla l’articolo 2 della Costituzione, sicché alle persone dello stesso sesso unite da una convivenza stabile «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia», che comprende anche le decisioni riguardanti i figli. La Corte ha poi specificato che «può accadere che, in relazione a ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale». E, nel 2012, la Corte di cassazione ha insistito proprio su questo punto, dicendo esplicitamente che, trattandosi di diritti fondamentali, le coppie formate da persone dello stesso sesso possono rivolgersi ai giudici «per far valere, in presenza appunto di specifiche situazioni, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata ». Il caso particolare deciso dal Tribunale rientra esattamente tra quelli che la Corte costituzionale e la Corte di cassazione avevano messo in evidenza, sicché non è proprio il caso di parlare di un vuoto normativo.
Questa è una linea che attua quanto è scritto nella carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, nell’articolo 9, ha abbandonato la distinzione tra coppie eterosessuali e omosessuali. E bisogna ricordare che la Corte europea dei diritti dell’uomo, occupandosi nel 2013 proprio di adozioni, ha ritenuto che sia discriminatorio prevedere trattamenti differenziati tra questi tipi di coppia. Le nuove forme di genitorialità trovano così pieno riconoscimento.
Muovendo da questo ineludibile contesto giuridico, il Tribunale ha esaminato con grande scrupolo la situazione concreta, per accertare se l’interesse della bambina fosse adeguatamente garantito. E lo ha fatto con dovizia di riferimenti alla sua condizione psicologica, alla qualità dell’ambiente familiare, alla necessaria stabilità della convivenza che le due donne hanno voluto garantire anche attraverso espliciti impegni giuridici. Nessun rischio di pregiudizio per «insano sviluppo psicologico della piccola», dunque. Che invece potrebbe venire, come ricorda la sentenza dal «convincimento diffuso di parte della società» che stigmatizza questo tipo di unioni. È da augurarsi che questa decisione contribuisca ad un comune cammino di incivilimento, mostrando come alcune reazioni di oggi siano solo manifestazione di quella «politica del disgusto» i cui pericoli sono stati così bene illustrati da Martha Nussbaum.

il Fatto 30.8.14
Riina racconta il pizzo di B
“Ci dava 250 milioni a colpo”
Le confessioni del Capo dei capi, in carcere, al co-detenuto Lorusso
“Ai catanesi dicevo; Se non paga bruciategli la Standa. Saldava ogni sei mesi”
di Giuseppe Lo Bianco


Palermo Berlusconi? “... si è ritrovato con queste cose là sotto, è venuto, ha mandato là sotto a uno, si è messo d’accordo, ha mandato i soldi a colpo, a colpo, ci siamo accordati con i soldi e a colpo li ho incassati’’. Quanti soldi? “A noialtri ci dava 250 milioni ogni sei mesi”. Parola di Totò Riina, che il 22 agosto dello scorso anno nell’ora d’aria nel carcere di Opera smette di parlare di Berlusconi in termini politici, generici o rancorosi (“È un buffone’’) e racconta al co-detenuto Alberto Lorusso la sua verità sul rapporto tra l’ex presidente del Consiglio e Cosa Nostra fin dagli anni 80, ormai consacrato in una sentenza della Cassazione: il pagamento di un “pizzo” milionario a fronte di un patto per ottenere reciproci e futuri vantaggi.
La conversazione depositata agli atti del processo per la trattativa Stato-mafia, parte dalla sorte giudiziaria di Berlusconi, in bilico in quei giorni di agosto dell’anno scorso, e il discorso cade subito sulle somme versate dall’imprenditore milanese ai boss palermitani e sulle analoghe richieste provenienti dai catanesi.
ERA LA FINE degli anni 80, e partendo dalle rivelazioni di un testimone oculare, Salvatore Cancemi, i giudici hanno accertato che dal 1989 era Pietro Di Napoli, uomo d’onore della famiglia di Malaspina, a ricevere da Dell’Utri le somme di denaro per poi “girarle” a Raffaele Ganci, reggente del mandamento della Noce (cui fa capo la famiglia di Malaspina), e infine al destinatario ultimo delle somme, Totò Riina. Che il 22 agosto dell’anno scorso rivela a Lorusso: “I catanesi dicono, ma vedi di... – dice il capo dei capi –. Non ha le Stande, gli ho detto, da noi qui ha pagato. Così, così li ho messi sotto, gli hanno dato fuoco alla Standa. Minchia, aveva tutte le Stande della Sicilia, tutte le Stande erano di lui. Gli ho detto: bruciagli la Standa. A noialtri ci dava 250 milioni ogni sei mesi, 250 milioni ogni sei mesi’’. Dal capo di Cosa Nostra arriva dunque la conferma delle parole del pentito Salvatore Cancemi, che per primo parlò della consegna del denaro proveniente da Milano: “Sicuramente più volte... due, tre volte io ero presente – ha detto Cancemi –. Lui (Di Napoli, ndr) veniva in via Lancia di Brolo, proprio con un pacchettino in un sacchetto di plastica e ci diceva: ‘Raffaele, questi i soldi delle antenne’, e loro poi... Raffaele Ganci questi soldi li metteva da parte, da parte nel senso che non li portava subito a Riina, diciamo per questa minima cosa andare a disturbare Riina... Appena il primo appuntamento, che c’era il primo incontro con Riina, ce li portava e capitava... è capitato più volte che c’ero anch’io... e ci diceva: ‘Zu’ Totuccio, questi sono... Pierino ha portato i soldi delle antenne’”.
IL RACCONTO si fa dettagliato anche nella conversazione di Riina con Lorusso del 22 agosto: “È venuto il palermitano – continua Riina – mandò a lui, è sceso il palermitano, ha parlato con uno... si è messo d’accordo... dice, vi mando i soldi con un altro palermitano, c’era quello a Milano. Là c’era questo e gli dava i soldi ogni sei mesi a questo palermitano. Era amico di quello... il senatore”. E a questo punto Riina chiede: “Il senatore si è dimesso? ”. “Sì, sì”, risponde Lorusso. La replica è un attestato di stima per Marcello Dell’Utri: “È una persona seria’’, dice il boss che di Berlusconi sembra non nutrire la stessa considerazione. “È un buffone”, aveva detto sempre a Lorusso nella conversazione del 6 agosto 2013, dopo che il detenuto pugliese lo aveva informato che a Roma “stanno vedendo come fare per salvarlo”.

La Stampa 30.8.14
Forza Italia e il Nuovo centrodestra
di Mattia Feltri

Fra Forza Italia e il Nuovo centrodestra, dopo l’approccio dei giorni scorsi («farabutti», «traditori», «fascisti», «comunisti», «alba dorata», «democristiani», «pezzenti», «leccapiedi», «imbecilloni», «teste di piffero», «asini», «razzisti», «fetenti», «ridicoli», «moscerini», «maiali», «cozze», «dementi», «poppanti», «venduti», «capre»), a breve dovrebbe esserci un incontro. Probabilmente sarà sui dodici round.

il Fatto 30.8.14
Tutto si spiega
di Ezio Pelino

Ci domandiamo come mai l’Italia, apprezzata per la cultura, per i geni della scienza e dell’arte, non ce la fa a competere con gli altri Paesi d’Europa. Se solo pensiamo a chi regge l’università della Capitale ce ne facciamo una ragione. Il rettore, Luigi Frati, ha aggredito, con urla e spintoni, il commissario di polizia che stava interrogando un romeno che, su incarico dello stesso rettore, distribuiva volantini contro il candidato rettore inviso al Frati. Un comportamento da teppista. Ha gratificato le forze dell’ordine con l’aulico linguaggio proprio degli uomini di cultura: “Polizia di merda”. È stato denunciato per abuso d’ufficio, resistenza e calunnia, ma Frati lo conosciamo da tempo: campione di assenteismo, per il giro delle tante cliniche private, primatista di nepotismo, ha assicurato a moglie, figli e nuore una facile straordinaria carriera presso la sua stessa università. Ma se un personaggio di questo tipo è da dieci anni il rettore della terza università d’Europa lo si deve al corpo accademico che lo elegge e rielegge. I suoi elettori si rispecchiano in lui e viceversa. Questo è il fiore della cultura italiana.

Corriere 30.8.14
Dal concepimento ai matrimoni gay
Il diritto di famiglia riscritto dai tribunali
La legge 40 smontata pezzo per pezzo
di Elena Tebano


Il caso dei permessi di soggiorno
Da oggi in Italia c’è una bimba che ha legalmente due mamme (gay) e porta entrambi i loro cognomi. Si chiama «adozione cogenitoriale» o, per dirla all’inglese, stepchild adoption , adozione del figlio del partner dello stesso sesso. L’aveva promessa l’attuale presidente del Consiglio Matteo Renzi nel novembre scorso, durante la campagna per le primarie del Pd. Ma è arrivata grazie a una sentenza di un tribunale, quello dei Minorenni di Roma, mentre il disegno di legge del Pd che la prevede è ancora fermo in Commissione Giustizia.
Ed è solo l’ultima di una serie di modifiche al diritto di famiglia riconosciute a suon di pronunciamenti dei giudici, invece che grazie a leggi del Parlamento. Molte di queste riguardano le coppie omosessuali, come la trascrizione del matrimonio celebrato all’estero, il permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare all’extracomunitario sposato in un altro Paese, o il diritto a iscrivere il coniuge alla propria mutua professionale. Altre affrontano le nuove possibilità aperte dalla tecnologia, come la fecondazione assistita: la legge 40 che tra l’altro vietava l’eterologa è stata smontata pezzo per pezzo nelle aule di giustizia, fino a quando due settimane fa il Tribunale di Bologna ha sancito che questo tipo di fecondazione poteva essere praticata subito, nonostante il governo avesse annunciato una sorta di moratoria. I magistrati hanno superato i tempi della politica. «Si tratta di casi in cui sono in questione diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle carte dei diritti: per questo i magistrati sono chiamati a tutelarli anche in assenza di norme specifiche, o contro di esse se si rivelano sotto alcuni profili incostituzionali, come la legge 40», dice Barbara Pezzini, studiosa di Diritto costituzionale e preside della Facoltà di Giurisprudenza a Bergamo. Eppure la sentenza di ieri ha suscitato anche molte critiche, con l’associazione dei Giuristi cattolici che l’ha accusata di aver compiuto una «fuga in avanti», che «crea un paradigma presente in altri Paesi, dove però c’è una legge che lo riconosce».
Riconosciuti i doveri di cura
Il Tribunale di Roma infatti ha riconosciuto la responsabilità genitoriale anche alla cosidetta «madre sociale» (quella che non ha legami di sangue con la figlia). La stepchild adoption è molto diversa dall’adozione comune (l’affido a una coppia di un bimbo che non ha relazioni con i suoi futuri genitori, che rimane illegale), ma la decisione è senza precedenti per l’Italia. Si basa però su una legge che ha oltre trent’anni, quella su adozione e affidamento dei minori del 1983. L’articolo 44 lettera D stabilisce, secondo quanto ricorda il collegio nella motivazione della sentenza, che bisogna sempre fare l’interesse del minore e che se c’è un rapporto consolidato del bambino con un adulto che gli fa da genitore, si possano riconoscere a quella persona dei doveri, economici e di cura, nei suoi confronti. «L’unica cosa che i giudici dovevano accertare prima di arrivare a questa conclusione, è se avere due genitori dello stesso sesso danneggiava la bimba — sostiene Marco Gattuso, magistrato del Tribunale di Bologna e direttore di Articolo29.it, sito di analisi sulla giurisprudenza dei diritti lgbt —. Sulla base di precedenti di legge italiani e europei hanno affermato che la genitorialità gay è sana e quindi neutra. Prima di garantire l’adozione hanno poi controllato, esattamente come succede con i figli delle coppie eterosessuali, che il bambino fosse ben curato e tutelato».
La trascrizione delle nozze
È stato un tribunale, quello di Grosseto, a ordinare la prima trascrizione nel registro di stato civile di un matrimonio tra persone dello stesso sesso sposate all’estero, che ha poi «incoraggiato» una serie di sindaci ad agire di propria iniziativa. Ha cominciato il Comune di Fano, poi Napoli e Bologna. La battaglia giudiziaria, però, è tutt’altro che finita: contro l’ordinanza di Grosseto ha fatto ricorso la Procura (verrà discusso a settembre), mentre il pm di Pesaro mercoledì scorso ha impugnato la trascrizione fatta dal primo cittadino: l’udienza si terrà il 14 ottobre.
La Corte europea dei diritti
Intanto da un anno a Strasburgo è arrivato il plico con il ricorso di Antonio Garullo, 48 anni, e Mario Ottocento, 41: la prima coppia gay italiana a sposarsi all’estero, nel 2002 in Olanda. Nel 2011 la Cassazione ha negato il riconoscimento delle loro nozze (che va ben oltre la trascrizione, di fatto solo formale, concessa dai sindaci). Ora la chiedono alla Corte europea dei diritti umani. Se venisse accolto il loro ricorso il matrimonio gay sarebbe legale anche in Italia. Pesa anche la sentenza 138 del 2010 della Corte costituzionale: ha sancito che la convivenza di una coppia gay deve essere considerata tra le formazioni sociali tutelate dalla Costituzione, «ottenendone — nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». «I giudici hanno affermato che serve un riconoscimento giuridico per le coppie gay: in termini tecnici parlare di “diritto fondamentale” significa indicare che deve essere garantito al più presto», spiega la costituzionalista Pezzini. Hanno però lasciato al legislatore il compito di stabilire in che termini: se con nozze o unioni civili.
La discussione parlamentare
Il Parlamento non ha ancora deciso come regolare le nuove famiglie. Tra il 1988 e il 1996 è stata presentata una sola proposta di legge a legislatura sulle unioni gay. Tra il 2006 e il 2008 sono state depositate 21 proposte e un disegno di legge, quello del governo Prodi sui Dico, poi naufragato. Tra il 2008 e il 2013 si è cominciato a discutere di matrimonio (3 progetti, 16 per le unioni civili). Al momento in Parlamento ci sono tre testi su matrimonio e adozioni gay, e almeno altre tre sulle unioni civili, tra cui quella Cirinnà che prevede la stepchild adoption . Non sono mai stati calendarizzati per la discussione in aula. E anche la legge Scalfarotto contro l’omofobia, approvata alla Camera sotto il governo Letta, si è arenata in Senato.

Corriere 30.8.14
Approvata la riforma dei Beni culturali: più autonomia ai musei
di Pierluigi Panza


Approvata ieri dal Consiglio dei ministri la riforma dei Beni culturali predisposta dal ministro Dario Franceschini. Rispetto alla versione iniziale, presentata qualche settimana fa, il testo non è stato molto modificato. Ma il premier Renzi — che da sempre mal sopporta le sovrintendenze, giudicate «un potere monocratico che passa sopra chi è eletto» — è riuscito ad accentuare forme di autonomia e coinvolgimento dei privati rispetto alla prima bozza. In sostanza è stata rafforzata l’autonomia dei musei e dei siti archeologici, rendendo possibile una gestione diretta dei siti da parte dei privati favorendo una gestione mista (sul modello dell’Egizio di Torino) dei musei.
Il ministro Franceschini ha espresso la sua felicità in un tweet: «Approvata in Consiglio dei ministri la riforma del #Mibact. Adesso ci sono le basi per investire in modo moderno su tutela e valorizzazione». In una nota, il Consiglio dei ministri ha scritto che «il provvedimento rende l’amministrazione dei beni culturali più snella, efficiente e economica attraverso: l’ammodernamento della struttura centrale e la semplificazione di quella periferica; l’integrazione definitiva tra cultura e turismo; la valorizzazione dei musei italiani (20 musei e siti archeologici di interesse nazionale dotati di piena autonomia gestionale e finanziaria con direttori altamente specializzati e selezionati con procedure pubbliche); il rilancio delle politiche di innovazione e formazione; la valorizzazione delle arti contemporanee; la revisione delle linee di comando tra centro e periferia (semplificazione delle procedure per ridurre i contenziosi) ed il taglio delle figure dirigenziali (37 dirigenti in meno)». Un aspetto, quest’ultimo, contestato dai sindacati: si sopprimono 38 soprintendenze (50%) nei settori delle arti e quelle del settore archivistico (19, pari al 47% delle sedi) facendo «un passo decisivo verso lo smantellamento dell’apparato della tutela».
Vediamo alcuni aspetti del provvedimento.
Il decreto prevede che i direttori regionali (un ruolo istituito con la riforma del Titolo V) diventino segretari regionali: non saranno dirigenti di prima fascia, dovranno svolgere gli stessi compiti e, in più, incombenze nel turismo. Prevede anche, come detto, che 20 musei (è stato aggiunto anche il Palazzo Ducale di Mantova, dopo le polemiche) abbiano direttori autonomi. La trasformazione più importante riguarda la creazione di nuove direzioni generali e l’accorpamento delle soprintendenze ai Beni architettonici con quelle ai Beni storico-artistici, un provvedimento molto osteggiato dai sovrintendenti di queste ultime e da parte del mondo dell’arte. Questa fusione non sarà immediata, bensì rimandata a un atto successivo che prevede un nuovo decreto ministeriale.
Tra i punti controversi, quello che riguarda a chi spetti l’ultima parola sui prestiti, visto che si fa spesso riferimento a un organo decisore «sentito il parere» di un altro. Molti sono anche gli organi collegiali, il che potrebbe generare un certo assemblearismo nelle decisioni. Anche i direttori dei Poli museali potrebbero trovarsi in qualche difficoltà vedendosi sfilare il museo principale della città, con i cui introiti si coprono oggi le perdite degli altri, mentre per i direttori autonomi dei musei il rischio da non correre è che si inneschi una gara di «valorizzazione» che metta in secondo piano la funzione educativa e di tutela.

Repubblica 30.8.14
Cultura, nei musei arrivano i privati
di Francesco Erbani


ROMA . Una forte autonomia per musei, siti archeologici e monumentali, che prevede anche l’ingresso di privati nella loro gestione. In venti strutture, dagli Uffizi alla Galleria Borghese, da Capodimonte a Brera, i direttori non verranno più dai ranghi delle soprintendenze, ma potranno essere scelti con concorsi pubblici aperti agli stranieri. Spariscono le soprintendenze storico- artistiche e saltano 37 posti dirigenziali in ossequio alla spending review, ma la struttura del vertice romano non esce ridimensionata. La riforma del ministero per i Beni culturali e il turismo è stata approvata ieri dal Consiglio dei ministri. Tutto faceva pensare a un nuovo rinvio, dopo quello di luglio, ma a sorpresa, è arrivato il varo. Quasi a spiazzare le critiche che si sono abbattute sulla riforma da parte di associazioni ambientaliste, di tutti i soprintendenti storico-artistici e di autorevoli studiosi.
Il testo definitivo ancora non c’è (lo illustra questa mattina il ministro). Ma filtrano le indiscrezioni su quel che di diverso c’è rispetto al documento presentato a luglio. E quella sui privati è la novità più rilevante: sarebbe stato Matteo Renzi a premere in questa direzione.
Si va dunque verso un rovesciamento della struttura che finora ha tutelato e valorizzato i beni culturali. Gli Uffizi, la Galleria Borghese, la Galleria d’arte moderna di Roma, le Gallerie dell’Accademia di Venezia, e poi Capodimonte, Brera, la Reggia di Caserta e altri siti saranno sganciati dalle soprintendenze, faranno storia a sé rompendo un vincolo territoriale e di ricerca che ha contraddistinto il patrimonio italiano. Rispetto al testo di luglio sembra che la lista sia modificabile. Pompei e il Museo Nazionale Romano restano ancorati alle rispettive soprintendenze, mentre entra il Palazzo Ducale di Mantova. I direttori dovranno essere storici dell’arte esperti di gestione museale e di valorizzazione, ha insistito Franceschini, secondo il quale questo non sarebbe un mestiere adatto a chi lavora in soprintendenza (ma, fanno notare molti, le strutture che raccolgono più visitatori in Italia sono guidate proprio da dirigenti delle soprintendenze).
Venendo incontro alle proteste, Franceschini ha reintrodotto la figura del soprintendente archivista (ce n’è uno in ogni regione), che nel testo di luglio era stata cancellata. Per il resto le direzioni regionali vengono abbassate di rango, trasformandosi in segretariati, con funzioni e a guida amministrativa, lasciando senza risposta le obiezioni di chi faceva notare che ci saranno conseguenze negative sulla redazione dei piani paesaggistici in collaborazione con le Regioni. Viene istituita una direzione generale per l’educazione e la ricerca. Ed è ripristinata quella per l’arte e l’architettura contemporanea, alla quale si aggiungono competenze tutte da chiarire sulle periferie urbane. Nascono i poli museali regionali, un organismo inedito.
Contro la scomparsa delle soprintendenze storico-artistiche sono state sollevate molte proteste. Da ora in poi ci saranno solo strutture miste, con l’architettura e il paesaggio. Ma, temono gli storici dell’arte, queste verranno guidate prevalentemente se non esclusivamente da architetti (come accade in quelle già esistenti), i più titolati ad avere competenze sul paesaggio.

Corriere 30.8.14
Merkel arruola gli psicologi per «indirizzare» i tedeschi
Ma gli uffici non si trasformeranno in studi di psicanalisi
di Paolo Lepri


BERLINO — «Governare efficacemente» è, almeno nelle intenzioni, l’obiettivo di tutti i leader del mondo. Ma per raggiungerlo la cancelliera tedesca ha avuto un’idea che sta facendo discutere e che è stata raccontata nei giorni scorsi dalla Bild con questo titolo: «Angela Merkel vuole arruolare gli psico-trainer».
Per essere vero è vero, al di là di qualche piccola esagerazione del quotidiano popolare che sembra sempre avere gli occhi dappertutto. E’ stato pubblicato un annuncio per cercare tre esperti — uno psicologo, un antropologo e un economista comportamentale — che possano contribuire a migliorare le tecniche di persuasione della squadra guidata dalla donna più potente del mondo. La questione è seria. Non a caso è intervenuto anche il vice portavoce del governo, Georg Streiter, per spiegare il contesto in cui è avvenuta questa inconsueta ricerca di personale. Rispondendo ad una domanda, Streiter ha in primo luogo assicurato che «non verranno collocati divani in cancelleria». Un modo per dire che gli uffici dove regna Angela Merkel non si trasformeranno in uno studio di psicanalisi. Però ha confermato l’esistenza di un progetto-pilota, messo a punto dal dipartimento di pianificazione politica, per sperimentare «un nuovo approccio». Lo scopo è proprio quello di indirizzare positivamente i comportamenti dei cittadini.
Cosa c’è dietro tutto questo? Un libro, diventato qualche anno fa un bestseller negli Stati Uniti, scritto dall’economista Richard Thaler, docente universitario, e dal giurista Cass Sunstein, un professore che ha svolto un ruolo di primo piano anche nell’ufficio legale della Casa Bianca. Si intitola «Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità». La tesi dei due studiosi è che ognuno di noi prende spesso decisioni sbagliate sulle questioni che invece ci stanno a cuore. Le persone sono condizionate da tanti fattori e non sono in grado di capire sempre quale sia la soluzione più giusta. Hanno bisogno di una «spinta gentile» appunto, che li porti a scegliere ciò che va maggiormente bene sia per loro che per la società. Possono essere guidati, in sintesi, da quello che è stato definito una sorta di «paternalismo libertario».
L’iniziativa del governo Merkel non deve allarmare. Non si tratta certo di fare il lavaggio del cervello alle persone, ma di usare metodi psicologici per comprendere i comportamenti e migliorare il processo decisionale. Un esempio classico, legato alle teorie di Thaler e Sunstein, è quello del dibattito sulla donazione degli organi. Come ha ricordato anche la Frankfurter Allgemeine Zeitung , ci possono essere in questo campo due opzioni diverse: invitare i cittadini ad esprimere la propria disponibilità o considerare ognuno un donatore a meno che non abbia comunicato la sua rinuncia. Da un punto di vista formale, la libertà di scelta rimane in tutti e due i casi, ma il numero delle persone che donano organi è molto più ampio nella seconda variante. Cambiando l’approccio al problema, si ottengono risultati più buoni. Fenomeni analoghi possono verificarsi anche nella scelta del sistema pensionistico o nel rapporto con il fisco.
C’è da dire che il governo tedesco non è stato il primo a promuovere una riflessione di questo tipo. Nel 2010 il primo ministro britannico David Cameron ha voluto la nascita di un team di analisi comportamentale. Esperimenti analoghi sono stati compiuti sia dall’amministrazione Obama che in Danimarca. In effetti, però, questo paternalismo «soft» sembra adattarsi particolarmente al modo di dirigere il Paese caratteristico di Angela Merkel e alla sua capacità di persuadere e tranquillizzare l’opinione pubblica. Senza mai avere fretta. Proprio mercoledì scorso, partecipando ad una conversazione organizzata dalla rivista Cicero , la cancelliera ha detto che se non è pronta per farlo, non c’è bisogno di decidere rapidamente. Ora ascolterà anche la voce degli psico-trainer.

Repubblica 30.8.14
Ed Husain
Parla l’ex militante estremista, ora analista del think tank di Tony Blair
“In Europa non si sentono integrati. E subiscono il fascino dell’Islam radicale”
“Quei giovani ai margini preda degli imam”
Il messaggio dei predicatori trova terreno fertile: per loro conta solo il linguaggio dello scontro
di Jim Sciutto


«MOLTI giovani immigrati non si sentono europei. Alle spalle del reclutamento di tanti jihadisti occidentali c’è un problema di integrazione...». Ed Husain è l’autore inglese di un libro pubblicato nel 2007 intitolato The Islamist, l’islamista: dove racconta la sua esperienza personale di recluta della Jihad a metà anni Novanta e perché ha deciso di non perseguire quella strada. Un ex fondamentalista, insomma, che dopo aver voltato le spalle alla Jihad è diventato consigliere dalla Tony Blair Foundation e della Council on Foreign Relation americana.
Alla luce della sua esperienza, può aiutarci a capire in che modo, oggi, un giovane che cresce in Occidente può lasciarsi coinvolgere in qualcosa di estremo come la Jihad?
«È la mancanza di senso di appartenenza all’Europa, che rende i giovani sensibili alle parole dei predicatori più radicali che arrivano dai paesi arabi proprio per reclutare giovani. Per questo abbiamo una generazione di giovani musulmani affascinati dal messaggio accattivante dei predicatori jihadisti » In cosa consiste questo messaggio?
«“Voi non siete europei —dicono — non siete inglesi, non siete francesi, non siete tedeschi, siete musulmani. Non avete doveri verso il paese dove vivete, ma solo verso l’Islam. Dovete dedicarvi alla costruzione di una leadership, un califfato, spirituale, religioso e politico. Combattere per costruire un mondo musulmano: che sia contro Israele, Stati Uniti, Russia, Cina”. Così imparano a pensare che l’Islam è solo guerra, scontro aperto, morte».
Il problema sembra particolarmente grave in Gran Bretagna perché qui le comunità musulmane sono più chiuse. In America i musulmani sono meno isolati, prevale un senso di identità nazionale. Però anche molti americani vanno a combattere a fianco dell’Is. Perché?
«Spesso si tratta di convertiti, che sono sempre i più fanatici. Oppure immigrati arrivati di recente, che entrano nel paese e avvertono il medesimo disagio dei giovani immigrati europei, il medesimo senso di rifiuto. Altri sono piccoli delinquenti, gente che viene avvicinata in carcere. Senza dimenticare il reclutamento online e nei campus universitari. Ma sempre sono soggetti non integrati, che non hanno un tessuto sociale forte, persone che hanno già in sé motivi di odio. E che non hanno una forte conoscenza della religione. Il fanatismo religioso tende a fare più breccia nelle menti incolte» Lei ha scelto di abbandonare il radicalismo e uscire da un gruppo musulmano estremista. Chi l’ha aiutata?
«Innanzi tutto la mia famiglia: i miei genitori, i miei fratelli e mie sorelle, che non hanno mai accettato la mia scelta e mi hanno sempre criticato energicamente. Respingevano la mia scelta, il mio attivismo ».
È stato un percorso travagliato?
«Lungo più che travagliato. Sulla mia strada di fondamentalista ho incontrato persone che mi hanno fatto riflettere sulla mia visione univoca, ad esempio verso Israele e Hamas. Poi mentre ero in Medio Oriente, cosa ironica e paradossale, ho incontrato degli studiosi islamici che mi hanno aperto gli occhi sulla differenza tra l’Islam tradizionale, praticato da un miliardo di persone, e la versione ideologicamente — e tecnologicamente e — esaltata: quella forma di attivismo estremo dov’ero finito anche io».
Crede che l’Occidente stia facendo le mosse giuste per fermare i tanti giovani che entrano nei gruppi estremisti?
«Non mi sembra che si stiano prendendo misure intelligenti, anche se si potrebbe. Si combatte l’Islam puntando a vecchie soluzioni, che secondo me appartengono al passato, come “bombardiamoli, diamoci dentro…”».
E invece cosa si dovrebbe fare?
«Quello che andrebbe fatto, invece, è combattere una vera battaglia delle idee all’interno dell’Islam stesso, coinvolgendo i musulmani. Perché non va dimenticato che la grande maggioranza dei musulmani è dalla parte dell’Occidente. Bisognerebbe scatenare una sfida ideologica, capace di conquistare menti e cuori. Soprattutto essere capaci di offrire un’alternativa, una versione migliore dell’Europa, una strada positiva da seguire alternativa a quella feroce e disumana dell’Is».
(Traduzione di Anna Bissanti)

il Fatto 30.8.14
Gaza. Abu Mazen contro Hamas: “Morti inutili”

”Si poteva evitare tutto questo: 2000 martiri, 10.000 feriti, 50.000 case danneggiate o distrutte”. In un’intervista mandata in onda da Palestine Tv il presidente palestinese, Abu Mazen, ha criticato Hamas per avere prolungato la guerra con Israele. LaPresse

Corriere 30.8.14
La modernità patrimonio comune europeo
L’idea di società prodotta dall’Illuminismo non si è esaurita con la globalizzazione
di Vittorio Gregotti


Nella mia generazione vi è stata una lunga contesa intorno a chi fossero i primi moderni. Nella rivista «Casabella» degli anni Cinquanta, le pressioni della mia generazione si erano rivolte anzitutto, forse un po’ troppo prudentemente, ai maestri dei maestri, e quindi alla generazione degli architetti come Van de Velde o Wagner, Tony Garnier o Berlage, sino a Perret e Behrens. Tutto questo nonostante gli uomini di lettere, gli storici e i filosofi si spingessero a identificare i moderni con il pensiero illuminista, e persino con Montaigne.
Per la mia generazione credo, e certamente per me, la sistemazione ordinata e convincente per l’architettura dell’idea di modernità mi fu proprio regalata dal libro del nostro eroe di oggi: Joseph Rykwert. Nella nostra ininterrotta amicizia, che risale a più di sessantacinque anni or sono, ricordo che avevamo, per frammenti discontinui, più volte discusso in molte occasioni pubbliche e private (a partire dal dibattito su questo argomento al Ciam di Hoddesdon) la questione della storia e del contesto fisico e culturale che sarebbe divenuta, in forme molto diverse, materiale essenziale dei progetti della mia generazione. Come anche i celebri libri di Joseph: sulla città, su La casa di Adamo in Paradiso o sulla «seduzione del luogo», solo per citarne alcuni, ci hanno insegnato poi.
Il libro I primi moderni fu pubblicato nel 1980, come una risposta radicalmente alternativa all’ideologia del postmoderno (un’ideologia ben lontana anche dalla descrizione critica di Jean-François Lyotard) che a quella data stava diventando rispecchiamento architettonico dell’era del capitalismo finanziario globale, capace di dimenticare gli ideali della modernità e fare di essi un esercizio di stile mercantile.
È un libro che riletto oggi è lontano da ogni pedanteria accademica e propone con grande talento narrativo una naturale intimità con i personaggi, gli eventi e le situazioni della cultura architettonica europea e delle sue relazioni con la società del XVII e XVIII secolo; comprese le dispute, le ambizioni, i desideri di esibizione, gli «Splendori effimeri», per usare il titolo di un capitolo del libro, ma anche le coraggiose interpretazioni di uno storico-antropologo come Joseph Rykwert che la caratterizzarono. Compresa, in primo piano La verità messa a nudo dalla filosofia cioè dalla Encyclopédie di Diderot e D’Alembert e di Jacques-François Blondel per l’architettura.
Non vi è dubbio che la tradizione iconologica, che con alcuni metodi dell’antropologia ha spazi di tangenza evidenti e che utilizza tutte le testimonianze figurative come fonti storiche per la ricostruzione della storia della cultura, la valorizzazione del contenuto (ben distinto dal soggetto) dell’opera, abbia, nel lavoro di Rykwert storico dell’arte, un’importanza riconoscibile: certo comunque, nella tradizione warburghiana, sia dalla parte di Edgar Wind che da quella di Erwin Panofsky.
Al centro del libro vi è la complessa costituzione della nozione stessa di modernità e delle sue diverse interpretazioni nella storia. Per noi, oggi, tutto questo è accentuato dalle simulazioni che attraversano l’idea stessa di modernità: dalla sua negazione, alla sua falsificazione tecnico-mercantile e dalla sua identificazione con l’idea di novità e di accelerazione, di rivalutazione nella forma del tutto opposta del «meraviglioso e del distante» (in una sorta cioè di caricatura del Romanticismo) purché comprabile e provvisorio. Inoltre i «percorsi della libertà» dell’architetto descritti da Rykwert dopo più di cinquecentocinquant’anni sono oggi sospinti dallo stato di nuove incertezze, promosse dalla liquefazione delle specificità e dei fondamenti del nostro mestiere, anche questa volta, come scrive sempre Rykwert, «dall’iniziato al dilettante».
Mi rendo conto che la mia è un’interpretazione con lo sguardo di oggi dell’insieme delle raffinate riflessioni che I primi moderni ci offrono dei significati della parola modernità; non solo quelle di classico e neoclassico, ma anche di romantico, di neogotico o di eclettismo. Ma è la capacità di suscitare tali interpretazioni critiche, non solo di epoche storiche diverse, ma come fondamento del nostro lavoro di architetto di oggi che rende questo libro prezioso e vivo dopo trentacinque anni.
All’inizio del libro Rykwert scrive: «La parola classico e classicista comportano un senso di autorità e di discriminazione, vale a dire di distinzione di classe. La parola neoclassico è associata a rivoluzione, oggettività, illuminismo, uguaglianza». I nostri anni hanno invece trasferito «il piacere della precisione» da «fondamento di un’architettura universale» (per seguitare a citare i significativi titoli dei capitoli del libro) a servizio del mercato delle immagini.
L’interesse di Rykwert è soprattutto concentrato sul passaggio dall’idea di modernità tra il XVII ed il XVIII secolo, collocando con precisione anche il ruolo storico degli architetti dell’Illuminismo. Naturalmente a questo segue una riflessione sui diversi gradi interpretativi intorno alla parola «romantico» a cui potrebbe seguire la collocazione critica delle ragioni del Neogotico; sia quelle neocattoliche di Pugin che quelle strutturiste di Viollet-le-Duc, come anche le interpretazioni positiviste e del dominio della geometria descrittiva di Louis Durand, utilissime per le ragioni dell’eclettismo della seconda metà del XIX secolo.
Il libro mette anche in evidenza come l’intervento della nozione di gusto alla fine del XVIII secolo, contro ogni valore assoluto proposto dall’idea di classicità, così come lo spostamento degli architetti dalle corporazioni alle accademie abbiano indebolito la posizione dell’architetto nei suoi fondamenti di mestiere. Un indebolimento che le condizioni di produzione, specie quelle di grande scala, hanno oggi accentuato con la collocazione dell’architetto come ideatore di immagine di un prodotto già definito nei suoi elementi di progetto.
La sua conclusione richiama l’opera dell’architetto alla centralità del problema della forma ma è l’intero sviluppo del libro a richiamare continuamente la complessità di quel problema e delle discussioni appassionate intorno alle sue interpretazioni di parte degli architetti, soprattutto quelli del diciottesimo secolo, con cui, pur con tutte le differenze delle nuove condizioni, economiche e tecnologiche e di profonda crisi di valori collettivi a cui siamo oggi di fronte, è necessario confrontarsi.
Che cosa quindi ha insegnato a tutti noi il libro I primi moderni di Joseph Rykwert?
Anzitutto qualcosa di importante attorno al patrimonio culturale comune della cultura europea, ancora più importante oggi, nel mondo globale, per chi crede al contributo possibile della specificità strutturale della cultura dell’Europa. Ma il libro è anche un contributo alla complessità e contraddittoria interpretazione del bene comune e dell’idea di progresso civile, non solo quindi del progresso dei mezzi ma di quello dei fini di un bene collettivo come l’architettura, fondato sui frammenti significativi di verità che essa è in grado di proporre.
In modo più specificamente rivolto alla nostra pratica artistica tutto questo ci suggerisce che la creatività del processo progettuale è forma di modificazione della coscienza critica fondata sul terreno della storia, un terreno insostituibile ma che ci lascia liberi e responsabili della direzione da assumere per la ricerca di qualche elemento strutturale di conoscenza del presente, cioè di ogni nostro futuro possibile e necessario.

Corriere 30.8.14
Genio e carisma, ecco Karajan
Un musicista inimitabile che era anche un uomo generoso
il primo ad affrontare colle sue incisioni quella che Heidegger chiama la sfida della tecnica
di Paolo Isotta


Era il 18 agosto 1973. Ero a Salisburgo da studente: incredibile, appena un anno dopo ci sarei tornato da critico musicale de «Il Giornale», ignorante e sputasentenze; e sarei andato a mangiare al ristorante Eulenspiegel , cosa che faceva parte dei miei sogni: «Il giorno che sarò critico musicale, me lo potrò permettere…».
Herbert von Karajan aveva un segretario che si chiamava André von Mattoni, un gentiluomo viennese. Prima della guerra mio zio Vittorio Isotta, allora spensierato e ignaro del fatto che sarebbe stato un eroico combattente e grande invalido di El-Alamein, l’aveva conosciuto a Vienna ed erano diventati amici. Così io mi rivolsi a lui e Mattoni m’infilò, facendo entrarmi dal palcoscenico, alla prova generale della nuova opera di Carl Orff, l’Oratorio scenico o «sacra rappresentazione» De temporum fine Comoedia , in prima esecuzione assoluta. Si tratta di un capolavoro di arte ed erudizione inarrivabili, in latino, in greco e in tedesco, e i critici musicali (in prima linea gl’italiani) che lo stroncarono siccome reazionario non erano nemmeno all’altezza di conoscere un decimo dei testi tardo-antichi da Orff scelti (oggi la gran parte dei direttori d’orchestra che dirigono i Carmina Burana non può leggerne il testo latino: profondamente tragico e non burlesco com’essi — non — intendono: e quel latino medioevale: onde le loro distorsioni interpretative partono addirittura dalla radice). Riuscii a stringere la mano a Orff, sorridente e cordialissimo; non a Karajan, ché mi faceva troppa soggezione. Conoscevo molti suoi dischi ed ero stato influenzato da coloro che lo qualificavano di decadente; mi trovai per la prima volta di fronte a lui, alla grandezza assoluta.
Che fosse la grandezza assoluta, ci misi qualche anno a capirlo ma ci arrivai. Quell’occasione mi aveva manifestato anche una delle straordinarie qualità del sommo, la generosità: sapeva benissimo che in un mondo nel quale dominavano gli intellettuali fare una prima assoluta di Orff lo avrebbe reso vieppiù impopolare: avrebbe dovuto farne una di Luigi Nono (con rispetto parlando!) per piacere loro. La sua generosità la ritrovai tante volte, per esempio quando aprì con una somma restata segreta la sottoscrizione per Franco Ferrara colpito da ictus e povero in canna.
Quando Karajan esordì l’Europa (e gli Stati Uniti: Toscanini e Stokowski) era piena di giganti della bacchetta: Furtwängler, De Sabata, Marinuzzi, Serafin, Kleiber, Santini, Kabasta, Guarnieri, Klemperer, Walter, Mengelberg, Mravinski, Keilberth, Knappertsbusch, Beecham, Boult, Ansermet, Monteux…; quando morì, il 16 luglio 1989, lo spazio s’era già alquanto diradato. Era appena scomparso, cinquantanovenne, Giuseppe Patanè; Bernstein era quasi in articulo mortis ; e Eugen Jochum se n’era andato nel marzo di due anni prima, essendo negli ultimi vent’anni stato, con Günther Wand e Klaus Tennstedt, il suo più degno fratello nel repertorio tedesco; ma nessuno dei tre si misurava in quello italiano.
Io allora credo che Karajan sia stato con Gino Marinuzzi il più grande direttore d’orchestra di tutti i tempi. Dico Marinuzzi e non De Sabata solo per l’ampiezza del repertorio di Gino, che andava da Monteverdi a Wagner e Strauss e Orff alle prime esecuzioni assolute passando per riprese moderne di Bellini, Donizetti, Paisiello: mentre in bravura i due erano pari non fosse che Marinuzzi non possedeva le occasionali discontinuità del collega. E questo perché Karajan era completo: trascorreva dalla Passione secondo Matteo di Bach ai Pagliacci di Leoncavallo per Wagner, Strauss e Verdi, Johann Strauss, Puccini, Léhar e Mahler e Schönberg. Il giorno nel quale scomparve di mattina e all’improvviso (la moglie era dal parrucchiere) avrebbe dovuto dirigere la prova generale de Un ballo in maschera di Verdi, spettacolo inaugurale di quel festival di Salisburgo da lui, si può dire, rifondato. Qualsiasi cosa dirigesse, si distingueva dagli altri per l’estrema rifinitura unita a un carattere di autenticità e vitalità unico. Bastava la sua presenza sul podio perché l’orchestra automaticamente cambiasse suono: come con Ferrara e Guarnieri. Il suo gesto riassuntivo e sempre più rastremato era inimitabile; restava immobile sul podio senza spostarsi di un millimetro. Oggi molti direttori sul podio fanno le passeggiate a Villa Borghese e stanno colla bocca aperta cantando le parole del testo o ruminando quasi avessero una dentiera fuori posto. E si capisce che un mondo che adora costoro abbia dimenticato Karajan; oggi se cerchi le Sinfonie di Beethoven e chiedi la sua edizione sovente il giovane commesso ti guarda con compatimento.
Negli ultimi anni Karajan fu eroico. Operazioni alla spina dorsale l’avevano costretto a stare rattrappito e i movimenti delle braccia gli procuravano dolori lancinanti. Era terribile vederlo stare addossato alla parete per percorrere la traversata del deserto verso il podio e issarsi su una sorta di seggiolino anatomico dal quale dirigeva (lo stesso eroismo lo compie oggi James Levine dalla carrozzella): eppure le sue ultime interpretazioni da quella sedia di tortura furono immense: io ricordo la Missa solemnis di Beethoven e il Parsifal in forma di concerto, che dovette spezzare in due serate perché non ce la faceva letteralmente più a sopportare lo sforzo. Era già divenuto un estraneo a un mondo musicale nel quale i registi divenivano i padroni degli allestimenti operistici, da Wagner a Verdi: una delle sue tante battaglie perdute per compiere la quale aveva fondato a Salisburgo il festival di Pasqua grazie al quale le sue interpretazioni nate dal vivo passavano al disco e gli allestimenti avevano regie esemplari, spesso sue: per esempio la Salome di Strauss ove debuttò Hildegard Behrens. Anche Marinuzzi faceva spesso la regia delle opere che dirigeva. Veniva da un mondo finito eppure era stato il più moderno di tutti: il primo ad affrontare colle sue incisioni quella che Heidegger chiama la sfida della tecnica .
Oggi i soli suoi amici ed eredi restati sono Riccardo Muti e James Levine (né Ozawa né Mehta possono dirsi tali). Io mi auguro che venga giorno nel quale in tenebris sia exortum lumen (Ps. CXI), ossia sorta nelle tenebre una face che faccia riscoprire Karajan il sommo.

Repubblica 30.8.14
Ibrida e flessibile ecco la Bibbia secondo gli italiani
Tra nuovi media e visioni non dogmatiche i risultati di un’indagine sul Libro del libri
Otto su dieci dicono di possederne una copia. Due su tre dicono di averla letta
di Ilvo Diamanti


IL LIBRO Gli italiani e la Bibbia di Ilvo Diamanti (Edb, pagg. 135, euro 10).
La postfazione è di Enzo Bianchi

È UN rapporto “singolare” quello fra gli italiani e la Bibbia. Intenso e distaccato, ma anche frequente e intermittente, competente e lacunoso, identificato e lontano, diviso e condiviso: al tempo stesso. Perché la Bibbia costituisce un elemento di comunione e, ancora, distinzione. Dal punto di vista religioso, ma al tempo stesso culturale e sociale.
La ricerca condotta da Demos & Pi (Luigi Ceccarini, Martina Di Pierdomenico e Ludovico Gardani) per conto di Edb, sottolinea questo tratto singolare e, al contempo, ambivalente, della Bibbia. In un Paese dove si legge poco, dove il libro è, ancora, un “bene pregiato”, sicuramente raro, è presente dovunque.
In (quasi) tutte le famiglie. In (quasi) tutte le case. Oltre otto persone su dieci affermano di possedere in famiglia (almeno) una copia di questa «piccola biblioteca nata nel corso di un millennio » (per usare le parole di papa Benedetto XVI). Naturalmente, possedere una copia della Bibbia, non significa leggerla, né tantomeno conoscerla. Circa due italiani su tre dicono di averla letta. In misura quasi eguale: in passato ma anche più di recente.
Circa sette persone su dieci, cioè, sostengono di averla consultata, letta o, almeno, di averne sentito recitare (oppure citare) una pagina o un verso nell’ultimo anno.
È, dunque, un’opera nota, approcciata di frequente. Come nessun altro libro nella storia personale e sociale degli italiani. Perché nessun altro libro è in grado di marcare, nella stessa misura, l’identità personale e sociale degli italiani – e non solo. La Bibbia, l’Antico e il Nuovo Testamento: costituisce un riferimento comune, “sacro”, per gran parte dei cristiani. E non solo. Per gran parte dei cattolici. E non solo. È questa pluralità di significati che distingue la Bibbia da altri libri. Questa capacità di unire e dividere. La sua forza simbolica, oltre che pratica. Chi crede, i cattolici e i cristiani, l’hanno sentita – e continuano a sentirla – (re)citare nei luoghi di culto. Nelle cerimonie religiose. A messa, soprattutto. Ma non solo. Perché i versi e le parole della Bibbia risuonano, con frequenza, sui media. In televisione oppure alla radio. Per questo è un’opera singolare. Perché è pervasiva e, al tempo stesso, specifica. Perché sta sullo sfondo, ma è, comunque, un segno. È dovunque, echeggia dovunque. Ma caratterizza e definisce uno scenario. Il «mondo cattolico», secondo la larga maggioranza degli italiani. Anche se, lo sappiamo bene, la Bibbia non è patrimonio esclusivo dei cattolici, ma dei cristiani, in generale. E, per quel che riguarda l’Antico Testamento, anche degli ebrei. È, cioè, il Libro, la Biblioteca della civiltà ebraico-cristiana. In senso più ampio: della civiltà occidentale.
Non per caso, circa tre su quattro, fra i non credenti e i non praticanti, ne possiedono una copia. E, tra loro, oltre due su dieci l’hanno letta. La stessa misura di chi, fra i credenti e i praticanti, afferma di non averla letta. Allo stesso modo, l’orientamento politico conta in modo limitato, fra chi possiede e legge la Bibbia. Da destra a sinistra: non si rilevano grandi differenze.
La Bibbia, è, dunque, percepita e utilizzata da gran parte degli italiani in modo, perlopiù, non letterale. Tanto meno “dogmatico”. D’altronde, il grado di competenza biblica che emerge dalla ricerca è ampio, ma non generalizzato. E riflette, in misura maggiore, il livello di istruzione, di attenzione ai temi della cultura e delle religioni, piuttosto che l’appartenenza ecclesiale. Tuttavia la Bibbia è, al tempo stesso, un testo multimediale, come sottolinea la molteplicità dei canali attraverso cui è comunicato. Dalla messa alla famiglia, dalla lettura ai mass media, fino a internet (mediante apposite app). D’altronde, i personaggi e le “storie” della Bibbia hanno ispirato la “storia” dell’arte. La pittura, la scultura, la narrazione, la cinematografia: attraverso i secoli.
Per questo, ancora e – tanto più – oggi, è, sicuramente, in grado di essere trasmessa e riproposta attraverso linguaggi diversi. Per lo stile e per la “parola” che la caratterizzano. Come ha sottolineato, con particolare efficacia, il cardinale Gianfranco Ravasi: «Cristo per comunicare ha già usato la televisione e i tweet. Come? Con sceneggiature vere e proprie, tipo quella del figlio prodigo “che fugge, mangia coi porci, se la gode con le prostitute, poi torna”. E con immagini folgoranti, capaci di entrare perfettamente nei canonici 140 caratteri». Da ciò la “singolarità” e, al tempo stesso, la grande “accessibilità” della Bibbia. È un testo, una somma e un insieme di testi, che si confondono con la realtà sociale e con la vita quotidiana. Ma che – questa è la loro singolarità – definiscono e “specificano” la nostra civiltà.
Così, la Bibbia diventa il marchio di un’appartenenza di fede definita e, al tempo stesso, di una cultura più ampia. A livello territoriale e sociale. Il segno di un’identità “divisa” ma anche “con-divisa”. Per questo è dovunque. Per questo, spesso, sta sullo sfondo, nascosta, quasi invisibile. Ma, talora, appare e riappare. In modo evidente. Soprattutto in questi tempi, per reazione al confronto con altre religioni, “esibite”, anche nel nostro mondo, da persone immigrate, sempre più numerose. Ma, anche per rispondere alla minaccia, forse più insidiosa, prodotta dalla “secolarizzazione”, veicolata dal consumismo globale.
Anche per questa ragione, la dimensione comunicativa, aperta, plurale della “biblioteca biblica” ha largamente superato, oserei dire, assorbito quella religiosa. Il «distintivo cristiano», per citare una formula cara al filosofo Romano Guardini, è divenuto un distintivo “nazionale”. Anzi: europeo. Occidentale. Per marcare il proprio specifico culturale al tempo della “mondializzazione”. Da ciò il carattere universale della Bibbia, sottolineato da questa indagine. Che ne riflette la capacità di innovarsi e di riprodursi di continuo. Da ciò, però, anche un rischio. Anzi, “il” rischio. Che tanta flessibilità, finisca per ridurne la capacità di generare riconoscimento. Che l’eccedenza plastica della Bibbia, che tutti possiedono, tutti frequentano e tutti incontrano, attraverso i media più diversi, al di là di ogni confine di fede e credenza, ne possa ridimensionare, se non neutralizzare, la forza distintiva. Ma la Bibbia, come abbiamo visto, è “geneticamente ibrida”. Condivisa da religioni diverse. Evoluta nel corso del tempo. Così, può costituire un importante veicolo di “comunicazione”. Perché viviamo tempi ibridi, dove è utile, anzi, necessario, diventare ibridi, per affrontare e governare i cambiamenti. A condizione, però, di riuscire a comprendere e a far comprendere chi siamo. Agli altri. E a noi stessi. A condizione, dunque, che questa “Bibbia diffusa”, fra gli italiani, non indichi – e riproduca – una religiosità invisibile. Prêt-à-porter. Che crea il nostro “Dio personale”. Ma non può promuovere un territorio comune e comunitario. Né valori universali. Al massimo, una rete di “individui individualisti” e, in fondo, soli.
(Questo articolo è un estratto della prefazione del libro Gli italiani e la Bibbia.
Un’indagine di Luigi Ceccarini, Martina Di Pierdomenico e Ludovico Gardani)

D Repubblica delle Donne 30.8.14
2014 Che cos’è di Destra, che cos’è di Sinistra
Questa distinzione ha ancora un senso se la depuriamo dai fraintendimenti della storia e la correggiamo a partire dalle trasformazioni che l’umanità sta vivendo
Umberto Galimberti risponde a Paolo Izzo


D`estate viene voglia di giocare con le parole. Lo fanno anche i quotidiani nei mesi più caldi, mentre la politica lo fa tutto l`anno. Così può capitare di pensare alla Sinistra, cercando di tenersi lontani dall`amarcord e magari indossando degli occhiali a infrarossi, per vederla anche dove non c`è. Perché la Sinistra non c`è più. Oppure non si palesa, evitando i temi che qualcuno chiama "sensibili" e che i Radicali chiamano diritti civili. Non c`è sulla laicità dello Stato, da cui di fatto deriverebbe la libertà di scelta, delle donne soprattutto; non c`è sui diritti degli ultimi, che siano carcerati, immigrati o tossicodipendenti; non c`è sul prima e sul dopo la vita umana, su cui ancora decide la Chiesa. Oppure: la Sinistra mente, fingendo che ci sia ben altro di cui occuparsi: dell`economia, per esempio, o del lavoro. Mente, perché è evidente a tutti che dove c`è diritto c`è anche benessere materiale e mentale. Non ci resta che sperare che si affermi la verità come priorità. Anche se la verità, alle volte, può diventare sinistra. E viceversa.
Paolo Izzo

Io non so se destra e sinistra sono parole che oggi hanno ancora un significato o non siano da ricondurre al loro senso originario che risale alla Rivoluzione Francese, dove il riferimento era alla disposizione dei deputati nel semicerchio parlamentare alla sinistra o alla destra del presidente dell`assemblea. Dico queste cose non per qualunquismo, ma perché l`umanità a partire dagli anni 80 ha subito una trasformazione così radicale per effetto della globalizzazione, di internet, della ricchezza finanziaria che ha sostituito quella agricola e industriale, dell`abbassamento del livello culturale, soprattutto in Italia dove siamo all`ultimo posto per la comprensione di un testo scritto, con la disoccupazione giovanile generalizzata che fa saltare una o due generazioni in ordine alla formazione della classe dirigente, in un`Europa che non sa chi è, e che volto deve assumere nei confronti degli accadimenti del mondo, che davvero faccio fatica a decidere, come diceva Gaber: cos`è di destra e cos`è di sinistra. Dopo aver detto Uguaglianza, Libertà, Fraternità, valori cristiani in versione laica, contestati da una Chiesa dimentica del Vangelo (e qui già c`è un po` di confusione), la Rivoluzione Francese, per sua natura essenzialmente borghese, s`era dimenticata che quei valori potevano essere qualcosa di più che semplici parole solo se l`uguaglianza, da cui dipende la libertà (la fraternità è solo un soccorso a chi non è uguale agli altri, quindi non ha neppure un margine di libertà), fosse non solo di natura giuridica, ma avesse anche una base economica.
A questo provvederà il pensiero di Marc, da cui prende le mosse il socialismo che ha privilegiato l`uguaglianza rispetto alla libertà, consegnando di fatto la prima alla sinistra e la seconda alla destra. Ma da qui nacquero nuovi fraintendimenti. La sinistra, che ha trovato la sua  attuazione storica nell`Unione Sovietica, si è confusa con l`antropologia asiatica che, come diceva Marx, non disponendo di una classe borghese, e quindi dei valori della Rivoluzione Francese, non poteva esprimersi che come dittatura (Zar, Stalin, Putin), mascherata di democrazia. La destra ha inteso la libertà, (come scritto nella Magna Charta Libertatum con cui l`Inghilterra nel 1215 si diede la prima Costituzione) come "libertà dalla legge", di cui abbiamo avuto un esempio recente anche in Italia. Da noi poi la situazione è ancora più complicata per via della presenza nel bene e nel male della Chiesa. Nel male perché, in base ai suoi principi, che solo oggi con Papa Francesco vengono subordinati alle persone, si oppone a quei diritti che lei giustamente rivendica a partire da una difesa della libertà dei cittadini correttamente intesa. Nel bene, perché si oppone concretamente alla mafia (vedi don Ciotti e Libera da lui fondata), e perché soccorre concretamente la povertà (vedi la Caritas) in termini più efficaci di quanto non faccia lo Stato. Come vede la situazione è molto confusa. E per uscire da questa confusione c`è una sola cosa di sinistra che è urgente fare: curare la scuola, la cultura e l`educazione, perché solo queste cose rendono liberi e capaci i cittadini di difendere con argomentazioni i diritti che lei rivendica, e di sollevare le masse che, come diceva Wilhelm Reich, «desiderano il fascismo«. Capita infatti a tutti coloro che non pensano, di desiderare uno che pensi e provveda per loro.
Umberto Galimberti