sabato 9 giugno 2018

Corriere 9.6.18
il sondaggio
Il 49% apprezza il governo
di Nando Pagnoncelli


Un italiano su due apprezza il premier Conte: i consensi vanno oltre il bacino M5S-Lega. Immigrati e Fornero le priorità secondo gli elettori.
L’esordio del nuovo governo presieduto da Giuseppe Conte ha un buon livello di apprezzamento da parte dei cittadini, che fa da contraltare all’aspro dibattito che ha fatto seguito alla presentazione dell’esecutivo al Senato e alla Camera.
Un italiano su due (49%) lo gradisce molto (27%) o abbastanza (22%), mentre uno su tre poco (11%) o per nulla (22%) e il 18% sospende il giudizio. Si tratta di un gradimento che va al di là del bacino elettorale del M5S e della Lega che alle Politiche hanno ottenuto il voto da parte del 35,3% degli italiani (50,1% dei voti validi) e, stando ai sondaggi più recenti, verrebbero votati dal 39% degli elettori (58% dei voti validi). Infatti, oltre all’immaginabile consenso da parte degli elettori delle due forze della maggioranza, si registra il gradimento del 42% degli elettori di Forza Italia e il 37% degli elettori di tutti gli altri partiti di opposizione, con l’eccezione dei dem, tra le cui fila solo il 14% esprime una valutazione positiva a fronte di un 73% di pareri negativi.
L’indice di gradimento, calcolato escludendo coloro che non esprimono un giudizio, si attesta a 60 e risulta sostanzialmente in linea con la maggior parte dei governi che lo hanno preceduto, se si eccettuano il governo Prodi (indice 54), nato dopo il famoso «pareggio» alle elezioni del 2006, e il governo Gentiloni che all’esordio fu penalizzato dalla continuità con il governo Renzi e dall’aspettativa delusa di elezioni da parte di coloro che avevano votato No al referendum costituzionale.
Il presidente Conte ottiene un gradimento analogo a quello del suo esecutivo (48% giudizi positivi e 36% di negativi) ma un italiano su quattro (24%) non è in grado di esprimere una valutazione.
Tra i provvedimenti previsti dal contratto di governo, quelli che si vorrebbe venissero realizzati con maggiore urgenza sono innanzitutto le misure di controllo dei flussi migratori e di contrasto alla clandestinità (37%) e le modifiche alla riforma Fornero (32%), seguiti dagli interventi sul Jobs act (21%), dall’introduzione della flat tax (16%); chiudono la graduatoria il reddito di cittadinanza e la cosiddetta «pace fiscale», entrambi al 12%, mentre quasi un italiano su quattro (23%) dichiara di non gradire nessuno degli interventi elencati.
Da ultimo, il sondaggio odierno fa registrare una limitata fiducia (36%) nella possibilità che il programma possa essere realizzato senza mettere a rischio la tenuta dei conti pubblici.
Il consenso che accompagna il neonato governo Conte va principalmente ricondotto a tre ragioni: la prima riguarda la fine della lunga fase di stallo istituzionale che aveva alimentato una situazione di incertezza sul futuro e acuito le già diffuse preoccupazioni degli italiani per la situazione economica personale e del Paese. La seconda riguarda l’apprezzamento trasversale di alcuni dei temi previsti nel programma del governo: è infatti interessante osservare come, sia pure con accentuazioni diverse, alcuni provvedimenti siano auspicati anche dagli elettori dell’opposizione, compreso quelli del Pd (che appaiono i più distanti dall’attuale esecutivo) una parte dei quali non sembra disdegnare il contrasto all’immigrazione clandestina, le modifiche alla Fornero e al Jobs act (quest’ultimo in misura addirittura superiore ai leghisti). Infine, come più volte sottolineato, l’esecutivo gialloverde nasce all’insegna del cambiamento. L’ennesimo, verrebbe da dire. Ed è proprio sulla percezione di cambiamento che si giocherà il consenso futuro a governo, premier, forze politiche della maggioranza e loro leader. Da un lato perché non è sembrato chiaro in che cosa si sostanzi il cambiamento reclamato dagli elettori (di contenuti? di leader? di prassi politiche? di stile comunicativo?), dall’altro perché il contratto di governo appare davvero ambizioso sia per la tenuta dei conti pubblici che per le priorità dei provvedimenti da adottare che risultano un po’ diverse nei due differenti elettorati della maggioranza.
Ma non è affatto detto che l’eventuale mancato rispetto del contratto possa determinare una repentina perdita di consenso, come conseguenza della delusione per le aspettative suscitate. In precedenti circostanze infatti la mancata realizzazione del programma è stata gestita in chiave politica e di contrapposizione identitaria. Il ricorso a argomenti del tipo: «non li lasciano lavorare»», «hanno troppi nemici», «non sono responsabili della situazione che hanno ereditato», «in ogni caso sono meglio degli altri», ha consentito di limitare i danni.

Repubblica 9.6.18 
Le scelte dei partiti
Se la sinistra dimentica il socialismo
di Nadia Urbinati


Mentre a Roma il professor Conte faceva il suo discorso di investitura alle Camere e riceveva il sostegno di una coalizione giallo-verde e un poco nera, a Madrid nasceva il nuovo governo a guida socialista (primo in Europa con una maggioranza di ministre) dopo le dimissioni del conservatore Rajoy, sfiduciato dal Parlamento dopo una sentenza per corruzione che ha coinvolto il suo partito. Sánchez, il leader socialista del nuovo governo spagnolo, ha rifiutato di giurare sulla Bibbia. Salvini, uno dei due leader del nostro governo, ama sventolare il Vangelo e il rosario. La differenza tra i due Paesi non riguarda solo il colore del governo. La Spagna non ha mai cessato di avere un Partito socialista che non disdegna di identificarsi con le idee socialiste. Difficile dire cosa sia il nostro Partito democratico, che sembra aver scelto questo aggettivo per non doversi più qualificare. In Italia vi è timidezza per non dire ostilità a dichiararsi di sinistra — i leader del Pd preferiscono termini come “progresso” o “innovazione”; la loro aspirazione è stata sciogliere i lacci del pubblico, non solo quelli obsoleti di una burocrazia arrugginita, ma anche quelli che servono a limitare il potere di chi ha più potere; hanno alleggerito i diritti del lavoro e tolto risorse alla scuola; hanno ignorato aree del Paese. Insieme all’aggettivo “socialista” hanno rinunciato a politiche socialdemocratiche. Anche se Renzi è stato velocissimo ad aderire al Partito socialista europeo, si sono ben guardati dall’usare l’aggettivo socialista. Il linguaggio nomina e crea. L’assenza del nome rende la cosa che quel nome designa evanescente. L’assenza della parola socialismo dal vocabolario della sinistra italiana, non solo del Pd, denota la trascuratezza di alcuni principi: uguaglianza di condizione per godere di una cittadinanza non fittizia; solidarietà con chi ha bisogno di intervento sociale, non per elargire pochi denari ma per “rimuovere gli ostacoli” che impediscono di godere della libertà che i diritti riconoscono; libertà di progettare e fare, di respirare a pieni polmoni la condizione umana. Insieme a questi nomi di principi sono stati accantonati i nomi di condizioni problematiche. Non si parla di sfruttati, di cittadini privati di una vita dignitosa; si parla invece di umili e ultimi, termini manzoniani che inducono alla carità, incapaci di ispirare contestazione ed emancipazione. Le parole designano un mondo insieme a ciò che nominano, la loro assenza indica l’assenza della volontà creatrice di quel mondo. In tempi difficili, le parole potrebbero portare alla superficie la tradizione liberalsocialista che le ha coltivate, una ricchezza della quale vi è bisogno per poter dire perché ha senso essere di sinistra. Vi è bisogno ora, che alla sinistra spetta l’opposizione a una maggioranza che si è appropriata di esigenze tradizionalmente di sinistra. Il socialismo è un’idea nobile, che fa della libertà e dignità della persona il principio di riferimento in relazione al quale diagnostica e denuncia l’arbitrio. Chi voglia andare ai fondamenti dell’idea di giustizia, scriveva Carlo Rosselli nel 1930, incontrerà la libertà perché incontrerà il valore della persona. La sinistra ha una lingua, una storia, autori e libri sulla visione socialista. La quale è nata come rivolta morale contro l’ingiustizia economica e sociale, contro il potere dei pochi sui molti; si è servita dei movimenti politici per denunciare l’ingiustizia, ma anche per correggerla, quando era sfruttamento, discriminazione contro i diversi e intolleranza.

il manifesto 9.6.18
Imola ultima corsa per il Pd smarrito
Amministrative . Nell’ex roccaforte dell’Emilia «rossa» test sull’onda grillina. LeU divisa, Mdp fuori gara
di Giovanni Stinco


IMOLA «Cerchiamo di vincere ad Imola e dare una grande spallata al Pd, e poi si vedrà. È chiaro che le prospettive sono importanti, il Movimento 5 Stelle potrà diventare il primo attore anche a livello regionale». Sta un po’ tutto qui, in queste frasi del grillino Massimo Bugani, il senso politico di quel che potrebbe succedere domenica, e poi nel quasi certo ballottaggio del 24 giugno.
A IMOLA, 40 KM DA BOLOGNA, arrivano le elezioni amministrative e il Pd, qui al governo da 72 anni, potrebbe fare la figura del vecchio pugile con poco fiato che sale per l’ultima volta sul ring. Già suonato e sconfitto dalla batosta elettorale del 4 marzo, che ha visto in città centro destra, Movimento 5 stelle e democratici praticamente affiancati in termini di consenso. E ora proprio queste tre forze si sfidano per la città che fu del socialista Andrea Costa.
Se i democratici e i loro alleati – come tutti danno per certo – andranno al secondo turno in vantaggio, dovranno vedersela con i voti di Lega e Movimento 5 Stelle, due forze che in Emilia-Romagna si stanno corteggiando tra dichiarazioni e promesse di futuri matrimoni d’interesse, sulla falsariga di quanto successo a Roma. Il film per il centro-sinistra non sarebbe inedito: già a Parma nel 2012 al secondo turno i voti della destra e degli elettori 5 Stelle si coalizzarono «naturalmente» per battere il candidato Pd, e Federico Pizzarotti prese la città che Beppe Grillo aveva definito la «nostra piccola Stalingrado».
DA PARMA IL MOVIMENTO prese il volo anche a livello nazionale, e ora si ritrova al governo. Da Imola, è la speranza dei vertici 5 Stelle, potrebbe partire la volata per le elezioni regionali del 2019. Non è una storia già scritta ovviamente, ma solo il fatto che si possa immaginare un destino del genere per Imola e l’Emilia ormai non più rossa è una novità assoluta per territori dove la sinistra da decenni non ha mai avuto reali contendenti.
Per non perdere, il Partito democratico ha schierato i big, da Graziano Delrio a Paolo Gentiloni. La speranza è quella di vincere subito al primo turno. Perché, come dicono i militanti, «se non si vince al primo giro, poi finisce male».
GENTILONI MERCOLEDÌ SERA ha riempito la piazza a Imola, strappato applausi su applausi e chiesto l’unità del centro-sinistra, «cattolici, civici, partiti, espressione del volontariato», «perché è con queste alleanze larghe che dobbiamo combattere e tornare a vincere, non solo a Imola ma nel nostro Paese». Nella prima uscita pubblica da ex presidente del Consiglio Gentiloni ha però anche elencato le colpe del Pd e del suo governo, ha citato (ringraziandolo per il lavoro svolto) l’ex ministro Poletti, anche lui sul palco ma in completo silenzio, e subito dopo ha ricordato che certi contratti di lavoro «fanno a pugni con la dignità delle persone», «perché se tu guadagni pochi euro l’ora e hai condizioni di lavoro instabili quello è un lavoro, ma non è il lavoro di cui parla la Costituzione». Applausi scroscianti per frasi che in campagna elettorale non si sono mai sentite dalle parti di Renzi e compagni.
TRA I MILITANTI PERÒ SERPEGGIA la paura di perdere una delle ultime roccaforti del Pd in Regione, una città che è sempre stata rossa e dove il Pd non hai mai dovuto preoccuparsi delle opposizioni. Questa volta sarà diverso e la candidata del Pd, la civica Carmela Cappello (e pure questa è una piccola grande novità per un partito abituato all’autosufficienza), dovrà contendere ogni singolo voto ai suoi due sfidanti: Giuseppe Palazzo, candidato del centro destra – paradosso dei paradossi per un civico nato politicamente nell’Asinello di Prodi – e la pentastellata Manuela Sangiorgi.
«NON LO SO SE QUESTA VOLTA ce la facciamo, certo Imola ha una tradizione storicamente radicata, ma proprio per questo perdere qui farebbe molto più male che altrove», dice un militante storico che è transitato da tutte le trasformazioni di quel che fu il Pci. «C’è molta confusione, a Imola come a Roma. Renzi? Meglio non sia venuto, siamo contenti con Gentiloni», aggiunge un’elettrice di 60 anni, grosso modo l’età media dei presenti al comizio. Prova a convincere e mobilitare i suoi e non solo il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini: «Dico agli elettori: potete aver votato per altro il 4 marzo, ma qui dovete scegliere per chi governerà il Comune nei prossimi cinque anni».
IL RAGIONAMENTO È SEMPLICE, chi non ha scelto il Pd a livello nazionale deve ricordarsi che Imola resta una città relativamente ricca, senza grosse sacche di povertà e con una qualità della vita che molti giudicano invidiabile. «Non riesco a capire perché non votare chi per decenni ha garantito tutto questo», dice un iscritto Pd sotto al palco mentre aspetta l’inizio del comizio. La retorica degli sfidanti è tutta sulla contrapposizione vecchio contro nuovo, integrati contro esclusi e travolti dalla crisi (che anche a Imola ci sono).
«È INIZIATO IL CONTO alla rovescia: per la sinistra sono le ultime ore di esercizio di un potere dispotico», attacca Alberto Balboni, senatore di Fratelli d’Italia che il 4 marzo ha sconfitto l’ex ministro Franceschini nel vicino collegio di Ferrara. Quello di Imola sarà un test forse nazionale, sicuramente regionale, per capire se la marea giallo-verde continuerà a salire, oppure se l’onda si arresterà alle porte di Bologna.
Infine c’è Liberi e Uguali. A Imola non ha retto la prova, e si è subito diviso in due pezzi. Art.1-Mdp (che qui vuol dire Vasco Errani) ha scelto di appoggiare la candidata del Pd, mentre Possibile e Sinistra Italiana hanno deciso per una lista non collegata alla coalizione democratica. Curioso il nome: «Sinistra unita».

il manifesto 9.6.18
Le élites che Freccero non vede
di Alessandro Dal Lago


Non solo: questo «buonismo» impedirebbe di comprendere le vere ragioni della crisi migratoria e dei rifugiati – e quindi di risolverle.
Non si tratta di tesi nuove. La troviamo nelle «analisi» del pensatore Diego Fusaro e, con accenti diversi nell’ultimo Žižek e in tanti minori che si sono presi l’onere di difendere le ragioni della classe operaia tradita dalle élites. Ma è anche senso comune di ogni destra, dalla rozza Alt Right americana a quella più raffinata di «The Spectator» e alla nostrana di Il giornale e di Libero. Ora, fa una certa impressione che siano sedicenti filosofi, star del pensiero, giornalisti di qua e di là dall’Atlantico e notissimi media men come Freccero, membro del Consiglio di amministrazione della Rai, a insorgere in nome del popolo contro le élites. Soprattutto in un momento in cui padroni del paese sono diventati esponenti politici dell’imprenditoria ruspante del Nord est e un bel gruppo di arrampicatori politici governati dalla Casaleggio & Associati e da un ex del Grande Fratello.
Sembra giunto il momento di smetterla con la contrapposizione ideologica popolo/élites e di rispolverare invece la vecchia idea della circolazione o meglio dell’alternanza delle «élites», vanto della scienza politica italiana di un secolo fa e presente anche in Gramsci. Il ceto politico della seconda repubblica (per capirsi, Berlusconi e Renzi) ha fallito per la sua incapacità di interpretare i bisogni sociali, è vero (anche se non si vede dove sia mai stato il loro «buonismo»). Tuttavia, oggi al potere non c’è il popolo, ma una nuova élite di cui non è difficile individuare i tratti distintivi di ceto: la classica destra padana operosa, innovativa ma parrocchiale e reazionaria, e gli homines novi del M5S, in parte sovrapponibili alle avanguardie padane e in parte espressione di quei ceti medi marginali, ma abbacinati dal potere, ben rappresentati dalle carriere di Di Maio, Di Battista, Fico e tanti altri. Se questo è il popolo…
Sorprende che un osservatore dei media come Freccero non dica nulla della capacità affabulatoria delle nuove destre, giocata sui social, sull’uso incessante di Twitter e Facebook – esattamente come il loro corrispettivo Trump, che piace tanto a Beppe Grillo. Ma il punto è soprattutto l’offerta politica in larga parte simbolica che le nuove destre hanno presentato al «popolo» e cioè agli elettori. Promettiamo pane ai poveri (reddito di cittadinanza) e brioches ai ricchi (flat tax). Tuttavia, nell’attesa probabilmente lunga di realizzare questi sogni, vi diamo identità (no ai migranti), impunità (espansione della legittima difesa) e vendetta («certezza della pena», più carceri, agenti provocatori ecc.).
Dove la retorica popolare di Freccero (non dimentichiamolo, nominato alla sua carica in quota M5S) si sgonfia è nella pretesa che il «politicamente corretto» delle élites avrebbe causato, in nome dei «diritti umani», le crisi migratorie e dei rifugiati. Questa è un’idea alla Bannon che non ha alcun riscontro nella realtà. Afghanistan, Iraq, Siria, Libia sono stati teatro di scontri egemonici tra Usa, Russia, Turchia, alcuni paesi europei, stati del Golfo ecc. che, qualche volta, hanno usato la retorica dei «diritti umani» come mero paravento per giustificare la guerra. Ma tra «diritti umani», petrolio ed egemonia geopolitica ci sono delle differenze che un leader dei media dovrebbe comprendere.
Un discorso analogo vale per i migranti in senso stretto (oggi difficili da distinguere dai rifugiati). I fattori motivanti delle migrazioni sono troppo complessi per essere ridotti alla favoletta del «politicamente corretto» delle élite dei «diritti umani».
Una volta che i migranti si siano messi in moto verso l’Europa o il mondo sviluppato, salvarli se rischiano di annegare, e accoglierli se sopravvivono, è un minimo imperativo morale, se le nostre società non vogliono regredire al 1933.

il manifesto 9.6.18
Il nanismo della sinistra e il gigante populista
di Antonio Gibelli


Certo: è accaduto qualcosa di grave che segnerà la nostra vita e la nostra storia e che si inscrive nel corso iniziato circa un quarto di secolo fa con l’apparizione della stella berlusconiana e la conquista del potere da parte del magnate dell’etere.
NEL TRACIMARE DELL’ONDATA populista c’è il segno di una drammatica sconfitta, di una vera e propria «apocalisse culturale» da cui non si sa come e quando riusciremo a risollevarci. Ma qui si ferma il mio accordo e vorrei spiegare perché.
Innanzitutto, la questione Mattarella. Non va dimenticato il contesto nel quale ha svolto il suo ruolo. Era in corso la formazione di un governo sostenuto da una forza apertamente sovranista e antieuropeista (rapporti di amicizia e di intesa con Le Pen, modelli come Trump, Orban e Putin) e da un’altra che in vista dell’accesso al potere aveva frettolosamente smentito atteggiamenti molto simili tenuti in passato. I 5Stelle hanno fin qui tenuto su molti punti condotte opache, ambigue e variabili fino alla giravolta, dettate da una guida dall’alto (Grillo), e dal segreto delle valutazioni dell’audience compiute da una società privata di servizi informatici (Casaleggio): è nella natura essenziale dei «populismi dell’audience» (Nadia Urbinati) di orientarsi secondo le pulsioni indistinte contro le élite politiche, allo scopo di sostituirsi ad esse, quali che siano i contenuti di tali pulsioni.
IL PRESIDENTE SI È MOSSO PER fronteggiare questa sgangherata offensiva usando le sue prerogative costituzionali, anche se i pareri su questo non sono unanimi. Conosciamo il seguito: quello che Revelli banalizza come «idiozie di Di Maio sull’impeachment», in realtà un’esplicita minaccia fatta gravare sul massimo garante dell’unità nazionale, misura dell’azzardo che il capo del movimento era disposto a giocare in vista del potere. Quanto alla chiamata a raccolta del “popolo” contro le istituzioni, destinata a inquinare la festa stessa della Repubblica, ormai è dietro le spalle ma è stato un segno di cinismo che non possiamo archiviare.
PIÙ IMPORTANTE È IL PROBLEMA dell’esito della crisi. Su un punto Revelli ha ragione: «Costa dirlo, fa male, ma questa ‘cosa’ bicolore, gialla e verde con molte sfumature di bianco e anche di nero, è in fondo, tra tutte le formule possibili, la più consonante con gli umori ‘del Paese’ così come si sono espressi nel voto, nel suo carattere devastante». Ma se così è, come si può continuare a fare del Pd il principale responsabile della catastrofe, come «chi, anche con poco, senza particolare fantasia, solo provando a restare se stesso, e mantenendo un minimo di rispetto per il proprio ‘popolo’, avrebbe potuto evitarlo?» Perché mai il Pd avrebbe dovuto imbarcarsi nell’avventura improbabile di sostenere da sconfitto un governo fondato su un vincitore trionfante e tracotante? Con quale esito se non essere additato come responsabile di inadempienze e fallimenti e sbeffeggiato per il suo ennesimo accordo di potere? Chi – in buona fede – ha esortato il Pd a fare questa scelta, ha come minimo sopravvalutato la sua forza contrattuale nel contesto della sconfitta ignorando la sproporzione tra costi e benefici non per il Pd ma per la democrazia, minacciata da una nanificazione dell’opposizione che è uno dei pericoli incombenti dei populismi al potere.
ARRIVIAMO COSÌ ALL’ULTIMA questione: quella delle cause del disastro. Revelli riconosce che la responsabilità è di tanti, anzi di tutti coloro che lo paventavano e ora lo subiscono. La vittoria plateale e massiccia delle destre «è la conseguenza più diretta della lunga catena di errori, inadeguatezze, atti mancati e misfatti compiuti, diserzioni e abbandoni che sul fronte del centro-sinistra hanno costellato l’ultima fase di auto-liquidazione e di masochismo. E rispetto alla quale nessuno, nemmeno noi, può considerarsi innocente». E’ così, e andrei anche più indietro ma sarei anche più magnanimo.
QUESTA SCONFITTA VIENE DA lontano e dal profondo. Non dal tradimento dei sacri principi ma dalla difficoltà di elaborare un pensiero e una prassi adeguata al mutamento radicale della storia: globalizzazione, rivoluzione informatica e neoliberismo trionfante, sconvolgimento nei modi di produzione e nella struttura del mercato del lavoro. Il capitalismo si è rivelato ancor più vitale di quanto già non sapessimo ( al punto che oggi si dice comunista un gigantesco Paese che ne ha adottato i moduli e ne rincorre lo sviluppo). Il comunismo realizzato, assai peggiore di quanto non avessimo immaginato. Noi – che oggi ricordiamo il Sessantotto – pensavamo di cambiare il mondo e invece il mondo ha cambiato se stesso e ha cambiato noi senza che fossimo capaci di capirlo per tempo e di fronteggiare il terremoto. E’ questo il punto cruciale di una riflessione non autolesionista.
C’È UN PROBLEMA SEMPRE aperto di rapporto tra dinamica degli eventi e soggettività politica. Gli errori degli oppositori furono certo un aspetto della vittoria fascista. L’altro fu la potenza dei sommovimenti della storia, che aveva attraversato una fase di modernizzazione altrettanto accelerata a cavallo tra i due secoli e usciva dalla catastrofe senza precedenti della prima guerra mondiale. Per molto tempo, gli antifascisti si rinfacciarono l’un l’altro le responsabilità della sconfitta trascinando la diatriba in un’interminabile scia di risentimento, gelosie e rivalità. Solo quando si cominciò a chiudere il contenzioso sul passato e a guardare al presente e al futuro, e si cercò di unire le forze per tentare di aprire una breccia nel regime, il futuro diventò possibile. Mutatis mutandis – lo dico anch’io con Revelli – questo insegnamento potrebbe ancora esserci utile, senza guardare alla luna.

il manifesto 9.6.18
Il nanismo della sinistra e il gigante populista
di Antonio Gibelli


Certo: è accaduto qualcosa di grave che segnerà la nostra vita e la nostra storia e che si inscrive nel corso iniziato circa un quarto di secolo fa con l’apparizione della stella berlusconiana e la conquista del potere da parte del magnate dell’etere.
NEL TRACIMARE DELL’ONDATA populista c’è il segno di una drammatica sconfitta, di una vera e propria «apocalisse culturale» da cui non si sa come e quando riusciremo a risollevarci. Ma qui si ferma il mio accordo e vorrei spiegare perché.
Innanzitutto, la questione Mattarella. Non va dimenticato il contesto nel quale ha svolto il suo ruolo. Era in corso la formazione di un governo sostenuto da una forza apertamente sovranista e antieuropeista (rapporti di amicizia e di intesa con Le Pen, modelli come Trump, Orban e Putin) e da un’altra che in vista dell’accesso al potere aveva frettolosamente smentito atteggiamenti molto simili tenuti in passato. I 5Stelle hanno fin qui tenuto su molti punti condotte opache, ambigue e variabili fino alla giravolta, dettate da una guida dall’alto (Grillo), e dal segreto delle valutazioni dell’audience compiute da una società privata di servizi informatici (Casaleggio): è nella natura essenziale dei «populismi dell’audience» (Nadia Urbinati) di orientarsi secondo le pulsioni indistinte contro le élite politiche, allo scopo di sostituirsi ad esse, quali che siano i contenuti di tali pulsioni.
IL PRESIDENTE SI È MOSSO PER fronteggiare questa sgangherata offensiva usando le sue prerogative costituzionali, anche se i pareri su questo non sono unanimi. Conosciamo il seguito: quello che Revelli banalizza come «idiozie di Di Maio sull’impeachment», in realtà un’esplicita minaccia fatta gravare sul massimo garante dell’unità nazionale, misura dell’azzardo che il capo del movimento era disposto a giocare in vista del potere. Quanto alla chiamata a raccolta del “popolo” contro le istituzioni, destinata a inquinare la festa stessa della Repubblica, ormai è dietro le spalle ma è stato un segno di cinismo che non possiamo archiviare.
PIÙ IMPORTANTE È IL PROBLEMA dell’esito della crisi. Su un punto Revelli ha ragione: «Costa dirlo, fa male, ma questa ‘cosa’ bicolore, gialla e verde con molte sfumature di bianco e anche di nero, è in fondo, tra tutte le formule possibili, la più consonante con gli umori ‘del Paese’ così come si sono espressi nel voto, nel suo carattere devastante». Ma se così è, come si può continuare a fare del Pd il principale responsabile della catastrofe, come «chi, anche con poco, senza particolare fantasia, solo provando a restare se stesso, e mantenendo un minimo di rispetto per il proprio ‘popolo’, avrebbe potuto evitarlo?» Perché mai il Pd avrebbe dovuto imbarcarsi nell’avventura improbabile di sostenere da sconfitto un governo fondato su un vincitore trionfante e tracotante? Con quale esito se non essere additato come responsabile di inadempienze e fallimenti e sbeffeggiato per il suo ennesimo accordo di potere? Chi – in buona fede – ha esortato il Pd a fare questa scelta, ha come minimo sopravvalutato la sua forza contrattuale nel contesto della sconfitta ignorando la sproporzione tra costi e benefici non per il Pd ma per la democrazia, minacciata da una nanificazione dell’opposizione che è uno dei pericoli incombenti dei populismi al potere.
ARRIVIAMO COSÌ ALL’ULTIMA questione: quella delle cause del disastro. Revelli riconosce che la responsabilità è di tanti, anzi di tutti coloro che lo paventavano e ora lo subiscono. La vittoria plateale e massiccia delle destre «è la conseguenza più diretta della lunga catena di errori, inadeguatezze, atti mancati e misfatti compiuti, diserzioni e abbandoni che sul fronte del centro-sinistra hanno costellato l’ultima fase di auto-liquidazione e di masochismo. E rispetto alla quale nessuno, nemmeno noi, può considerarsi innocente». E’ così, e andrei anche più indietro ma sarei anche più magnanimo.
QUESTA SCONFITTA VIENE DA lontano e dal profondo. Non dal tradimento dei sacri principi ma dalla difficoltà di elaborare un pensiero e una prassi adeguata al mutamento radicale della storia: globalizzazione, rivoluzione informatica e neoliberismo trionfante, sconvolgimento nei modi di produzione e nella struttura del mercato del lavoro. Il capitalismo si è rivelato ancor più vitale di quanto già non sapessimo ( al punto che oggi si dice comunista un gigantesco Paese che ne ha adottato i moduli e ne rincorre lo sviluppo). Il comunismo realizzato, assai peggiore di quanto non avessimo immaginato. Noi – che oggi ricordiamo il Sessantotto – pensavamo di cambiare il mondo e invece il mondo ha cambiato se stesso e ha cambiato noi senza che fossimo capaci di capirlo per tempo e di fronteggiare il terremoto. E’ questo il punto cruciale di una riflessione non autolesionista.
C’È UN PROBLEMA SEMPRE aperto di rapporto tra dinamica degli eventi e soggettività politica. Gli errori degli oppositori furono certo un aspetto della vittoria fascista. L’altro fu la potenza dei sommovimenti della storia, che aveva attraversato una fase di modernizzazione altrettanto accelerata a cavallo tra i due secoli e usciva dalla catastrofe senza precedenti della prima guerra mondiale. Per molto tempo, gli antifascisti si rinfacciarono l’un l’altro le responsabilità della sconfitta trascinando la diatriba in un’interminabile scia di risentimento, gelosie e rivalità. Solo quando si cominciò a chiudere il contenzioso sul passato e a guardare al presente e al futuro, e si cercò di unire le forze per tentare di aprire una breccia nel regime, il futuro diventò possibile. Mutatis mutandis – lo dico anch’io con Revelli – questo insegnamento potrebbe ancora esserci utile, senza guardare alla luna.

Repubblica 9.6.18
Veltroni: “La sinistra c’è ma servono nuovi leader ”
A Bologna confronto su “dov’è finita la politica”. Mauro: “Rilanciare l’uguaglianza”
di Eleonora Capelli


Bologna La piazza che cerca un’alternativa di governo a sinistra si è trovata ieri a Bologna, all’ombra delle Due Torri, con gli ospiti de La Repubblica delle Idee. Walter Veltroni, primo segretario del Pd, ha indicato la sua strada nel solco degli interventi di Romano Prodi (intevenuto giovedì) e Paolo Gentiloni. «Il Pd deve essere una forza di sinistra – ha detto – non certo Zelig. La differenza tra sinistra e destra è ancora evidente. Se si dice che non ci sono più destra e sinistra, rimane solo la destra. Invece la sinistra c’è, ma è scomparsa dai luoghi in cui è sempre stata. Nel 2008 avevamo 12 milioni di voti, oggi ne abbiamo la metà. Dove sono finiti? Si sono dispersi in mille rivoli. La domanda c’è, è l’offerta che manca » . Dove e come costruire l’alternativa? «Ritrovando il Pd che c’era alle origini, ma con persone nuove. Il partito non può essere quello che è stato in questi anni, fatto di capi bastone e capi corrente. Deve essere un luogo meravigliosamente libero. Se sarà questo, alla fine di questo pasticcio, darà una risposta innovativa. Ma solo se ritroverà la sua identità, i suoi valori e la sua storia ».
L’impasse della sinistra è stata al centro anche di un altro dibattito della kermesse di Bologna. Con il direttore di Repubblica Mario Calabresi si sono confrontati il direttore de L’Espresso, Marco Damilano, Ezio Mauro ( di cui è stata ricordata anche la paternità de La Repubblica delle Idee), Lucia Annunziata dell’Huffington
Post, gli editorialisti Stefano Folli e Massimo Giannini e il politologo Piero Ignazi. A fornire più di uno spunto sono state le riflessioni di Veltroni che ha ricordato come «perdere un referendum che proponeva la diminuzione dei parlamentari sia stato un capolavoro che ci potevamo evitare», riferendosi alla riforma costituzionale bocciata nelle urne. «Oggi il tema delle riforme istituzionali non esiste più - ha notato l’ex segretario dem - e abbiamo una legge proporzionale pura che ha portato all’accordo Lega- M5S e poteva portare a quello tra Pd e Forza Italia. Questo perchè il sistema toglie ai cittadini la possibilità di scegliere. Invece abbiamo bisogno di una democrazia dell’alternanza, altrimenti la corrosione della democrazia andrà avanti » . Veltroni vede un’Italia ferma alla Prima Repubblica, al 1978 e alle «convulsioni seguite alla tragedia di Moro». «Oggi i partiti sono sequestrati da poche persone, che decidono per tutti – sostiene Veltroni –. Dobbiamo dedicarci alla costruzione dell’alternativa. Il governo appena varato farà fatica a corrispondere alle aspettative. Dopo, vincerà chi avrà costruito un’alternativa, non chi avrà urlato più forte».
Per Ezio Mauro la sinistra « ha buttato via le parole uguaglianza e solidarietà, perché pensava che suonassero vecchie, invece il problema era che non suonavano autentiche » . E ha aggiunto: « Riferendosi ai dirigenti della sinistra, Bobbio diceva: si interrogano sul loro destino e non capiscono che dipende dalla loro natura. Risolvano il problema della loro natura e risolveranno il loro destino».
Un destino che per Marco Damilano è quello di «lavorare adesso sulle contraddizioni che si aprono nell’accordo tra 5 Stelle e Lega, una spazio per chi vuole fare politica che è bene che si apra il prima possibile » . Per Stefano Folli però « quando si arriverà alla crisi di questo assetto, l’uscita da questa crisi sarà a destra » . «Chi ha più filo da tessere è la Lega di Salvini – ha detto Folli – e questo è il grande pericolo che abbiamo davanti » . « Salvini può permettersi la politica dei due forni - ha notato Giannini - perché ha Berlusconi come Cavalier servente » . Calabresi ha messo l’accento sul rischio che Salvini parta proprio dal fare «quelle cose che costano poco ma portano un alto guadagno in propaganda » , andando a incidere sui diritti. Mentre per Lucia Annunziata il rischio più alto è « nelle leadership molto incoerenti e molto opache » come quelle che i 5Stelle hanno saputo costruire, anche grazie al ruolo della Casaleggio Associati nel fornire la piattaforma per la democrazia diretta. Per Piero Ignazi gli elementi di distanza tra Lega e 5 Stelle potranno «cementare il rapporto invece che allontanarlo». E Mauro è tornato ai vuoti di analisi del Pd: « Il Pd ha il dovere di un rendiconto su quanto accaduto il 4 marzo, ma i suoi elettori lo stanno ancora aspettando».
Nella giornata di dibattiti di ieri anche un focus sul rapporto populismo- democrazia, di cui hanno discusso Ilvo Diamanti, Massimo Giannini e Yascha Mounk.

Repubblica 9.6.18
L’altro summit
Ma Putin vola dal grande amico Xi. Per fare affari
di Filippo Santelli


Pechino
Se quello di Trump era un tentativo di tirarlo verso Occidente, riavvicinandolo al G7, ieri Vladimir Putin gli ha mostrato che la Russia sta bene anche dalla parte opposta del mondo. A fianco al «grande amico » Xi Jinping, leader dell’altra potenza che mette in discussione l’ordine globale a trazione americana. Ieri nella Grande Sala del Popolo di Pechino il presidente cinese ha messo al collo di Putin la dorata Medaglia dell’amicizia, un alto riconoscimento inaugurato per l’occasione. I due hanno poi firmato una serie di accordi commerciali da circa 4 miliardi di dollari, in particolare sul nucleare civile. E da oggi, al summit dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, sorta di anti G8 d’Asia di cui Mosca e Pechino sono ispiratrici, proveranno a tirare dalla loro un grande tradito da Trump, cioè l’Iran.
«La nostra è la relazione più profonda tra maggiori Paesi del mondo » , ha detto Xi, definendo Putin «il suo più intimo amico». In realtà tra Cina e Russia fino a oggi il rapporto è stato caldo ai vertici ma freddo alla base, nelle relazioni economiche. Al di là della retorica infatti investimenti e interscambi restano limitati. I 100 miliardi di dollari di commerci che Putin ha indicato come obiettivo per il 2018 sono molti meno di quelli tra Russia e Europa, nonostante le sanzioni, o tra Cina e Stati Uniti, nonostante le minacce di dazi. L’allineamento però è soprattutto geopolitico: Russia e Cina si sono garantite appoggio nelle rispettive rivendicazioni, Crimea e Pacifico, e hanno la stessa posizione sulla Corea del Nord. È un asse “ della convenienza” più che una visione condivisa dell’ordine globale. Eppure, proprio grazie a Trump, oggi trova un nuovo punto di convergenza sull’Iran. Dal momento in cui la Casa Bianca ha stracciato l’intesa sul nucleare, Pechino ha iniziato a corteggiare Teheran. «Faremo tutto il possibile per preservare un accordo » , hanno detto Xi e Putin che oggi proveranno a convincere il presidente iraniano Rouhani.

Repubblica 9.6.18
Direttiva segreta
Mosca distrugge le schede sui detenuti nei Gulag– Rosalba Castelletti– Rosalba Castelletti
di Rosalba Castelletti

MOSCA, RUSSIA Dopo gli arresti e le esecuzioni di milioni di cittadini sovietici durante gli anni delle Grandi Purghe staliniane, un nuovo genocidio. Quello della memoria. Gli archivi di tutta la Russia stanno distruggendo le famigerate kartochki, le schede dei detenuti dei Gulag, sulla base di una direttiva segreta del 2014. «Mantenere i documenti che riguardano quel periodo storico è estremamente importante», ha denunciato il direttore del Museo della Storia del Gulag Roman Romanov chiedendo in una lettera al leader del Cremlino Vladimir Putin e a Mikhail Fedotov, il presidente del Consiglio per i diritti umani, d’intervenire.
Quando un detenuto moriva nel Gulag, la sua cartella veniva archiviata a tempo indeterminato, spiega Romanov. Se invece era liberato, la cartella veniva distrutta, ma la kartochka – la scheda con dati anagrafici e informazioni sulla carcerazione – veniva conservata. È solo dall’esame di queste schede che si può scoprire se un condannato è sopravvissuto o è stato trasferito da un campo a un altro. Persa la scheda, finisce nell’oblio. A fare la scoperta è stato Serghej Prudovskij, ricercatore del museo. Mesi fa cercava notizie su Fjodor Ciazov, contadino vittima delle repressioni staliniane, condannato a 5 anni di carcere e deportato nella regione di Magadan. Ha fatto richiesta al dipartimento regionale del ministero degli Interni. «Mi hanno risposto che la cartella era stata distrutta già nel 1955 in conformità alle direttive dell’epoca, ma che mancava anche la kartochka », ha raccontato a Kommersant.
Quando Serghej ha chiesto il perché, è venuto a conoscenza dell’esistenza di un ordine inter-dicasteriale classificato “per uso interno” datato 12 febbraio 2014 e firmato da 11 agenzie statali tra cui il ministero degli Interni, della Giustizia, della Difesa, nonché dall’Fsb, erede del Kgb, e dal Servizio d’intelligence internazionale (Svr). La custodia delle schede, dice la direttiva, scade al compimento degli 80 anni degli ex detenuti. Fjodor li avrebbe compiuti nel 1989 e perciò la sua scheda è stata distrutta nel 2014.
Come Fjodor, tanti ex detenuti avrebbero superato gli 80 anni.
Le vittime delle repressioni staliniane sarebbero state oltre 12 milioni, secondo l’ong Memorial che cerca giustizia per i crimini della polizia segreta sovietica. Missione malvista nella Russia odierna che ricorda Stalin solo come fondatore della grandezza dell’Urss. Tanto che due anni fa è stata bollata come “agente straniero”. Interpellato da Kommersant, Fedotov promette d’intervenire: «È d’importanza fondamentale perché parliamo di un mezzo per contrastare la falsificazione della storia. Quando non ci sono documenti, puoi inventare quello che vuoi».

Il Fatto 9.6.18
“Alzati e uccidi per primo”. Tutto il sangue del Mossad
Occhio per occhio - Un libro spiega ricostruisce i metodi dei servizi segreti dal Dopoguerra a oggi
di Andrea Valdambrini


Dubai, 18 gennaio 2010. A partire dalle 7 del mattino e alla spicciolata nelle ore successive, almeno 26 uomini sbarcano nell’aeroporto della città del Golfo con voli provenienti da diverse capitali europee. Hanno un solo compito da portare a termine entro la notte: eliminare fisicamente Mahmoud al-Mabhouh, palestinese e co-fondatore del braccio armato di Hamas. La maggior parte di loro fa parte di un’unità speciale del Mossad chiamata Caesarea, squadra d’élite i cui membri non hanno nome e identità se non camuffata e non si incontrano se non quando devono colpire un obiettivo.
L’unità è incaricata di assassinii mirati, sabotaggi e tutte le operazioni più delicate in Medio Oriente. Il corpo senza vita di al-Mahmud verrà trovato la mattina del giorno dopo nella sua stanza d’albergo.
Il responsabile della chirurgica quanto implacabile eliminazione di un uomo considerato da Israele uno dei suoi nemici giurati fu indicato in Meir Dagan, dal 2002 al 2011 direttore proprio del Mossad, la principale organizzazione israeliana d’intelligence. Poco prima di lasciare il suo incarico per divergenze politiche con il premier Netanyahu, lui che certo non amava le rivelazioni, ha svelato un piccolo segreto. Nel suo ufficio di Tel Aviv, il capo dei servizi aveva la foto di un uomo con la barba, suo nonno, che implorava pietà dalle truppe naziste che lo avrebbero ucciso. Una foto che Dagan mostrava ai suoi uomini prima di ogni operazioni delicata. “Molti ebrei durante l’Olocausto sono morti senza combattere”, spiegava. “Noi non possiamo più permettercelo”.
Con circa 2300 missioni segrete, “dal dopoguerra a oggi Israele ha assassinato molte più persone di ogni altro Paese occidentale (in operazioni di questo tipo, ndr)”. Ne è convinto Ronen Bergman, giornalista investigativo israeliano di cui è stato da poco tradotto in inglese “Rise and Kill First” (Alzati e uccidi per primo), volume di quasi 800 pagine che si propone di documentare, sulla base di testimonianze anonime di agenti o ex agenti degli apparati di sicurezza, la storia segreta degli omicidi mirati attribuiti al Mossad: da Abu Hassan, autore della strage di Monaco 1972, ad Abu Jihad, braccio destro di Arafat, fino appunto al leader dell’Olp, scomparso nel 2004.
Il titolo del libro è una citazione dal Talmud, “se qualcuno viene a ucciderti, alzati e uccidilo tu per primo”, che l’autore utilizza per illuminare la logica dietro le operazioni del Mossad. Quando un popolo si sente perennemente in pericolo, la spinta è quella ad agire per legittima difesa.
“La dipendenza di Israele dall’assassinio come strumento militare non è un caso”, scrive Bergman all’inizio del volume, “ma si origina dalle radici rivoluzionarie e militanti del movimento sionista, dal trauma della Shoah, dal senso che il Paese e il suo popolo sia in perenne pericolo di annientamento. E che nessuno verrà in aiuto, quando il peggio dovesse accadere”.
Eppure, denuncia Bergman, proprio in nome della sicurezza nazionale, si è superata abbondantemente la soglia della legalità, portando a termine “esecuzioni sommarie di sospettati che non rappresentavano alcuna minaccia immediata, in violazioni di leggi nazionali e di codici di guerra”. Una contro-argomentazione, esposta nel volume, arriva ancora una volta attraverso le parole di Dagan, una delle fonti di partenza di “Rise and Kill First”. L’ex capo del Mossad, scomparso nel 2016, sostiene che le eliminazioni mirate dei nemici – in gran parte appartenenti a gruppi palestinesi, egiziani, libanesi, siriani, iraniani – hanno contribuito a depotenziare conflitti aperti e su larga scala, primo fra tutti quello catastrofico e ancora incombente tra Tel Aviv e Teheran.
D’altra parte, Bergman nota come la proverbiale efficienza dell’intelligence israeliana abbia portato a innegabili successi – tra i quali, la liberazione di 102 ostaggi ad Entebbe in Uganda nel 1976 – ma a dubbi risultati strategici. L’eliminazione a sangue freddo di Abu Jihad, braccio destro di Arafat, all’inizio della prima Intifada (1988), si rivelò controproducente per il processo di pace.

il manifesto 9.6.18
Tre filosofi e una capanna
Mostre. Le diverse «Machines à penser» della Fondazione Prada, nella sua sede di Venezia. Un'esposizione, inauguratasi in contemporanea con la Biennale di architettura, indaga i rifugi intellettuali di tre filosofi: Heidegger, Adorno, Wittgenstein
di Arianna Di Genova


VENEZIA All’inizio c’è san Girolamo, chiuso nel suo eremo fra i libri e le pareti dello studio o le rocce cavernose, immerse nella quiete incomunicabile della natura. È il primo passo verso quella solitudine dello sguardo e della mente che conduce nei campi elisi della filosofia, nei luoghi ascetici del sapere.
Così, fra le «macchine del pensiero» raccolte nelle sale del bellissimo palazzo di Ca’ Corner della Regina, sede della Fondazione Prada a Venezia, viene inserito anche il padre della chiesa, nume tutelare di quel ritiro contemplativo che crea mondi alternativi a quelli vissuti quotidianamente. Lo vediamo leggere assorto e scrivere, stagliarsi sullo sfondo in bianco e nero nella celebre incisione di Dürer. Le sue sono parole e interrogativi che si generano nella totale mancanza di rumore e distrazioni, nella necessità ribadita di una uscita dal mondo. Non può mancare, inoltre, fra i punti cardinali di una geografia sentimentale del pensiero che s’immerge in se stesso Henry David Thoreau con quel suo Walden ovvero Vita nei boschi (1864), vademecum di sognatori in grado di attenersi solo ai «fatti essenziali». E in una rotazione temporale che funziona come sliding doors, ci sono pure le pietre dello spirito, le Gongshi, miniature che simulavano le montagne e che gli eruditi cinesi, almeno mille anni fa, tenevano vicine, per trarre ispirazione dal loro influsso benefico.
Ca’ della Regina, la stanza di Adorno
La mostra immaginata da Dieter Roelstraete in laguna (visitabile fino al 25 novembre), che si dispiega in tanti nuclei di silenzio, fra rifugi e capanne, fotografie di interni, libri e reinterpretazioni di «stanze» della soggettività, procede di pari passo con la Biennale di architettura, soffermandosi però sulle strutture meno spettacolari – quelle baite, piccole casette immerse nella natura o edifici spogli dell’esilio che sono stati i luoghi di elezione di tre filosofi del Novecento: Theodor W. Adorno (1903 -1969), Ludwig Wittgenstein (1889 -1951) e Martin Heidegger (1889 – 1976).
Se il tema della kermesse ai Giardini e Arsenale è Freespace, l’intercettazione di spazi di frontiera («invita a riesaminare il nostro modo di pensare, stimolando nuovi modi di vedere il mondo e di inventare soluzioni in cui l’architettura provvede al benessere e alla dignità di ogni abitante di questo fragile pianeta», hanno affermato le due curatrici Yvonne Farrell e Shelley McNamara), al centro dell’esposizione di Palazzo Ca’ Corner rintracciamo invece il concetto di hut. Non come rifugio temporaneo, struttura precaria che offre ricovero alla fuga – molto rivisitata in questi anni di guerre e migrazioni umane -, ma come dimora abitata per scelta, regno incontrastato per l’esercizio della libera meditazione.
Martin Heidegger, per esempio, se ne stava arroccato nel bel mezzo della Foresta nera (la sua baita di Todtnauberg è ancora in piedi, inaccessibile proprietà della famiglia, ma ugualmente mèta di pellegrinaggio) cucendo le sue idee nelle trame di Essere e Tempo (1927). Ludwig Wittgenstein – per fare spazio e luce al suo pensiero – prediligeva il freddo nord norvegese barricandosi a Skjolden, tra i fiordi, in una poverissima capanna di soli sette metri per otto. Non resta oggi molto di quella costruzione nera, da fiaba gotica, ma a riportarla in vita con tutto il fascino della sua impervia figura è l’artista Mark Riley (che non ha dimenticato di rendere omaggio pure alla Cabin of Philosophy di Rousseau). Nel suo diorama, la rende impenetrabile, addossandola alla montagna dentro la selva, rispettando il destino di intimità di una roccaforte, poi abbandonata, che vide germogliare il Tractatus Logico-Philosophicus (1921).
Ludwig Wittgenstein sul lago di Eidsvatn
A testimoniare quanto fosse importante l’architettura del «riparo» per oliare l’esistenza – e per contenere il proprio modo di essere all’interno di mura «amichevoli», che rispecchiassero una possibile identità – c’è anche la villa modernista di Margarethe, che il fratello Ludwig Wittgenstein ideò per lei a Vienna a metà degli anni Venti. Unico esempio di progettualità del pensatore che non disdegnò neanche la scultura, regalandoci una stupenda testa di fanciulla (qui esposta). In mostra a Venezia, per chi è in vena di feticci, c’è anche il suo bastone da passeggio, mentre una foto lo ritrae scivolare sul lago Eidsvatn, in una semplice barchetta a remi. A indagare quella volontaria «astrazione» dal mondo di Wittgenstein è Marianne Bredesen, con Siri Hjorth e Makonnen Kjelaas: l’opera dai toni un po’ horror è il modellino per un monumento – una mano con tanto di bocca che intona musiche varie e anche la sonata per violino di Bach trascritta per pianoforte dal fratello Paul – che avrebbe dovuto stagliarsi davanti la baita norvegese.
La costellazione planetaria delle Machines à penser prevede anche la cosiddetta «capanna di Adorno», che esistesolo in un titolo da leggenda, come prodotto di finzione: è l’opera Adorno Hut (1986-87) dello scozzese Ian Hamilton Finlay, a sua volta un vero eremita, scultore e poeta in cerca di fughe dalla «civiltà di massa» e architetto di paesaggi. Il suo è un readymade di materiali diversi (legno e acciaio) dedicato al filosofo di Minima Moralia. Meditazioni sulla vita offesa (quella «vita che non vive», come scriveva dall’esilio americano cui lo costrinse l’avvento del nazismo in Germania). Alla fine, si esce dalla mostra seguendo la suggestione di Seneca riportata nel bel libro-catalogo: «La filosofia insegnò a costruire case agli uomini dispersi, che trovavano il loro rifugio entro capanne, o in anfratti alla base delle rupi, o nei tronchi cavi degli alberi».

La Stampa 9.6.18
Benefici e insidie della Torah
Cardine dell’identità ebraica, ma anche trappola
di Abraham B. Yehoshua


In anni recenti si è assistito alla creazione di numerosi musei ebraici in Europa, tra i quali i più rappresentativi sono quelli di Berlino e di Varsavia. Ora anche a Ferrara è sorto un Museo Ebraico di importanza nazionale, incentrato sulla storia degli ebrei italiani a partire dall’epoca romana.
Un simile sforzo di preservazione del passato ebraico in Europa è segno della chiusura di un cerchio e di un suggello o di una rinascita? Non dimentichiamo che ci vorrà parecchio tempo, sempre che ciò avvenga, prima che nascano musei ebraici nei Paesi islamici, dove fino all’anno Mille viveva il 90 per cento della popolazione ebraica mondiale. Le tracce di questo ricco passato stanno scomparendo nel mondo musulmano. Ne rimangono in Andalusia, nel Sud della Spagna, dove la simbiosi culturale musulmana-cristiano-ebraica, da noi definita «l’epoca d’oro della cultura ebraica» (della quale ancora oggi musulmani ed ebrei godono i frutti), toccò il suo apice.
Preservare la tradizione
I nuovi musei ebraici d’Europa intendono forse preservare la tradizione degli ebrei europei prima che questa venga cancellata e offuscata dalla forte presenza politica e culturale di Israele, il Paese dove vive più della metà del popolo ebraico e che attira l’attenzione internazionale a causa dei suoi problemi politici e militari? Oppure è il fenomeno della globalizzazione che ha investito l’intero mondo a indurre le comunità ebraiche a preservare le loro tradizioni locali prima di essere travolte dall’impetuosa galoppata della modernità? O magari c’è una terza spiegazione: ebrei e non ebrei cominciano a essere stanchi e delusi delle vicende di Israele, del suo deterioramento politico e morale, e ad avere nostalgia delle comunità, grandi e piccole, sparse per secoli in tutto il mondo che hanno dato vita, grazie allo studio e all’interpretazione dei testi sacri, a una loro particolare identità.
Il termine «Popolo del Libro» fu coniato dai musulmani che, nel Corano, definiscono gli ebrei «Ahal al-Kitab». Benché li considerassero inferiori, non li costringevano a convertirsi all’islam in quanto la religione ebraica godeva di maggior prestigio rispetto a quella pagana. Il diritto degli ebrei e dei cristiani di beneficiare della protezione dei musulmani pur conservando il loro credo scaturiva dal fatto che i loro libri sacri contenevano la parola di Dio, per quanto - dal punto di vista dei musulmani - il messaggio dell’Onnipotente fosse stato da loro travisato.
Gli ebrei gradirono questa definizione di «Popolo del Libro» anche se, naturalmente, respinsero la posizione dei musulmani nei loro confronti. E a proposito del forte legame tra le Sacre Scritture e gli ebrei, il maggior esponente degli studi di ebraismo, il professor Gershom Scholem, scrisse: «Il popolo ebraico, che da un punto di vista biologico non era certo degno di maggior attenzione di qualunque altro popolo dell’antico Vicino Oriente estinto da tempo, comparve sulla scena della storia insieme al suo Libro. Il popolo e il Libro erano dunque intrecciati, sia nella coscienza degli ebrei sia in quella del mondo».
Prima della madrepatria
E in effetti nella coscienza storica ebraica il «Libro» è antecedente la madrepatria. In altre parole è la Torah che Mosè diede ai compagni nel deserto del Sinai a concedere al popolo la legittimità di possedere un territorio, a patto che il popolo rispetti le condizioni dell’autore di quel testo - sia questi Dio o Mosè. Così, mentre per tutti gli altri popoli l’identità è definita dall’appartenenza a un territorio (incondizionato fondamento del diritto nazionale), per il popolo ebraico, formatosi nel deserto, l’identità è definita dalla sua lealtà alle Sacre Scritture e il diritto di possedere una patria non è naturale ma è garantito dall’autore dei testi sacri che sottopone il suo popolo anche a continui esami sul loro contenuto.
I vantaggi di avere dei testi sacri come cardine della propria identità nazionale non sono trascurabili ma, d’altro canto, non lo sono nemmeno gli inconvenienti, i pericoli e le insidie.
Guerre a colpi di penna
Il fatto di avere costruito un’identità nazionale su tali testi ha permesso agli ebrei di mantenere la loro identità anche al di fuori della madrepatria. Non dipendendo infatti, come altri popoli, da un territorio, erano in grado di restare uniti grazie alle Sacre Scritture, malgrado fossero dispersi per il mondo, di corrispondere e di discutere sulle diverse interpretazioni dei testi, mentre la base comune dalla quale quelle interpretazioni derivavano si manteneva solida. Le guerre civili fra gli ebrei non furono combattute a colpi di spada bensì di penna, e il sangue versato era inchiostro.
La radicata abitudine a leggere, a scrivere e il continuo lavoro di esegesi permisero agli ebrei che frequentavano istituzioni religiose di confrontarsi con maggiore facilità con i testi di altri popoli, cristiani o musulmani, di assimilarli alla loro terminologia, ai loro concetti, e di integrarsi rapidamente nello sviluppo moderno. Tuttavia, come in altre religioni, ci sono stati, e ci sono ancora, molti studiosi che sono rimasti intrappolati in quei testi, rinchiusi fra le mura dei collegi biblici e completamente distaccati dalla vita che scorre intorno a loro. In Israele ci sono tutt’oggi decine di migliaia di studenti di yeshiva (centri di studio di testi sacri) che, pur essendo padri di famiglia, si dedicano allo studio dei testi antichi sforzandosi di trovare sempre nuove e originali interpretazioni in cambio di un misero sussidio e dell’esenzione dal servizio militare. E benché si autodefiniscano appartenenti a «gruppi di studio» e le comunità religiose ortodosse intorno a loro li trattino con rispetto, sono ben lontani dall’essere colti. Non conoscono le lingue straniere, il mondo delle scienze è loro estraneo e ignorano le discipline sociali e la letteratura del mondo laico.
Non c’è dubbio che questo tipo di identità imperniata sui testi sacri, oltre a preservare per secoli il popolo ebraico, ha anche contribuito a una sua drastica diminuzione in termini di numero. Dopo la distruzione del Secondo Tempio, nel 70 d.C., c’erano tra i due e i tre milioni di ebrei nel mondo, mentre all’inizio del XVIII secolo ne era rimasto un solo milione. Non tutti riuscivano a mantenere la propria identità nazionale mediante rituali religiosi e lo studio delle Sacre Scritture. Attività di questo tipo richiedono tempo e, in mancanza di un’adeguata retribuzione, possono essere causa di grande indigenza.
Verso la fine del XIX secolo, con il co
nsolidamento del nazionalismo secolare in Europa, i testi sacri ebraici divennero un ostacolo per la comprensione della nuova realtà. Gli ebrei ipotizzavano che le Sacre Scritture li avrebbero preservati dalla tempesta che li minacciava. Ma ci furono scrittori e intellettuali, conoscitori di quei testi, che, ben comprendendo quanto la loro capacità di fornire strumenti di comprensione della nuova realtà fosse limitata, pretesero una svolta. Trasformarono la lingua sacra in un idioma vivo e moderno e, soprattutto, forgiarono una realtà della quale le Sacre Scritture non rappresentavano il cardine ma solo un aspetto. È questa la rivoluzione sionista che riportò il popolo ebraico a lavorare la terra senza che tale occupazione fosse considerata inferiore rispetto allo studio e all’esegesi delle Sacre Scritture, e a possedere un territorio.
«Tutto è cultura»
Negli Anni 30 del secolo scorso c’erano a malapena trecentomila ebrei in Terra di Israele mentre nella diaspora ne erano presenti circa sedici milioni. La maggior parte degli scrittori viveva in comunità in cui l’ebraico era già una lingua viva e i testi sacri non erano al centro della loro realtà ma ne facevano semplicemente parte. E così disse in maniera provocatoria il nostro poeta nazionale, Chaim Nachman Bialik: «Il concetto di cultura in ogni popolo include varie forme di vita, dalla più bassa alla più alta. Cucire scarpe o pantaloni, lavorare la terra, tutto questo è cultura. Tutto è cultura, tutto è una miscela di spirito e materia».
I libri, le Sacre Scritture, facilmente trasportabili da un luogo all’altro, sono riuscite a preservare il popolo ebraico per migliaia di anni nella diaspora. D’altra parte, però, venendo a sostituire un territorio - prima garanzia di sicurezza - sono state anche motivo di detrimento.
Traduzione di Alessandra Shomroni

La Stampa 11.6.18
Biennale Democrazia oltre la luce che acceca per imparare a vedere
di Lidia Catalano


Luci che abbagliano fino ad accecare. E luci che creano coni d’ombra dentro cui si annidano storie destinate a restare inaccessibili agli occhi e alla comprensione umana. Condannate all’oblio, talvolta per semplice distrazione. Altre volte per scelta consapevole, dunque colpevole.
«È vero che il mondo è ciò che noi vediamo, ed è altresì vero che non di meno noi dobbiamo imparare a vederlo». È un passaggio tratto da Il visibile e l’invisibile, opera postuma del filosofo Maurice Merleau-Ponty, a incarnare lo spirito che animerà la VI edizione di Biennale Democrazia, presentata ieri con la partecipazione della sindaca Chiara Appendino. Si terrà a Torino dal 27 al 31 marzo 2019, e sarà dedicata appunto a una riflessione collettiva sul tema «Visibile Invisibile».
«Ci illudiamo che la realtà sia sempre illuminata. Ma spesso ciò che meriterebbe attenzione resta in ombra, mentre aspetti effimeri, superficiali, affollano il nostro flusso di informazioni», riflette il presidente di Biennale, Gustavo Zagrebelsky. Proprio qui risiede l’equivoco, il grande inganno. «Abitiamo un mondo ad altissima visibilità», sottolinea Gabriele Magrin, curatore scientifico della rassegna: «La realtà costantemente fotografata e condivisa ci sembra più accessibile. Ma più ci illudiamo di avvicinarci alla verità, più ci esponiamo senza difese alla valanga di informazioni che annienta la nostra capacità di comprensione».
Il surplus paralizza, rende spettatori passivi, inerti. «Incapaci», spiega Magrin. «di cogliere la profondità storica, di individuare i nessi causali e di immaginare prospettive future, un’alba dopo il crepuscolo». Così, nelle nostre vite iperconnesse eppure solitarie, ci riduciamo ad avidi divoratori dell’oggi, impotenti anche di fronte alle nuove forze occulte - su tutte la minaccia di manipolazione dei big data - che assottigliano gli spazi della democrazia.
Luce e ombra, alba e tramonto, opacità e trasparenza. L’edizione 2019 di Biennale Democrazia sarà tutta incentrata sui contrasti. Come quelli che nascono dall’imperativo della visibilità: all’esibizionismo da social network, fatto di emozioni condivise in diretta, fa da contraltare l’espansione di zone d’ombra che sottraggono allo sguardo i settori più in sofferenza della società: i poveri, i disoccupati, le vittime di violenza. «Drammi ignorati», osserva Magrin, «o destinati a suscitare ondate emotive che si esauriscono in fretta, senza innescare reali politiche di contrasto». Fiammate illusorie, dunque. Così come illusoria è la società della trasparenza, «una delle grandi promesse non mantenute dalla democrazia», come già anticipò Norberto Bobbio. E oggi più che mai minacciata dai poteri invisibili, che accumulano profitti carpendo i nostri dati personali.
Da qui l’invito di Zagrebelsky a ritagliarsi spazi di disconnessione. «Illuminiamo ciò che merita di essere approfondito e lasciamo in ombra il rumore che ci distrae, ci confonde. Abbiamo bisogno di abbassare il volume. Vorrei un’edizione di Biennale dedicata al silenzio».

Repubblica 9.6.18
Caterina la sanguinaria e la notte che divise la Francia
di Benedetta Craveri


Il saggio di Stefano Tabacchi che ricostruisce la strage di San Bartolomeo del 1572
Il 23 agosto di ogni anno Voltaire si vestiva a lutto e vegliava fino all’alba del giorno successivo per commemorare “il più disgustoso esempio di fanatismo mai registrato a Parigi”. È infatti nel corso di quella notte del 1572, passata alla storia come la notte di San Bartolomeo, che nella capitale francese aveva preso l’avvio il massacro di migliaia di protestanti che aveva insanguinato il Paese. Sulle diverse chiavi di lettura di questo evento tristemente celebre torna ora a fare il punto Stefano Tabacchi (già autore di due pregevoli biografie di Maria de’ Medici e di Mazzarino) ne La strage di San Bartolomeo (Salerno Editore, pagg.152, euro 13). Ma incominciamo dai fatti. Solo sei giorni prima della mattanza, tutto lasciava sperare che le guerre di religione che avevano sprofondato la Francia nella barbarie fossero giunte finalmente a termine. Celebrato sul sagrato di Notre-Dame il 18 agosto, il matrimonio di Enrico di Navarra, capo degli ugonotti, con Margherita di Valois – la celebre reine Margot –, sorella del re di Francia, Carlo IX di Valois, non annunciava forse l’inizio di una pacifica convivenza tra cattolici e riformati? Era questo l’obiettivo su cui aveva puntato Caterina de’ Medici nel dare la sua recalcitrante ultimogenita in sposa al cugino Borbone. Da più di vent’anni, a partire dalla morte del marito, Enrico II, la regina fiorentina, che governava di fatto il Paese al posto dei figli Francesco II e poi Carlo IX tentava di trovare una via di uscita ai conflitti che minavano l’autorità della corona e l’integrità stessa del regno.
Caterina era convinta che, riflesso di una stessa verità divina, le due diverse letture del cristianesimo potessero benissimo convivere, ma doveva fare i conti con l’intolleranza dei cattolici e l’intransigenza dei protestanti.
Optare per i cattolici significava dare un potere illimitato al clan dei Guisa, proprietari di un terzo del territorio del Paese e legati a filo doppio con la Spagna, nemica storica della Francia. Privilegiare gli ugonotti implicava, invece, allearsi con la Fiandra protestante e muovere a Filippo II una guerra dagli esiti terribilmente incerti.
Caterina aveva dunque, una volta di più, dato prova del suo talento diplomatico, facendo del matrimonio della figlia il simbolo di una politica di conciliazione.
Tutto era andato per il meglio ma, dopo cinque giorni di festeggiamenti, l’attentato contro l’ammiraglio di Coligny, uno dei capi della religione riformata, dava inizio al dramma. Indignati, gli ugonotti venuti a Parigi da tutta la Francia per assistere alle nozze, avevano chiesto giustizia a Carlo IX che si trovava in realtà con le mani legate. Riunita al Louvre, e difesa da poche guardie, la famiglia reale era di fatto prigioniera di un duplice assedio: quello interno dei molti ugonotti, ospiti nella reggia, e quello esterno della popolazione parigina, ostile ai protestanti e sobillata dai Guisa. Chiamato ad affrontare l’emergenza, il consiglio della corona si riunì a più riprese nel pomeriggio e nella notte del 23. Non è rimasta traccia di chi vi prendesse parte e di quanto fu detto, ma alla fine si optò per quello che dovette sembrare il minore dei mali: l’eliminazione di un numero limitato di capi ugonotti, vuoi per evitare un colpo di mano degli ospiti, vuoi per placare il fanatismo ultracattolico della plebe parigina. Ma quella che doveva essere una operazione chirurgica sfuggì rapidamente al controllo dei suoi organizzatori, trasformandosi in un immenso massacro. Offrendoci una ricostruzione estremamente efficace del contesto storico e della dinamica che aveva innescato la spira di violenza della notte di San Bartolomeo, Tabacchi sottolinea come anche questo evento non sia sfuggito alla tendenza oggi assai diffusa tra i politici e gli uomini di governo che, mossi da “preoccupazioni contingenti”, privilegiano “una memoria pubblica sulla base di una centralità delle vittime”, distorcendo la nostra percezione del passato. La violenza del fondamentalismo islamico viene così spesso accostata a quella di cui è stata teatro l’Europa del ’500. Certamente “Caterina non era una santa”, ma a ispirare la sua condotta non era il fanatismo religioso bensì, come ci ricorda Tabacchi, “la volontà di affermare la priorità del potere politico e delle istituzioni statali rispetto alle confessioni religiose”. E se il massacro di San Bartolomeo segna la sua sconfitta, sarà il genero, una volta salito sul trono con il nome di Enrico IV, a realizzare il suo sogno.

venerdì 8 giugno 2018

l’espresso 3.6.18
Grandi incontri
Cultura
colloquio con Andrea Camilleri
Quello che vedo
La cecità dà libertà, dice lo scrittore siciliano. Che qui parla di teatro, di affetti, di politica. Del gusto di far risuonare le parole nel buio. Come Tiresia
Di Roberto Andò


Tiresia è una figura che mi ha sempre affascinato e che ho coltivato nel tempo. Ricordo il piacere che ho provato quando ho letto la prima volta “La terra desolata” di Eliot. Fino ad allora di Tiresia avevo un ricordo non proprio glorioso, in teatro lo avevo visto interpretare da Annibale Ninchi, indubbiamente un grande attore, ma la sua recitazione era orientata a sopraffare il personaggio di Edipo, e mi sembrò persino ampollosa. Ricordo che, tornato a casa, presi il testo, lo lessi e fu allora che pensai che il personaggio avrebbe meritato un tono più dimesso. Proprio quello che ha fatto Eliot nel suo poema».
Andrea Camilleri, partiamo dunque da Tiresia. Quando hai incontrato per la prima volta questo personaggio?
«Quando diventa a tutti gli effetti personaggio, cioè leggendo Sofocle, l’Edipo Re».
Perché lo hai scelto come tuo eroe?
«L’idea di raccontare e impersonare Tiresia, a parte la recente parentela di cecità, nasce proprio dalla voglia di pronunziare certe parole nel buio, la voglia di far risuonare il suono delle parole di Tiresia, e anche i versi di Eliot, nel buio della cecità. Nel mio testo c’è un momento in cui cito Borges e dico che le parole di Sofocle ascoltate nel buio della cecità acquistano il suono della verità assoluta. Insomma, ho scelto Tiresia d’impeto. Quando mi è stato chiesto che personaggio avrei voluto fare a Siracusa, me lo sono subito sentito dentro, forse perché al punto in cui sono arrivato mi piacerebbe avere una idea più precisa dell’eternità. A 93 anni, hai certezza del fatto che l’eternità ti stia venendo incontro, qualunque essa sia, e qualunque forma essa abbia».
Com’è cambiata la tua vita da quando non vedi più?
 «Primo Levi dice che riuscì a salvarsi dall’orrenda metamorfosi a non-uomo vissuta ad Auschwitz con la poesia. Io mi sono salvato con la scrittura. Pensavo di non poter più scrivere. Come fa un cieco a scrivere? Avrei potuto dettare, ma l’avrei dovuto fare in una lingua che non è esattamente la mia, cioè l’italiano. E non avrei più potuto scrivere i miei bei Montalbano in vigatese. Fortunatamente è intervenuta Valentina Alferj. I sedici anni vissuti accanto a me hanno fatto sì che potesse aiutarmi. Negli ultimi tempi, padroneggiando perfettamente la mia lingua, Valentina era in grado di correggere le bozze per conto mio e dunque al momento cruciale è stata la mia ancora di salvezza. Certo, la mia vita è mutata perché sto imparando una cosa abbastanza complicata, ma impararla a 93 anni non è così difficile per me, perché nella mia vita io non sono mai stato un uomo superbo, mai. È una colpa che non potrà mai essermi imputata. Da quando sono cieco sto imparando l’umiltà della dipendenza dagli altri. Gli altri erano già importantissimi per me, ma ora hanno acquisito una importanza che non è valutabile. Sono completamente dipendente dalla cortesia e dalla gentilezza di chi mi circonda. Mi sono dovuto abituare a tutto questo. Ma questa lezione di umiltà è stata comunque salutare, e l’ho accettata di buon grado».
Pensi che la cecità abbia influenzato la tua scrittura?
«No, credo di no. Forse mi ha fatto più riflessivo, o leggermente meno impetuoso. Insomma, oggi mi concedo uno spazio maggiore di riflessione». Un illustre critico letterario, Silvano Nigro, sostiene che negli ultimi Montalbano tu cerchi di liberarti del romanzo giallo per approdare al romanzo tout court. Sei d’accordo? «Se questo è vero, è dovuto a un piano. Gli ultimi Montalbano hanno la stessa scrittura dei miei romanzi storici, mentre prima si differenziavano. La scrittura dei Montalbano, sia pure in vigatese, era molto semplificata. Ora sono riuscito a non fare più distinzioni tra un romanzo storico, scritto rigorosamente, e i Montalbano, nei quali concedevo qualcosa anche alla casalinga di Voghera. Non ho più bisogno di questo, i due linguaggi possono essere uno solo». Resta il fatto che tu sei uno scrittore per molti versi inclassificabile. Sei un grandissimo, amatissimo, scrittore di romanzi gialli ma scrivi anche romanzi che hanno un tono completamente diverso. In alcuni sembri metterti in ascolto del male, con risonanze dostoevskiane.
«Sì, ma direi che questo ascolto c’è sempre stato nei miei romanzi, anche in Montalbano. È la cosa che mi interessa di più. Da sempre. Negli altri a cui ti riferisci sondo un male che si può definire assoluto. Io sono stato un appassionato lettore di Bernanos, del suo “Mouchette” ».
Come classificheresti il male in “Mouchette”?
«Ecco, se c’è una influenza che rivendico è Bernanos».
Torniamo a Borges. Nel testo su Tiresia citi una sua frase: “Noi tutti siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo”.
«Sì, è un concetto che aveva già espresso in vario modo Shakespeare. Il mondo è un palcoscenico, il teatro è una metafora della vita».
E il teatro è al centro del tuo ultimo Montalbano, “Il metodo Catalanotti”. Il teatro sembra tornare nella tua scrittura come il luogo in cui rimettere tutto insieme. Questo accade sia nel testo su Tiresia, dove tu confondi ulteriormente le carte assumendo un triplice ruolo, d’attore, di persona e personaggio, sia nell’ultimo Montalbano, il cui sfondo è ambientato nel mondo del teatro d’avanguardia. Come mai?
«È un po’ come quelle fiamme che cerchi in tutti i modi di tenere a bada, ma che all’improvviso, a sorpresa, fanno una gran vampata. Se tu guardi la mia bibliografia, ti rendi conto che tra il primo romanzo e il secondo sono passati otto anni. Sono otto anni di silenzio totale. E sono quelli in cui cerco di dare l’addio al teatro. Perché il teatro è la mia vita. Da quando ho cominciato a fare teatro non sono più stato in grado di scrivere un rigo, neppure una poesia, un miserabile sonetto di quattordici versi. Non ci riuscivo più, il teatro mi aveva completamente permeato. Sono vissuto per il teatro, ho cercato di liberarmene, e ora sembra essere venuto il tempo di tornarci con libertà». Cosa ti piaceva di più del teatro: il rapporto con gli attori? O con il testo?
«Mi piaceva vedere una mia idea di personaggio trasformata in carne e ossa. L’ho provato sommamente quando ho messo in scena “Finale di partita” di Beckett, dove non c’è movimento se non nella parola, è un lavoro sulla parola ridotta all’essenziale. Per me la parola è l’uomo. Spesso quando scrivo romanzi e deve entrare un personaggio nuovo non lo descrivo, lo faccio parlare. Mi chiedo: questo come parla? Una volta individuato il suo modo di parlare, ricavo il suo aspetto fisico dalle parole. Se parla così, non può che avere dei baffetti piccolini alla Hitler e dev’essere anche un pochino claudicante, capito?».
Perfettamente. Mi colpisce che tu citi Beckett e la tua regia di “Finale di partita” perché quando ho letto “Conversazione su Tiresia” l’ho visto un po’ come “L’ultimo nastro di Krapp”, lo stesso rapporto con la memoria, la stessa volontà di raccogliere frammenti di memoria esplosa.
«È vero, ho fatto una sorta di “potage”».
Pensi che la vecchiaia sia anche umiliazione? Vedendo te non lo si penserebbe mai, anzi, si penserebbe il contrario.
«È il procedimento con cui se irrighi regolarmente un albero di arance lo preservi dalla morte, ecco, la mia irrigazione vitale è la memoria. Leonardo Sciascia diceva che da vecchi si è condannati alla presbiopia della memoria, cioè ti ricordi di un fatto che è accaduto quando avevi quattro anni e ti dimentichi di quello che hai mangiato il giorno prima. Ebbene, questa presbiopia è diventata vivissima in me. Per esempio, in questi ultimi giorni ho dialogato moltissimo con il mio nonno paterno. E dire che mi ero persino scordato come era fatto. Ora mi è tornato preciso, e mi è tornato anche il gioco che mi faceva fare. Poiché è morto quando io avevo appena compiuto tre anni, questa è una memoria di novant’anni fa. L’immagine è questa. Lui è malato, seduto su una poltrona accanto al letto, di fronte all’armoir con lo specchio. Io sono seduto sulle sue ginocchia, e lui mi dice: «Nenè, taliati ’u specchio». Io rispondo: «Nonno, ci sono». E lui, di colpo, mi butta fuori dallo specchio. «E ora?», chiede. «Non ci sono più, nonno», rispondo. E, di slancio, torno a riflettermi nello specchio. Questo gioco mi è tornato lucidissimo in questi giorni. Ecco, questa irrigazione continua mi tiene vivo, e produce ancora qualche frutto sull’albero».
Ti dispiace descrivermi la tua giornata?
«Posso dirti che per ora è buona. Comincia in bagno, e per tutto quello che sono i lavacri mattutini sono completamente autonomo. Basta che non mi spostino gli oggetti e riesco a farcela da solo. E finalmente respiro, perché mi devi credere, Roberto, ti dico la verità assoluta, io mi sono sempre odiato. Vedere questa faccia da imbecille ogni mattina allo specchio, essere costretto a guardarsi e a fare le smorfie, mi pesava. Io mi sono odiato da sempre, e ora finalmente non mi vedo più. Ah, che meraviglia! Sì, vado un po’ alla cieca, mi faccio qualche taglietto in più, pazienza. Quando sono vestito di tutto punto, me ne vengo qui, allo studio. Prima, quando ancora vedevo, mi mettevo immediatamente a lavorare al computer. Ora è un po’ diverso, resto un po’ da solo a riflettere. Valentina deve accudire alle sue faccende domestiche, poverina, e quindi arriva intorno alle dieci. In quell’ora in cui la aspetto rifletto su quello che dovrò dettarle. Quando arriva lavoriamo sino all’una meno dieci. Poi vado a mangiare, e, dopo, a riposarmi, un’abitudine che in questi ultimi anni è diventata obbligatoria. Mi alzo verso le tre e mezzo, e, nel pomeriggio, viene una ragazza, non sempre è la stessa, che mi fa da lettrice, o mi aiuta a fare le mie ricerche. Con lei lavoro sino alle sei e mezza, a quel punto stacco e sento un po’ di musica alla radio. Alle sette mi trasferisco nell’altro appartamento e con mia moglie guardiamo il telegiornale, poi ceniamo, e verso le undici e mezzo andiamo a letto. Questa è la mia giornata tipo. Ah, dimenticavo di dire che nel pomeriggio mi faccio anche leggere un po’ della posta che arriva. Se qualcuno mi manda un libro di poesie, dico alla ragazza di leggermene qualcuna, e se è il caso le dico di mettermelo da parte, oppure le dico che può toglierlo dai piedi. Aggiungo che nel pomeriggio sono continuamente interrotto da figlie, nipoti e pronipoti. Queste interruzioni non mi dispiacciono, perché io sono stato capace di scrivere al computer avendo due bambini di tre anni sotto il tavolo che mi davano pedate, urlavano e cantavano, e un altro che girettava per la stanza. Ecco, questo casino più che dispiacermi mi piace, perché ho sempre avuto bisogno di sentire la vita attorno a me, non ho mai capito il poeta che si chiude nella turris eburnea. Cosa ci stai a fare nella tomba? Così è accaduto che un giorno mia moglie entrasse nello studio e vedendo un macello di bambini, e io che continuavo tranquillo a scrivere, mi dicesse: «Tu non sei uno scrittore Andre’, sei un corrispondente di guerra!».
Nel testo su Tiresia accenni a certe discussioni avute con Pasolini. Di cosa si trattava?
«È una storia terribile. Ero stato incaricato di mettere in scena il suo “Pilade”. E siccome ero molto amico di Laura Betti, le chiesi di procurami un incontro con Pier Paolo per parlargli della mia idea di regia. Ci incontrammo e ne discutemmo, lui si trovò sostanzialmente d’accordo. Al terzo incontro lui mi chiede: «E gli attori chi sono?». Dico: «Cercherò di prendere dei ragazzi usciti dall’accademia, quelli che sono stati miei allievi». «Eh, no», fa lui. «Non mi fare un Pilade che parla perfettamente italiano». «Perché, tu come l’hai scritto?», gli chiedo. «In italiano», risponde. «Ma le voci educate non mi piacciono, prendi dei ragazzi di strada». «No», dico io, «con i ragazzi di strada questo testo non posso farlo». Insomma, ci accalorammo, tanto che io gli chiesi di rivederci, pensavo che questa cosa tra noi due andasse chiarita. Lui mi rispose che stava per fare un viaggio e che al ritorno mi avrebbe chiamato. Io andai a Bagnolo con mia moglie, e quando una sera accesi il televisore sentii la prima notizia del telegiornale: era l’assassinio di Pier Paolo. Fu tremendo. Dopo, mi rifiutai di mettere in scena Pilade. Non potevo più».
Come ti arriva, ora, il rumore di tutto quello che sta accadendo dal punto di vista politico in Italia? «Purtroppo non mi arriva ovattato. Gradirei che mi arrivasse attutito, invece arriva molto forte. E soprattutto colpisce la mia impotenza, perché in altri tempi avrei scritto degli articoli, ora non posso più, non me la sento. È il motivo per cui intervengo raramente nelle trasmissioni televisive. Non vado mai in studio, non sopporto l’accavallarsi delle voci. Non vedendo, le urla mi confondono». Per te che sei uno scrittore che da sempre dialoga con Pirandello - un Pirandello imparentato a Gogol - dovrebbe essere particolarmente interessante questo momento di finzioni, in cui la politica cerca di purificarsi ma sembra essere allo stesso tempo pura finzione. In Sicilia persino l’antimafia, per fortuna non tutta, è diventata finzione, e in campo nazionale la politica del nuovo spesso nasconde un forte tasso d’impostura. Come la vedi tu?
«Malissimo. Ho sempre pensato che la politica dovrebbe essere uno specchio lucidissimo. Sono stato abituato male, perché tutto si poteva dire degli uomini di Stato con i quali sono nato alla politica - si chiamavano Einaudi, De Gasperi, Togliatti, Sforza - ma pensando a loro oggi mi commuovo. Quando l’Italia nella persona di De Gasperi venne chiamata a Parigi a discolparsi davanti ai vincitori e a dire quale sarebbero stati i propositi dell’Italia democratica, lui sapeva che si sarebbe trovato in quel teatro, da sconfitto, davanti ad americani, inglesi, russi, francesi, neozelandesi. La sera prima, nella sua stanza - questo lo ha raccontato Vittorio Gorresio - c’erano con lui Togliatti, Nenni, Sforza, Parri, tutti a verificare il documento che avrebbe letto e a dire «senti, che dici?, sostituiamo questa parola, scriviamo così», in un clima cioè di totale collaborazione. Ecco, questa è l’Italia. Pensa che al momento di andare sul palco, Sforza disse a De Gasperi «Alcide, cambiati la giacca, questa è un po’ lisa», e lui rispose «Ma io non ne ho altre». Allora Sforza gli si mise accanto, vide che erano su per giù della stessa taglia, si levò la giacca, e gliela porse. dicendo: «Mettiti la mia che è più nuova». Questa è l’Italia che ho amato. Quella di oggi, con questi personaggi, mi fa oscillare tra l’orrore e lo spavento».
Ti faccio l’ultima domanda da Tiresia. Se tu dovessi avvertire gli italiani di un pericolo futuro, se dovessi predire il rischio più grosso che attraversa l’Italia come comunità, quale diresti?
«Quello economico, con i suoi rilessi sul sociale. La bilancia è sensibilissima, basta una mezza parola per fare precipitare la situazione. Lo spread che prima si manteneva sino a 150 è salito sino a duecento appena uno di questi due proconsoli ha detto che bisogna ritrattare i contratti con l’Europa. Io temo che questi individui sono capaci nel giro di ventiquattro ore di farci inghiottire dal mercato, di ridurci come Don Falcuccio, con una mano davanti e una di dietro. E provo una gran pena. Mi sono occupato per tutta la vita di politica, da cittadino, e lasciare un’Italia così ai miei pronipoti mi fa pensare di aver fallito tutto».
l’espresso 3.6.18
Le idee
Leonardo d’Arabia
Come un quadro mette in discussione il tabù islamico delle immagini
di Angiola Codacci-Pisanelli


Alcune cose sul mondo arabo le sappiamo tutti. Sappiamo tutti per esempio che l’Islam vieta di riprodurre la figura umana. Ma allora come si spiega che un principe della penisola araba spenda 450 milioni di dollari per comprare un quadro che rappresenta Gesù? Quel Gesù che è anche per l’Islam un profeta importante, anche se meno importante di Maometto, e quindi ancora più protetto dal famoso divieto di rappresentazione? Eppure abbiamo tutti presente le immagini dei Buddha di Bamiyam, in Afghanistan, distrutti dai talebani nel 2001. E conosciamo bene il terribile “effetto farfalla” scatenato dalle vignette danesi su Maometto: nel 2005 a Copenhagen un giornale pubblica delle vignette satiriche, e nei mesi seguenti questo scatena violente manifestazioni in tutto il mondo, finché nel 2006 un sacerdote italiano viene ucciso in Turchia. Qualcuno ricorderà anche “Il mio nome è rosso”, il giallo che lanciò la carriera di Orhan Pamuk, portandolo dalle vette delle classifiche di vendita di tutto il mondo al Premio Nobel per la Letteratura, nel 2006: lo stesso anno delle manifestazioni contro le vignette. La trama di “Il mio nome è rosso” riguarda proprio la proibizione della figura umana. Il libro è ambientato a Istanbul alla fine del Cinquecento, e parte dall’uccisione di un miniaturista per raccontare lo scontro tra la tradizione ottomana – che, appunto, vietava di riprodurre essere viventi – e l’ammirazione per i dipinti dei pittori del Rinascimento veneziano, ricchi di figure umane. Ma come mai non creano problemi le campagne pubblicitarie con fotomodelle, a meno che non siano troppo poco vestite rispetto al “comune senso del pudore” locale – come è successo a Gisele Bündchen qualche anno fa? E se il divieto riguarda soprattutto Allah e i profeti, come si spiega l’investimento record saudita per il “Salvator Mundi”? Dopo pochi giorni di suspense, si è saputo che il misterioso acquirente del quadro attribuito a Leonardo da Vinci era un parente e stretto collaboratore di Salman bin Mohammed Al Saud, il principe ereditario e leader di fatto dell’Arabia Saudita che da qualche mese ha lanciato un percorso di riforme “filo-occidentali”, dalla revoca del divieto di guidare per le donne alla riapertura dei cinema. Le prime reazioni allo spettacolare acquisto sono state maligne: ah vedi, in pubblico le immagini sono vietate, ma se ti appendi un Leonardo in salotto non c’è problema. Come succede per le donne arabe che spesso fuori casa, volenti o nolenti, indossano il velo – hijab, niqab o burqa – ma poi sono (o almeno così si dice in Occidente) grandi acquirenti di vestiti discinti e di biancheria sexy. Questo doppio standard di comportamento, normale per gli arabi, è invece un nervo scoperto nel rapporto tra il mondo islamico e quello cristiano: che è illuminato dall’idea che “Dio ti vede” e che un bravo credente “non ha niente da nascondere”. Niente di più diverso, del resto, tra le mura ininterrotte che custodiscono la privacy della casa araba tradizionale e le grandi finestre senza tende che permettono a ogni passante di curiosare negli appartamenti tipici di molti paesi protestanti. La malignità intorno al quadro comunque ha avuto vita breve: si è saputo presto che era stato comprato per essere esposto nel Louvre di Abu Dhabi, da dove presto farà concorrenza alla Gioconda del Louvre parigino. Ma il dubbio è rimasto: le immagini di esseri viventi nel mondo islamico sono vietate o no? Come succede spesso quando si parla di arabi, la risposta è complessa. E richiede due movimenti paralleli: allargare il campo e ritornare indietro nel tempo. Il punto di partenza è il libro che unisce le tre religioni monoteiste, la Bibbia. Lì il divieto c’è, ed è scritto molto chiaramente. «Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù ne’ cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra», si legge nel libro dell’Esodo. E continua: «Non ti prostrare dinanzi a tali cose». Il divieto biblico è direttamente legato al rischio di idolatria: senza immagini di esseri viventi, non c’è il rischio che qualcuno finisca per venerare il vitello d’oro. Nel mondo ebraico il divieto è ancora rispettato, tra i cristiani, invece, è caduto presto in disuso. E per lungo tempo affreschi e dipinti all’interno delle chiese, con le loro storie di vite dei santi, hanno avuto una funzione di “catechismo per immagini” rivolto a fedeli quasi sempre analfabeti - mentre ebraismo e Islam hanno in comune i luoghi di culto senza immagini e lo studio diretto dei testi sacri. L’iconoclastia, cioè la “crociata” per la distruzione delle immagini, nasce a Costantinopoli nell’VIII secolo proprio in risposta all’Islam, che per colpa delle immagini sacre accusava i cristiani di idolatria. E un’altra forma meno famosa di iconoclastia è nata con la riforma protestante: da Calvino in poi, le chiese di chi rompeva i ponti con Roma erano caratterizzate dall’assenza di figure sacre, scolpite o dipinte: una caratteristica che dura ancora oggi. Ma torniamo all’Islam. Come scrive François Boesplug ne “La caricatura e il sacro” (Vita e Pensiero), «il Corano non vieta esplicitamente le immagini di Dio, né le immagini divieto». È in base a questi testi, meno importanti del Corano, che alcune frange di musulmani considerano proibite le immagini di esseri viventi. E poiché tra i più focosi fautori del divieto ci sono vari gruppi terroristi, l’investimento del principe saudita per il Salvatore leonardesco mostra un chiaro messaggio politico: è un modo per provare la vicinanza ai valori occidentali da parte di un paese, l’Arabia Saudita, che avendo dato i natali a Osama Bin Laden e a 15 dei 19 terroristi morti negli attentati dell’11 settembre ha continuamente bisogno di rassicurare l’Occidente da questo punto di vista. Il divieto è più sentito nell’Islam sunnita che tra gli sciiti. Questo spiega le famose rappresentazioni di Maometto in miniature persiane del XVI secolo e anche l’uso propagandistico delle immagini di capi religiosi che si è diffuso in Iran dopo la rivoluzione khomeinista. Quest’ultimo aspetto ci porta a parlare di fotografie e video. Circa un secolo fa una raccolta di “fatwa” dell’università di Al Ahzar stabilì che foto e video sono ammessi perché derivano da un procedimento meccanico, privo di volontà creatrice: «Le fotografie sono come immagini rilesse in uno specchio e i video sono riproduzioni di “ombre imprigionate”». Di certo, lo scarso uso di figure umane ha portato l’arte islamica a perfezionare magnifici giochi astratti, che si sono sviluppati in parallelo alla matematica e alla geometria. E dalla geometria all’arte astratta il passo è breve. Anche oggi molti famosi artisti contemporanei che vengono da un ambiente islamico giocano con l’astratto e con la figura umana. Pensiamo alla pakistana Shahzia Sikander, nelle sue opere il disegno geometrico e le figure umane si fondono, e prendono nuova vita grazie a tecnologie usate per realizzare cartoni animati e videogame. Si arriva così ad animazioni ipnotiche dove frammenti di figure spiccano il volo seguendo le progressioni matematiche che regolano il disegno degli stormi di uccelli nel cielo o la dispersione di particelle solide nel corso di un fiume. Il risultato sono immagini insieme figurative e astratte, umane e immaginarie. E che affascinano allo stesso modo l’occhio orientale e quello occidentale.
“In Italia si lavora il 20 per cento in più rispetto alla Germania (1.725 ore, pro capite contro 1.371), ma si produce il 20 per cento in meno e si guadagna molto meno dei tedeschi”
l’espresso 3.6.18
Il futuro dell’occupazione
Lavorare meno lavorare tutti
Distribuire i posti riducendo gli orari. Di fronte ai cambiamenti tecnologici è l’unica strada. Ma l’Italia fa il contrario
di Gloria Riva


Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo»: è il 1930, John Maynard Keynes si trova a Madrid per esporre il suo trattato sulle “Prospettive economiche per i nostri nipoti”. I nipoti in questione oggi sono i giovani che entreranno nel mercato del lavoro tra dodici anni, cioè nel 2030, e il problema fondamentale è la disoccupazione, che con l’aumento della tecnologia sta contribuendo a ridurre drasticamente la richiesta di forza lavoro, già massacrata dalle crisi del 2008 e 2013. Basterà una redistribuzione dell’orario per riconquistare l’eden della piena occupazione? Intorno a questo interrogativo ruota l’interesse oggi si molti studiosi. Tra loro anche il sociologo Domenico De Masi, che il 5 giugno esce nelle librerie con “Il lavoro nel XXI secolo”, edito da Giulio Einaudi: un tomo gigantesco e riassuntivo di tutto il pensiero critico dell’ottantenne professore. Ripercorre il significato e il valore del Lavoro da Adamo ai giorni nostri e conclude con una proiezione - non troppo catastrofica - sul futuro. In Italia il tema è di grandissima attualità, perché nonostante la massiccia riforma del Jobs Act, la disoccupazione resta all’11 per cento, così come rimane alta la percezione di instabilità da parte dei cittadini e i salari continuano a restare al palo. E pensare che, alla fine degli anni Novanta, gli italiani avevano redditi allineati con quelli degli inglesi, mentre oggi sono stati superati persino dagli spagnoli che dieci anni fa non erano neppure in gara. E non è un caso se l’idea dei Cinque Stelle di istituire un reddito di cittadinanza ha conquistato gran parte del Sud Italia, dove il lavoro continua a essere l’eterno assente. Nel suo libro, prima di entrare a capofitto nel groviglio italiano, De Masi si sofferma sulla prospettiva di lungo termine: «Siamo presi dal pessimismo perché il progresso tecnologico elimina più manodopera di quanta riusciamo a riassorbirne. Quelli di cui soffriamo sono disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi. In pochissimi anni le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero sono state realizzabili con un quarto di quell’energia umana che eravamo abituati a impegnarvi. E quella curva non si è ancora conclusa, continuerà a crescere molto velocemente, riducendo la domanda di lavoro», spiega il professore, che invita a guardare oltre all’atrocità dell’assenza occupazionale, ben simboleggiata dal caso di un operaio sessantunenne milanese che la settimana scorsa è stato licenziato da un’azienda di Melzo perché è stata acquistata una macchina che svolge automaticamente il lavoro a cui lui, per trent’anni, era stato assegnato. Così dice la lettera di licenziamento. «Per riconquistare l’eden, Keynes sostiene che occorre sostituire la perizia nel lavoro con la perizia nella vita», dice De Masi. «La trasformazione avverrà gradualmente. In una prima tappa, di natura organizzativa, durante la quale il lavoro diminuirà drasticamente senza ancora scomparire del tutto, occorrerà ridistribuirne il residuo in modo che ognuno possa essere occupato sia pure per un tempo minimo». Ma De Masi non è ovviamente l’unico studioso ad approfondire il tema. L’economista Carlo Dell’Aringa ha mandato alle stampe due settimane fa il dossier “L’Esplosione dei lavori temporanei: fattori ciclici o strutturali?” pubblicato da Arel, Agenzia di ricerca e legislazione. Vi si scopre che in Italia in dieci anni si è verificata una riduzione delle ore di lavoro di circa il 15 per cento, ma il numero di persone che risultano occupate è lo stesso. Cos’è successo? Probabilmente nulla di buono: le persone lavorano meno ore non per scelta ma per necessità, perché trovano solo occupazioni non piene, stagionali, “liquide”. Eppure una riduzione della quantità di lavoro pro capite, di per sé, non sarebbe un fattore negativo, se però avvenisse in un quadro di redistribuzione del lavoro controllata, cogestita e sostenuta dal welfare. De Masi ad esempio cita l’accordo fra sindacato e imprenditori tedeschi per consentire ai metalmeccanici con esigenze famigliari di ridurre l’orario a 28 ore settimanali, pur mantenendo i livelli salariali. «Indurre gli uomini, che sono la maggioranza dei metalmeccanici, a occuparsi maggiormente della famiglia è sintomo di intelligenza, serve a equilibrare l’enorme divario tra donne, che si fanno carico di quasi tutto, e uomini». De Masi fa anche notare che in Italia si lavora il 20 per cento in più rispetto alla Germania (1.725 ore, pro capite contro 1.371), ma si produce il 20 per cento in meno e si guadagna molto meno dei tedeschi. Lì sta il problema: «Il sindacato non è stato in grado di guardare lontano, non ha mai chiesto una riduzione dell’orario di lavoro a fronte di un’incapacità decennale di aumentare la produttività che deriva dalla mancanza di tecnologia e scarsa organizzazione del lavoro, provocata dall’assenza di manager e di imprenditoria competente». Ma il modello tedesco sarebbe difficile da applicare in Italia, fa notare Dell’Aringa: «L’esempio della Germania va letto alla luce della flessibilità che è ben gestibile nelle imprese di grandi dimensioni, mentre nelle piccole si rischia di incappare in gravi problemi di direzione. Pensiamo alla tipica impresa italiana, che ha meno di 15 dipendenti: la riduzione d’orario di un dipendente finirebbe sulle spalle dei colleghi, a meno che non vi sia una seria pianificazione dei compiti e una gestione manageriale, che spesso manca». Di più. Da tempo imprenditori e sindacalisti italiani, con il benestare e il finanziamento degli ultimi quattro governi, hanno puntato molto sulla detassazione del lavoro straordinario, rendendolo la normalità, specialmente nel ricco Nord, dove si lavora anche 55 ore la settimana. E così succede che l’impresa, invece di prendere in considerazione una nuova assunzione, chiede ai dipendenti che già ha uno sforzo extra. Che tra l’altro è inversamente proporzionale alla produttività, perché più aumentano le ore di lavoro, minore è l’efficienza. Insomma avviene esattamente il contrario del modello a cui si dovrebbe puntare: chi ha un’occupazione lavora troppo, chi è disoccupato resta fuori. «Se nella grande industria il super utilizzo del lavoro straordinario è arginabile per l’elevata presenza sindacale, il fenomeno è esploso nelle piccole imprese con gravi fenomeni di elusione. Capita che la voce “altri rimborsi” nasconda centinaia di ore passate in officina, per altro non soggette a tassazione», dice Luca Nieri, sindacalista della Fim Cisl di Bergamo. C’è poi un’altra forma di lavoro straordinario tutta italiana: «Il vezzo di manager e quadri di restare in ufficio ben oltre l’orario stabilito, regalando ore agli azionisti. Mai in un paese protestante accadrebbe una cosa simile, mentre da noi si cerca un’espiazione del senso di colpa insito nella cultura cristiana, dimostrando al datore di lavoro l’attaccamento e il concetto del dovere, nonché la disaffezione alla famiglia. Non a caso le donne, che in Italia si fanno carico delle questioni domestiche, lasciano l’ufficio prima dei colleghi maschi e, tendenzialmente, fanno meno carriera», incalza De Masi, che ha calcolato: «Oltre due milioni di persone dedicano due ore extra al giorno all’ufficio. Fanno quattro milioni di ore, sufficienti per creare 500 mila nuovi posti». Eppure spesso lo straordinario è un modo per rispondere al problema dei bassi salari, che è una variabile legata alla scarsa produttività, ferma da vent’anni: «La produttività non cresce, le imprese non riescono a generare ricchezza aggiuntiva e i salari restano invariati», dice Dell’Aringa. «L’Italia, anche per colpa del debito pubblico accumulato, non ha investito. Lo ha fatto solo il 20 per cento dell’industria manifatturiera, che ha compiuto il grande balzo, cogliendo la sida della globalizzazione e dell’export, facendo crescere produttività e salari. Nelle altre imprese, invece, la gente continua a lavorare esattamente come 25 anni fa». Per invertire la tendenza, bisognerebbe proseguire sull’incentivazione di Industria 4.0, puntare sulla formazione di competenze, mettendo più risorse su scuola, università e riformando da capo a piedi la giustizia e la pubblica amministrazione. «Ma non mi pare che queste siano priorità in questo momento», dice l’economista. Il gap salariale secondo De Masi, andrebbe anche affrontato tassando le rendite finanziarie, così da ridurre la forbice sempre più ampia fra ricchi e poveri: «Nel 2007 dieci famiglie possedevano la stessa ricchezza di 3,5 milioni di poveri, oggi quei pochi ricchi hanno la stessa ricchezza di sei milioni di poveri». Usando un altro paragone, «Adriano Olivetti diceva che nessun dirigente doveva prendere più di dieci volte rispetto al salario più basso della sua impresa, mentre oggi ci sono top manager che prendono mille volte di più rispetto ai loro dipendenti». C’è poi un’altra variabile da considerare: la globalizzazione. L’economista ed esponente di Leu Stefano Fassina e il professore di Economia Politica all’Università Tor Vergata Leonardo Becchetti concordano nel sostenere che la direzione di una riduzione dell’orario sarebbe auspicabile, se solo si potesse contrastare il dumping salariale prove niente dalle dinamiche dei mercati globali attuali. Fassina invoca una totale revisione degli accordi europei: «L’eccesso di liberismo, incarnato in questo caso nella direttiva Bolkestein che ha favorito la libera circolazione dei servizi, ha spinto a una corsa al ribasso sui costi. Succede con le delocalizzazioni nei paesi dell’Est dei call center, l’incursione di trasportatori stranieri nei magazzini nostrani e, recentemente, le guide turistiche stanno sul piede di guerra perché subiscono la concorrenza a basso costo degli stranieri, che s’accontentano di tariffe più basse. Serve una revisione delle direttive europee perché la svalutazione del lavoro non è più sostenibile». Becchetti va oltre, sostenendo che la grande sida sia l’inversione alla corsa al ribasso: «Bisogna lavorare dal lato della domanda del consumatore, dello Stato e sulla fiscalità. Creando ad esempio un sistema di rating sociale, simile a quello dell’impronta di carbonio per l’inquinamento ambientale. Un esempio potrebbe essere l’acquisto di un prodotto al supermercato, dove un’indicazione precisa dei livelli di sfruttamento convincerebbe molti ad acquistare quello più socialmente etico. E lo Stato dovrebbe evitare di adottare la politica del massimo ribasso nelle gare d’appalto, ma esigere adeguatezza sociale e salariale dai fornitori; infine istituire una riforma dell’Iva che premia le filiere sostenibili con una tassazione al 10 per cento e punisce le altre, portandola al 30 per cento». Al 2030 non manca molto, ma l’Italia non sembra ancora pronta a governare il cambiamento e pensare a una riduzione delle ore di lavoro. Al contrario, chi ha un lavoro soffre per l’insufficienza del tempo libero, mentre chi non ha un lavoro soffre per assenza di reddito. E, senza un radicale cambiamento, i futuri giovani degli anni ‘30 rischiano di non avere alternative a questa tenaglia.