venerdì 4 novembre 2005

Liberazione 4.11.05
Fausto Bertinotti: «Facciamo le primarie anche sui punti controversi del programma»

Dice che non farà il ministro e che non si candida alla Presidenza della Camera. Dice che resterà dov'è. Anche se lo dice in latino: «Hic manebimus optime». Ma intervistato da Rainews sull'attualità politica, Fausto Bertinotti parla soprattutto del programma dell'Unione. E propone un metodo: le primarie sui punti controversi. «I dissensi si compongono nella democrazia - spiega - Sono disposto a rinunciare a far valere le mie posizioni, se si decidono regole democratiche. Vorrei una consultazione che sia la più larga possibile». «Se penso che si debba abrogare la legge Biagi e un mio compagno di viaggio pensa che vada solo modificata, facciamo una discussione per capire la differenza reale tra le due cose, ma nel caso non si trovi un accordo lasciamo decidere la platea, la più larga possibile, anche appunto quella delle primarie».

Corriere della Sera 4.11.05
Il leader di Rifondazione comunista alla radio: «Credo che il governo richieda uno sforzo che non si può fare alla mia età» Ministro dopo i 65? Bertinotti dice no, ma resta solo
Livia Michilli


ROMA - Che Fausto Bertinotti non fosse interessato a fare il ministro di un eventuale governo Prodi, era cosa nota. Inedita invece è la ragione che lo spinge a scansare la poltrona: «Credo che il governo richieda un’energia psicofisica e uno sforzo che non si può fare a 65 anni - spiega il segretario di Rifondazione -. Alla mia età si possono fare attività politiche, ma non il ministro». Tutto il contrario di Berlusconi, classe 1936, che non solo si ricandida a Palazzo Chigi, ma vorrebbe pure alzare l’età pensionabile. In verità sono parecchi, tanto a destra quanto a sinistra, quelli nati intorno ai '40 (e anche prima) che non si sentono affatto troppo agé per occupare un dicastero. E che sulla motivazione di Bertinotti nutrono dei dubbi. Se il criterio anagrafico dovesse diventare, metti il caso, un principio scritto nel programma dell’Unione, il primo a fare i bagagli sarebbe proprio Prodi, di un anno più vecchio del segretario del Prc. Luciano Violante, Franco Bassanini, Rosa Russo Jervolino, per dirne solo alcuni, dovrebbero abbandonare ogni velleità ministeriale. E così pure Vincenzo Visco e Tiziano Treu, che però a rifiutare la poltrona non ci pensano affatto: «E perché mai, se l’offerta arriva? Non dico di voler fare il ministro a vita, ma certo non mi sento in età da pensione», replica il primo, 63 anni, ex responsabile del Tesoro. «Certo che accetterei, io mi sento pienissimo di energie! Faccio footing ogni mattina perché è provato che l’attività fisica fa bene ai neuroni», spiega il secondo, 66 anni, ex ministro del Lavoro, che però riconosce la necessità di rinnovare la classe dirigente. Una questione che sta molto a cuore a Francesco D’Onofrio: il capogruppo Udc, nato nel 1939, racconta che all’inizio della legislatura preferì stare in Senato piuttosto che tornare al governo. Non perché si sentisse vecchio, sia chiaro, «piuttosto per lasciare spazio ai colleghi giovani. Una scelta che penso rifarei se la CdL vincesse le elezioni». Dall’alto delle sue 79 primavere, Mirko Tremaglia si sente addirittura ringiovanito da quando fa il ministro per gli Italiani all’estero ed è pronto a ripetere l’esperienza: «Il segreto è credere nei propri ideali e nell’impegno politico».
Per la verità, con la sua "teoria dei 65", Bertinotti un po’ si è contraddetto: appena qualche giorno fa aveva infatti lanciato la candidatura a ministro della Cultura di Edoardo Sanguineti, poeta illustre ma settantacinquenne. Così qualcuno ci vede poco chiaro: «Considerando l’allungamento della vita, il suo mi pare un vezzo», osserva Nicola Mancino fresco di compleanno (74 candeline). Di «eccesso di modestia» parla Antonio Maccanico, che nei governi D’Alema prima e Amato poi sedette a 70 anni già suonati: «Anche Pertini non volle mai fare il ministro - ricorda - ma disse chiaramente che aveva paura di subire condizionamenti e limitazioni». «Fausto le energie ce l’ha eccome - nota Franco Marini -. Mi sa che le ragioni per cui vuol star fuori dall’esecutivo sono altre...». Il settantaduenne segretario organizzativo della Margherita non scioglie l’enigma, ci prova invece l’azzurro Alfredo Biondi, classe 1928: «E’ sempre stato un contestatore, forse si troverebbe in imbarazzo nei panni del mediatore». Se invece trattasi davvero di calo di energie, allora Bertinotti è avvisato: «Dicono che voglia fare il presidente della Camera, ma sappia che è altrettanto faticoso».

Corriere della Sera 4.11.05
Fanno discutere le dichiarazioni del presidente dei Ds raccolte nel libro di Bruno Vespa: «Un processo sarebbe stato più giusto». Cossutta: la sentenza sul duce l’ha data la storia D’Alema: «Mussolini non andava ucciso» Berlusconi: un giorno riabiliteranno anche me. Fassino: no al revisionismo
di Al. T.

MILANO - «Un’esecuzione inaccettabile. Ci voleva un processo come Norimberga anche per Mussolini». Massimo D’Alema riapre uno dei capitoli più controversi e discussi della storia d’Italia, la fucilazione del Duce e di Claretta Petacci e l’esposizione dei cadaveri in piazzale Loreto, a Milano. Nel libro di Bruno Vespa Vincitori e vinti, anticipato da Panorama, D’Alema aggiunge che «un processo al Duce avrebbe consentito anche di ricostruire un pezzo della storia italiana». Parole non condivise da Piero Fassino, Armando Cossutta e da altri esponenti del centrosinistra. D’Alema, scrive Panorama, «rompe un tabù dell’antifascismo». E cioè contesta la fucilazione del Duce, avvenuta a Giulino di Mezzegra il 28 aprile del '45. Sull’uccisione di Claretta Petacci (già contestata da quasi tutti i capi partigiani all’epoca) il presidente dei Ds dice: «Fa parte di quegli episodi che possono accadere nella ferocia della guerra civile, ma che non possiamo considerare accettabili. Quello scontro feroce conobbe atti di barbarie da una parte e dell’altra e quindi anche l’esecuzione della Petacci va collocata in quel clima. Oggi, a due persone che ne parlano in poltrona, appare incomprensibile». E Mussolini? «Un processo sarebbe stato più giusto», dice D’Alema e spiega perché non fu fatto: «Ci fu il timore che quel processo non ci sarebbe mai stato, che gli Alleati avessero intenzioni diverse».
Vespa ha intervistato anche il segretario ds Piero Fassino, che è netto: «Non ha senso riaprire questa pagina che si presta soltanto a un revisionismo storico strumentale. La guerra ha le sue logiche spietate. Non si può dimenticare quanti partigiani sono stati torturati, fucilati e morti nei campi di sterminio. A quelli nessuno ha fatto un processo». Lapidario il parere di Gianfranco Fini, che non si avventura su un terreno minato: «Lasciamo la storia agli storici». Silvio Berlusconi, invece, si dice d’accordo con D’Alema, anche se spiega che questo non vuol dire che «comunisti ed ex comunisti siano davvero cambiati». Tendono ad ammettere gli errori «dopo decenni», tanto che dopo «aver linciato Bettino Craxi, ora Fassino lo inserisce tra i padri del socialismo». E conclude: «Non mi stupirei se, tra dieci o vent’anni, riabilitassero anche me».
Armando Cossutta attacca D’Alema: «Sbaglia profondamente. Mussolini è stato processato dalla storia e comunque è stato condannato in nome del popolo dagli unici organismi allora competenti, il Cln ed il Corpo Volontari della Libertà». Paolo Cento, dei Verdi, parla di «inutili revisionismi». E Alessandra Mussolini, nipote di Benito, apprezza le parole di D’Alema, «importanti, ma tardive».
Già il 25 aprile Sandro Pertini, raccontò Leo Valiani, riteneva «indispensabile deferire Mussolini a un tribunale popolare». E dopo piazzale Loreto commentò: «L’insurrezione si è disonorata». Ferruccio Parri definì l’esposizione dei corpi «un’esibizione di macelleria messicana». Il comunista Luigi Longo raccomandava «un’esecuzione senza processo, senza teatralità, senza frasi storiche». Molti storici concordano sul fatto che un processo a Mussolini sarebbe stato «non poco imbarazzante per un’Italia attraversata dai postumi della guerra civile» (Giovanni Sabbatucci). Imbarazzante, come spiega Luciano Canfora, anche per gli inglesi: «Ricordiamo la simpatia che Churchill ha provato per Mussolini e il loro carteggio. E poi si possono fare fondate congetture sull’idea che gli alleati avrebbero avuto bisogno dei fascisti per difendere il confine dai comunisti». Gian Enrico Rusconi non riesce a «immaginare» un processo a Mussolini. E Giuseppe Parlato, allievo di Renzo De Felice, giudica l’esecuzione di Mussolini «inevitabile»: «Non c’era altro modo per scongiurare la transizione all’antifascismo nel segno della continuità».

Repubblica Salute 3.11.09
La musica che fa bene
Una ricerca italiana dimostra che l'azione positiva sull'organismo è determinata dal ritmo
di Francesco Bottaccioli

La musica è sicuramente tra le più antiche attività umane. Si hanno reperti di strumenti musicali datati oltre trentacinquemila anni fa. Questo vuol dire che gli umani producevano musica almeno venticinquemila anni prima della invenzione dell'agricoltura, in una fase in cui anche il linguaggio non era certamente molto sviluppato.
Il significato della musica dal punto di vista evolutivo è ancora avvolto nel mistero, anche se neurofisiologi e musicologi tendono tutti a mettere in rilievo il potere comunicativo del linguaggio musicale, la sua capacità di evocare rapidamente emozioni e comportamenti conseguenti.
Del resto, il legame tra musica ed emozioni è agli albori della storia narrata e scritta. I poemi omerici vengono accompagnati dalla cetra, le prime terapie mediche della stirpe degli Asclepiadi (XII secolo avanti Cristo) prevedono l'uso della musica. Gli antichi greci distinguevano due comportamenti fondamentali provocati dalla musica: "ethos ethikón" ed "ethos enthousiastikón". Il primo era quello che preludeva ad azioni coraggiose, che incitava gli uomini a combattere, il secondo, invece, aveva finalità ludiche, era l'ethos dei culti dionisiaci, dove la musica si prendeva l'anima dei partecipanti, o, meglio, metteva il dio (théos) dentro di loro (en), da cui la parola entusiasmo, avere un dio dentro.
Sull'ultimo numero della rivista di cardiologia "Heart", Luciano Bernardi, fisiologo clinico dell'Università di Pavia, con uno studio sperimentale, cerca di gettare luce sugli effetti della musica sull'organismo umano.
L'esperimento ha interessato ventiquattro ragazzi, di cui la metà musicisti, che hanno ascoltato musica di vario tipo e in diverse sequenze: musica raga (meditativa indiana), classica lenta (l'Adagio della Nona sinfonia di Beethoven), dodecafonica (Anton Webern), rap (Red hot chili peppers), tecno (Gigi D'Agostino), classica veloce (Presto da l'Estate di Antonio Vivaldi). I volontari, mentre si godevano i brani musicali, erano monitorati con macchine per valutare l'andamento del respiro, del cuore, della pressione arteriosa, della velocità del flusso del sangue arterioso nel cervello.
I risultati dicono che, aumentando il ritmo della musica, aumentano, parallelamente, la ventilazione polmonare, la frequenza del respiro, la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, la velocità del flusso di sangue nel cervello. Insomma, più il tempo musicale è rapido e più accelerano respirazione, attività cardiocircolatoria e pressione, come conseguenza dell'attivazione del sistema nervoso simpatico, misurata da uno speciale indicatore.
L'unica musica che non fa aumentare il respiro e la pressione arteriosa è quella classica indiana, che viene usata anche per favorire il rilassamento e la meditazione. E il dato interessante è che, per il cervello, non c'è differenza tra Rap, Tecno e Vivaldi: in tutti questi casi, esso mette in campo un meccanismo di allerta e di attivazione del simpatico. C'è invece differenza tra l'Adagio della Nona di Beethoven e l'Estate di Vivaldi.
Questo vuol dire che quello che conta è il tempo della musica, la sua velocità piuttosto che lo stile e il significato artistico. A riprova di questa conclusione ci sono due dati. Innanzitutto, non c'è relazione tra modificazioni biologiche e preferenze musicali dei volontari. Quindi, può anche non piacermi la Tecno, ma il mio cervello (e con esso cuore e polmoni) saranno attivati come e quanto se ascoltassero l'amato Vivaldi.
Inoltre, anche i musicisti si lasciano travolgere dal ritmo. Anzi, in questo esperimento, sono molto più attivati dei non musicisti, ma è interessante che i musicisti sanno godere più degli altri delle pause, non solo tra una musica e l'altra, ma anche all'interno del singolo brano. Le pause, infatti, nell'esperimento di Bernardi, producono il massimo di beneficio in termini di riduzione del respiro, battito cardiaco, pressione sanguigna.
Questo vuol dire che ogni applicazione terapeutica della musica dovrebbe tener conto non solo del ritmo della musica scelta, ma anche della sua struttura interna e cioè dell'alternanza tra tempo veloce e tempo lento e delle pause inserite nella struttura del brano.

alcune segnalazioni di Gianluca Cangemi:


Le Scienze 02.11.2005

Nessun legame fra aborto e depressione
La salute mentale preesistente è un indicatore più affidabile

Secondo una ricerca pubblicata recentemente negli Stati Uniti, sottoporsi a un aborto aumenterebbe significativamente le possibilità di una donna di soffrire di depressione. Ma gli autori di un nuovo studio pubblicato sulla rivista "British Medical Journal" ritengono invece che la salute mentale preesistente è un indicatore molto più affidabile del rischio di depressione.
Le lobby contro l'aborto sostengono da sempre che l'interruzione di gravidanza provoca danni psicologici. Ora Nancy Russo dell'Arizona State University e Sarah Schmiege dell'Università del Colorado hanno seguito 1247 donne statunitensi alle prese con una gravidanza indesiderata: alcune di esse hanno deciso di abortire, altre di portarla a termine. I risultati mostrano che le donne che avevano optato per l'interruzione di gravidanza risultano "meno depresse" di quelle che avevano scelto di arrivare fino al parto. Tuttavia, questo effetto potrebbe essere dovuto a differenze nell'educazione o nel reddito fra i due gruppi, in quanto le donne che scelgono di abortire tendono a essere più benestanti di quelle che danno alla luce il figlio. Inoltre le prime tendono già ad avere meno figli, e le famiglie numerose sono state associate in passato a un maggior rischio di depressione.
"Se lo scopo è quello di ridurre il rischio di depressione di una donna, - commentano Russo e Schmiege - la ricerca dovrebbe concentrarsi su come prevenire o migliorare gli effetti delle gravidanze indesiderate, in particolare per le donne più giovani". Secondo Russo, le differenze fra i nuovi risultati e quelli dello studio precedente che aveva trovato un legame fra l'aborto e la depressione potrebbero dipendere dal modo in cui sono state condotte le ricerche. Nello studio precedente, gli autori avevano studiato donne con gravidanze non intenzionali ma che potevano comprendere casi di gravidanze desiderate ma non pianificate. Nel nuovo studio, invece, sono state considerate solo casi di gravidanze dichiaratamente indesiderate.
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Le Scienze 1.11.2005
Schizofrenici ma non illusi
I pazienti schizofrenici tengono meno conto del contesto visivo
Uno studio di ricercatori dell'University College e del King’s College di Londra, pubblicato sulla rivista "Current Biology", rivela che i pazienti schizofrenici non vengono ingannati da un'illusione ottica e sono in grado di giudicarla in modo più preciso rispetto a un osservatore di controllo. I risultati suggeriscono che gli schizofrenici tengono meno conto del contesto visivo nella vita di tutti i giorni. Se questo fenomeno facesse parte di un'incapacità più generale di gestire il contesto in maniera appropriata, potrebbe spiegare perché alcuni pazienti non riescano ad valutare correttamente le azioni degli altri o si sentano perseguitati.
I ricercatori hanno usato un'illusione ottica nella quale le dimensioni di un oggetto sembrano ridotte a causa del contrasto con quello che lo circonda. Ai volontari è stato mostrato un disco caratterizzato da medio contrasto, e i soggetti dovevano valutare il suo aspetto in presenza di un fondo a contrasto elevato. 12 dei 15 partecipanti che soffrivano di schizofrenia cronica sono riusciti a effettuare valutazioni più precise del membro più abile del gruppo di controllo, che comprendeva 33 volontari non schizofrenici.
"Spesso pensiamo che gli schizofrenici non vedano il mondo come è in realtà, - commenta l'oftalmologo Steven Dakin dell'University College - per esempio a causa di allucinazioni. Abbiamo invece dimostrato che a volte la loro vista può essere più accurata di quella dei soggetti normali. In effetti, abbiamo usato un'illusione ottica nella quale l'incapacità di usare il contesto agisce a vantaggio dei pazienti. Il risultato potrebbe far luce sui meccanismi cerebrali coinvolti nella schizofrenia: normalmente i processi contestuali ci aiutano a concentrarci sulle cose rilevanti e impediscono al cervello di essere sommerso da informazioni inutili. Questo processo sembra funzionare meno bene nel cervello degli schizofrenici, forse per l'insufficienza dei processi inibitori con i quali le cellule del cervello si disattivano a vicenda".

Steve Dakin, Patricia Carlin, David Hemsley, "Weak suppression of visual context in chronic schizophrenia". Current Biology (25 ottobre 2005).
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Le Scienze 31.10.2005
L'equilibrio neuronale della vista
Alcuni gruppi di neuroni collaborano per escludere le informazioni non essenziali

Scavando sempre più in profondità nell'intricata architettura del cervello, alcuni ricercatori del Salk Institute for Biological Studies di La Jolla, in California, hanno scoperto come due differenti tipi di cellule nervose, o neuroni, agiscono insieme per trasmettere esattamente la giusta quantità e il giusto tipo di informazione sensoriale. Lo studio, pubblicato online sulla rivista "Nature Neuroscience", spiega come specifici gruppi di neuroni inibitori nella corteccia visiva del cervello di un topo sono collegati - e "parlano" - con singoli neuroni eccitatori. Questa "conversazione", che serve a mantenere il corretto equilibrio di segnali chimici, spesso esclude i neuroni circostanti.
"I neuroni inibitori - commenta il neurobiologo Ed Callaway, co-autore dello studio insieme a Yumiko Yoshimura dell'Università di Nagoya - non sono semplicemente dei freni ma agiscono anche da timone". Nel sistema della vista, per esempio, le risposte inibitorie nella corteccia visiva aiutano a concentrarsi sulle cose che si desiderano vedere, ignorando tutto il resto. Lo studio contribuisce a chiarire il quadro dell'organizzazione del cervello in network "intelligenti" ed efficienti, e i ricercatori sperano che un giorno questi dettagli possano chiarire le radici di disturbi neurologici come la schizofrenia.
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ricevuto da Pino di Maula:
Carceri: 16.000 detenuti con disturbi mentali, è record

Sono circa 16mila su 61mila i detenuti con disturbi psichiatrici in Italia, una cifra mai raggiunta prima. A riverlarlo, una recente ricerca epidemiologica condotta da Vincenzo de Donatis, membro del Direttivo Nazionale dei Medici penitenziari italiani (Amapi). Se ne parlerà domani al convegno in S.Croce in Fossabanda a Pisa: "Carcere e disturbi mentali, obiettivo reintegrazione". Strettamente legato al tema dei disturbi mentali nelle carceri, quello dei suicidi: il Dipartimento dell'amministrazione giudiziaria (Dap) denuncia, al 31 dicembre 2004, 52 suicidi e 85 tentati suicidi (su 59mila detenuti) e 42 suicidi e 620 tentati suicidi al 31 ottobre 2005 (61mila detenuti). Il suicidio è la terza causa di morte in stato di carcerazione ed è circa nove volte più frequente che in libertà. Per l'associazione dei medici penitenziari, la riforma degli ospedali psichiatrici giudiziari, che oggi ospitano circa 1.200 malati, è indispensabile e urgente. Per il presidente dell'Amapi, Francesco Ceraudo, l'emergenza psichiatrica è dovuta all'"esperienza altamente traumatizzante che vivono i detenuti già nelle prime fasi della reclusione". "È curioso - ha commentato Adriano Sofri, che interverrà al convegno - come tra le autorità penitenziarie sopravviva una concezione della malattia mentale come meno malattia delle altre". E aggiunge: "Regna l'onnipresente sospetto che i detenuti si fingano pazzi per definizione. Chi conosca appena il carcere, sa che è fatto apposta per far ammattire la gente".

mercoledì 2 novembre 2005

ultim'ora
Repubblica.it 2.11.05 pm
Bologna: Rifondazione boccia Cofferati

"La proposta avanzata dal sindaco Cofferati non offre alcuna risposta positiva ai problemi che insieme a tanti altri abbiamo posto in questi mesi, è palesemente ambigua e tende ad offrire una copertura ai provvedimenti di sgombero delle ultime settimane, eseguiti senza offrire alcuna soluzione alternativa alle persone". Così Loreti e il capogruppo in Consiglio comunale Roberto Sconciaforni, hanno commentato il documento sulla legalità presentato in giunta da Cofferati. "In particolare - hanno detto - è impossibile per noi accettare l'idea di mettere sullo stesso piano situazioni di disagio e sofferenza sociale con comportamenti di carattere criminale. Un'azione di governo che parta da questi presupposti è destinata inevitabilmente a colpire soltanto i più deboli".
Il Prc propone un percorso programmatico che coinvolga tutti i soggetti per mettere al centro della discussione "i veri problemi di Bologna: la casa per tutti, fabbriche in crisi, politiche di accoglienza e di inclusioni per i migranti, spazi giovanili di aggregazione, potenziamento dei servizi sociali, lotta al lavoro nero. Vogliamo che il sindaco si confronti nelle prossime settimane con questa agenda programmatica - hanno concluso Loreti e Sconciaforni - e avvii un percorso vero di partecipazione".
Il partito di Fausto Bertinotti lascia comunque aperti i margini di trattativa con il sindaco.


aprileonline.info 2.11.05

"La revisione del Concordato non è uno scandalo"
Interviste. Roberto Villetti, vice presidente dello Sdi, spiega la posizione di socialisti e radicali: ''E' inaccettabile l'ingerenza della Chiesa sulla politica italiana''
Marzia Bonacci

Lo scorso 30 ottobre, con l’intervento di Enrico Boselli al Congresso dei radicali italiani a Riccione, si è ufficializzato l’accordo fra i socialisti dello Sdi e il partito di Marco Pannella. Il nuovo soggetto politico, che ha deciso di adottare il simbolo della rosa nel pugno, ha condiviso la necessità di rilanciare la battaglia in difesa della laicità. Già venerdì 28 ottobre, nel programma televisivo di La7 "Otto e mezzo", il leader dello Sdi aveva sottolineato la convergenza con i radicali sul tema dell’intromissione della Chiesa cattolica nelle vicende politiche italiane, proponendo una revisione del Concordato e un suo superamento. A questo progetto Romano Prodi ha risposto con un deciso “no”, riaffermando che nel programma dell’Unione una revisione del patto firmato da Mussolini e poi riconfermato da Craxi non troverà mai spazio. Del rapporto fra Chiesa e Stato, delle posizioni radicali e socialiste nell’Unione, abbiamo parlato con Roberto Villetti, vice presidente dello Sdi.
Onorevole Villetti, ci sono delle ragioni particolari per cui voi dello Sdi avete posto la questione della revisione del Concordato proprio ora?
La questione di un superamento del Concordato non è stata posta dallo Sdi, ma nasce dal fatto che la Cei e il cardinal Ruini sono entrati nella scena politica come protagonisti e stanno portando avanti un’offensiva integralista nei confronti della politica. Tutto è cominciato con il referendum sulla fecondazione assistita in cui la Chiesa ha imposto una linea politica precisa, quella dell’astensione.
Se la Chiesa entra nella politica in modo spregiudicato, allora quest'ultima deve rispondere in un modo altrettanto spregiudicato. Il problema dell’intervento religioso nella sfera pubblica nasce dalla fine del potere temporale dei Papi e non ha trovato risoluzione con i due Concordati. Certo, a Bettino Craxi spetta il merito di aver abolito il riferimento alla religione cattolica come culto di Stato. Ma non ha risolto l’annoso problema. Per me il motto di Cavour “libera Chiesa in libero Stato” è ancora il modello teorico di riferimento per quel che deve essere la relazione fra queste due sfere. La proposta di abolire il Concordato ha una sua profonda sensatezza. Il patto fra Chiesa e Stato fu istituito per restringere l’intervento religioso nella politica. Se la Chiesa diviene soggetto politico, come è accaduto negli ultimi tempi, questo accordo non ha più senso: è superato.
Quindi la battaglia pro laicità non è solo una vostra esigenza di visibilità politica, visto il deficit dell’Unione a riguardo?
No, non è questo il punto. Noi abbiamo individuato nella posizione di Francesco Rutelli, in sintonia con il cardinale Ruini, e il "no" della Margherita alla lista unitaria con noi di qualche mese fa due facce della stessa medaglia. La Margherita ha infatti parlato di divisione del centrosinistra, ma ricordiamo che il centro è il centro cattolico. L’Ulivo è quindi una creatura laica con la presenza di componenti sostanzialmente integraliste. E’ proprio questo ad aver aperto una falla al suo interno, a cui la nostra forza socialista, radicale e liberale vuole porre rimedio.
Come valuta la reazione negativa di Prodi, che ha deciso di rispondere alla vostra proposta sul Concordato progettando invece un incontro con i cardinali Ruini e Sodano?
E’ giusto che Prodi incontri tutte le persone che vuole, soprattutto se hanno un ruolo politico come Ruini e Sodano. Il problema della laicità comunque rimane. Ed è una necessità a cui non si può rispondere subito, ma che va riconosciuta nella sua maturità. L’esigenza che si interrompano le ingerenze della Chiesa nella vita politica italiana non è mancanza di rispetto verso la religione. Noi non possiamo essere tacciati di anticlericalismo, visto che tra radicali e socialisti la presenza cattolica è forte. Il punto è che tutte le fedi devono avere pari dignità senza che si venga a creare il predominio di una su tutte le altre. La supremazia cattolica è ciò che radicali e socialisti contestano, rifiutando la tesi della Santa Sede secondo cui la religione della maggioranza debba essere maggiormente importante. Se questo argomento fosse convincente, allora non ci dovremmo scandalizzare dei paesi islamici dove domina la sharia. La questione della pari dignità delle confessioni religiose e dell'insostenibilità del predominio romano è ormai matura nello stesso mondo cattolico. Del resto, la Chiesa italiana gode privilegi, come quello dell'esenzione dall’Ici, che le spetterebbero solo se fosse culto di Stato. Ma il cattolicesimo ha cessato di esserlo con Craxi.
Data la posizione di chiusura di Prodi sulla revisione del Concordato, di quali temi vi accontenterete per sottoscrivere il programma dell’Unione?
Il progetto è ancora in elaborazione e si arriverà a una versione definitiva sottoscrivibile anche da Sdi e radicali. Purtroppo, devo ammettere che siamo in una coalizione composita. A me fa una certa impressione che si dica, come ha fatto Dario Franceschini, che la revisione del Concordato è una proposta lunare. Nel nostro schieramento c’è chi sostiene, infatti, l’abolizione della proprietà privata: e questo non è lunare? La realtà è che davanti alla laicità si mostra una eccessiva sensibilità che nasce dalla soggezione che alcune componenti dell’Unione hanno verso le gerarchie ecclesiastiche. L’anomalia non sono i radicali e i socialisti, che parlano un linguaggio europeo, ma quanti si oppongono a una concezione pluralista e liberale. E la questione dell’autonomia della politica dalla religione non è una quisquiglia marginale: ne va della stessa modernizzazione economica del paese. Si pensi al tema della ricerca e all’oscurantismo manifestato a riguardo dalla Chiesa.

aprileonline.info 2.11.05
Valori laici e valori religiosi, una corsa a ostacoli
Centrosinistra. Quel vincolo sancito dal Concordato tra Stato e Chiesa che fa discutere. Ma in democrazia non esiste una verità rivelata che detta regole
Nicola Tranfaglia

Viviamo da molti anni ormai in uno Stato non laico ma confessionale che mescola e disapplica di continuo norme costituzionali che stabiliscono la laicità dello Stato uscito dal processo bellico e dalla Resistenza attraverso leggi e atteggiamenti della classe politica che, con assai rare eccezioni, si comporta come se la religione cattolica fosse la religione di Stato, come era già stata nel periodo fascista.
I segni di questa situazione sono assai numerosi e, nell’enumerarli, c’è soltanto l’imbarazzo della scelta.
Bisogna partire, naturalmente, dalla Costituzione repubblicana del 1947 che è tuttora vigente almeno nella parte che riguarda i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica.
Si parte dall’articolo 3 che, nel suo primo comma, afferma che tutti i cittadini italiani hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge “senza distinzione di religione”.
Nell’articolo 8 la Costituzione dice esplicitamente che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”.
Successivamente nell’articolo 33 specifica che “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. In questo senso non c’è dubbio che la cosiddetta legislazione paritaria approvata nella seconda metà degli anni n ovanta dai governi di centro-sinistra sia contraria allo spirito, oltre che alla lettera, del dettato costituzionale.
Ma c’è un problema che ha accompagnato il passaggio dal fascismo alla repubblica ed è rappresentato dall’articolo 7 della nostra Costituzione e che ha, in qualche modo, costituzionalizzato i Patti lateranensi firmati nel 1929 dal regime fascista con la Chiesa di Pio XI e che fa sì che finora la repubblica non sia riuscita a prescindere da un regime concordatario tra Stato e Chiesa.
Di qui la tendenza del partito cattolico prima, di quello socialista poi (che ha firmato, presidente del Consiglio Bettino Craxi, nel 1984 la revisione del Concordato, poi dello stesso partito comunista e più in generale dei partiti della sinistra di cercare e ottenere l’appoggio politico della Chiesa e in particolare del papa e dei vescovi che ha avuto, quindi, modo di mettere da parte la Costituzione nei suoi principi fondamentali e difendere con un successo crescente le sue pretese di una condizione privilegiata all’interno dello Stato.
Negli ultimi dieci anni l’avvento della destra e la sua ascesa al potere quattro anni fa hanno portato un simile processo, già iniziato nella tredicesima legislatura, alle sue estreme conseguenze. Nella situazione attuale il confronto o, come si usa dire, la competizione tra i valori laici e quelli religiosi è, con tutta evidenza, non paritaria.
La Chiesa dispone di un appoggio assai forte dai principali mezzi di comunicazione di massa, come è apparso da ultimo con particolare chiarezza nei giorni della morte di Giovanni Paolo II e della successione di Benedetto XVI e da parte di una classe politica che non vuol perdere, se non l’appoggio esplicito, almeno la neutralità del Vaticano. Sicchè la difesa dei valori laici è assai difficile o almeno non raggiunge che strati assai limitati e minoritari della popolazione.
Ma qual è la fondamentale opposizione che differenzia i difensori dello Stato laico da quello confessionale che si è affermato ormai in Italia?
Innanzi tutto il precetto fondamentale di ogni democrazia, che sia liberale o di altro genere. Cioè quello per cui non esiste una verità rivelata che detta regole e comportamenti alla quale tutti devono attenersi. E che piuttosto il limite della libertà di ciascuno nasce dalla libertà degli altri all’interno di ogni società.
“L’etica laica - ha osservato di recente Carlo Augusto Viano in Critica liberale, numero 111, che al tema ha dedicato un numero speciale - si rifiuta di considerare i precetti morali come comandi emanati da qualcuno o contenuti in un libro perché vede in questa interpretazione degli impegni morali una perturbazione delle relazioni private tra persone.
E’ normale che le persone si sentano vincolate da obblighi originari, anteriori alle imposizioni legali e agli impegni assunti, obblighi che di solito si qualificano appunto morali. Nella stabilità degli obblighi originari e nella possibilità di modificarli , nel corso dei processi di adattamento delle condotte di persone che interagiscono, l’etica laica vede un intreccio equilibrato di permanenza delle regole morali e di possibilità di rivederle in base alle circostanze effettive.”
Emerge con estrema chiarezza la difficoltà di dialogo tra chi ha un approccio storico alla realtà e ritiene che le regole morali debbano adattarsi alle trasformazioni della società e chi si muove in relazione a un corpus statico e immutabile che resta a volte assai lontano dalla realtà sociale e culturale del mondo in cui viviamo.

il manifesto 2.11.05
il pregiudizio clericale nell'Unione

Chi si offende di una Rosa?
di Cosimo Rossi

Ci sono buone ragioni per dire male dei Radicali e mettere il catenaccio contro il loro ingresso nell'Unione: quel certo fanatismo umanitario armato - per dire la più seria - di cui ha recentemente dato saggio Emma Bonino. E non solo a proposito di Iraq. Ci sono buone ragioni anche per dire male della «Rosa nel pugno», sotto la cui insegna si presenteranno Radicali, socialisti dello Sdi e quella parte del Nuovo Psi che fa capo a Bobo Craxi: a cominciare dal suo catechismo liberista, che tra parentesi mal si concilia con la proclamata laicità.
E tuttavia non c'è proprio ragione di assecondare veti sulla presenza dei Radicali dentro l'Unione. Anzi.
Perché in realtà non sono in gioco né la pace né la politica sociale. Del resto, bellicosi e liberisti quanto i Radicali ce ne sono a spiovere sotto l'ala di Romano Prodi: dalla Margherita ai Ds; per non parlare dell'Udeur, che sull'Iraq si è distinta in parlamento.
Se è del futuro (governo possibile) che si discute, conviene quindi guardarsi dai capitani di lungo corso del «riformismo» prima che dal drappello radicale. E per lo stesso motivo è oltremodo igienico spalancare le narici al profumo della Rosa.
Quella che si pone è infatti pura questione di cittadinanza. E, per conseguenza, di fondazione laica della politica. Perché dentro l'Unione, che si cuniuga per natura al plurale, non risultano essere la pace e l'antiliberismo i discrimini posti alla Rosa. Come per altro non si è chiesto a Rifondazione di abiurare il comunismo né ai cattolici ferventi di abiurare l'antiabortismo: tant'è che si sono chiamati fuori dalla difesa della 194. A Marco Pannella non si obietta neppure la richiesta di un'amnistia (sempre che oggi non se ne lagni il sindaco di Bologna), come ci si astiene anche dall'insultare Rutelli che difende i Cpt. Si tuona invece perché Enrico Boselli giudica revisionabile il concordato. Esiste insomma solo una pregiudiziale clericale. Che scampana contro Boselli ma per colpire i Radicali. E che l'asse Quercia-Margherita - al di là dei «veti sui veti» invocati dai Ds - in realtà spalleggia per la paura fottuta che le gerarchie vescovili scomunichino la coalizione.
Il fatto è che il referendum sulla procreazione assistita forse è passato troppo frettolosamente in archivio. Quel voto è stato in vero uno spartiacque politico: fino a sancire una sottomissione bipartisan alla Cei. Non è un caso che la Margherita rutelliana, dopo aver sconfessato la lista ulivista alle europee (con Ds e Sdi), si sia repentinamente trasformata in partito confessionale smarrendo - più della Dc - ogni vestigia di laicità.
Oggi la Quercia è costretta dal trionfo prodiano a far lista con la Margherita. Ma è un tandem che taglia la lingua all'area laica del riformismo. E nel preciso momento in cui il volume di quella voce porta l'eco dei bisogni civili e sociali prima ancora di quelli dell'Unione. A cominciare proprio dal suo inalienabile diritto di esprimersi.


Articolo tratto dal mensile "aprile" di maggio 2005

il manifesto 2.11.05
Marco Bellocchio a Firenze
Eric Rohmer a France Cinéma


Un'edizione dedicata a Rohmer, quella del ventennale di France Cinema `05 (fino al 6 novembre), il festival del cinema francese di Firenze, organizzata dall'associazione François Truffaut e diretta da Aldo Tassone. La retrospettiva Rohmer, curata da Françoise Pieri comprende 24 film, tutti in lingua originale, alcuni dei quali non sono mai stati distribuiti e girerà in otto città italiane. Undici film in concorso della recente stagione (tra cui Le filmeur di Alain Cavalier, L'une reste, l'autre part di Claude Berri, Le courage d'aimer di Claude Lelouch, Jim & Co di Pierre Jolivet, Le parfum de la dame en noir di Bruno Podalydès, Avanim di Raphael Nadjari, Peindre ou faire l'amour di Arnaud e Jean Marie Larrieu, L'équipier di Philippe Lioret) saranno giudicati da una giuria presieduta da Marco Bellocchio e da una seconda giuria del liceo Capponi (oltre alla giuria popolare che attribuirà un premio su iniziativa di Tv5). Sabato 5 novembre in collaborazione con il Sncci (il sindacato critici cinematografici) si terrà all'Istituto francese una tavola rotonda sul tema «Eric Rohmer scrittore/cineasta» a cui interverranno oltre a studiosi e specialisti dell'opera del regista anche famosi interpreti della sua opera come Françoise Fabian, Fabrice Luchini, Marie Rivière, Florence Darel. Il tradizionale volume catalogo del festival (edito da Aida, Firenze) contenente in appendice le schede dei film, è interamente dedicato a Rohmer con un'inedita intervista di Aldo Tassone, un saggio di Joël Magny e tutte le schede dei suoi film. Domenica 6 novembre omaggio a Jacques Tati con la proiezione della copia restaurata di Mon Oncle (1958).

Gazzetta del Sud 2.11.05
Numerose le testimonianze nei vari siti archeologici siciliani delle credenze connesse al ciclo vegetativo
Il culto ctonio di Demetra e Persefone
A Morgantina uno dei santuari più importanti delle divinità sotterranee
Girolamo Sofia

La Sicilia custodisce nel suo grembo il mistero di Demetra e Kore rievocando, nel racconto del mito greco, il salto nella stagione autunnale. Nel mondo antico esistevano delle cerimonie di iniziazione, i misteri , riservate a gruppi di eletti. Tra i più celebri in Grecia c'erano i misteri di Eleusi, città non lontana da Atene, dedicati alla dea del grano Demetra e a sua figlia Persefone, chiamata in greco “Kore” (fanciulla). Il mito raccontava il rapimento della ragazza ad opera di Ade, re degli Inferi, che l'aveva voluta per sposa, e il dolore della madre Demetra che, per questo motivo, aveva smesso di elargire i suoi doni, cioè i cereali (unico prodotto indispensabile nell'antichità per la sussistenza). La conseguente carestia minacciava gli dei stessi, rimasti privi di sacrifici da parte degli uomini. Così gli immortali avevano posto fine all'angoscioso errare di Demetra consentendo un ritorno limitato e periodico sulla terra della fanciulla, ormai indissolubilmente legata al mondo sotterraneo. L'incontro fugace di kore con la madre ha significato per secoli il ritorno della buona stagione, la rigenerazione della natura e la fecondità e l'abbondanza dei raccolti. L'aspetto rituale di questa vicenda divina era al centro di una grande festa autunnale, chiamata appunto i misteri . Gli ateniesi la celebravano con una processione, che andava fino ad Eleusi, con un rito notturno, al santuario delle iniziazioni dove si rivelavano, ai partecipanti al rito, le “cose sacre”. Questi misteri si diffusero anche nell'occidente romanizzato, in osmosi cultuali e rituali. Basti pensare al mondo romano con i misteri relativi al culto di Cibele ed Attis, provenienti dall'Asia Minore; quelli egiziani d'Iside ed Osiride, infine quelli intitolati a Mitra, dio d'origine persiana. I percorsi archeologici siciliani offrono un'ampia presenza di questi culti ctonici o “demetriaci” legati al mito e a credenze connesse al ciclo vegetativo, dando la possibilità di tracciare indelebilmente, con evidenze archeologiche territoriali, il passaggio di questa credenza cultuale sull'isola. Numerose presenze associate alla sopravvivenza di questo culto e ai rituali ad esso connessi, sono percepibili in particolare nei monumenti archeologici esistenti in alcuni centri della Sicilia centro-meridionale. L'area sacra della Rupe atenea di Agrigento ospita uno dei più antichi santuari ctonici della Sicilia. Esso è delimitato da un muro di divisione “temenos” che isolava il complesso sacro dal resto delle altre strutture; dentro si sono conservati due altari circolari per le offerte incruente alle divinità. Ben più articolato l'altro grande santuario, sempre ad Agrigento, votato alle due dee. Una serie di strutture costituiscono l'intero complesso cultuale: tempietti, altari di cui uno circolare, come tipologia già ricordato in precedenza, riservato alle offerte incruente. Nel centro archeologico di Morgantina, in provincia di Enna, si conserva un altro importante santuario legato alle divinità sotterranee. Il complesso archeologico, nei pressi del teatro di metà IV secolo a.C., nasconde ancora quell'antico misticismo scaturito dalla vicina presenza del lago di Pergusa, luogo dove è nato il mito del rapimento della fanciulla da parte di Ade. A testimonianza di ciò dal santuario di Morgantina provengono numerose e rilevanti attestazioni del culto di Demetra e Kore come evidenzia l'ampia serie di coroplastica “ex voto” che ripropone le due divinità atteggiate in varie forme e pose. Quanto gli abitanti di Morgantina fossero devoti alla dea della terra e del grano e alla giovane Persefone, regina degli inferi e insieme dea essa stessa della fertilità, si intravede dalle numerose testimonianze archeologiche: busti fittili raffiguranti la madre Demetra con polos sul capo; statuette fittili stanti atteggiate come offerenti o talvolta recanti tra le braccia degli attributi della divinità, offerte votive o animali da sacrificare. Una presenza che si riscontra in un lungo lasso temporale (periodo classico-ellenistico) fino alle deduzioni delle prime colonie romane in Sicilia e Magna Grecia (III secolo a.C.). Non è un caso che l'altro importante santuario ctonio si trovi a poca distanza dal lago di Pergusa, e precisamente dell'attuale sito archeologico di Montagna di Marzo, un sito che in questi anni ha conosciuto una costante presenza di attività di scavo clandestino. L'archeologia siciliana vanta pertanto non solo la nascita del mito demetriaco, ma anche una formidabile presenza dell'aspetto rituale e cultuale delle divinità sui luoghi dove la mitologia ellenica ha scritto una delle pagine più mistiche della sua cosmogonia.

Kataweb Salute 2.11.05
Dipendenze
Alcol, un milione di giovani ne fanno uso

ROMA – Sono circa un milione i giovani che fanno abitualmente uso di alcol, un quarto dei quali ha un'età compresa tra i 14 e i 18 anni. A denunciarlo è l'on. Maria Burani Procaccini, presidente della Commissione bicamerale infanzia. «Il campanello d'allarme suona in tutta la sua gravità – spiega Burani – se si pensa che circa 250mila giovanissimi presentano un'incipienza di manifestazioni cliniche e psichiatriche derivanti dall'abuso di alcol». «Non curare queste patologie – continua Burani – aumenta il rischio di una deriva nei consumi. Ogni anno 30mila persone muoiono per incidenti stradali causati da alcol, senza contare che epatiti e cirrosi sono in forte aumento tra i ragazzi»

una segnalazione di Sandra Mallone http://www.magna-carta.it/fondazione/0014_Marcello_Pera.asp
Noi, loro e il Papa.
Lettera aperta agli amici di Magna Carta
Marcello Pera
Domenica 30 Ottobre 2005, San Germano. Da casa.

Cari amici,
Ci stanno osservando e criticando in tanti. A prendersela con noi sono stati, fra gli altri, Giulio Giorello, Dario Antiseri, Emanuele Severino, Piergiorgio Odifreddi, Gustavo Zagrebelski, Gad Lerner. Poi Eugenio Scalfari. Quindi ci ha gettato addosso un’occhiata di commiserazione Sergio Romano, con un «breve saggio storico (più saggio che storia)», come lui stesso lo definisce. Da ultimo, ci hanno hanno guardato malamente Piero Craveri e Massimo Teodori sul “Foglio” di Giuliano Ferrara (uno che la pensa come la maggior parte di noi, ma, con nostra meraviglia e dispiacere, non vuole farlo sapere).
Che cosa mai abbiamo fatto noi di Magna Carta? Ci siamo convertiti al cattolicesimo? Non sarebbe uno scandalo, ma non mi pare sia il caso: personalmente non sono un credente (almeno mi sembra), pochi di voi vanno in chiesa, i più siete liberali laici, qualcuno è ebreo, uno islamico laico. Abbiamo allora deciso di fare carriera politica grazie all’aiuto di Papa Ratzinger, del cardinal Ruini, di qualche vescovo? Non è vero neanche questo: Magna Carta non è un movimento politico organizzato e non ha responsabilità e finalità politiche dirette. È un “think tank” libero, un gruppo intellettuale che pensa in proprio, che produce libri, convegni, seminari, lezioni, commenti politici su un sito, su vari argomenti. Il solo catalogo delle pubblicazioni e degli interventi di Magna Carta è già lungo: dalla riforma della Costituzione a quella universitaria, dall’Europa alla pubblica amministrazione, dalla bioetica all’economia, dal Trattato costituzionale europeo al risveglio religioso cristiano, dal dialogo fra laici e credenti al fanatismo e al terrorismo che agisce nel nome dell’Islam. Un “think thank” curioso e originale che ha suscitato interesse ed è stato fatto segno di attenzione, da ultimo addirittura dal Papa Benedetto XVI che ci ha inviato a Norcia un del tutto inusuale e sostanzioso messaggio autografo.
Forse è proprio questo lo scandalo: il confronto e il messaggio. Ma possiamo meglio capirlo entrando nel merito delle accuse e obiezioni che ci sono state mosse.
1. Poiché molti fra quelli che sono intervenuti hanno semplicemente voluto far sfoggio di erudizione accademica o di “vis polemica” anche personale, possiamo concentrarci sui critici principali. Cominciamo perciò da Sergio Romano.
L’ex-ambasciatore ci dice che siamo figli di nessuno. Non dei cattolici liberali, che fecero sì la legge delle Guarentigie, ma perché era «la migliore fra quelle approvate dalle democrazie europee»; non di Mussolini che fece sì il Concordato, ma perché era «deciso a usare la Chiesa e il cattolicesimo italiano per un progetto nazionale e imperiale»; non di Togliatti che approvò il Concordato, ma perché «aveva capito, come Mussolini, che non si governa in Italia, dopo l’allargamento del suffragio, contro i sentimenti popolari di un’opinione pubblica ancora prevalentemente cattolica»; non di don Sturzo e De Gasperi, che erano sì credenti, ma «sempre attenti a difendere l’indipendenza civile dei cattolici e le prerogative dello Stato»; non di Craxi, il quale fece sì un altro Concordato, ma perché «ebbe l’ambizione di modernizzare l’Italia» e il nuovo accordo «ebbe il merito di limitare il potere della Chiesa sulla società italiana». E alla fine, ci dice, «per quel che vale», che non siamo neppure figli suoi.
Perché allora Magna Carta, così orfana, sola e anomala, insiste a interessarsi al fenomeno nuovo del risveglio spirituale e religioso? Perché è così attenta ad esaminarlo, così determinata a far saltare gli antichi steccati culturali, compreso quello sollevato dagli epigoni di quella formula bellissima perché priva di contenuto “libera Chiesa in libero Stato”?
Secondo la migliore teoria cospirativa, deve esserci una finalità nascosta. E Romano la trova. Siccome dopo Tangentopoli la politica è debole e la Chiesa è più forte, noi vorremmo approfittarne. Per noi «radici cristiane, famiglia, santità del matrimonio, diritto alla vita sono soltanto strumenti di lavoro, mezzi per conquistare il consenso della Chiesa e averla al proprio fianco come alleato per la conquista del potere».
Non è così, l’ho già detto. Non abbiamo scopi nascosti. Attribuendoceli, Romano commette un doppio torto. Il primo verso se stesso: come può uno storico, invece della documentazione o della citazione, usare l’insinuazione? L’altro torto, più grave per uno storico, Romano lo fa verso le questioni obiettive che stanno davanti a lui come a noi: come può criticare una posizione se, non solo non la discute, ma neppure prende in seria considerazione i problemi da cui nasce? Facciamo qualche esempio.
2. Esiste un vasto movimento di immigrazione di uomini, in particolare di religione islamica. Terrorismo a parte, in tutta Europa questo fenomeno provoca problemi di integrazione e questi problemi hanno sollevato la questione della nostra identità. Lo stesso problema identitario è venuto alla luce quando, al momento di redigere il preambolo al Trattato costituzionale europeo, i capi di stato e di governo si sono chiesti se fare o no riferimento alle radici cristiane del nostro Continente. E un’altra questione identitaria si manifesta ogni giorno nelle nostre aule di biologia, nei laboratori di genetica, negli ambulatori dei ginecologi, nelle sale ospedaliere, e naturalmente nei parlamenti. Anche se gli storici guardano al passato, questi sono problemi di oggi così grandi che non dovrebbero sfuggire al loro esame.
Come affrontarli? Per venirne a capo hanno rilievo la nostra storia e la nostra tradizione? I nostri princìpi e valori (quelli stessi che, prima di Nietzsche, si chiamavano “virtù”) hanno ancora corso? Sono ancora buoni e li possiamo promuovere (qualcuno dice “esportare”) anche altrove, oppure dobbiamo ritirarli, o tenerli solo per noi, perché altri ne hanno di diversi e ognuno ha i suoi, e speriamo nel buon Dio che, nelle nostre “società arcobaleno” o multiculturali, le cose si aggiustino da sole?
E quando questi problemi diventano pane quotidiano per le pubbliche opinioni e creano disagio, insoddisfazione, disorientamento, quale si tocca a piene mani in Italia e in Europa, quando essi stravolgono l’agenda della politica e del dibattito pubblico, di essi possono parlare solo i giornalisti, gli intellettuali, gli ex-ambasciatori? Tra quelli che intervengono alcuni parlano in un modo e alcuni in un altro. Perché gli uni sono corretti e gli altri sospetti? Perché gli uni “illuminano” e “educano” mentre gli altri “interferiscono” o fanno “propaganda”? E poi, di questi stessi problemi possono parlare anche gli uomini di Chiesa? Non ha il clero diritti politici?
È vero, il clero ha accettato obblighi dai concordati. È anche vero che la Chiesa cattolica continua ad avere inclinazioni e debolezze concordatarie, tanto da cedere anche con l’Europa, all’art.52 del Trattato. Ma questi infelici concordati temporali – tanto infelici quanto l’anticlericalismo e il laicismo che li giustificano o da cui si lasciano volentieri giustificare, spiazzando tanti liberali e tanti fedeli – impediscono alla Chiesa di rivolgersi ai suoi seguaci e all’insieme di quella società nella quale, proprio in virtù dei concordati, essa ha un ruolo di primo piano? Oppure i concordati non costituiscono un impedimento e sta piuttosto a coloro che la pensano diversamente convincere la gente che gli uomini di Chiesa sbagliano (come, senza riuscirci, quelli che avevano altre idee hanno fatto in occasione del referendum sulla fecondazione assistita)? Questo è un problema serio. Lo si può risolvere limitandosi a recitare la giaculatoria “libera Chiesa in libero Stato, amen”?
Per affrontare questioni così gravi, il saggio di Romano non aiuta. E così si è persa un’altra buona occasione per discutere seriamente, senza ruoli precostituiti e schieramenti già assegnati: di qua i laici di là i clericali, di qua gli opportunisti di là, come dice Romano, «l’integralismo urbano e intelligente dell’allora cardinale Ratzinger», da una parte i liberali dall’altra gli oscurantisti, i reazionari, i papisti. Peccato, davvero peccato.
3. Passiamo a Eugenio Scalfari, e al suo articolo “Quando il Papa vuole fare le leggi”. A Scalfari si deve riconoscere che intende discutere seriamente. E del resto “Repubblica” è (oltre al “Foglio”) il quotidiano che, avendo prima e meglio compreso che qualcosa di importante in fatto di rinascita spirituale sta accadendo, fa molto bene il suo mestiere: riporta, commenta, chiama a raccolta i suoi cronisti e collaboratori italiani e stranieri, raccoglie persino in volume i loro scritti.
Intanto, Scalfari riassume correttamente il messaggio che Benedetto XVI ha inviato a noi di Magna Carta a Norcia e che altrove, anche dove non c’era da aspettarselo, o non è passato o è passato piccolo piccolo, con malcelato understatement: «i diritti naturali e innati debbono ispirare la legislazione e fornire allo Stato l’etica di cui ha bisogno. Per un cattolico essi si riconducono al Creatore, ma valgono comunque per tutti in quanto appunto innati». Scalfari è in disaccordo non sulla valenza universale di questi diritti – che del resto oggi valgono, o dovrebbero valere, per tutti perché fanno parte delle nostre carte e dichiarazioni, a cominciare da quella dell’ONU –, bensì sul loro essere innati.
Siamo d’accordo. “Innato” è un controverso termine filosofico che non si addice a testi giuridici e politici. Meglio evitarlo perché non ce n’è bisogno e soprattutto perché di diritti naturali innati nessuno a Magna Carta ha parlato. Però, quando la nostra Costituzione afferma che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», in quel “riconoscere” c’è la stessa idea espressa da Papa Ratzinger nel messaggio che ci ha inviato a Norcia: i diritti fondamentali sono precedenti alla legislazione, anche costituzionale, degli stati. E si comprende perché: se siete credenti, quei diritti non potete che farli discendere dalla persona umana, la quale è creata da Dio a sua immagine; se non siete credenti, è bene che sia così, che quei diritti siano precedenti, perché se fossero successivi, a discrezione di maggioranze (sebbene qualificate) dei parlamenti, allora potrebbero essere revocati, con tanti danni per tutti.
A noi questo dei «diritti previi» sembra un fertile terreno di incontro fra laici e credenti, almeno sin da quando la Chiesa ha compreso il valore della democrazia e dello stato di diritto. Non è la persona, per gli uni e per gli altri, il soggetto portatore di questi diritti previi? E oggi che è messa in questione in tanti modi – dal terrorismo all’eugenetica –, non è un compito importante di tutti comprendere come questo concetto di persona nasca, fin dove si estenda, come si evolva, e perciò quali diritti e valori le competano? Non c’entra la «volontà di potenza e espansione dell’ente [la Chiesa] rappresentato dal Papa», di cui parla Scalfari; non c’entra lo “instrumentum regni”; non c’entra neppure «il potere della Chiesa a indicare i diritti che devono essere sanciti dalla Città terrena». C’entra invece, di fronte ai terribili problemi che abbiamo di fronte, la volontà di intendersi, studiare, scambiarsi idee, misurarsi, cercare quel terreno comune di riconoscimento che Magna Carta ha trovato con successo a Norcia.
Quando il Papa ci richiama a meditare sulla «essenza della natura umana» e ci dice che l’uomo in quanto uomo ha diritti che devono essere rispettati, non pensa affatto al potere della Chiesa. Né è così irriguardoso verso la nostra libertà di giudizio da chiederci di convertirci. E neppure ci dice che solo i credenti hanno accesso ai diritti umani fondamentali. Al contrario, egli parla soprattutto a coloro che non sono fedeli, ammonendoli: attenzione voi (noi) non credenti, se negate che l’uomo abbia dignità in sé, che meriti rispetto in sé, che non abbia valore di persona a meno che non gli derivi dallo Stato, prima o poi rischiate di ridurlo a merce, strumento di laboratorio, carne da cannone. Siete liberi naturalmente di non credere, di agire etsi Deus non daretur, ma curatevi di trovare un modo efficace per non far cadere la nostra civiltà nel degrado morale dal quale poi inevitabilmente deriva quello sociale e politico.
Qualche ecclesiastico pensa a nuove mire temporali, a rivincite confessionali? Non mi pare. In ogni caso, proprio noi a Norcia avevamo avvertito chiaramente che il nuovo confronto fra laici e cattolici che auspichiamo pone sfide a tutti: a noi che vogliamo risvegliare e difendere nella società i valori identitari della nostra tradizione, e agli uomini di Chiesa che non possono scambiare questo risveglio della società come un ritorno al passato remoto. Possiamo rassicurare Scalfari che siamo contrari al partito cattolico, al collateralismo e a tutte le forme di temporalismo. Ci piacerebbe però essere rassicurati da lui che l’innegabile risveglio religioso che osserviamo non debba essere compresso, stipato o anche solo relegato nel «ghetto della soggettività», per usare ancora un’espressione del cardinale Ratzinger ora Benedetto XVI. Oltretutto, Scalfari sa bene che cercare di mettere le mutande alla storia è impresa vana.
4. Resta il confronto con Craveri e Teodori. Mi dispiace ammetterlo perché si tratta di vecchie conoscenze, ma, cari amici, che tristezza e delusione!
I due mi dànno del rinnegato: io, e voi con me, avremmo «rinnegato i princìpi, gli istituti e gli obiettivi propri del liberalismo». Brutto e greve modo di esprimersi, in verità. Un tempo la bolla del “rinnegato” la davano Lenin e Stalin quando volevano sterminare gli avversari, oggi la emettono anche i professori universitari che vogliono criticare un collega.
Perché “rinnegati”? L’elenco delle accuse che ci viene mostrato è lungo.
Rinnegati perché, al referendum sulla procreazione assistita, abbiamo detto che la legge che si voleva abrogare era un buon compromesso temporaneo e che, anche, ma non solo, per il rispetto della fatica del Parlamento, era bene non metterla in discussione con tanta urgenza. Non dicono gli stessi nostri critici che lo Stato laico deve trovare «il compromesso politico fra diversi punti di vista presenti nella popolazione»? E allora saremmo rinnegati solo perché abbiamo opinioni diverse dalle loro se il compromesso raggiunto sia o no soddisfacente?
Rinnegati perché non siamo a favore delle nozze fra coppie omosessuali. Lo siamo mai stati a favore? È necessario esserlo per non subire l’accusa di rinnegato? Chi è a favore diventa, ipso facto, un liberale? E chi non lo è diventa automaticamente un traditore della modernità?
Rinnegati perché critichiamo il multiculturalismo. Nella filosofia politica e pubblica, ci sono molti seri studiosi, soprattutto liberali, che da tempo muovono critiche analoghe alle nostre. In genere, ai liberali non va giù che le comunità abbiano diritti sopra gli individui o che esistano diritti di gruppo (questa è la teoria multiculturale), perché ai liberali piace che i diritti fondamentali (compreso la parità uomo-donna) siano gli stessi per tutti e ciascuno, quale che sia la comunità di appartenenza. Quanto alla pratica, il multiculturalismo ha prodotto i guasti dei ghetti, dell’apartheid, delle tensioni etniche, e non ci ha risparmiato, qui nell’Europa liberale e laica, nell’Olanda tollerante di Spinoza e nell’Inghilterra tollerante di Locke, i terroristi di seconda generazione. Che cosa avremmo mai rinnegato sollevando anche noi queste obiezioni liberali e nutrendo queste preoccupazioni democratiche?
Ancora: rinnegati perché ridiscutiamo la separazione Stato-Chiesa e religione-politica. Ma se così come fu concepita secoli fa, questa separazione – guardare per credere – non tiene più, né in dottrina né in pratica, dobbiamo ripensare altre forme di tutela dello Stato laico, che abbiamo detto e ribadito essere una conquista irrinunciabile, e di rispetto dell’autonomia della società civile, che per noi è un valore occidentale imprescindibile, oppure dobbiamo continuare a consolarci con le vecchie litanie? Ricercare strade nuove è rinnegare? Tentare soluzioni diverse fa addirittura pensare, «se non proprio alla sharia cattolica, certo al ripudio dell’Abc liberale»? Davvero è meglio abbandonarsi alla pigrizia intellettuale ripetendo a memoria l’Abc del liberalismo appreso alle elementari?
In realtà Craveri e Teodori, più che con noi, ce l’hanno con Papa Ratzinger, che essi ritengono un probabile «artefice di una nuova controriforma». Peccato, il Papa ci ha invitato a discutere sul serio, noi abbiamo accettato l’invito sul serio e Craveri e Teodori la mettono sul faceto.
5. A cospetto di tante attenzioni, non si può fare a meno di chiedersi: tutte queste critiche non sono provocate, forse, da qualche ragione non detta? Io penso di sì, penso che ci sia in tutti i nostri critici una ragione da essi accuratamente nascosta e deliberatamente aggirata. E con ciò finalmente veniamo al punto vero di tutte le polemiche.
Cari amici, come voi ben sapete, anche perché l’avete spesso sperimentato sulla pelle, per decenni, in Italia abbiamo assistito ad un fenomeno: il cattolicesimo in politica si è collocato prevalentemente a sinistra e, quel che è ancora più rilevante, il dialogo con i cattolici è stato monopolizzato dalla sinistra. Si è trattato di un fenomeno di egemonia culturale: dire dialogo tra laici e cattolici equivaleva a dire dialogo tra la sinistra e i cattolici. Dire impegno cattolico era lo stesso che dire impegno sociale a sinistra. E, con poche rilevanti eccezioni, dire intellettuale cattolico voleva dire intellettuale di sinistra, dai “professorini” di un tempo agli attuali maestri.
Questo fenomeno ha trovato il suo apogeo nel periodo successivo al Concilio Vaticano II. Fu allora che si manifestarono tante “spinte” e “aperture” verso la modernità laica intesa alla maniera della sinistra, e si svilupparono tanti tentativi che aprirono una breccia persino nella cittadella della teologia, allo scopo di farvi penetrare una lettura in chiave relativistica delle conclusioni del Concilio stesso.
Il “dialogo” ha trovato il suo terreno preferito nel campo sociale, dove il solidarismo cattolico si è mescolato agevolmente con le rivendicazioni di giustizia sociale, e le tante teologie della liberazione si sono facilmente coniugate con le tante ideologie dell’emancipazione, operaia, studentesca, giovanile, femminista, omosessuale, eccetera.
Le conseguenze principali di questo stato di cose sono state due, una sul versante della Chiesa e una su quello della politica. Sul versante della Chiesa, si è corso il rischio, e forse subìto il fatto, della trasformazione del messaggio trascendente cristiano in messaggio mondano, morale, politico e sociale. Come se il Vangelo parlasse solo di questo mondo e non dell’altro. E naturalmente come se il Vangelo parlasse solo alla sinistra. Sul versante politico, si è creato un blocco di potere, il quale, anche in nome, per conto, su ispirazione o su sollecitazione di ampi settori della Chiesa, ha preteso di estendere la sua egemonia sull’intera società, dalle università ai media, dai pulpiti alle scuole, dalle associazioni alle famiglie. Una forma riveduta, aggiornata e corretta del connubio fra trono (di sinistra) e altare (decentrato nella navata di sinistra).
Oggi questa egemonia, questo blocco, questo macigno, vacillano e stanno per sgretolarsi. Già un Papa (Giovanni Paolo II) che parlava alle folle più che alla gerarchia aveva messo in crisi l’edificio. Ora il castello rischia di farlo crollare un altro Papa (Benedetto XVI) intransigente sulla dottrina ma pensoso, curioso del mondo anche se non disposto a troppi compromessi con esso, aperto ma non cedevole sui punti essenziali. Agli occhi dei nostri critici, questo Papa ha due colpe imperdonabili. La prima: si rivolge anche ai non credenti, il che è una importante novità per i tempi recenti. La seconda, ben più grave: invia addirittura un messaggio autografo a un gruppo di credenti e non credenti, i quali non hanno timore alcuno di dichiararsi, in questo frangente della storia d’Italia, di destra, di professare un liberalismo conservatore sui valori e popolare nei contenuti, e di stare dalla parte opposta dei “professorini” e dei loro epigoni. Ciò, ovviamente, non significa affatto che il Papa sia entrato nel merito della contesa politica italiana, come pure è già stato accusato di fare. Né significa che si sia “schierato”, come sarebbe offensivo persino pensare. Significa, più semplicemente, che, con la sua disponibilità, i suoi incontri, i suoi messaggi, egli ha messo fine a quel monopolio del dialogo che la sinistra, la quale da decenni si riteneva unica interlocutrice o interlocutrice privilegiata, considerava acquisito per sempre.
A peggiorare le cose sta il fatto, anch’esso inaudito, che, in questa opera di smontaggio e di sgretolamento delle vecchie abitudini, il Papa è seguìto da un buon numero di cardinali e vescovi, oltre che da milioni di fedeli che lo cercano dappertutto. I nostri critici accusano noi di rinnegare, ma in realta ai loro occhi il vero rinnegato è il Papa, il quale sembra sottrarsi a comodi schemi consolidati.
Questo è lo scandalo, lo scandalo vero per i nostri accusatori. Per quelli di sinistra, perché gli toglie il monopolio dell’egemonia e li obbliga a mettersi di nuovo sul mercato delle idee. Per quelli di destra, perché gli rompe il giocattolino storico della “libera Chiesa in libero Stato”. E per quelli che non sanno più dove stanno e perché ci stanno, perché gli manda in rovina le pigrizie anticlericali e laiciste e le inerzie liberali che avevano succhiato col latte.
Di peggio, per i nostri critici, non poteva succedere. In poco tempo hanno visto il mondo passare da Tolomeo a Copernico e ora nutrono la paura che sia già arrivato Keplero, il quale rompe la comoda perfezione delle orbite circolari e le sostituisce con quelle ellittiche assai complicate, per non dire del timore di un Newton, che scompagina la vecchia legge di gravitazione, o del terrore di un Einstein, che la sostituisce con una geometria incomprensibile a quelli ancora fermi a Euclide, imparato con l’Abc all’asilo o in parrocchia.
Il mondo cambia, cari amici di Magna Carta, et nos mutamur cum illo. Ci piace il cambiamento, non ci spaventano le sfide, e non ci rifiutiamo di sottrarci alle dispute, meglio se serie, documentate e civili. Di sicuro, sarà una battaglia lunga. Il bello è che stavolta la vittoria non è più assegnata a tavolino. Ora, finalmente, tutti devono sudare. Quelli che non erano più abituati a correre devono addirittura rincorrere.
Scusatemi se vi ho trattenuto così a lungo e abbiatevi la mia amicizia.

Marcello Pera

Corriere della Sera 2.11.05
Lo studio pubblicato sul Royal Society Journal
Donne: più ormoni più fascino
I visi femminili più attraenti sono quelli delle signore nel cui sangue circolano più estrogeni. Ma il trucco aiuta le più «povere»

LONDRA - Dimmi quanti ormoni (estrogeni) hai e ti dirò quanto sei attraente. Una semplice, quanto efficace, ricerca condotta da un gruppo di psicologi dell'università di St.Andrews, in Inghliterra, ha chiarito quanto sia importante il ruolo giocato dagli ormoni (e dal make-up) per il fascino femminile.
Gli psicologi britannici hanno arruolato per il loro studio 59 donne di età compresa tra i 18 e i 25 anni e hanno analizzato il livello di estrogeni che circolava nel loro sangue. Poi hanno sottoposto le fotografie delle stesse donne a una «giuria» formata da 15 maschi e 15 femmine, chiedendo quali visi risultassero più attraenti. I risultati dell'esperimento, pubblicati sul Royal Society Journal, non hanno lasciato spazio ad alcun dubbio: le «preferite» erano invariabilmente le donne più dotate sotto il profilo ormonale. I loro volti erano, del resto, quelli che declinavano più marcatamente i caratteri femminili: occhi grandi, labbra carnose, mascelle piccole e naso minuto.
TRUCCO - Gli stessi ricercatori, per avere una controprova, hanno poi sottoposto alla stessa giuria le fotografie delle stesse 30 donne, dopo un «passaggio« al trucco. E in questo caso i risultati sono stati molto più omogenei. In altre parole, le donne, truccandosi, avevano compensato, più o meno consapevolmente, proprio gli elementi del loro viso meno caratterizzanti in senso femminile. Il tutto, secondo i ricercatori che hanno condotto lo studio, ha pienamente senso. Gli elementi più attrattivi in un viso femminile sono a tutti gli effetti caratteri sessuali secondari che evocano fertilità e quindi esercitano un forte potere attrattivo sotto il profilo biologico-evolutivo. E d'altra parte spiegano anche l'insistenza femminile su alcuni aspetti del make-up, come per esempio la sottolineatura degli occhi.

martedì 1 novembre 2005

IV° Congresso di Radicali Italiani: la relazione del segretario Daniele Capezzone
News del 30-10-2005

1. Premessa. In corso, in Italia, fatti culturali e politici profondi. Quasi strutturalmente preclusa “Piazza Navona”. Le opposte demagogie di Bertinotti e Tremonti.

Lo stesso esito referendario, che oggi sembra lontanissimo ma è di appena venti settimane fa -praticamente ieri-, ci parla di molte cose. Certo, ne abbiamo discusso anche a caldo nell’assemblea postreferendaria di fine giugno, e abbiamo accumulato il tesoro di molte spiegazioni serie, di molte osservazioni esatte (la mancanza del “grande” dibattito nel paese e -invece- lo sminuzzarsi tecnico, tecnicistico della discussione; lo sfarinamento del tema in quattro quesiti, senza la semplicità evangelica del “sì sì, no no” su un solo, facile, comprensibile e perciò dirompente referendum, come era accaduto -ad esempio- per il divorzio). Tutto vero, io credo, ma è altrettanto vero che non possiamo accontentarci di spiegazioni congiunturali: a mio avviso, è il caso di esplorare qualche ragione strutturale, qualche evento di fondo che è in corso, e sulla cui reversibilità in tempi politici stretti ho forti dubbi.

Sommate questi fattori:

-non la “litania” (o quella che ad alcuni appare la “litania”) sul “caso Italia”, ma la considerazione che trent’anni di illegalità continuata sono una cosa diversa da tre anni: se ci si abitua, ad ogni livello, a considerare inevitabile che la vita istituzionale si svolga al di fuori del perimetro della legalità scritta, poi diviene fatale che, alla lunga, il tessuto democratico risulti consumato, liso, e tenda a cedere;

-sommate, ancora, un livello di credibilità del ceto politico in quanto tale mai così in basso da tanto tempo: in fondo, nel ’92-’93, ci fu un’ondata di disprezzo, e talora di disprezzo “plebeo”; oggi, c’è qualcosa a mio avviso di più grave, e cioè una distanza che sembra sempre meno colmabile, una disillusione sempre meno guaribile…Tutto o buona parte di ciò che è percepito come “politico” rischia -per ciò stesso- di essere respinto, anzi forse neppure ascoltato da parte consistente della popolazione (e magari proprio da tanti che potrebbero essere interessati, se lo conoscessero, al nostro messaggio);

-sommate, ancora, una nonviolenza per tanti versi depotenziata, banalizzata, in qualche modo perfino “disinnescata” (apro una parentesi: mi complimento con Fausto Bertinotti che questa estate, conversando con Enrico Cisnetto, ha dichiarato che il suo è il primo partito ad aver assunto l’”habitus della nonviolenza”). Congratulazioni sincere per questo ennesimo primato: ebreo, omosessuale, nonviolento, adesso -apprendiamo- anche liberale. Speriamo che ci lasci qualcosa, diciamo…Ecco, non ancora “liberista”, pare…Anzi, dai compagni di Rifondazione ci si spiega che “liberale” sì, va bene, mentre “liberista” no, proprio no: insomma, il dibattito Croce-Einaudi diviene Croce-Einaudi-Bertinotti…E stiamo attenti a infilarci in questa discussione, se no arriva Marcello Pera, con giacchetta nera e piglio da arbitro Collina, mette mano al taschino, estrae il cartellino rosso ed espelle il povero Croce dal campo liberale…Succede anche questo nell’Italia del 2005…

-Ma non divaghiamo. Dicevo, sommate una prolungata e incontrastata illegalità istituzionale, la scarsissima credibilità di quasi tutto ciò che appaia come “politico”, il depotenziamento della nonviolenza, e aggiungete -ancora- un costo che può essere in buona misura imputato a Silvio Berlusconi. Un conto sono “le riforme non fatte”; altra cosa (ben più pesante, nel sentimento del paese) sono le “riforme attese, sperate, promesse e poi non fatte”. Oggi l’Italia fa i conti anche con questo meccanismo di illusione-disillusione.

-E infine, sommate -soprattutto- non solo un fatto mediatico, ma culturale e profondo, e quindi politico. Per tanti anni (su altro tema e altro scenario), abbiamo sentito parlare di “società duale”. Ecco, oggi, parlando il linguaggio di Edoardo Fleischner e prendendo a prestito la sua “dieta mediatica”, dobbiamo fare i conti con una nuova “dualità”, con un nuovo “divide”: da una parte, c’è un pezzo di società che vive con e di giornali, Internet, tv satellitari italiani e straniere, in presa diretta con il mondo e con le fonti dell’informazione; dall’altra, un grande pezzo della società italiana che non ha nulla di tutto questo, ed è chiusa nel ghetto della tv generalista.

Scusate, ma significherà qualcosa che due programmi di punta della Rai 2005 siano stati affidati a Pupo e a Pippo Baudo? I politici, quasi tutti, sono concentrati sui pastoni di Pionati al Tg1 e sugli approfondimenti (e naturalmente, guai -come si dice in questi casi- ad abbassare la guardia), ma non ci si rende conto che, ad esempio, nella sfida tra Vespa e Mentana (non a caso raccontata dai media con le meno comprensibili percentuali dello share), gli ascolti assoluti sono crollati a un milione e mezzo, a un milione e ottocentomila ascoltatori (quando va molto, ma molto bene). E’ il caso di guardare a cosa c’è intorno ai pastoni di Pionati o a Vespa: vedrete, vedremo il fenomeno di una tv generalista ridotta a badante per anziani, per un pubblico seduto, passivo, non interattivo, inchiodato alle balere da anni ’50 del sabato sera di Raiuno, o al poveraccismo nostalgico delle catapecchie e del “qui-era-tutta-campagna”…

La somma di tutto questo, di tutti questi fattori, produce un effetto devastante, che non è “la”, ma certo una spiegazione, e una spiegazione importante, di ciò che è avvenuto con i referendum. Da una parte, un 25% di “politicizzati” (che però, quando si passa alle elezioni politiche, sono sì “raggiungibili”, ma non si “spostano” facilmente, sono già convinti); dall’altra, un 75% sempre meno “raggiungibile”, a cui è sempre più difficile parlare…

Ho detto molte volte che una caratteristica decisiva del radicalismo pannelliano (cioè dell’esperienza radicale -diciamo per semplificare- successiva all’era de “Il Mondo”) è stata quella di aver voluto e aver saputo transitare dalla dimensione della prestigiosa, prestigiosissima rivista, dai prestigiosi, prestigiosissimi convegni al Piccolo Eliseo, a “Piazza Navona” (e comprendete cosa intendo per Piazza Navona: la piazza fisica, e, insieme, la piazza televisiva: insomma, la “pretesa” di parlare al 100% dei cittadini). E in effetti è andata così: una volta con i referendum, una volta con la nonviolenza, una volta con un’”escogitazione” (“la fantasia come necessità”…), più spesso con la combinazione di questi strumenti, quando si “sfondava”, si “sfondava” per davvero, parlando per una-due-tre volte a 13-14-15-20 milioni di elettori, e cioè proprio ai non “politicizzati”, ai più “aperti”.

Oggi tutto questo è, a noi, strutturalmente precluso. Ed è invece consentito, direi scientificamente costruito, per poche altre cose:

-1. una sempre più aggressiva “rieducazione culturale” (scusate, ma le parole più adatte mi sembrano queste) attraverso le fiction. Sembrava che i radicali esagerassero quando citavano i preti detective, le Sante Marie Goretti, i Padre Pio/Rai contrapposti ai Padre Pio/Mediaset…Adesso siamo alla valanga: solo nelle ultime quattro-cinque settimane, abbiamo avuto, in sequenza: il Maresciallo Rocca che, tornato dalle meritate vacanze, arresta una farmacista pro-eutanasia che -guarda caso!- viene fuori come una spietata assassina (6 milioni e mezzo di spettatori); Lino Banfi frate (7 milioni e mezzo di spettatori) che è lo stesso Lino Banfi che poi, il giorno dopo, ricompare nei tg (fuori fiction, ma in qualche modo è un prolungamento semiologico del messaggio) in Piazza San Pietro con papa Ratzinger e i bimbi della Prima Comunione; e, da ultimo la fiction su San Pietro (8 milioni e mezzo di spettatori), con un po’ di cristiani perseguitati e trucidati in prima serata…

-2. Ancora. Oltre alle fiction, pochi altri casi in cui la costruzione dell’Evento è altrettanto meticolosa. Penso alla vicenda Celentano, che mi ha avvilito per la piccineria con cui il ceto politico ha plaudito o strepitato (più pelosi e penosi gli strepiti di destra, a dire il vero: perché vorrei capire con quali titoli, dopo questi quattro anni, si denuncia l’altrui faziosità) a seconda del calcolo di presunto vantaggio o svantaggio derivante da “Rockpolitik”. Lo premetto e lo sottolineo: il mio non è un attacco a Celentano, che -anzi- ha un che di "selvaggio", di vitalmente "anarcoide", che me lo rende simpatico.
Il problema è uno scenario di nuovo peronismo (pur con gli stivaletti di Adriano), di demagogia post-politica e post-democratica. A nessun esponente (più o meno) democraticamente eletto dai cittadini, e perciò responsabile dinanzi a loro, viene concesso di potersi rivolgere (senza contraddittorio, senza repliche) a 12-15 milioni di spettatori in modo diretto (radunati con settimane intere di anticipazioni, di spot, di costruzione scientifica dell'audience, dell'"evento"), e con la forza -anche semiologica- di chi "lotta" (con tanto di "pugno", il “pugno” che è il logo di Rockpolitik: a proposito, ricordiamocene -ma ci verrò dopo- quando dovremo pensare al nostro simbolo…), di chi "fa giustizia", di chi va "contro".

Insomma, mentre gli gnomi della politica si affannano per una comparsata -direi quasi per una "sveltina"- sulla poltrona bianca di Vespa (magari alle 23.50, visti -se va bene- da un milione di spettatori), c'è chi (senza rispondere a nessuno) può salire su un pulpito di potenza straordinaria. E’ tenero, si fa per dire, il direttore di Raiuno Del Noce, quando dice che non si aspettava che la trasmissione divenisse “politica”: scusi Del Noce, ma con quel titolo (“Rockpolitik”), di cosa si aspettava che parlasse, di formaggi tipici? Ne discuterà qualcuno? Ci si rende conto (lo “scherzo” è già stato fatto a noi, nel 2001, con Emma Bonino in sciopero della sete e Luca Coscioni in autoriduzione delle terapie: e con gli esiti elettorali che ben ricordiamo), ci si rende conto -dicevo- che basta dire, al culmine dell’audience, e del climax scenico ed emotivo, che “Il Papa è rock”, per smontare qualunque campagna laica che nel frattempo cerca o cercasse spazi negli anfratti più oscuri dei palinsesti televisivi?
Tra parentesi, l’altra sera, nella seconda puntata, si è arrivati al surreale: il Papa che -sette giorni prima- era solo “rock”, è magicamente divenuto “hard rock”, perché -ha spiegato Adriano- “ha aperto ai divorziati”. Cosa che -com’è noto- Ratzinger non ha fatto, semmai il contrario. Ma è stato raccontato a 15 milioni di persone, e con quale suggestione, che Ratzinger “ha aperto”, e quindi è “hard rock”. Ci accorgiamo che il nostro mix libertà-responsabilità non ha nulla a che vedere con i violenti (e peggio che violenti: sciocchi) editti bulgari di Berlusconi (che ora se la prende, pensate un po’, con Bertolino e Vergassola: sai che pericolo per la democrazia…), ma neppure con quest’altro fenomeno (a prescindere da chi possa favorire questa volta, o la volta prossima)? Ci vorrebbe Pasolini, e -invece- avremo a mala pena un commento di Paolo Crepet...
Scusate se sono partito da qui (verrò tra poco a quelle che sembrano le nostre urgenze più immediate), ma il fatto politico mi pare questo. Cos’è “politico”, se non ciò che può davvero (e non per finta) parlare alla polis, cioè parlare a tutti?

Io credo che si debba provare a capire cosa “arriva” (e quindi cosa “accade”) nelle immense periferie urbane. Un uomo di studio della società, e non solo di talento televisivo, come Carlo Freccero, ha spiegato (e non era e non è affatto un fenomeno negativo, a suo avviso, a figurarsi se lo è dal mio punto di vista) che (banalizzo) l’americanizzazione (nei suoi aspetti positivi) prodotta dall’arrivo della tv commericiale, dalla rottura del monopolio Rai, ha portato il popolo delle periferie italiane, lungo tutti gli anni ’80, a elaborare domande di modernizzazione, a superare di slancio un certo bigottismo culturale dc-pci, a chiedere il “cambiamento” che poi Berlusconi non ha saputo dare…Ecco, oggi, nella situazione mutata che descrivevo, cosa “arriva” e cosa “cresce” (di “politico”) in quelle periferie? Forse solo un grande sentimento di smarrimento, paura, attesa.

Smarrimento, paura e attesa a cui -a mio avviso- dalla “politica ufficiale” sono arrivate solo due risposte che hanno intuito il problema, e -dal mio punto di vista- non solo non lo risolvono, ma lo aggravano. Direi, due opposte, simmetriche demagogie.

Da una parte, la demagogia efficacissima di Fausto Bertinotti, il suo linguaggio “fagioliano” (nel senso del professor Massimo Fagioli): alle paure (sempre retoricamente accresciute: il “neoliberismo”, il “pensiero unico del mercato e della globalizzazione”), si oppone l’irresponsabilità del “voglio” (“Voglio il ritiro dall’Iraq” e “Voglio la vasca idromassaggio”; anzi: “Voglio il ritiro dall’Iraq mentre sto nella vasca idromassaggio…”). Scherzo, ma fino a un certo punto: la prospettazione delle paure, e -per converso- l’illusione massimalista del “tutto e subito” (senza costi; anzi, a carico di altri, e non si sa bene chi).

Dall’altra parte, l’opposta, simmetrica demagogia che Giulio Tremonti cerca con grande maestria di costruire e regalare all’altro schieramento, pensando di “intercettare” qualcosa che promana ad esempio, dal “popolo di Pontida”, o, più genericamente, dai “popoli” (Toni Negri preferisce dire: le “moltitudini”): le stesse paure su cui fa leva Bertinotti (il “mercatismo”, dice Tremonti), e una risposta di chiusura protezionistica, di rifiuto delle “élites cosmopolite corrotte” (usuraie e immorali: e questo l’abbiamo già sentito nella storia, qualche decennio fa…), e un binomio “legge e ordine” declinato, in ultima analisi, solo contro poveracci, immigrati e “devianti”. Strada pericolosa: e mi permetto di dire all’apprendista stregone Tremonti di fare attenzione, perché una simile miscela può sfuggire di mano anche a chi è abile come lui…

Questo è il contesto, il campo -come vedete, assai poco praticabile- in cui ci tocca giocare, ed è bene tenerlo presente, perché la partita è quasi impossibile.


2. Tre “specificità” dell’Italia del 2005. Elites che non circolano. Riforme cancellate dall’agenda politica. “Opa” vaticana sulla società italiana: no al Concordato.


A tutto questo si aggiungono tre “specificità” -chiamiamole così…- dell’Italia del 2005.

A. Intanto, abbiamo a che fare con élites che non circolano, come non circolano le opinioni, del resto. L’antica ossessione di Pareto e Mosca -l’ho detto molte volte- è un rischio per tutte le società dell’Occidente avanzato, con la rivincita di Sparta su Atene e il progressivo restringersi del campo in cui le decisioni vengono prese. Ma qui da noi il tratto patologico è davvero impressionante. Pensate al “risiko” bancario e finanziario di questa estate. Quando (e non era certo un secolo fa) ad essere sotto scacco erano i risparmiatori, la gente comune (Cirio, Parmalat, i bond argentini), non è successo quasi nulla. Quando la partita è divenuta quella che poteva -che so- toccare il controllo del Corriere della Sera, è iniziata una vera e propria guerra nucleare, che per tanti versi prosegue. E prosegue con “poteri forti” italiani che qui giocano al gatto col topo, ma che sono debolissimi appena varcano i confini nazionali, dove -letteralmente, con l’unica recente eccezione di Profumo- non toccano palla.

L’Italia è dominata in lungo e in largo da oligarchie potentissime e prepotentissime qui, ma debolissime su scala globale, in linea con lo “score”, il “record” complessivo di un paese che da una parte non produce quasi più Premi Nobel, o grandi romanzi o grande cinema, e dall’altra ha perso quasi tutto sul fronte della chimica, della meccanica, o della grande distribuzione (per non parlare del bel contributo -si fa per dire- che l’ultimo referendum ha dato sul fronte delle biotecnologie e della ricerca, con -e non se ne avvertiva l’esigenza- le parallele campagne di paura e chiusura guidate da Pecoraro e Alemanno anche sul fronte degli OGM. C’è da ridere amaramente, ma se si cerca uno dei pochi settori in cui l’Italia possa dire la sua, forse si trova a mala pena quello delle macchine agricole e dei veicoli da lavoro da vendere in India e in Cina (e sempre che i tedeschi non ci precedano…).

C’è un filo tenace che lega tutto questo ad un capitalismo (se così possiamo chiamarlo, visto che i capitali spesso non si vedono) nel quale con l’1,33% si è potuto acquisire il controllo di una società come Telecom; in una situazione in cui si è parlato di Parmalat, ma non di altre 4-5 società in condizioni non troppo lontane (e tutti stanno zitti, mentre negli Usa, dopo la vicenda Enron, si sono stabiliti 25 anni di carcere per il falso in bilancio…scelta un po’ diversa da qui, mi pare…); in cui -sono dati dell’Università di Berkeley- l’Italia risulta 51ma per competitività e sugli stessi livelli di Guadalupe per diffusione di personal computer; in cui il debito pubblico è arrivato a quota 1.542 miliardi di euro (terzo debito pubblico del mondo, e non mi risulta che noi siamo la terza economia del mondo…); in cui ognuno di noi (neonati e…immigrati che sbarcano a Lampedusa compresi!) ha 26mila euro di debito; e in cui la Banca Mondiale ci ha collocato al 77mo posto nella classifica mondiale per capacità di attirare investimenti per nuove intraprese…

B. A questo si collega la seconda “specificità”, e cioè la sparizione delle riforme dai “radar” della politica. Tra tanti che si proclamano riformisti, non si vedono purtroppo “riformatori”, e meno che mai si vede (quanto ce ne sarebbe bisogno) chi non solo vuole riformare, ma addirittura “trasformare”, che è il compito più alto e umanistico e umano di una politica degna di questo nome. Pensate a un caso come quello di cui è stato protagonista un leader come Koizumi, in Giappone.

Koizumi aveva cercato di liberalizzare e privatizzare quell’autentico mastodonte finanziario che è (tra poco potremo dire: era) il servizio postale giapponese. Morale: quando si è reso conto che non solo l’opposizione, ma anche i dinosauri della sua maggioranza lo ostacolavano, ha convocato immediate elezioni politiche, non ha ricandidato i vecchi tromboni conservatori, ha sfidato tutti davanti al paese in una gara in cui avrebbe chiaramente vinto o chiaramente perso.

Il popolo lo ha premiato alla grande, ma starei per dire che Koizumi ha trionfato prim’ancora che si contassero i voti nelle urne: e ha trionfato per il solo fatto che la sua accelerazione ha costretto tutti a cambiare registro, e la discussione (già in campagna elettorale) non è stata più sul “se”, ma solo sul “come” fare una riforma a cui nessuno si è più potuto sottrarre. Vedete un Koizumi in giro nel Transatlantico di Montecitorio? Non mi pare, e dopo le occasioni perse prima da Berlusconi, poi da D’Alema e ora di nuovo da Berlusconi (e dopo la vanificazione dei nostri tentativi referendari degli anni ’90), l’orologio delle trasformazioni istituzionali, economiche e della giustizia così necessarie all’Italia è ancora malinconicamente fermo al 1993.

C. La terza specificità, su cui sarà bene fermarsi un poco, parte dal principio (al tempo stesso proprio della fisica e della politica) per cui il vuoto, prima o poi, è destinato ad essere occupato. In un paese in cui i partiti sono nelle condizioni descritte, in cui i poteri forti hanno la prepotenza ma anche le spaventose fragilità di cui parlavo, in cui non esistono “think-tank”, luoghi di pensiero e di elaborazione delle priorità politiche, chi volete che si ricavi un ruolo determinante se non un’entità, come lo Stato-Città del Vaticano, che dispone -simultaneamente- di incredibili risorse economiche (2mila miliardi l’anno di “otto per mille”: tradotte in oro, secondo un metodo che voglio mutuare da Antonio Martino, si tratta di 100mila chili, di 1000 quintali d’oro ogni anno) e di una esposizione mediatica superiore (dati alla mano, lo abbiamo dimostrato) a quella di tutte le forze politiche messe insieme?

E peraltro, questo è a maggior ragione vero oggi, quando la Chiesa è guidata da una personalità (quella di Joseph Ratzinger, a cui dedicai un anno fa un paragrafo della mia relazione congressuale -e a qualcuno parve stravagante occuparsi di un cardinale…-) che non nasconde intenzioni che lui stesso ha “metodologicamente” accostato a Lenin: la capacità di azione e di avanzata di una minoranza consistente, determinata, compatta, che può smettere di stare in difesa e può andare all’offensiva.

E i contenuti dell’offensiva stanno tutti nella lunga “enciclica” -chiamiamola così- che il cardinale Ratzinger ha nitidamente scritto per trent’anni: il “nemico” non è l’Islam, e anzi occorre l’unità delle religioni contro l’avversario comune, che è il “relativismo”, cioè -tradotto più chiaramente- il non assolutismo, il liberalismo, il pluralismo morale, la tolleranza, una umana e umanistica etica delle etiche, rispettosa delle scelte individuali. Questo è il nemico da abbattere per la Chiesa di questo inizio di terzo Millennio.

Come si fa a non vedere che questo è un tema centrale? In un recente convegno, una voce che sembrava ed era (sentivo per radio) quella dell’amico Carmelo Palma, ci invitava ad essere “laici ma non laicisti”. Mi verrebbe da dire che -simmetricamente- bisognerebbe sforzarsi, se questo è il piano di discussione che si preferisce, di essere “furbi ma non furbisti”, o almeno non troppo “furbisti”, quando si dicono queste cose. Ma resisto alla tentazione. E, invece, prendo in esame una cosa che sentivo da un’altra voce dello stesso convegno, che sembrava ed era quella dell’amico Marco Taradash, che invitava tutti (e in particolare i liberali italiani) a comportarsi “come se il Concordato non esistesse”…

Io ci ho pensato, mi sono pure sforzato, ma poi -diciamo così, dopo un attento esame, dopo un’approfondita ricognizione…- mi sono reso conto che il Concordato c’è, e che non possiamo prenderci per i fondelli…Il punto è proprio questo, e come tale va posto. E io do una risposta tutta “americana”, anche su questo. Non mi risulta che esistano ordinamenti funzionanti in cui le gerarchie di una (sottolineo, di una) confessione religiosa, da una parte godano di privilegi particolari (Concordato, otto per mille, esenzioni Ici, insegnanti scelti da loro stesse e pagati dallo Stato, straordinaria presenza sugli organi informativi sul servizio pubblico, ecc.), e dall’altra pretendano di “entrare a gamba tesa” nell’agone politico di quel paese (addirittura, divenendo protagonisti di campagne elettorali -condotte anche grazie ai finanziamenti pubblici di cui sopra!-, disquisendo sulla costituzionalità di norme future, eccetera).

Io vorrei, invece, la linearità e la chiarezza del modello americano: ognuno (a cominciare dal cardinale Ruini) dica e faccia quello che gli pare, ma senza Concordati, senza otto per mille, senza privilegi particolari. Non si può avere (insieme) la botte piena e la moglie ubriaca (e magari pure l’uva nella vigna...). E su questo tema, e in primo luogo sul superamento del regime concordatario, il nostro soggetto dovrà muoversi con chiarezza, con la semplicità evangelica del “sì sì, no no”.

Se non si affronta questo nodo, se non si fa una lettura (lo sottolineava molto bene, a mio avviso, Angiolo Bandinelli in una nostra recente riunione) perfino socio-economica (oltre che politico-culturale) del ruolo della CEI, di questa CEI in Italia, non si capisce che è in corso una gigantesca “OPA vaticana” sulla società italiana, e che si sta -a velocità incredibile- ricompiendo tutto il percorso (che richiese secoli) dall’affermazione tutta spirituale, religiosa “Il mio regno non è di questo mondo”, al proclama mondano e guerresco “In hoc signo vinces”. Se non si vede o si fa finta di non vedere questo, è l’intera lettura dell’Italia del 2005 che salta, è tutta la fotografia che risulta sfocata, mossa, sbagliata.


3. “Alternanza per l’alternativa”. La prima scelta che invitiamo gli italiani a compiere: no ad altri cinque anni di Governo per Silvio Berlusconi. Non sarebbero “eco-sostenibili”…Le speranze e le riforme tradite.


E allora, siamo arrivati alla politica in senso stretto. Io credo che la prima cosa, in ordine di tempo, che ogni elettore italiano debba fare il prossimo 9 aprile sia esprimere un giudizio sui 12 anni (e 12 anni sono un tempo enorme, nella politica di oggi) della vicenda politica di Silvio Berlusconi. Sono convinto che tanti, la quasi totalità di coloro che gli hanno dato fiducia, lo abbiano fatto in nome di una grande, straordinaria speranza di cambiamento.

Qualcosa, in effetti, è cambiato, in questi anni. Io non ho mai fatto una polemica di questo tipo, ma credo che sia il caso di accendere qualche riflettore. Silvio Berlusconi è entrato in politica con 5mila miliardi di debiti (di lire, o del vecchio conio, come direbbe Bonolis), e con le banche che -indegnamente, lo sottolineo- tentavano di strozzarlo; oggi (essendosi misurato con…come si chiama? Ah sì, il perfido regime comunista…), vanta 29mila miliardi di attivo (sempre in lire), ed è entrato nel G7 dei sette uomini, appunto, più ricchi del pianeta. Ecco, questa è una cosa che è cambiata in questi 12 anni.

Il resto un po’ meno. Doveva esserci la grande speranza della riforma maggioritaria, presidenzialista e americana, e ci ritroviamo nella palude proporzionalista, e con la devolution di Calderoli, che condurrà alla paralisi istituzionale: far approvare un disegno di legge da Camera e Senato sarà un autentico safari…Passiamo all’economia. Lascio da parte un’altra tentazione, quella di dire che Tremonti è stato cacciato (parole di Gianfranco Fini) perché truccava i conti, ed è stato richiamato -a me pare- per la medesima ragione, perché non c’erano altri che sapessero truccare i conti come lui in vista della Finanziaria…

Ma insomma: doveva esserci la grande liberalizzazione, e ci siamo ritrovati con la difesa corporativa dei forestali calabresi, con le compagnie aeree a basso costo accusate -nientemeno- della crisi dell’Alitalia, e con i libri da no global dello stesso Tremonti…Sulla giustizia, diciamoci la verità: noi non abbiamo usato questi argomenti, anche perché spesso c’era una polemica faziosa da parte di settori del centrosinistra…

Però, insomma: quando si è trattato di farsi gli affari suoi (sul falso in bilancio, sulle rogatorie, sulla Cirami), i voti compatti, da falange macedone, arrivavano in una notte (non c’erano scuse o…Follini che tenessero!); quando invece si è trattato di votare la separazione delle carriere (dove avrebbe trovato, ad esempio, l’attenzione di Enrico Buemi e dei compagni dello Sdi), niente. Nessuna riforma.

E lascio da parte solo per carità di patria (e per ragioni di tempo) il capitolo delle libertà civili, che hanno visto in questa legislatura (dal no al divorzio breve, al no a fecondazione e ricerca, al no ai pacs, alle aggressioni su aborto, RU 486, fino alle offensive che si ripreparano su droga e perfino sul reato di plagio, su cui anche i “laici devoti” tacciono, e non a caso!), che hanno visto, dicevo, un’escalation da “Casa della libertà provvisoria e vigilata”, come Marco ha sovente fatto osservare.

Per questo, io dico subito che non condivido i toni di critica, a volte spiacevole, che ho visto su qualche nostro forum, nei confronti di Benedetto Della Vedova o di chi -da sponde radicali o liberali- volesse tentare un’avventura personale e politica con Silvio Berlusconi. Una delle prime lezioni (anche solo da elettore radicale) che ricevetti nel 1992 fu che Marco ed Emma decisero, allora, di prestare perfino il simbolo ad alcuni compagni che sceglievano un altro percorso, per risparmiar loro la fatica e i rischi di dover raccogliere le firme.

E quindi, da parte mia, auguri sinceri e di cuore a chi cerca di seminare il seme liberale, ovunque, e in particolare a questi nostri amici. Detto questo, però, non solo (anzi: non a loro), ma a quanti si definiscono liberali di Centrodestra, chiedo di dire una parola sul ritorno al proporzionale, una parola sul Tremonti noglobal, una parola sul garantismo a targhe alterne (come lo chiama giustamente Enrico Boselli!), cioè solo per gli amici e i sodali, una parola sulla ventata vandeana, reazionaria che si abbatte contro le libertà civili. Rispetto a tutto questo, Silvio Berlusconi non è -diciamo così- un passante privo di responsabilità: di questo film, lui è soggettista, sceneggiatore, regista e interprete.

Oggi chi sceglie di essere “berlusconiano” deve fare i conti con questa realtà. E anche sulla politica estera, parliamoci chiaro. Io credo che a Berlusconi vada il grande merito (nessuno potrà toglierglielo) di avere spostato l’asse della politica italiana dal tradizionale (e subalterno) ancoraggio a Parigi e Berlino ad un legame con Londra e Washington. Ma a parte il fatto (e ci verrò tra poco) che nella politica, e a maggior ragione in politica internazionale, non basta “scegliere il campo”, ma bisogna anche saperci giocare in modo creativo, a parte questo, come si fa a conciliare e declinare tutto questo con la difesa strenua e perfino grossolana di Vladimir Putin?

Applichiamo anche a lui il “Ghe pensi mi”? Della serie: “Ci siamo guardati negli occhi, per una notte intera -sai che spettacolo- e vi garantisco che lui è un sincero democratico?”…Ora, a parte la stranezza un po’ psicanalitica di uno come Berlusconi che vede comunisti dappertutto, e poi, quando gli arriva un comunista vero, uno del KGB più duro, lo abbraccia e lo bacia; a parte questo, dicevo (e non mi rivolgo a Benedetto, a cui faccio i miei auguri, come dicevo, ma a chiunque si definisca o voglia essere liberale nel centrodestra), ci sarà qualcuno che gli porrà una domanda semplice semplice? E la Cecenia? E magari, se capita -tra una visita in Sardegna e una controvisita nell’una o nell’altra dacia-, e Antonio Russo? Signor Presidente Putin, ha qualcosa da dirci su questo?

E non ci si dica che con questo centrodestra non abbiamo cercato di costruire qualcosa. Ci abbiamo provato, fino all’estrema vicenda dell’ospitalità. E lascio da parte tutti i precedenti: pensate solo ai famigerati “referendum comunisti”, pensate alle trattative fatte con Tremonti (mentre aveva in tasca l’accordo segreto con la Lega), pensate a quelle regionali del 2000 in cui (lettera di Emma sul Corriere, del 10 gennaio) chiedevamo solo la ripresentazione del ddl governativo Berlusconi-Speroni (figuratevi!) per il maggioritario nelle regioni…Niente.

E niente perfino in questa legislatura, in cui avevamo almeno offerto (perché è il nostro paese, e non abbiamo mai giocato al “tanto peggio tanto meglio”) collaborazione strutturale sulla politica estera (e c’è stata, a volte, attenzione personale di Gianfranco Fini: praticamente nulla, invece, da parte del Presidente del Consiglio, se non l’appropriazione verbale distorta -e quindi controproducente- della grande battaglia per la Comunità delle Democrazie). Il fondo si è toccato -un episodio per tutti- all’apertura del semestre italiano di presidenza dell’UE, con Nessuno tocchi Caino, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti -e con Marco ed Emma, naturalmente- che preparano (per un Berlusconi linciato dalle cancellerie europee) una grande e lusinghiera carta, sulla pena di morte, con tanto di conti attendibili sulla possibilità di ottenere una straordinaria maggioranza alle Nazioni Unite.

Abolizione della pena di morte, quindi una richiesta massimalista? No, la carta ragionevole della moratoria. E con un testimonial americano. Non bastava americano? Repubblicano. Non bastava repubblicano? Cristiano. Non bastava cristiano? Favorevole, in teoria, alla pena di morte, ma decisamente schierato per la moratoria: era l’ex governatore dell’Illinois. Bene, si è scartato anche questo, e si è preferito andare a dare del kapò, all’Europarlamento, al primo tedesco di passaggio: mossa astuta e lungimirante, come si sa…

Per tutte queste ragioni, io credo che si debba dire no alla prospettiva di altri cinque anni di questo Governo e di questa maggioranza. Molto semplicemente, non sarebbe una prospettiva -consentitemi il termine, ma mi pare il più appropriato- “ecosostenibile”…


4. Ancora “alternanza per l’alternativa”. E la sinistra? Noi ci siamo, e chiediamo che l’Unione ci accolga nella conoscenza, nel riconoscimento e nella dignità della tradizione radicale. Quanto servirebbe un’iniezione blairiana…E quanto servirebbe, almeno, ripartire dai “meriti e bisogni”…


Di qui, il titolo e la proposta politica a questo Congresso, quell’”alternanza per l’alternativa” su cui Pannella e Bonino, l’Associazione Luca Coscioni e Radicali italiani hanno così insistito in queste settimane. La scelta (lo dico, da qui, ai dirigenti e ai militanti del centrosinistra, agli elettori e ai cittadini che potranno essere raggiunti da questo nostro messaggio) è inequivoca.

Ma (detto e chiarito questo) con la stessa franchezza con cui abbiamo detto prima che, nel centrodestra, si rischia di gettare il seme liberale sulla pietra, dobbiamo dire che di qua non c’è una proprio una valle ubertosa, insomma non c’è Tony Blair.

Mi spiego con un esempio e -insieme- con un sorriso. Dieci giorni fa. Puntata di “Porta a porta” dedicata al tema “prostituzione”. Si confrontano l’onorevole Gaetano Pecorella per la maggioranza, e l’onorevole Livia Turco per l’opposizione. Attacca Pecorella, presentando un suo curioso progetto di legge (il garantismo a targhe alterne di cui si diceva prima): insomma, bisogna mandare in galera le prostitute.

Guardo la tv, e mi cascano le braccia. La parola passa a Livia Turco, che sembra avere un piglio promettente: “Ma come può pensare l’onorevole Pecorella di risolvere il problema di cui parliamo arrestando le prostitute?”. E io, da casa mia, tutto contento, dico: “Forza Livia, sei tutti noi, diglielo…”. Ma lei, ahimé, riprende: “Non si può pensare di risolvere il problema arrestando le prostitute. Semmai bisogna arrestare il cliente!”. Confesso che, a questo “bipolarismo dell’arresto”, mi sono accasciato. Ecco, lo dico scherzando e con un sorriso, ma vorrei che fosse chiaro il punto: non si tratta solo di “battere Berlusconi”, di esorcizzare il demone, di abbattere il totem, di violare il tabù e di strappare il feticcio. Si tratta, magari, di costruire risposte radicalmente diverse.

Ora, da settimane ci si dice (anche assai autorevolmente) che con i radicali bisogna discutere sul “programma”. Benissimo, non chiediamo di meglio, e ci verrò. Ma si può far rispettosamente notare che l’Unione un programma (quello su cui ci richiama a discutere seriamente) ancora non ce l’ha?

Si può far rispettosamente notare che è attiva da luglio la nota Fabbrica (sempre del famoso “programma”), con 12 commissioni al lavoro, senza che mai uno di noi sia stato invitato neanche come osservatore, magari con barba e baffi finti? E si può far rispettosamente notare che (a parte l’importante, bello, popolare, arioso successo delle primarie, per ciò che riguarda l’intera Unione; e a parte, per ciò che riguarda i Ds, le coraggiose, forti, importanti scelte -dal loro Congresso, e fino ai referendum e fino a Fiuggi- di Piero Fassino e Vannino Chiti: e sono particolarmente felice di dirlo qui, insieme ai loro amici, davanti a Barbara Pollastrini, Lanfranco Turci e Katia Zanotti, compagni indimenticabili di una battaglia indimenticabile, che ancora ringrazio), si può far rispettosamente notare -dicevo- che gli italiani, del futuro governo di centrosinistra, hanno capito solo due cose, e cioè che ci sarà il ritiro dall’Iraq e l’abolizione della Legge Biagi?

Si può dire che noi vogliamo l’alternanza, vogliamo stare con voi, vogliamo discutere sul programma, ma che questi ci sembrano due errori? Si può dire che, se il centrosinistra vincerà le elezioni, avrà subito due sfide titaniche, e cioè il rinnovo delle missioni italiane all’estero e (grazie al rapporto deficit/pil lasciato dal centrodestra, che non sarà del 3%, e neanche del 4, e forse neppure del 5, ma -chissà- forse addirittura vicino al 6%, cioè -per capirci- il doppio di quel che si richiede a chi vuole entrare nell’UE…) una finanziaria-monstre da varare, e che -per affrontare queste due sfide- una iniezione blairiana, riformatrice, e -consentitemi- radicale è necessaria?

Si può rispettosamente dire che è frequente che in Europa ci sia un’alleanza tra le sinistre riformatrici e quelle estremiste, massimaliste e comuniste, ma praticamente mai (non solo Blair, ma neanche in Francia, con il prossimo congresso socialista; e meno che mai in Germania, dove la divisione è stata nettissima) si lascia il volante, o comunque una sorta di “golden share”, alla sinistra massimalista, estremista e comunista? Questo è il punto, e lo diciamo con passione fraterna proprio a chi questo ha inteso e può intendere meglio di altri, e cioè i Ds, che hanno compiuto passi importanti, costosi e quindi a maggior ragione apprezzabili.

Occorre una svolta culturale. Intanto, nei toni (ed è il tono che fa la musica, come si dice). Nel suo bel libro (assai citato e poco letto, come spesso capita), Luca Ricolfi, mettendo la sinistra in guardia da se stessa e dal suo “complesso dei migliori”, cita un dato impressionante. Il 34% degli elettori di sinistra, contro il solo l’8,9% di quelli di destra (e la percentuale sale vertiginosamente al 55,9% degli elettori di sinistra politicamente impegnati, contro solo il 13,8 di quelli impegnati a destra) ritiene che la propria parte politica difenda solo valori e la parte avversa solo interessi. Occorre scrollarsi di dosso questa pericolosissima e giacobina pretesa di superiorità morale.

E occorre semmai concentrarsi sul tema coraggiosamente aperto (vorrei dirlo: con il suo consueto spirito di riflessione aperta, intelligente, non faziosa) da un dirigente diessino come Gianni Cuperlo presentando sul Riformista, qualche mese fa, una ricerca della SWG, nella quale si chiedeva agli elettori di centrosinistra in quali parole “si riconoscessero” e quali invece “attribuissero” all’identità di centrodestra. Il risultato è impressionante. “Riformista” viene associato alla sinistra dal 70% del campione; “progresso” dall’85, “socialdemocrazia” dall’80, “uguaglianza” dal 90, come “gestione pubblica” e “lavoratori”. E fin qui, direte voi, non c’è gran sorpresa. Ma la sorpresa non positiva viene quando emerge che meno di un quarto degli interpellati si identifica con il valore del “merito individuale”; che lo stesso quarto si riconosce nel “talento”; che la “gestione privata” arriva a mala pena al 33%; che l’”ambizione individuale” si ferma al 10% e il “rischio” (anche nell’attività economica) si attesta su uno striminzito 12%.

Ecco perché ci vuole una svolta. Ecco perché ci vuole più Blair. Ed ecco perché (permettetemelo) ci vogliono più radicali. Noi vogliamo (in nome dell’alternanza -subito-, e per non rendere definitivamente impossibile -poi- quell’alternativa di Rivoluzione liberale a cui non smettiamo di puntare) un’alleanza con il centrosinistra. Ma (anzi, via il “ma”: meglio “e quindi”), e quindi -dicevo- proprio perché vogliamo l’alleanza con l’Unione, riteniamo giusto che la tradizione, la storia e l’attualità radicale siano accolte dall’Unione come meritano, cioè semplicemente con rispetto, con riconoscimento pieno di diritto di cittadinanza, senza esami del sangue, e senza improvvisati doganieri che pretendano di stabilire chi passa e chi non passa. Sarebbe umiliante: e non certo per noi.

Ed è su questa strada che si trova e si incrocia con il cammino dei radicali anche la migliore ricerca socialista (anche teorica). L’attuale centrosinistra ha bisogno di Blair, come avrebbe bisogno di recuperare quella Conferenza programmatica di Rimini dell’82, in cui Claudio Martelli (e Craxi ed il Psi con lui) lanciarono la sfida dei “meriti e dei bisogni”, tagliando -lo ricordava in una nostra recente assemblea Salvatore Abruzzese- la “sociologia pietrificata delle classi”, e ridando diritto di cittadinanza a sinistra (e non solo, ovviamente, come accadeva in casa radicale) ad una parola vietata e maledetta: la parola “individuo”.


5. L’incontro con i compagni dello Sdi e la nascita del progetto comune. La proposta al Congresso: approvare il progetto “Blair, Fortuna, Zapatero. Socialisti, laici, liberali, radicali”. Uscire dal “tunnel” dell’”unità socialista”. Parlare (o almeno provarci) al 100% del paese. Guardare avanti.


Dunque, direi che è stato naturale l’incontro con i compagni dello Sdi. Era dettato dalla storia, e -insieme- dai fatti di questi anni: per fare due esempi, la comune battaglia (saluto e cito ancora, uno per tutti, Enrico Buemi) su giustizia e carcere, e poi l’avventura referendaria, che ha visto la Federazione dei giovani socialisti guidata da Gianluca Quadrana e lo Sdi in quanto tale protagonisti, e non dalla fine, ma dall’inizio.

Io credo che sia un esempio di forza, di tenacia personale e politica quel che Enrico Boselli, Roberto Villetti e i loro (e mi permetto: i nostri) compagni hanno fatto, anche in queste settimane, resistendo a blandizie, avvertenze (e anche qualche avvertimento…) che giungeva a loro da molte parti. Non deve essere stato facile: e in politica le cose non facili e non scontate hanno un valore speciale, che questo nostro Congresso farà bene a salutare ed apprezzare. E a valorizzare il fatto che, per loro come per noi, questo percorso abbia un carattere non congiunturale, ma strategico, sia e voglia essere un “pensiero lungo”, e non un “accrocco” elettorale destinato a nascere dieci giorni prima e a morire dieci giorni dopo le elezioni.

Per questo, mi auguro che questo nostro Congresso voglia approvare con slancio la linea e la proposta che Radicali italiani, ma anche l’Associazione Coscioni, Marco, Emma, presentiamo: di dire il nostro sì, anche formale, alla nascita di un nuovo soggetto politico, ispirato a Blair, a Zapatero, a Fortuna, insomma, a questo nuovo progetto socialista, liberale, laico e radicale. E chiarisco subito in che termini.

Proprio per le ragioni che dicevo all’inizio (perché -cioè- abbiamo maledettamente bisogno di un “logo” che sia anche “logos”, cioè “parola”); proprio perché c’è (speriamo che sia invertita, magari proprio in occasione di questo congresso) la tendenza della grande stampa a soffocare questo nostro tentativo (la storia la conosciamo: per tutti gli anni ’90, leggevamo splendidi editoriali sulle liberalizzazioni economiche, mentre si censuravano i nostri referendum; proprio come oggi -e in genere, sono le stesse firme e le stesse testate- leggiamo splendidi editoriali sulla sinistra che deve divenire più blairiana, mentre si nasconde questo nostro progetto); ecco, per tutto questo, non possiamo restare intrappolati nella palude passatista e politicista. Con lo Sdi, non vogliamo (e non vogliono loro) fare amarcord, foto di famiglia o restauri delle vecchie case. Non vogliamo parlare alla somma degli elettorati di riferimento, al 4 o al 5% del paese: vorremmo parlare (o almeno provarci) a tutti, aggregare opinione, creare consensi e dissensi, sapendo che solo se qualcuno si “arrabbia” c’è qualcun altro che potrà appassionarsi. Ma guai alle assemblee politiche che parlano solo alle persone che si trovano in quel momento in sala, e che -peggio ancora- parlano solo delle cose che interessano solo a coloro che si trovano in sala.

Per questo, con amicizia e quindi con doverosa franchezza, voglio anche esprimermi sul Congresso del Nuovo Psi della scorsa settimana. Abbiamo difeso quel Congresso, e voglio farlo anche da qui, da un tono sprezzante, superiore, insopportabile, che tanti osservatori hanno avuto e -peggio- ostentato. E’ evidente che vi siano state (come si direbbe al Processo del lunedì) scene che non avremmo voluto vedere, ma è altrettanto evidente -almeno dal mio punto di vista- che siano preferibili luoghi in cui si discute con molta (magari troppa) passione rispetto alle convention con gli applausi preregistrati, o le caffetterie dove colonnelli si incontrano di soppiatto per dire peste e corna del loro leader, o congressi che -molto semplicemente- non vengono neppure convocati.

Detto e ribadito questo, però, voglio dire a Bobo Craxi (che è sembrato ed è, con Saverio Zavettieri e gli altri amici che sono qui, assai più deciso nella prospettiva del nuovo soggetto politico socialista, liberale, laico e radicale) e a Gianni De Michelis (che ha invece scelto una linea di attesa: e -mi permetterà Gianni il sorriso amichevole- quando ho sentito Gianni parlare di “esplorazione”, è stata irresistibile la tentazione di immaginarlo con la camicia kaki di Indiana Jones e il cappello da esploratore per andare ad “esplorare”, appunto, i radicali e lo Sdi…), ma insomma, voglio dire in primo luogo a Bobo, e poi (come ho detto, su un piano diverso) a Gianni e a tanti altri, che questo progetto dei radicali e dello Sdi (che intanto è partito) spera naturalmente di vedervi partecipi, e però…mi si consenta un però…Io ho detto e ripetuto molte volte che, contro il Psi e contro i socialisti, si è realizzata un’operazione violenta, da carri armati.

Claudio Martelli, citando Clausewitz, ha recentemente ricordato che un nemico lo si può annientare uccidendo i capi o invadendone il territorio, e ha aggiunto che con i socialisti italiani si sono fatte entrambe le cose. Io credo che abbia ragione. Ma credo che ora, pur forti di tutta questa consapevolezza e senza voler rinunciare neppure a un millimetro delle nostre tradizioni, identità e obiettivi, bisogna guardare avanti. Consentitemelo, anche fraternamente: smettiamola di parlare di ”diaspora” socialista: io non vedo un popolo d’Israele e soprattutto non vedo -ora- alcun Mosè. Come diceva quella canzone, usciamo dal “tunnel” dell’”unità socialista”.

Ha ragione Emma: è stata usata questa chiave per nevrotizzare e psicotizzare un Congresso, per occultare e soffocare un progetto politico, per neutralizzare la carica di novità che una cosa nuova -appunto, per definizione- deve avere. Se no, è un “accrocco”, è una rimasticatura: e sarà gioco facile per tutti (e c’è chi non chiede di meglio) presentare tutto in modo respingente e perfino repellente. Lo diciamo subito: noi una campagna elettorale così (al grido di: “Il segretario sono io!”, “No, impostore, il segretario sono io!”), una campagna così non la vogliamo fare.

Morale. Lo Sdi e i radicali partono (e questo è il mio auspicio sulla decisione congressuale che prenderemo). Sono certo che anche voi ci sarete, che altri ci saranno. Ma ora basta con la testa voltata all’indietro, perché se si pensa di camminare o di correre così -con la testa voltata all’indietro, appunto- si cade e ci si fa male. Ci si fa molto male. E a farci male saranno gli elettori, che -come sarebbe giusto, a quel punto- ci punirebbero severamente.


6. Il percorso di Fiuggi: la necessaria accelerazione. Simbolo e partecipazione popolare diretta. La Rosa nel pugno. Tre “proposte-manifesto” di iniziativa immediata e di impegno concreto, per prima e per dopo le elezioni: PACS, droga, ordini professionali (liberare il paese dalle catene corporative).


E’ per questo che Sdi, Radicali italiani, Associazione Coscioni e Federazione dei giovani socialisti stanno procedendo sulla linea di Fiuggi. Ed è per questo che ora occorre una decisa accelerazione.
Nella dichiarazione finale di Fiuggi si legge, tra l’altro, che i soggetti promotori “decidono di trasformare il patto di consultazione già siglato ad agosto in un Coordinamento politico ed elettorale. A questo scopo, gli organi dirigenti delle quattro organizzazioni sono costituiti in un Comitato di coordinamento, con gli obiettivi, entro il 15 novembre: di definire le altre, prossime tappe -anche formali- della costituzione del nuovo soggetto politico socialista, liberale, laico, radicale; di individuare nome e simbolo del nuovo soggetto politico; di definirne programmi e obiettivi di iniziativa in Parlamento e nel paese, a partire dal documento di ingresso alla Convenzione di Fiuggi”.

Su tutto questo, il lavoro è speditamente in corso, e il calendario sarà rispettato (semmai, è auspicabile che la scadenza del 15 novembre sia addirittura anticipata). Mi assumo qui la responsabilità di alcune valutazioni e proposte, su ciascuno dei punti nodali.
Quanto al rapporto formale tra i soggetti promotori, forse la soluzione più saggia (ne ha fatto cenno, anche in queste settimane, proprio Marco) può essere quella federativa, con l’individuazione delle “quote di sovranità”, delle competenze, delle attribuzioni da devolvere (questa è una “devolution” che ci piace…) all’entità federale.

Quanto al simbolo, la discussione è aperta con i compagni dello Sdi. A me, e credo non solo a me ma a tanti di noi, piacerebbe che il simbolo del nuovo soggetto fosse quello che è un simbolo socialista per antonomasia (come socialisti sono Blair e Zapatero, e come lo era Loris Fortuna), quello che è il simbolo dell’Internazionale socialista, e dei Partiti socialisti spagnolo, tedesco, francese: la gloriosa “rosa nel pugno”, inutilizzata in Italia da ben 19 anni (dal 1987), e che -vorrei dire- è stata custodita per questo appuntamento.

La rosa riformatrice e il pugno che non colpisce, ma la offre, e lotta, rinnova la sua lotta antica offrendo -appunto- un fiore. E per queste stesse ragioni, mi piacerebbe che “Rosa nel pugno” fosse anche il nome, oltre che il simbolo, di questo nostro nuovo soggetto. E’ cosa forte, che non dà il senso della bicicletta, della piccola avventura elettoralistica; ed è cosa che appartiene al vissuto di tanti, e che richiama immagini, ragioni e sentimenti pienamente socialisti, pienamente liberali, pienamente laici, pienamente radicali. Vedremo, discuteremo.

Quanto alle prossime scadenze, mi piacerebbe che subito dopo il prossimo Consiglio nazionale dello Sdi, a decisioni prese, ci fosse un cambio di passo e -vorrei dire- un cambiamento di scenario anche fisico. Dalle sale dei nostri bei Consigli, Convenzioni e Congressi, alle piazze, alle strade: dall’8-9 novembre, da quando sarà immediatamente possibile, tavoli e gazebo in tutta Italia per far fisicamente vedere e far politicamente fiorire la rosa nel pugno (io spero) in tutte le piazze e le strade che potremo raggiungere. Per far firmare un ideale “io ci sto” a chi vorrà, su alcuni punti; per aprire subito (Marco Cappato ci ha già lavorato, con altri compagni) forme di registrazione (per chi vorrà, 1 euro; per chi potrà, 100 euro, o chissà) e di adesione diretta al progetto che parte; per costituire nuovi indirizzari e nuova militanza; per favorire forme di partecipazione fisica e telematica.

Sono anche convinto che in questa occasione i radicali possano decidere un impegno elettorale non solo per le elezioni politiche, ma anche per le immediatamente successive elezioni amministrative: tutti, ma proprio tutti i compagni, i militanti socialisti, liberali, laici e radicali possono sentire quella rosa nel pugno (io spero) come il simbolo sia della battaglia politica nazionale sia di quella nella loro città, nel loro Comune, per fare di quella scadenza non la consueta tornata locale e localistica, ma l’occasione per portare anche in quella competizione il respiro e gli obiettivi del progetto nuovo che nasce.

E quanto ai programmi e agli obiettivi, appunto, siamo molto aiutati dai 31 punti di Fiuggi, che rappresentano una base di partenza importante. La politica italiana ha il vizio del vecchio avanspettacolo, con il militare in libera uscita sudato e su di giri che dalla prima fila grida alla ballerina sul palco:“’A mossa, facite ‘a mossa…”. Ecco, noi non vogliamo “fare mosse”, vogliamo fare riforme. Meno politics, cioè meno tatticismo e chiacchiericcio politicista, e più policy o più policies, più concrete proposte di cambiamento.

Ripeto: nel documento di Fiuggi c’è tanto, dalla giustizia (con carcere e amnistia: e -non c’è bisogno di ripeterlo- il lavoro radicale e del “Il detenuto ignoto” è proceduto fianco a fianco con quello dei compagni socialisti) all’economia (Michele De Lucia, a cui facciamo i complimenti per il suo importante libro in uscita, animerà con autorevoli personalità una commissione economica che avrà anche al centro il tema della riscrittura di un sistema di welfare che non tiene più, a forza di casse integrazioni e -vorrei dire- di “cassintegrazionismo”, di una tutela ormai ideologica dei settori meno trainanti e strategici).

Non c’è neanche bisogno di aprire il capitolo delle simultanee lotte in materia di libertà civili (del Concordato -questione cruciale, e non c’è certo bisogno di spiegare perché- ho già detto; poi c’è tutto l’essenziale dell’attività dell’associazione Coscioni; e poi la RU486 di Silvio Viale e degli altri compagni, che in modo splendido vedono una battaglia “clonarsi” -qui ci vuole- regione per regione; e poi l’eutanasia, che è questione sociale, con persone ed intere famiglie che -alla lettera- a questo vedono sospesa la loro vita, o, più spesso, la loro morte, una morte nel dolore, senza pietà e senza dignità); e ancora, su un altro piano, la ripresa di respiro e vorrei dire di “vision” ambientalista, grazie ad Aldo Loris Rossi e agli Amici della Terra; tutto il pacchetto (direi “boniniano”) di politica estera deciso insieme a Fiuggi; e non mancherà (qui, come radicali, senza impegno per altri) anche una riflessione sulla parte istituzionale ed elettorale, perché non abbiamo nessuna intenzione di ammainare la bandiera presidenzialista, federalista, maggioritaria (ne discuterà una commissione animata da Marco Beltrandi).

Fermi restando quei punti, io, per parte mia, mi assumo la responsabilità di suggerire tre priorità, tre “proposte-manifesto” di iniziativa immediata e di impegno concreto, per prima e per dopo le elezioni. E confesso che mi piacerebbe che decidessimo di ripetere queste tre cose come un “mantra”, facendone da subito oggetto di iniziativa (se possibile, pure legislativa, anche in questo finale di legislatura), oltre che di attività nel paese (nelle piazze e nelle strade, come dicevo prima, come nostro biglietto da visita). E sono tre cose che -ciascuna- riguardano la vita, il vissuto e le attese di alcuni milioni di persone.

Primo. Se questo soggetto politico sarà in Parlamento, farà il possibile e l’impossibile per trasformare in legge dello stato i Pacs. Cancellando discriminazioni odiose, e assicurando pari dignità e protezione alle scelte di milioni di donne e di uomini, omosessuali come eterosessuali.
Chi conosce questi temi e li affronta senza il velo del pregiudizio, sa che negli Stati Uniti il nostro dibattito apparirebbe jurassico: piaccia o no, lì è ormai un elemento acquisito dell’attuale complessità sociale (è un fatto con cui ciascuno ha intellettualmente fatto i conti) che vi siano -ad esempio- coppie omosessuali che accedono all’istituto del matrimonio, o che ricorrono alla fecondazione eterologa, o che adottano.

La mia personale opinione è che, anche in questo campo, il proibizionismo marchi la sua sconfitta. Ma noi non chiediamo tanto, non vogliamo quello, ora. Noi vogliamo e ci batteremo per l’approvazione dei Pacs.
Ma insomma, mi chiedo: ci sarà qualcosa di strano in un centrodestra che rifiuta la proposta non di Zapatero, ma di Aznar, su questo? Ci sarà qualcosa di strano in una situazione per cui leggi sulle unioni civili, in Europa, esistono già in Francia, Germania, Olanda, Belgio, Portogallo, Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Islanda, Lussemburgo, Croazia, Gran Bretagna e Svizzera, e in cui mancano all’appello solo Grecia, Irlanda e Italia?

E ci sarà qualcosa di strano in una situazione in cui, nel centrosinistra, se Romano Prodi parla di pacs, succede -letteralmente- un’”iradiddiio”, e, alla fine della fiera, il cardinale Pompedda sembra avere una posizione più avanzata di quella di Francesco Rutelli? A proposito: il listone, la lista unica, che posizione avrà sui pacs o sulla fecondazione assistita? Quella di Fassino o quella di Rutelli? Domanda interessante.

Intanto, occorrerà far sapere agli elettori che la nostra risposta è chiara.
Secondo. Se questo soggetto politico sarà in Parlamento, farà il possibile e l’impossibile per un cambiamento di rotta a centottanta gradi sulle politiche in materia di droghe. E, anzi, si batterà da subito per evitare il colpo di mano che -in questo finale di legislatura, attraverso un piccolo stralcio- vorrebbe portare la maggioranza ad approvare la norma che prevede il carcere (ripeto: il carcere) per chi sia trovato con sette-otto spinelli (cioè, potenzialmente, il carcere per centinaia di migliaia, o forse per qualche milione di persone).

Lo dico con molta franchezza, anche rispetto alla triste cronaca di queste settimane: ma come si fa a parlare di Calabria e malavita senza mai nominare la parola “droga”? E’ come parlare di Al Capone senza citare l’alcool. Perché le nostre destre e le nostre sinistre fanno finta di non sapere che la ‘ndrangheta calabrese è ormai al quasi-monopolio sulla cocaina, avendo soppiantato la mafia siciliana? Stime attendibili parlano di un fatturato (per la sola ‘ndrangheta calabrese, e per la sola cocaina) di 50mila milioni di euro l’anno: ne vogliamo parlare, o continuiamo a far finta di affrontare i temi della sicurezza e dell’ordine pubblico?

Lo dico con grande rispetto (e anche con ammirazione) ad un uomo politico come Gianfranco Fini, che quest’anno su tante cose ha dato lezioni di laicità e ha tenuto accesa la speranza di una destra italiana alla Aznar. Ma perché -ora, e proprio ora- questo rigurgito proibizionista? Perché ora -proprio ora- Francesco Storace (che sulla RU486 i compagni torinesi e tutti gli italiani hanno avuto modo di “apprezzare” -diciamo così- nella sua veste di guardia svizzera, più che di Ministro della Repubblica) ipotizza lo scambio “par condicio” versus “legge sulla droga”?

Davvero AN ha bisogno (come la Lega con la devolution) di una bandierina da sventolare? E davvero ha scelto di sventolare proprio questa? Io sono certo che, con l’onesta intellettuale e il coraggio personale che lo ha contraddistinto su fecondazione e pacs, Gianfranco Fini, tra qualche anno, ci dirà di avere mutato posizione, e noi lo applaudiremo, come sarà giusto. Ma nel frattempo -se è lecito chiederlo- quanti altri arrestati da marijuana, e -soprattutto- quanti altri morti da eroina di strada o da coca tagliata come viene tagliata ci saranno stati? A proposito: il listone, la lista unica, che posizione avrà su questo? Quella di Fassino o quella di Rutelli? Domanda interessante. Intanto, occorrerà far sapere agli elettori che la nostra risposta è chiara.

Terzo. Se questo soggetto politico sarà in Parlamento, farà il possibile e l’impossibile non per la “riforma” (come vagamente e qualche volta ipocritamente si sente dire), ma -come principio e come direzione di marcia- per l’abolizione degli ordini professionali o almeno di larga parte di essi, e di tutti quei ceppi corporativi, protezionistici, illiberali che impediscono al paese di camminare.

Noi vogliamo spazzare via i privilegi di pochi che -invece- tutti sono chiamati a pagare. Lo diciamo con chiarezza: la medicina e la salute non appartengono né ai medici, né agli infermieri, né ai farmacisti; l’università non appartiene ai professori (e neanche agli studenti occupanti); l’informazione non appartiene né all’ordine dei giornalisti né alla lobby degli edicolanti; il trasposto e la mobilità non appartengono ai tassisti; il mercato degli scambi e delle compravendite non appartiene ai notai.

Guardate che non sono cose astratte, ma riguardano la vita concreta di milioni di donne e di uomini. Io sogno di vivere in un paese in cui, se un anziano ha bisogno di un’aspirina in un giorno di festa, non debba spendere 20 euro di taxi per farsi il giro delle farmacie chiuse, ma possa spendere solo 5 o 6 euro di taxi (come in tante altre capitali occidentali) e arrivare al supermercato più vicino, dove ci sarà anche il banco dei medicinali. Io sogno di vivere in un paese in cui, per trasferire la proprietà di un’auto usata, non sia necessario pagare il dazio al notaio. Io sogno di vivere in un paese in cui, avendo eliminato il valore legale della laurea, studenti e famiglie possano cominciare per davvero a domandarsi se il professore dell’università locale sia bravo.

Guardate, ci sono, in questo momento, due libri da leggere: uno è quello di Tremonti, per dissentire; l’altro è quello del professor Francesco Giavazzi, per farne il nostro programma, il nostro manifesto. E per capire che è ben strano un paese in cui, a “Porta a porta”, il segretario della UIL Angeletti pone ottimamente questa questione, e il Ministro Tremonti cerca -invece- di svicolare e di sottrarsi. Vedete, io che pure difendo la legge Biagi, comprendo una critica che viene fatta: ma perché gli unici a rischiare, a stare davvero sul mercato, debbono essere i lavoratori? Domanda giusta, e la risposta giusta non è quella di sottrarre loro al mercato, ma quella di portare sul mercato anche tutti gli altri, anche tutte le lobby e corporazioni che vivono su rendite comode, parassitarie, finora inattaccabili.

Fa benissimo, da questo punto di vista, il professor Giavazzi a chiedersi, mentre i tassisti di New York sono afghani, curdi, vietnamiti, perché i tassisti di Castelfranco Veneto siano -invece- tutti di Castelfranco Veneto, mentre contemporaneamente nelle imprese della stessa Castelfranco Veneto i lavoratori italiani sono una minoranza. La risposta -lo ripeto- deve essere: non solo alcuni, ma tutti sul mercato, con i rischi e le opportunità che questo comporta. Su tutto questo è istruttivo rileggere cosa ha detto il ministro Castelli: “La Commissione europea e l’Antitrust vorrebbero abolire gli ordini; noi invece siamo impegnati a difenderli perché pensiamo che gli ordini e tutto il ricco mondo delle professioni siano un patrimonio fondamentale della nostra società”.

Ed ecco cosa ha scritto lo stesso Berlusconi al Presidente del Comitato unitario delle professioni: “Noi pensiamo che il sistema degli albi professionali regolato per legge sia molto meglio del sistema delle libere associazioni di professionisti presenti nei paesi anglosassoni”. Così, l’uomo del -come si chiamava? ah, sì…- “partito liberale di massa”…Ecco, noi invece, con il professor Giavazzi, siamo convinti del contrario: che queste associazioni all’inglese, diversamente dai nostri ordini (che, a parte radiare Enzo Tortora, non cacciano mai nessuno…), che le associazioni all’inglese -dicevo- abbiano tutto l’interesse a comportarsi bene, perché la loro sorte non è garantita una volta per tutte, ma vive sul mercato, e vive della loro buona reputazione.

Ma chi le può fare queste riforme, se non noi? Lo sapete che un parlamentare su tre in questa legislatura è iscritto a un ordine professionale? Insomma, abbiamo capito che il centrodestra non è stato liberale neanche su questo. Resta da capire se vorrà esserlo la sinistra. A proposito: il listone, la lista unica, che posizione avrà su questo? Domanda interessante. Intanto, occorrerà far sapere agli elettori che la nostra risposta è chiara.

Quindi, lo ripeto.
Primo: i pacs, per la fine di discriminazioni insopportabili e per una conquista di civiltà e di dignità per milioni di donne e di uomini, omosessuali e non.

Secondo: antiproibizionismo sulle droghe, per contrastare le mafie sul serio, e -insieme- per evitare la violenza, la pericolosità e perfino la stupidità del carcere per un ragazzo preso con sette spinelli.
Terzo: abolizione degli ordini professionali, per riaprire un paese chiuso, per sbloccare un paese bloccato, per sconfiggere l’Italia dei monopoli, delle corporazioni, dei privilegi.
Scusate se mi fermo ancora su quest’ultimo punto, che a me pare decisivo perché può davvero darci un tono, una chiave, e aiutarci a recuperare anche la questione “generazionale” posta a suo tempo da Mario Monti.

Io sono convinto che una battaglia di questo genere sia davvero “di sinistra”, se “sinistra” è per definizione difesa del più debole. Ed è qui che incontriamo Blair: sia il Blair che denuncia l’iniquità (oltre che l’inefficienza) dell’attuale modello sociale europeo (con 20 milioni di disoccupati; con l’India che ha più laureati dell’Europa e che espanderà di cinque volte il suo settore biotecnologico; mentre in Italia, tanto per capirci, l’età media dei nostri professori universitari è 57, e quella dei ricercatori è 47…e avete capito bene…)…ecco, incontriamo sia questo Blair, sia il Blair che, oltre a individuare il male, cerca e trova una possibile terapia, e spiega che, come gli anni ’80 sono stati quelli dei sindacati, e gli anni ’90 quelli dell’economia, gli anni Duemila devono essere centrati sulla scelta, sulle possibilità di scelta e di scelta differenziata del consumatore di servizi. I politici italiani dovrebbero imparare a memoria queste parole, e magari anche le altre che Blair ha recentemente aggiunto: “Ogni volta che ho introdotto una riforma, in seguito mi sono pentito solo di non essermi spinto ancora più avanti”.

7. Conclusioni. Un Congresso straordinario dopo le elezioni. La centralità del Partito Radicale Transnazionale, che diverrà Nonviolent Radical Party. Il “caso Coscioni”, il “caso Bonino”, il “caso Pannella”. Un invito per tutti: una incessante, inesausta ricerca. A volte il frutto cade lontano dall’albero…

E -consentitemelo- proprio nell’espansione della libertà che crea opportunità per tutti, c’è il crocevia in cui l’alternativa liberale incontra l’attualità dell’ideale socialista, e cioè la costruzione di una maggiore giustizia sociale. Se ci pensate, nell’Italia di oggi, è proprio il mix radicale “libertà-legalità” che può consentire al più debole di difendersi: altrimenti, nella giungla della non libertà, del non mercato, e -insieme- dell’assoluta incertezza del diritto, il debole è fatalmente destinato a soccombere, mentre il più forte un modo di difendersi lo troverà sempre prima o poi, così come chi sta al caldo in una corporazione sarà protetto da questa, o comunque troverà un’intesa con le altre corporazioni.

E allora, occorrono più libertà, più legalità, e -anche- più conoscenza, che è l’altro straordinario strumento di difesa dei “meno armati socialmente”. E qui, consentitemi di dire che leggendo la bella pagina che l’ultimo libro di Ugo Intini dedica alle origini de “L’Avanti”, la gloriosa testata -scrive Ugo- che “aveva alfabetizzato, all’inizio del secolo, generazioni di proletari che, aiutati dai maestri di scuola socialisti, nelle sezioni, nelle trattorie, nei dopolavoro, compitavano, alla luce della candela, il fondo di Bissolati o il racconto di De Amicis, il saggio di Salvemini e di Anna Kuliscioff, oppure gli articoli che oggi sarebbero definiti di education (contro l’alcolismo e la violenza sulla donna, per l’igiene, il controllo delle nascite e il rispetto degli animali)”, ecco, consentitemi di dirvi che leggendo queste parole di Intini che ho voluto citare, e pensando a cosa in fondo svolga, nell’Italia di oggi, cento anni dopo, questa funzione, non posso pensare ad altro che a Radio Radicale. Ma non voglio divagare e, anzi, debbo concludere.

Quanto al nostro soggetto politico, Radicali italiani (che, fatemelo dire: vive grazie all’opera miracolosa di Rita Bernardini e di pochissimi altri compagni a Roma, e di tanti -per fortuna- in giro per l’Italia), io riterrei molto salutare, dopo le decisioni che saranno prese qui a Riccione (sulla linea politica, sugli organi, su tutto: e in attesa di quelle dello Sdi, della Fgs e dell’Associazione Coscioni -tra l’altro impegnata su ulteriori tre fronti di cui ci parleranno, immagino, gli stessi Cappato e Turco), io riterrei salutare -dicevo- che non si attendesse per un anno intero, fino al prossimo ottobre, per il successivo Congresso.

Ora, dal 1° novembre in poi, abbiamo cinque mesi densissimi: ma, subito dopo, mi parrebbe utile la convocazione di un appuntamento congressuale straordinario dopo le elezioni, per capire insieme cosa sarà accaduto, e fare tutte le valutazioni del caso, senza dover attendere altri sette mesi per rivederci a Congresso. E dico questo perché allora (speriamo in positivo ma non possiamo escludere anche l’ipotesi opposta, quella negativa) una fase si sarà chiusa ed altre dovremo immaginarne, a cominciare dal se e come (ripeto: se e come) questo soggetto politico possa e debba vivere.

La biodegradabilità è questo, o non è.
E in questo senso, voglio dire qui alcune parole chiare (sarò breve, ma credo nettissimo) sul soggetto politico di cui Radicali italiani è, con altri, soggetto costituente: il Partito Radicale Transnazionale. Io non riesco ad immaginare alcun senso politico della vita e dell’opera di Radicali italiani, come degli altri soggetti radicali, se non siamo in grado di far vivere le ragioni e le speranze del Partito Radicale, che, su proposta di Pannella, diverrà probabilmente Nonviolent Radical Party, e cerca in queste settimane (in particolare con il lavoro, insieme a Pannella, di Maurizio Turco, Marco Beltrandi, Marco Cappato) di costituire per la prima volta il suo Consiglio generale.

E’ importante che decine di parlamentari italiani abbiano scelto di iscriversi, con in testa i compagni dello Sdi; e voglio salutare qui la positiva scelta di Benedetto Della Vedova e dei suoi amici, di fare anch’essi la propria parte per questo grande obiettivo. Ho detto molte volte che nel progetto del Partito Radicale, in quella mozione di Tirana sulla promozione globale della libertà e della democrazia, c’è perfino una sintesi della cinquantennale vicenda radicale. E’ un patrimonio che sarebbe delittuoso dilapidare.

Ma -intanto- dobbiamo anche affrontare e guardare negli occhi quelli che io considero tre veri e propri “casi”. Il primo è il “caso Luca Coscioni”, che ha -fatemelo dire- svelato la politica italiana a se stessa. Ma che politica è quella che lo ha escluso dal Comitato Nazionale di Bioetica? E che politica è quella, che, alle ultime regionali, è giunta perfino ad opporre un veto sul suo nome e sulla sua persona? Io dico qui che occorre che nel prossimo Parlamento italiano la voce di Luca Coscioni ci sia. Sarà un problema del Parlamento italiano, ma quella voce ci deve essere… Occorre che l’incredibile, odiosa ferita della scorsa primavera sia sanata. E la ferita che va sanata -badate bene- non è quella inflitta a Coscioni o ai radicali; è quella che, attraverso il no a Coscioni e ai radicali, la politica ufficiale italiana ha inferto a se stessa. Sia chiaro.

E poi c’è il “caso Bonino”, non meno grave e insopportabile. Dai, spogliamoci per un momento della nostra casacca radicale, e consideriamo la questione. E’ semplicemente lunare, oltre che inspiegabile per qualunque osservatore internazionale, che la politica italiana, le istituzioni italiane dispongano (e lo sanno) di una simile opportunità, di una simile risorsa, e non sappiano far di meglio che candidarla a tutto, per poi dire che “purtroppo, stavolta, non è stato possibile farcela...”. Questa storia di sciatteria, di leggerezza e -insieme- di furbo e ostinatissimo ostracismo deve finire, e ne deve cominciare un’altra. Occorre voltare pagina.
Come pure occorre guardare negli occhi il “caso Pannella”, che forse -mi è già capitato di dirlo- esiste anche tra gli stessi radicali.

Marco ci fa dannare tutti, prima o poi, e vale per lui quel che è stato detto …della provvidenza: magari affligge, ma non abbandona. E però, battute a parte (fatemene fare qualcuna: sono pur sempre un’opinionista di Markette e un collaboratore di Piero Chiambretti fiero di esserlo…), battute a parte -dicevo- dobbiamo non solo augurarci, ma lavorare perché Marco ritenga possibile esprimersi e vivere questa sua stagione politica e civile sentendosi forte e non “zavorrato” dal movimento radicale organizzato. Io credo che abbiamo tutti tre modi di essere riconoscenti a Marco.

Il primo è studiare studiare studiare la storia radicale, che è un’autentica miniera per l’oggi: con Carmelo Bene, si potrebbe dire che noi non parliamo, ma per tanti versi “siamo parlati” dalla storia radicale e da quella di Marco. Il secondo vale per ora e per il futuro: l’impegno a far conoscere questa storia, a farla vivere, a conservarne memoria e attualità (fatemelo dire, con rispetto, a Paolo Mieli: che dolore vedere le ricostruzioni notturne della Storia della Repubblica su Raitre, in cui le stesse parole “radicale”, “radicali”, “Pannella” sembrano impronunciabili…): ma noi (e qui mi permetto di dire: io, anch’io) prendiamo, prendo l’impegno, ed è un impegno di lustri, a far sì che queste pagine di storia e di memoria non siano strappate e divelte con tanta violenza. Il terzo non è contraddittorio con i primi due, ma ne è un naturale sviluppo: studiare e difendere la memoria possibile della storia radicale vuol dire anche (ripeto, anche, e -se volete- su un piano diverso: cioè distinguendo le cose, ma facendole entrambe, e può essere una straordinaria avventura intellettuale, politica e civile) cercare anche una crescita possibile, uno sviluppo possibile, senza essere beghine di quella storia che recitano le giaculatorie.

Io credo che (insieme -per carità- a mille altre cose, a mille altri stimoli che vengono da altri compagni impegnati su fronti -diciamo così- più tradizionali) tante ricerche apparentemente un po’ più eterodosse, o meno “facili”, o più di confine, o di meno immediata coniugabilità con il “mainstream” storico radicale siano ciò di cui abbiamo più bisogno…Cito in ordine sparso, disordinatissimamente, e forse facendo torto a tutti: le ricerche “ultrablairiane” di Antonio Tombolini, i percorsi camusiani (ma ora anche leopardiani e …pannelliani: qualcuno sa a cosa mi riferisco) di Enrico Rufi, lo strepitoso blog di Federico Punzi, l’opera “americana” di Matteo Mecacci, e perfino -se posso- l’aver raccontato io stesso che Pim Fortuyn non era un pericoloso fascista e che i neocon non mangiano i bambini…, ecco tutto questo va vissuto come qualcosa di cui abbiamo una maledetta necessità…Noi viviamo se siamo e sappiamo essere “meticci”, se siamo e sappiamo essere “ogm”, se sappiamo che a volte le nostre radici stanno sui rami, che il frutto può cadere lontano dall’albero, e che noi siamo felicemente condannati ad essere -insieme- radici, albero, ramo e frutto.

“Rinnovarsi o perire”, diceva un grande socialista italiano. Senza ricerche frettolose di nuovismi, per carità, ma -anche- senza feticismi e passatismi: anzi, i due vizi mi appaiono come le due facce di una stessa medaglia.
Ma insomma, quel che conta è il coraggio di una incessante, inesausta ricerca, senza calcoli micragnosi o tatticismi sparagnini, provando -invece- ad offrire al nostro partito il meglio di noi stessi e di questa nostra ricerca. Dicono perfidamente (ma quanto giustamente!) gli inglesi che quando si sta in politica, si è troppo impegnati a restarci, e si rischia di avere tempo solo per quello, cioè solo per restarci. Non è per questo che ciascuno di noi ha deciso di essere qui; e non è per questo che abbiamo tutti deciso di esserlo ancora. Care e cari compagni, auguri per le decisioni che dobbiamo prendere, e -di cuore- buon Congresso. Grazie.

(IV° Congresso Radicali Italiani / Riccione 29 ottobre - 1° novembre 2005)

Corriere della Sera 1.11.05
Boselli insiste: sul Concordato il confronto non è chiuso «Sto con Romano ma sul programma faremo un’ira di dio. Bagdad? Non la penso come Emma»
Maria Teresa Meli
Una svolta e una nuova offensiva: «Se Ruini è diventato un leader politico, la Chiesa non deve avere i privilegi del Concordato».
Sul superamento del Concordato, Enrico Boselli insiste: il confronto non è chiuso. «La laicità dello Stato è un punto dirimente». L’8 per mille? Si può abolire
ROMA - Squilla a più non posso il cellulare di Enrico Boselli. «Adesso sai quante pressioni: Ds, Margherita, Prodi...», ridacchia lui. Il telefonino gli ha dato tregua solo quando era a pranzo con i figli, ma giusto perché nel ristorante dove mangiavano non prendeva. Il leader dello Sdi, che in settimana (giovedì, probabilmente) vedrà Romano Prodi e Arturo Parisi per quello che in politichese si definirebbe un «chiarimento», non ha l’aria di chi intende tirarsi indietro dopo le polemiche sul Concordato. Anzi. «Non sarà possibile chiudere facilmente il confronto su questa questione», annuncia. Ma Prodi insisterà di sicuro, e a quel punto Boselli come potrà dirgli di no? «Io sto con Prodi, è ovvio, ma Romano non mi può chiedere cose che io non posso fare», replica lui, serafico. Ed è tranquillo anche quando aggiunge: «Noi sui programmi faremo un’ira di dio, se non altro perché non mi pare una grande pretesa chiedere al centrosinistra di difendere la laicità dello Stato: per noi è un punto dirimente». Il presidente dello Sdi ha l’aria mite, e mite lo è sul serio. Nel senso che non ama le sceneggiate. Ma è anche molto molto determinato. E poiché Prodi ha annunciato di voler discutere del programma con il Pr, il leader dello Sdi adesso chiede al candidato premier dell’Unione «che a tutti i tavoli programmatici del centrosinistra ci siano anche i radicali». Sarà contento Prodi, e quelli della Margherita e dell’Udeur, poi, saranno entusiasti. «Qualsiasi pregiudizio contro i radicali è anche un pregiudizio contro noi socialisti», taglia corto Boselli. Il quale mette in guardia Ds e Margherita e li invita a non creare «un’alleanza catto-comunista».
Lui che per il listone unitario si è speso, eccome, in passato, ora non ci crede più. È convinto che nella versione attuale sia una «scorciatoia tattica ed elettorale», perciò non ha intenzione alcuna di tornare all’ovile. E conferma che il superamento del Concordato non è una bizzarria o una sortita che odora di anticlericalismo d’antan. «È la presidenza della Cei - spiega calmo Boselli - che ha messo in crisi il Concordato - e lo ha fatto con tutti quei continui interventi nella politica italiana». Vabbé ma in un Paese libero e democratico potranno esprimersi anche le gerarchie ecclesiastiche, o no? «Certo, ma allora la presidenza della Cei diventa un attore politico che può ricevere critiche e fischi. Il Concordato vieta alle gerarchie ecclesiastiche di interferire nella politica italiana. Invece questo è accaduto. In compenso il nostro Stato, in virtù di quegli accordi, continua a garantire i finanziamenti alla Chiesa cattolica attraverso l’otto per mille, l’insegnamento della religione, ecc. Tre miliardi di euro l’anno...».
Insomma, di questa Italia «vigilata speciale da parte del Vaticano», Boselli non ne può più. E infatti il prossimo cavallo di battaglia sarà la difesa a oltranza della scuola pubblica. Anzi, per la verità, ai tavoli dell’Unione si sta già litigando perché una parte dell’alleanza non vuole che questo punto venga inserito nel programma di governo, mentre i socialisti stanno facendo il diavolo a quattro per spuntarla. «Come si vede - osserva ironico Boselli - non si tratta di anticlericalismo da fine Ottocento, come è stato detto, ma di concretissimi problemi che discendono dalla difesa della laicità dello Stato». Ma c’è chi nell’Unione - e non sono pochi - invita lo Sdi alla calma perché c’è il rischio che le gerarchie ecclesiastiche invitino gli elettori a votare per il centrodestra. Non sarebbe proficuo, no? «Non si può tacere per compiacere la Cei nella paura che poi Ruini dica di votare per la Casa delle Libertà. Basta con questa ipocrisia, per fortuna che ci siamo noi e i radicali, la rosa nel pugno, insomma, che difendiamo i valori della laicità dello Stato». L’alleanza tra il centrosinistra e i radicali, però, rischia di diventare esplosiva. Le differenze sono molte e sono foriere di nuove grane per l’Unione. «Finiamola - dice Boselli - con la storia delle differenze insormontabili tra il centrosinistra e i radicali. Stupidaggini. Nell’Unione ci sono due partiti comunisti, uno ortodosso che ha addirittura rinnovato la sua stima e solidarietà a Fidel proprio quando alcuni dissidenti cubani venivano condannati a morte. E allora io chiedo: Rutelli è più vicino a Oliviero Diliberto o a Marco Pannella?». Ah, saperlo. Però di differenze ce ne sono anche tra Sdi e Pr. Emma Bonino, per esempio, ha detto che gli americani devono restare in Iraq. «Anche io - afferma Boselli - penso che non si possa abbandonare l’Iraq per lasciarlo prigioniero del terrorismo, ma al contrario di Bonino ritengo che lì debba rimanerci una forza multilaterale e non gli Usa».
Insomma, per Boselli le differenze sono superabili, però i suoi alleati sono preoccupati: «Ma noi - puntualizza il leader dello Sdi - abbiamo fatto tutto alla luce del sole. E alla prima convenzione con i radicali abbiamo steso nero su bianco i 31 punti programmatici su cui si basava la nostra alleanza. E non c’erano solo quelli attinenti alla laicità dello Stato, c’era anche l’amnistia, per esempio». Un altro tasto dolente per l’Unione. «Comunque, non torniamo indietro: per noi la laicità è un punto dirimente. Non possiamo tacere per compiacere la Cei, ma neanche per compiacere Prodi e i nostri alleati», ribadisce Boselli, con voce piana ma risoluta.

Apcom 1.11.05
PAPA/ L'Italia mantenga la sua bimillenaria storia di Santità
Un pensiero particolare va alla secolare fede del nostro Paese

Città del Vaticano, 1 nov. (Apcom) - Papa Ratzinger sceglie la festa di Ognissanti per ricordare quanto le radici degli italiani siano state plasmate nel corso dei secoli dal cristianesimo e dalla fede. Salutando "con affetto" i pellegrini italiani, al termine dell'Angelus, affacciato dalla finestra del suo studio, Benedetto XVI riserva un pensiero particolare alla "bimillenaria storia di santità che ha arricchito" il Paese, e prega, dice, "affinchè prosegua oggi e sempre".

Corriere della Sera 1.11.05
Prodi: i rapporti con la Cei
f. alb.

Se sarà disgelo, lo diranno i fatti. «Ma certo non c’è alcuna preclusione al dialogo, ci mancherebbe: non c’è alcun motivo per cui non dovrei incontrare il cardinale Ruini...». Romano Prodi non nasconde di «cadere dalle nuvole». Non s’aspettava che quella frase consegnata a Bruno Vespa quasi un mese fa e resa pubblica l’altro ieri («Sì, penso di rivedere presto il cardinale Ruini...») potesse innescare una tale agitazione mediatica. Certo, il leader dell’Unione ha tutto l’interesse a sdrammatizzare un rapporto, non solo con il presidente della Cei, ma più in generale con le gerarchie ecclesiastiche, infiammato negli ultimi mesi dalle polemiche sul referendum per la fecondazione assistita, dalle ripetute dichiarazioni di autonomia del «cattolico adulto» Prodi e dalle divergenze sulle coppie di fatto.
Ora però, complice anche la piena legittimazione ottenuta dal Professore con le primarie e il netto altolà imposto a Boselli sul superamento del Concordato, il clima tra Prodi e la Chiesa sembra indirizzarsi su binari meno scivolosi. Logico quindi che «un incontro con Ruini rientri nell’ordine delle cose». Quando e come, è ancora presto per dirlo. Le rispettive diplomazie sono al lavoro. Si vocifera anche di un imminente incontro con il segretario di Stato della Santa Sede, Angelo Sodano. E in netto miglioramento sono pure i rapporti con l’ Avvenire . Insomma come afferma, scherzando ma non troppo, chi è vicino a Prodi, «la vera notizia sarebbe stata che il Professore escludesse in futuro un incontro con Ruini...».

Corriere della Sera 1.11.05
La vita di un’aristocratica complice del terrore sovietico narrata da Nina Berberova Moura, la baronessa al servizio di Stalin
di Ennio Caretto

La baronessa estone Moura Budberg, o se si preferisce la principessa russa Maria Ignatievna Zakrevskaja, una discendente della «Venere di bronzo» di Pushkin, non fu soltanto una delle donne più affascinanti d’Europa tra la prima e la seconda guerra mondiale, amante, convivente e musa per numerosi anni di due dei più grandi romanzieri del loro tempo, il russo Maksim Gorkij e l’inglese H.G. Wells. Fu anche una delle più importanti spie della prima metà del secolo XX, per un trentennio al servizio, a turno, della Germania, dell’Inghilterra, della Russia e della Francia, Paesi tutti di cui padroneggiava la lingua, una vera Mata Hari, immortalata in un film, L’agente inglese, su Robert Bruce Lockhart, che ispirò poi a Ian Fleming il personaggio di James Bond. E fu una leader culturale e intellettuale della Londra alla fine dell’impero, scrittrice, traduttrice e direttrice di France Libre, alla cui morte - a Firenze nel 1974 - il Times pubblicò un emotivo necrologio. Di Moura, l’amica Nina Berberova, compagna di Vladislav Khodasevic, definito da Vladimir Nabokov «il massimo poeta russo della nostra era», scrisse
nell’88 una biografia che ora è stata tradotta in inglese in vista del settantesimo anniversario della morte di Gorkij nel ’36 e del sessantesimo anniversario della morte di Wells nel ’46. Il libro, Moura. La vita pericolosa della baronessa Budberg (New York Review Books Classics, pp. 404, $ 24,95) ha il sapore di un romanzo, ma più che una storia di spionaggio è una storia della Russia di Stalin vista con gli occhi dei protagonisti.
Ambientato in gran parte in Italia, dove Gorkij, sebbene sorvegliato speciale di Mussolini, trascorse la maggioranza degli anni Venti e i primi anni Trenta, per ritornare poi a Mosca, getta nuova luce sulle sanguinose purghe del dittatore sovietico. E ne denuncia i compagni di viaggio della sinistra europea, i maestri del pensiero francese innanzitutto, che per motivi inspiegabili ignorarono i suoi crimini.
La Berberova, che in esilio mantenne i contatti con la nomenklatura del Cremlino, racconta che fu Moura a indurre Gorkij, di cui era praticamente la moglie morganatica, a lasciare Sorrento e a rimpatriare: in Europa il romanziere, intimo di Lenin ma critico di Stalin, non aveva più seguito né mezzi di sussistenza, e il regime sovietico, che aveva bisogno di lui per ricostruire la propria immagine, gli garantiva onori e ricchezze. La baronessa Budberg - così chiamata dal secondo marito, da lei abbandonato - si era già legata a Wells e trasferita a Londra, ma al distacco nel 1933 Gorkij le affidò egualmente l’epistolario privato, che conteneva lettere e documenti compromettenti non solo su esiliati russi, bensì anche su dirigenti del Pcus. Nel giugno del 1936, ricattata da Stalin, in possesso di un fitto dossier sul suo passato, e forse anche per non venire assassinata, Moura gli consegnò l’epistolario. Il dittatore se ne servì per i processi successivi.
Secondo la Berberova, quel mese stesso Stalin, che aveva messo Gorkij agli arresti domiciliari, pensando che tramasse contro di lui, fece uccidere lo scrittore, ormai gravemente infermo, per procedere liberamente alle purghe. E a uno dei processi, ne costrinse il segretario Piotr Krjuchkov ad addossarsi l’omicidio, «compiuto per conto della banda di Trotzkij». La Berberova sostiene che alcuni intellettuali sovietici, dal romanziere Ilija Ehrenburg all’attrice Lily Brik, ebbero sentore del piano di Stalin e convinsero André Gide e Louis Aragon, i due luminari francesi, a ritardare una progettata visita a Gorkij per evitare che ci andassero di mezzo. La scrittrice accusa i mostri sacri di Parigi di complicità con Stalin. Tra le ragioni: il dittatore ne aveva infiltrato il mondo con seducenti spie sovietiche, diventate poi le loro mogli o amanti, condizionandone in parte la posizione politica, come nel caso di Aragon, di Romain Rolland, Paul Eluard e Fernand Léger.
Su Moura, le epurazioni della fine degli anni Trenta nell’Urss ebbero un effetto devastante: la baronessa negò per tutta la vita di avere tradito Gorkij, concluse la sua carriera di spia lavorando per l’intelligence inglese nella seconda guerra mondiale, e si dedicò alla difesa di Wells, giunto a sua volta al tramonto. Portò i suoi segreti nella tomba. Nemmeno Lockhart, «l’agente inglese», il suo primo grande amore, con cui aveva operato in Russia durante la rivoluzione bolscevica, seppe ricostruirne le imprese. Solo Jakov Peters, il numero due della polizia politica sovietica, presidente dei tribunali rivoluzionari, infine capo della guardia del Cremlino, conosceva la verità su Moura: disse di averla reclutata nella prima guerra mondiale strappandola ai tedeschi, e di averle fatto fare il doppio gioco con Lockhart. Ma Peters, un altro suo ex amante, venne fucilato nel 1938, e alla riabilitazione nel ’56 nulla emerse sui trascorsi della baronessa.
Nell’avvincente affresco degli intrighi moscoviti e dell’alta società europea, la figura della Mata Hari russa resta avvolta nel mistero. Nina Berberova scrive che «appartenne a una generazione che fu per tre quarti distrutta dalla rivoluzione bolscevica, dalle due guerre mondiali e dal terrore staliniano», e sopravvisse e prosperò grazie a un’infinita capacità di adattamento: «Seppe staccarsi dal suo vecchio mondo e battersi in quello nuovo, a lei estraneo, giorno dopo giorno, raggiungendone i vertici e restandovi». Le sue armi furono la bellezza e la seduzione, l’intelligenza e l’astuzia. Tra l’aristocrazia russa, e quelle delle altre sei o sette monarchie europee che crollarono in quegli anni, rappresentò un’eccezione. Ma i rischi e i compromessi finirono per minarne la salute. Morì a 83 anni, obesa, semialcolizzata, semiparalizzata dall’artrite, sola. Alle sue esequie assistettero solo una cinquantina di persone e i due figli, di cui non aveva mai parlato.


Corriere della Sera 1.11.05
Una discussione lunga oltre un secolo
«I creazionisti sbagliano e la prova è nell'occhio
Il genetista Steve Jones al Festival della scienza

Gli americani sembrano amare l'ignoranza. Secondo un recente sondaggio, più della metà ritiene che «Dio abbia creato l'uomo in una forma simile a quella attuale in qualche momento nel corso degli ultimi diecimila anni». Una percentuale molto superiore è favorevole all'insegnamento del creazionismo nelle scuole. I tribunali hanno ribadito che il creazionismo si fonda su credenze religiose e non può essere insegnato nelle scuole. Ora i creazionisti hanno trovato un nuovo stratagemma. La teoria del «Progetto intelligente» da loro avanzata sostiene che la vita è talmente complessa da implicare necessariamente l'intervento di un architetto (la cui identità non viene mai specificata). Si consenta perciò l'insegnamento di Darwin, ma si presenti anche l'idea del Progetto intelligente, che rappresenta un'ipotesi scientifica esattamente al pari della teoria dell'evoluzione.
Naturalmente, non esiste nessun dibattito. Darwin conosceva bene la teoria secondo la quale l'esistenza è talmente complessa, e talmente perfetta, da implicare l'intervento di un architetto. La conosceva e l'ha demolita. Le sue argomentazioni sono semplici e convincenti, e lo diventano sempre di più a mano a mano che le approfondiamo.
Ha usato un esempio basato sull'esperienza comune: l'occhio, che rimane tuttora la perfetta confutazione della teoria del progetto. Gli occhi sono strutture complesse e noi non siamo in grado di comprenderne tutti gli aspetti, ma le prove che si siano evoluti senza bisogno di un architetto sono schiaccianti. La loro apparente perfezione non confuta affatto, ma anzi avvalora la teoria dell'evoluzione, perché ogni occhio possiede dei punti deboli.
I nostri hanno cento milioni di bastoncelli, che utilizziamo quando la luce è debole, e tre milioni di coni, responsabili della visione dei colori.
Ognuno contiene migliaia di proteine che trasformano la luce in segnali tramite una molecola che attraversa la membrana a zig-zag per sette volte. Tre pigmenti sensibili ai colori rilevano gli elementi del rosso, del verde e del blu. Il nostro occhio è imperfetto ma noi siamo abituati alle sue manchevolezze. Il mondo è pieno di fiori bianchi, ma solo per noi. Per le api, che possono vedere gli ultravioletti, le piante sono piene di dettagli. I sensori correggono le iridescenze colorate che circondano le immagini passate attraverso l'obiettivo: il nostro occhio elude il problema con la carenza di recettori per la luce blu al centro del suo campo. La selezione naturale ha migliorato la vista degli insetti ma solo nei limiti del possibile.
Nell'evoluzione, la complessità non è necessaria. I creazionisti tendono a moltiplicare gli esempi di ciò che a loro appare frutto di un progetto; ma ogni prova è contro di loro. La melodia dell'occhio contiene molte note stonate, che la fanno sembrare non tanto l'opera di un grande compositore, quanto quella di un esecutore insensibile: uno strumento costruito da un operaio maldestro anziché da un esperto ingegnere. Se ci fosse un Architetto (e questa domanda esula dal campo della scienza), l'evoluzione proverebbe una sola cosa: che lui (o Lui?) non sia molto in gamba nel suo lavoro.


Corriere della Sera 1.11.05
In Italia: «Noi non discutiamo Siamo spiritualisti»
di Edoardo Boncinelli

Negli Stati Uniti si stanno fronteggiando due forze che sostengono una differente origine della diversità degli esseri viventi. Da una parte, i biologi che danno per scontato che la proposta neodarwinista sia sufficiente a spiegare il fenomeno. Dall'altra, gruppi di pressione che sostengono che la spiegazione non è sufficiente. Fino a qui non ci sarebbe alcun problema. Nessuna teoria scientifica è perfetta e spiega tutto. Altrimenti non sarebbe una teoria scientifica, sarebbe un dogma. Il problema nasce quando il gruppo di scettici sulla teoria neodarwiniana propone la sua spiegazione alternativa: il racconto dell'origine del mondo secondo le Sacre Scritture o, in una versione più recente, la presenza di un progetto volontario e diciamo così intelligente dietro il processo che ha portato alla differenziazione delle diverse specie viventi e infine all'uomo. E' un dibattito acceso che sembra non riguardare il nostro paese. Qua in effetti anche la Chiesa ha ammesso la scientificità del neodarwinismo, con la sola aggiunta, fondamentale peraltro, che la nascita dell'uomo ha implicato «un salto ontologico» perché l'uomo non è solo corpo. Tutto a posto quindi? Solo apparentemente; perché l'italiano medio, anche di cultura, ignora i principi del neodarwinismo o li conosce in una versione sbagliata. L'italiano medio è fondamentalmente uno spiritualista - quello che avviene al livello della materia è irrilevante rispetto a quello che avviene al livello dello spirito, qualunque cosa questo sia, fuorché materia - e un lamarckista - una certa parte di quello che un individuo ha acquisito durante al sua vita si trasmette automaticamente ai discendenti. Non so chi sta peggio…..

aprileonline.info 1.11.05
La nuova carta d'identità di Sinistra europea
Congressi. Ad Atene, confermato presidente Fausto Bertinotti. Socialismo e anticapitalismo, un binomio non sempre coincidente che sfida il riformismo
Gennaro Migliore *

La Sinistra europea (Se) chiude il suo primo congresso ad Atene, dopo quello fondativo del 2004 a Roma, intonando l’Internazionale. Non sono pochi coloro i quali si commuovono, anche perché in diversi paesi cantare questa canzone e dirsi comunisti è reato penale, ma gli occhi di tutti sono rivolti a quella cartina del vecchio continente che si colora di una nuova speranza di cambiamento per l’Europa.
Fausto Bertinotti, appena riconfermato presidente della Se, concludendo il suo intervento richiama lo slogan “Si, possiamo cambiare l’Europa!”. Cambiarla con i movimenti e, come è scritto nel documento finale, in una prospettiva “pacifista, socialista, ecologica, femminista e democratica radicale”. Un soggetto, insomma, che si propone un lavoro su due assi principali: quello di continuare a costruire una sinergia con i movimenti sociali (da qui, ad esempio, la scelta di Atene, che sarà la sede del prossimo Forum sociale europeo) e aprire la sfida al monopolio continentale della socialdemocrazia sulla sinistra.
Per questo abbiamo voluto rafforzare la “prospettiva socialista” che, come ha spiegato Bertinotti nelle conclusioni, non è “un sistema politico che può riferirsi a un solo paese, ma una dimensione politica di cambiamento radicale della società contemporanea, su scala internazionale”. Insomma, una definizione presa da Marx contro le ortodossie marxiste-leniniste e i travisamenti nominalistici (come i partiti socialisti in Francia in Italia, che di socialista non hanno davvero nulla).
Il socialismo, quindi, come potenza rigenerante del conflitto, non come dottrina. Per altro, nel corso di questi anni, segnati dalla sconfitta storica del movimento operaio e dal fallimento dei regimi oppressivi dell’Est, abbiamo imparato che non possiamo camminare con gli occhi rivolti al passato. Ce lo hanno insegnato gli zapatisti, con il loro camminare domandando, i movimenti sociali, poiché “un altro mondo è possibile”, i "no" al Trattato costituzionale dei popoli europei, la nascita di una nuova generazione anticapitalista.
Eppure, qui sta la sfida più radicale al riformismo: oggi non serve essere, come noi siamo, socialisti e comunisti per essere anticapitalisti. Come ha detto Bertinotti, concludendo una manifestazione in onore di Mikis Theodorakis, che pure ha aderito alla Sinistra europea insieme a Oskar Lafontaine e Pietro Ingrao, per essere contro il capitalismo odierno, che chiamiamo globalizzazione neoliberista, “basta essere uomini liberi”.

* responsabile esteri di Rifondazione comunista

il manifesto 1.11.05
Le neurotecnologie tra usi e abusi
Questioni controverse e di stretta attualità quelle dibattute da Steven Rose nel suo libro "Il cervello del ventunesimo secolo". Spiegare, curare e manipolare la mente, uscito dalle edizioni Codice
Francesco Ferretti

«Mr Marks... la dichiaro in arresto per l'assassinio di Sara Marks e Donald Dubin che avrà luogo oggi 22 aprile alle ore 8 e 4 minuti». A parlare è John Anderton capo della divisione precrimine del distretto di Columbia. Avvalendosi della consulenza dei «pre-cog» (due gemelli e una ragazza dotati di straordinarie capacità predittive), la squadra comandata da Anderton è specializzata nella cattura dei criminali prima che essi possano essere colti sul fatto. Con Minority report Spielberg dà corpo alla fantasia visionaria di Philip Dick dal cui racconto è tratto il film. È fantascienza, si dirà. No, non è solo fantascienza. Negli Stati Uniti, la neurotecnologia è entrata nelle aule di tribunale. La Brain Fingerprinting, ad esempio, ha brevettato l'uso dell'elettroencefalogramma a scopi giuridici. Così come una volta si credeva che l'immagine di un assassino rimanesse impressa sulla retina della vittima, oggi si pensa che se un individuo viene posto dinanzi a qualcosa che ha un significato particolare per lui (ad esempio, l'arma del delitto per un presunto assassino) il pattern dell'elettroencefalogramma cambia in maniera caratteristica. L'uso di questa tecnica ha avuto un ruolo fondamentale nella revisione di una condanna per omicidio in un tribunale dell'Iowa nel 2001. Possiamo salutare simili impieghi delle neurotecnologie come passi avanti in favore della giustizia e della libertà degli individui? A questa domanda risponde Steven Rose nel suo Il cervello del ventunesimo secolo. Spiegare, curare e manipolare la mente (Codice, 2005, 29 euro). Il tema del libro sta nell'idea che gli scenari ottimistici prospettati dalle neurotecnologie (la cura del morbo di Parkinson, ad esempio) nascondano in realtà alcune minacce. Secondo Rose le nuove tecnologie aprono la via «alla manipolazione della mente, alla limitazione dei nostri concetti di agentività e responsabilità umana». Due tesi strettamente correlate sono alla base della sua diffidenza: l'idea che lo studio delle connessioni tra cervello e comportamento possa essere impiegata (utilizzando dati genetici, neurochimici o di neuroimaging) per prevedere i comportamenti futuri; l'idea che, agendo sul meccanismo fisico che ne è alla base, sia possibile modificare o indirizzare un determinato comportamento.

Alcuni scienziati sostengono, in effetti, che il comportamento degenerato o patologico possa essere controllato e manipolato con notevole anticipo: non solo prima che avvenga, ma addirittura prima della nascita dell'individuo. Non pochi genetisti lavorano oggi in questa direzione. Nel 1993 Han Brunner, studiando i maschi molto violenti di una famiglia olandese, ha sostenuto che la causa di tali comportamenti fosse la mutazione di un gene (Maoa) coinvolto nella neurotrasmissione della dopamina e della serotonina. Tanto è bastato perché il Maoa diventasse il «gene della violenza» e perché l'ipotesi di un riequilibrio del comportamento alterato fosse pensabile in riferimento all'ingegneria genetica. Alla base di tale ipotesi c'è il biodeterminismo, ossia l'idea che i geni causino in modo rigido le sequenze comportamentali degli individui. Si tratta di un copione già visto: a cavallo tra il XIX e il XX secolo l'eugenetica proponeva un rigido controllo delle nascite per evitare discendenze moralmente o intellettualmente degenerate.

La manipolazione del comportamento attraverso la modificazione delle sue cause fisiche non riguarda soltanto la genetica preventiva. La psicochirurgia della schizofrenia mette in luce un altro nesso causale: quello tra cervello e comportamento. Il caso dell'amigdala - una ghiandola situata nel retrobocca - è emblematico: la scoperta che la sua rimozione nei roditori ne diminuiva l'aggressività aprì la strada a operazioni di amigdalectomia negli umani. Nel cercare di far fronte alla violenza dilagante negli anni `60 nelle città americane, Vernon Mark e Frank Ervin, due neurochirurghi, ipotizzarono che i responsabili dei disordini fossero individui le cui amigdale fossero danneggiate e che una soluzione possibile al problema fosse quella di sottoporre i «capibanda dei ghetti» ad amigdalectomia. Il punto di forza del libro di Rose riguarda l'analisi dei pericoli ai quali le neurotecnologie ci espongono facendo uso delle conoscenze prodotte dalla neuroscienza. Per questo il suo invito a mantenere alta l'attenzione deve essere preso terribilmente sul serio. Qui gli scienziati hanno un ruolo attivo da giocare: gli esperti del campo hanno il compito di delineare nel modo più chiaro possibile i legami tra i vari livelli di analisi. Paradossalmente, però, proprio su questo punto sorgono alcune difficoltà. Ciò che non convince nel discorso di Rose riguarda gli «effetti di ritorno» delle neurotecnologie sulla neuroscienza. Gli argomenti portati a conforto della sua tesi assumono spesso questa forma: «la tale teoria non può essere vera perché se lo fosse le conseguenza sul piano sociale, etico e politico sarebbero devastanti». Una considerazione di questo genere confonde i piani dell'analisi e rischia di falsare l'indagine teorica. Rose ha ragione nel dire che «la ricerca della verità sul mondo naturale non può essere separata dal contesto sociale in cui viene condotta». Dire che tale ricerca avviene sempre in un contesto determinato, tuttavia, non equivale a sostenere che la verità di una teoria dipende dal contesto in cui viene condotta: che le neurotecnologie possano avere effetti negativi sulla libertà umana di per sé non dice nulla sulla natura delle relazioni tra mente e cervello o tra cervello e comportamento - che l'amigdala sia o meno connessa all'aggressività, ad esempio, è di per sé indipendente dal fatto che si pensi di far fronte alle difficoltà delle periferie urbane ricorrendo all'amigdalectomia. Ci sono ottime ragioni per combattere il ricorso a una pratica (bestiale) di questo tipo indipendentemente dal fatto che l'ipotesi della connessione tra aggressività e amigdala sia vera o meno.

La tesi di Rose su questo punto ha ricadute su alcuni aspetti centrali della sua ricerca. La più importante è quella che tocca i rapporti tra filosofia e scienze empiriche. Secondo Steven Rose gli scienziati non dovrebbero mettere il naso in alcune questioni filosofiche: a proposito della coscienza, ad esempio, egli sostiene che i neuroscienziati «ubriachi dello straordinario potere di queste nuove tecniche» hanno indebitamente preso ad affrontare temi sui quali «non hanno nulla di molto utile da dire». Ma una posizione di questo tipo è poco convincente. Intanto perché ci sono ottimi studi sulla relazione tra cervello e coscienza che non possono essere liquidati facendo riferimento allo stato di ebbrezza degli scienziati. In secondo luogo perché non è chiaro quale dovrebbe essere l'alternativa. Perché mai lo studio del cervello non dovrebbe avere ricadute sullo studio della coscienza?

La tesi di Rose funziona solo a patto di attribuire alla filosofia uno statuto di autonomia che essa non può avere quando indaga fatti come la mente o il linguaggio; inoltre, si presta ad alimentare atteggiamenti dualistici e antievoluzionistici. Con i tempi che corrono, ci manca soltanto che a nutrire una simile prospettiva sia un neuroscienziato del calibro di Steven Rose.


Liberazione 1.11.05
La nuova alleanza Sdi-radicali e il loro peculiare ruolo
Bravo Boselli
Rina Gagliardi

Quando, dal palco del congresso radicale di Riccione, ha enunciato i tre obiettivi qualificanti del suo programma - «primo, scuola pubblica; secondo, scuola pubblica; terzo, scuola pubblica» - Enrico Boselli ha clamorosamente contraddetto l'immagine di leader "minore", se non l'etichetta di vero e proprio "cespuglio" dell'Unione, sempre e solo occupato a rivendicare spazi e posti, che si è teso ad appiccicargli addosso. Con i toni pacati, razionali, poco retorici che gli sono abituali, il segretario dello Sdi ha dimostrato, al contrario, di aver avviato un tragitto politico serio, in fondo al quale il nuovo soggetto che s'intravede - la nuova formazione radical-liberal-socialista - si candida a svolgere una funzione peculiare. Un polo laico, denso di umori libertari e "zapateriani", fortemente incentrato sui diritti civili e sul recupero pieno della "modernità". Non un nuovo partito della sinistra novecentesca, socialista o socialdemocratico, ma una forza, allo stesso tempo moderata e "radicale", che aspira a superare, in una nuova sintesi, le sue diverse culture originarie. Con ciò, ci pare, il quesito se i socialisti dello Sdi si siano "pannellizzati", o se Pannella sia stato cooptato dallo Sdi, non è di quelli ben posti. L'operazione che è stata varata a Riccione non è né una tradizionale "fusione" né uno dei tanti frutti in-autentici del politicismo: poiché ha una sua verità, ha anche alcune chances di successo.


La laicità, dicevamo, ne è il tema-chiave. Tema peculiare dei radicali italiani, ma non certo estraneo alla tradizione socialista (anche se, a dire il vero, sono stati due uomini di derivazione socialista, a distanza di qualche decennio l'uno dall'altro, a siglare il Concordato con la Chieda cattolica). Tema al quale oggi l'offensiva neotemporale del cardinal Ruini e di papa Ratzinger restituisce un sapore attuale - e anche il valore di una battaglia necessaria. Dal nostro punto di vista, nella nuova forza in costruzione è in agguato il rischio di un eccesso di "laicismo", così come il ritorno ad un anticlericalismo vecchia maniera - quello che divide tout court il mondo in credenti e non credenti, sottovaluta il mondo cattolico e tende a replicare all'oscurantismo della Cei con un discutibile relativismo etico. Ma che dire delle reazioni che, all'interno dell'Unione, nella Margherita e da parte dello stesso Prodi, hanno accompagnato la ragionevole proposta di superare il Concordato? Un muro bigotto, uno scandalo del tutto fuori luogo, un arroccamento culturalmente e politicamente poco motivabile: come se non vivessimo in un Paese che, in grazia del Concordato, finanzia molto generosamente una parte massiccia delle attività della Chiesa cattolica - sempre a spese dei contribuenti, o di vere e proprie estorsioni, come l'8 per mille. Ma c'è di più. Molti, troppi esponenti del centrosinistra, Ds compresi, continuano ad alimentare un equivoco tutt'altro che innocente: quello per cui il rapporto con i cattolici - con il popolo della fede e del Concilio Vaticano II - passi, e anzi coincida in toto, con l'"entente cordiale" tra Stato e alte gerarchie ecclesiastiche. L'equazione mondo cattolico-Potere della Chiesa è invece indebita, sia dal punto di vista, diciamo così, spirituale, sia da quello politico - come ci testimoniano le decine e decine di sacerdoti impegnati in attività sociali, sempre scomodi e poco graditi ai loro superiori, e come ci fanno capire esperienze preziose come quelle delle Comunità cristiane di base. In questo senso, la sortita Boselli-Pannella mette in discussione un tabu: che non è la religione, ma la pratica di potere - l'intreccio assai terrestri di poteri, complicità, privilegi - su cui si regge la "costituzione materiale" concordataria. Questo disvelamento diventa semplice e chiaro quando precipita sulla sfera pubblica: ed ecco l'esempio della scuola, dove si assumono soltanto sacerdoti e si lasciano "morire" nella precarietà tanti docenti precari. Ecco dove la "Rosa" radicalsocialista recupera fino in fondo la sua funzione progressiva, lasciandosi alle spalle almeno un pezzo dell'ideologia liberal-liberista a cui, pure, è legata.

Anche in questa opzione - che prende tutte le distanze dalla torsione neocons tanto diffusa tra gli intellettuali "liberali" - Boselli e Pannella hanno dato prova di originalità. Il loro impianto d'insieme resta, s'intende, moderato, occidentalista, atlantico: su discriminanti essenziali, come la politica economica e la politica internazionale, il nuovo soggetto che nascerà sarà agli antipodi di un'identità di sinistra. Sarà, presumibilmente, liberista, "americano", non pacifista, e ben più amico di Sharon che non degli arabi moderati - in sintonia, in fondo, con parti rilevanti dei Dl, delle componenti "riformiste" dei Ds, con la stessa Udeur di Mastella (che pure continua a tuonare "o me o loro"). Ma sarà anche, appunto, una variante originale dello schieramento occidentalista, capace - forse - di privilegiare il suo lato "liberale" e "libertario" su quello liberista. Capace di mettere al centro una battaglia di valori laici e umanistici, forse perfino un'identità forte, adeguata a contrastare il neo-oscurantismo che ci minaccia - a cominciare dalla pretesa della Chiesa di imporre allo Stato italiano le sue leggi, nel nome di un "diritto naturale" affatto premoderno. Capace, alla fin fine, di rafforzare il centrosinistra, e la sua credibilità come agente di cambiamento, quantomeno su alcune cruciali prerogative civili. Se poi, come dice Rosy Bindi, la strategia dell'Unione deve al suo fondo ispirarsi alla realizzazione di un "meticciato" anche culturale, che superi ogni tentazione assolutista e fondamentalista e vada oltre tutti i vecchi steccati, un'identità così accentuatamente laica si rivela ancor più utile. Non era, non è, proprio questa, che latita e rischia di affondare, anche nel futuro Partito democratico?

Liberazione 1.11.05
La Sinistra europea riparte da Atene per cambiar il vecchio continente
Fausto Bertinotti rieletto presidente chiude ad Atene il congresso del partito sovranazionale, citando lo slogan zapatista
Quella sinistra europea
che «cammina interrogandosi»
Stefano Bocconetti

La dichiarazione di Atene, forse il documento più radicale votato da un organismo internazionale. Almeno a memoria di cronista. Impensabile appena due anni fa. E poi le deleghe rosse che si alzano a riempire la sala del Palazzo dell'Amicizia, a due passi dal Pireo, la conta degli astenuti su quella dichiarazione - tre -, il voto per confermare Bertinotti presidente - più acclamazione che voto -, la commozione. E le prime note dell'Internazionale. Coi leader dei partiti che prima abbozzano un pugno chiuso sul palco, poi stringono le mani dei loro colleghi e le alzano tutte insieme. Tanta commozione, - perché no? - anche un po' di retorica, una miriade di flash. Eppure, c'è chi dice che la vera conclusione del primo congresso della Sinistra europea, domenica ad Atene, sia stata un'altra. Parlano di un piccolo atto, apparentemente burocratico. Una lettera, che comincia con «dear comrades». E' la richiesta di adesione alla Sinistra europea di «Respect». L'organizzazione inglese (il nome è in realtà una sigla, l'acronimo di una lunga serie di parole: Respect Equality Socialism Peace Environment Community Trade Unionism) che è riuscita ad eleggere un deputato, George Galloway ex laburista, ma che soprattutto è uno dei più innovativi esperimenti di questi ultimi anni a sinistra. Costruito durante e per il movimento per la pace, costruito legando pezzi di vecchi partiti con associazioni, organizzazioni, movimenti. Soprattutto di migranti.

C'è chi dice che la due giorni ateniese, può essere riassunta proprio da questa richiesta di adesione. Richiesta - va detto anche questo - il cui iter non sarà comunque facile, visto che le delegazioni di alcuni partiti non hanno applaudito all'annuncio. Ma il segnale è stato questo. Perché la Sinistra europea esce diversa da come era arrivata ad Atene. Diversa nei numeri, c'erano sedici partiti ora ce n'è già uno in più (nei giorni scorsi è arrivata anche un'altra formazione belga), in attesa che entrino gli inglesi - finora non rappresentati - di «Respect». Ma diversa soprattutto nella filosofia. Ed eccoci alla discussione che pure, stando ai giornali, ai maggiori giornali italiani, avrebbero segnato il congresso. Ci si riferisce all'introduzione, nei documenti, del richiamo al socialismo. Nell'atto di fondazione, due anni fa a Roma, del partito europeo non c'era alcun richiamo forte alle ideologie del secolo scorso. Proprio per aprire le porte a tutte le formazioni antiliberiste del vecchio continente. Di più: c'era, nel documento iniziale, una condanna dura, senza appelli, dei totalitarismi degenerati dell'Est. Giudizi tanto duri da rendere impossibile l'adesione di alcune forze, come il più forte dei partiti della sinistra ceca. Critico sulle vecchie esperienze, certo, ma non disposto a giudizi tanto netti. Adesione che ancora non c'è. Perché a margine del congresso, Bertinotti ha di nuovo incontrato una delegazione del partito in questione (e si sta parlando di una formazione che ha conquistato il 23% di voti, destinata ad entrare nel prossimo governo nazionale). Riunione che s'è conclusa lasciando tutto com'è.

«Ecco perché stavolta ha un senso aver introdotto la parola socialismo - dirà Fausto Bertinotti commentando coi giornalisti italiani il congresso. - Perché è davvero chiarissimo che per noi ques'espressione non significa più un obiettivo da conquistare, un modello da imitare. Vuol dire un'aspirazione, vuol dire una visione del mondo, vuol dire la possibilità di guardare oltre il capitalismo».

Questo è il significato di quella parola oggi. E' questo che permette a «Respect» di chiedere l'adesione. E' questo che ha permesso al Presidente del raggruppamento europeo, durante una manifestazione con Oskar Lafontaine, sempre qui ad Atene, di dire: «Per schierarsi contro il neoliberismo non occorre essere né comunisti, né socialisti, né ecologisti. Basta essere uomini liberi».

Questo è il punto di aprrodo del congresso. «A cui ci si è arrivati dopo una dura battaglia - continua il segretario in questo colloquio informale - contro l'ortodossia». Di chi, anche in questo congresso beninteso, privilegia la superiorità dei partiti rispetto ai movimenti, di chi comunque li vede come due sfere autonome, con contaminabili. La risposta? Bertinotti la suggerisce in uno slogan. Lo slogan zapatista: «Camminare interrogandosi».

Camminare, riprendere a camminare. Subito, ora. Come suggerisce la dichiarazione di Atene. Letta all'assemblea da Gennaro Migliore, che ha coordinato il lavoro della commissione che l'ha scritta. «Camminare» contro la Bolkestein, contro l'esclusione sociale, per superare la divisione sessuata del lavoro. Per imporre un ruolo di pace al vecchio continente, per impedire la privatizzazione dei beni comuni. Per mettere sotto controllo democratico la Banca Centrale. Per imporre che la tragedia di Schiphol e la vergogna di Lampedusa possano ripetersi. Questo dice il documento votato. Voto a cui comunque non hanno preso alcune delle minoranze italiane di Rifondazione, quella di Progetto Comunista e quella dell'Ernesto. Perché? Bruno Steri, delegato della mozione Essere comunisti, spiega che anche queste assisi hanno confermato le critiche raccolte nel documento alternativo presentato in Italia. In pillole: «Una parte rilevante delle forze che si collocano a sinistra delle socialdemocrazie non sono "dentro" la Sinistra europea. Noi pensiamo sia necessaria un'operazione che includa tutte le forze e non solo una parte». E ancora: «Anche questo dibattito politico-identitario ci rivela il progetto di una forza che assomiglia più ad una sinistra socialdemocratica cha ad una sinistra comunista e anticapitalista». Loro non hanno votato i documenti, mentre un'altra parte di Rifondazione, Sinistra critica, si è astenuta. Tutti comunque hanno votato Bertinotti presidente.

Bastano questi dati per capire che in ogni caso la discussione di Atene andrà avanti. Anche perché Bertinotti dice di più. Dice che l'approccio del congresso è sicuramente una tappa di quel processo di rifondazione del pensiero critico, avviato ormai quindici anni fa. Una tappa importante. Che avrà conseguenze anche nel nostro paese. «Sì - aggiunge - mi piacerebbe molto pensare ad una sezione italiana della Sinistra europea. Uno dei contenitori possibili, se non il contenitore, della sinistra d'alternativa. Quella che vogliamo promuovere assieme e parallelamente alla battaglia per cacciare il governo delle destre».

La sinistra d'alternativa in Italia, allora. Che non può definirsi per sommatoria di sigle già esistenti, ma nasce con un metodo tutto da inventare. Con una discussione che sarà un po' dentro un po' fuori i partiti, che coinvolgerà forze organizzate e singoli. Un po' come dovrà avvenire in Europa. Perché nelle conclusioni, Bertinotti forza la discussione che c'è stata al congresso. Supera un po' le reticenze e le perplessità che si erano manifestate sulla proposta (quasi solo italiana) di abbandonare la vecchia formula organizzativa per cui la Sinistra europea è solo la conta degli iscritti ai vari partiti nazionali. Senza la possibilità di adesioni individuali. E il presidente prova a definire un partito sovranazionale aperto, ancora più aperto dell'attuale. Dove possa aderire anche solo chi accetta la dichiarazione di Atene. E così, è facile prevedere, il prossimo congresso consegnerà una Sinistra europea ancora «più diversa» di quella di oggi.