sabato 6 settembre 2008

l’Unità 6.9.08
Misure anti-rom. La Ue non ha assolto Berlusconi
Non c’è nessun documento della Commissione europea
Dietro il polverone l’operazione «salvate il soldato Maroni»
di Paolo Soldini


NON ESISTE una «presa di posizione della Commissione Ue» sulle misure anti-rom del governo italiano. Esiste solo una lettera che il commissario alla Giustizia Jacques Barrot ha scritto al ministro Maroni. Sono i contenuti di questa missiva sconosciuta quelli che sono stati anticipati giovedì da Michele Cercone, portavoce dello stesso Barrot, accendendo il tripudio del centrodestra e i titoloni dei giornali. Ma una lettera, della quale neppure lo stesso ministro ha mostrato di essere a conoscenza, non è un giudizio politico dell’esecutivo brussellese: è l’iniziativa di un singolo commissario, sia pure importante e attualmente in carica come uno dei 5 vicepresidenti della stessa Commissione. Per il resto la partita tra Roma e Bruxelles è ancora tutta da giocare. Mentre dagli uffici dell’altro commissario interessato alla questione, il responsabile degli Affari sociali Vladimir Špidla, fanno sapere che per quanto li riguarda non c’è alcuna novità (il che è un modo elegante per prendere le distanze da Barrot), proprio ieri si è saputo che la commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni dell’europarlamento ha chiesto a Barrot di riferire martedì prossimo sulla vicenda e sul senso del suo giudizio, che contrasta in modo del tutto evidente con la risoluzione che l’assemblea aveva approvato a larga maggioranza (e con i voti di non pochi esponenti del Ppe) il 10 luglio scorso. Fino a martedì, dunque, non esiste nulla di ufficiale né della Commissione né del suo vicepresidente. Anche perché, a quanto pare, Barrot si sarebbe rifiutato di anticipare ai deputati la sostanza della sua «comunicazione» come molti di loro avevano chiesto per poter, almeno, cominciare a farsene un’idea. Intanto, il presidente della commissione parlamentare, il deputato liberale belga Gérard Duprez, ha organizzato, dal 18 al 20 settembre, una visita a Roma, nell’ambito della quale ha chiesto un colloquio ufficiale con il ministro Maroni e con i presidenti di Camera e Senato e ha previsto una ricognizione nei campi rom e una serie di incontri con le comunità che vi vivono. Conoscendo Duprez, un uomo molto attento al rispetto dei diritti civili, la tournée italiana si annuncia pepata.
Insomma, la «soddisfazione» del capo del Viminale, dei suoi colleghi e del suo capo per l’«assoluzione» di Bruxelles rischia di essere quanto meno prematura. Anche perché l’operazione «Salvate il soldato Maroni», che ha avuto per teatro nei giorni scorsi Roma, Bruxelles e con ogni probabilità Parigi ed è, a quanto pare, ancora in corso, rischia infatti di essere compromessa da una delle solite gaffe in cui il ministro è solito tuffarsi con gioiosa inconsapevolezza. Giovedì, nella sua dichiarazione sul placet del vicepresidente della Commissione, Cercone aveva testualmente affermato che «la collaborazione con il governo italiano ha permesso di correggere ogni disposizione o misura che poteva essere contestabile ("corriger toute disposition ou mesure qui pouvait être contestable"). Detto in buon italiano questo significa che alla Commissione di Bruxelles è arrivato dal governo italiano un testo, che questo testo è stato giudicato insufficiente in materia di salvaguardia dei diritti civili, che quindi è stato rimandato indietro e che da Roma ne è arrivato uno nuovo «non discriminatorio». Maroni, invece, ha sostenuto, in almeno due diverse occasioni, che il 1° agosto ha inviato sic et simpliciter il testo dell’ordinanza (quella contestatissima) e che è quindi l’ordinanza in quanto tale ad aver ricevuto la benedizione di Bruxelles. Evidente il perché della bugia: il ministro leghista non vuole fare la figura di chi si rimangia le sue sparate, dopo aver cavalcato con tanto gusto la demagogia del duro zerotollerante.
Sollecitato a spiegare l’aporia, il portavoce di Barrot ha dovuto ammettere che sì, in effetti, il governo italiano il 1° agosto, alla terza (leggasi: terza) richiesta di «spiegazioni» inviata dalla Commissione, ha inviato il «testo legislativo» dell’ordinanza accompagnato, però, da una relazione interpretativa sulla sua applicazione e dalle linee-guida. È su queste che Maroni ha «addolcito» talmente le proprie posizioni da non poterlo ammettere oggi, tant’è che ha imposto un segreto assoluto (e altrimenti inspiegabile) al vero testo della sua comunicazione del 1° agosto. Esattamente quello che hanno sostenuto, ieri, molti esponenti della sinistra e questo giornale.
Resta da indagare come e da chi - il perché è ovvio - è stata messa in moto l’operazione «salvare Maroni». Jacques Barrot proviene dalle file del centrodestra francese, milita nell’Ump del presidente Sarkozy e ha avuto in tempi recenti una intensa frequentazione con il centrodestra italiano. È stato quando la «chiamata» a Roma di Franco Frattini lo ha portato ad assumere i suoi incarichi, commissario alla Giustizia e vicepresidente, lasciando ad Antonio Tajani il posto di commissario ai Trasporti, in un complicato negoziato che si è dipanato tra Roma, Bruxelles e Parigi e al quale non sono rimasti estranei due dossier fondamentali: l’Alitalia, che già occupava la mente di Berlusconi con la necessità di assicurarsi un parrinage nella Commissione, e l’inizio delle grandi manovre per la nomina dei successori di Barroso, dei 27 commissari e, ovviamente, dei vicepresidenti, il cui mandato scadrà a novembre dell’anno prossimo. Di una «calda raccomandazione» di Sarkozy a Barrot, perché non maltrattasse troppo il ministro di Roma, si era parlato a Bruxelles e a Parigi già il 7 luglio scorso, quando Maroni tornò trionfante da Cannes, dove lo aveva incontrato, sostenendo che tutto era stato «chiarito». Sarà stata la prima «raccomandazione»? E, soprattutto, l’ultima?

Corriere della Sera 6.9.08
Il governo vuol rendere l'interruzione di gravidanza libera fino al 4˚ mese
Spagna, cambia la legge sull'aborto. Protesta la Chiesa: «Scelta triste»
di Mario Porqueddu


Il prefetto per la Dottrina della Fede, cardinal Levada: «L'aborto non è solo una questione politica: tocca le radici dell'uomo»

MADRID — Nel 2006, centomila donne spagnole hanno abortito. I dati del ministero della Salute dicono che nel 96% dei casi l'interruzione di gravidanza è stata motivata da un medico con il «rischio per la salute psichica della madre». In Spagna non è previsto che una donna interrompa la gravidanza perché ha deciso di non mettere al mondo un figlio. Giovedì il governo di Madrid ha annunciato che alla fine del 2009, o al più tardi all'inizio del 2010, entrerà in vigore una nuova legge sull'aborto. Ieri la vicepremier Maria Teresa Fernandez de la Vega ha spiegato che «l'attuale normativa è superata dagli eventi e in parte può risultare ambigua ».
L'aborto in Spagna è entrato nel dibattito pubblico nel 1979, quando undici donne finirono davanti a un giudice a Bilbao per aver interrotto la gravidanza. Furono assolte, il tribunale decise che avevano agito in base a «una necessità sociale». Sei anni più tardi, nel 1985, fu approvata la legge che regola tuttora la materia e depenalizza l'aborto in tre casi: se la gravidanza è frutto di violenza sessuale (con un limite fissato entro 12 settimane), se si individuano «gravi tare fisiche o psichiche» nel nascituro (entro 22 settimane, previo parere di uno specialista) o se c'è un «grave pericolo per la vita o la salute psichica della madre » (senza limiti di tempo, ma dietro parere medico vincolante). Nei fatti, però, capita che il trattamento per chi affronta l'aborto cambi da regione a regione — con casi come quello della Navarra, dove non c'è neanche un medico disposto a praticarlo —, e che si possano giustificare con «rischi psichici» anche interruzioni di gravidanza tardive, fino al sesto o al settimo mese. Cosa che per qualcuno equivale a negare i diritti dei prematuri. La maggioranza degli interventi, infine, avviene in cliniche private.
Il governo socialista di Zapatero vuole cambiare. Il ministro dell'Uguaglianza Bibiana Aìdo ha detto che la nuova legge dovrà incorporare «il meglio del panorama internazionale in materia», e tutelare «diritti fondamentali e sicurezza delle donne e dei medici». L'idea, secondo le indiscrezioni riportate dai principali quotidiani, è di consentire alle donne di abortire senza bisogno di giustificazioni entro le prime 14 o 16 settimane. Mentre interrompere la gravidanza dopo la ventiduesima o ventiquattresima settimana diventerebbe più difficile, a meno di gravi evidenze mediche. È stato formato un comitato di esperti che affiancherà i membri del Parlamento chiamati a elaborare le norme. Ne fanno parte giuristi, ginecologi e tecnici di vari ministeri. «È una squadra di abortisti, vicina ai socialisti» scriveva ieri El Mundo, che ha dato voce alle perplessità del Partito Popolare, pronto a opporsi, e a quelle dei collettivi femministi, rimasti fuori dall'organismo tecnico. Protesta anche la Chiesa. «Sono intristito — ha detto il prefetto della Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, cardinale William Levada —. L'aborto non è questione meramente politica, ma anche religiosa, culturale, sociale, tocca le radici dell'essere umano». Il governo ha assicurato che la futura legge «sarà frutto del maggior consenso possibile e di un dibattito completo, ragionevole, senza dogmi o posizioni preconcette. Nel solco della Costituzione ».

Corriere della Sera 6.9.08
La responsabile dell'Istruzione: tanti stranieri, devono conoscere i nostri valori
«Ora di religione obbligatoria» Bufera sulla giunta del Veneto
Proposta di un assessore di An. Ma Galan frena
Contrario Vian, docente cattolico di Ca' Foscari: le tradizioni di riferimento sono anche islamiche
di Marisa Fumagalli


VENEZIA — Il laico, liberale e disincantato presidente del Veneto bacchetta la giovane assessora all'Istruzione: «Insegnamento obbligatorio della religione? Nulla che vi assomigli rientra nel programma del governo regionale ». E precisa: «La sua è una proposta che coinvolge più istituzioni, più competenze oltre agli aspetti legati a principi di libertà e di rispetto del pensiero e delle credenze altrui». Insomma, Giancarlo Galan, mette i puntini sulle i.
Nei giorni scorsi era entrato nel merito della querelle tra gli immigrati islamici e il comune di Treviso («qui non hanno diritto di pregare», Gentilini dixit), invitando alla tolleranza e al buon senso, ora affronta a viso aperto un'altra questione «sensibile ». È successo, infatti, che Elena Donazzan, 36 anni, assessore regionale (An), discettando in materia di istruzione, abbia lanciato l'idea di inserire nella riforma regionale dell'Istruzione, l'obbligo nelle scuole venete dello studio della religione cristiano/cattolica. Argomento tutt'altro che locale. Oppure, c'è da ritenere che, in tempi di invocato federalismo fiscale, si debba passare anche al federalismo ecclesiale? Elisa Donazzan la prende alla larga, ma non arretra. «Premesso che non sto parlando di studio del catechismo — spiega al Corriere — la mia proposta s'inserisce nel tema più ampio dell'integrazione. Che coinvolge particolarmente la nostra regione dove il tasso di immigrati extracomunitari è elevato. Ora, se il ministro Mariastella Gelmini pensa, giustamente, di riportare a scuola l'Educazione civica, io credo che di tale materia possa far parte l'insegnamento della religione cattolica, fondamento indiscusso dei valori dell'Occidente. Che dovrebbero conoscere anche gli stranieri che hanno deciso di risiedere nel nostro Paese ». «Del resto — aggiunge — non è di Benedetto Croce la frase non possiamo essere italiani senza dirci cristiani?». Youssef Tadil, portavoce della comunità islamica di Treviso (in lotta per la rivendicazione di un luogo di culto), si richiama alla libertà di fede, sancita dalla Costituzione dello Stato italiano. «Avrebbe senso, semmai, insegnare le varie religioni — osserva — non soltanto la cristiana. Poi, gli alunni decideranno il percorso religioso che preferiscono». «La mia sensazione — continua — è che proposte come quella dell'assessore non giovino a rasserenare il clima interetnico ». Al fianco della Donazzan si schiera don Sandro Vigani, direttore del periodico Gente veneta. Osserva: «Poiché il cattolicesimo ha fatto la nostra storia e poiché l'80 per cento degli italiani sono cattolici, trovo giusto che questa religione diventi materia scolastica. Anche i musulmani dovrebbero studiarla». Ma Giovanni Vian (cattolico), docente a Ca' Foscari di Storia delle Chiese cristiane, dissente: «Piuttosto sarebbe doveroso inserire nelle scuole la Storia delle religioni, con un taglio laico/critico, non confessionale — dice —. E se vogliamo riferirci al contesto italiano ed europeo, le tradizioni di riferimento sono quelle giudaico-cristiane, ma anche quelle islamiche».
«Sono contrario, invece — conclude —, ad agganciare le religioni all'insegnamento dell'Educazione civica. I valori civili di uno Stato democratico sono altra cosa».

Corriere della Sera 6.9.08
Colloquio con lo scienziato che ha studiato con Sperry la separazione degli emisferi cerebrali
Cervello, conta la parte sinistra
Gazzaniga: «L'uomo può vivere anche se la destra è lesionata»
di Massimo Piattelli Palmarini


In un giorno del 1956, al White Memorial Medical Center, alla periferia di Los Angeles, i neurologi esaminarono il triste caso di un ex paracadutista americano, il quale aveva riportato nel 1944 un grave trauma cranico. Questo paziente, poi divenuto ultra-celebre nella letteratura clinica, è noto mediante le iniziali W. J. Il poveretto soffriva di frequenti convulsioni epilettiche resistenti ai farmaci. I neurochirurghi Joseph Bogen e Phillip Vogel, nel 1962, decisero di sezionare il ponte calloso che connette i due emisferi cerebrali. Due neuropsicologi del vicino California Institute of Technology vennero chiamati a seguire la successiva rieducazione e ad effettuare un'attenta analisi delle conseguenze psicologiche, cognitive e comportamentali dell'intervento. Essi erano il ben noto e allora cinquantenne professor Roger Walcott Sperry e il suo giovane assistente Michael S. Gazzaniga. Penso che tutti abbiamo sentito parlare del cervello diviso, dello «split brain», e abbiamo una qualche nozione della diversità tra emisfero sinistro (logico, linguistico, metodico, riflessivo) e emisfero destro (artistico, attento alle forme e alle melodie, intuitivo). Ebbene, tutto è partito proprio dal caso W. J. e dai lavori di Sperry e Gazzaniga. Mike Gazzaniga è oggi direttore del Centro SAGE per lo Studio della Mente all'Università di California a Santa Barbara. E' appena uscito il suo ultimo libro, dal semplicissimo titolo «Human», e dal sottotitolo «la scienza che è alla base di ciò che ci rende unici».
In che cosa siamo così unici nel mondo animale? Lo lascio dire a Gazzaniga, in esclusiva per il Corriere Scienza: «E' perché abbiamo un cervello capace di conoscere, apprezzare e desiderare le arti e governare i nostri atteggiamenti sociali e morali. Su un punto Darwin aveva torto, cioè noi non siamo in continuità con gli altri primati, la differenza tra noi e loro e qualitativa, non puramente quantitativa».
Gli chiedo di essere più esplicito: «Dal punto di vista cognitivo, noi abitiamo in una nicchia ecologica del tutto speciale. Evoluzionisticamente parlando, siamo come un treno senza freni. Possiamo modificare l'ambiente quasi senza limiti, il nostro cervello è molto meno modulare di quello di specie anche a noi vicine. Il passato del nostro cervello, della nostra mente e del nostro corpo ci condiziona assai poco. In altre parole, non possiamo liberamente cambiare la nostra natura, ma possiamo cambiare i nostri comportamenti. Dobbiamo sperare solo di sapere bene quello che stiamo facendo». L'idea del cervello sinistro e destro è diventata moneta corrente. Che cosa c'è di vero e di esagerato oggi in questa idea? «Ciò che più ci preme, nella nostra esistenza, è la capacità di pensare e di trovare soluzioni, essere creativi e comunicativi. Tutto ciò è provincia dell'emisfero sinistro. Quello destro gioca anch'esso un ruolo importante, ma si è visto che la vita ordinaria può continuare anche quando viene colpito». Dopo quasi mezzo secolo, quali lezioni possiamo trarre da questa lunga avventura clinica e scientifica? «Che gli esseri umani possiedono, nel loro emisfero sinistro, un dispositivo particolare che ci consente di dare un senso ai nostri propri comportamenti e umori, ci consente di interpretarli. Molti sono prodotti da meccanismi cerebrali impermeabili alla coscienza. Questo dispositivo è il loro interprete ci consente di raccontare a noi stessi la favola che siamo un'entità unica e consapevole, a dispetto di un sistema cerebrale che è di fatto distribuito e in parte modulare».
Gazzaniga è riconosciuto come un padre fondatore delle neuroscienze cognitive: «Sono quel neuroscienziato irrequieto, che ha sempre guardato verso il futuro e ha non solo dato contributi al problema dei rapporti tra mente e cervello, ma ha anche creato il settore della neuro-etica». Il suo libro «Il Cervello Etico» lo testimonia; inoltre è a capo di un vasto progetto di neuroetica sovvenzionato dalla Fondazione McArthur e darà l'anno prossimo in Scozia le prestigiose Gifford Lectures, venerabile istituzione che esiste dal 1887. Che cosa ci riserverà il futuro? «C'è stato il continuo progresso, proprio da voi in Italia, da Camillo Golgi a Giacomo Rizzolatti, dall'identificazione delle singole cellule nervose alle reti di neuroni e alla comprensione di come il cervello capisce le intenzioni altrui. Il futuro delle neuroscienze sta tutto nella scoperta di nuovi strumenti di indagine e nuovi metodi per capire i sistemi complessi ».

Corriere della Sera 6.9.08
Dallo studio degli zuccheri la scoperta di un ricercatore indiano che apre nuove ipotesi sull'evoluzione
Uomo-scimmia, la proteina «sapiens»
Ci ha diviso dai primati ma ci ha reso più vulnerabili alle malattie
di Giuseppe Remuzzi


C'era un ragazzo indiano, Ajit Varki, voleva fare il medico, ma non voleva fare il dottore e basta, voleva occuparsi di ricerca. E' andato negli Stati Uniti verso la fine degli anni '70 per lavorare con Stuart Kornfeld alla Washington University di Saint Louis. A quel tempo lì, Kornfeld lavorava sull'acido sialico (viene da sialos, saliva in greco) è uno zucchero a 9 atomi di carbonio. Nell'82 Varki si trasferisce a San Diego in California per mettere su un suo laboratorio di biologia degli zuccheri. Nel corso dei suoi studi Varki si accorge che il nostro sistema immune reagisce contro un certo acido sialico, si chiama acido N-glicolil neuraminico (Neu5Gc). «Che strano — pensa— acido sialico ce n'è sulla superficie di tutte le cellule di tutti i mammiferi e ha tantissime funzioni». Ma presto si rende conto che l'uomo fra tutti gli animali è l'unico a non avere Neu5Gc e non solo l'uomo di oggi. Anche gli ominidi di 900 mila anni fa erano senza Neu5Gc. Per saperlo Varki s'è messo a lavorare col paleontologo Juan Luis Arsuaga: hanno studiato ossa fossili prese a Atapuerca. A un certo punto dell'evoluzione insomma si è perso Neu5Gc: al suo posto gli uomini hanno un altro tipo di acido sialico, Neu5Ac.
La differenza è molto piccola, solo un gruppo OH appiccicato ad uno dei due rami della molecola. Le scimmie come tutti gli altri mammiferi hanno Neu5Gc, e Varki si era messo in testa di voler capire perché. Neu5Ac (quello dell'uomo) è il precursore di Neu5Gc e c'è una proteina — enzima — che trasforma Neu5Ac in Neu5Gc. Ma il gene che serve alla sintesi di questa proteina nell'uomo è mutato, la corrispondente proteina non funziona e così non si forma Neu5Gc. Varki si stava convincendo che forse è proprio questa proteina appena diversa a far sì che l'uomo sia uomo e lo scimpanzé scimpanzé. Possibile? Forse. Ma per capirlo bisogna fare un passo indietro. C'è un parassita della malaria, il plasmodio reichenowi, che infetta gli scimpanzé ma non l'uomo. E' perché quel plasmodio lì si appiccica a Neu5Gc sulla superficie dei globuli rossi degli scimpanzé.
L'uomo Neu5Gc non ne ha e così non si ammala di quel tipo di malaria. Neu5Gc è comparso da due a tre milioni di anni fa, proprio quando sulla terra è arrivato l'homo erectus.
C'era già la malaria allora, ma chi aveva la proteina mutata non formava Neu5Gc, così il parassita non riusciva ad attaccarsi ai globuli rossi e quell'individuo non si ammalava. Questo ha consentito a certi nostri antenati di evolvere fino all'homo
antecessor. A questo punto Varki e Gagneux hanno voluto la controprova. «Prendiamo un topo — si sono detti — modifichiamolo geneticamente in modo che sulla superficie delle sue cellule non ci sia acido sialico di tipo Neu5Gc, chissà che non prenda ad assomigliare in qualche modo all'uomo». L'hanno fatto, rispetto ai topi normali, quelli senza Neu5Gc perdono il pelo.
Adesso i ricercatori vogliono capire se questi topi sono capaci di riprodursi con quelli che invece Neu5Gc ce l'hanno ancora. O se, come sembra, si riproducono solo fra loro. E forse anche milioni di anni fa i nostri antenati Neu5Ac si accoppiavano solo fra loro. Così si sarebbe arrivati all'homo sapiens. Ma c'è di più, l'uomo è diverso dalle scimmie anche per la suscettibilità a certe malattie del sistema immune: artrite reumatoide, asma o sclerosi multipla colpiscono solo l'uomo, mai le scimmie. Cosa c'entra con l'acido sialico? C'entra.
L'uomo non ha Neu5Gc ma da secoli mangia prodotti animali pieni di Neu5Gc, carne e latte per esempio. Così nel nostro sangue si formano anticorpi anti Neu5Gc che determinano poi reazioni infiammatorie, ma anche le malattie del cuore e il cancro potrebbe avere quell'origine lì. Varki e Gagneux si sono precipitati in un supermercato, hanno preso agnello, maiale e manzo, pieni di Neu5Gc, e ne hanno mangiato quanto potevano. Nei giorni successivi si sono accorti che nel loro sangue cominciavano ad esserci anticorpi contro queste Neu5Gc che nel frattempo si incorporavano nelle membrane delle loro cellule. Insomma, ammesso che sia solo una proteina mutata a rendere gli uomini uomini, la stessa ci renderebbe più vulnerabili delle scimmie a tante malattie.

Corriere della Sera 6.9.08
Il commento. Da piccole differenze, grandi cambiamenti
di Telmo Piovani


La scoperta ha una sua amara ironia. Se Varki ha ragione, la mutazione che ci ha salvati da una forma di malaria, contribuendo alla nascita del genere Homo, è diventata poi la causa, tramite l'alimentazione, di altre terribili malattie.
L'evoluzione è una questione di vantaggi iniziali e di effetti collaterali, e quasi mai mira alla perfezione.
Un tempo, pensavamo che le evidenti differenze morfologiche fra noi e gli scimpanzé avrebbero trovato un corrispettivo in grosse differenze genetiche. Non è così: bastano piccoli cambiamenti utili, nel posto giusto al momento giusto. Ma le propagazioni sono imprevedibili e ciò che ci protegge dalla malaria può essere connesso anche alla perdita del pelo, all'isolamento riproduttivo e, oggi, alla reazione di rigetto verso organi provenienti da altri animali. Non è scontato, poi, che le nostre mutazioni abbiano portato sempre un'acquisizione in più. Come nella metafora del film «Il pianeta delle scimmie» il genere Homo si sarebbe qui differenziato per sottrazione, perdendo una molecola e mantenendo solo il precursore Neu5Ac.
Dopo tutto è improbabile che una sola mutazione puntiforme ci abbia reso umani, ma di sicuro siamo quel che siamo oggi perché in passato piccole differenze hanno fatto la differenza.

Corriere della Sera 6.9.08
Fascismo e berlusconismo, la trappola dei confronti
Sergio Romano risponde a Lucio Villari


Nelle elezioni del 6 novembre l932, le ultime avvenute in regime democratico in Germania, il partito nazionalsocialista di Hitler ebbe circa 12 milioni di voti (il 33,1 per cento) e 196 seggi al Reichstag mentre il Centro cattolico di von Papen (che forse era più a destra di Hitler) ebbe 70 seggi e un'altra formazione di destra, i tedesco-nazionali, 52. La destra ebbe in tutto 318 seggi, mentre i socialdemocratici ebbero 121 seggi e i comunisti l00. Il quadro era chiaro e il presidente Hindenburg, sollecitato anche da industriali, banchieri, armatori, proprietari terrieri, nominò cancelliere Hitler grazie anche alla copertura e alla legittimazione politica che di Hitler diede il cattolico von Papen. È questo dunque l'avvento «democratico» di Hitler al potere di cui parlavo in un mio intervento di alcuni giorni or sono sul Corriere della Sera e di cui si è stupito Gianfranco Pasquino.
Hitler guidava il maggior partito della coalizione di destra e dunque l'incarico spettò, dopo tentativi vari e scorciatoie (sempre di destra), a lui. Lo confermò anche il
Times di Londra in un articolo, che certamente lascia perplesso un fine giurista come Pasquino ma non stupisce chi studia con attenzione i travagli della democrazia europea negli anni Trenta del Novecento.
L'autorevole giornale inglese salutava la nomina di Hitler come un «ritorno alla democrazia parlamentare» in Germania. Una chiara polemica nei confronti della agitata ma viva Repubblica di Weimar dove invece la democrazia tedesca era nata.
Lucio Villari, Roma

Caro Villari,
Per la verità Gianfranco Pasquino ha anche sostenuto con ragione che Hitler e il suo partito, finché le elezioni tedesche furono libere, non ebbero mai la maggioranza assoluta dei voti. Ma la ricostruzione che lei fa del modo in cui i nazisti conquistarono il potere è impeccabile e presenta il vantaggio di completare il quadro della nostra discussione a tre sulla morte della Repubblica di Weimar. Non varrebbe quindi la pena di tornare sul tema se i frequenti riferimenti a Weimar, ai dittatori eletti con vasto consenso popolare, al fascismo e ai suoi rigurgiti non fossero diventati il pane quotidiano del dibattito politico italiano: un dibattito in cui si parla di storia, in realtà, per parlare anzitutto dell' attualità nazionale.
Il vero tema, quindi, è quello dei confronti storici. Quando ricerchiamo le analogie fra il presente e il passato cediamo a una tentazione naturale e comprensibile. I confronti servono a collocare un avvenimento nella storia, a individuare peculiarità e somiglianze, a meglio circoscrivere un fenomeno e, come avrebbe detto Benedetto Croce, a «parlare il mondo». Senza ricorso al paragone, in tutte le circostanze della vita, i nostri argomenti sarebbero astratti e difficilmente comprensibili. Quando dico che un certo vino ha un bouquet di fragole, aiuto pragmaticamente chi mi ascolta a separarlo mentalmente da altri vini con cui ha maggiore familiarità.
Il guaio, caro Villari, è che il confronto non è tra due avvenimenti, ma fra due interpretazioni. Il detto, così frequentemente ripetuto, secondo cui occorre studiare la storia per evitare di ripeterla, è in realtà un pericoloso sofisma. Ci serviamo del passato per meglio accreditare presso coloro che ci ascoltano un particolare giudizio sul presente; e per essere più convincenti usiamo un passato tagliato su misura. Penso in particolare all'uso continuo del fascismo come minaccia incombente sulla politica nazionale. Dietro questa pratica, così frequente nella bocca di certi pubblicisti, vi sono almeno due assunti. In primo luogo vi è la tesi secondo cui il fascismo sarebbe un virus indistruttibile, continuamente presente nel corpo delle società umane. E in secondo luogo vi è la presunzione che fascismo, nazismo, falangismo e tutti gli altri ismi autoritari o totalitari del XX secolo siano i differenti nomi di una stessa cosa. Renzo De Felice ha impiegato la sua intera vita a spiegare il fascismo come fenomeno italiano di una particolare congiuntura storica, ma si direbbe, a giudicare dalle polemiche delle scorse settimane, che abbia perduto il suo tempo. La faccenda avrebbe poca importanza se il partito comunista italiano non si fosse servito della «perenne minaccia fascista » per presentarsi al Paese come una grande forza democratica, indispensabile per la sua libertà.
Aggiungo che questo uso dei confronti storici presenta un altro inconveniente: rende del tutto inutile il mestiere dello storico. Che senso ha cercare di comprendere un avvenimento nella sua individualità e concretezza se la storia è soltanto una lunga litania di fatti già visti e già accaduti?

Corriere della Sera 6.9.08
Un pamphlet di Michele Martelli accusa la gerarchia ecclesiastica di voler dettare legge in ogni settore della vita pubblica
Se anche Dio entra in politica
La Chiesa e la democrazia: un relativismo che si vergogna di se stesso
di Giulio Giorello


Contro i teocon
S'intitola Quando Dio entra in politica (Fazi, pp. 228, e 16) il libro in cui Michele Martelli, studioso di filosofia e docente dell'Università di Urbino, critica le tendenze clericali che si manifestano nella vita italiana. Il testo di Giulio Giorello qui pubblicato è la prefazione al volume.

La Chiesa? «Non è democratica, ma sacramentale, dunque gerarchica», scriveva a suo tempo Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Fede. E oggi, con Joseph ormai salito al Soglio di Pietro, sotto il nome di Benedetto XVI? Mi pare notevole merito del volume di Michele Martelli Quando Dio entra in politica il fatto che l'autore, fin dal primo capitolo, metta a fuoco il nocciolo della questione. «La fallibilità, l'incertezza, l'errore, l'umile e incessante ricerca della verità, il dialogo, il dubbio socratico e scettico, l'autocorrezione e l'autocritica», si chiede Martelli, sarebbero dunque «estranei a chi la verità definitiva la possiede in Cristo, di cui è sostituto terreno»? Attenzione a rispondere Sì o No immediatamente. Una notevole tradizione di pensiero — da Charles Sanders Peirce a Ernst Mach, per non dire di Karl Popper e Willard Van Orman Quine, pur con le più diverse sfumature — ha messo in luce come quei tratti di «fallibilismo» (il termine è di Peirce), ovvero quell'impasto di «conoscenze ed errore» (l'endiade è di Mach), scandiscono tanto la crescita della scienza moderna quanto l'articolarsi della democrazia. La tensione principale non si situa allora tra fede e ragione, tra scienza e religione, tra credenti e non credenti, ma tra chi fa ricerca — non solo circa «la natura delle cose», poniamo in fisica o in biologia, ma persino circa la propria «salute spirituale» — con un atteggiamento che insiste sul carattere fallibile e provvisorio delle proprie conquiste e chi invece non esita a presentarle come dogmi irrinunciabili, ormai immuni a qualsiasi spirito critico.
So bene che, se ci si esprime così, si rischia — al solito — di essere tacciati di «relativismo», il genio maligno dell'Occidente, la cui «dittatura» è stata autorevolmente denunciata dallo stesso Ratzinger poco prima di essere eletto Papa. Ma anche qui, cautela: la posta in gioco non è epistemologica (o lo è solo in parte), ma (soprattutto) politica.
Lo avevano intuito, ai tempi della contrapposizione di Riforma e Controriforma, ancor prima dei «filosofi naturali» (noi oggi diremmo «scienziati ») quei teologi insofferenti alla costellazione dei pregiudizi stabiliti, che avevano rivendicato diritto all'amore e alla tolleranza per le forme di vita (religiosa, ma non solo) più diverse. Figure come — a metà del Seicento — John Milton, che aveva dichiarato che «la verità ha più di una faccia», o come John Goodwin, che aveva sostenuto che reprimere le differenze può rivelarsi la forma più perversa di «lotta contro Dio». Particolare non trascurabile: si trattava di protestanti (anche se, assai spesso, devianti rispetto al
mainstream del protestantesimo: eretici nell'eresia, agli occhi di quei cattolici che avevano dimenticato che eresia vuol dire solamente scelta e che a sua volta ragionare non è che un sinonimo di scegliere). Karl Popper, in un bellissimo intervento del lontano 1958, riconosceva quanto debbano le attuali società aperte e democratiche a questo tipo di protestantesimo. Ma non stiamo cercando qui delle più o meno fondate «radici»! Il gusto per la disputa, la pregnanza dell'argomentazione, il valore della competenza tecnica, il considerare una differenza di opinioni o di stile di vita non un disastro ma un'occasione sono elementi che possiamo ritrovare nelle più svariate civiltà, dalla grande cultura sumerica e accadica della Mesopotamia alla Grecia dei Sofisti e di Socrate, dall'India capace di logiche (al plurale) di estrema raffinatezza al mondo «arabo- islamico» così attento, prima dell'epoca della sua chiusura che coincide con la sua decadenza, alla valorizzazione degli esperimenti intellettuali e morali più disparati… Siamo disposti a sacrificare tutto questo per la «verità dell'Uno» di cui la Chiesa Cattolica Romana pretende di avere il monopolio? Michele Martelli ci ripropone un interrogativo che in passato è più volte emerso nelle tormentate vicende dell'Occidente. Il «ritorno di Dio nella politica» vuol dire proprio questo. Di mio, non sono così drastico come alcuni che ritengono di poter liquidare la stessa esperienza del cattolicesimo come antiscientifica e antidemocratica. Il fatto è che non penso che le varie tradizioni religiose — e in particolare le diverse denominations cristiane, e dunque la stessa confessione cattolica — costituiscano delle «essenze» date una volta per tutte come idee immutabili dell'iperuranio di Platone. Piuttosto, mi paiono simili a organismi viventi, in continuo mutamento, soggette quindi sia alla pressione dell'ambiente sia alle decisioni degli individui che in tali tradizioni si riconoscono. Così, sono disposto a riconoscere che persino una Chiesa «non democratica, ma sacramentale » possa evolvere, dando prova nella pratica di quel relativismo di cui in teoria si vergogna. Dopotutto, il «relativismo» è il contrario dell'«assolutismo » — e tutto possono essere i dittatori, tranne che dei relativisti! Pensiero debole — come ci ripetono teocon, teodem e atei devoti, così nostalgici della «forza del fondamento»? Niente affatto: il relativismo non è una dottrina, ma una scelta personale e politica per un tipo di struttura in cui ogni idea o forma di vita abbia il diritto a una difesa pubblica — in questo sta tutto il suo coraggio!
Michele Martelli non risparmia i suoi strali polemici a pretese teoriche e morali avanzate in nome delle più diverse religioni, pur concentrandosi soprattutto su quelle che ci vengono dal cattolicesimo romano. Non possiamo che augurarci che coloro che si sentono colpiti dalla sua vis polemica sappiano rispondergli con altrettanta decisione sul piano dell'argomentazione.
Di nuovo, questo tipo di conflitto è un'occasione di crescere per tutti «i litiganti».
Una cosa, però, dev'essere chiara. Mai mai mai saremo disposti a cedere — in cambio delle nebbiose consolazioni di questa o quella religione — il libero cielo dell'Illuminismo, quello della tolleranza comprensiva e simpatetica di John Toland, o dell'appassionata mitezza di Voltaire, o dello «scetticismo spensierato» di David Hume, o dell'elogio di Immanuel Kant dell'autogoverno di cui è capace la persona «uscita dallo stato di minorità» in cui i dogmatici di ogni risma vorrebbero ricacciarla. A scanso di equivoci: questi non sono vincoli che ci legano al passato, sono premesse che ci indirizzano al futuro.

Corriere della Sera 6.9.08
Resistenza. Un saggio di Massimo Storchi
Le vendette e l'impunità nel dopoguerra reggiano
di Antonio Carioti


Il titolo non lascia dubbi: Il sangue dei vincitori, saggio di Massimo Storchi sulla Resistenza a Reggio Emilia, vuole mostrare l'altra faccia della medaglia rispetto ad alcune opere di Giampaolo Pansa. L'autore non nega certo la realtà delle vendette partigiane seguite alla Liberazione, con l'uccisione di oltre quattrocento persone nel Reggiano tra aprile e maggio del 1945, ma sostiene che si trattò di una vampata insurrezionale, di una giustizia sommaria e selvaggia tesa a chiudere i conti aperti durante la dittatura e la guerra. Un'azione cui non corrispondeva, a suo parere, un disegno rivoluzionario del Pci. A riprova di questa tesi, l'autore nota come la violenza cali vistosamente subito dopo gli eccidi insurrezionali, con una trentina di omicidi (non tutti di matrice partigiana) da giugno a dicembre 1945 e dodici nel corso del 1946.
La parte più ampia del libro è però dedicata a illustrare le premesse delle vendette partigiane, cioè le atrocità compiute in provincia di Reggio da personaggi e gruppi del fascismo di Salò. Solo una parte dei responsabili pagò, mentre l'amnistia e alcune discusse sentenze passarono un colpo di spugna su gravi crimini. Venne sparso il sangue di molti vinti, non di rado innocenti, ma parecchi altri, ben più colpevoli, rimasero impuniti. Un fattore che va considerato nel valutare il dopoguerra emiliano.
MASSIMO STORCHI, Il sangue dei vincitori ALIBERTI PP. 286, e 16

Corriere della Sera 6.9.08
Analfabetismo. Il linguista Tullio De Mauro: «Ma la colpa questa volta non è della scuola»
di Giulio Benedetti


L'accusa: È una sconfitta della società che non è in grado di occuparsi, come avviene in tutti i Paesi del mondo, dell'educazione degli adulti

ROMA - E' difficile sorprendere, in materia di analfabetismo, originario o di ritorno, un linguista come Tullio De Mauro, che dell'argomento sa tutto o quasi. C'è riuscita, nel 2005, Statistic Canada, una delle più importanti centrali di indagini demografiche del pianeta. Il prof, nel leggere i risultati, fece un salto sulla sedia. Il motivo? Secondo la ricerca sulle condizioni di alfabetizzazione in età lavorativa, da 16 a 65 anni, noi italiani eravamo più o meno allo stesso livello di alcuni paesi africani. Sono passati tre anni. E in materia di lotta all'analfabetismo la strada è ancora tutta in salita. Soprattutto in Africa, ma anche nel nostro Paese.
I dati di Statistic Canada 2005: solo il 29% degli italiani aveva dimostrato una capacità — stiamo parlando di livelli minimi — di controllo della lettura e della scrittura o capacità di calcolo sufficienti per affrontare la vita quotidiana.
«Problemi simili esistono in tutti i paesi sviluppati — spiega De Mauro — ma in percentuali modeste. Difficoltà di quelle proporzioni sono emerse solo per l'Italia e la Sierra Leone. Dall'indagine è risultato che il 5% della popolazione adulta era preda di un analfabetismo completo. C'era poi un 33% che invece riusciva a decifrare più o meno bene le risposte del primo questionario ma non arrivava al secondo. Un altro 33% si fermava al secondo, insomma non raggiungeva il livello del terzo questionario al di sotto del quale ci sono l'analfabetismo oppure un enorme difficoltà a comprendere ciò che si legge in una tabella, su un avviso pubblico, in un giornale».
L'Italia come l'ex colonia portoghese dell'Africa occidentale. Partiamo da questo dato che non dovrebbe consentire sonni tranquilli a quanti hanno responsabilità di governo per capire cosa può essere accaduto, professore. Verrebbe da dire: la scuola non funziona. «Se la scuola italiana non funzionasse avremmo ancora oggi lo stesso analfabetismo primario degli anni Cinquanta. Arrivava a sfiorare il 40% della popolazione ma poi, grazie all'istruzione generalizzata, si è progressivamente contratto fino a ridursi nel 2001 a meno di due punti percentuali, come risulta dall'ultimo dei censimenti che l'Istat conduce con cadenza decennale.
Non dimentichiamo che la scuola elementare italiana, secondo gli studi comparativi Ocse, si colloca nel mondo tra l'ottavo e il quinto posto. Diversa la situazione delle superiori. In Italia, a differenza degli altri stati europei che hanno lavorato a fondo per riorganizzare i corsi, non è passata una sola riforma. Siamo ancora al 1925».
«Qualcosa — continua il professore — la povera nostra elementare comunque ha fatto, anche se ricorrono titoli di saggi sulla disfatta della scuola. Il fatto è che era e resta l'unica a combattere sul fronte dell'analfabetismo in un panorama desolante, dove mancano le biblioteche, i dati sulla lettura sono catastrofici e manca un sistema di educazione per gli adulti».
E qui dobbiamo fare i conti con la regola dei cinque anni, ben nota a quanti, cominciando dall'Unla, si battono contro l'analfabetismo. «Accade dappertutto — dice ancora De Mauro —. Se in età adulta non esercitiamo le competenze acquisite a scuola regrediamo di almeno 5 anni. Il nostro analfabetismo è una sconfitta della società, non della scuola. Se proprio dobbiamo scoprire l'assassino, questo è la mancata educazione degli adulti».
«Negli altri paesi europei e negli Usa — spiega il linguista — ogni anno tra il 60 e l'80 per cento della popolazione frequenta un corso di uno o tre mesi per aggiornarsi professionalmente o culturalmente: dall'astronomia alla lingua straniera. Un sostituto fai da te, in Italia, potrebbe essere un centro di lettura. Noi abbiamo illustri biblioteche di conservazione ma pochissime biblioteche di quartiere. Nei nostri 8000 comuni ne esistono solo duemila concentrate a Roma e Milano. A Roma, per una popolazione di circa tre milioni di abitanti, ce ne sono 20».
Come avvicinare i cittadini al piacere della lettura e dell'aggiornamento? «Il linguista russo Roman Jakobson diceva che il gusto del gorgonzola non può essere spiegato con le parole del vocabolario, va mangiato e basta. Bisogna cominciare a fare qualcosa. Qualche buon esempio non manca. Ricordo un'iniziativa organizzata dal comune di Scandicci in tema di formazione permanente degli adulti alla quale ha partecipato anche Roberto Benigni. Servono tanti buoni centri culturali permanenti dove sia possibile imparare l'informatica o la topografia, l'inglese o la statistica. L'importante è che non ci sia scritto: scuola per analfabeti».

Repubblica 6.9.08
Scuola, la rivolta contro il maestro unico
Assemblee e petizioni, precari in piazza il 27 settembre: ci rubano il futuro
Sindacati e genitori pronti alla mobilitazione. I Cobas: sciopero il 17 ottobre. La Sicilia: diremo no ai tagli
di Mario Reggio


ROMA - Assemblee nelle scuole, volantinaggi, raccolte di firme. Insegnanti e genitori si mobilitano contro il ritorno del maestro unico alle elementari ed il taglio di 87 mila cattedre nei prossimi tre anni. I Cobas stanno preparando un fitto calendario d´iniziative: il 27 settembre a Roma convegno nazionale dei precari, il 17 ottobre sciopero nazionale e manifestazione nella Capitale. E davanti alle scuole, il giorno d´inizio delle lezioni, mobilitazione "frozen", in italiano congelamento: gli insegnanti si sdraieranno in strada per simulare la morte della scuola pubblica. Anche la Cgil sta affilando le armi: ieri, assieme a Cisl e Uil, a Venezia ha affittato cinque vaporetti che sono sfilati davanti alla Mostra del Cinema per protestare contro i tagli nella scuola e la politica del ministro Brunetta, vessillifero della crociata governativa contro i fannulloni nel pubblico impiego. Domani sempre a Venezia, in occasione della Regata, storica verranno stesi lungo il Canal Grande quattro striscioni dei confederali sui temi della scuola e dell´università. Per il ministro Mariastella Gelmini non sarà un autunno tranquillo. L´idea di tornare al maestro unico alle elementari, rassicurando che il tempo pieno non verrà toccato, anzi potenziato, non convince il mondo della scuola e molti genitori. Padri e madri degli oltre 850 mila bambini che frequentano le elementari statali dalle 8 e mezza di mattina alle quattro e mezzo di pomeriggio. Ma non sono solo le organizzazioni sindacali a protestare. Il segretario regionale del Movimento per l´Autonomia Lino Leanza, il partito del presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo, ha annunciato: «Ci opporremo ai tagli previsti dal ministero della Pubblica Istruzione. Saremo al fianco di docenti, studenti e sindacati per le grandi mobilitazioni già previste alla ripresa dell´anno scolastico e per tutto l´autunno. Dopo le sue poco felici dichiarazioni sulla qualità dell´istruzione in Sicilia - conclude Leanza - adesso la Gelmini conferma i timori paventati, tagliando 2.500 insegnanti e 160 non docenti, e di questo passo la Sicilia perderà nei prossimi tra anni 15 docenti».
Insorgono anche i sindaci dei piccoli Comuni: «I sindaci sono giustamente preoccupati - si legge in un comunicato della Lega autonomie - dal progetto di accorpamento per molte scuole elementari nei territori collinari e montani, con gravi disagi per gli studenti che già a sei anni si troveranno nella condizione di pendolari. E i costi ricadranno sulle famiglie e le casse dei Comuni che dovranno organizzare i servizi di scuola bus».
Ma serve davvero tornare al maestro unico? «È una vera patacca ad uso e consumo dell´opinione pubblica, una pura operazione di propaganda - commenta Benedetto Vertecchi, ordinario di Pedagogia Sperimentale a Roma Tre - quando tenteranno di farlo si accorgeranno che anziché degli attuali tre, i maestri diventeranno cinque». Ecco la spiegazione: «Il maestro unico dovrebbe essere competente ed in grado di insegnare la lingua italiana, le norme sul traffico, la salute, la matematica, le scienze, la geografia - afferma Vertecchi - e chi lo dice sarebbe un ciarlatano. Allora dovranno trovare altri maestri che siano in grado di insegnare una lingua straniera, la musica, la ginnastica e coprire l´ora di religione. In tutti i Paesi moderni esiste un sistema di presenze multiple di insegnanti, perché a differenza di 30 o 40 anni fa la società è mutata e le conoscenze si sono moltiplicate. Leggere, scrivere e far di conto non basta più».

Repubblica 5.9.08
Dopo le polemiche sulla morte cerebrale siamo andati tra i medici anestesisti. Ecco i loro racconti sulla fine della vita
L’ultimo minuto. Quando la vita finisce
di Maurizio Crosetti


Mentre la morte cerebrale continua a far discutere, i medici anestesisti raccontano il momento delicato del passaggio dall´esistenza alla morte Come avviene e, soprattutto, come spiegarlo alle famiglie che spesso non sono preparate al distacco
"Il vero problema è l´ignoranza, è non sapere di cosa stiamo parlando", spiega il primario
"In tutti questi anni non ho trovato un solo individuo che non abbia capito"

TORINO. Forse la morte abita dentro questo schermo di computer che il professore mostra con delicatezza, voltandolo un po´: è un arcipelago di isole blu notte, appena cerchiate di un pallido azzurro. «L´azzurro è l´ossigeno, vede, ormai è solo all´esterno del cervello, tutto il resto non esiste più». Da quell´arcipelago non si torna: è la morte cerebrale vista da una "spect", vale a dire una scintigrafia (liquido di contrasto, immagine, verdetto). Il professor Pier Paolo Donadio, primario di anestesia e rianimazione all´ospedale Molinette di Torino, non ha dubbi: «Io non sono un filosofo e neppure un teologo, pur essendo un credente. Non so cos´è la morte, ma so quando è avvenuta. E so cosa dice la legge, per la quale la morte cerebrale è "cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell´encefalo". Una condizione dalla quale non si riemerge, mai».
Un cervello che muore, un corpo che ancora pulsa ma solo perché lo fanno pulsare le macchine, il respiratore, i farmaci. I parenti che aspettano la risposta tremenda, un medico che è testimone infallibile, a presidio di quell´ultimo confine come una sentinella che ha combattuto, più spesso ha vinto («La rianimazione è un luogo di vita, qui si salvano sette, otto persone su dieci») e qualche volta ha perso. Ma dove abita la morte, professore? «Nel cervello. Il quale si gonfia, per un trauma o una malattia, e la pressione non lascia più entrare sangue e ossigeno. Dopo venti minuti circa, le cellule muoiono e marciscono. L´encefalo si disfa, diventa poltiglia e siamo di fronte a un cadavere che respira artificialmente, però un cadavere senza dubbio».
Gli ultimi istanti di una vita sono quasi sempre preceduti da quella che tecnicamente si chiama "tempesta neurovegetativa": è il momento in cui, in un certo senso, il cervello si rifiuta di morire anche se è già quasi morto. È il punto di non ritorno che il medico rianimatore segue e accompagna, avendo prima tentato tutto il possibile per evitarlo. «È l´ultima scarica di adrenalina, manifestata da un picco di segni: alterazione del ritmo cardiaco, ipertensione, una sorta di estrema codata del pesce ormai quasi senza ossigeno». Da lì in avanti si è morti anche se non lo è il cuore, non ancora.
Nell´ufficio del professor Donadio c´è una macchinetta per l´espresso. «Porto qui i parenti, preparo il caffè e accendo il computer». Ecco l´arcipelago della morte blu. «Parlo con loro, spiego con le immagini e mi rendo conto di quanto sia difficile accettare non dico la fine, ma la fine di un corpo che è ancora caldo, che sembra solo dormire, che fa la pipì. Duemila persone sono in quello stato ogni anno in Italia, 200 mila nel mondo e mai nessuno si è svegliato, perché è impossibile».
Cosa succede quando il medico deve scostarsi e far passare la fine? Come la certifica? Come ne prende atto, senza tema di smentita? «Ogni malattia cerebrale, così come ogni malattia, ha una storia clinica. Io la conosco e parto da lì. Poi verifico l´assenza di determinati riflessi. Illumino l´occhio, e la pupilla non si restringe. Tocco la laringe, e niente tosse. Verso dell´acqua gelata nel timpano, e l´occhio resta immobile. Oltre, naturalmente, all´assenza di respiro spontaneo. L´osservazione di questi dati dura sei ore e viene ripetuta per tre volte. Si effettuano gli elettroencefalogrammi e i riflessi del tronco, lo fanno il rianimatore, il neurologo e il medico legale. Se è il caso si procede alla scintigrafia, ma certamente il percorso è segnato. Una cosa diversissima dal coma, dove il cervello non funziona ma è ancora vivo. Qui, lo ripeto, si tratta di cadaveri».
Torniamo per un momento davanti alla macchinetta del caffè. La luce del giorno entra filtrata, qui al terzo piano, nello studio del primario. Un pacchetto di Gauloises sulla scrivania, le foto della moglie e dei tre figli alle pareti, un crocifisso, un´icona. Sulle sedie, i parenti di quel cadavere che ancora respira. Capiranno? Perché in quei momenti si parla anche di donazione d´organi. «In tutti questi anni non ho trovato un solo individuo che non abbia capito, poi elaborare il lutto è un´altra faccenda. Mi chiedono se il loro caro è morto davvero, se è stato fatto il possibile e se c´è trasparenza nell´assegnazione degli organi, in caso di eventuale donazione. Le tre risposte sono altrettanti sì. Al massimo, il parente dice: aspettiamo il miracolo. E io pacatamente rispondo, da credente tra l´altro, che il miracolo non contempla la resurrezione».
In quella terra di nessuno che è la vita sospesa, in realtà una vita già morta che però mantiene alcuni preziosissimi organi, si inserisce il gigantesco tema dei trapianti. Che in Italia nel 2007 sono stati 3.020, per un totale di 1.084 donatori. Il dottor Riccardo Bosco, anestesista, è il responsabile del coordinamento prelievi della regione Piemonte. «Abbiamo una rete di coordinatori locali, specialisti che si occupano di donazioni e dei rapporti con le famiglie dei defunti. Prima di tutto, però, conta la formazione: e noi la facciamo per il nostro personale, compresi i centralinisti e gli addetti alle pulizie». Le ultime polemiche sulla morte cerebrale vi complicheranno il lavoro? «È presto per dirlo. Di sicuro dovremo informare sempre meglio, usando anche quel grande strumento che è Internet». Navigando nel sito "www. donalavita. net" è possibile saperne di più.
«Lo confermo, le persone che puliscono le nostre sale operatorie sanno perfettamente cos´è la morte cerebrale». Maurizio Berardino, camice celeste (è appena salito dal reparto) è il primario di rianimazione della neurochirurgia delle Molinette. Anche lui, ogni giorno, sentinella sul confine della morte. «La quale, non ho dubbi, abita là dove non si può tornare indietro. Il cuore è un muscolo, il cervello è la sede della nostra identità biologica. La morte cerebrale non ci coglie mai di sorpresa, è un evento atteso che si sviluppa con passaggi segnati e prevedibili, non è un arresto cardiaco. Ma questi reparti non sono l´anticamera dell´obitorio, qui si salvano migliaia di persone e si lotta per garantire la qualità della vita migliore possibile a chi sarà dimesso. Il vero problema è l´ignoranza, è non sapere di cosa stiamo parlando. In fondo, la medicina è fatta di cose semplici». Ma la morte, dottore, la morte del cervello si vede arrivare? «È quell´ultima scarica di adrenalina, è quella tempesta. Il problema diventa raccontarlo alle famiglie, dando loro il tempo di abituarsi all´idea. Spesso bastano quarantotto ore, altre volte non sarà sufficiente un´intera vita».
Macchine che soffiano come il respiro, monitor che pulsano con gentilezza. Ma poi cosa succede, professor Donadio? Come si varca la soglia ultima, un minuto dopo le sei ore di osservazione? «In quel momento, il medico è di fronte a un preparato biologico dagli occhi in giù. Faccio sempre un esempio: quando muore una nonna in corsia, mica si tiene la flebo nella vena, dopo. Per la morte cerebrale è lo stesso: si staccano i tubi». A quel punto, l´ultimo secondo di vita del cervello è già trascorso, non quello del cuore. «Io spengo il monitor. Perché mi sembra un´inutile agonia anche visiva, quell´onda elettrica sul monitor che perde il passo». Siamo alla fine, adesso sì. «Il cuore, anche senza il respiro continua a battere di norma per cinque o sei minuti, che nel caso dei giovani possono diventare venti. Ma quella, da molte ore non era più una persona viva». Perché poi l´ultimo passo è sempre il penultimo. Restano ben vivi coloro che soffrono la perdita. Resta il dovere e il bisogno delle parole per dirlo, per rispondere e chiarire, per confortare. «Però le persone capiscono. Io gli voglio bene, ma bene sul serio, e loro lo sanno».

noi medici sappiamo che quando il cervello non risponde più agli stimoli non c’è più nulla da fare
Repubblica 5.9.08
Un medico e gli ultimi istanti di un paziente
Il nostro dolore tra quei corpi spenti
di Carlo Alberto Defanti


Il camice bianco non è una corazza che mette al riparo i medici dalla sofferenza. Assistere agli ultimi momenti di vita di un paziente ti commuove, ti tocca dentro. Profondamente. Quando ti rendi conto che la fine è vicina, che il paziente sta attraversando quella soglia dalla quale non si torna, si prova dolore. E, insieme, ai parenti, si accompagna il malato agli ultimi istanti della sua vita. Ma c´è una morte che la gente fa fatica ad accettare. Ed è la "morte cerebrale". Sì perché questa morte è qualcosa di invisibile, che non tocchi con mano. Nella nostra testa, un morto è un cadavere immobile, freddo e privo di vita. Ma la "morte cerebrale" è paradossale. Sì, perché quel corpo è caldo e respira grazie alle macchine. Così la gente pensa e spera che da un momento all´altro quella persona possa risvegliarsi e tornare a vivere. Ma noi medici sappiamo che quando il cervello non risponde più agli stimoli e si spengono i riflessi del tronco cerebrale, non c´è più nulla da fare.
La scienza è una cosa e quel che crede la gente un´altra. Io che sono neurologo, anni fa fui chiamato a consulto dai familiari di una giovane ricoverata in coma, in rianimazione. Loro si aspettavano il salvatore, l´uomo dei miracoli. Ma quando, con delicatezza, spiegai che non c´era più nulla da fare, confermando la diagnosi dei miei colleghi, se la presero con me, diventarono aggressivi. Certo, è difficile sopportare l´idea che una persona cara, magari tuo figlio o tua madre, con il corpo ancora caldo, apparentemente solo in coma, sia di fatto morta. Ma la scienza, i medici, hanno gli strumenti per valutare la situazione. Le sei ore di osservazione dopo la "morte cerebrale" che servono a captare anche la più debole traccia di vita, sono una garanzia per tutti.
È arduo il compito dei medici che devono spiegare ai parenti queste cose. I rianimatori che lavorano in prima linea, non solo devono dare il triste annuncio ai parenti, ma spesso devono poter chiedere il consenso anche per il prelievo degli organi. Organi che servono per dare vita ad altre persone. Ma la richiesta, a volte, è vissuta dai parenti come un atto predatorio. Sono nel pieno di una tragedia familiare e non vogliono sentire altro.
Le polemiche e gli scontri cessano invece quando il paziente si avvia verso la morte dopo una malattia cronica, che debilita e segna, giorno dopo giorno, il suo fisico. Quando la medicina era orientata in senso tradizionale, era cioè volta unicamente alla cura della malattia, il medico si sentiva impotente di fronte al malato senza speranze e spesso aveva con lui un rapporto formale e distante. Gli prescriveva i farmaci e basta. Oggi non è più così. Da quando abbiamo adottato le cure palliative e ricorriamo di più alla morfina, che allevia il dolore, noi medici riusciamo a stare a fianco del malato sino alla fine. Io, personalmente sono per dire sempre la verità al paziente. E se un malato, in fase terminale, mi dice: "Dottore, sento che sto per morire", io non gli rispondo "ma non è vero, cosa dice". Mentire è sbagliato e preferisco dire: "Stai sereno, io ti starò sempre vicino, non sarai solo". E allora stare al letto del malato, accarezzargli un mano quando occorre, dare conforto ai suoi parenti diventa un modo per affrontare la morte con più serenità. Perché è qualcosa a cui si va incontro in maniera consapevole. Diverso è il trauma, l´incidente, che, all´improvviso, trascina una persona verso il coma irreversibile, con la "morte cerebrale" che sopraggiunge e con i parenti attorno a lui sconvolti e increduli di fronte alla tragedia. La morte invisibile li ha privati di una persona cara, i medici confermano che non ci sono più speranze ma loro non si vogliono arrendere. È una reazione molto umana questa ma la "morte cerebrale" c´è, esiste, si misura scientificamente e va spiegata con tutta la delicatezza possibile ai parenti. Io personalmente, non sono lontano dalle posizioni di Lucetta Scaraffia, autrice dell´articolo sull´Osservatore romano che ha sollevato la polemica sulla morte cerebrale: è vero che noi medici dovremmo poterci confrontare e aggiornare sul concetto di morte cerebrale, elaborato 40 anni fa. Questo però senza mettere in forse i trapianti.
L´autore, neurologo, ha scritto il libro "Soglie, medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri)
ed è stato il neurologo di Eluana Englaro
Testo raccolto da Laura Asnaghi

l’Unità 3.9.08
40 anni fa
Con il rapporto Harvard nacque la morte cerebrale


Il 5 agosto 1968 la prestigiosa rivista «Journal of the American Medical Association» (Jama) pubblica il documento della Harvard Medical School che riconosce il criterio della morte cerebrale. Coma, perdita irreversibile di qualsiasi funzionalità cerebrale, impossibilità di una respirazione autonoma: sono questi i criteri che quarant’anni fa spostarono il concetto di morte di un individuo dal cuore al cervello. Prima di allora, la morte veniva diagnosticata usando criteri cardiologici.
Il rapporto di Harvard, invece, ha stabilito che la fine della vita è definibile con la morte di tutto il cervello, stabilendo dei criteri ancora oggi attuali. Il documento è considerato dalla maggioranza degli esperti uno «spartiacque» per la medicina, rivestendo un’«importanza storica» per i trapianti d’organo, visto che la morte cerebrale è la condizione essenziale per procedere al prelievo.
Prima dello storico rapporto di Harvard, la vita finiva quando il cuore cessava di battere. Dopo questo documento spartiacque, la fine è decretata con la morte di tutto il cervello, quando cioè si verificano tre condizioni: il coma, la perdita irreversibile di qualsiasi funzionalità cerebrale e l’impossibilità di respirazione autonoma.

Perché «Psiche»?
«Psiche come interiorità del nostro pensiero. Nella canzone omonima, quasi tutta strumentale, ho cercato di immaginare la psiche che illumina la mia scrittura, difatti l’ho paragonata ad una lampada araba. Araba perché mi riferisco all’influenza di grandi pensatori come Averroè ed Avicenna»
l'Unità 6.9.08
Conte: «Sotto le stelle del jazz oggi c’è il gelo»
di Silvia Boschero


MUSICA Con un concerto parigino insieme a band e a un’orchestra Paolo Conte ha lanciato il suo cd «Psiche»: a sorpresa è un album avaro di tonalità jazz ed è invece venato di elettronica. «Mi sono buttato con spensieratezza nei suoni sintetici»

È uno spazio rutilante di personaggi, avventure, romanticismi e luoghi immaginari. È un quadro dalle tinte forti, niente pastelli. Stavolta Paolo Conte ha steso le tempere con mano pesante, ha usato i colori primari, incendiandoli in una tela che porta il nome di Psiche, il suo nuovo disco di inediti in uscita internazionale il 19 settembre. È a Parigi per presentarlo, in una piovosa giornata che anticipa sorprendentemente l’autunno, a un passo dall’Arco di Trionfo e dalla sala Pleyel, che lo attende per l’anteprima dell’album; la prima parte con la band, aperta da Hemingway e il brano più pop del cd Il cerchio, e la seconda, avviata da Psiche e il classico Dancing, accompagnato dall’Orchestre National Ile-de-France diretta da Bruno Fontane. «Fanno sempre le cose in grande qui. Però l’esperimento può essere ripetibile anche altrove, a patto che si trovino spazi adatti», sorride sornione. Intanto sarà in tour in Italia (14-19 ottobre allo Smeraldo di Milano, 18-23 novembre al Sistina di Roma). Psiche è l’ennesimo viaggio immaginifico del nostro Kipling della canzone d’autore. È popolato di un’umanità varia: pellerossa, trasformiste slave del circo, casanova, lampade arabe, donne misteriose inseguite o che fuggono sinuose. E soprattutto c’è musica e arrangiamenti che non ci aspettavamo: poco, pochissimo jazz, e un nuovo esperimento con l’elettronica.
Ci sorprende signor Conte…
«È stata una scoperta tardiva la mia, devo ammetterlo. Mentre tanti lo facevano molto tempo fa, ero scettico. Ora invece anche nella gomma ho trovato qualcosa di poetico e mi sono buttato con spensieratezza nei suoni sintetici, neutri, artificiali».
Lei mette da parte il jazz in un momento in cui in Italia questo genere vive una grande rinascita. Lei lo ascolta?
«No, anche perché mi sto interrogando se questo di cui parliamo sia jazz o meno. Il jazz che amo non è quello che sento oggi. Sicuramente sono migliorate le condizioni organizzative (ai miei tempi si cercava disperatamente una cantina per suonare davanti a quattro gatti), sicuramente ci sono degli ottimi strumentisti, molti dei quali vengono dal Conservatorio (ai miei tempi invece eravamo tutti dilettanti), così come si sono sviluppati questi festival cosiddetti di jazz che poi stanno in piedi grazie a qualcos’altro. Ma… è finito qualcosa, lo spirito con cui il jazz è partito. È come se si fosse voluto combatterlo, combattere il suo romanticismo fino a farlo diventare freddo, gelato e con un vizio. Quello di voler affermare continuamente se stesso».
Venerdì esce il cd «Conte plays jazz» che ripesca le sue scorribande nel jazz da ragazzo assieme anche a Bruno Lauzi. Che jazz facevate?
«Di che disco parla? Ah, non ne ero al corrente! Queste case discografiche hanno sempre qualcosa da tirar fuori al momento giusto! Comunque non è che facessimo jazz. Lui in una session registrò degli standard e mi chiamò a suonare il vibrafono. Era molto tempo fa»
Perché «Psiche»?
«Psiche come interiorità del nostro pensiero. Nella canzone omonima, quasi tutta strumentale, ho cercato di immaginare la psiche che illumina la mia scrittura, difatti l’ho paragonata ad una lampada araba. Araba perché mi riferisco all’influenza di grandi pensatori come Averroè ed Avicenna».
C’è una regia, un canovaccio dietro alle storie e ai personaggi?
«No, sono un compositore vecchia maniera, non studio nulla a tavolino, non faccio strategie. Poi però, stranamente, i personaggi che disegno finiscono per imparentarsi senza che me ne sia accorto. Il fatto è che tutte le mie canzoni sono una sorta di affreschi pittorici, sono immagini…»
Come sempre nei suoi dischi, non c’è aderenza esplicita con l’oggi, il presente. Del futuro invece non parla mai?
«Credo che noi artisti siamo già proiettati per nostra natura nel futuro. Ma non credo sia necessariamente una qualità. Anzi, talvolta può essere sbagliato arrivare un attimo prima».
In Italia ai cantautori (a patto che possa chiamarli così) non si perdona mai la «non-appartenenza» politica. A lei sì. Come lo spiega?
«Ce ne ho messo a convincerli… Alla fine hanno capito che ero in buona fede, che ciò che mi interessa è il rispetto per l’arte. L’arte non va accesa con altre fiamme, perché l’arte stessa in modo invisibile già comunica i suoi significati».
Nell’album ci sono canzoni d’amore spassionato (come l’intensissima «L’amore che», scelta per la scaletta del concerto sinfonico) o l’enigmatica e altisonante «Leggenda e popolo». Sembra che lei, signor Conte, abbia perduto qualche inibizione…
«È vero, stavolta mi sono lasciato andare. Mi son detto: perché contenermi sempre? Ed ecco ad esempio Leggenda e popolo, un pezzo sulla donna, o sulla madonna, o sulla patria, non so, ma sicuramente un pezzo esagerato, così come è esagerato il romanticismo di L’amore che…»
C’è anche un brano dal titolo «Danza della vanità». Conte, lei è vanitoso?
«Non lo escludo. Ogni tanto una bella cravatta o un buon profumo me li concedo. Ma è per sedurre me stesso, allo specchio».

venerdì 5 settembre 2008

l'Unità 5.9.08
Gelmini: via 87mila insegnanti
Il ministro dell’Istruzione «benedice» i tagli di Tremonti. I sindacati: sarà scontro

HA PARLATO dai microfoni di Radio anch’io snoccialando una per una le scelte di politica scolastica scritte nel decreto. Ha smentito il blitz sul maestro unico sostenendo che «le proposte erano le stesse» di quelle presentate a fine agosto. Neppure per un attimo ha difeso la scuola che dovrà governare: il ministro Mariastella Gelmini ha «sposato» la scure Tremonti sull’Istruzione senza battere ciglio. Senza minacciare le dimissioni come faceva persino Letizia Moratti. «L’obiettivo del governo Berlusconi - ha detto ai telespettatori di Radiouno - è raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2011». Della serie, perché meravigliarsi se la scuola e chi la frequenta (studenti, insegnanti e bidelli) ne faranno le spese? «Si parla tanto di tagli alla scuola - ha precisato la ministra -. Ma siamo soddisfatti così com’è?. È un taglio che vuol dire 87mila posti in meno in 3 anni, il 7% della spesa, ha sottolineato senza un fremito. E subito si è alzato di parecchio il tiro di scontro con le parti sociali. Tant’è che Enrico Panini, segretario della Flc-Cgil dice: «La Gelmini tenta di rassicurare, in realtà alimenta ulteriormente l’esigenza di una forte e dura iniziativa di mobilitazione e di lotta». Mentre il Cobas fissa il primo sciopero: 17 ottobre. Contro il maestro unico.
Microfoni aperti, oltre 3000 e-mail dei radioascoltarori. Quesiti nel merito vengono posti anche dal professor Giuseppe Bertagna, dal ministro ombra Maria Pia Garavaglia e dal responsabile della Uil-scuola Massimo Di Menna. In tutt’Italia, genitori e insegnanti sono con l’orecchio incollato alla radio. Ma la Gelmini sembra muoversi come un’elefante in una cristalleria. «Non possiamo far finta che le cose funzionino e condannare il paese ad una scuola senza futuro. Se essere conservatori vuol dire tornare alla scuola del decoro e dell’ordine, allora io sono una conservatrice - dice -. Perché sono per una scuola che tratti i ragazzi non come scatole vuote. La qualità non si migliora con più ore di lezione e più soldi». E subito dopo «attacca» la compresenza in aula per la restaurazione. «Strana scelta quella del modulo alle elementari - ha aggiunto la responsabile dell’Istruzione -: fu introdotta nel momento in cui diminuivano gli alunni». Per poi sentenziare: «L’Italia è diventata il regno dei progettifici e della multidisciplinarietà. Occorre tornare invece ad insegnare bene la matematica, l’italiano: poche cose ma bene, come accade negli altri paesi del mondo. I nostri insegnanti lo sanno fare». Dunque, ecco pronta la sua ricetta per dimagrire con grande benificio sul risparmio: maestro unico. «Perché pagare 3 insegnanti per una scuola primaria che funziona bene con uno solo? - ha sottolineato più volte il ministro -. Noi vogliamo garantire libertà di scelta alle famiglie. Si toglie solo la compresenza degli insegnanti in classe, ma non verrà meno il tempo pieno. Anzi, lo aumenteremo e lo miglioreremo senza spendere più soldi. Il governo Berlusconi si rende conto che molte madri lavorano». E la domanda di Mario da Arezzo che si professa di centrosinistra e vuole sapere come il ministro intende «selezionare» gli insegnanti della primaria, resta inascoltata. La Gelmini preferisce rispondere al quesito sul sostegno, promettendo che il rapporto resterà quello di un insegnante ogni due aluni diversamente abili. Per Panini, segretario della Federazione dei lavoratori della conoscenza, la Gelmini «dice cose non vere». Tempo pieno: «in realtà lo cancella». Maestro unico: «Infondata l’esigenza pedagogica: le indagini internazionali danno risultati opposti a ciò che sostiene la ministra». E ci va duro anche Francesco Scrima, il segretario della Cisl-scuola: «Giù le mani dall’elementare. Quella riforma non è nata da politiche occupazionali». ma.ier.

l'Unità 5.9.08
Lo scandalo Ssis. Gli «abilitati» senza futuro
Dodicimila abilitati. Ma non insegneranno mai
di Maristella Iervasi

Tutti quelli finiti sul binario morto hanno speso tremila euro. Per niente
17.830 neo prof nel limbo, se si sommano anche i circa 6mila aspiranti maestri e altre figure

Sul comodino la Critica della ragion pura di Kant, accanto alla macchinetta del caffè un memorandum tenuto fermo da una ranocchia-calamita: «9 settembre, incontro con il supervisore per il tirocinio. 2 ottobre: manifestazione nazionale dei sissini del IX ciclo: Roma-Miur».
E giù in basso, l’augurio di un amico: «Credici, sei già un prof. La giustizia vincerà». Patrizio Giustetto, 29 anni, torinese, è uno degli 11.830 studenti universitari delle scuole di specializzazione per la formazione dell’insegnamento secondario (Ssis). Il prossimo maggio otterrà l’abilitazione in Filosofia. Il suo sogno, fin dalla maturità classica.
Ma per lui, come per tutti gli altri specializzandi del corso biennale 2007-2008, l’accesso alle graduatorie è negato.
Oltre 11mila aspiranti docenti sul binario morto. Che salgono a 17.830 neo prof nel limbo, se si sommano anche i circa 6mila aspiranti maestri elementari e docenti d’arte e musica tagliati fuori dall’«elenco» delle graduatorie su supplenze e cattedre.
Le Ssis furono istituite nel 1990 (con la legge 341) e sono presenti in tutt’Italia, una per regione. Sono a tutt’oggi l’unica via per ottenere l’abilitazione all’insegnamento. Gli Atenei organizzano corsi biennali con diverse classi di abilitazione. Un concorso che non è all’acqua di rose: solo chi passa la prova di ammissione ha l’obbligo di frequentare per un biennio il corso della classe prescelta: circa 1.200 le ore di lezione con tirocinio nelle scuole e laboratori. Una media di 35 esami e un costo a testa per studente che si aggira sui 3mila euro a biennio. Fino all’ottavo ciclo tutto più o meno fila liscio. Poi, gli intoppi e il limbo per gli aspiranti prof. A farne le spese, gli ammessi all’ultimo biennio ancora in corso.
L’amara sorpresa ad iscrizione effettuata dopo l’uscita del IX concorso (l’ultimo bandito) e dopo una prima spesa tra i 40 e i 100 euro solo per partecipare all’ammissione. «La frequentazione alla Ssis abilita ma non garantisce l’inserimento nelle graduatorie permanente diventate nel frattempo ad esaurimento», c’era scritto nel bando. Una discriminazione bella e buona rispetto ai precedenti corsi biennali di formazione, che cade sulla testa di chi vuole intraprendere la carriera di prof.
Ma cos’era accaduto? 2007 governo Prodi, ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, dell’Università Fabio Mussi. Si vogliono eliminare le graduatorie permanenti e riscrivere un nuovo sistema di reclutamento per i docenti. Dopo le proteste e le manifestazioni, le graduatorie non vengono abolite ma «chiuse» col lucchetto e trasformate ad esaurimento. Nel frattempo, del nuovo sistema di reclutamento non c’è traccia. Tuttavia nell’estate viene ancora una volta attivato un nuovo corso Ssis, il nono, e analoghi: Scienza della formazione primaria per i maestri, Cobaslid per l’arte e didattica della musica. Risultato: ad oggi ci sono oltre 18 mila futuri insegnanti nel limbo. Non solo. Si stabilisce per decreto anche l’attivazione di un nuova sessione Ssis per il 2008-2009, la decima. Il tutto perché è allo studio una riforma. Ma poco dopo, il governo cade.
Berlusconi IV risale Palazzo Chigi. In Viale Trastevere siede l’avvocato Mariastella Gelmini che non fa nulla per sanare la posizione dei sissini del nono ciclo ad un passo dall’abilitazione. Esprime solo un pesante giudizio: «Le scuole di specializzazione - dichiara - sono solo fabbriche di precari» e sospende il decreto sul X° Ssis per altri 11mila posti. Poi manda in Gazzetta Ufficiale le disposizioni urgenti in materia di istruzione e università, in cui ci infila anche il maestro unico per la scuola primaria. Niente, non una riga per le Ssis. Continua ad ignorare chi è finito nel limbo.
Michelle Di Giusto frequenta il secondo anno del biennio del nono ciclo Ssis per la classe di concorso di lingua. Vorrebbe insegnare spagnolo e invece è costretta fare lezione di italiano agli immigrati per pagare l’affitto di casa. «Lavorare e fare la Ssis è faticoso. Pago 1500 euro di tasse all’anno all’Ateneo di Torino - racconta -. Negli altri paesi le Ssis non sono così care e durano appena un anno. Nei periodi bui, tra costi di libri, dispense, spese per i laboratori, i miei genitori mi aiutano. Ma non posso continuare a pesare su di loro». Anche lei, come Patrizio Giustetto, verrà a Roma, per protestare sotto il Miur e il ministero dell’Istruzione. «Non avevamo scelta - racconta -. Per chi vuole intraprendere la carriera di prof l’abilitazione è fondamentale. La Ssis resta l’unica via obbligata. Ma è un’ingiustizia tagliarci fuori solo perchéè arriviamo dopo gli altri 8 cicli. Non c’è stata alcuna riforma sul reclutamento, abbiamo fatto gli stessi sacrifici, lo stesso percorso di studi, le stesse scelte per un futuro in cattedra. Eppure a noi ci viene negato il diritto di autoconsiderarci docenti - conclude -. La nostra abilitazione deve avere effetto retroattivo. Anche per noi l’accesso alle graduatorie. Apritele!».

Repubblica 5.9.08
Bufera sulla Gelmini per il breve trasferimento nel 2001
"Andò a Reggio Calabria solo per superare l´esame ora il ministro si dimetta"
I Giovani avvocati: e pensare che attacca i docenti del Sud. Il Pd: non è più credibile

ROMA - Un trasferimento dalla natia Brescia a Reggio Calabria. Un breve cambio di residenza nel 2001 al solo scopo di superare l´esame da avvocato nella regione con la più alta percentuale di promozioni. L´episodio ritorna sulle pagine dei giornali, dalla Stampa al Corriere della Sera al Venerdì. E sul ministro dell´Istruzione Mariastella Gelmini infuriano le polemiche, tra critiche per l´escamotage e richieste di dimissioni. «È nota a tutti l´enorme difficoltà di diventare avvocati, visto che a livello nazionale solo il 35,40% dei candidati riesce a abilitarsi. Tuttavia è davvero incredibile - sostiene il presidente dei giovani avvocati, Gaetano Romano - che a utilizzare la scorciatoia del trasferimento sia stata proprio colei che ha sottolineato la mancanza di preparazione di una parte degli insegnanti italiani che si trasferiscono al Nord». Sul fronte politico Alberto Losacco del Pd accusa il ministro di «predicare bene e razzolare male» e, come Antonio Borghesi dell´Idv e Franco Corbelli leader del movimento Diritti Civili, chiede che si dimetta: «Non ha più credibilità: la grande fustigatrice che invoca meritocrazia, è la stessa che per superare l´esame da avvocato è scesa a Reggio dove, come è noto, l´esame lo superano praticamente tutti».

l'Unità 5.9.08
Veronesi: ridare dignità alla morte
intervista di Luca Landò

«La morte della persona coincide con la morte di un organo preciso, il cervello. Quando non c'è più attività cerebrale, non c'è più nulla di quello che caratterizza la nostra vita umana: non c'è più pensiero, né memoria, né emozioni». Così il professore Umberto Veronesi risponde all’Osservatore Romano. E sul testamento biologico, Veronesi oggi senatore del Pd e ministro ombra alla Sanità, spiega che serve per ridare dignità alla morte.
Il Pd che si divide sul testamento biologico, il Vaticano che prende le distanze dall’Osservatore Romano sulla morte cerebrale, la Regione Lombardia che contesta la decisione dei giudici sul caso Englaro: benvenuti nel caos. O forse benvenuti in Italia. Perché negli stessi giorni in cui la Spagna, in Andalusia, si prepara a varare una legge per "il diritto a una morte dignitosa" (come fanno da tempo Francia, Inghilterra, Danimarca, Germania, Stati Uniti, Canada) da noi si litiga senza decidere nulla. Davvero in Italia è così difficile affrontare i temi che riguardano la vita e la morte? Davvero è così complesso discutere di leggi che, più di altre, toccano la coscienza di ogni singolo cittadino?
Umberto Veronesi, ex ministro della Sanità, oncologo e oggi senatore del Pd, non ha dubbi: "E’ quello che accade quando si mischiano i ruoli, quando si confonde il campo della bioetica con quello della scienza. Quando chi parla non sa e chi sa non può parlare. E questo avviene perché non esiste una legge che dica, chiaramente, quali sono le regole".
Il caso dell’Osservatore Romano è esemplare: con un articolo pubblicato martedì scorso la storica Lucetta Scaraffia, vicepresidente dell’associazione Scienza e Vita e componente del Comitato Nazionale di Bioetica, sostiene che la dichiarazione di morte cerebrale non è più sufficiente per affermare che la vita è finita. Un’affermazione impegnativa, in aperto contrasto con i criteri alla base della medicina dei trapianti.
«Il punto è che la bioetica dovrebbe disinteressarsi delle minuziose definizioni degli eventi che la scienza porta con sé. Definire quale sia il vero momento della morte è molto difficile. Un tempo si diceva che un cuore che batte era segno di vita. Da quarant’anni sappiamo che non è così. Se prendo un cuore umano e lo metto in coltura, cioè in condizioni adeguate, continua a battere anche al di fuori del paziente. Lo stesso per un rene: se lo collego a una macchina continua a filtrare sostanze tossiche e a produrre urina. Agli organi non interessa da dove arriva il sangue, se dalle vene del paziente o da una pompa artificiale: basta che continuino a ricevere ossigeno, acqua, sali minerali. Da un punto di vista biologico questi organi sono vivi, ma questo significa che la persona che li ha donati è ancora viva? Direi proprio di no. La morte della persona coincide con la morte di un organo preciso, il cervello. Quando non c’è più attività cerebrale, non c’è più nulla di quello che caratterizza la nostra vita umana: non c’è più pensiero, né memoria, né emozioni. Questo non l’ho stabilito io, ma il famoso Protocollo di Harvard».
Una delle obiezioni a questa impostazione è che esistono casi di risveglio da situazioni di coma.
«Anche qui regna la confusione. Il punto chiave è il concetto di irreversibilità. E questo spetta alla neurologia non alla bioetica. Sono i neurologi che devono dire se una persona in coma si trova in una situazione transitoria, dalla quale potrà riprendersi, oppure se ha imboccato una strada senza uscita. Esistono definizioni standard condivise da tutti i medici: un paziente può riprenderdsi bene da un coma se si risveglia nel giro di 15 giorni, il risveglio diventa invece raro quando passano da un mese ad un anno e quasi impossibile oltre un anno. Nel secondo caso si parla di stato vegetativo persistente, nel terzo di vegetativo permanente. Sono i neurologi, che in base alle loro conoscenze devono riconoscere le differenze tra il secondo e il terzo caso, capire cioè se siamo in una situazione permanente e irreversibile».
Come il caso Englaro?
«Certamente. Perché se è quasi impossibile il risveglio dopo uno o due anni, figuriamoci dopo 16 come la povera Eluana. Una vicenda drammatica che ha mostrato l’importanza di una legge che non c’è: un vuoto che tutti vedono e tutti denunciano ma che va colmato nel modo giusto. A fine luglio, prima che chiudessero le Camere, ho presentato un progetto di legge sul testamento biologico molto semplice ma molto chiaro in cui si permette a una persona, come diceva Luca Goldoni, di "decidere, quando c’è ancora la luce, di andare via quando la luce non ci sarà più". La mia proposta, che si aggiunge a quella già presentata da Ignazio Marino, va proprio in quel senso. E funziona così: una persona consegna un testamento a una persona di fiducia, un familiare o un amico intimo. Il quale è il tutore della volontà di quella persona: se a questa accade qualcosa, è il fiduciario che va dal medico a difendere, con la forza del documento firmato, le volontà del paziente che si trova in uno stato vegetativo permanente. Questa volontà riguarda anche l’interruzione dell’alimentazione e l’idratazione artificiale e prevede anche l’obiezione di coscienza da parte dei medici. I quali, tuttavia, sono tenuti a trasferire il caso a un collega».
Con questo testamento il caso Englaro non sarebbe nato.
«Sì, perché la mia proposta precisa che, se il paziente non vuole essere tenuto in stato di vegetazione permanente bisogna interrompere ogni intervento esterno, non solo le terapie, ma anche l’alimentazione e l’idratazione».
Proprio quello che la Regione Lombardia ha detto di non voler fare.
«E quello che avviene quando non c’è una legge: ciascuno fa come vuole. Con il paradosso che se i genitori di Eluana andassero in Germania o in Svizzera il problema non si porrebbe».
Emigrare per morire...
«È assurdo. Eppure dico che piuttosto che avere una cattiva legge, che impedisce di affrontare e risolvere i problemi, è meglio continuare come adesso. Piuttosto che avere una legge che ingabbia e imbriglia, come la legge 40 per la fecondazione assistita, è meglio lasciare le cose come stanno».
Una delle critiche mosse dal mondo cattolico è che il testamento biologico potrebbe aprire le porte all’eutanasia.
«Sono due argomenti totalmente differenti. Il testamento biologico riguarda una persona che non è in più grado di esprimere le sue volontà. L’eutanasia è l’opposto: riguarda il malato terminale che, in condizioni irreversibili di guarigione e destinato a morire in breve tempo, chiede di essere sollevato dalla sofferenza. È quello che avviene in Olanda dove è stata definita una legge che autorizza, in casi precisi di malattia terminale, di ricorrere all’eutanasia. Ogni anno in Olanda ci sono 10.000 malati terminali che chiedono di poter interrompere la propria vita. Di queste richieste ne vengono accolte 2-3000 l’anno: le altre vengono rifiutate perché non esistono le condizioni (il paziente non era terminale o la sua volontà era influenzata da uno stato depressivo) o perché nel frattempo il paziente è deceduto. Questo è quello che avviene in Olanda, dove il tema dell’eutanasia è stato accettato dall’opinione pubblica».
Una volta lei disse che negli ospedali italiani l’eutanasia si fa ma non si dice.
«Non lo dico io, lo dicono gli esperti di terapie palliative, sostenendo che c’è un tacito accordo per affrontare i casi più disperati di sofferenza. E di solito la soluzione è quella del "Paziente inglese", come in quel film dove un malato gravissimo, non potendo nemmeno più parlare, fa un cenno all’infermiera di aumentare la dose di morfina. E’ quello che si chiama il "doppio effetto", cioè l’uso di farmaci analgesici a dosi sempre maggiori: il primo effetto è togliere il dolore, il secondo quello di accelerare la fine».
In questo modo però il peso della scelta è tutto sulle spalle del medico. Non sarebbe meglio una legge come in Olanda?
«Non lo so e a dirla tutta non mi interessa. Un po’ perché l’Italia non è preparata a un passo del genere. E un po’ perché mi trovo d’accordo con Montanelli che si diceva a favore dell’eutanasia ma non ne voleva parlare perché "questa burocrazia della morte mi dà un po’ fastidio". Diciamo che non sono favorevole all’eutanasia, ma sono favorevole a discuterne. La morte è un evento altrettanto importante e necessario della nascita. Anzi, è un dovere. L’organismo nasce e deve morire per far spazio alle nuove generazioni. Dobbiamo affrontarla con serenità, la morte. Io dico sempre che vorrei godermi la mia morte perché è un atto di cui sono consapevole e che accetto: ho tanti figli, ho tanti nipoti e capisco che devo mettermi da parte e lasciare spazio agli altri. Questa è la consapevolezza che permette di discuterne liberamente. Se invece la morte viene vista come la massima punizione, come "il peggiore di tutti i mali", allora si finisce per rimuovere il problema senza mai affrontarlo. Ma si commette un errore: perché in questo modo si perde un aspetto importante della propria esistenza. E si rischia, come diceva Evtuschenco, di "morire prima di morire"».

l'Unità 5.9.08
Chi ferma i trapianti
di Giovanni Berlinguer

I progressi rapidi e tumultuosi della biologia e della medicina, che aprono nuove strade alla conoscenza e al miglioramento della vita, portano con loro molte incertezze, speranze, discussioni. Soprattutto in Italia, c’è una forte tendenza a restringere gli spazi delle libertà personali: lo ha dimostrato la legge sulla procreazione assistita, che ha creato più ostacoli che possibilità; lo sottolinea l’abuso del direttore sanitario della Lombardia, Carlo Lucchina.
È Lucchina che vuole obbligare i medici a violare le decisioni giudiziarie riguardanti la tormentata storia di Eluana Englaro. In questo clima l’Osservatore Romano ha pubblicato mercoledì 3 settembre, con somma evidenza, l’articolo della prof. Lucetta Scaraffia, docente di storia contemporanea a Roma. Esso è basato sulla recensione di due libri che riguardano la morte cerebrale, i trapianti e la fine della vita, autori Paolo Becchi e Roberto De Mattei, che la Scaraffia ha interpretato come antitetici rispetto ai criteri che da 40 anni (dichiarazione di Harvard) guidano le ricerche e le applicazioni sui trapianti in ogni parte del mondo.
L’articolo giunge alla conclusione che il concetto di «morte cerebrale» deve essere reinterpretato e integrato, e che inoltre «si aprono nuovi problemi per la Chiesa cattolica». Su quest’ultimo punto, non vi è dubbio che un problema sia sorto: quello di correre ai ripari dopo aver scritto che «la morte cerebrale non è la morte dell’essere umano», dopo aver dubitato che «la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo», dopo aver affermato che tutto ciò «sarebbe in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della chiesa nei confronti del coma persistente».
Nelle ore e nei giorni successivi innumerevoli esponenti del Vaticano, a partire dal portavoce del Papa, padre Federico Lombardi, si sono affaticati per dichiarare pienamente valido il criterio di accertamento della morte, basandosi anche sul discorso pronunciato nell’agosto scorso da Giovanni Paolo II al Congresso mondiale della Transplantation society (e ricordato da Ignazio Marino): «I criteri di accertamento della morte, che la medicina oggi utilizza, non sono da intendere come la percezione tecnico-scientifica del momento puntuale della morte della persona, ma come una modalità sicura, offerta dalla scienza per rilevare i segni biologici della già avvenuta morte della persona».
Poco dopo si sono pronunciate in piena coerenza le istituzioni e i soggetti satelliti: il centro di Bioetica dell’Università cattolica dichiarando che l’articolo della Scaraffia «contiene inesattezze e rischia di confondere situazioni tra loro differenti», il Movimento per la vita sottolineando che «l’autrice si è lasciata guidare da una resistenza emotiva contro l’espianto di organi per i trapianti», e l’onorevole Paola Binetti affermando che «non c’è alcun elemento di natura bioetica o scientifica per cambiare opinione. Il magistero della chiesa rimane quello».
Ho seguito finora la cronaca; ma non vorrei trascurare due considerazioni. Una nasce dalla validità persistente e benefica del rapporto di Harvard che parte dal concetto di «morte cerebrale», a differenza di un’idea minimalista: essa supponeva una garanzia sufficiente nella perdita delle funzioni corticali, non di tutto il cervello. Così proponeva anche H.T.Jr Hengelhard (Manuale di bioetica, Milano 1991), basandosi sull’idea che «la persona non è definita dalla mera persistenza delle funzioni biologiche», se mancano l’autocoscienza e la razionalità: due concetti significativi sul piano psicologico e fisiologico, ma forieri di scelte soggettive e di prevedibili arbitri.
Aggiungo però che la stessa «morte cerebrale» non è esaustiva, rispetto alle garanzie attuali. Lo hanno testimoniato tre autorevoli laici «doc» in questi giorni. Carlo Defanti, con l’affermazione che è meglio parlare di «punto di non ritorno», più che di morte cerebrale; Maurizio Mori, che ha auspicato «una più approfondita riflessione in tutte le questioni, avendo di mira l’ampliamento delle libertà individuali e la tutela delle persone»; Umberto Veronesi, che insiste giustamente sul fatto che le decisioni, se possibile, devono essere anticipate: da ciò la campagna a favore del «testamento biologico», come espressione esplicita delle proprie volontà in caso di sopravvenuta incapacità di intendere e di volere: cosa che accade in moltissimi paesi ed è ancora negata agli italiani.
La seconda considerazione è una domanda: quali inconvenienti e quali danni hanno prodotto questi giorni di polemiche? I trapianti di tessuti e di organi costituiscono uno dei progressi più straordinari della terapia e della solidarietà umana, e anche per questo richiedono attenzione, coerenza, equilibrio e un costante impegno. Esso in Italia si realizza grazie ai servizi sanitari e al Centro nazionale trapianti diretto da Alessandro Nanni Costa, che ha raggiunto tra i livelli più alti in Europa. Fra le molte difficoltà che incontrano in Italia l’equità e la qualità della prevenzione e dell’assistenza sanitaria e sociale, vi sono anche esperienze esemplari che possono essere di guida.

l'Unità 5.9.08
A proposito del fondatore de «l’Unità», oggetto di un dibattito a Firenze tra il ministro Bondi e Vincenzo Cerami. Perché ci serve
Gramsci non è un santino, ma un pensatore di domani. Teniamolo sul desk, non nel cassetto
di Bruno Gravagnuolo

Come era prevedibile, e anche ragionevole aspettarsi, Vincenzo Cerami, scrittore, sceneggiatore e responsabile culturale Pd, ha precisato il senso delle sue parole su Gramsci, quelle pronunciate a Firenze alla Festa, in un dibattito con Sandro Bondi, Ministro della cultura del centrodestra. Ieri su l’Unità infatti, Cerami ha chiarito che non era sua intenzione «scaricare» il pensatore sardo, o chiuderlo semplicemente in un cassetto. Bensì quella di ribadirne il carattere di «punto di partenza etico fondamentale per una concezione alta della politica». Pur nell’invito a guardare oltre, ai problemi di una società che è ben altra rispetto al fascismo. E anche rispetto al nostro dopoguerra e agli anni di Pasolini (figura che Cerami collega in qualche modo a Gramsci).
Dunque guardare oltre Gramsci. Magari con l’esempio etico di Gramsci, ma «oltre». Al presente e al futuro in atto, segnati per Cerami da «una profonda e inedita trasformazione». In particolare, spiega, «dalla nuova classe degli impoveriti, una classe che i linguisti chiamerebbero sincretica». Insomma, sembra dire Cerami, Gramsci è senz’altro «vitale» come padre e antenato. Ma è un po’ inadeguato a parlare ai figli.
Prendiamo atto della puntualizzazione, che tra l’altro ha il merito di sottrarre Gramsci ai cosmetici tentativi della destra di annetterselo (prima An a Fiuggi, poi Bondi e Cicchitto, e la velleità disperata vorrà pur dire qualcosa!). E tuttavia il ragionamento non ci persuade. Troppo generico. Troppo «onore delle armi»...per intendersi. Troppa storicizzazione affrettata. E poco scavo nel merito. Nessuna distinzione «di ciò che è vivo e ciò che morto», per fare davvero i conti con Gramsci, senza farne un santino, o un nobile progenitore e basta.
E allora perché Gramsci? E che significa ancora - se qualcosa significa - per la sinistra, per l’Italia, per l’oggi? Proviamo a rispondere in breve, in guisa di appunti e augurandoci che la discussione prosegua. Ebbene, Gramsci non fu puramente uno scrittore o un testimone d’eccezione del tempo (come Pasolini). Fu un grande scienziato politico, oltre che uomo eroico e dirigente di partito. Comprese nei Quaderni alcune cose modernissime, di domani! Ad esempio, «l’interdipendenza mondiale» alla base delle tre «modernizazioni del suo tempo»: quelle totalitarie,comunista e fascista, e quella rooseveltiana. Comprese il ruolo egemone dell’«americanismo», all’insegna del fordismo e destinato a prevalere a livello planetario. E intuì che dentro le mutazioni «mondiali» dell’«economico-sociale», i «blocchi sociali» si trasformavano. Le gerarchie cambiavano. E si formavano «gruppi dirigenti» nuovi, che «egemonizzavano» e scomponevano i vecchi ceti sociali, dall’alto in basso e viceversa. Rinsaldando o rinnovando i precedenti assetti, e cooptando i ceti deboli e subalterni all’interno delle innovazioni produttive.
Anche Gramsci, come Marx, vedeva «gli impoveriti», l’«esercito di riserva», i «flessibili» si direbbe oggi. Ma li vedeva destinati a fungere da combustibile passivo di massa, nel motore delle rivoluzioni produttive del 900. Attorno a questo processo Gramsci scopriva poi le mentalità, le «forme simboliche», le ideologie, il folklore, gli stili di vita. Tutto quello che dà senso alla «soggettività» in una società di massa. Il progetto di Gramsci? La critica della subalternità al potere, la liberazione dell’individualità nella politica, intesa come linguaggio di un partito «intellettuale collettivo» sempre in fieri (democratico e non dispotico). Il suo (dal carcere!) era il lavoro della «contro-egemonia». Per liberare gli impoveriti, il lavoro e i subalterni. Dalla corazza ideologica dell’avversario.
Dunque ecco perché Gramsci non appartiene affatto solo ai padri. Ma esattamente ai figli che sogniamo liberi. Teniamolo sul «desk», non nel cassetto.

Corriere della Sera 5.9.08
Civiltà La storia straordinaria della musica tzigana, dall'invenzione del flamenco alle danze ungheresi
Gitani, mille anni al suono del violino
Senza patria, ma con una tradizione che ha influenzato Debussy
di Michele Farina

«Il buon re persiano Bahrâm, commosso dai sudditi che reclamavano musica alla maniera dei ricchi, ottenne dal suocero che viveva nell'alta valle del Gange l'invio di 12.000 musici. Il re diede loro di che vivere coltivando la terra: un asino, un bue e mille carichi di grano ciascuno. Ma un anno dopo se li vide ricomparire ridotti alla fame, perché si erano accontentati di mangiare i buoi e il grano. Irritato, il sovrano consigliò loro di mettere corde di seta agli strumenti, saltare sugli asini e andarsene a vivere della loro musica». Questa leggenda iraniana del X secolo — spiega Alain Weber nel suo Viaggio musicale dei Gitani (Ricordi editore) — favolosamente narra le circostanze di quella che potrebbe essere stata la prima tappa dell'esodo Rom dall'India all'Occidente. Un esodo lento ed errabondo cominciato prima dell'anno Mille, che spingerà «la tribù profetica dalle pupille ardenti » (Baudelaire) a disseminarsi e a seminare tra il Mediterraneo e l'Europa le note «contaminate» della sua cultura meticcia.
Non hanno lasciato libri e filosofie ma un ibrido universo di suoni, danze, acrobazie, incantesimi buoni per addomesticare il cobra reale e a volte gli esseri umani, il mondo degli stanziali spesso diffidenti verso questa gente straniera girovaga e scura («Quando Dio creò lo Tzigano, lo mise su una tavola al sole e il sole brillò a lungo »). Una «scia di seduzioni»: Weber dipinge i Rom come «precursori dei fenomeni di fusione musicale, dal jazz alla world music». Da Debussy in estasi per il violinista zingaro del Caffè Ungheria alla chitarra di Django Reinhardt ai ritmi di Goran Bregovic. Dal jazz manouche
ai 400 gruppi che suonano ogni estate al festival serbo di Guca (300 mila spettatori) dedicato alla tromba e alle fanfare. Dai motivi Gondhali dell'India centrale all'Andalusia del gitano Tío Luis, classe 1715, il primo cantore conosciuto di flamenco.
Flamenco da «flama», fiamma. «Fusion» come combustione di tradizione e improvvisazione, locale ed esotico. I Rom popolo «glocal » ante litteram? Li chiamiamo gitani, tzigani, zingari, gipsy, bohémien: in mille anni i Rom hanno avuto tanti nomi e nessuna patria. Kowlî per i persiani (da kâbulî, originario di Kabul), nel Nord dell'India sono accomunati alle khanabadosh, le caste erranti. Rom deriverebbe da Dom (in origine «tamburo»), casta di Intoccabili dedita alla fucina («come il Diavolo »), alla musica e alla tessitura. Suonatori e fabbri in una babele di sottogruppi: Bansphor (fabbricanti di impalcature di bambù) e Hatyara (cacciatori di cani feroci), cordai, tamburinai e Bahuroopia (da bahu, molti), attori di strada che interpretavano più personaggi simultaneamente. Erano Dom i responsabili della cremazione dei defunti sul Gange, come pure la sottocasta dei boia Jallad.
Una ricchezza di radici per un mondo che oggi rischia di restare francobollato da una parte all'immagine negativa dei «campi Rom», dall'altra al «gitano» come etichetta di un certo «etnico» di massa. Insomma, marginalità sociale nelle periferie italiane e danza del ventre per turisti nei cabaret di Istanbul, cronaca nera e il flamenco di Joaquín Cortés. Sullo sfondo di desolanti cliché, il libro di Weber (promosso dalla seconda edizione del festival MiTo Settembre Musica, in corso a Milano e Torino) ridà colore e profondità all'epopea tragica e irridente di un popolo «il cui unico destino fu il viaggio».
Non esodo compatto e mirato, piuttosto una disseminazione (a piccoli gruppi) che in mille anni ha sparso tracce dal Gange all'Andalusia, da Luxor al Danubio. Ecco le danzatrici egiziane ghawâzí con il profondo décolleté e la cintura dorata che già incantarono il ventottenne Flaubert: «Il loro modo di girare su se stesse colpendo con il piede la superficie del bancone — spiega Weber — non può non richiamare le giravolte della danza kâlbeliá del Rajasthan, o lo schiocco di talloni del flamenco». Tre ballerine ai tre angoli del mondo, la stessa matrice. «La maggior parte degli artisti popolari tradizionali del mondo arabo, mediterraneo e balcanico sono Rom». Sono i gitani a comporre le orchestre militari turche che percorrono l'Europa dell'Est dal XVI secolo e che finiscono per propiziare l'emergere delle fanfare contadine. In Romania a inizio '900 si conoscevano 50 gruppi Rom: dai Kalderash (stagnini) agli Ursarii (ammaestratori di orsi riconvertiti all'intaglio di pettini in corno). Vi brillano i Lautari, virtuosi del liuto e del violino, affrancati dalla condizione di musici schiavi a partire dal '700. È alla fine di questo secolo che si sposta in Russia la «tziganomania». Ogni principe ha il suo complesso. Con la Rivoluzione d'Ottobre gli tzigani scappano in seguito alla proibizione bolscevica del nomadismo (e alla fine dell'aristocrazia), prima che in Germania le leggi coercitive della Repubblica di Weimar facciano da preludio alla follia nazista (oltre 200.000 Rom sterminati nei lager). In quegli anni il celebre violinista Jean Gulesco aveva già chiuso il suo straordinario vagabondare: dal palazzo dello zar Nicola II a Berlino, da Istanbul alla Parigi dei cento cabaret come il Montechristo e lo Shéhérazade.
Oggi quasi tutti i Rom sono ancorati in qualche luogo. Adesso sono loro gli stanziali, mentre noi giriamo low-cost. Al nostro mondo globale è riuscito quello che non riuscì a Maria Teresa d'Austria, quando nella seconda metà del '700 tentò di imporre agli tzigani fissa dimora in Ungheria: «Potranno far musica solo quando non avranno da fare nei campi». Figurarsi. Come per i 12.000 musici alla corte del re persiano Bahrâm, nel vecchio mondo vivere per i Rom era spostarsi, asini e musica, era la maledizione che un'antica maga lanciò a Tchen, figlio di un capotribù sulla riva del Gange: «Tu e la tua gente non berrete mai due volte dallo stesso pozzo».

Repubblica 5.9.08
Le Carré: accuso l'Occidente che cancella i diritti civili
di Irene Bignardi

LONDRA Diceva John le Carré, qualche anno fa, ai tempi del suo bel libro sullo strapotere delle multinazionali farmaceutiche, Il giardiniere costante, che a spingerlo a raccontare era la Alterszorn, la rabbia dei vecchi. Ora che John le Carré di anni sta per compierne settantasette, seppure in grande forma, la sua Alterszorn è diventata semplicemente «rabbia».
La rabbia che prova il grande romanziere della guerra fredda (e non solo) di fronte contro il dramma delle migrazioni, la politica delle multinazionali, la minaccia del terrorismo usato come arma di pressione per imporre una nuova forma di colonialismo, l´etica distorta dagli imperativi politici di fronte alla confusione del presente. E siccome John le Carré, nella vita David Cornwell, elegante e pacato gentiluomo britannico, osservatore attentissimo delle vicende politiche, è, appunto, un narratore, ha trasfuso questa sua rabbia in una storia, nutrendola delle sue esperienze e dei suoi ricordi, e ha costruito in Yssa il buono, il suo ventunesimo libro, un romanzo tanto avvincente quanto terribilmente possibile (Mondadori, pagg. 345, euro 18,60), che esce in Italia prima ancora che in Gran Bretagna.
Sullo sfondo della sua bella, intima casa di Hampstead, John le Carré fa una cosa che, spiega, è inconsueta per lui, elencare gli elementi che sono andati a combinarsi nel suo nuovo romanzo - o, come dice lui, le cose che ha infilato nel suo Ruecksack, nel suo zainetto. Prima i personaggi. «Yssa. Ho conosciuto qualcuno molto simile a lui venti anni fa, in Russia, mentre facevo ricerche per La passione del nostro tempo, che si svolge in parte in Cecenia. Era un ragazzo, musulmano, figlio di un ufficiale russo e di una donna cecena che lui non aveva mai conosciuto, e, come Yssa, nutriva nei confronti del padre, che aveva usato violenza alla madre, un odio profondo. Quel ragazzo, con la sua purezza, con il suo estremismo morale, è rimasto lì, nella mia memoria, per vent´anni, come certi personaggi costretti ad aspettare di entrare in scena, e che a un certo punto saltano su, e occupano tutto lo spazio».
Poi c´è lei, Annabel, la ragazza, il giovane avvocato che si batte per la causa dei diritti civili degli immigrati. «Ho avuto la fortuna di incontrare una giornalista tedesca che si è occupata del caso di Murat Kurnaz, un turco tedesco e formatosi a Brema, che a un certo punto del suo percorso umano è diventato profondamente religioso. Dopo l´11 settembre Murat Kurnaz si è trasferito in Pakistan per approfondire il suo studio dell´Islam.
«Aveva diciannove anni quando a Karachi è stato arrestato dalla polizia pakistana perché il suo nome era su una lista di ricercati in quanto aveva frequentato la stessa moschea di Atta. È stato ceduto dai pakistani agli americani per tremila dollari, torturato a Kandahar da una squadra americana, ne è quasi morto, poi è stato spedito a Guantanamo e ha passato lì quattro anni e mezzo. Finché è emerso che era perfettamente innocente. Ora è in Germania. E ha scritto un libro sconvolgente, Five Years of My Life. Quando l´ho conosciuto era appena tornato da Guantanamo. E la mia amica giornalista stava girando un documentario per la televisione tedesca sulla sua vita. È stata lei a invitarmi a conoscerlo. Una ragazza molto carina, un´idealista, che, come Annabel, cercava di negare la sua femminilità con un modo di vestire deliberatamente triste. Vedendo la loro interazione ho cominciato a pensare al mio Yssa e ho trasformato lei in Annabel».
Il terzo personaggio chiave è un banchiere inglese che David Cornwell ha conosciuto anni fa a Vienna, molto simile al Tommy Bruer del libro. «Era il presidente di una banca privata e cercava sempre di convincermi ad aprire un conto segreto. Non c´è mai riuscito. E ci rimaneva male, perché voleva i miei soldi come un segno di fiducia. Beveva e la banca non andava tanto bene.
«Un romantico di mezza età, come tanti uomini, specialmente nei servizi segreti, che vanno in pensione a sessant´anni e improvvisamente realizzano di non aver mai veramente vissuto per rispetto delle convenzioni. Anche lui si è depositato in qualche mondo nella mia memoria. Anche Tommy, come Annabel, come Yssa, ha avuto un padre ingombrante. Tutti e tre vivono e si comportano secondo norme che hanno ereditato. E sì, nel libro mi sono identificato con lui, e ho creato un triangolo immaginario».
Poi c´è, quarto personaggio, Amburgo. «Io ho una lunga storia con la Germania. Amburgo é la città dove sono stato spedito a fare brevemente il console quando il Foreign Office ha scoperto che avevo scritto La spia che venne da freddo e ha ritenuto opportuno allontanarmi da Bonn. Per caso, poi, ero ad Amburgo con mia moglie l´11 settembre, negli uffici della Deutsche Rundschau, davanti a un televisore, a vedere in dvd dei materiali su Rudi Dutschke negli anni ´60 e ´70. Gridava un messaggio che non si può non condividere: "Dobbiamo costruire un ponte tra chi ha troppo e chi non ha nulla". Poi ho ricevuto una telefonata dalla mia segretaria che mi diceva di accendere la televisione. E ho passato il pomeriggio incollato davanti alle Torri distrutte e alla faccia di Osama. Forse per questo nella mia testa si è stabilita una connessione tra il messaggio di Dutschke e quella sorta di anarchia antimodernista che è al centro della dottrina islamica più estremista. Amburgo è una città dalle mille identità. La città da cui è partito Mohammed Atta. La città di Ulriche Meinhof. Una città piena di fermenti politici, dove si avverte la particolare sensibilità dei tedeschi, una reazione probabilmente al passato nazista, ai diritti umani. E sullo sfondo, un paese che ha 800mila cittadini di origine turca, quattro milioni di turchi senza cittadinanza a cui la Germania chiede disperatamente di integrarsi e che hanno difficoltà culturali a farlo. Insomma, tutto mi riconduceva lì, a costruire attorno a Yssa una storia di pregiudizi, di complotti, di sospetti, l´immensa paura dell´altro».
Ad Amburgo, racconta ancora le Carré, è basata Flucht Punkt, un´organizzazione diretta da due donne a cui si rivolgono gli immigrati «quando arrivano disperati in Germania e aspettano di essere cacciati di nuovo. Mi hanno accolto, mi hanno presentato a un loro assistito ceceno. È stato così, collegando una cosa all´altra, punto dopo punto, che ho messo insieme il libro».
Dove, attorno al triangolo composto da Yssa, Annabel e Tommy Bruer, c´è un´affollarsi di servizi segreti in competizione, di polizie, di profittatori, di capitali più o meno sporchi, di gente che vuol farsi bella scoprendo l´ennesimo - e forse inesistente - complotto islamico.
«Provo una grande rabbia per come le democrazie occidentali stanno smantellando i diritti civili e la struttura stessa della democrazia. per difenderla. Gli inglesi in particolare hanno fatto dei gravissimi strappi al loro sistema costituzionale - anche se da noi non esiste costituzione, è tutta pragmatica. Ora si può mettere dentro una persona per sette settimane, quarantadue giorni, senza motivazione. E gli americani hanno ingannato se stessi, come racconta Jane Mayer in un libro sconvolgente, The Dark Side. La rottura dei diritti costituzionali messa in atto dagli Stati Uniti è stata decisa in silenzio, nel panico del dopo 11 settembre, da un piccolo circolo di persone che hanno immaginato i metodi per torturare la gente e per sottrarsi alla convenzione di Ginevra ancor prima di avere una sola persona da torturare, mettendo in campo tutte le forme di tortura - meno il sangue, perché siamo persone ben educate - dal waterboarding ai metodi di cui ancora non sappiamo niente per condurre la gente fino al punto della follia. È difficile crederlo: siamo qui, all´inizio del 21esimo secolo, a cercare il modo di introdurre dei sistemi medievali di tortura. Ma sono fermamente convinto che questi sistemi non riguardano tanto la ricerca delle informazioni quanto una forma di vendetta. Il sospetto è per definizione colpevole, e deve soffrire per quello che è stato fatto alla dignità e alla sicurezza americana».
Lui, David Cornwell, da ex «agente segreto», e quindi come uno che in passato ha condotto numerosi interrogatori, pensa che «non c´è niente di più stupido che estrarre informazioni con la tortura. Non è mai stato un mezzo produttivo. Costringi qualcuno a fare una finta confessione, ne ottieni nomi falsi, false informazioni, qualsiasi cosa pur di fermare la tortura. È molto più fruttuoso interrogare con pazienza, con umanità, con comprensione, creare delle alleanze».
E intanto si parla di una nuova guerra fredda. «Non è una nuova guerra fredda. Sono i detriti della prima. La Georgia è governata da un signore che ha studiato in America. L´esercito georgiano è equipaggiato dagli americani, con il sostegno di Israele. Con una forma di diplomazia irresponsabile gli americani hanno messo in testa a Shakashvili l´illusione che avrebbe potuto combattere i russi - e che non ci sarebbe stata una reazione. Ma la sensibilità dei russi sul Caucaso è sempre stata enorme. L´iniziativa è stata presa dai georgiani, che hanno ucciso, violentato, assassinato».
«Adesso stiamo prendendo un atteggiamento nobile: siamo tutti georgiani, ha detto McCain. Ma perché? Perché il petrolio muove tutto. È guerra fredda perché la Russia può aprire e chiudere il rubinetto del petrolio quando vuole? Non è la guerra fredda, è la frenesia delle grandi potenze per trovare risorse... Vuole sapere se sono nostalgico della guerra fredda? Sì, sono nostalgico della guerra fredda. Perché a quei tempi avevamo delle speranze per il giorno in cui sarebbe finita e avremmo ricostruito il mondo. Perché i contendenti si muovevano all´interno, grosso modo, dello stesso sistema culturale. Ora il potere si sta spostando verso Est e capiamo sempre meno i nostri interlocutori. No, è difficile vedere vie d´uscita».

il Riformista 5.9.08
Nel Pd non gira un'idea che sia una
Dall'egemonia all'insignificanza Il vero guaio del Partito democratico
è ormai la sua afasia culturale
di Biagio De Giovanni

Ipnotizzato da Berlusconi, dal berlusconismo e soprattutto dall'antiberlusconismo, il centrosinistra italiano non sembra essersi reso conto non dico dell'entità della sconfitta subita, ma del carattere periodizzante delle elezioni di aprile e delle radicali novità di storia politica che esse comportano. Per la prima volta tutte le forze che hanno governato la Prima Repubblica sono state collocate all'opposizione; per la prima volta, una coalizione di centrodestra, senza confini a destra se non marginali, governa l'Italia, priva anche del contributo di alcuni eredi della Dc; per la prima volta, nella storia dell'Italia democratica, un grande partito di centrodestra in formazione (la Dc era tutt'altra cosa) si va radicando nella società, e sviluppa i tratti di una sua cultura politica e si colloca in una reinterpretazione dei canoni più consolidati della stessa storia repubblicana, a muovere dal senso dello Stato unitario, ricostituendo le linee di una sua nuova e inedita legittimazione.
Quante cose stanno accadendo per la prima volta! Dinanzi a questo terremoto culturale e politico, sicuramente di portata storica, sul fronte opposto dominano scarsa consapevolezza della posta in gioco, poco coraggio di interrogare l'Italia e se stessi, e ci si divide tra un fragile gioco di rimessa e una persistente analisi paragiudiziaria del berlusconismo, visto o come una clamorosa e provvisoria(!) eccezione, o come causa ed effetto di una mucillagine sociale - che Berlusconi ha magari contribuito a produrre e che lo riproduce moltiplicato per mille - dentro la quale si vanno disperdendo i "valori" di una comunità nazionale ed emerge la "vitalità" dell'Italia peggiore. Di una analisi storico-politica non sembra che si avverta il bisogno. Su questo fronte, a parte la differente eleganza e complessità delle argomentazioni, si ritrovano insieme Eugenio Scalfari e Furio Colombo, e mi scuso con il fondatore di Repubblica per questa semplificazione che tuttavia non mi pare inappropriata. Non parlo di Antonio Di Pietro, che la sua piccola rendita la realizza proprio nella diagnosi indicata e dunque non può che riprodurla per naturale istinto di sopravvivenza.
In questo quadro, la difficoltà del centrosinistra appare anzitutto culturale, come avviene sempre quando la crisi di una forza politica è talmente profonda da toccare la struttura intima del suo sistema ideale. Il Partito democratico ha commesso un clamoroso errore nell'immaginare di poter nascere, come è stato detto, «perché il Novecento è finito», e dunque i vecchi sistemi di idee potevano semplicemente andare in soffitta. La verità è che essi erano attraversati pur sempre da un senso della storia e germinavano da una dialettica storica e politica che dava corpo e sostanza alle forze esistenti. Perché nella "melassa conflittuale" del Partito democratico non gira una idea? Forse perché, vichianamente, «natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise», e se quel partito ha deciso di nascere mettendo insieme delle oligarchie almeno in parte stanche e sconfitte, rinunciando a costruire un processo autocritico di rilettura della storia d'Italia e della propria funzione nazionale, il risultato non poteva essere granché diverso. Veltroni ha provato a dare una scossa, ma si è come fermato a mezz'aria, bloccato da che cosa? Un elemento è nella sottovalutazione della strategia avversaria, di quella capacità del centrodestra di trasmettere una visione dell'Italia, di mettersi in sintonia, insieme, con gli strati più vitali e aggressivi e quelli più tradizionalisti (l'Italia peggiore nella rappresentazione di Eugenio Scalfari), in un quadro rozzo e profondo, demagogico e penetrante, parolaio e decisionista, ma capace di rimettere in discussione idee che sono state cardini della storia repubblicana. La raffinata sinistra perde il confronto proprio sulle idee, dopo aver dominato in lungo e in largo, attraverso di esse, l'Italia repubblicana? Sarebbe un bel contrapasso, ma è proprio così che si stanno svolgendo le cose. Il centrosinistra è senza idee, è come lo stanco erede di se stesso, disunito e conflittuale non sulle idee ma sulle microlotte di potere al proprio interno.
Il centrodestra sembra invece avere una visione dell'Italia, e a modo suo la porta avanti. Ha mandato in soffitta la questione meridionale, e quella decisiva rappresentazione della storia d'Italia che ha fatto perno su di essa. Il Mezzogiorno oggi dibatte sul federalismo fiscale. La questione settentrionale indica un'altra direzione alla storia d'Italia: la "rozza" Lega (ma si può star tranquilli: Colombo ci ricorda di non aver mai stretto la mano a Calderoli) ha deciso, con genuino istinto politico, le priorità di questa agenda, che costituisce un altro modo di leggere la formazione della coscienza nazionale e un'altra risposta al dualismo italiano. Il revisionismo storiografico (che non appartiene, certo, esaustivamente a un campo politico, ma che è comunque segno di una sensibilità una volta inconsistente) sta lavorando ai fianchi la lettura mitica della Resistenza e anche della Costituzione, mettendo in discussione l'enorme patrimonio di egemonia accumulato nella Dc e nel Pci per cinquant'anni. Si va incrinando il corporativismo sindacale, e si mostra che il re è nudo: il paese più sindacalizzato d'Europa - risultato del compromesso Dc-Pci - è quello con i salari più bassi d'Europa e con la strage pressocché quotidiana delle morti bianche. Alla visione di Giulio Tremonti sulla globalizzazione, al netto di tutte le ironie che si è tirato dietro, non corrisponde molto sul piano opposto se non spesso una vaga melassa cosmopolita. E si potrebbe naturalmente continuare.
Nessuno è in grado di prevedere, certo, quale fisionomia avrà l'Italia alla fine della legislatura. Ma sarà assai diversa da quella attuale, e al centrosinistra servirà un Tony Blair - dopo, mutatis mutandis, Berlusconi-Thatcher - per riprendere il filo di un proprio discorso con questa Italia che la "cultura" del centrodestra (posso utilizzare questa parola senza scandalo a sinistra?) avrà certamente contribuito a cambiare. Per ora, questa figura non si intravede, come non si intravede l'abbozzo di una nuova cultura politica, ma se non dovessero, prima o dopo, quella figura e quella cultura irrompere sulla scena politica, sarà difficile ridurre i tempi di una lunga separazione del centrosinistra italiano dall'Italia reale.