Repubblica 12.1.19
Ragazzi, imparate l’amore (e il sesso) da Catullo
di Maurizio Bettini
Il
recente boom del latino, la festa per la Notte dei licei classici, una
nuova edizione delle sue opere che arriva in libreria: ecco perché
riscoprire il poeta adorato da Yeats e da una schiera di fan che va dai
filologi ai pornografi
Teste calve, ignare ormai dei propri
peccati!» scriveva William Butler Yeats, il grande poeta irlandese. Ce
l’aveva con gli studiosi di Catullo. Com’è possibile, lamentava, che
versi scritti «nei loro letti» da giovani amanti, diventino materia
inerte sotto il microscopio dei professori? Povero Yeats. Non poteva
immaginare che in un futuro non lontano a Catullo sarebbe toccata una
sorte ben più paradossale. Allontanate le teste calve, infatti, sulle
sue poesie si sono chinate quelle di voyeur, fantasisti (chiamiamoli
così), perfino pornografi. E dunque, che ne è stato del canzoniere
d’amore e d’invettiva più celebre della poesia latina? Vediamo.
Ci
si poteva aspettare che il «passero», quello che muore all’inizio della
raccolta, fosse alternativamente interpretato come il sesso di Lesbia o
quello di Catullo. Più scioccanti risultano però le elucubrazioni
suscitate dall’«unguento» che le Veneri in persona avevano donato a
Lesbia (omettiamo per decenza i dettagli corporei). Ed ecco Lesbia, il
grande amore e l’ancor più grande dolore di Catullo. Il lettore si
rassicuri: in realtà non è mai esistita. Si tratterebbe solo di una
maschera, a cui il poeta avrebbe attribuito un carattere "saffico" (non a
caso è descritta come sessualmente attiva) e un nome che evoca pratiche
erotiche libertine: la «donna di Lesbo».
Interrompiamo la goffa
rassegna, che in verità sarebbe assai più lunga. Basterà dire che si
accoglie quasi con sollievo l’idea che l’immagine catulliana del «fiore
virginale» sia stata ispirata dalla lettura del Cantico dei Cantici.
Criticamente una stupidaggine, certo, ma che almeno non sa di lupanare. E
dunque, che cosa è successo al povero Catullo dai tempi di Yeats?
Ha
subìto la stessa sorte di altri testi poetici antichi. Dai quali ormai
c’è ben poco da spremere — i millenni di studi li hanno resi esangui —
ragion per cui bisogna inventare. E siccome siamo nell’era dello scoop,
soprattutto erotico, tanto vale spararle grosse. Per nostra fortuna
l’Italia sembra restare immune da simili bizzarrie. Ma soprattutto,
sempre nel nostro Paese, Catullo ha appena ricevuto in dono un’opera che
ampiamente lo risarcisce dei torti ricevuti.
Stiamo parlando di
Gaio Valerio Catullo, Le poesie, a cura di Alessandro Fo, dapoco edito
da Einaudi. Il fatto è che — a dispetto delle "attualizzazioni" di
pornografi e fantasisti — il libro di Catullo è un testo che dista da
noi oltre due millenni: come tale non solo è irto di trappole dovute a
una lunga trasmissione manoscritta, ma è reso spesso ambiguo dal forte
scarto che ci separa dalla cultura romana. Per redigere un commento che
renda conto di simili difficoltà, dunque, occorre essere prima di tutto
filologi consumati. Non va neppure dimenticato, però, che Catullo è un
poeta straordinario. Non ha scritto soltanto versi da letto, come voleva
Yeats, ma versi di delicata amicizia, di invettiva giocosa o
arrabbiata, versi mitologici degni dell’alessandrinismo più elegante,
versi decisamente (e volutamente) enigmatici: e versi in cui
l’amore-passione ha trovato una delle voci più schiette e indiscutibili
che l’abbiano mai cantato, tra la gioia e la disperazione. Catullo
infatti Lesbia l’ha amata davvero. Questo significa che per tradurre le
sue poesie bisogna essere non solo latinisti ma, contemporaneamente,
poeti. In un caso come questo la lingua d’arrivo, come la chiamano i
traduttologi, non può essere solo piana e corretta, ma deve sorgere dal
bagaglio di chi conosce a fondo le voci della poesia italiana — e
soprattutto si richiede il possesso, in proprio, di un talento poetico. E
Alessandro Fo lo possiede. Chi dunque vorrà o dovrà misurarsi col
latino di Catullo, d’ora in avanti disporrà di un commento che lo
guiderà nel cammino difficile, a volte, dell’interpretazione; chi invece
desidererà solo leggere le poesie, in italiano, potrà farlo in una
lingua ricca, sfumata, agile, a volte perfino geniale nel gioco delle
corrispondenze con il latino. Per non parlare dell’astuzia con cui Fo,
nei propri versi, riproduce i ritmi della metrica originale (faleci,
esametri, scazonti …) in una forma "barbara" da lui già sperimentata
nell’ormai classica traduzione dell’Eneide. Anche se un conto è farlo
con l’esametro, un altro è riuscirci con i galliambi saltellanti in cui
Attis, seguace di Cibele, racconta la drammatica vicenda della sua
evirazione. Insomma, sui classici si lavora da duemila anni, lo abbiamo
detto, ostinarsi a darne nuove e sorprendenti interpretazioni può
condurre al ridicolo. E se invece, anche approfittando di questo libro, i
classici provassimo finalmente a leggerli? Per esempio, incominciate da
questi versi.
«Su viviamo, noi due, mia Lesbia, e amiamo / e i
mugugni dei vecchi troppo arcigni / tutti insieme stimiamoli uno
spicciolo. / Solo i soli si spengono e ritornano» (carme 5).
«Lui
mi sembra essere pari a un dio, / superar gli dèi (se non è profano), /
lui che, a te davanti, incessantemente / ti guarda e ascolta» (carme
51).
«Catullo, be’, che mora mai al morire, ormai? / Sta sul
seggio curúle Nonio il pustola, / Vatinio si sta spergiurando console: /
Catullo, be’, che mora mai al morire, ormai?» (carme 52).
«Odio e amo. Com’è che ci riesca forse ti chiedi. / Lo ignoro. Ma sento che riesce, e ci sto crocifisso» (carme 85).
«Per
molte genti e per molte distese vaste portato / eccomi a questi,
fratello, funebri riti infelici, / per farti dono di un ultimo, estremo
omaggio di morte / e per rivolgermi invano alla tua cenere muta» (carme
101).
«Minchia di montare si sforza il monte Pipleio: / a forconate lo piombano le Muse, a testa all’ingiù» (carme 105).
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 12 gennaio 2019
Corriere 12.1.19
«Passato e presente», un programma utile anche per le scuole
di Aldo Grasso
C’è da sperare che le scuole superiori utilizzino programmi come «Passato e presente» di Rai Storia (tra l’altro è facile accedervi attraverso RaiPlay). C’è da sperare che qualche professore capisca la grande utilità didattica di una trasmissione che, come poche altre, sa unire competenza e divulgazione. L’altrieri si parlava de «La ritirata di Russia», presente in studio il professor Marco Mondini. Una puntata da non perdere, per nessun motivo.
Quando nel 1941 le armate del III Reich invasero l’Unione Sovietica, Mussolini, alleato di Hitler, non volle restare a guardare e inviò sul fronte russo un corpo di spedizione di 60 mila uomini a cui si aggiunsero un anno dopo altri 220 mila soldati. Su quello che accadde ai soldati italiani dell’Armir abbiamo una ricca e preziosa memorialistica. I celebri libri di Nuto Revelli, di Mario Rigoni Stern, di Giulio Bedeschi hanno raccontato quella sfortunata impresa: mezzi insufficienti e risorse inadeguate all’enorme sforzo bellico furono alla base di una rovinosa disfatta che culminò in una drammatica e disastrosa ritirata.
Tra morti e dispersi il bilancio delle perdite fu di oltre 90 mila uomini. Noi, però, eravamo dalla parte degli invasori e la letteratura non ci salva dalle colpe. Il 19 dicembre del ‘43, nella valle del Don, fu dato alle truppe italiane l’ordine di ripiegamento: iniziò così la drammatica ritirata che, in qualche modo, ebbe una sorta di funzione catartica, esaltando l’umanità dei nostri soldati.
Il bilancio dell’operazione fu spaventoso, e l’Italia pagò un prezzo altissimo per la sua decisione di immischiarsi in quello che ancora oggi rimane il più grande scontro militare della storia. Lo pagarono soprattutto i reduci che in Italia furono trattati alla stregua di reietti. Anche la tv è utile per la comprensione del passato e del presente.
«Passato e presente», un programma utile anche per le scuole
di Aldo Grasso
C’è da sperare che le scuole superiori utilizzino programmi come «Passato e presente» di Rai Storia (tra l’altro è facile accedervi attraverso RaiPlay). C’è da sperare che qualche professore capisca la grande utilità didattica di una trasmissione che, come poche altre, sa unire competenza e divulgazione. L’altrieri si parlava de «La ritirata di Russia», presente in studio il professor Marco Mondini. Una puntata da non perdere, per nessun motivo.
Quando nel 1941 le armate del III Reich invasero l’Unione Sovietica, Mussolini, alleato di Hitler, non volle restare a guardare e inviò sul fronte russo un corpo di spedizione di 60 mila uomini a cui si aggiunsero un anno dopo altri 220 mila soldati. Su quello che accadde ai soldati italiani dell’Armir abbiamo una ricca e preziosa memorialistica. I celebri libri di Nuto Revelli, di Mario Rigoni Stern, di Giulio Bedeschi hanno raccontato quella sfortunata impresa: mezzi insufficienti e risorse inadeguate all’enorme sforzo bellico furono alla base di una rovinosa disfatta che culminò in una drammatica e disastrosa ritirata.
Tra morti e dispersi il bilancio delle perdite fu di oltre 90 mila uomini. Noi, però, eravamo dalla parte degli invasori e la letteratura non ci salva dalle colpe. Il 19 dicembre del ‘43, nella valle del Don, fu dato alle truppe italiane l’ordine di ripiegamento: iniziò così la drammatica ritirata che, in qualche modo, ebbe una sorta di funzione catartica, esaltando l’umanità dei nostri soldati.
Il bilancio dell’operazione fu spaventoso, e l’Italia pagò un prezzo altissimo per la sua decisione di immischiarsi in quello che ancora oggi rimane il più grande scontro militare della storia. Lo pagarono soprattutto i reduci che in Italia furono trattati alla stregua di reietti. Anche la tv è utile per la comprensione del passato e del presente.
La Stampa TuttoLibri 12.1.19
Per i prigionieri di Letterkenny la guerra finì tra mandolini e pallone
Le vicende dei soldati italiani internati in Pennsylvania che scelsero di cooperare in cambio ottennero una modesta paga, la possibilità di ricevere visite e uscire dal campo
di Giovanni De Luna
Nella seconda guerra mondiale, tra le decine di migliaia di soldati italiani catturati dagli americani ce ne furono moltissimi che riuscirono a vivere la loro prigionia in condizioni più che buone, soprattutto se confrontate con quelle in cui precipitarono i loro 600 mila commilitoni finiti nei lager tedeschi. In particolare, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il 70% dei 51.000 prigionieri presenti allora negli Usa accettarono volontariamente di collaborare, entrando nelle unità di servizio italiane (ISU) adibite a lavori utili per sostenere lo sforzo bellico degli americani. Tranne i pochi rimasti fedeli alla Repubblica sociale di Mussolini (4.727 in tutto), la stragrande maggioranza cambiò quindi status - da prigioniero di guerra a cooperatore - sottraendosi così alle ristrettezze previste dalla Convenzione di Ginevra e potendo fruire di una serie di vantaggi che andavano da una paga regolare, modesta, alla possibilità di ricevere visite e di uscire dai luoghi di detenzione. A ricostruirne la vicenda è ora un bel libro di Flavio Giovanni Conti e Alan R.Perry, Prigionieri di guerra italiani in Pennsylvania,1944-1945, che si occupa in particolare dei 1200 italiani detenuti nel campo di Letterkenny, nei pressi di Chambersburg: un enorme deposito di 6 chilometri quadrati dove venivano stoccati i rifornimenti da mandare al fronte, in Europa e nel Pacifico.
Intrecciando le loro testimonianze e attingendo ai loro ricordi, il libro ne ripercorre l’intera vicenda, seguendoli dal momento della cattura fino al ritorno in patria dopo la fine della guerra. Così, grazie anche una scavo archivistico imponente, emerge il ritratto corale di una comunità che attraversa anche situazioni poco piacevoli, (dovute all’astio delle associazioni combattentische di destra, in particolare l’American Legion, indignate per il modo in cui gli italiani venivano «coccolati»), ma che riesce ad ottenere i favori di larga parte dell’opinione pubblica americana grazie alla sua laboriosità e ai suoi comportamenti ineccepibili. I 1200 cooperanti di Letterkenny erano uno pezzetto d’Italia in cui si rispecchiavano - straordinariamente nitidi - molti dei caratteri originari che segnano la nostra identità collettiva. La passione per il calcio, ad esempio, fu un elemento di condivisione che portò non solo ad un affollato torneo interno al campo ma anche a partite come quella che, il 24 giugno 1945, una rappresentativa dei prigionieri giocò contro la Juventus di New York, vincendo anche 1 a 0. E poi, oltre alle scontate inclinazioni musicali, con il fiorire di bande e mandolini (la prima festa da ballo si tenne il 19 agosto 1944), un marcato dongiovannismo che provocò molti fidanzamenti, qualche avventura e lo scandalo dei benpensanti, marcatamente a disagio di fronte a questi scatenati seduttori. Su tutto però c’era il richiamo alla comunità e alla famiglia: si calcola che allora il 25% dei cooperatori di Letterkenny avesse dei parenti che vivevano nell’Est o nel Midwest degli Stati Uniti. E gli italoamericani li avvolsero in una rete di affetto e di solidarietà, aprendo le loro case, rispolverando le foto dei parenti lontani, proteggendoli e - loro sì - «coccolandoli».
Ma non era solo questo. Dai ricordi e dai documenti emerge il racconto di una italianità che si realizza soprattutto nella cura per il lavoro ben fatto, nella voglia di riscattare la propria condizione attraverso il fare, nell’orgoglio con il quale ci si identifica nelle mansioni svolte, anche le più umili (i cooperanti lavoravano alla manutenzione delle strade e del terreno, al carico e scarico delle tonnellate di rifornimenti che arrivavano con i treni merci). Tra il 1° maggio 1944 e il 31 gennaio 1946 fornirono 18 milioni di giornate lavorative; e di propria iniziativa costruirono - con materiale di recupero e fuori dall’orario normale di lavoro - una chiesa e un campanile, che oggi si preservano come simboli della loro tenacia. In fondo si trattò di una replica, su scala ridotta, di quanto avvenne nel nostro paese tra il 1945 e il 1948: una ricostruzione portata a termine in tempi brevissimi, rimboccandosi le maniche e grazie alla spinta di una voglia di vivere scaturita direttamente dai lutti e dalle sofferenze di cinque anni di guerra e venti anni di dittatura.
Alla fine, tra l’autunno del 1945 e i primi mesi del 1946, tutti i cooperanti di Letterkenny furono rimpatriati. Molti ritrovarono le loro famiglie e il loro lavoro. Altri soffrirono gli sbandamenti e i disagi dei reduci. Il 10% ritornò negli Usa come libero cittadino.
Per i prigionieri di Letterkenny la guerra finì tra mandolini e pallone
Le vicende dei soldati italiani internati in Pennsylvania che scelsero di cooperare in cambio ottennero una modesta paga, la possibilità di ricevere visite e uscire dal campo
di Giovanni De Luna
Nella seconda guerra mondiale, tra le decine di migliaia di soldati italiani catturati dagli americani ce ne furono moltissimi che riuscirono a vivere la loro prigionia in condizioni più che buone, soprattutto se confrontate con quelle in cui precipitarono i loro 600 mila commilitoni finiti nei lager tedeschi. In particolare, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il 70% dei 51.000 prigionieri presenti allora negli Usa accettarono volontariamente di collaborare, entrando nelle unità di servizio italiane (ISU) adibite a lavori utili per sostenere lo sforzo bellico degli americani. Tranne i pochi rimasti fedeli alla Repubblica sociale di Mussolini (4.727 in tutto), la stragrande maggioranza cambiò quindi status - da prigioniero di guerra a cooperatore - sottraendosi così alle ristrettezze previste dalla Convenzione di Ginevra e potendo fruire di una serie di vantaggi che andavano da una paga regolare, modesta, alla possibilità di ricevere visite e di uscire dai luoghi di detenzione. A ricostruirne la vicenda è ora un bel libro di Flavio Giovanni Conti e Alan R.Perry, Prigionieri di guerra italiani in Pennsylvania,1944-1945, che si occupa in particolare dei 1200 italiani detenuti nel campo di Letterkenny, nei pressi di Chambersburg: un enorme deposito di 6 chilometri quadrati dove venivano stoccati i rifornimenti da mandare al fronte, in Europa e nel Pacifico.
Intrecciando le loro testimonianze e attingendo ai loro ricordi, il libro ne ripercorre l’intera vicenda, seguendoli dal momento della cattura fino al ritorno in patria dopo la fine della guerra. Così, grazie anche una scavo archivistico imponente, emerge il ritratto corale di una comunità che attraversa anche situazioni poco piacevoli, (dovute all’astio delle associazioni combattentische di destra, in particolare l’American Legion, indignate per il modo in cui gli italiani venivano «coccolati»), ma che riesce ad ottenere i favori di larga parte dell’opinione pubblica americana grazie alla sua laboriosità e ai suoi comportamenti ineccepibili. I 1200 cooperanti di Letterkenny erano uno pezzetto d’Italia in cui si rispecchiavano - straordinariamente nitidi - molti dei caratteri originari che segnano la nostra identità collettiva. La passione per il calcio, ad esempio, fu un elemento di condivisione che portò non solo ad un affollato torneo interno al campo ma anche a partite come quella che, il 24 giugno 1945, una rappresentativa dei prigionieri giocò contro la Juventus di New York, vincendo anche 1 a 0. E poi, oltre alle scontate inclinazioni musicali, con il fiorire di bande e mandolini (la prima festa da ballo si tenne il 19 agosto 1944), un marcato dongiovannismo che provocò molti fidanzamenti, qualche avventura e lo scandalo dei benpensanti, marcatamente a disagio di fronte a questi scatenati seduttori. Su tutto però c’era il richiamo alla comunità e alla famiglia: si calcola che allora il 25% dei cooperatori di Letterkenny avesse dei parenti che vivevano nell’Est o nel Midwest degli Stati Uniti. E gli italoamericani li avvolsero in una rete di affetto e di solidarietà, aprendo le loro case, rispolverando le foto dei parenti lontani, proteggendoli e - loro sì - «coccolandoli».
Ma non era solo questo. Dai ricordi e dai documenti emerge il racconto di una italianità che si realizza soprattutto nella cura per il lavoro ben fatto, nella voglia di riscattare la propria condizione attraverso il fare, nell’orgoglio con il quale ci si identifica nelle mansioni svolte, anche le più umili (i cooperanti lavoravano alla manutenzione delle strade e del terreno, al carico e scarico delle tonnellate di rifornimenti che arrivavano con i treni merci). Tra il 1° maggio 1944 e il 31 gennaio 1946 fornirono 18 milioni di giornate lavorative; e di propria iniziativa costruirono - con materiale di recupero e fuori dall’orario normale di lavoro - una chiesa e un campanile, che oggi si preservano come simboli della loro tenacia. In fondo si trattò di una replica, su scala ridotta, di quanto avvenne nel nostro paese tra il 1945 e il 1948: una ricostruzione portata a termine in tempi brevissimi, rimboccandosi le maniche e grazie alla spinta di una voglia di vivere scaturita direttamente dai lutti e dalle sofferenze di cinque anni di guerra e venti anni di dittatura.
Alla fine, tra l’autunno del 1945 e i primi mesi del 1946, tutti i cooperanti di Letterkenny furono rimpatriati. Molti ritrovarono le loro famiglie e il loro lavoro. Altri soffrirono gli sbandamenti e i disagi dei reduci. Il 10% ritornò negli Usa come libero cittadino.
il manifesto 12.1.19
Togliattigrad soviet dream
Ultraoltre. Il progetto della città modello voleva essere una sintesi tra utopia comunista e socialismo realizzato. La Zigulì oggi esemplare da collezione. E un'intervista all'urbanista Guido Sechi esperto della transizione post-sovietica
di Yurii Colombo
MOSCA Se c’è una città russa che rappresenta il soviet dream questa è Togliatti. A 992 chilometri a sud est di Mosca sulla direttrice del Volga che via Samara conduce nel Kazachstan, Togliatti fino alla morte del dirigente comunista italiano (estate 1964) si chiamava Stavropol’. Poi Breznev nel 1966 la scelse per farla diventare il principale polo automobilistico dell’URSS. E per la partnership nell’impresa, come noto, venne scelta la Fiat ancora gestita per alcuni mesi da Vittorio Valletta. Una scelta in cui i fattori geopolitici dell’epoca ebbero una certa importanza, dando la possibilità al più grande partito comunista d’occidente di giocare un significativo ruolo di intermediazione proprio mentre la politica della distensione scioglieva i ghiacci della guerra fredda.
Si stava per avverare il sogno di molti cittadini sovietici di diventare proprietari di un autoveicolo – fino ad allora ad appannaggio di ristretti gruppi sociali privilegiati – status simbolo del consumismo e rappresentazione di un’industria serializzata basata sulla razionalità autoritaria della catena di montaggio. Lewis H. Siegelbaum, autore di una insuperata storia dell’industria automobilistica sovietica, ha sottolineato però come per molti versi l’automobile ad uso privato, fu solo la “scusa” per progettare una nuova città-modello che fosse la sintesi e il punto di equilibrio e di compromesso tra l’utopia comunista del 1917 e il “socialismo relizzato”. “Le automobili furono il pretesto per la costruzione di una “città socialista” nel cuore della Russia sovietica (Niznij Novgorod) e più tardi, negli anni ’60 e ’70, di una nuova città automobilistica sul Volga (Togliatti) ma non erano un elemento prominente nel design di quelle città o nelle vite degli operai dell’auto” sostiene lo studioso. Tuttavia appare esagerata la tesi di Siegelbaum l’idea che l’ostilità al consumo personale rimase un contrassegno indiscutibile dell’ideologia sovietica al punto di concentrare la propaganda solo sull’aspetto industriale e produttivo. Nella società sovietica con la prima generazione dei baby boomers del “disgelo” krusheviano si stava già facendo strada da tempo un idea di una soviet way of life in cui di privatizzazione del tempo libero, vacanze estive e naturalmente l’auto privata erano caratteri fondanti.
Molto entusiasmo provocava l’idea stessa che attorno a una fabbrica di ultima generazione che avrebbe prodotto 660mila auto l’anno (in primo luogo la fiat 124 ridenominata dai russi Zigulì) sarebbe sorta una città tutta nuova: da paesino di 10mila anime del dopoguerra Togliatti si sarebbe trasformata alla metà degli anni ’70 in una città di mezzo milione di abitanti. Tatiana, allora bambina trasferitasi con i genitori dalle vicine campagne, ricorda l’entusiasmo di allora: “Sentivamo di costruire qualcosa di meraviglioso. Tutti quanti, anche noi bambini sentivamo di fare parte del progetto”.
Lo sforzo fu enorme. Lavorarono alla costruzione dello stabilimento oltre 48mila persone tra operai, tecnici, ingegneri e studenti della gioventù comunista. Come viene raccontato in “Storia di Togliatti” giunsero “automobili, bulldozer, trattori, gru da 166 fabbriche del paese, materiali da costruzione da 200 imprese e 40 città”. Più di 1.150 fabbriche dell’URSS fornirono la materiali elettrici, vernici, strumenti e pezzi di ricambio.
Contemporaneamente si iniziò a costruire il mega quartiere “Autozavodkskij”: l’area destinata al progetto della “città da sogno” fu di ben 8893 ettari. La critica si è spesso appuntata, giustamente, sull’eccessiva standardizzazione dei quartieri sovietici basati su edifici prefabbricati e le esagerate dimensioni degli edifici dedicati alle attività sociali. Va però ricordato che erano previsti, anche a Togliatti, grandi spazi verdi per il tempo libero. Inoltre gli edifici residenziali a pannelli prefabbricati, garantirono la possibilità a molte coppie di mettere su famiglia rapidamente in un quadro sociale estremamente dinamico dove la popolazione aveva un’età media di 25 anni e fatto quasi unico in Urss, in controtendenza con i dati nazionali, dove il numero di uomini era superiore a quello delle donne. Crebbe così una città caratterizzata da ampie strade e da istituzioni sportive, culturali ed educative magniloquenti. Per l’architetto francese Faben Bella la città “assunse una sua unicità”. Quando il 19 aprile quando vennero prodotti i primi esemplari della versione russa della 124 Fiat, venivano assegnati anche i primi appartamenti dei nuovi edifici di “Autozavodkskij”, dando alla città una nuova immagine e dimensione.
Si trattò dell’ultima chiamata, riveduta e corretta, del millenarismo sovietico. In ciò si misurava anche tutta la distanza di prospettiva tra la classe operaia dell’automobile occidentale e quella russa. A Detroit i lavoratori neri e a Mirafiori i giovani operai meridionali, a cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 accendevano i fuochi della rivolta e del sabotaggio, all’interno di un crogiolo in cui condizione di fabbrica e social-abitativa si fondeva inestricabilmente. Di tutt’altro segno l’approccio dei giovani proletari russi che arrivarono a Togliatti: emigrati selettivamente da varie parti dell’Urss e armati di orgoglio nazionale produssero un enorme sforzo per realizzare l’ultimo “sogno socialista”. In questo senso la definizione di Togliatti come la “Detroit sul Volga” rappresentava una suggestione, un’aspettativa di mobilità sociale già morta in occidente e che sarebbe appassita di lì a poco anche in URSS. Togliatti comunque lungi dal diventare un “paradiso dei lavoratori” riprodusse i tipici fenomeni di alienazione e estraniazione legati alla vita della fabbrica fordista. Secondo un rapporto di polizia nei primi quattro mesi e mezzo del 1972, 2.690 persone erano state multate per essere “apparse in stato di ubriachezza in luoghi pubblici e 2073 erano state arrestate per atti di teppismo, sotto l’influenza dell’alcool”. Negli anni seguenti il fenomeno del furto di pezzi di ricambio nella fabbrica si trasformò rapidamente un vero e proprio vero business della criminalità locale che alla metà degli anni ’80 aveva ormai coinvolto la dirigenza dell’azienda, e di lì a poco, con la privatizzazione degli anni ’90, avrebbe consegnato per alcuni anni le chiavi della città alla mafia. Togliatti rimase periferica rispetto alle due capitali russe Mosca e Leningrado, in cui da sempre “si fa la storia”, anche negli anni turbolenti della perestrojka, ma vide però il sorgere di un grande sindacato combattivo dentro Autovaz, “Edinstvo”, ancor oggi operante.
Già alla fine degli anni ’70 Togliatti aveva quindi disatteso molte delle sue promesse. Il ristagno brezneviano con la sua carenza di capitali e di investimenti fecero di questa “città-fabbrica” l’ennesimo esempio di “socialismo irrealizzato”. Allora anche la ruota della dinamica sociale inesorabilmente si mise a girare al contrario: l’età media degli abitanti iniziò ad aumentare e le donne tornarono ad essere in sovrannumero rispetto agli uomini. Inefficienze e burocratismo ebbero ancora una volta la meglio: l’hotel che avrebbe dovuto sorgere accanto al centro commerciale “Vega”, ebbe bisogno di più di 50 anni per poter essere completato!
Ma il “sogno infranto”, seppure come semplice aura, è sopravvissuto. Quando un referendum negli anni ’90 propose il ritorno alla vecchia denominazione della città fu respinto con oltre il 70% dei voti. Togliatti resterà Togliatti fino al prossimo sogno.
LA ZIGULì OGGI UN ESEMPLARE DA COLLEZIONE
Il 19 aprile del 1970 dalla fabbrica Vaz di Togliatti, dopo tre anni di duro lavoro, uscirono i primi 6 fiammanti esemplari di auto modello “Lada 2101” (meglio conosciuto come Zigulì) una 124 Fiat modificata per il mercato russo, che sarebbero diventata il simbolo, nei decenni a venire, della motorizzazione di massa sovietica. Solo dopo 3 giorni dopo iniziavano a Mosca le celebrazioni per il centenario della nascita di Lenin, a simboleggiare un ponte lungo quanto la distanza tra le due città tra il passato socialista e il suo futuro.
Grazie alla collaborazione con i tecnici e ingegneri italiani la 124 venne adattata alle esigenze russe allargando e riscaldando maggiormente gli interni. Il motore era in grado di mettersi in moto al primo tentativo di accensione dopo una notte con temperature inferiori ai -25 gradi e anche la velocità massima fu accresciuta fino a 142 km / h.
Sin da subito la Zigulì venne proposta non solo sul mercato dei paesi dell’Europa Orientale (in Germania Est occorrevano lunghe attese, anche di anni, per ottenerla, mentre in Polonia la commercializzazione seguiva dei propri canali), a Cuba dove venne utilizzata principalmente per il servizio taxi ma anche in Europa occidentale (in Francia soprattutto).
La Zigulì esordì con un prezzo di 5620 rubli (circa 47,4 stipendi medi dell’epoca) contro gli 8500 dell’“ammiraglia” sovietica, la berlina “Volga”, ma solo i dipendenti della Vaz ebbero la possibilità di poterla acquistare a rate. La campagna pubblicitaria tendeva a proporre foto con giovani coppie dinamiche (in viaggio verso zone sciistiche o in località di mare) senza figli ma anche, sconfiggendo alcuni stereotipi, vennero proposte sui manifesti donne sole al volante.
Il successo fu indubbiamente ampio. Il problema più importante allora divenne quello del deficit dei ricambi mentre le stazioni di servizio, al di fuori di Mosca, erano delle vere e proprie chimere. Bisognerò attendere la perestrojka perché nascessero delle officine meccaniche private che andassero incontro alle esigenze dei guidatori. La Zigulì divenne inevitabilmente, in un paese dove si producevano non più di una dozzina di modelli di auto, un fenomeno del costume e della cultura: nel 1971 per la prima volta la Zigulì partecipò a un rally internazionale. Nei decenni le varianti sul modello base furono molte (diesel, furgonato, ecc.) e ne vennero prodotte complessivamente circa 5 milioni di esemplari fino al crollo dell’URSS. Paradossalmente tuttavia la produzione della Zigulì aumentò ancora negli anni ’90 e 2000 quando venne richiesta sempre di più dal mercato della provincia, data l’assenza di elettronica e il motore robusto la rendevano affidabile e durevole.
La Zigulì uscì di produzione solo nel 2011 dopo 41 anni di onorata carriera. Tuttavia in tutto l’ex URSS continuano a circolare molte di queste vecchie Fiat. E anche nelle grandi città russe dove ormai dominano le auto coreane, tedesche e americane la nostalgia per la vecchia auto sovietica è un fenomeno già divenuto collezionismo: gli esemplari ben tenuti costano sul mercato di seconda mano molte migliaia di euro.
INTERVISTA A GUIDO SECHI URBANISTA ESPERTO DELLA TRANSIZIONE POST-SOVIETICA
Guido Sechi è ricercatore presso il Dipartimento di Geografia Umana dell’Università della Lettonia. Studia in particolare le dinamiche sociali in ambito urbano e territoriale, con particolare riferimento alla transizione post-sovietica. Ora sta lavorando insieme al fotografo Michele Cera ad un progetto sulla trasformazione dello spazio pubblico nelle grandi città dell’ex URSS.
Quali erano le idee base che muovevano gli architetti sovietici nella progettazione di una vera e propria nuova città come l’Autozavodskij Rayon di Togliatti?
Nell’URSS degli anni ’60 l’idea della città pianificata non era nuova. Con le sue implicazioni ideologiche, utopistiche e simboliche, questa dimensione era stata un elemento rilevante dell’urbanistica sovietica fin dagli anni dell’avanguardia anni ’20. La prima città pianificata, Magnitogorsk, era sorta negli anni ’30 negli Urali come centro dell’industria metallurgica. Togliatti, e in particolare il distretto Avtozavodosky, rappresentò il caso più emblematico, per dimensioni e ambizione simbolica, di una seconda generazione di città pianificate. La fabbrica AvtoVAZ, grazie all’uso delle tecnologie Fiat, rappresentava un’innovazione notevole per l’industria sovietica mentre Avtozavodskiy, avrebbe dovuto nelle intenzioni rappresentare l’ideale di una città innovativa in grado di rispondere ai bisogni della società socialista.
Tuttavia, a differenza degli architetti e urbanisti costruttivisti degli anni ’20 mossi dall’ambizione di promuovere nuove soluzioni architettoniche e di pianificazione spaziale volte a plasmare nuove forme orizzontali ed egalitarie di relazione sociale, il team di architetti e ingegneri coordinato da Boris Rubanenko fu invece guidato soprattutto da un ideale di razionalità ed efficienza tipico del modernismo internazionale. Come conseguenza, urbanisticamente parlando, Avtozavodskij era piuttosto simile agli esperimenti di Le Corbusier e Niemeyer, Chandigarh e Brasilia, con enormi piazze, parchi e viali, destinati al trasporto pubblico e privato anziché a quello pedonale. Da un punto di vista architettonico, i due elementi caratterizzanti erano quelli dell’edilizia residenziale serializzata, organizzati in micro-distretti dotati di infrastrutture di servizio e spazi ricreativo-culturali, e di una significativa collezione di ambiziosi e imponenti edifici pubblici, pensati come spazi di interazione collettiva e landmark visivi, invece di un centro cittadino tradizionale.
E quali furono i risultati, quali divennero i caratteri peculiari urbanistici di Togliatti?
Si può dire che fin dall’inizio il progetto sia stato inficiato da elementi di rigidità: quella globale dei piani di produzione, e quella insita nella pianificazione tecnocratica e razionalista dall’alto. La prima era profondamente intrinseca al modello di pianificazione sovietico, la seconda invece è figlia anche delle tendenze internazionali in cui si inserisce la logica di Rubanenko e dei suoi collaboratori.
Dagli anni ’70 emersero gravi inefficienze dal punto di vista della fornitura degli alloggi e dei servizi dando luogo a temporaneo sovraffollamento abitativo e a carenza di infrastrutture commerciali, ricreative e culturali nei quartieri residenziali. L’edificio pubblico più ambizioso, la monumentale Casa della cultura, della scienza e delle arti (DKIT), fu ultimata solo nel 1988. È evidente che queste inefficienze hanno in gran parte compromesso l’ambizione di partenza della città innovativa, a misura d’uomo.
Per altri versi, il patto sociale tra capitale, lavoro e Stato, ha in qualche modo retto, plasmando un’identità cittadina che resiste ancora, grazie al ruolo rilevante della stabilità abitativa, del diritto alla casa ereditato dai tempi dell’URSS, dall’elemento unificante della fabbrica con tutto il suo bagaglio di promesse più o meno realizzate.
Quali sono oggi le prospettive per una città fabbrica come Togliatti?
La Togliatti post-sovietica ha i problemi sociali ed economici tipici di una città mono-industriale nell’era della globalizzazione capitalista. Il governo interviene con sussidi ma la città arranca sul piano socio-economico, della qualità della vita, delle prospettive. Togliatti ha il vantaggio, rispetto ad altre città di questo tipo, di essersi sviluppata attorno ad una fabbrica, ora avente la Renault per azionista di maggioranza, che rimane competitiva e la più importante della Russia nel settore. Ma i problemi e le rigidità derivanti dalla natura monoindustriale restano. Se la si confronta con altre città russe medio-grandi, Togliatti presenta statistiche preoccupanti per quanto riguarda la disoccupazione, la percentuale di popolazione povera, il salario medio. Per farsi un’idea della dipendenza della città da AvtoVAZ: il quartiere Avtozavodsky ospita circa 430mila abitanti, oltre la metà della popolazione della città. Di questi, 44mila circa lavorano nella fabbrica.
L’amministrazione locale, e regionale, sta cercando di promuovere il turismo sul Volga e gli investimenti esteri nella città, che costituisce una ‘zona economica speciale’.
Visitando Togliatti si ha la percezione, anche visiva, di una città fondamentalmente non globalizzabile, non gentrificabile. Sono sorte chiese (che non c’erano ai tempi dell’URSS), nuova edilizia residenziale, nuovi parchi, ma la struttura e l’impronta della città sono destinate a non modificarsi. Il che può essere visto allo stesso tempo come una conferma della rigidità irrimediabile della città e come un elemento identitario affascinante.
Togliattigrad soviet dream
Ultraoltre. Il progetto della città modello voleva essere una sintesi tra utopia comunista e socialismo realizzato. La Zigulì oggi esemplare da collezione. E un'intervista all'urbanista Guido Sechi esperto della transizione post-sovietica
di Yurii Colombo
MOSCA Se c’è una città russa che rappresenta il soviet dream questa è Togliatti. A 992 chilometri a sud est di Mosca sulla direttrice del Volga che via Samara conduce nel Kazachstan, Togliatti fino alla morte del dirigente comunista italiano (estate 1964) si chiamava Stavropol’. Poi Breznev nel 1966 la scelse per farla diventare il principale polo automobilistico dell’URSS. E per la partnership nell’impresa, come noto, venne scelta la Fiat ancora gestita per alcuni mesi da Vittorio Valletta. Una scelta in cui i fattori geopolitici dell’epoca ebbero una certa importanza, dando la possibilità al più grande partito comunista d’occidente di giocare un significativo ruolo di intermediazione proprio mentre la politica della distensione scioglieva i ghiacci della guerra fredda.
Si stava per avverare il sogno di molti cittadini sovietici di diventare proprietari di un autoveicolo – fino ad allora ad appannaggio di ristretti gruppi sociali privilegiati – status simbolo del consumismo e rappresentazione di un’industria serializzata basata sulla razionalità autoritaria della catena di montaggio. Lewis H. Siegelbaum, autore di una insuperata storia dell’industria automobilistica sovietica, ha sottolineato però come per molti versi l’automobile ad uso privato, fu solo la “scusa” per progettare una nuova città-modello che fosse la sintesi e il punto di equilibrio e di compromesso tra l’utopia comunista del 1917 e il “socialismo relizzato”. “Le automobili furono il pretesto per la costruzione di una “città socialista” nel cuore della Russia sovietica (Niznij Novgorod) e più tardi, negli anni ’60 e ’70, di una nuova città automobilistica sul Volga (Togliatti) ma non erano un elemento prominente nel design di quelle città o nelle vite degli operai dell’auto” sostiene lo studioso. Tuttavia appare esagerata la tesi di Siegelbaum l’idea che l’ostilità al consumo personale rimase un contrassegno indiscutibile dell’ideologia sovietica al punto di concentrare la propaganda solo sull’aspetto industriale e produttivo. Nella società sovietica con la prima generazione dei baby boomers del “disgelo” krusheviano si stava già facendo strada da tempo un idea di una soviet way of life in cui di privatizzazione del tempo libero, vacanze estive e naturalmente l’auto privata erano caratteri fondanti.
Molto entusiasmo provocava l’idea stessa che attorno a una fabbrica di ultima generazione che avrebbe prodotto 660mila auto l’anno (in primo luogo la fiat 124 ridenominata dai russi Zigulì) sarebbe sorta una città tutta nuova: da paesino di 10mila anime del dopoguerra Togliatti si sarebbe trasformata alla metà degli anni ’70 in una città di mezzo milione di abitanti. Tatiana, allora bambina trasferitasi con i genitori dalle vicine campagne, ricorda l’entusiasmo di allora: “Sentivamo di costruire qualcosa di meraviglioso. Tutti quanti, anche noi bambini sentivamo di fare parte del progetto”.
Lo sforzo fu enorme. Lavorarono alla costruzione dello stabilimento oltre 48mila persone tra operai, tecnici, ingegneri e studenti della gioventù comunista. Come viene raccontato in “Storia di Togliatti” giunsero “automobili, bulldozer, trattori, gru da 166 fabbriche del paese, materiali da costruzione da 200 imprese e 40 città”. Più di 1.150 fabbriche dell’URSS fornirono la materiali elettrici, vernici, strumenti e pezzi di ricambio.
Contemporaneamente si iniziò a costruire il mega quartiere “Autozavodkskij”: l’area destinata al progetto della “città da sogno” fu di ben 8893 ettari. La critica si è spesso appuntata, giustamente, sull’eccessiva standardizzazione dei quartieri sovietici basati su edifici prefabbricati e le esagerate dimensioni degli edifici dedicati alle attività sociali. Va però ricordato che erano previsti, anche a Togliatti, grandi spazi verdi per il tempo libero. Inoltre gli edifici residenziali a pannelli prefabbricati, garantirono la possibilità a molte coppie di mettere su famiglia rapidamente in un quadro sociale estremamente dinamico dove la popolazione aveva un’età media di 25 anni e fatto quasi unico in Urss, in controtendenza con i dati nazionali, dove il numero di uomini era superiore a quello delle donne. Crebbe così una città caratterizzata da ampie strade e da istituzioni sportive, culturali ed educative magniloquenti. Per l’architetto francese Faben Bella la città “assunse una sua unicità”. Quando il 19 aprile quando vennero prodotti i primi esemplari della versione russa della 124 Fiat, venivano assegnati anche i primi appartamenti dei nuovi edifici di “Autozavodkskij”, dando alla città una nuova immagine e dimensione.
Si trattò dell’ultima chiamata, riveduta e corretta, del millenarismo sovietico. In ciò si misurava anche tutta la distanza di prospettiva tra la classe operaia dell’automobile occidentale e quella russa. A Detroit i lavoratori neri e a Mirafiori i giovani operai meridionali, a cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 accendevano i fuochi della rivolta e del sabotaggio, all’interno di un crogiolo in cui condizione di fabbrica e social-abitativa si fondeva inestricabilmente. Di tutt’altro segno l’approccio dei giovani proletari russi che arrivarono a Togliatti: emigrati selettivamente da varie parti dell’Urss e armati di orgoglio nazionale produssero un enorme sforzo per realizzare l’ultimo “sogno socialista”. In questo senso la definizione di Togliatti come la “Detroit sul Volga” rappresentava una suggestione, un’aspettativa di mobilità sociale già morta in occidente e che sarebbe appassita di lì a poco anche in URSS. Togliatti comunque lungi dal diventare un “paradiso dei lavoratori” riprodusse i tipici fenomeni di alienazione e estraniazione legati alla vita della fabbrica fordista. Secondo un rapporto di polizia nei primi quattro mesi e mezzo del 1972, 2.690 persone erano state multate per essere “apparse in stato di ubriachezza in luoghi pubblici e 2073 erano state arrestate per atti di teppismo, sotto l’influenza dell’alcool”. Negli anni seguenti il fenomeno del furto di pezzi di ricambio nella fabbrica si trasformò rapidamente un vero e proprio vero business della criminalità locale che alla metà degli anni ’80 aveva ormai coinvolto la dirigenza dell’azienda, e di lì a poco, con la privatizzazione degli anni ’90, avrebbe consegnato per alcuni anni le chiavi della città alla mafia. Togliatti rimase periferica rispetto alle due capitali russe Mosca e Leningrado, in cui da sempre “si fa la storia”, anche negli anni turbolenti della perestrojka, ma vide però il sorgere di un grande sindacato combattivo dentro Autovaz, “Edinstvo”, ancor oggi operante.
Già alla fine degli anni ’70 Togliatti aveva quindi disatteso molte delle sue promesse. Il ristagno brezneviano con la sua carenza di capitali e di investimenti fecero di questa “città-fabbrica” l’ennesimo esempio di “socialismo irrealizzato”. Allora anche la ruota della dinamica sociale inesorabilmente si mise a girare al contrario: l’età media degli abitanti iniziò ad aumentare e le donne tornarono ad essere in sovrannumero rispetto agli uomini. Inefficienze e burocratismo ebbero ancora una volta la meglio: l’hotel che avrebbe dovuto sorgere accanto al centro commerciale “Vega”, ebbe bisogno di più di 50 anni per poter essere completato!
Ma il “sogno infranto”, seppure come semplice aura, è sopravvissuto. Quando un referendum negli anni ’90 propose il ritorno alla vecchia denominazione della città fu respinto con oltre il 70% dei voti. Togliatti resterà Togliatti fino al prossimo sogno.
LA ZIGULì OGGI UN ESEMPLARE DA COLLEZIONE
Il 19 aprile del 1970 dalla fabbrica Vaz di Togliatti, dopo tre anni di duro lavoro, uscirono i primi 6 fiammanti esemplari di auto modello “Lada 2101” (meglio conosciuto come Zigulì) una 124 Fiat modificata per il mercato russo, che sarebbero diventata il simbolo, nei decenni a venire, della motorizzazione di massa sovietica. Solo dopo 3 giorni dopo iniziavano a Mosca le celebrazioni per il centenario della nascita di Lenin, a simboleggiare un ponte lungo quanto la distanza tra le due città tra il passato socialista e il suo futuro.
Grazie alla collaborazione con i tecnici e ingegneri italiani la 124 venne adattata alle esigenze russe allargando e riscaldando maggiormente gli interni. Il motore era in grado di mettersi in moto al primo tentativo di accensione dopo una notte con temperature inferiori ai -25 gradi e anche la velocità massima fu accresciuta fino a 142 km / h.
Sin da subito la Zigulì venne proposta non solo sul mercato dei paesi dell’Europa Orientale (in Germania Est occorrevano lunghe attese, anche di anni, per ottenerla, mentre in Polonia la commercializzazione seguiva dei propri canali), a Cuba dove venne utilizzata principalmente per il servizio taxi ma anche in Europa occidentale (in Francia soprattutto).
La Zigulì esordì con un prezzo di 5620 rubli (circa 47,4 stipendi medi dell’epoca) contro gli 8500 dell’“ammiraglia” sovietica, la berlina “Volga”, ma solo i dipendenti della Vaz ebbero la possibilità di poterla acquistare a rate. La campagna pubblicitaria tendeva a proporre foto con giovani coppie dinamiche (in viaggio verso zone sciistiche o in località di mare) senza figli ma anche, sconfiggendo alcuni stereotipi, vennero proposte sui manifesti donne sole al volante.
Il successo fu indubbiamente ampio. Il problema più importante allora divenne quello del deficit dei ricambi mentre le stazioni di servizio, al di fuori di Mosca, erano delle vere e proprie chimere. Bisognerò attendere la perestrojka perché nascessero delle officine meccaniche private che andassero incontro alle esigenze dei guidatori. La Zigulì divenne inevitabilmente, in un paese dove si producevano non più di una dozzina di modelli di auto, un fenomeno del costume e della cultura: nel 1971 per la prima volta la Zigulì partecipò a un rally internazionale. Nei decenni le varianti sul modello base furono molte (diesel, furgonato, ecc.) e ne vennero prodotte complessivamente circa 5 milioni di esemplari fino al crollo dell’URSS. Paradossalmente tuttavia la produzione della Zigulì aumentò ancora negli anni ’90 e 2000 quando venne richiesta sempre di più dal mercato della provincia, data l’assenza di elettronica e il motore robusto la rendevano affidabile e durevole.
La Zigulì uscì di produzione solo nel 2011 dopo 41 anni di onorata carriera. Tuttavia in tutto l’ex URSS continuano a circolare molte di queste vecchie Fiat. E anche nelle grandi città russe dove ormai dominano le auto coreane, tedesche e americane la nostalgia per la vecchia auto sovietica è un fenomeno già divenuto collezionismo: gli esemplari ben tenuti costano sul mercato di seconda mano molte migliaia di euro.
INTERVISTA A GUIDO SECHI URBANISTA ESPERTO DELLA TRANSIZIONE POST-SOVIETICA
Guido Sechi è ricercatore presso il Dipartimento di Geografia Umana dell’Università della Lettonia. Studia in particolare le dinamiche sociali in ambito urbano e territoriale, con particolare riferimento alla transizione post-sovietica. Ora sta lavorando insieme al fotografo Michele Cera ad un progetto sulla trasformazione dello spazio pubblico nelle grandi città dell’ex URSS.
Quali erano le idee base che muovevano gli architetti sovietici nella progettazione di una vera e propria nuova città come l’Autozavodskij Rayon di Togliatti?
Nell’URSS degli anni ’60 l’idea della città pianificata non era nuova. Con le sue implicazioni ideologiche, utopistiche e simboliche, questa dimensione era stata un elemento rilevante dell’urbanistica sovietica fin dagli anni dell’avanguardia anni ’20. La prima città pianificata, Magnitogorsk, era sorta negli anni ’30 negli Urali come centro dell’industria metallurgica. Togliatti, e in particolare il distretto Avtozavodosky, rappresentò il caso più emblematico, per dimensioni e ambizione simbolica, di una seconda generazione di città pianificate. La fabbrica AvtoVAZ, grazie all’uso delle tecnologie Fiat, rappresentava un’innovazione notevole per l’industria sovietica mentre Avtozavodskiy, avrebbe dovuto nelle intenzioni rappresentare l’ideale di una città innovativa in grado di rispondere ai bisogni della società socialista.
Tuttavia, a differenza degli architetti e urbanisti costruttivisti degli anni ’20 mossi dall’ambizione di promuovere nuove soluzioni architettoniche e di pianificazione spaziale volte a plasmare nuove forme orizzontali ed egalitarie di relazione sociale, il team di architetti e ingegneri coordinato da Boris Rubanenko fu invece guidato soprattutto da un ideale di razionalità ed efficienza tipico del modernismo internazionale. Come conseguenza, urbanisticamente parlando, Avtozavodskij era piuttosto simile agli esperimenti di Le Corbusier e Niemeyer, Chandigarh e Brasilia, con enormi piazze, parchi e viali, destinati al trasporto pubblico e privato anziché a quello pedonale. Da un punto di vista architettonico, i due elementi caratterizzanti erano quelli dell’edilizia residenziale serializzata, organizzati in micro-distretti dotati di infrastrutture di servizio e spazi ricreativo-culturali, e di una significativa collezione di ambiziosi e imponenti edifici pubblici, pensati come spazi di interazione collettiva e landmark visivi, invece di un centro cittadino tradizionale.
E quali furono i risultati, quali divennero i caratteri peculiari urbanistici di Togliatti?
Si può dire che fin dall’inizio il progetto sia stato inficiato da elementi di rigidità: quella globale dei piani di produzione, e quella insita nella pianificazione tecnocratica e razionalista dall’alto. La prima era profondamente intrinseca al modello di pianificazione sovietico, la seconda invece è figlia anche delle tendenze internazionali in cui si inserisce la logica di Rubanenko e dei suoi collaboratori.
Dagli anni ’70 emersero gravi inefficienze dal punto di vista della fornitura degli alloggi e dei servizi dando luogo a temporaneo sovraffollamento abitativo e a carenza di infrastrutture commerciali, ricreative e culturali nei quartieri residenziali. L’edificio pubblico più ambizioso, la monumentale Casa della cultura, della scienza e delle arti (DKIT), fu ultimata solo nel 1988. È evidente che queste inefficienze hanno in gran parte compromesso l’ambizione di partenza della città innovativa, a misura d’uomo.
Per altri versi, il patto sociale tra capitale, lavoro e Stato, ha in qualche modo retto, plasmando un’identità cittadina che resiste ancora, grazie al ruolo rilevante della stabilità abitativa, del diritto alla casa ereditato dai tempi dell’URSS, dall’elemento unificante della fabbrica con tutto il suo bagaglio di promesse più o meno realizzate.
Quali sono oggi le prospettive per una città fabbrica come Togliatti?
La Togliatti post-sovietica ha i problemi sociali ed economici tipici di una città mono-industriale nell’era della globalizzazione capitalista. Il governo interviene con sussidi ma la città arranca sul piano socio-economico, della qualità della vita, delle prospettive. Togliatti ha il vantaggio, rispetto ad altre città di questo tipo, di essersi sviluppata attorno ad una fabbrica, ora avente la Renault per azionista di maggioranza, che rimane competitiva e la più importante della Russia nel settore. Ma i problemi e le rigidità derivanti dalla natura monoindustriale restano. Se la si confronta con altre città russe medio-grandi, Togliatti presenta statistiche preoccupanti per quanto riguarda la disoccupazione, la percentuale di popolazione povera, il salario medio. Per farsi un’idea della dipendenza della città da AvtoVAZ: il quartiere Avtozavodsky ospita circa 430mila abitanti, oltre la metà della popolazione della città. Di questi, 44mila circa lavorano nella fabbrica.
L’amministrazione locale, e regionale, sta cercando di promuovere il turismo sul Volga e gli investimenti esteri nella città, che costituisce una ‘zona economica speciale’.
Visitando Togliatti si ha la percezione, anche visiva, di una città fondamentalmente non globalizzabile, non gentrificabile. Sono sorte chiese (che non c’erano ai tempi dell’URSS), nuova edilizia residenziale, nuovi parchi, ma la struttura e l’impronta della città sono destinate a non modificarsi. Il che può essere visto allo stesso tempo come una conferma della rigidità irrimediabile della città e come un elemento identitario affascinante.
Repubblica 12.1.19
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
di Ezio Mauro
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Quando la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su "Repubblica" di Alessandro Baricco
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite nell’inferno delle parole dannate.
La teoria classica delle élite presuppone che sia sempre una minoranza a governare i sistemi complessi, nell’interesse generale. La massa dei governati, dunque, non può invocare il criterio di quantità per delegittimare le élite, in quanto il principio democratico della rappresentanza trasferisce ogni volta con il voto il potere dai molti ai pochi, che dovrebbero governare in nome di tutti. La guida di una società politica da parte dell’élite non è quindi di per sé in contrasto con il principio democratico, naturalmente a due condizioni: che esista una contrapposizione e una contendibilità permanente del potere, e non un blocco elitario unico, impermeabile e permanente, e che la formazione stessa dell’élite sia trasparente, aperta, dinamica, accessibile e revocabile, basata su criteri di merito riscontrabili e giudicabili dalla pubblica opinione.
Sono esattamente i due punti- cardine del meccanismo che ha messo in crisi l’élite davanti ai cittadini. Ovviamente c’è stato nell’ultimo quinquennio un forte criterio distintivo tra forze e storie diverse all’interno del parlamento e degli altri corpi elettivi e decisionali che amministrano il Paese. Ma al di là delle appartenenze, degli schieramenti e delle tradizioni differenti, il " pensiero" – e, direi, la postura, il linguaggio, il costume, dunque l’antropologia – della classe politica nazionale è stato percepito come omogeneo, unificato, parificato, soprattutto teso a sostenere una lettura della fase che il Paese stava vivendo sostanzialmente omogenea. E nello stesso tempo, la classe dirigente italiana non è mai riuscita a diventare un vero establishment, capace di coniugare i legittimi interessi particolari con l’interesse generale, piegandosi in una serie di network autopromossi, autoriferiti, autogarantiti, capaci di perpetuarsi ma non di rigenerarsi, intrisi come sono di familismo, di corporativismo, avviluppati nei vincoli di relazione, nello scambio reciproco di garanzie.
Una bolla chiusa, dentro la quale – affinché nessuno si senta facilmente assolto – sono precipitati pezzi interi di quella società che continuiamo automaticamente a chiamare civile, vale a dire intellettuali, professori, giornalisti, imprenditori, vescovi, artisti e infine scienziati, tutti considerati portatori per quota di un privilegio elitario per aver contribuito a formare una cultura di vertice, e dunque tutti chiamati senza distinzione a rendere conto della funzione dirigente che hanno esercitato, ma più ancora – ognuno per la sua quota – dell’egemonia culturale che l’esercizio di quel potere d’influenza ha disteso sul Paese.
Colpevoli per definizione, dunque, non per come hanno esercitato il potere intellettuale, ma per averlo fatto. Trattandosi non di una rivoluzione, ma comunque di un moto, la spinta di questo assalto alle élite nasce da un’emozione più che da una teoria. Potremmo definirlo il sentimento della confisca. C’è come la sensazione diffusa ( non importa che sia fondata: trattandosi di un turbamento basta che agisca) di un esproprio di un pezzo di realtà, di una parte del meccanismo decisionale, di una quota di rappresentanza. Un atto abusivo, quasi un furto, comunque un’interposizione illegittima. Si potrebbe dire in termini giuridici: un abuso di posizione dominante, l’esercizio di un monopolio sull’interpretazione del reale, sulla rappresentazione del contemporaneo. Come se dal basso fosse salita improvvisamente questa denuncia: chi vi ha dato il diritto di sceneggiare il presente e di immaginare il futuro per noi?
L’élite, nel suo tempo libero dai compiti primari, in fondo fa proprio questo, e ovunque nel mondo libero: diffonde modelli di società, piega alla sua lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini, costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica ( e oggi bisogna aggiungere i cibi) da seguire, stabilisce cosa è " in" e ciò che è " out", deposita la tela di una tradizione. Tuttavia non è una banale guida alle tendenze, ma molto di più. Col suo agire egemonico di vertice, fissa ogni giorno il metro che misura il divenire della società, disegna una razionalità del percorso collettivo indicando anche le nicchie in cui può sfogarsi l’irrazionale, costruisce cioè un’idea in continuo movimento di normalità, così come arbitra ogni effimera modernità, distinguendo tra ciò che va conservato e ciò che può essere speso, decretando fortune e oblio.
C’è un’unica cosa che l’élite non ha saputo fare: prendere la temperatura del Paese. Non ha ascoltato l’eco del Big Bang clamoroso tra la società più aperta della storia umana e la chiusura imposta dalla crisi economica più lunga del secolo. In questo, è uscita fuori dalla dialettica governanti- governati, si è separata, impegnata come spiega Baricco a proteggere se stessa dalle conseguenze della crisi.
Quella dialettica si è interrotta e si è sventrata, e non producendo più uno scambio politico si è bloccata su un’altra coppia: dominantidominati. Ecco dove nasce la sensazione della confisca. Per elaborare la sua lettura della fase e della società, all’élite infatti non basta il comando. E questa è una buona notizia per la democrazia: occorre il consenso, una relazione costante con la cittadinanza, un dispositivo continuamente operante di riconoscimento reciproco. Sempre i classici spiegano che l’élite siede ( si suppone scomoda) in cima alle tre piramidi della ricchezza, della deferenza e della sicurezza, che formano la cuspide del comando, e lo legittimano. Ma la ricchezza si è spostata tutta nel vertice della prima piramide, e l’élite non ha saputo tutelarla per tutti, e redistribuirla per molti. Insieme, se n’è andata la sicurezza, perché la crisi attaccando il presente si mangia il futuro, arriva la paura, i fenomeni globali sono talmente ingovernabili da scavalcare il ruolo guida delle élite, svuotandolo, e diffondendo la sensazione di un mondo fuori controllo, con la politica – tutta – fuorigioco. In queste condizioni, può resistere la deferenza? Non c’è più il riconoscimento di un ruolo, per l’élite, perché salta la condivisione della sua funzione.
La posizione che occupa appare quindi nuda, giustificata solo da se stessa. Appunto, una rendita di posizione. Un moderno patriziato. Un’aristocrazia dopo l’abolizione dei titoli nobiliari. Il venir meno di questa interpretazione riconosciuta e accettata del momento, da parte dell’élite, e della sua trasformazione in pensiero comune, genera il passaggio da cittadino a individuo, la solitudine repubblicana dei singoli, alimentata dall’unico sentimento collettivo superstite, il risentimento, che però per definizione si consuma in privato.
Il risultato è che ognuno si sente autorizzato a pensare per sé, sciolto dai vincoli del sociale, libero non in quanto capace di esprimere al massimo le sue facoltà e i suoi diritti, ma in quanto liberato da ogni obbligazione di comunità, nei confronti degli altri. Un superstite solitario, dopo il naufragio collettivo della crisi. Ma con la convinzione di aver accumulato un credito politico che non riuscirà mai a riscuotere, e che appunto per questo si porta in tasca come una lunghissima cambiale di rancore privato, da sventolare ogni giorno in pubblico. Col rancore non si costruisce un progetto politico: ma il rancore autorizza a presentare a chiunque il saldo delle insoddisfazioni, a chiedere conto dei fenomeni incontrollabili che ci sovrastano, soprattutto a dare una colpa universale alla classe generale che ha governato la crisi. E autorizza il populismo a ingigantire questa resa dei conti, ideologizzandola e mettendola a base non solo della sua politica, ma della sua natura.
Così l’élite diventa responsabile di tutto, al di là dei suoi limiti, dei suoi errori e delle sue colpe.
Soprattutto, poiché l’individuo ribelle vuole essere trasportato nel luogo immaginario del " Punto Zero", dove non c’è contaminazione col passato e tutto può essere reinventato sul momento, l’élite è colpevole della custodia della memoria e della trasmissione di una cultura che nasce dalla storia e dal divenire del Paese, e le interpreta. Tutto questo nel mondo nuovo in cui stiamo entrando è sospetto. Come è sospetto il sapere, la vera e fondamentale causa dello spodestamento delle élite. Il racconto dell’inganno permanente delle classi dirigenti, del loro autogolpe perenne, rende infida la scienza, pericolosa la perizia, nociva la cognizione. Se tutto quel sapere – ragiona l’uomo nuovo – non è servito a proteggere le mie condizioni di vita, ma viene consumato soltanto nella cerchia dei sapienti e dei garantiti, allora è una sorta di bitcoin a circolazione limitata e protetta, una valuta di riserva di cui soltanto l’élite conosce l’uso.
Il sapere suscita diffidenza perché è il linguaggio dell’élite, dunque ha un riflesso castale, quindi viene dal demonio. Il concetto di " nuovo" diventa vecchio. Bisogna andare oltre, fino all’uomo- vergine, incontaminato perché digiuno di politica, garantito perché viene dalla luna: innocente perché ignorante, nel senso più alto del termine, abitante dell’Anno Zero, senza vincoli di storia, di ideologia, di inclinazioni a destra o a sinistra.
Asettico e spoglio di qualsiasi eredità, di qualunque coscienza del bene e del male che hanno segnato la vicenda del Paese, di ogni eredità pubblica e di ogni tradizione comune, è l’Uomo Qualunque del nuovo secolo, soggetto ideale per una politica ribaltata dove il carisma si è spostato nell’indistinto e chiunque può scendere in campo se fin lì lo porta l’onda del sovvertimento generale. Lo aveva già detto vent’anni fa Bourdieu: la forza degli uomini nuovi della politica sta proprio nella mancanza dei requisiti specifici che di solito definiscono la competenza, dando così garanzie a tutti.
È il rovesciamento dell’élite: oggi la garanzia viene dal non sapere, dal non essere conformi al linguaggio degli esperti. Così si bruciano, insieme coi vizi dell’élite, un deposito di conoscenza, un accumulo di sapienza repubblicana, una riserva di esperienza, una provvista di conoscenza. La figura politica che nasce da questo impasto è un governante d’opposizione, il tribuno romano che Max Weber fondava proprio sulla rottura, addirittura sull’illegittimità, senza alcun legame con lo Stato, e tuttavia " sacrosantus" perché protetto dall’indignazione e dalla vendetta popolare, oltre che dagli dei, corrivi. Ma in fondo, avevamo già visto tutto nell’età democristiana, con la vecchia polemica contro il Palazzo. E allora, anche per la nuova élite rivoluzionaria vale la pena di ricordare la profezia di Pasolini: « I potenti che si muovono dentro il Palazzo agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è un sussultare burattinesco » .`
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
di Ezio Mauro
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Quando la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su "Repubblica" di Alessandro Baricco
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite nell’inferno delle parole dannate.
La teoria classica delle élite presuppone che sia sempre una minoranza a governare i sistemi complessi, nell’interesse generale. La massa dei governati, dunque, non può invocare il criterio di quantità per delegittimare le élite, in quanto il principio democratico della rappresentanza trasferisce ogni volta con il voto il potere dai molti ai pochi, che dovrebbero governare in nome di tutti. La guida di una società politica da parte dell’élite non è quindi di per sé in contrasto con il principio democratico, naturalmente a due condizioni: che esista una contrapposizione e una contendibilità permanente del potere, e non un blocco elitario unico, impermeabile e permanente, e che la formazione stessa dell’élite sia trasparente, aperta, dinamica, accessibile e revocabile, basata su criteri di merito riscontrabili e giudicabili dalla pubblica opinione.
Sono esattamente i due punti- cardine del meccanismo che ha messo in crisi l’élite davanti ai cittadini. Ovviamente c’è stato nell’ultimo quinquennio un forte criterio distintivo tra forze e storie diverse all’interno del parlamento e degli altri corpi elettivi e decisionali che amministrano il Paese. Ma al di là delle appartenenze, degli schieramenti e delle tradizioni differenti, il " pensiero" – e, direi, la postura, il linguaggio, il costume, dunque l’antropologia – della classe politica nazionale è stato percepito come omogeneo, unificato, parificato, soprattutto teso a sostenere una lettura della fase che il Paese stava vivendo sostanzialmente omogenea. E nello stesso tempo, la classe dirigente italiana non è mai riuscita a diventare un vero establishment, capace di coniugare i legittimi interessi particolari con l’interesse generale, piegandosi in una serie di network autopromossi, autoriferiti, autogarantiti, capaci di perpetuarsi ma non di rigenerarsi, intrisi come sono di familismo, di corporativismo, avviluppati nei vincoli di relazione, nello scambio reciproco di garanzie.
Una bolla chiusa, dentro la quale – affinché nessuno si senta facilmente assolto – sono precipitati pezzi interi di quella società che continuiamo automaticamente a chiamare civile, vale a dire intellettuali, professori, giornalisti, imprenditori, vescovi, artisti e infine scienziati, tutti considerati portatori per quota di un privilegio elitario per aver contribuito a formare una cultura di vertice, e dunque tutti chiamati senza distinzione a rendere conto della funzione dirigente che hanno esercitato, ma più ancora – ognuno per la sua quota – dell’egemonia culturale che l’esercizio di quel potere d’influenza ha disteso sul Paese.
Colpevoli per definizione, dunque, non per come hanno esercitato il potere intellettuale, ma per averlo fatto. Trattandosi non di una rivoluzione, ma comunque di un moto, la spinta di questo assalto alle élite nasce da un’emozione più che da una teoria. Potremmo definirlo il sentimento della confisca. C’è come la sensazione diffusa ( non importa che sia fondata: trattandosi di un turbamento basta che agisca) di un esproprio di un pezzo di realtà, di una parte del meccanismo decisionale, di una quota di rappresentanza. Un atto abusivo, quasi un furto, comunque un’interposizione illegittima. Si potrebbe dire in termini giuridici: un abuso di posizione dominante, l’esercizio di un monopolio sull’interpretazione del reale, sulla rappresentazione del contemporaneo. Come se dal basso fosse salita improvvisamente questa denuncia: chi vi ha dato il diritto di sceneggiare il presente e di immaginare il futuro per noi?
L’élite, nel suo tempo libero dai compiti primari, in fondo fa proprio questo, e ovunque nel mondo libero: diffonde modelli di società, piega alla sua lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini, costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica ( e oggi bisogna aggiungere i cibi) da seguire, stabilisce cosa è " in" e ciò che è " out", deposita la tela di una tradizione. Tuttavia non è una banale guida alle tendenze, ma molto di più. Col suo agire egemonico di vertice, fissa ogni giorno il metro che misura il divenire della società, disegna una razionalità del percorso collettivo indicando anche le nicchie in cui può sfogarsi l’irrazionale, costruisce cioè un’idea in continuo movimento di normalità, così come arbitra ogni effimera modernità, distinguendo tra ciò che va conservato e ciò che può essere speso, decretando fortune e oblio.
C’è un’unica cosa che l’élite non ha saputo fare: prendere la temperatura del Paese. Non ha ascoltato l’eco del Big Bang clamoroso tra la società più aperta della storia umana e la chiusura imposta dalla crisi economica più lunga del secolo. In questo, è uscita fuori dalla dialettica governanti- governati, si è separata, impegnata come spiega Baricco a proteggere se stessa dalle conseguenze della crisi.
Quella dialettica si è interrotta e si è sventrata, e non producendo più uno scambio politico si è bloccata su un’altra coppia: dominantidominati. Ecco dove nasce la sensazione della confisca. Per elaborare la sua lettura della fase e della società, all’élite infatti non basta il comando. E questa è una buona notizia per la democrazia: occorre il consenso, una relazione costante con la cittadinanza, un dispositivo continuamente operante di riconoscimento reciproco. Sempre i classici spiegano che l’élite siede ( si suppone scomoda) in cima alle tre piramidi della ricchezza, della deferenza e della sicurezza, che formano la cuspide del comando, e lo legittimano. Ma la ricchezza si è spostata tutta nel vertice della prima piramide, e l’élite non ha saputo tutelarla per tutti, e redistribuirla per molti. Insieme, se n’è andata la sicurezza, perché la crisi attaccando il presente si mangia il futuro, arriva la paura, i fenomeni globali sono talmente ingovernabili da scavalcare il ruolo guida delle élite, svuotandolo, e diffondendo la sensazione di un mondo fuori controllo, con la politica – tutta – fuorigioco. In queste condizioni, può resistere la deferenza? Non c’è più il riconoscimento di un ruolo, per l’élite, perché salta la condivisione della sua funzione.
La posizione che occupa appare quindi nuda, giustificata solo da se stessa. Appunto, una rendita di posizione. Un moderno patriziato. Un’aristocrazia dopo l’abolizione dei titoli nobiliari. Il venir meno di questa interpretazione riconosciuta e accettata del momento, da parte dell’élite, e della sua trasformazione in pensiero comune, genera il passaggio da cittadino a individuo, la solitudine repubblicana dei singoli, alimentata dall’unico sentimento collettivo superstite, il risentimento, che però per definizione si consuma in privato.
Il risultato è che ognuno si sente autorizzato a pensare per sé, sciolto dai vincoli del sociale, libero non in quanto capace di esprimere al massimo le sue facoltà e i suoi diritti, ma in quanto liberato da ogni obbligazione di comunità, nei confronti degli altri. Un superstite solitario, dopo il naufragio collettivo della crisi. Ma con la convinzione di aver accumulato un credito politico che non riuscirà mai a riscuotere, e che appunto per questo si porta in tasca come una lunghissima cambiale di rancore privato, da sventolare ogni giorno in pubblico. Col rancore non si costruisce un progetto politico: ma il rancore autorizza a presentare a chiunque il saldo delle insoddisfazioni, a chiedere conto dei fenomeni incontrollabili che ci sovrastano, soprattutto a dare una colpa universale alla classe generale che ha governato la crisi. E autorizza il populismo a ingigantire questa resa dei conti, ideologizzandola e mettendola a base non solo della sua politica, ma della sua natura.
Così l’élite diventa responsabile di tutto, al di là dei suoi limiti, dei suoi errori e delle sue colpe.
Soprattutto, poiché l’individuo ribelle vuole essere trasportato nel luogo immaginario del " Punto Zero", dove non c’è contaminazione col passato e tutto può essere reinventato sul momento, l’élite è colpevole della custodia della memoria e della trasmissione di una cultura che nasce dalla storia e dal divenire del Paese, e le interpreta. Tutto questo nel mondo nuovo in cui stiamo entrando è sospetto. Come è sospetto il sapere, la vera e fondamentale causa dello spodestamento delle élite. Il racconto dell’inganno permanente delle classi dirigenti, del loro autogolpe perenne, rende infida la scienza, pericolosa la perizia, nociva la cognizione. Se tutto quel sapere – ragiona l’uomo nuovo – non è servito a proteggere le mie condizioni di vita, ma viene consumato soltanto nella cerchia dei sapienti e dei garantiti, allora è una sorta di bitcoin a circolazione limitata e protetta, una valuta di riserva di cui soltanto l’élite conosce l’uso.
Il sapere suscita diffidenza perché è il linguaggio dell’élite, dunque ha un riflesso castale, quindi viene dal demonio. Il concetto di " nuovo" diventa vecchio. Bisogna andare oltre, fino all’uomo- vergine, incontaminato perché digiuno di politica, garantito perché viene dalla luna: innocente perché ignorante, nel senso più alto del termine, abitante dell’Anno Zero, senza vincoli di storia, di ideologia, di inclinazioni a destra o a sinistra.
Asettico e spoglio di qualsiasi eredità, di qualunque coscienza del bene e del male che hanno segnato la vicenda del Paese, di ogni eredità pubblica e di ogni tradizione comune, è l’Uomo Qualunque del nuovo secolo, soggetto ideale per una politica ribaltata dove il carisma si è spostato nell’indistinto e chiunque può scendere in campo se fin lì lo porta l’onda del sovvertimento generale. Lo aveva già detto vent’anni fa Bourdieu: la forza degli uomini nuovi della politica sta proprio nella mancanza dei requisiti specifici che di solito definiscono la competenza, dando così garanzie a tutti.
È il rovesciamento dell’élite: oggi la garanzia viene dal non sapere, dal non essere conformi al linguaggio degli esperti. Così si bruciano, insieme coi vizi dell’élite, un deposito di conoscenza, un accumulo di sapienza repubblicana, una riserva di esperienza, una provvista di conoscenza. La figura politica che nasce da questo impasto è un governante d’opposizione, il tribuno romano che Max Weber fondava proprio sulla rottura, addirittura sull’illegittimità, senza alcun legame con lo Stato, e tuttavia " sacrosantus" perché protetto dall’indignazione e dalla vendetta popolare, oltre che dagli dei, corrivi. Ma in fondo, avevamo già visto tutto nell’età democristiana, con la vecchia polemica contro il Palazzo. E allora, anche per la nuova élite rivoluzionaria vale la pena di ricordare la profezia di Pasolini: « I potenti che si muovono dentro il Palazzo agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è un sussultare burattinesco » .`
Repubblca 12.1.19
Verso il voto europeo
La solitudine dei 5 Stelle
di Nadia Urbinati
La caccia ai partner nel futuro Parlamento europeo è cominciata in grande stile. La Lega e i 5 Stelle si stanno posizionando rispetto ai gruppi politici esistenti e futuri. E mettono in scena un sorprendente paradosso: mentre i sovranisti " duri e puri" hanno un parterre europeo sicuro, il post-partito digitale, l’avanguardia della e- democracy, pare essere un gruppo isolato, confinato in terra italica più degli xenofobi loro alleati di governo. Oltre le Alpi, i pentastellati soffrono di una palpabile solitudine. Non molto compresi e difficili da connotare. E così i salviniani, che sono sbocciati alla vita politica come anti-europeisti "senza se e senza ma", oggi sono volitivi europeisti; desiderosi di spodestare il centrosinistra e lanciare la proposta ( che fu originariamente di Orbán) di un’Europa cristiana, bianca ed ermeticamente chiusa agli "altri". Invece i grillini sono soli, alla ricerca affannosa di nuovi amici. I vecchi essendo a dir poco impresentabili.
La ragione di questa difficoltà è comprensibile. Da che parte stanno i grillini? I più noti movimenti post- partito nati in questi anni si sono generalmente posizionati a sinistra – Podemos in Spagna o i Piraten ( ormai in declino) in Germania, si dichiarano populisti di sinistra. Non così i grillini. Che nonostante abbiano un certo appeal tra gli italiani di sinistra, al di là delle Alpi sono considerati più vicini alla destra. Essi stessi lo hanno confermato perché alle precedenti elezioni europee hanno rifiutato di fare gruppo con i Verdi e l’Altra Europa, preferendo l’estrema destra xenofoba. E quindi, mentre Di Maio giura « mai con Le Pen » deve mettere in conto che il suo gruppo a Strasburgo sta ora a destra del gruppo di Le Pen. Infatti, per volere degli iscritti ( consultati con referendum online dopo le passate elezioni europee) il Movimento sta con l’Efdd ( Europe of freedom and direct democracy group) un gruppo che raccoglie gli inglesi dell’Ukip (che non parteciperanno alle prossime elezioni), i tedeschi di Alternativa per la Germania, i cechi del Partito dei Liberi Cittadini, i polacchi di Korwin (una costola del partito della Nuova Destra) e i lituani di Ordine e Giustizia. Tutti decisamente di destra.
Oggi i grillini vogliono che ci sia Salvini alla loro destra. Ma senza stare a sinistra. La confusione è grande per un movimento che vuole essere " né- né" ma raramente ama dire "per-per". Qui sta la ragione della sua solitudine. E del tentativo di Di Maio di sondare gli umori dei gilet gialli, scrivendo sulla sua pagina Facebook che «una nuova Europa sta nascendo. Quella dei gilet gialli, quella dei movimenti, quella della democrazia diretta. Non mollate! » . L’orizzontalismo moltitudinario dei gilet gialli francesi – oltre la destra e la sinistra – trova in effetti molta eco tra i grillini; il loro popolarismo ha alcuni punti in comune con quello del vecchio popolo del "Vaffa". Ma oggi i 5 Stelle sono establishment anche agli occhi dei gilet gialli francesi, i quali non cercano per ora rappresentanza politica nazionale o europea.
Dunque la solitudine dei grillini nel panorama europeo è un fatto evidente che verrà pagata dalla crescita politica dell’alleato di governo, impegnato a est e a ovest a cucire alleanze con i sovranisti di destra, con l’obiettivo di raggiungere tanti seggi quanti ne bastano a seppellire il centrosinistra ed essere « il secondo gruppo in Parlamento o comunque fondamentali per determinare una maggioranza» . Per dare all’Europa una politica unitaria sui confini, quella che il centrosinistra non le ha dato: che sancisca l’immigrazione come nemico principale dell’Europa di domani. Con la colpevole responsabilità dell’Europa di oggi, che non si è mai scandalizzata per i porti chiusi della Lega. Timidamente critica, ha assolto; sdoganando quello di Orbán-Salvini come modello europeo.
Verso il voto europeo
La solitudine dei 5 Stelle
di Nadia Urbinati
La caccia ai partner nel futuro Parlamento europeo è cominciata in grande stile. La Lega e i 5 Stelle si stanno posizionando rispetto ai gruppi politici esistenti e futuri. E mettono in scena un sorprendente paradosso: mentre i sovranisti " duri e puri" hanno un parterre europeo sicuro, il post-partito digitale, l’avanguardia della e- democracy, pare essere un gruppo isolato, confinato in terra italica più degli xenofobi loro alleati di governo. Oltre le Alpi, i pentastellati soffrono di una palpabile solitudine. Non molto compresi e difficili da connotare. E così i salviniani, che sono sbocciati alla vita politica come anti-europeisti "senza se e senza ma", oggi sono volitivi europeisti; desiderosi di spodestare il centrosinistra e lanciare la proposta ( che fu originariamente di Orbán) di un’Europa cristiana, bianca ed ermeticamente chiusa agli "altri". Invece i grillini sono soli, alla ricerca affannosa di nuovi amici. I vecchi essendo a dir poco impresentabili.
La ragione di questa difficoltà è comprensibile. Da che parte stanno i grillini? I più noti movimenti post- partito nati in questi anni si sono generalmente posizionati a sinistra – Podemos in Spagna o i Piraten ( ormai in declino) in Germania, si dichiarano populisti di sinistra. Non così i grillini. Che nonostante abbiano un certo appeal tra gli italiani di sinistra, al di là delle Alpi sono considerati più vicini alla destra. Essi stessi lo hanno confermato perché alle precedenti elezioni europee hanno rifiutato di fare gruppo con i Verdi e l’Altra Europa, preferendo l’estrema destra xenofoba. E quindi, mentre Di Maio giura « mai con Le Pen » deve mettere in conto che il suo gruppo a Strasburgo sta ora a destra del gruppo di Le Pen. Infatti, per volere degli iscritti ( consultati con referendum online dopo le passate elezioni europee) il Movimento sta con l’Efdd ( Europe of freedom and direct democracy group) un gruppo che raccoglie gli inglesi dell’Ukip (che non parteciperanno alle prossime elezioni), i tedeschi di Alternativa per la Germania, i cechi del Partito dei Liberi Cittadini, i polacchi di Korwin (una costola del partito della Nuova Destra) e i lituani di Ordine e Giustizia. Tutti decisamente di destra.
Oggi i grillini vogliono che ci sia Salvini alla loro destra. Ma senza stare a sinistra. La confusione è grande per un movimento che vuole essere " né- né" ma raramente ama dire "per-per". Qui sta la ragione della sua solitudine. E del tentativo di Di Maio di sondare gli umori dei gilet gialli, scrivendo sulla sua pagina Facebook che «una nuova Europa sta nascendo. Quella dei gilet gialli, quella dei movimenti, quella della democrazia diretta. Non mollate! » . L’orizzontalismo moltitudinario dei gilet gialli francesi – oltre la destra e la sinistra – trova in effetti molta eco tra i grillini; il loro popolarismo ha alcuni punti in comune con quello del vecchio popolo del "Vaffa". Ma oggi i 5 Stelle sono establishment anche agli occhi dei gilet gialli francesi, i quali non cercano per ora rappresentanza politica nazionale o europea.
Dunque la solitudine dei grillini nel panorama europeo è un fatto evidente che verrà pagata dalla crescita politica dell’alleato di governo, impegnato a est e a ovest a cucire alleanze con i sovranisti di destra, con l’obiettivo di raggiungere tanti seggi quanti ne bastano a seppellire il centrosinistra ed essere « il secondo gruppo in Parlamento o comunque fondamentali per determinare una maggioranza» . Per dare all’Europa una politica unitaria sui confini, quella che il centrosinistra non le ha dato: che sancisca l’immigrazione come nemico principale dell’Europa di domani. Con la colpevole responsabilità dell’Europa di oggi, che non si è mai scandalizzata per i porti chiusi della Lega. Timidamente critica, ha assolto; sdoganando quello di Orbán-Salvini come modello europeo.
il manifesto 12.1.19
L’inquietante ritorno al futuro della nuova destra radicale
Indagini. «Neofascismi» di Claudio Vercelli per le Edizioni del Capricorno. Tra indagine storica e attualità politica. Simboli, linguaggi, «stile» dalla Rsi al Casa Pound. Già strumento della «maggioranza silenziosa», l’arcipelago nero lancia ora la sfida per rappresentare le vittime della crisi
di Guido Caldiron
È una sfida tutta attuale quella che Claudio Vercelli delinea in Neofascismi (Edizioni del Capricorno, pp. 188, euro 16,00), una storia della destra radicale italiana che dall’epilogo sanguinoso della Rsi conduce fino all’odierna «emergenza» di Casa Pound. Un libro che Vercelli, docente presso l’Università Cattolica di Milano, autore di opere significative sulla nascita di Israele e sul negazionismo, ha costruito con il rigore dell’indagine storica, attingendo ad un’ampia e articolata documentazione, ma dal quale traspare la volontà di intervenire sul tema con un linguaggio e uno stile agili, rispondendo con ciò implicitamente anche ad «un’urgenza» di carattere civile.
A TRACCIARE LA ROTTA della ricerca è infatti la consapevolezza, espressa chiaramente dall’autore, che in gioco nel nostro paese oggi non vi sia tanto il «ritorno del passato», «essendo il regime mussoliniano un’esperienza unica, destinata a non ripetersi», quanto piuttosto «la capacità dei movimenti e dei temi neofascisti di diventare parte della discussione pubblica, dell’agenda politica, magari rivestendo panni di apparente rispettabilità».
A riprova dell’estrema e inquietante attualità del tema, l’intera vicenda storica della destra radicale del secondo dopoguerra, viene letta come una sorta di «reciproco inverso» rispetto a quella della repubblica nata dalla Resistenza. Fino ad indicare come il «fascismo dopo il fascismo» abbia costruito le ragioni della sua costante presenza nel panorama politico nazionale modellandosi in qualche modo lungo le linee di crisi e le fratture conosciute dalla nostra società. Si tratta ovviamente, per questa via, di ricostruire innanzitutto le ragioni di questa «permanenza» dopo la sconfitta fascista del 1945. Vercelli ne indica prioritariamente tre.
PRIMA DI TUTTO, la considerazione che «come mentalità diffusa, presente in diversi strati della popolazione», il fascismo non si potesse esaurire con la fine del Ventennio o la caduta di Salò. Quindi, il tema della[INIZIO] «continuità dello Stato», vale a dire la determinazione di «quello stesso circuito di soggetti che vent’anni prima aveva permesso l’accesso dei fascisti al potere», ad identificare nella destra radicale un possibile argine contro la presenza comunista, nell’ambito del nuovo scenario che aveva visto emergere la contrapposizione tra Est e Ovest. Da qui consegue come «nel secondo dopoguerra l’epurazione di coloro che erano compromessi con il regime mussoliniano fu prima occasionale, poi claudicante e infine venne di fatto neutralizzata». Infine, il fatto che, specie negli anni Sessanta e Settanta, il neofascismo seppe presentarsi come «blocco d’ordine», intercettando così il consenso e il sostegno di quella parte più conservatrice dell’opinione pubblica, sebbene spesso anche estranea al nostalgismo tout-court, che vide in esso uno strumento per cercare di fermare o rallentare i cambiamenti in corso nel Paese.
NELLA VASTA RICOSTRUZIONE delle traiettorie politiche e organizzative che hanno caratterizzato via via il mondo neofascista, passando, solo per citare alcuni dei capitoli più significativi della vicenda, dalla figura del «comandante» Borghese al pensiero di Evola, dalla «strategia della tensione» all’esperienza di Terza Posizione, dallo «spontaneismo armato» al percorso «metapoliticao» della cosiddetta Nuova Destra culturale, Vercelli si sofferma inoltre su alcuni «nodi» tematici centrali. Da un lato, il tema del ricorso alla forza che lungi dall’essere un semplice corollario dell’esperienza neofascista, ne rappresenta «un aspetto ineludibile», attraverso l’evocazione del «valore etico della violenza come strumento di purificazione della società dal disordine generato dal decadimento imputabile ai tempi moderni».
QUINDI, LA CREAZIONE di una «dimensione ideologica», di una cultura, un linguaggio e un immaginario che hanno per certi versi attraversato le generazioni, conoscendo una certa, seppur minima, dose di innovazione ma anche una continuità sorprendente, fino a riemergere dalla ridotte del neofascismo per assumere nell’attuale «stagione della crisi» visibilità e credito ben più larghi. Si pensi anche soltanto alle letture «complottiste» e identitarie dei fenomeni migratori o al ritorno in auge della geopolitica. Infine, la presenza di uno «stile neofascista», vale a dire «l’insieme di atteggiamenti, parole, pensieri, modi di vestire, luoghi d’incontro e di socializzazione» che non ha solo preservato fin qui «la comunità nera», ma si presenta oggi, specie alle giovani generazioni, come una risposta articolata alla crisi della militanza politica.
Vercelli invita perciò a «prendere sul serio» il neofascismo, vale a dire a leggerne l’intreccio e la contaminazione crescenti con il dilagante «fenomeno populista» e «sovranista», come il tentativo di costruire un nuovo radicamento dentro la crisi sociale di questi anni.
DOPO AVER RAPPRESENTATO per più di mezzo secolo un sostegno, e uno strumento anche violento per le «maggioranze silenziose», la destra radicale ambisce infatti ora «a rappresentare il territorio sociale dell’esclusione», vale a dire quelle parti della nostra società che lamentano la loro marginalizzazione dai processi di cambiamento in atto. Un percorso che si articola attraverso l’indicazione di «cause di disagio immediatamente condivisibili: immigrazione, “poteri forti”, furto del lavoro e del territorio, complotti».
La forza del radicalismo di destra, conclude lo storico, è del resto «direttamente proporzionale alla crisi della democrazia sociale. Più indietreggia la seconda, maggiori sono gli spazi per il primo, presentandosi come falsa risposta a problemi e disagi invece reali e diffusi».
L’inquietante ritorno al futuro della nuova destra radicale
Indagini. «Neofascismi» di Claudio Vercelli per le Edizioni del Capricorno. Tra indagine storica e attualità politica. Simboli, linguaggi, «stile» dalla Rsi al Casa Pound. Già strumento della «maggioranza silenziosa», l’arcipelago nero lancia ora la sfida per rappresentare le vittime della crisi
di Guido Caldiron
È una sfida tutta attuale quella che Claudio Vercelli delinea in Neofascismi (Edizioni del Capricorno, pp. 188, euro 16,00), una storia della destra radicale italiana che dall’epilogo sanguinoso della Rsi conduce fino all’odierna «emergenza» di Casa Pound. Un libro che Vercelli, docente presso l’Università Cattolica di Milano, autore di opere significative sulla nascita di Israele e sul negazionismo, ha costruito con il rigore dell’indagine storica, attingendo ad un’ampia e articolata documentazione, ma dal quale traspare la volontà di intervenire sul tema con un linguaggio e uno stile agili, rispondendo con ciò implicitamente anche ad «un’urgenza» di carattere civile.
A TRACCIARE LA ROTTA della ricerca è infatti la consapevolezza, espressa chiaramente dall’autore, che in gioco nel nostro paese oggi non vi sia tanto il «ritorno del passato», «essendo il regime mussoliniano un’esperienza unica, destinata a non ripetersi», quanto piuttosto «la capacità dei movimenti e dei temi neofascisti di diventare parte della discussione pubblica, dell’agenda politica, magari rivestendo panni di apparente rispettabilità».
A riprova dell’estrema e inquietante attualità del tema, l’intera vicenda storica della destra radicale del secondo dopoguerra, viene letta come una sorta di «reciproco inverso» rispetto a quella della repubblica nata dalla Resistenza. Fino ad indicare come il «fascismo dopo il fascismo» abbia costruito le ragioni della sua costante presenza nel panorama politico nazionale modellandosi in qualche modo lungo le linee di crisi e le fratture conosciute dalla nostra società. Si tratta ovviamente, per questa via, di ricostruire innanzitutto le ragioni di questa «permanenza» dopo la sconfitta fascista del 1945. Vercelli ne indica prioritariamente tre.
PRIMA DI TUTTO, la considerazione che «come mentalità diffusa, presente in diversi strati della popolazione», il fascismo non si potesse esaurire con la fine del Ventennio o la caduta di Salò. Quindi, il tema della[INIZIO] «continuità dello Stato», vale a dire la determinazione di «quello stesso circuito di soggetti che vent’anni prima aveva permesso l’accesso dei fascisti al potere», ad identificare nella destra radicale un possibile argine contro la presenza comunista, nell’ambito del nuovo scenario che aveva visto emergere la contrapposizione tra Est e Ovest. Da qui consegue come «nel secondo dopoguerra l’epurazione di coloro che erano compromessi con il regime mussoliniano fu prima occasionale, poi claudicante e infine venne di fatto neutralizzata». Infine, il fatto che, specie negli anni Sessanta e Settanta, il neofascismo seppe presentarsi come «blocco d’ordine», intercettando così il consenso e il sostegno di quella parte più conservatrice dell’opinione pubblica, sebbene spesso anche estranea al nostalgismo tout-court, che vide in esso uno strumento per cercare di fermare o rallentare i cambiamenti in corso nel Paese.
NELLA VASTA RICOSTRUZIONE delle traiettorie politiche e organizzative che hanno caratterizzato via via il mondo neofascista, passando, solo per citare alcuni dei capitoli più significativi della vicenda, dalla figura del «comandante» Borghese al pensiero di Evola, dalla «strategia della tensione» all’esperienza di Terza Posizione, dallo «spontaneismo armato» al percorso «metapoliticao» della cosiddetta Nuova Destra culturale, Vercelli si sofferma inoltre su alcuni «nodi» tematici centrali. Da un lato, il tema del ricorso alla forza che lungi dall’essere un semplice corollario dell’esperienza neofascista, ne rappresenta «un aspetto ineludibile», attraverso l’evocazione del «valore etico della violenza come strumento di purificazione della società dal disordine generato dal decadimento imputabile ai tempi moderni».
QUINDI, LA CREAZIONE di una «dimensione ideologica», di una cultura, un linguaggio e un immaginario che hanno per certi versi attraversato le generazioni, conoscendo una certa, seppur minima, dose di innovazione ma anche una continuità sorprendente, fino a riemergere dalla ridotte del neofascismo per assumere nell’attuale «stagione della crisi» visibilità e credito ben più larghi. Si pensi anche soltanto alle letture «complottiste» e identitarie dei fenomeni migratori o al ritorno in auge della geopolitica. Infine, la presenza di uno «stile neofascista», vale a dire «l’insieme di atteggiamenti, parole, pensieri, modi di vestire, luoghi d’incontro e di socializzazione» che non ha solo preservato fin qui «la comunità nera», ma si presenta oggi, specie alle giovani generazioni, come una risposta articolata alla crisi della militanza politica.
Vercelli invita perciò a «prendere sul serio» il neofascismo, vale a dire a leggerne l’intreccio e la contaminazione crescenti con il dilagante «fenomeno populista» e «sovranista», come il tentativo di costruire un nuovo radicamento dentro la crisi sociale di questi anni.
DOPO AVER RAPPRESENTATO per più di mezzo secolo un sostegno, e uno strumento anche violento per le «maggioranze silenziose», la destra radicale ambisce infatti ora «a rappresentare il territorio sociale dell’esclusione», vale a dire quelle parti della nostra società che lamentano la loro marginalizzazione dai processi di cambiamento in atto. Un percorso che si articola attraverso l’indicazione di «cause di disagio immediatamente condivisibili: immigrazione, “poteri forti”, furto del lavoro e del territorio, complotti».
La forza del radicalismo di destra, conclude lo storico, è del resto «direttamente proporzionale alla crisi della democrazia sociale. Più indietreggia la seconda, maggiori sono gli spazi per il primo, presentandosi come falsa risposta a problemi e disagi invece reali e diffusi».
Repubblica 12.1.19
Il risveglio dell’Est Europa in piazza contro gli autocrati
Le manifestazioni. Per una nuova democrazia
Non solo gilet gialli
Oggi è il sesto sabato di proteste a Belgrado
Ma si manifesta anche a Varsavia e Tirana contro populismo e corruzione
Il corteo a Belgrado
"1 su 5 milioni" è diventato lo slogan delle proteste contro Vucic che aveva detto: "Nemmeno se fossero 5 milioni li ascolterei".
di Gigi Riva
Oggi, ore 18, centro di Belgrado. Orario insolito, giorno insolito, stagione insolita, con il freddo e la neve dei Balcani, per una manifestazione contro il presidente della Repubblica Aleksandar Vucic. Ma, dopo i gilet jaunes francesi, il sabato è evocativo delle proteste. Per la sesta volta, nel dì che precede la festa, la Serbia grida la sua rabbia contro un capo dello Stato autoritario, onnipotente, e invadente benché la Costituzione gli riconosca, più o meno, le stesse prerogative di Sergio Mattarella.
Anche populista, tuttavia non più dei leader di opposizione che da dietro soffiano sul corteo, preferendo spingere in avanti e sul palco dei comizi personaggi meno compromessi, soprattutto attori. Erano alcune centinaia la prima volta, 15mila la quinta. Se 15mila sembrano pochi, è comunque la più grossa contestazione del potere dal 5 ottobre 2000, cacciata di Slobodan Milosevic. Sfilano dietro uno striscione che recita "1 od 5 miliona", 1 su 5 milioni, un auspicio di ingrossarsi fino a tanto e una risposta a Vucic che ha beffardamente affermato: «Nemmeno se fossero 5 milioni ascolterei le loro richieste».
Variegate richieste. Si parte dalla libertà di espressione se i canali tv e i giornali cantano solo la voce del padrone e oscurano la critica. Poi un minimo di giustizia. La scintilla che ha scatenato i cortei fu il 23 novembre scorso l’aggressione a suon di sprangate in testa di un leader di "Sinistra serba", Borko Stefanovic. Agguato rimasto impunito, i cinque sospettati sono stati rimessi in libertà.
Aleksandar Vucic sfida la piazza forte di un consenso al 53 per cento e allude a elezioni anticipate in primavera, sicuro di rivincere col Partito progressista da lui fondato. Pare aver trovato la ricetta del consenso grazie a una politica strabica che guarda da un lato all’Europa e dall’altro alla grande madre ortodossa, la Russia. Spregiudicato e camaleontico, il presidente, 48 anni, è un campione di trasformismo. Da giovane militava nel partito radicale ultranazionalista di Vojislav Seselj. È stato ministro dell’Informazione durante i bombardamenti Nato, epoca Milosevic. Si è dato una ripulita, vantando la capacità di adeguarsi ai tempi, come fosse un novello Talleyrand in sedicesimo.
La folla dei contrari è nutrita dalla classe intellettuale, dalla borghesia, dai giovani liberal della capitale. Perché se in Europa occidentale sono state le campagne a lanciarsi contro i privilegi delle città (vedi la Francia), a Est sono le città a ribellarsi contro governi populisti e liberticidi, votati anzitutto in campagna. È proprio a oriente del Continente, del resto, che il populismo ha raggiunto per primo le stanze dei bottoni. È il caso della Polonia, recente meta di Matteo Salvini per un incontro con Jaroslaw Kaczynski, padre padrone di "Diritto e Giustizia", la formazione al potere. A Varsavia il generale inverno ha solo posticipato, non rimosso la voglia di contestare un esecutivo che voleva mettere la magistratura sotto il proprio controllo (ipotesi poi naufragata) mentre c’è da scommettere che torneranno le donne in nero a far sentire la loro voce contro i tentativi di revisione della legge sull’aborto, gli arrabbiati per i numerosi casi di pedofilia nella chiesa cattolica, più in generale tutti coloro che temono la prospettiva di allontanarsi da Bruxelles.
In Ungheria invece non si placa l’offensiva contro l’autocrate Viktor Orbán e la sua legge denominata "schiavitù" per la quale gli imprenditori possono chiedere ai loro dipendenti di lavorare fino a 400 ore di straordinari l’anno. Nella capitale, Budapest, si concentra il malcontento, le nuove norme hanno fatto da detonatore all’esplodere di una ribellione che sembrava anestetizzata dal verbo nazionalista. Piazza chiama piazza, a Est. In Albania, a Tirana, gli studenti si riversano nelle vie del centro davanti al ministero dell’Istruzione sventolando bandiere nazionali e dell’Europa per chiedere di abolire l’aumento delle tasse universitarie.
Benché piccola e semisconosciuta, Banja Luka è la "capitale", della Bosnia serba, una delle due entità che formano lo Stato. Dal marzo scorso la piazza principale è occupata dalle persone che chiedono la verità sulla morte di David Dragicevic, 21 anni. Accidentale secondo la polizia. Un omicidio coperto dalle autorità, a partire dal leader dei serbi Milorad Dodik, secondo il padre Davor, cameriere, che ha promosso un presidio permanente dove si alternano migliaia di persone. Il caso si è trasformato in un atto di accusa contro il potere. Che si difende contro-accusando "forze straniere", in particolare il Regno Unito, di fomentare la protesta.
Dodik è il buon amico di Mosca nell’area. Indebolirlo equivale a fiaccare il tentativo di influenza di Vladimir Putin nei Balcani. Così il fatto privato di un padre-cameriere diventa un affare geostrategico. Le piazze d’Europa orientale raccontano un diffuso malessere. A leggerle bene sono il luogo dove si è trasferito lo scontro fatale della contemporaneità. Quello tra sistema e anti-sistema.
Il risveglio dell’Est Europa in piazza contro gli autocrati
Le manifestazioni. Per una nuova democrazia
Non solo gilet gialli
Oggi è il sesto sabato di proteste a Belgrado
Ma si manifesta anche a Varsavia e Tirana contro populismo e corruzione
Il corteo a Belgrado
"1 su 5 milioni" è diventato lo slogan delle proteste contro Vucic che aveva detto: "Nemmeno se fossero 5 milioni li ascolterei".
di Gigi Riva
Oggi, ore 18, centro di Belgrado. Orario insolito, giorno insolito, stagione insolita, con il freddo e la neve dei Balcani, per una manifestazione contro il presidente della Repubblica Aleksandar Vucic. Ma, dopo i gilet jaunes francesi, il sabato è evocativo delle proteste. Per la sesta volta, nel dì che precede la festa, la Serbia grida la sua rabbia contro un capo dello Stato autoritario, onnipotente, e invadente benché la Costituzione gli riconosca, più o meno, le stesse prerogative di Sergio Mattarella.
Anche populista, tuttavia non più dei leader di opposizione che da dietro soffiano sul corteo, preferendo spingere in avanti e sul palco dei comizi personaggi meno compromessi, soprattutto attori. Erano alcune centinaia la prima volta, 15mila la quinta. Se 15mila sembrano pochi, è comunque la più grossa contestazione del potere dal 5 ottobre 2000, cacciata di Slobodan Milosevic. Sfilano dietro uno striscione che recita "1 od 5 miliona", 1 su 5 milioni, un auspicio di ingrossarsi fino a tanto e una risposta a Vucic che ha beffardamente affermato: «Nemmeno se fossero 5 milioni ascolterei le loro richieste».
Variegate richieste. Si parte dalla libertà di espressione se i canali tv e i giornali cantano solo la voce del padrone e oscurano la critica. Poi un minimo di giustizia. La scintilla che ha scatenato i cortei fu il 23 novembre scorso l’aggressione a suon di sprangate in testa di un leader di "Sinistra serba", Borko Stefanovic. Agguato rimasto impunito, i cinque sospettati sono stati rimessi in libertà.
Aleksandar Vucic sfida la piazza forte di un consenso al 53 per cento e allude a elezioni anticipate in primavera, sicuro di rivincere col Partito progressista da lui fondato. Pare aver trovato la ricetta del consenso grazie a una politica strabica che guarda da un lato all’Europa e dall’altro alla grande madre ortodossa, la Russia. Spregiudicato e camaleontico, il presidente, 48 anni, è un campione di trasformismo. Da giovane militava nel partito radicale ultranazionalista di Vojislav Seselj. È stato ministro dell’Informazione durante i bombardamenti Nato, epoca Milosevic. Si è dato una ripulita, vantando la capacità di adeguarsi ai tempi, come fosse un novello Talleyrand in sedicesimo.
La folla dei contrari è nutrita dalla classe intellettuale, dalla borghesia, dai giovani liberal della capitale. Perché se in Europa occidentale sono state le campagne a lanciarsi contro i privilegi delle città (vedi la Francia), a Est sono le città a ribellarsi contro governi populisti e liberticidi, votati anzitutto in campagna. È proprio a oriente del Continente, del resto, che il populismo ha raggiunto per primo le stanze dei bottoni. È il caso della Polonia, recente meta di Matteo Salvini per un incontro con Jaroslaw Kaczynski, padre padrone di "Diritto e Giustizia", la formazione al potere. A Varsavia il generale inverno ha solo posticipato, non rimosso la voglia di contestare un esecutivo che voleva mettere la magistratura sotto il proprio controllo (ipotesi poi naufragata) mentre c’è da scommettere che torneranno le donne in nero a far sentire la loro voce contro i tentativi di revisione della legge sull’aborto, gli arrabbiati per i numerosi casi di pedofilia nella chiesa cattolica, più in generale tutti coloro che temono la prospettiva di allontanarsi da Bruxelles.
In Ungheria invece non si placa l’offensiva contro l’autocrate Viktor Orbán e la sua legge denominata "schiavitù" per la quale gli imprenditori possono chiedere ai loro dipendenti di lavorare fino a 400 ore di straordinari l’anno. Nella capitale, Budapest, si concentra il malcontento, le nuove norme hanno fatto da detonatore all’esplodere di una ribellione che sembrava anestetizzata dal verbo nazionalista. Piazza chiama piazza, a Est. In Albania, a Tirana, gli studenti si riversano nelle vie del centro davanti al ministero dell’Istruzione sventolando bandiere nazionali e dell’Europa per chiedere di abolire l’aumento delle tasse universitarie.
Benché piccola e semisconosciuta, Banja Luka è la "capitale", della Bosnia serba, una delle due entità che formano lo Stato. Dal marzo scorso la piazza principale è occupata dalle persone che chiedono la verità sulla morte di David Dragicevic, 21 anni. Accidentale secondo la polizia. Un omicidio coperto dalle autorità, a partire dal leader dei serbi Milorad Dodik, secondo il padre Davor, cameriere, che ha promosso un presidio permanente dove si alternano migliaia di persone. Il caso si è trasformato in un atto di accusa contro il potere. Che si difende contro-accusando "forze straniere", in particolare il Regno Unito, di fomentare la protesta.
Dodik è il buon amico di Mosca nell’area. Indebolirlo equivale a fiaccare il tentativo di influenza di Vladimir Putin nei Balcani. Così il fatto privato di un padre-cameriere diventa un affare geostrategico. Le piazze d’Europa orientale raccontano un diffuso malessere. A leggerle bene sono il luogo dove si è trasferito lo scontro fatale della contemporaneità. Quello tra sistema e anti-sistema.
il manifesto 12.1.19
Legittima difesa, M5S lascia il campo alla Lega
Alla camera. Malgrado i distinguo grillini, nessun emendamento di maggioranza al disegno di legge che autorizza a reagire in armi all'interno del proprio domicilio. Sarà legge ai primi di febbraio
di A. Fab.
Nessun emendamento. Non è dalla legittima difesa che arriveranno scossoni per la maggioranza giallobruna. Del resto ce ne sono già a sufficienza sugli altri fronti, dal reddito di cittadinanza alle grandi opere, dalle nomine a da ultimo al diversivo della cannabis. I deputati del Movimento 5 Stelle non sono entusiasti del provvedimento bandiera della Lega che allarga le maglia della non punibilità di chi spara agli intrusi. Ma così come i colleghi senatori in prima lettura, non si metteranno di traverso. Anzi, se a palazzo Madama avevano presentato emendamenti correttivi per poi ritirarli, alla camera hanno evitato persino il gesto. In commissione giustizia ieri si sono chiusi i termini e gli 81 emendamenti depositati risultano tutti firmati dalle opposizioni.
Il testo di legge resterà così quello arrivato dal senato. La Lega conta di riuscire a metterlo in calendario per l’ultimo sì nei primi giorni di febbraio. Le mediazioni con i grillini ci sono state e ci saranno su altri terreni, con differenti provvedimenti di legge. L’accordo di Yalta che regge il governo prevede il reciproco rispetto delle zone di influenza e a Montecitorio nello stesso giorno in cui si comincerà l’esame in commissione degli emendamenti alla legittima difesa – mercoledì 16 -, in aula comincerà a camminare la riforma costituzionale del referendum propositivo che per i 5 Stelle è la bandiera delle bandiere. Una legge che non fa scaldare il cuore della Lega – le proposte di Salvini in tema di riforme erano diverse e opposte, tipo il presidenzialismo – ma sulla quale i leghisti hanno comunque messo a segno qualche correzione. Innanzitutto l’introduzione di un quorum. Più abili, i deputati della Lega hanno sempre potuto giocare sul fatto che alla camera le loro posizioni erano condivise da tutte o da alcune opposizioni. Nel caso delle legittima difesa il provvedimento è addirittura già stato votato da Forza Italia e Fratelli d’Italia; le richieste di modifica della destra vanno nella direzione di legalizzare la difesa armata, dovrebbe essere il pubblico ministero a provare l’illiceità in tutti i casi di reazione all’interno del domicilio.
«Non siamo scesi a compromessi con il Movimento 5 Stelle, per noi il testo del provvedimento approvato al senato è perfetto così», ha detto ieri il deputato leghista della seconda commissione Riccardo Marchetti. La legge prevede che la difesa con un’arma detenuta legittimamente sia considerata «sempre» proporzionata se avviene all’interno dei luoghi di proprietà. L’eccesso colposo non sarà più punibile se chi ha agito lo ha fatto «in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto». Secondo l’Associazione magistrati questa novità sarà fonte di problemi perché è arduo distinguere un turbamento semplice (punibile) da uno «grave» (non punibile). La legge introduce anche un – rituale – aumento delle pene per i reati di violazione di domicilio, furto e scippo e prevede una generica «priorità» nelle udienze penali per i processi relativi ai delitti di omicidio colposo.
Legittima difesa, M5S lascia il campo alla Lega
Alla camera. Malgrado i distinguo grillini, nessun emendamento di maggioranza al disegno di legge che autorizza a reagire in armi all'interno del proprio domicilio. Sarà legge ai primi di febbraio
di A. Fab.
Nessun emendamento. Non è dalla legittima difesa che arriveranno scossoni per la maggioranza giallobruna. Del resto ce ne sono già a sufficienza sugli altri fronti, dal reddito di cittadinanza alle grandi opere, dalle nomine a da ultimo al diversivo della cannabis. I deputati del Movimento 5 Stelle non sono entusiasti del provvedimento bandiera della Lega che allarga le maglia della non punibilità di chi spara agli intrusi. Ma così come i colleghi senatori in prima lettura, non si metteranno di traverso. Anzi, se a palazzo Madama avevano presentato emendamenti correttivi per poi ritirarli, alla camera hanno evitato persino il gesto. In commissione giustizia ieri si sono chiusi i termini e gli 81 emendamenti depositati risultano tutti firmati dalle opposizioni.
Il testo di legge resterà così quello arrivato dal senato. La Lega conta di riuscire a metterlo in calendario per l’ultimo sì nei primi giorni di febbraio. Le mediazioni con i grillini ci sono state e ci saranno su altri terreni, con differenti provvedimenti di legge. L’accordo di Yalta che regge il governo prevede il reciproco rispetto delle zone di influenza e a Montecitorio nello stesso giorno in cui si comincerà l’esame in commissione degli emendamenti alla legittima difesa – mercoledì 16 -, in aula comincerà a camminare la riforma costituzionale del referendum propositivo che per i 5 Stelle è la bandiera delle bandiere. Una legge che non fa scaldare il cuore della Lega – le proposte di Salvini in tema di riforme erano diverse e opposte, tipo il presidenzialismo – ma sulla quale i leghisti hanno comunque messo a segno qualche correzione. Innanzitutto l’introduzione di un quorum. Più abili, i deputati della Lega hanno sempre potuto giocare sul fatto che alla camera le loro posizioni erano condivise da tutte o da alcune opposizioni. Nel caso delle legittima difesa il provvedimento è addirittura già stato votato da Forza Italia e Fratelli d’Italia; le richieste di modifica della destra vanno nella direzione di legalizzare la difesa armata, dovrebbe essere il pubblico ministero a provare l’illiceità in tutti i casi di reazione all’interno del domicilio.
«Non siamo scesi a compromessi con il Movimento 5 Stelle, per noi il testo del provvedimento approvato al senato è perfetto così», ha detto ieri il deputato leghista della seconda commissione Riccardo Marchetti. La legge prevede che la difesa con un’arma detenuta legittimamente sia considerata «sempre» proporzionata se avviene all’interno dei luoghi di proprietà. L’eccesso colposo non sarà più punibile se chi ha agito lo ha fatto «in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto». Secondo l’Associazione magistrati questa novità sarà fonte di problemi perché è arduo distinguere un turbamento semplice (punibile) da uno «grave» (non punibile). La legge introduce anche un – rituale – aumento delle pene per i reati di violazione di domicilio, furto e scippo e prevede una generica «priorità» nelle udienze penali per i processi relativi ai delitti di omicidio colposo.
Corriere 12.1.19
L’industria frena. I cantieri: persi 800 mila posti
Dalle costruzioni all’alimentare, l’anno difficile del «made in Italy»
di Dario Di Vico
Lasciamo agli statistici la discussione se e quando saremo costretti a decretare «la recessione tecnica» e concentriamoci invece sulla sostanza ovvero sul rischio che il 2019 si riveli un anno nero per l’industria made in Italy.
I fattori che concorrono a formulare questo presagio sono molti, e parecchi hanno natura esogena, ma il risultato può essere proprio quello di cui sopra. E a poco vale ricordare come anche gli altri Paesi industriali sono alle prese con gli stessi problemi perché, come commenta Andrea Montanino, direttore del Centro Studi Confindustria, «in un contesto di rallentamento generalizzato ogni sistema cercherà di proteggersi il più possibile e per i gruppi italiani impegnati in programmi di espansione o di riorganizzazione ne deriveranno comunque delle difficoltà». Per diversi dei nostri campioni nazionali il 2019 sarebbe stato comunque un anno-chiave.
Partiamo dalla Fca del dopo-Marchionne che dovrà fare i conti con un mercato dell’auto che non darà più le soddisfazioni degli ultimi anni e per di più è alle prese con feroci guerre commerciali, modifiche normative in singoli Paesi e un avanzamento tecnologico la cui tempistica non è chiara quantomeno per la mole degli investimenti che richiede. L’anno appena iniziato è decisivo anche per le prospettive del merger Luxottica-Essilor che ha portato alla nascita di un gigante mondiale dell’ottica integrato verticalmente. E’ in discussione tra i due gruppi l’assetto finale della governance e ci sono, non è un mistero, idee diverse. Nei giorni scorsi i giornali francesi hanno scritto di una fusione incominciata su «cattive basi» paventando «una presa di controllo» da parte del gruppo Del Vecchio. Le prossime settimane saranno decisive sperando che l’inasprirsi delle relazioni italo-francesi resti — come finora — fuori dal campo di gioco.
Grandi gruppi
I casi delle grandi imprese, da Fca a Fincantieri e Luxottica-Essilor
Lo scacchiere italo-francese è strategico anche per le ambizioni della Fincantieri che dopo tanto penare pareva aver incamerato l’acquisizione dei cantieri di Saint-Nazaire e invece si è vista imporre uno stop dall’antitrust europeo proprio per effetto delle lagnanze di tedeschi e francesi.
Se dai campioni nazionali passiamo ad analizzare i principali settori (auto, mattone e cibo) le ombre si allungano. L’incertezza che avvolge l’automotive riporta al legame tra la nostra industria delle componenti e i marchi tedeschi. Produciamo beni intermedi che concorrono al loro export e di conseguenza se le grandi catene del valore si inceppano ne subiamo le conseguenze. Il settore delle costruzioni e delle grandi opere risente invece del clima politico che si è creato in Italia e delle contrapposizioni attorno non solo alla Tav ma anche alle opere minori. I rischi che tutto ciò comporta non solo sulle nostre aziende di eccellenza ma anche sulle Pmi del mattone sono evidenti e non è un caso che nella prima uscita del 2019 il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia abbia centrato il tema «cantieri da aprire».
L’effetto Germania
Se le grandi catene del valore si inceppano le nostre aziende ne subiscono gli effetti
La produzione alimentare non è andata male a fine ‘18 e il neo-presidente della Federalimentare Ivano Vacondio ha ricordato «la forza trainante» del settore ma se guardiamo al 2019 non ci sono certezze. Il mercato interno si presenta fermo e si può solo sperare che le prime erogazioni del reddito di cittadinanza, destinato alle fasce più deboli della società, prendano poi la strada dei consumi alimentari. Altrimenti per crescere serve un’ulteriore crescita delle esportazioni che però dovranno fare i conti con i problemi di rallentamento dell’economia mondiale che ben sappiamo e che potrebbero penalizzare il made in Italy.
L’industria frena. I cantieri: persi 800 mila posti
Dalle costruzioni all’alimentare, l’anno difficile del «made in Italy»
di Dario Di Vico
Lasciamo agli statistici la discussione se e quando saremo costretti a decretare «la recessione tecnica» e concentriamoci invece sulla sostanza ovvero sul rischio che il 2019 si riveli un anno nero per l’industria made in Italy.
I fattori che concorrono a formulare questo presagio sono molti, e parecchi hanno natura esogena, ma il risultato può essere proprio quello di cui sopra. E a poco vale ricordare come anche gli altri Paesi industriali sono alle prese con gli stessi problemi perché, come commenta Andrea Montanino, direttore del Centro Studi Confindustria, «in un contesto di rallentamento generalizzato ogni sistema cercherà di proteggersi il più possibile e per i gruppi italiani impegnati in programmi di espansione o di riorganizzazione ne deriveranno comunque delle difficoltà». Per diversi dei nostri campioni nazionali il 2019 sarebbe stato comunque un anno-chiave.
Partiamo dalla Fca del dopo-Marchionne che dovrà fare i conti con un mercato dell’auto che non darà più le soddisfazioni degli ultimi anni e per di più è alle prese con feroci guerre commerciali, modifiche normative in singoli Paesi e un avanzamento tecnologico la cui tempistica non è chiara quantomeno per la mole degli investimenti che richiede. L’anno appena iniziato è decisivo anche per le prospettive del merger Luxottica-Essilor che ha portato alla nascita di un gigante mondiale dell’ottica integrato verticalmente. E’ in discussione tra i due gruppi l’assetto finale della governance e ci sono, non è un mistero, idee diverse. Nei giorni scorsi i giornali francesi hanno scritto di una fusione incominciata su «cattive basi» paventando «una presa di controllo» da parte del gruppo Del Vecchio. Le prossime settimane saranno decisive sperando che l’inasprirsi delle relazioni italo-francesi resti — come finora — fuori dal campo di gioco.
Grandi gruppi
I casi delle grandi imprese, da Fca a Fincantieri e Luxottica-Essilor
Lo scacchiere italo-francese è strategico anche per le ambizioni della Fincantieri che dopo tanto penare pareva aver incamerato l’acquisizione dei cantieri di Saint-Nazaire e invece si è vista imporre uno stop dall’antitrust europeo proprio per effetto delle lagnanze di tedeschi e francesi.
Se dai campioni nazionali passiamo ad analizzare i principali settori (auto, mattone e cibo) le ombre si allungano. L’incertezza che avvolge l’automotive riporta al legame tra la nostra industria delle componenti e i marchi tedeschi. Produciamo beni intermedi che concorrono al loro export e di conseguenza se le grandi catene del valore si inceppano ne subiamo le conseguenze. Il settore delle costruzioni e delle grandi opere risente invece del clima politico che si è creato in Italia e delle contrapposizioni attorno non solo alla Tav ma anche alle opere minori. I rischi che tutto ciò comporta non solo sulle nostre aziende di eccellenza ma anche sulle Pmi del mattone sono evidenti e non è un caso che nella prima uscita del 2019 il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia abbia centrato il tema «cantieri da aprire».
L’effetto Germania
Se le grandi catene del valore si inceppano le nostre aziende ne subiscono gli effetti
La produzione alimentare non è andata male a fine ‘18 e il neo-presidente della Federalimentare Ivano Vacondio ha ricordato «la forza trainante» del settore ma se guardiamo al 2019 non ci sono certezze. Il mercato interno si presenta fermo e si può solo sperare che le prime erogazioni del reddito di cittadinanza, destinato alle fasce più deboli della società, prendano poi la strada dei consumi alimentari. Altrimenti per crescere serve un’ulteriore crescita delle esportazioni che però dovranno fare i conti con i problemi di rallentamento dell’economia mondiale che ben sappiamo e che potrebbero penalizzare il made in Italy.
La Stampa 12.1.18
Al Tesoro le stime peggiorano
La crescita è sotto l’1 per cento
di Alessandro Barbera
Come nei ruggenti Sessanta. Gli anni dello Stato imprenditore, dell’Alemagna e dell’Autostrada del Sole. «Ci potrebbe essere un nuovo boom economico», dice sicuro Luigi Di Maio. Quando la platea dei consulenti del lavoro ascolta le parole del vicepremier, nel Palazzo dei Congressi di Roma scende il gelo. Gli ultimi dati sulla produzione industriale - in Italia e non solo - confermano purtroppo l’esatto contrario, ovvero quel che le inascoltate Cassandre andavano ripetendo da mesi: il mondo rischia una nuova recessione, e l’Italia, con le sue debolezze, rischia più di altri. Dopo aver ridimensionato la prima stima a +1,5 per cento ora al Tesoro si dà per scontato che nel 2019 il Belpaese non crescerà nemmeno di un punto come ipotizzato negli ultimi documenti ufficiali. C’è chi teme addirittura che la crescita si fermi ben al di sotto di quanto realizzato nell’anno appena trascorso. La causa scatenante non sono le scelte del governo: come dieci anni fa l’onda arriva dagli Stati Uniti. Secondo un sondaggio di Bloomberg fra gli analisti, il rischio di recessione è dato con una probabilità di uno a quattro, il livello più alto da sei anni. Ma oggi il timore è che si fermi anche il gigante cinese, e la scarsa trasparenza delle autorità di Pechino nell’ammetterlo (stimano ancora un +6,5 per cento) potrebbe far più danni di una cruda ammissione della realtà.
Giovanni Tria ne è consapevole, e non solo perché chi elabora i dati lo ha informato. Poco prima di Natale per parlare di tutto ciò è atterrato a Roma il numero uno della Bundesbank Jens Weidmann. Una cena che avrebbe dovuto rimanere riservata ma che Tria - nel tentativo di rilegittimarsi presso le cancellerie - ha voluto rendere nota. In Germania - dove il peso del settore dell’auto è più forte che altrove - i segnali di rallentamento sono arrivati prima e in modo più brusco di quanto non sia accaduto in Italia.
Il bollettino di dicembre della Banca centrale europea era stato chiaro, spiegando le ragioni per cui la politica economica del governo giallo-verde sia inadeguata allo scenario che ci attende. Non per una contrarietà ideologica ad una manovra espansiva, semmai per la mancata occasione di fare scelte che avrebbero potuto dare una spinta alla domanda interna in una fase in cui quella internazionale scenderà. Chi parla in questi giorni con il ministro del Tesoro lo trova pessimista: il suo piano di sostegno agli investimenti degli enti locali è stato azzoppato. Da lunedì per lui inizia un tour in giro per il mondo: prima a Mosca, poi a Bruxelles, Davos e infine negli Stati Uniti. Sarà l’occasione - per ribadire la sua ricetta keynesiana, ma purtroppo con alle spalle mesi di inutili scaramucce verbali con l’Europa che la rendono poco credibile: invece di mettere in discussione la linea della Commissione con l’aiuto dei partner, il governo si è infilato in una lotta solitaria che lo ha costretto a ridurre il deficit programmato a danno degli investimenti. Eppure Francia e Spagna sono sulla linea italiana, e il nuovo ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz è lontanissimo dal rigorismo ortodosso di Wolfgang Schaeuble. La guerra fra Lega e Cinque Stelle sul destino della Tav e il no alle trivellazioni nello Ionio stanno facendo il resto: per Matteo Salvini, i cui voti sono concentrati nella parte più ricca e produttiva del Paese, si avvicina il momento della verità. La maggioranza è paralizzata dal desiderio di rispettare gli impegni elettorali e dall’ansia di riempire le urne alle europee. Nonostante il tentativo di modificare la manovra spingendo su alcune misure pro-impresa, la parte più rilevante della spesa sarà usata per abbassare l’età pensionabile e aumentare i sussidi di chi non lavora.
L’unica speranza ai cui si attaccano al Tesoro è il solito Mario Draghi: pur essendo finita l’era degli acquisti di titoli che negli ultimi tre anni hanno dato ossigeno all’economia, il governatore della Banca centrale europea può fare ancora molto: può rallentare l’uscita dai tassi zero, e accelerare il piano per una nuova asta di liquidità a favore delle banche. Più basso è il costo di finanziamento per gli istituti, più è probabile che questi ultimi mantengano aperti i rubinetti del credito.
Al Tesoro le stime peggiorano
La crescita è sotto l’1 per cento
di Alessandro Barbera
Come nei ruggenti Sessanta. Gli anni dello Stato imprenditore, dell’Alemagna e dell’Autostrada del Sole. «Ci potrebbe essere un nuovo boom economico», dice sicuro Luigi Di Maio. Quando la platea dei consulenti del lavoro ascolta le parole del vicepremier, nel Palazzo dei Congressi di Roma scende il gelo. Gli ultimi dati sulla produzione industriale - in Italia e non solo - confermano purtroppo l’esatto contrario, ovvero quel che le inascoltate Cassandre andavano ripetendo da mesi: il mondo rischia una nuova recessione, e l’Italia, con le sue debolezze, rischia più di altri. Dopo aver ridimensionato la prima stima a +1,5 per cento ora al Tesoro si dà per scontato che nel 2019 il Belpaese non crescerà nemmeno di un punto come ipotizzato negli ultimi documenti ufficiali. C’è chi teme addirittura che la crescita si fermi ben al di sotto di quanto realizzato nell’anno appena trascorso. La causa scatenante non sono le scelte del governo: come dieci anni fa l’onda arriva dagli Stati Uniti. Secondo un sondaggio di Bloomberg fra gli analisti, il rischio di recessione è dato con una probabilità di uno a quattro, il livello più alto da sei anni. Ma oggi il timore è che si fermi anche il gigante cinese, e la scarsa trasparenza delle autorità di Pechino nell’ammetterlo (stimano ancora un +6,5 per cento) potrebbe far più danni di una cruda ammissione della realtà.
Giovanni Tria ne è consapevole, e non solo perché chi elabora i dati lo ha informato. Poco prima di Natale per parlare di tutto ciò è atterrato a Roma il numero uno della Bundesbank Jens Weidmann. Una cena che avrebbe dovuto rimanere riservata ma che Tria - nel tentativo di rilegittimarsi presso le cancellerie - ha voluto rendere nota. In Germania - dove il peso del settore dell’auto è più forte che altrove - i segnali di rallentamento sono arrivati prima e in modo più brusco di quanto non sia accaduto in Italia.
Il bollettino di dicembre della Banca centrale europea era stato chiaro, spiegando le ragioni per cui la politica economica del governo giallo-verde sia inadeguata allo scenario che ci attende. Non per una contrarietà ideologica ad una manovra espansiva, semmai per la mancata occasione di fare scelte che avrebbero potuto dare una spinta alla domanda interna in una fase in cui quella internazionale scenderà. Chi parla in questi giorni con il ministro del Tesoro lo trova pessimista: il suo piano di sostegno agli investimenti degli enti locali è stato azzoppato. Da lunedì per lui inizia un tour in giro per il mondo: prima a Mosca, poi a Bruxelles, Davos e infine negli Stati Uniti. Sarà l’occasione - per ribadire la sua ricetta keynesiana, ma purtroppo con alle spalle mesi di inutili scaramucce verbali con l’Europa che la rendono poco credibile: invece di mettere in discussione la linea della Commissione con l’aiuto dei partner, il governo si è infilato in una lotta solitaria che lo ha costretto a ridurre il deficit programmato a danno degli investimenti. Eppure Francia e Spagna sono sulla linea italiana, e il nuovo ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz è lontanissimo dal rigorismo ortodosso di Wolfgang Schaeuble. La guerra fra Lega e Cinque Stelle sul destino della Tav e il no alle trivellazioni nello Ionio stanno facendo il resto: per Matteo Salvini, i cui voti sono concentrati nella parte più ricca e produttiva del Paese, si avvicina il momento della verità. La maggioranza è paralizzata dal desiderio di rispettare gli impegni elettorali e dall’ansia di riempire le urne alle europee. Nonostante il tentativo di modificare la manovra spingendo su alcune misure pro-impresa, la parte più rilevante della spesa sarà usata per abbassare l’età pensionabile e aumentare i sussidi di chi non lavora.
L’unica speranza ai cui si attaccano al Tesoro è il solito Mario Draghi: pur essendo finita l’era degli acquisti di titoli che negli ultimi tre anni hanno dato ossigeno all’economia, il governatore della Banca centrale europea può fare ancora molto: può rallentare l’uscita dai tassi zero, e accelerare il piano per una nuova asta di liquidità a favore delle banche. Più basso è il costo di finanziamento per gli istituti, più è probabile che questi ultimi mantengano aperti i rubinetti del credito.
il manifesto 12.1.19
Narrazioni fallaci e dura realtà
Economia. L’Istituto segnala che il clima di fiducia dei consumatori ha segnato un ulteriore calo, le aspettative per il futuro hanno registrato una pesante diminuzione, mentre crescono le preoccupazioni per la disoccupazione – niente affatto attutite dalle promesse su un sussidio chiamato reddito di cittadinanza ancora in faticosa gestazione -, mentre declina persino la fiducia delle imprese. Né si può sperare che la buona novella giunga dalle esportazioni
di Alfonso Gianni
Mentre un visionario quanto incauto Di Maio annuncia urbi et orbi che saremmo alle soglie di un nuovo boom economico della misura di quello degli anni ’60, fioccano implacabili i dati Istat.
Dati che ci inchiodano ad una ben diversa e sgradita realtà. Conte, in evidente dissintonia con il ministro dello Sviluppo economico, dichiara che si attendeva un dato negativo come in Europa, Ma le cose sono andate peggio delle più fosche previsioni. I più avevano predetto una flessione della produzione industriale per novembre attorno allo 0,7%. Siamo invece arrivati a un meno 1,6% rispetto ad ottobre.
Pur introducendo gli effetti del calendario, ovvero il cosiddetto effetto ponte essendo il primo novembre caduto di giovedì, questo comporta una caduta del 2,6% nell’arco dei dodici mesi. Naturalmente il crollo non è omogeneo. È stato particolarmente pesante nel settore auto con un calo del 19,4% su base annuale e dell’8,6% su base mensile, cioè tra ottobre e novembre 2018; ma non stanno granché meglio i settori del legno, della carta, della stampa ( -10,4%), dell’attività estrattiva (-9,75), degli articoli in gomma e in plastica (-6,7%). Ma non finisce qui, perché l’Istat ha anche rivisto il dato relativo all’ottobre 2017: non si è trattato di un + 0,1%, ma di -0,1%. Decimali, si dirà.
Sì, ma ciò che conta è l’inversione di segno, confermata da quello che viene adesso e che distrugge d’un botto non solo le dissennate dichiarazioni di un Di Maio, ma la narrazione che lo stesso Tria ha cercato di spargere in Europa per cercare di evitare la procedura di infrazione e imporre a colpi di fiducia al parlamento una legge di bilancio ad esso ignota.
Se i dati ormai imminenti riguardanti dicembre confermassero per la seconda volta un trimestre complessivamente negativo, saremmo alla recessione tecnica certificata. Con sulle spalle una legge di bilancio che posticipa incrementi dell’Iva alla prossima, una pesante spada di Damocle che prelude ad una nuova manovra prociclica, ma in condizioni ancora peggiori e senza più l’ombrello della Bce pienamente aperto, data la fine del Quantitative Easing.
Impietoso l’Istat afferma che «l’attuale fase di debolezza del ciclo economico italiano potrebbe proseguire nei prossimi mesi, alla luce della nuova flessione dell’indicatore anticipatore».
L’Istituto segnala che il clima di fiducia dei consumatori ha segnato un ulteriore calo, le aspettative per il futuro hanno registrato una pesante diminuzione, mentre crescono le preoccupazioni per la disoccupazione – niente affatto attutite dalle promesse su un sussidio chiamato reddito di cittadinanza ancora in faticosa gestazione -, mentre declina persino la fiducia delle imprese. Né si può sperare che la buona novella giunga dalle esportazioni.
È vero che continuano ad essere una risorsa per il nostro paese. Ma molto meno se la congiuntura economica anche dei paesi guida come la Germania segna indici negativi, per non parlare del clima di guerra commerciale nel mondo innescata dalla contesa degli Usa con la Cina, il cui stesso poderoso sviluppo rallenta vistosamente.
È tutta colpa di questo governo? Non scherziamo. Malgrado che la cattiva politica, unita all’incompetenza palese abbia aggravato le cose, i mali dell’Italia vengono da lontano. Sono antecedenti all’ingresso nella moneta unica e tanto più alla Grande recessione scoppiata nel 2008. Negli ultimi cinquant’anni spesso i governi si sono alternati, ma con lievi variazioni di tono tutti hanno pensato che si potesse gestire l’economia italiana non attraverso uno sviluppo di settori innovativi con l’intervento pubblico, ma puntando sulle privatizzazioni e su una competitività di prezzo delle imprese ottenuta attraverso manovre fiscali e politiche di stampo monetarista e soprattutto comprimendo i salari.
La moneta unica è stata introdotta certamente in un’area economica non ottimale, come riconoscono diversi economisti, ma questo non assolve le specifiche responsabilità delle classi dirigenti italiane, le quali fino all’ultimo hanno solamente pensato a manovre di svalutazione della lira, fin quando questo è stato possibile. Ma va ricordato che quando questo avvenne per l’ultima volta, ovvero nel 1992, non se ne approfittò per un rilancio e una innovazione della politica industriale, ma si operò per tagliare e poi liquidare la scala mobile.
I dati di oggi sono figli di quella sciagurata eredità. Resta da domandarsi come mai le statistiche basate sui dati economici indicano l’aumento della sfiducia praticamente in tutti i settori sociali, mentre quelli legati al gradimento politico del governo gli sono ancora ampiamente favorevoli. La risposta non sta solo nella discrasia temporale tra andamento dell’economia e percezione della medesima, ma nell’assenza di un’opposizione politica che è la vera forza di Salvini e compagnia.
Narrazioni fallaci e dura realtà
Economia. L’Istituto segnala che il clima di fiducia dei consumatori ha segnato un ulteriore calo, le aspettative per il futuro hanno registrato una pesante diminuzione, mentre crescono le preoccupazioni per la disoccupazione – niente affatto attutite dalle promesse su un sussidio chiamato reddito di cittadinanza ancora in faticosa gestazione -, mentre declina persino la fiducia delle imprese. Né si può sperare che la buona novella giunga dalle esportazioni
di Alfonso Gianni
Mentre un visionario quanto incauto Di Maio annuncia urbi et orbi che saremmo alle soglie di un nuovo boom economico della misura di quello degli anni ’60, fioccano implacabili i dati Istat.
Dati che ci inchiodano ad una ben diversa e sgradita realtà. Conte, in evidente dissintonia con il ministro dello Sviluppo economico, dichiara che si attendeva un dato negativo come in Europa, Ma le cose sono andate peggio delle più fosche previsioni. I più avevano predetto una flessione della produzione industriale per novembre attorno allo 0,7%. Siamo invece arrivati a un meno 1,6% rispetto ad ottobre.
Pur introducendo gli effetti del calendario, ovvero il cosiddetto effetto ponte essendo il primo novembre caduto di giovedì, questo comporta una caduta del 2,6% nell’arco dei dodici mesi. Naturalmente il crollo non è omogeneo. È stato particolarmente pesante nel settore auto con un calo del 19,4% su base annuale e dell’8,6% su base mensile, cioè tra ottobre e novembre 2018; ma non stanno granché meglio i settori del legno, della carta, della stampa ( -10,4%), dell’attività estrattiva (-9,75), degli articoli in gomma e in plastica (-6,7%). Ma non finisce qui, perché l’Istat ha anche rivisto il dato relativo all’ottobre 2017: non si è trattato di un + 0,1%, ma di -0,1%. Decimali, si dirà.
Sì, ma ciò che conta è l’inversione di segno, confermata da quello che viene adesso e che distrugge d’un botto non solo le dissennate dichiarazioni di un Di Maio, ma la narrazione che lo stesso Tria ha cercato di spargere in Europa per cercare di evitare la procedura di infrazione e imporre a colpi di fiducia al parlamento una legge di bilancio ad esso ignota.
Se i dati ormai imminenti riguardanti dicembre confermassero per la seconda volta un trimestre complessivamente negativo, saremmo alla recessione tecnica certificata. Con sulle spalle una legge di bilancio che posticipa incrementi dell’Iva alla prossima, una pesante spada di Damocle che prelude ad una nuova manovra prociclica, ma in condizioni ancora peggiori e senza più l’ombrello della Bce pienamente aperto, data la fine del Quantitative Easing.
Impietoso l’Istat afferma che «l’attuale fase di debolezza del ciclo economico italiano potrebbe proseguire nei prossimi mesi, alla luce della nuova flessione dell’indicatore anticipatore».
L’Istituto segnala che il clima di fiducia dei consumatori ha segnato un ulteriore calo, le aspettative per il futuro hanno registrato una pesante diminuzione, mentre crescono le preoccupazioni per la disoccupazione – niente affatto attutite dalle promesse su un sussidio chiamato reddito di cittadinanza ancora in faticosa gestazione -, mentre declina persino la fiducia delle imprese. Né si può sperare che la buona novella giunga dalle esportazioni.
È vero che continuano ad essere una risorsa per il nostro paese. Ma molto meno se la congiuntura economica anche dei paesi guida come la Germania segna indici negativi, per non parlare del clima di guerra commerciale nel mondo innescata dalla contesa degli Usa con la Cina, il cui stesso poderoso sviluppo rallenta vistosamente.
È tutta colpa di questo governo? Non scherziamo. Malgrado che la cattiva politica, unita all’incompetenza palese abbia aggravato le cose, i mali dell’Italia vengono da lontano. Sono antecedenti all’ingresso nella moneta unica e tanto più alla Grande recessione scoppiata nel 2008. Negli ultimi cinquant’anni spesso i governi si sono alternati, ma con lievi variazioni di tono tutti hanno pensato che si potesse gestire l’economia italiana non attraverso uno sviluppo di settori innovativi con l’intervento pubblico, ma puntando sulle privatizzazioni e su una competitività di prezzo delle imprese ottenuta attraverso manovre fiscali e politiche di stampo monetarista e soprattutto comprimendo i salari.
La moneta unica è stata introdotta certamente in un’area economica non ottimale, come riconoscono diversi economisti, ma questo non assolve le specifiche responsabilità delle classi dirigenti italiane, le quali fino all’ultimo hanno solamente pensato a manovre di svalutazione della lira, fin quando questo è stato possibile. Ma va ricordato che quando questo avvenne per l’ultima volta, ovvero nel 1992, non se ne approfittò per un rilancio e una innovazione della politica industriale, ma si operò per tagliare e poi liquidare la scala mobile.
I dati di oggi sono figli di quella sciagurata eredità. Resta da domandarsi come mai le statistiche basate sui dati economici indicano l’aumento della sfiducia praticamente in tutti i settori sociali, mentre quelli legati al gradimento politico del governo gli sono ancora ampiamente favorevoli. La risposta non sta solo nella discrasia temporale tra andamento dell’economia e percezione della medesima, ma nell’assenza di un’opposizione politica che è la vera forza di Salvini e compagnia.
La Stampa 12.1.19
Fallito il ricollocamento “obbligatorio”: metà dei migranti sono rimasti in Italia
di Stefano Galeotti
Il meccanismo di mutuo soccorso dell’Unione Europea sui migranti ha fallito. Suddividersi i richiedenti asilo in fuga da guerre e carestie in giro per il mondo, per ridurre il rischio di vederlo diventare, o rimanere, un problema dei soli paesi di primo arrivo come Grecia e Italia: era questa la linea guida del ricollocamento, stabilito con la decisione del Consiglio dell’Unione Europea del 22 settembre 2015. Quel documento prevedeva la distribuzione di 120.000 migranti, 28.000 dal nostro Paese: una soluzione arrivata dopo «aver riconosciuto l’eccezionalità dei flussi migratori di quell’anno e la crisi nel Mediterraneo», come si legge nel documento condiviso da 23 Stati dell’Unione: Regno Unito, Irlanda e Danimarca dissero «no grazie». Accettarono tutti gli altri, sottolineando come premessa all’accordo «la necessità di fondare la risposta alle tragedie nel Mediterraneo sul principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità». Frasi sottoscritte anche da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. I quattro stati del blocco di Visegrad, gli stessi con cui flirta da tempo Matteo Salvini, avrebbero dovuto prendersi carico di circa 4mila richiedenti asilo, Polonia in testa con una quota di oltre 2mila migranti: la somma dei quattro, alla fine di tre anni di programma, è di zero richieste accolte. Ma non sono gli unici Stati ad aver fatto quasi nulla rispetto a quanto promesso, e sottoscritto: alla fine del programma, che ha visto gli ultimi processi di ricollocamento terminare a fine 2018, i numeri dicono che solo il 44% dei trasferimenti inizialmente previsti sono effettivamente avvenuti.
Tra chi ha rispettato meno i propri impegni ci sono anche l’Austria, che ha accolto solo 45 migranti sui quasi 900 previsti, e la Bulgaria appena 10 su 300. Percentuali sotto la doppia cifra, come quelle di Romania (4%), Estonia (7%) e Croazia (9%). Poco sopra si trova la Francia, che ha negato il ricollocamento di 5.000 persone, mentre ha decisamente fatto bene la Germania: era lo Stato che più si era impegnato, con una quota di oltre 7mila migranti, e alla fine ne ha accolti 5.446 (74%). Il baluardo della solidarietà è il Nord Europa: Finlandia e Svezia sono andati addirittura oltre le promesse, accogliendo rispettivamente 779 e 1392 richiedenti asilo. E la Norvegia, pur fuori dall’Ue, si è inserita nel meccanismo solidaristico e ha preso in carico 693 richieste; la Svizzera, sempre da esterna, ha accolto 580 persone. Anche Malta, prima di diventare lei stessa un paese di sbarco, si è dimostrata sensibile sulla questione dei ricollocamenti, permettendo l'arrivo di 67 persone contro le 31 previste. Quella procedura di ricollocamento fu decisa con un atto almeno sulla carta vincolante, e non su base volontaria come quelli relativi agli sbarchi dell’ultimo periodo. L’iter da seguire era molto chiaro. Ogni tre mesi gli Stati membri dovevano indicare il numero di migranti che sarebbero stati in grado di ricollocare. Dopo l’arrivo in territorio italiano (o greco), dove il richiedente asilo era identificato e registrato tramite il rilevamento delle impronte digitali, venivano dati due mesi di tempo per completare la procedura: lo Stato in questione diventava così responsabile della richiesta d’asilo, liberando i paesi di arrivo di un ulteriore passaggio burocratico.
Il Consiglio dell’Ue inserì un criterio molto stringente: poteva essere ricollocato solamente il richiedente asilo proveniente da una nazionalità con un alto tasso di accettazione (il 75%) delle richieste di protezione internazionale. Una percentuale che ha portato a distribuire nel Continente soprattutto migranti provenienti da Eritrea e Siria, dove nel 2015 le condizioni di partenza erano tali da rendere quasi certo l’esito positivo del processo. Con gli arrivi dal paese arabo che, verso l’Italia, sono quasi terminati nello stesso anno, questa scelta si è rivelata un boomerang, perché di fatto ha reso applicabile la decisione su una sola nazionalità e non su quelle che in questi anni sono state le più rappresentate a livello di sbarchi. L’Europa si impegnò anche a riconoscere al paese membro di destinazione 6.000 euro per ogni migrante accolto, dedicando potenzialmente a questo programma 700 milioni di euro. Ma questo non è bastato a convincere molti Stati della necessità di impegnarsi nella ricollocazione. E così più della metà delle procedure sono rimaste bloccate alle frontiere che evidentemente ancora dividono l’Europa.
Fallito il ricollocamento “obbligatorio”: metà dei migranti sono rimasti in Italia
di Stefano Galeotti
Il meccanismo di mutuo soccorso dell’Unione Europea sui migranti ha fallito. Suddividersi i richiedenti asilo in fuga da guerre e carestie in giro per il mondo, per ridurre il rischio di vederlo diventare, o rimanere, un problema dei soli paesi di primo arrivo come Grecia e Italia: era questa la linea guida del ricollocamento, stabilito con la decisione del Consiglio dell’Unione Europea del 22 settembre 2015. Quel documento prevedeva la distribuzione di 120.000 migranti, 28.000 dal nostro Paese: una soluzione arrivata dopo «aver riconosciuto l’eccezionalità dei flussi migratori di quell’anno e la crisi nel Mediterraneo», come si legge nel documento condiviso da 23 Stati dell’Unione: Regno Unito, Irlanda e Danimarca dissero «no grazie». Accettarono tutti gli altri, sottolineando come premessa all’accordo «la necessità di fondare la risposta alle tragedie nel Mediterraneo sul principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità». Frasi sottoscritte anche da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. I quattro stati del blocco di Visegrad, gli stessi con cui flirta da tempo Matteo Salvini, avrebbero dovuto prendersi carico di circa 4mila richiedenti asilo, Polonia in testa con una quota di oltre 2mila migranti: la somma dei quattro, alla fine di tre anni di programma, è di zero richieste accolte. Ma non sono gli unici Stati ad aver fatto quasi nulla rispetto a quanto promesso, e sottoscritto: alla fine del programma, che ha visto gli ultimi processi di ricollocamento terminare a fine 2018, i numeri dicono che solo il 44% dei trasferimenti inizialmente previsti sono effettivamente avvenuti.
Tra chi ha rispettato meno i propri impegni ci sono anche l’Austria, che ha accolto solo 45 migranti sui quasi 900 previsti, e la Bulgaria appena 10 su 300. Percentuali sotto la doppia cifra, come quelle di Romania (4%), Estonia (7%) e Croazia (9%). Poco sopra si trova la Francia, che ha negato il ricollocamento di 5.000 persone, mentre ha decisamente fatto bene la Germania: era lo Stato che più si era impegnato, con una quota di oltre 7mila migranti, e alla fine ne ha accolti 5.446 (74%). Il baluardo della solidarietà è il Nord Europa: Finlandia e Svezia sono andati addirittura oltre le promesse, accogliendo rispettivamente 779 e 1392 richiedenti asilo. E la Norvegia, pur fuori dall’Ue, si è inserita nel meccanismo solidaristico e ha preso in carico 693 richieste; la Svizzera, sempre da esterna, ha accolto 580 persone. Anche Malta, prima di diventare lei stessa un paese di sbarco, si è dimostrata sensibile sulla questione dei ricollocamenti, permettendo l'arrivo di 67 persone contro le 31 previste. Quella procedura di ricollocamento fu decisa con un atto almeno sulla carta vincolante, e non su base volontaria come quelli relativi agli sbarchi dell’ultimo periodo. L’iter da seguire era molto chiaro. Ogni tre mesi gli Stati membri dovevano indicare il numero di migranti che sarebbero stati in grado di ricollocare. Dopo l’arrivo in territorio italiano (o greco), dove il richiedente asilo era identificato e registrato tramite il rilevamento delle impronte digitali, venivano dati due mesi di tempo per completare la procedura: lo Stato in questione diventava così responsabile della richiesta d’asilo, liberando i paesi di arrivo di un ulteriore passaggio burocratico.
Il Consiglio dell’Ue inserì un criterio molto stringente: poteva essere ricollocato solamente il richiedente asilo proveniente da una nazionalità con un alto tasso di accettazione (il 75%) delle richieste di protezione internazionale. Una percentuale che ha portato a distribuire nel Continente soprattutto migranti provenienti da Eritrea e Siria, dove nel 2015 le condizioni di partenza erano tali da rendere quasi certo l’esito positivo del processo. Con gli arrivi dal paese arabo che, verso l’Italia, sono quasi terminati nello stesso anno, questa scelta si è rivelata un boomerang, perché di fatto ha reso applicabile la decisione su una sola nazionalità e non su quelle che in questi anni sono state le più rappresentate a livello di sbarchi. L’Europa si impegnò anche a riconoscere al paese membro di destinazione 6.000 euro per ogni migrante accolto, dedicando potenzialmente a questo programma 700 milioni di euro. Ma questo non è bastato a convincere molti Stati della necessità di impegnarsi nella ricollocazione. E così più della metà delle procedure sono rimaste bloccate alle frontiere che evidentemente ancora dividono l’Europa.
La Stampa 12.1.19
“Sostegno a chi accoglie, no ai porti chiusi”
Avramopoulos porta a Roma la sua agenda
Il Commissario europeo alla migrazione sarà nella capitale lunedì: incontri separati con Conte e Salvini
di Marco Bresolin
Un sostegno “pratico”, con l’invio di esperti, per accelerare l’analisi delle domande d’asilo subito dopo gli sbarchi. “Un aiuto concreto” per i “rimpatri veloci” di chi non ne ha diritto. E la mediazione politica con gli altri governi per facilitare la redistribuzione dei richiedenti asilo. Ma dall’altro lato la richiesta, netta, di “rispettare il diritto internazionale” e dunque di aprire i porti e far sbarcare sul territorio italiano i migranti salvati in mare. Ecco le proposte che il commissario Dimitris Avramopoulos porterà lunedì a Roma nei suoi due incontri (separati) con Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Salvini si dice certo “al cento per cento” di convincere Avramopoulos ad accettare i ricollocamenti. Ma dalla Commissione ricordano che la redistribuzione è possibile solo su base volontaria e che dunque quelli da convincere sono gli altri governi, non Bruxelles.
La trasferta del commissario greco assomiglia un po’ al proverbio di Maometto e della montagna. Con il ministro dell’Interno nei panni del profeta. Già perché a sette mesi dal suo insediamento, il capo del Viminale non è mai andato a Bruxelles in veste ufficiale. Sinora ha partecipato a un solo Consiglio Affari Interni nel mese di luglio, ma si trattava di una riunione informale che tra l’altro si è tenuta a Innsbruck. Un’assenza che non è passata inosservata negli ambienti diplomatici bruxellesi. Sarà dunque Avramopoulos ad andare in Italia. Avrebbe voluto partire già ieri, ma Jean-Claude Juncker lo ha invitato a rimandare. Ieri il collegio dei commissari era infatti a Bucarest per l’avvio del semestre di presidenza rumena e il presidente della Commissione ha chiesto al greco di non rinunciare al confronto con il governo guidato da Viorica Dăncilă. Juncker non sembra troppo ottimista sulla possibilità di trovare una via d’uscita per evitare altri casi come quelli della Sea Watch3 e della Sea Eye. Conosce troppo bene le posizioni dei governi europei per farsi facili illusioni. Ieri, durante una conferenza stampa a Bucarest, ha evitato di rispondere alla domanda sulla possibile “soluzione-ponte” e si è invece lasciato andare a un amaro sfogo: “Se gli Stati Ue avessero adottato tutte le proposte della Commissione sull’immigrazione, non saremmo nella situazione in cui ci troviamo ogni mese, ogni settimana, quasi ogni giorno”. Una gabbia senza via d’uscita.
Della questione si è parlato anche nella riunione allargata della Commissione con il governo e con il presidente romeno. Ma anche quest’ultimo, Klaus Iohannis, è parso estremamente scettico. “Una soluzione temporanea? - spiega al termine del vertice - Non è quello che i cittadini si aspettano. Gli europei vogliono soluzioni durevoli”. Il problema è che nessuno sa né come né quando verrà approvata la riforma di Dublino. “Non è facile, su questo gli Stati hanno una visione completamente diversa” ammette Teodor Meleșcanu, ministro degli Esteri di Bucarest. Per questo Avramopoulos insiste nel proporre un piano da applicare nel frattempo. Per metterlo in pratica, però, bisogna superare diversi ostacoli. Innanzitutto serve che i Paesi del Mediterraneo consentano l’attracco delle navi nei loro porti. Per farlo, questi chiedono che altri Stati accettino di partecipare alla redistribuzione. Basterebbe un gruppo di volenterosi. Ma bisognerebbe andare oltre gli otto governi che hanno fatto la loro parte nei giorni scorsi e che hanno così consentito di sbloccare la situazione a Malta. Per far funzionare il meccanismo, ha ricordato ieri una portavoce della Commissione, “è necessaria la partecipazione di una massa critica di Stati membri, ma un numero sufficiente ancora non c’è”.
“Sostegno a chi accoglie, no ai porti chiusi”
Avramopoulos porta a Roma la sua agenda
Il Commissario europeo alla migrazione sarà nella capitale lunedì: incontri separati con Conte e Salvini
di Marco Bresolin
Un sostegno “pratico”, con l’invio di esperti, per accelerare l’analisi delle domande d’asilo subito dopo gli sbarchi. “Un aiuto concreto” per i “rimpatri veloci” di chi non ne ha diritto. E la mediazione politica con gli altri governi per facilitare la redistribuzione dei richiedenti asilo. Ma dall’altro lato la richiesta, netta, di “rispettare il diritto internazionale” e dunque di aprire i porti e far sbarcare sul territorio italiano i migranti salvati in mare. Ecco le proposte che il commissario Dimitris Avramopoulos porterà lunedì a Roma nei suoi due incontri (separati) con Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Salvini si dice certo “al cento per cento” di convincere Avramopoulos ad accettare i ricollocamenti. Ma dalla Commissione ricordano che la redistribuzione è possibile solo su base volontaria e che dunque quelli da convincere sono gli altri governi, non Bruxelles.
La trasferta del commissario greco assomiglia un po’ al proverbio di Maometto e della montagna. Con il ministro dell’Interno nei panni del profeta. Già perché a sette mesi dal suo insediamento, il capo del Viminale non è mai andato a Bruxelles in veste ufficiale. Sinora ha partecipato a un solo Consiglio Affari Interni nel mese di luglio, ma si trattava di una riunione informale che tra l’altro si è tenuta a Innsbruck. Un’assenza che non è passata inosservata negli ambienti diplomatici bruxellesi. Sarà dunque Avramopoulos ad andare in Italia. Avrebbe voluto partire già ieri, ma Jean-Claude Juncker lo ha invitato a rimandare. Ieri il collegio dei commissari era infatti a Bucarest per l’avvio del semestre di presidenza rumena e il presidente della Commissione ha chiesto al greco di non rinunciare al confronto con il governo guidato da Viorica Dăncilă. Juncker non sembra troppo ottimista sulla possibilità di trovare una via d’uscita per evitare altri casi come quelli della Sea Watch3 e della Sea Eye. Conosce troppo bene le posizioni dei governi europei per farsi facili illusioni. Ieri, durante una conferenza stampa a Bucarest, ha evitato di rispondere alla domanda sulla possibile “soluzione-ponte” e si è invece lasciato andare a un amaro sfogo: “Se gli Stati Ue avessero adottato tutte le proposte della Commissione sull’immigrazione, non saremmo nella situazione in cui ci troviamo ogni mese, ogni settimana, quasi ogni giorno”. Una gabbia senza via d’uscita.
Della questione si è parlato anche nella riunione allargata della Commissione con il governo e con il presidente romeno. Ma anche quest’ultimo, Klaus Iohannis, è parso estremamente scettico. “Una soluzione temporanea? - spiega al termine del vertice - Non è quello che i cittadini si aspettano. Gli europei vogliono soluzioni durevoli”. Il problema è che nessuno sa né come né quando verrà approvata la riforma di Dublino. “Non è facile, su questo gli Stati hanno una visione completamente diversa” ammette Teodor Meleșcanu, ministro degli Esteri di Bucarest. Per questo Avramopoulos insiste nel proporre un piano da applicare nel frattempo. Per metterlo in pratica, però, bisogna superare diversi ostacoli. Innanzitutto serve che i Paesi del Mediterraneo consentano l’attracco delle navi nei loro porti. Per farlo, questi chiedono che altri Stati accettino di partecipare alla redistribuzione. Basterebbe un gruppo di volenterosi. Ma bisognerebbe andare oltre gli otto governi che hanno fatto la loro parte nei giorni scorsi e che hanno così consentito di sbloccare la situazione a Malta. Per far funzionare il meccanismo, ha ricordato ieri una portavoce della Commissione, “è necessaria la partecipazione di una massa critica di Stati membri, ma un numero sufficiente ancora non c’è”.
Il Fatto 12.1.19
Dall’arrivo allo sbarco: le regole del mare
Come funziona - Il codice della navigazione e le competenze di Infrastrutture e Viminale
di A. Mass.
Porti chiusi. Porti aperti. Dice bene Salvini quando annuncia la chiusura dei porti alle navi che hanno soccorso i migranti? O dicono bene i presidenti dei porti, quando spiegano che non li ha mai chiusi nessuno? Ma soprattutto: come funziona la chiusura dei porti?
Innanzitutto, non spetta al Viminale la chiusura di alcun porto, ma al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, quindi a Danilo Toninelli. Quel che il Viminale può fare, invece, è non autorizzare lo sbarco dei migranti sul suolo italiano, che è ben altra cosa. Ma come si fa a chiudere un porto? Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti deve adottare un provvedimento apposito e ovviamente motivato.
“Il ministro dei Trasporti e della navigazione – recita l’articolo 83 del codice della navigazione – può limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e, di concerto con il ministro dell’Ambiente, per motivi di protezione dell’ambiente marino, determinando le zone alle quali il divieto si estende”.
In assenza di un provvedimento simile, il porto si ritiene aperto. E i suoi responsabili sono tenuti – nel caso sia necessario, in base all’articolo 1113 del codice della navigazione – a “cooperare con i mezzi dei quali dispone al soccorso di una nave”, di “un galleggiante” o “di una persona in pericolo”, pena la reclusione da uno a tre anni per omissione di soccorso.
E quindi: se una nave chiede di entrare nel porto, in assenza di un provvedimento di chiusura, che accade? Le possibilità sono tre. L’autorità portuale concede il permesso; sceglie di non rispondere formalmente, creando una provvisoria situazione di stallo; decide di non assegnare la banchina. In questi ultimi due casi, nei fatti, chiude l’accesso a un porto aperto. Ma è sempre tenuta a rispettare l’articolo 1113 per non incorrere nel reato di omissione di soccorso.
Ora andiamo oltre e analizziamo un altro scenario: che accade se invece la nave chiede il permesso di entrare in porto, lo ottiene ed è autorizzata anche ad attraccare al molo? I migranti soccorsi possono finalmente sbarcare? La risposta è: no. È da questo momento, infatti, che la competenza si sposta dal ministero dei trasporti e delle infrastrutture al Viminale.
È al ministero dell’Interno che spetta indicare alla nave il “porto sicuro” dove sbarcare. Ed è su questo che si gioca la propaganda del linguaggio di Salvini: se dicesse “stop all’indicazione dei porti sicuri” l’affermazione sarebbe più vicina alla verità e alle sue reali possibilità. Vediamo perché.
Lo sbarco dei migranti presuppone una serie di misure propedeutiche: l’arrivo della polizia – o altre forze – per gestire la questione dell’ordine pubblico, per esempio. L’invio di medici per questioni di natura sanitaria. L’organizzazione della prima accoglienza sul territorio. Tutti settori che esulano dalle responsabilità del ministero retto da Toninelli e sono, invece, di competenza del Viminale, che deve mettere in piedi la macchina organizzativa. È per questo che l’autorizzazione allo sbarco, e quindi l’indicazione del luogo dove sbarcare, ovvero il “porto sicuro”, spetta a Salvini. E il Viminale – come già accaduto nell’estate scorsa a Pozzallo e a Catania – può scegliere di temporeggiare e non fornire alcuna indicazione. Impedendo così lo sbarco, ma senza chiudere alcun porto, e per un semplice motivo: non rientra nelle sue competenze.
Dall’arrivo allo sbarco: le regole del mare
Come funziona - Il codice della navigazione e le competenze di Infrastrutture e Viminale
di A. Mass.
Porti chiusi. Porti aperti. Dice bene Salvini quando annuncia la chiusura dei porti alle navi che hanno soccorso i migranti? O dicono bene i presidenti dei porti, quando spiegano che non li ha mai chiusi nessuno? Ma soprattutto: come funziona la chiusura dei porti?
Innanzitutto, non spetta al Viminale la chiusura di alcun porto, ma al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, quindi a Danilo Toninelli. Quel che il Viminale può fare, invece, è non autorizzare lo sbarco dei migranti sul suolo italiano, che è ben altra cosa. Ma come si fa a chiudere un porto? Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti deve adottare un provvedimento apposito e ovviamente motivato.
“Il ministro dei Trasporti e della navigazione – recita l’articolo 83 del codice della navigazione – può limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e, di concerto con il ministro dell’Ambiente, per motivi di protezione dell’ambiente marino, determinando le zone alle quali il divieto si estende”.
In assenza di un provvedimento simile, il porto si ritiene aperto. E i suoi responsabili sono tenuti – nel caso sia necessario, in base all’articolo 1113 del codice della navigazione – a “cooperare con i mezzi dei quali dispone al soccorso di una nave”, di “un galleggiante” o “di una persona in pericolo”, pena la reclusione da uno a tre anni per omissione di soccorso.
E quindi: se una nave chiede di entrare nel porto, in assenza di un provvedimento di chiusura, che accade? Le possibilità sono tre. L’autorità portuale concede il permesso; sceglie di non rispondere formalmente, creando una provvisoria situazione di stallo; decide di non assegnare la banchina. In questi ultimi due casi, nei fatti, chiude l’accesso a un porto aperto. Ma è sempre tenuta a rispettare l’articolo 1113 per non incorrere nel reato di omissione di soccorso.
Ora andiamo oltre e analizziamo un altro scenario: che accade se invece la nave chiede il permesso di entrare in porto, lo ottiene ed è autorizzata anche ad attraccare al molo? I migranti soccorsi possono finalmente sbarcare? La risposta è: no. È da questo momento, infatti, che la competenza si sposta dal ministero dei trasporti e delle infrastrutture al Viminale.
È al ministero dell’Interno che spetta indicare alla nave il “porto sicuro” dove sbarcare. Ed è su questo che si gioca la propaganda del linguaggio di Salvini: se dicesse “stop all’indicazione dei porti sicuri” l’affermazione sarebbe più vicina alla verità e alle sue reali possibilità. Vediamo perché.
Lo sbarco dei migranti presuppone una serie di misure propedeutiche: l’arrivo della polizia – o altre forze – per gestire la questione dell’ordine pubblico, per esempio. L’invio di medici per questioni di natura sanitaria. L’organizzazione della prima accoglienza sul territorio. Tutti settori che esulano dalle responsabilità del ministero retto da Toninelli e sono, invece, di competenza del Viminale, che deve mettere in piedi la macchina organizzativa. È per questo che l’autorizzazione allo sbarco, e quindi l’indicazione del luogo dove sbarcare, ovvero il “porto sicuro”, spetta a Salvini. E il Viminale – come già accaduto nell’estate scorsa a Pozzallo e a Catania – può scegliere di temporeggiare e non fornire alcuna indicazione. Impedendo così lo sbarco, ma senza chiudere alcun porto, e per un semplice motivo: non rientra nelle sue competenze.
Il Fatto 12.1.19
Il ministro censura: “I porti sono aperti, ma non si può dire”
Autorità portuali - Il bavaglio di Toninelli a tre presidenti “ribelli”: “Hanno espresso posizioni sulle scelte del governo sui migranti”
di Antonio Massari
Tra una diretta Facebook e un tweet, distinguere la politica dalla propaganda e dalla comunicazione, diventa sempre più complicato. Chi dice il vero viene redarguito e censurato. È quel che accade da giorni tra il vicepremier Matteo Salvini e il ministro delle Infrastrutture (M5S) Danilo Toninelli. “Lunedì – dice Salvini su Facebook – incontrerò il commissario europeo Dimitris Avramopoulos e gli ribadirò la politica italiana dei porti chiusi”. Il cittadino deduce che in Italia, per le navi delle Ong, o chiunque salvi un naufrago nel Mediterraneo, i porti siano chiusi. L’ha detto il ministro dell’Interno. Non il barista sotto casa. Deduce male, però. Come confermato dall’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), che per dimostrarlo ha dovuto fare un accesso agli atti del ministero, quello retto da Toninelli, visto che a chiudere i porti dovrebbe essere lui, non Salvini.
Il punto è che anche i presidenti di tre autorità portuali hanno provato a disinnescare la disinformazione del Viminale: “Sotto il profilo tecnico i porti italiani non sono chiusi” ha spiegato il presidente dell’Autorità portuale del mare Adriatico settentrionale, Pino Musolino, “non esiste un decreto del Ministero dei trasporti che chiuda i porti italiani”. Musolino prova a rimettere sul tavolo la verità: “Il Viminale può vietare lo sbarco di passeggeri, non l’ingresso né l’approdo di navi nei porti”. Ci prova pure Pietro Spirito, che governa i porti di Napoli e Salerno: “Non c’è alcun provvedimento di chiusura del porto. È un dibattito surreale. Purtroppo oggi in Italia si discute di questi argomenti come del calcio al bar, ma io faccio il tecnico e il manager, e vorrei si discutesse di fatti, non di opinioni”. Spirito in effetti forse pretende un po’ troppo. Non quanto Carla Roncallo, però, che sulla vicenda Malta Sea Watch – peraltro anticipando di qualche giorno la posizione del premier Giuseppe Conte – si spinge ancora più in là: “Da essere umano, penso sia vergognoso che non si riesca a trovare una soluzione per risolvere la terribile situazione di queste persone”, scrive la presidente dell’Autorità Portuale del Mar Ligure Orientale, rispondendo all’appello lanciato da alcuni consiglieri della Spezia per aprire il porto spezzino ai 49 migranti della Sea Watch. Poi chiarisce: “Il porto della Spezia non è chiuso come, ritengo, non lo siano gli altri porti italiani. Non risultano provvedimenti di chiusura”. Che la Roncallo, da “essere umano”, esprima una convinzione politica – peraltro coerente con le imminenti scelte di Conte – è senza dubbio fuori dall’etichetta ministeriale.
E infatti il ministro Toninelli, lungi dal polemizzare con Salvini, propalatore di chiusure di porti che non può chiudere, nonché usurpatore di propaganda altrui, che fa? Convoca i tre presidenti al ministero per redarguirli. E due giorni fa lo comunica alle agenzie di stampa specificando che lo scandalo non accadrà mai più. Il Fatto ha rivolto al ministero due domande. La prima: i porti sono chiusi o no? Risposta: “Non è servito alcun decreto di chiusura perché il coordinamento dei soccorsi non era italiano”. La seconda: se sono aperti perché rimproverare i tre presidenti? Risposta: “Perché non si sono limitati a ribadire – peraltro pleonasticamente – che i porti non erano stati chiusi ma hanno espresso pubblicamente posizioni di merito sulle scelte politiche relative alla gestione del fenomeno migratorio, che esulano dalle loro competenze, adombrando la possibilità di aprire in modo autonomo e del tutto improprio i porti di loro competenza”. A questo punto i fatti certi sono due: Salvini può continuare ad annunciare all’Ue la politica dei “porti chiusi”. E che i presidenti dei porti non s’azzardino ad adombrare l’idea di aprire i porti aperti. Altrimenti “pleonasticamente” Toninelli s’incazza. Con loro.
Il ministro censura: “I porti sono aperti, ma non si può dire”
Autorità portuali - Il bavaglio di Toninelli a tre presidenti “ribelli”: “Hanno espresso posizioni sulle scelte del governo sui migranti”
di Antonio Massari
Tra una diretta Facebook e un tweet, distinguere la politica dalla propaganda e dalla comunicazione, diventa sempre più complicato. Chi dice il vero viene redarguito e censurato. È quel che accade da giorni tra il vicepremier Matteo Salvini e il ministro delle Infrastrutture (M5S) Danilo Toninelli. “Lunedì – dice Salvini su Facebook – incontrerò il commissario europeo Dimitris Avramopoulos e gli ribadirò la politica italiana dei porti chiusi”. Il cittadino deduce che in Italia, per le navi delle Ong, o chiunque salvi un naufrago nel Mediterraneo, i porti siano chiusi. L’ha detto il ministro dell’Interno. Non il barista sotto casa. Deduce male, però. Come confermato dall’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), che per dimostrarlo ha dovuto fare un accesso agli atti del ministero, quello retto da Toninelli, visto che a chiudere i porti dovrebbe essere lui, non Salvini.
Il punto è che anche i presidenti di tre autorità portuali hanno provato a disinnescare la disinformazione del Viminale: “Sotto il profilo tecnico i porti italiani non sono chiusi” ha spiegato il presidente dell’Autorità portuale del mare Adriatico settentrionale, Pino Musolino, “non esiste un decreto del Ministero dei trasporti che chiuda i porti italiani”. Musolino prova a rimettere sul tavolo la verità: “Il Viminale può vietare lo sbarco di passeggeri, non l’ingresso né l’approdo di navi nei porti”. Ci prova pure Pietro Spirito, che governa i porti di Napoli e Salerno: “Non c’è alcun provvedimento di chiusura del porto. È un dibattito surreale. Purtroppo oggi in Italia si discute di questi argomenti come del calcio al bar, ma io faccio il tecnico e il manager, e vorrei si discutesse di fatti, non di opinioni”. Spirito in effetti forse pretende un po’ troppo. Non quanto Carla Roncallo, però, che sulla vicenda Malta Sea Watch – peraltro anticipando di qualche giorno la posizione del premier Giuseppe Conte – si spinge ancora più in là: “Da essere umano, penso sia vergognoso che non si riesca a trovare una soluzione per risolvere la terribile situazione di queste persone”, scrive la presidente dell’Autorità Portuale del Mar Ligure Orientale, rispondendo all’appello lanciato da alcuni consiglieri della Spezia per aprire il porto spezzino ai 49 migranti della Sea Watch. Poi chiarisce: “Il porto della Spezia non è chiuso come, ritengo, non lo siano gli altri porti italiani. Non risultano provvedimenti di chiusura”. Che la Roncallo, da “essere umano”, esprima una convinzione politica – peraltro coerente con le imminenti scelte di Conte – è senza dubbio fuori dall’etichetta ministeriale.
E infatti il ministro Toninelli, lungi dal polemizzare con Salvini, propalatore di chiusure di porti che non può chiudere, nonché usurpatore di propaganda altrui, che fa? Convoca i tre presidenti al ministero per redarguirli. E due giorni fa lo comunica alle agenzie di stampa specificando che lo scandalo non accadrà mai più. Il Fatto ha rivolto al ministero due domande. La prima: i porti sono chiusi o no? Risposta: “Non è servito alcun decreto di chiusura perché il coordinamento dei soccorsi non era italiano”. La seconda: se sono aperti perché rimproverare i tre presidenti? Risposta: “Perché non si sono limitati a ribadire – peraltro pleonasticamente – che i porti non erano stati chiusi ma hanno espresso pubblicamente posizioni di merito sulle scelte politiche relative alla gestione del fenomeno migratorio, che esulano dalle loro competenze, adombrando la possibilità di aprire in modo autonomo e del tutto improprio i porti di loro competenza”. A questo punto i fatti certi sono due: Salvini può continuare ad annunciare all’Ue la politica dei “porti chiusi”. E che i presidenti dei porti non s’azzardino ad adombrare l’idea di aprire i porti aperti. Altrimenti “pleonasticamente” Toninelli s’incazza. Con loro.
Corriere 12.1.19
Le promesse, i paradossi
Numeri reali (e propaganda) sui migranti
di Goffredo Buccini
Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha un serio problema con i rimpatri: pochi e assai costosi. C’è poi un’altra preoccupazione che va ad aggravare la situazione: le espulsioni dai centri di accoglienza. Immigrati che non partono e immigrati che escono dai centri. Un mix che rischia di deflagrare.
S e un alieno fosse sceso tra noi nella settimana che si va concludendo, non sarebbe stato facile spiegargli come mai una comunità di 500 milioni di umani denominata Europa si sia azzuffata per venti giorni prima di salvare 49 poveretti sballottati tra i marosi a un miglio dalla costa. La verità, indigesta non solo per l’alieno, è che all’avvicinarsi del 26 maggio, data delle prossime elezioni nell’Unione, i numeri perdono il loro legame col reale, diventando simboli. E lo sono più che mai nella terra maggiormente esposta alle migrazioni, la nostra Italia. Perché su di essi ha giocato la propria fiche politica l’uomo forte del governo gialloverde, Matteo Salvini.
Dai numeri conviene dunque ripartire. Il più discusso è 130 mila. È noto che, secondo le proiezioni dell’Ispi, tale sarebbe da noi l’aumento dei clandestini nei prossimi due anni per effetto della legge sulla sicurezza voluta dal vicepremier leghista. L’Istituto per gli studi di politica internazionale calcola 72 mila nuovi irregolari per l’arretrato delle commissioni prefettizie, 32 mila per il mancato rinnovo dei permessi umanitari e 27 mila mancati rimpatri di chi ha già perso il requisito. L’effetto, partendo da un dato della fondazione Ismu (491.000 irregolari in Italia a fine 2017) porterebbe il numero degli «invisibili» a 620 mila. Basandosi invece sulla stima della Commissione parlamentare per le periferie (600 mila già sul territorio) si arriverebbe alla cifra mostruosa di 730 mila. Si dirà: alcuni vanno via. Pochi, in realtà, perché le frontiere restano bloccate. L’Ispi può sbagliare, certo, ma opera da 90 anni in tutto il mondo.
Il rischio insomma c’è, a medio termine: un terribile cortocircuito (o, come sostiene Piero Sansonetti sul Dubbio , una clamorosa eterogenesi dei fini) di cui prima o poi gli elettori potrebbero chiedere conto. Salvini deve muoversi su un sentiero stretto puntando a un all in tra le Europee di maggio ed eventuali politiche anticipate, prima che la luna di miele fotografata dai sondaggi gli si trasformi in fiele.
Al momento alleati involontari del ministro degli Interni sono, per paradosso, i sindaci più legati a un certo populismo di sinistra, Leoluca Orlando e Luigi de Magistris, che prospettano una ribellione alla legge dello Stato ricollocando così la questione su un piano tutto ideologico sul quale Salvini non ha difficoltà a invocare — oltre che il diritto — la volontà popolare (sei italiani su dieci sono d’accordo con le sue misure, con buona pace di Maurizio Martina che vorrebbe addirittura vedere scolpito in un referendum questo verdetto così pesante per la sinistra classica). Seguendo uno schema che Francois Furet spiegò assai bene nel suo «Passato di un’illusione» sugli estremismi del Novecento, la sinistra più ideologizzata continua a fare inconsapevole sponda al ministro che, in difficoltà per la manovra economica, ha avuto il prezioso salvagente di un ritorno della questione migratoria al centro del dibattito pubblico (il massimo regalo politico potrebbe a questo punto essere per lui una sentenza della Consulta avversa alla sua legge, effetto dell’annunciato ricorso di alcuni governatori pd). Solo un bagno di realtà può spostare un’opinione pubblica ancora assai irritata dalla mancanza di sicurezza che si percepisce nelle nostre periferie (la sinistra dovrebbe tenere a mente, quanto all’effettività di certe percezioni, il noto teorema di William Thomas secondo cui «se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze»). Salvini ha un gigantesco problema con i rimpatri, pochi e assai costosi, che, combinati con le espulsioni dai centri d’accoglienza, rischiano di creare un mix sempre più esplosivo. Al di là delle polemiche, si procede a un ritmo di circa 20 rimpatri al giorno: lui ne aveva garantiti cinque volte tanto in campagna elettorale. Di questo passo, per rimandare indietro 600 mila irregolari, come promesso prima del 4 marzo, ci vorrebbero 82 anni (mancano gli accordi bilaterali, ottenerli richiede un lungo, oscuro lavoro diplomatico che può fare solo il ministro degli Esteri Moavero, finora nell’angolo). Molto dell’attuale dibattito di bandiera serve insomma a distogliere l’attenzione. Anche la vicenda dei profughi di Sea Watch e Sea Eye: 49 disperati per i quali si sono proclamati i porti chiusi, mentre — dati del Viminale — tra il 27 e il 30 dicembre sono sbarcati in 160 (porti aperti per costoro), 359 nel mese di dicembre intero, 3.253 dalla crisi della Diciotti. Per alzare i toni, si sceglie sempre lo stesso megafono.
Ancora una volta in aiuto del ministro vengono i suoi ipotetici avversari: l’Europa, in questo caso. La grottesca paralisi che i nostri partner hanno esibito tanto a lungo sulla sorte di quei 49 umani dimostra sempre più l’assunto salviniano secondo cui erano tutti buoni finché l’Italia si caricava tutti i migranti. Nemmeno i più astuti spin doctor sovranisti potrebbero desiderare per Salvini spot così efficaci, da qui al prossimo maggio.
Le promesse, i paradossi
Numeri reali (e propaganda) sui migranti
di Goffredo Buccini
Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha un serio problema con i rimpatri: pochi e assai costosi. C’è poi un’altra preoccupazione che va ad aggravare la situazione: le espulsioni dai centri di accoglienza. Immigrati che non partono e immigrati che escono dai centri. Un mix che rischia di deflagrare.
S e un alieno fosse sceso tra noi nella settimana che si va concludendo, non sarebbe stato facile spiegargli come mai una comunità di 500 milioni di umani denominata Europa si sia azzuffata per venti giorni prima di salvare 49 poveretti sballottati tra i marosi a un miglio dalla costa. La verità, indigesta non solo per l’alieno, è che all’avvicinarsi del 26 maggio, data delle prossime elezioni nell’Unione, i numeri perdono il loro legame col reale, diventando simboli. E lo sono più che mai nella terra maggiormente esposta alle migrazioni, la nostra Italia. Perché su di essi ha giocato la propria fiche politica l’uomo forte del governo gialloverde, Matteo Salvini.
Dai numeri conviene dunque ripartire. Il più discusso è 130 mila. È noto che, secondo le proiezioni dell’Ispi, tale sarebbe da noi l’aumento dei clandestini nei prossimi due anni per effetto della legge sulla sicurezza voluta dal vicepremier leghista. L’Istituto per gli studi di politica internazionale calcola 72 mila nuovi irregolari per l’arretrato delle commissioni prefettizie, 32 mila per il mancato rinnovo dei permessi umanitari e 27 mila mancati rimpatri di chi ha già perso il requisito. L’effetto, partendo da un dato della fondazione Ismu (491.000 irregolari in Italia a fine 2017) porterebbe il numero degli «invisibili» a 620 mila. Basandosi invece sulla stima della Commissione parlamentare per le periferie (600 mila già sul territorio) si arriverebbe alla cifra mostruosa di 730 mila. Si dirà: alcuni vanno via. Pochi, in realtà, perché le frontiere restano bloccate. L’Ispi può sbagliare, certo, ma opera da 90 anni in tutto il mondo.
Il rischio insomma c’è, a medio termine: un terribile cortocircuito (o, come sostiene Piero Sansonetti sul Dubbio , una clamorosa eterogenesi dei fini) di cui prima o poi gli elettori potrebbero chiedere conto. Salvini deve muoversi su un sentiero stretto puntando a un all in tra le Europee di maggio ed eventuali politiche anticipate, prima che la luna di miele fotografata dai sondaggi gli si trasformi in fiele.
Al momento alleati involontari del ministro degli Interni sono, per paradosso, i sindaci più legati a un certo populismo di sinistra, Leoluca Orlando e Luigi de Magistris, che prospettano una ribellione alla legge dello Stato ricollocando così la questione su un piano tutto ideologico sul quale Salvini non ha difficoltà a invocare — oltre che il diritto — la volontà popolare (sei italiani su dieci sono d’accordo con le sue misure, con buona pace di Maurizio Martina che vorrebbe addirittura vedere scolpito in un referendum questo verdetto così pesante per la sinistra classica). Seguendo uno schema che Francois Furet spiegò assai bene nel suo «Passato di un’illusione» sugli estremismi del Novecento, la sinistra più ideologizzata continua a fare inconsapevole sponda al ministro che, in difficoltà per la manovra economica, ha avuto il prezioso salvagente di un ritorno della questione migratoria al centro del dibattito pubblico (il massimo regalo politico potrebbe a questo punto essere per lui una sentenza della Consulta avversa alla sua legge, effetto dell’annunciato ricorso di alcuni governatori pd). Solo un bagno di realtà può spostare un’opinione pubblica ancora assai irritata dalla mancanza di sicurezza che si percepisce nelle nostre periferie (la sinistra dovrebbe tenere a mente, quanto all’effettività di certe percezioni, il noto teorema di William Thomas secondo cui «se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze»). Salvini ha un gigantesco problema con i rimpatri, pochi e assai costosi, che, combinati con le espulsioni dai centri d’accoglienza, rischiano di creare un mix sempre più esplosivo. Al di là delle polemiche, si procede a un ritmo di circa 20 rimpatri al giorno: lui ne aveva garantiti cinque volte tanto in campagna elettorale. Di questo passo, per rimandare indietro 600 mila irregolari, come promesso prima del 4 marzo, ci vorrebbero 82 anni (mancano gli accordi bilaterali, ottenerli richiede un lungo, oscuro lavoro diplomatico che può fare solo il ministro degli Esteri Moavero, finora nell’angolo). Molto dell’attuale dibattito di bandiera serve insomma a distogliere l’attenzione. Anche la vicenda dei profughi di Sea Watch e Sea Eye: 49 disperati per i quali si sono proclamati i porti chiusi, mentre — dati del Viminale — tra il 27 e il 30 dicembre sono sbarcati in 160 (porti aperti per costoro), 359 nel mese di dicembre intero, 3.253 dalla crisi della Diciotti. Per alzare i toni, si sceglie sempre lo stesso megafono.
Ancora una volta in aiuto del ministro vengono i suoi ipotetici avversari: l’Europa, in questo caso. La grottesca paralisi che i nostri partner hanno esibito tanto a lungo sulla sorte di quei 49 umani dimostra sempre più l’assunto salviniano secondo cui erano tutti buoni finché l’Italia si caricava tutti i migranti. Nemmeno i più astuti spin doctor sovranisti potrebbero desiderare per Salvini spot così efficaci, da qui al prossimo maggio.
LA REALTA È CHE
L’ITALIA E UN PAESE RAZZISTA:
Corriere 12.1.19
Le colpe dell’emergenza migranti?
Sei italiani su dieci accusano la Ue
di Nando Pagnoncelli
Il 51% approva lo stop agli sbarchi, solo il 19 è favorevole all’accoglienza
Dopo la definizione della legge di bilancio e le discussioni sui provvedimenti simbolo — reddito di cittadinanza e quota 100 — il tema dei migranti è ritornato in primo piano con la vicenda delle due navi delle Ong Sea Watch e Sea Eye. Una vicenda chiusa dopo molte tensioni interne e nei rapporti con l’Ue, che ha assunto fin dall’inizio un elevato valore simbolico e ha rappresentato un braccio di ferro, accompagnato dal consueto profluvio di dichiarazioni pro o contro la decisione di impedire lo sbarco nei porti italiani.
In casi come questi, le maggiori responsabilità nell’individuare soluzioni sono attribuite da gran parte degli italiani (60%) all’Europa. È un’opinione che prevale tra tutti gli elettorati, sia pure con percentuali diverse: dal 42% degli elettori dell’opposizione di centrodestra all’80% di quelli di centrosinistra e, in mezzo, leghisti (61%) e M5S (70%). Al contrario il 13% ritiene che la responsabilità sia in capo alle Ong che si sono occupate di soccorrere i migranti e il 12% ai singoli Stati nelle cui acque territoriali sono giunte le navi.
Un italiano su due (51%) è convinto che si debba mantenere una linea intransigente e impedire qualsiasi sbarco nel nostro territorio, mentre il 19% è del parere opposto ed è favorevole a consentire sempre gli sbarchi. In posizione intermedia il 13% che, pur favorevole alla chiusura dei porti, riteneva opportuno fare un’eccezione per il caso delle due imbarcazioni con i 49 migranti a bordo. A settembre, in occasione del caso della nave Diciotti, i sondaggi avevano fatto registrare un consenso elevato (61%) per la linea della fermezza. Dunque, a distanza di pochi mesi le opinioni non sono cambiate significativamente.
La chiusura dei porti risulta l’opzione prevalente tra tutti i segmenti sociali senza distinzione per genere, età, titolo di studio, condizione occupazionale, area geografica e ampiezza dei comuni. Prevale anche tra i cattolici che partecipano regolarmente alla messa (46%) e tra i credenti più impegnati che partecipano alle attività parrocchiali (34%). Costoro sembrano far coesistere atteggiamenti benevoli e inclusivi verso gli stranieri che si conoscono e si frequentano, con quelli di chiusura nei confronti di possibili nuovi arrivi.
Le posizioni delle due forze di maggioranza nei confronti della gestione dell’immigrazione sono vissute come differenti dal 55% degli italiani, mentre il 25% le considera sostanzialmente simili. D’altra parte, la composizione dei due elettorati è piuttosto diversa e, come sottolineato più volte, la Lega a differenza del M5S ha un elettorato più omogeneo.
Da ultimo, la questione dei sindaci e presidenti di Regione che hanno annunciato di non essere in grado di attuare le misure previste dal decreto sicurezza, chiedendo modifiche o presentando ricorsi alla Consulta perché a loro parere creano un caos applicativo e rischiano di aumentare la clandestinità e di spingere molti più stranieri presenti sui loro territori verso percorsi illegali e criminali. La maggioranza relativa degli italiani (41%), temendo il peggio, ritiene che i sindaci sollevino un problema reale e debbano essere ascoltati, mentre il 33% considera la posizione pretestuosa, proveniente per lo più da sinistra e finalizzata solo a mettere in difficoltà il governo.
In conclusione, il tema dei migranti continua a essere caratterizzato da forti ambivalenze individuali (è un tema che preoccupa a livello generale ma meno a livello locale), da percezioni distorte dalla realtà (la portata del fenomeno è amplificata a dismisura, contribuendo ad acuire il clima di allarme sociale), e dalla consapevolezza che le responsabilità devono essere assunte dell’Ue e le soluzioni devono essere individuate ed adottate in sede comunitaria. Insomma, più che l’intolleranza per gli stranieri residenti in Italia, nell’opinione pubblica si affermano due atteggiamenti di fondo: la preoccupazione che il fenomeno migratorio diventi incontrollato e il senso di abbandono da parte dell’Europa nei nostri confronti. E la pressione sull’Europa affinché assuma un ruolo da protagonista non è un aspetto che riguarda solo l’Italia, tenuto conto che i recenti dati di Eurobarometro hanno fatto registrare l’immigrazione in testa alla graduatoria delle priorità dei cittadini dei 28 Paesi Ue, indicata dal 50% degli intervistati e in crescita di 5 punti rispetto ad aprile. E non bisogna essere indovini per prevedere che questo sarà il tema prevalente nella prossima campagna elettorale in vista delle elezioni europee del 26 maggio.
L’ITALIA E UN PAESE RAZZISTA:
Corriere 12.1.19
Le colpe dell’emergenza migranti?
Sei italiani su dieci accusano la Ue
di Nando Pagnoncelli
Il 51% approva lo stop agli sbarchi, solo il 19 è favorevole all’accoglienza
Dopo la definizione della legge di bilancio e le discussioni sui provvedimenti simbolo — reddito di cittadinanza e quota 100 — il tema dei migranti è ritornato in primo piano con la vicenda delle due navi delle Ong Sea Watch e Sea Eye. Una vicenda chiusa dopo molte tensioni interne e nei rapporti con l’Ue, che ha assunto fin dall’inizio un elevato valore simbolico e ha rappresentato un braccio di ferro, accompagnato dal consueto profluvio di dichiarazioni pro o contro la decisione di impedire lo sbarco nei porti italiani.
In casi come questi, le maggiori responsabilità nell’individuare soluzioni sono attribuite da gran parte degli italiani (60%) all’Europa. È un’opinione che prevale tra tutti gli elettorati, sia pure con percentuali diverse: dal 42% degli elettori dell’opposizione di centrodestra all’80% di quelli di centrosinistra e, in mezzo, leghisti (61%) e M5S (70%). Al contrario il 13% ritiene che la responsabilità sia in capo alle Ong che si sono occupate di soccorrere i migranti e il 12% ai singoli Stati nelle cui acque territoriali sono giunte le navi.
Un italiano su due (51%) è convinto che si debba mantenere una linea intransigente e impedire qualsiasi sbarco nel nostro territorio, mentre il 19% è del parere opposto ed è favorevole a consentire sempre gli sbarchi. In posizione intermedia il 13% che, pur favorevole alla chiusura dei porti, riteneva opportuno fare un’eccezione per il caso delle due imbarcazioni con i 49 migranti a bordo. A settembre, in occasione del caso della nave Diciotti, i sondaggi avevano fatto registrare un consenso elevato (61%) per la linea della fermezza. Dunque, a distanza di pochi mesi le opinioni non sono cambiate significativamente.
La chiusura dei porti risulta l’opzione prevalente tra tutti i segmenti sociali senza distinzione per genere, età, titolo di studio, condizione occupazionale, area geografica e ampiezza dei comuni. Prevale anche tra i cattolici che partecipano regolarmente alla messa (46%) e tra i credenti più impegnati che partecipano alle attività parrocchiali (34%). Costoro sembrano far coesistere atteggiamenti benevoli e inclusivi verso gli stranieri che si conoscono e si frequentano, con quelli di chiusura nei confronti di possibili nuovi arrivi.
Le posizioni delle due forze di maggioranza nei confronti della gestione dell’immigrazione sono vissute come differenti dal 55% degli italiani, mentre il 25% le considera sostanzialmente simili. D’altra parte, la composizione dei due elettorati è piuttosto diversa e, come sottolineato più volte, la Lega a differenza del M5S ha un elettorato più omogeneo.
Da ultimo, la questione dei sindaci e presidenti di Regione che hanno annunciato di non essere in grado di attuare le misure previste dal decreto sicurezza, chiedendo modifiche o presentando ricorsi alla Consulta perché a loro parere creano un caos applicativo e rischiano di aumentare la clandestinità e di spingere molti più stranieri presenti sui loro territori verso percorsi illegali e criminali. La maggioranza relativa degli italiani (41%), temendo il peggio, ritiene che i sindaci sollevino un problema reale e debbano essere ascoltati, mentre il 33% considera la posizione pretestuosa, proveniente per lo più da sinistra e finalizzata solo a mettere in difficoltà il governo.
In conclusione, il tema dei migranti continua a essere caratterizzato da forti ambivalenze individuali (è un tema che preoccupa a livello generale ma meno a livello locale), da percezioni distorte dalla realtà (la portata del fenomeno è amplificata a dismisura, contribuendo ad acuire il clima di allarme sociale), e dalla consapevolezza che le responsabilità devono essere assunte dell’Ue e le soluzioni devono essere individuate ed adottate in sede comunitaria. Insomma, più che l’intolleranza per gli stranieri residenti in Italia, nell’opinione pubblica si affermano due atteggiamenti di fondo: la preoccupazione che il fenomeno migratorio diventi incontrollato e il senso di abbandono da parte dell’Europa nei nostri confronti. E la pressione sull’Europa affinché assuma un ruolo da protagonista non è un aspetto che riguarda solo l’Italia, tenuto conto che i recenti dati di Eurobarometro hanno fatto registrare l’immigrazione in testa alla graduatoria delle priorità dei cittadini dei 28 Paesi Ue, indicata dal 50% degli intervistati e in crescita di 5 punti rispetto ad aprile. E non bisogna essere indovini per prevedere che questo sarà il tema prevalente nella prossima campagna elettorale in vista delle elezioni europee del 26 maggio.