sabato 2 ottobre 2010

l’Unità Firenze 2.10.10
L’INTERVISTA
«Il genio dell’anima, della politica e delle istituzioni salverà il mondo»
Massimo Fagioli presenta stasera a Firenze il suo ultimo libro “Left 2007” «Con Bertinotti il legame è finito quando ha abbandonato la via della laicità»
di Valentina Buti


La chiama irrazionalità ancestrale, fantasia invisibile, in una parola: genio. Sarà lui a salvare il mondo, quello più nascosto dell’animo umano, e quello più tangibile, che dal primo direttamente consegue, della politica e delle istituzioni. «Ribellatevi alla ragione, scoprite una nuova fantasia». Con tale monito lo psichiatra dell’analisi collettiva Massimo Fagioli si presenterà al pubblico fiorentino della libreria Melbookstore (oggi alle 18.30), pronto a svelare i segreti del suo ultimo libro,
Left 2007, edito da L’asino d’oro.
Professor Fagioli, il libro raccoglie 49 articoli da lei pubblicati sul settimanale Left dal 2006. Erano gli anni in cui cercava un moderno socialismo delle idee insieme a Bertinotti. Com’è andata a finire?
«Il legame con Bertinotti finì quando lui abbandonò la laicità che lo aveva contraddistinto fino ad allora. Quando, con la scissione di Rifondazione nel 2008, appoggiò come suo successore Nichi Vendola, fervente cattolico e comunista: una contraddizione inconciliabile. O quando definì i Vangeli libri guida. Per un socialismo moderno ci si deve liberare dall’ideologia cattolica»
La laicità come faro per una moderna sinistra: questo il messaggio di Left 2007?
«Serve una nuova idea di realtà umana, di un’umanità libera dal peccato originale imposto dal cristianesimo. L’alleanza mostruosa tra religione cattolica e razionalità greca, negando la libertà, ha esercitato sull’uomo una violenza mentale fortissima. Solo la laicità porta a capire che tutti siamo uguali dalla nascita».
La religione era l'oppio dei popoli anche per Marx.
«Sì, ma il comunismo fallì pensando di raggiungere l'uguaglianza garantendo a tutti la soddisfazione dei bisogni essenziali. Non tenne conto delle esigenze umane, mentre c’è da provvedere all’istinto e alla fantasia invisibile, al genio dei poeti e degli artisti. Il socialismo garantisca il libero sviluppo della personalità e allora funzionerà. La razionalità è fallace, non capisce niente di realtà umana».
Questo come diviene prassi politica?
«A questo penseranno i politici. Gli intellettuali devono suonare la sirena. Ribellatevi alla ragione, l’intelligenza aumenterà e a quel punto anche i problemi pratici si affronteranno meglio».
Chi, nell’attuale panorama politico, le dà più fiducia in tal senso?
«Bersani, di cui apprezzo lo spirito laico e l’idea di sinistra improntata all’unitarietà».

Ansa 1.10.10
Pd: Fagioli, l'ex consigliere di Bertinotti sta con Bersani
'Attualmente la simpatia e' per Bersani''. Lo afferma Massimo Fagioli, per anni consigliere di Fausto Bertinotti, alla vigilia della presentazione a Firenze, domani alle 18 a Melbookstore, del suo decimo libro, 'Left 2007' (L'Asino d'oro edizioni), nel quale viene affrontato il rapporto con l'ex presidente della Camera ed ex leader di Rifondazione comunista, concluso, si spiega in una nota, dopo tre anni di ''intensa e passionale elaborazione teorica'' sui temi della sinistra e del socialismo del XXI secolo. Al professore, 79 anni, da oltre cinquanta psichiatra e ricercatore sulla mente umana, ''Bersani (e non il Pd) non dispiace per niente, in particolare, per il suo tentativo di ricostruire questa sinistra, che poi e' quello che aveva fatto a suo tempo Bertinotti''. Per Fagioli oggi Bersani e' ''il solo in grado di provare sul serio a rimettere insieme la sinistra'' e inoltre lo definisce ''l'unico che ancora mantiene un po' di laicita' e un po' di saggezza, rispetto a Vendola che invece straparla''. ''Superamento del comunismo ortodosso e del materialismo storico'', erano state queste, si legge ancora nella nota, le proposizioni di Bertinotti che avevano ''entusiasmato'' Fagioli almeno ''fino alla rottura'', giunta al culmine nell'estate del 2008, soprattutto a seguito della ''scissione'' di Rifondazione che il professore definisce ''una catastrofe''. (ANSA).

venerdì 1 ottobre 2010

Agi 30.9.10
Libri: Il 2 ottobre a Firenze Massimo Fagioli con Left 2007
(AGI) - Firenze, 30 set. - "I partiti devono essere rifondati, alla politica servono volti ma soprattutto idee nuove. Il monito del sindaco Matteo Renzi, rilanciato dal primo cittadino di Firenze anche in queste ore, sembra quasi riecheggiare la ricerca di Fausto Bertinotti e il suo tentativo di superare il comunismo verso quello che l'ex segretario di Rifondazione aveva definito il Socialismo del XXI secolo". Di quel comune e difficile percorso, che ha visto vicini nella ricerca di nuove strade per la sinistra Fausto Bertinotti e lo psichiatra Massimo Fagioli, si racconta in "Left 2007", il nuovo libro del professore pubblicato da L'Asino d'oro edizioni che verra' presentato, per la prima volta dalla uscita nelle librerie il 16 settembre scorso, a Firenze sabato 2 ottobre 2010 presso la libreria Melbookstore. Il libro raccoglie 49 articoli apparsi nella rubrica che lo psichiatra dell'Analisi Collettiva firma sul settimanale "Left" dal 2006, intitolata "Trasformazione", e narra tra l'altro l'evoluzione, fino alla separazione definitiva, del rapporto che dal 2004 al 2007 lo ha visto al fianco di Bertinotti impegnato nella ricerca di una nuova teoria per un moderno socialismo delle idee. Negli inusuali "excursus", tra filosofia storia e poesia, corredati dalle illustrazioni di Alessandro Ferraro, Fagioli non perde mai di vista la concretezza del dibattito politico e l'attualita' in cui versa la realta' umana e sociale del nostro Paese. "La ragione rende depressi e stupidi", scrive Fagioli, quasi fotografando le cause della crisi della politica e delle idee. In alternativa, propone, le idealita' del socialismo delle origini potrebbero dare a uguaglianza e liberta' un senso piu' profondo, se si legano le due parole a una nuova concezione della nascita umana ("quando tutti siamo uguali a tutti?") e del rapporto tra l'uomo e la donna. In "Left 2007" Fagioli non lesina le critiche a quella parte politica, alla quale riconosce l'esclusiva storica dell'utopia del cambiamento, ma a cui contesta, allo stesso tempo, di non essere riuscita ad andare oltre l'idea di "trasformazione del mondo". Marx, il comunismo; ma e' soprattutto ad Heidegger e a Spinoza, prima di lui, che lo psichiatra dedica molte righe (la premessa e i sommari dei "capitoli" del libro sono stampati nella sua calligrafia originale), individuandone una grave responsabilita' culturale, quasi da "cattivi maestri", nel diffondere idee religiose che negano l'identita', la liberta' e la sessualita' degli esseri umani. E' "la scoperta di una intelligenza nuova oltre la ragione" che Fagioli rivendica in "Left 2007" - "quella fantasia invisibile della mente, deformata dal '68 e sempre sottovalutata dalla sinistra, sin dall'Illuminismo, nemico giurato dell'irrazionale -, rinnovando l'elaborazione di ricerche maturate in una prassi ultra quarantennale di confronto con la malattia mentale". (AGI) Sep


il manifesto 1.10.10
Porte girevoli
Caso Arlacchi Pd attento a chi esce e a chi entra
di Daniela Preziosi

È cronaca di questi giorni l'allungarsi dell'elenco delle fuoriuscite dal Rd. La teodem Paola Binetti, l'ex dc Enzo Carra e l'ex prefetto Serra (approdati nell’Udc), Francesco Rutelli con un gruppetto dei suoi (nell'Api), il federmeccanico Massimo Calearo (gruppo misto tendente al Pdl, dopo uno scalo nell'Api). Perdite, non necessariamente sinonimo di sconfitte, visto che queste uscite fanno appena meno affollata l'offerta delle di linee politiche nel supermarket Pd. La cronaca deve annotare ora alcune richieste di ingresso. E il caso del professore Massimo Fagioli, il pensatore psico‑politico già vicino al Bertinotti della Rifondazione con il vento in poppa, e poi a Marco Pannella. Lo psichiatra due settimane fa ha fatto un endorsément per Bersani. Ieri è stata la volta di Pino Arlacchi, ineffabile ex direttore dell'ufficio Onu per il controllo e la prevenzione delle droghe, il cui bilancio di mandato è discutibile, e infatti discusso da non pochi osservatori internazionali. Arlacchi ha lasciato furibondamente l'ldv e chiede la tessera a Bersani. Il guaio è che Bersani ha risposto sì, per il momento solo a lui, il suo 'rientro' è un fatto «positivo e incoraggiante». d.p.

l’Unità 1.10.10
«Noi ebrei pacifisti in rotta per Gaza picchiati dagli israeliani»
Il racconto del comandante del catamarano Irene bloccato in mare: «Sono stato colpito con una pistola laser». Una testimone: presi a calci e insultati
di Umberto De Giovannangeli


Il commando. In azione lo stesso gruppo che fece il blitz sulla Mavi Marmara
La denuncia. Nurit Peled, premio Sakharov: vi racconto quelle violenze
L’accusa. «L’assedio della Striscia è un crimine e chi tace diventa complice»
Il diario di bordo. «Non vogliamo combattere l’esercito Siamo non violenti»

Questa è la bella storia di eroi di pace. Yonatan, Reuben, Rami. La storia di un «capitano coraggioso» e del suo straordinario «equipaggio». L'«equipaggio dell'Irene». Ma questa è anche la brutta storia di soldati privi di umanità, che affrontano Yonatan, Reuben, Rami e gli altri loro sei compagni di avventura con lo stesso disprezzo riservato ai Nemici d'Israele. Grazie al prezioso contributo di Luisa Morgantini, già vice presidente del Parlamento Europeo e infaticabile animatrice dell'Associazione per la pace, e di Cecilia Dalla Negra, l'Unità può ricostruire ciò che è avvenuto dopo l'abbordaggio dell'«Irene» a largo delle coste di Gaza. E lo fa partendo da una testimonianza eccezionale: quella di Nurit Peled, accademica, Premio Sakharov del Parlamento Europeo. Nurit , è madre di Smadar, uccisa a 13 anni in un attacco suicida a Gerusalemme, ed è moglie di Rami El Hanan, uno dei passeggeri sull'«Irene» dell'organizzazione «Jewish for Justice for the Palestinians», che hanno cercato di rompere l'assedio di Gaza ma sono stati sequestrati dalle navi israeliane,
Ecco il suo racconto. «Uscendo dall'interrogatorio, Yonatan sembrava come qualcuno appena uscito da un campo di prigionia: un lungo volto pallido e distorto. Erano gli stessi, feroci soldati che hanno attaccato la Mavi Marmara (nove attivisti uccisi, ndr). Erano tutti dietro di lui. Lo hanno picchiato, preso a calci, provocato. Gli altri passeggeri hanno detto che urlava e palpitava come un animale ferito, ma il mostro non ha voluto fermarsi. Quando Rami ha chiesto il nome al soldato, lui ha risposto: Geppetto. Adesso Rami è accusato di aver minacciato un soldato perché gli ha detto che avrebbe scoperto ugualmente il suo nome e lo avrebbe denunciato. Yonatan e Itamar (fratelli), che sono stati ammanettati e trascinati, e poi gettati violentemente a bordo di un' altra barca, sono adesso accusati di aver aggredito i soldati e di aver opposto resistenza all'arresto.. C'erano dozzine di commando completamente armati che li hanno assaltati a bordo della nave, 4 imbarcazioni da guerra. Un ufficiale dello Stato maggiore, Amidror, capo dell'Unità di ricerca della Israeli Defence Force (Idf) ha detto alla radio due giorni fa che Yonatan Shapira, un ex pilota dell'Air force, è « psicopatico e deve essere rinchiuso». Nurit prosegue il suo racconto: «Ho reagito a questa affermazione, quindi mi hanno intervistata il giorno seguente. Ho detto loro che questo è quello che i russi hanno fatto a Sakharov, e che Yonatan è il figlio migliore di Israele ed un esempio per tutti i giovani di come le cose dovrebbero essere fatte. Molti giornalisti israeliani ci hanno avvicinato mentre aspettavamo che gli altri fossero rilasciati dall'interrogatorio: ma sembrava che ci vedessero più come una curiosità che come un'affidabile fonte di informazioni. «Il mondo intero – conclude Nurit dovrebbe sostenere Yonatan e Itamar Shapira in questo momento, perché le forze di sicurezza sono certamente dietro di loro, e non ci sono limiti a quello che questi soldati potrebbero ordinare».
Yonatan è tornato a casa. Riusciamo a raggiungerlo telefonicamente. «Non ci sono parole per descrivere ciò che abbiamo subito dopo l'abbordaggio», dice Yonatan Shapira, uno dei primi refusnik, i soldati israeliani che
si sono rifiutati di prestare servizio nei Territori occupati. «Alcuni membri del commando – racconta – ci hanno insultato ed io sono stato colpito con una pistola laser». Ma quello che brucia di più non è il dolore fisico subito. Ciò che lascia il segno è l'odio che animava quelli che un tempo erano stati commilitoni di Yonatan. Eli Usharov, reporter di Canale 10, la Tv commerciale israeliana, conferma il racconto di Yonatan. «Contro di lui – afferma – è stata usata una pistola laser». Yonatan dice di essere orgoglioso per ciò che ha fatto. E come lui i suoi compagni. «L'assedio a Gaza è un crimine – dice – e chi, ebreo o non ebreo, tace si fa complice di questo crimine». Yonatan ha tenuto con sé il diario di bordo, dove ha annotato i momenti salienti del viaggio dell'«Irene». L'Unità, con l'aiuto di Luisa Morgantini e Cecilia Dalla Negra, ne pubblica gli ultimi passaggi: «Siamo nella piccola barca dei Jews for Justice for Palestinians. Non abbiamo intenzione di combattere con l'Esercito, anche se ne avremmo tutto il diritto. Abbiamo scelto la nonviolenza come tattica e strategia, ma non intendiamo arrenderci facilmente fin quando non ammanetteranno e arresteranno il sopravvissuto all'Olocausto, il padre in lutto e fino all'ultimo passeggero sulla nave...Alle 6.12 del mattino, quando ci siamo avvicinati alla costa di Cipro con i primi raggi di sole Itamar era al timone, Bruce e Glen stavano dormendo ed io stavo a prua, cercando di respirare aria pulita nonostante il fumo dei motori improvvisamente una barca di media grandezza ci ha superati. Lo ha fatto passandoci piuttosto vicino, e ci è parso strano. Ci ha girato attorno da nord muovendosi verso ovest, ed era simile ad una piccola nave da guerra. Forse eravamo già un po' paranoici o forse no, e forse era semplicemente una barca della guardia costiera turca. In ogni caso, abbiamo iniziato a pensare e a figurarci come sarebbe stato il nostro incontro con la marina dell'Esercito israeliano, una volta arrivati alla costa di Gaza. Che cosa avrebbe fatto ognuno di noi, in che modo ci saremmo presi cura dei passeggeri, come avremmo reagito se la motovedetta Dabur avesse attaccato la nostra piccola imbarcazione, come negli incidenti precedenti». «Allora – prosegue Yonatan abbiamo deciso di scrivere una dichiarazione in ebraico e in inglese, che leggeremo alla radio sul canale delle emergenze nautiche, quando elementi della Marina o dell'Air Force si avvicineranno a noi. Ecco quello che abbiamo scritto: Siamo una nave della organizzazione ebraica europea Jews for Justice for Palestinians. Siamo sulla nostra strada per Gaza. Non siamo armati e crediamo nella nonviolenza, e siamo determinati a procedere verso il porto di Gaza. Voi state imponendo un assedio illegale su Gaza. Queste sono acque internazionali e noi non riconosciamo la vostra autorità qui. Ci sono attivisti di tutte le età a bordo di questa nave. Tra di noi ci sono sopravvissuti all'Olocausto, genitori in lutto ed israeliani che rifiutano di conciliare se stessi con l'occupazione illegale dei Territori palestinesi. Siamo attivisti pacifisti e disarmati, che credono nella nonviolenza, e siamo determinati di andare avanti per la nostra strada verso il porto di Gaza. Facciamo appello a voi, ufficiali e soldati dell'Esercito israeliano, perché rifiutiate di obbedire agli ordini illegali dei vostri superiori. Per vostra informazione, l'assedio di Gaza è illegale secondo il diritto internazionale, e quindi state correndo il rischio di essere portati davanti ad una Corte internazionale di giustizia per crimini di guerra. L'assedio e l'occupazione sono disumani e contrari alla moralità universale ed ai valori dell'ebraismo. Usate le vostre coscienze. Non dite stavo solo obbedendo agli ordini. Ricordate la storia dolorosa del nostro popolo. Rifiutate di dare forza all'assedio. Rifiutate l'occupazione».
Il sopravvissuto ai lager nazisti imbarcato sull'«Irene» è un signore di 82 anni dalla voce calda, decisa. Come la sua determinazione a non mollare quella che Reuben Moskovitch considera una battaglia di civiltà: «Mai – dice a l'Unità – avrei immaginato che soldati israeliani avrebbero potuto trattare in questo modo nove ebrei» . «Come sopravvissuto all'Olocausto afferma – non posso accettare che lo Stato d'Israele imprigioni dietro le recinzioni e il filo spinato un intero popolo». Quello di Reuben è un modo diverso di tenere viva la memoria di quella immane tragedia: fare di tutto, nel limite del possibile, perché un popolo di vittime non si trasformi in carnefice. «Ogni notte – racconta Reuben Moskovitch – mi sveglio ricordando ciò che subii, che subimmo nei lager nazisti. Quei bambini palestinesi imprigionati hanno lo sguardo implorante dei bambini ebrei di allora. Un popolo che è stato vittima di quella barbarie non può accettare un'occupazione immorale. Dobbiamo ribellarci». E a chi lo accusa di «aver versato deliberatamente benzina sul fuoco dell' odio verso Israele nel mondo», Reuben Moskovitch ribatte sereno: «Il vero eroe è colui che cerca di trasformare un nemico in un amico».

l’Unità 1.10.10
L’intervista
Giorello, il senza dio tollerante
Vivere senza un “supremo garante”, il rapporto con la scienza... La parola al filosofo
di Roberto Carnero


L’Italia
«Ha un problema di laicità. Lo diceva già Gramsci: il concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica è un “contratto trappola”»

Mi sono chiesto se e come sia possibile essere atei oggi in Europa e specificamente in Italia, visto che per secoli la nostra cultura è stata segnata dai grandi monoteismi: ebraismo, cristianesimo, islam. La mia risposta è una sfida: oggi abbiamo tutti gli strumenti, culturali e filosofici, per essere membri di una società che funziona anche senza inventarci un supremo garante religioso dell’ordine e della convivenza. Si tratta di un’acquisizione dell’illuminismo, che però mi sembra che oggi serva ribadire».
Così Giulio Giorello, docente di Filosofia della scienza all’Università degli Studi di Milano, spiega l’intento del suo ultimo libro, Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo (Longanesi, pagine 240, euro 15,00): un trattato sulla fede, o, meglio, su come si possa vivere senza una fede religiosa.
Giorello vuole però subito sgombrare il campo da un possibile equivoco: «La mia non è la proposta dell’ateismo concepito come una sorta di nuova religione laica. Essere “senza Dio” significa coltivare una visione della realtà aperta e tollerante, inclusiva e non escludente, disponibile e non ostile. Essere “senza Dio” non vuol dire essere “contro Dio”. Non sono nemico delle religioni. Una chiesa, una moschea o una sinagoga arricchiscono il paesaggio fisico e anche culturale in cui viviamo. Mi fa piacere che ci siano. Mi fa meno piacere quando coloro che si autoproclamano rappresentanti terreni della divinità scagliano anatemi contro chi in quegli edifici non vuole entrare». Forse anche per questo il cardinale Carlo Maria Martini ha espresso stima per il metodo intellettuale e i toni di Giorello, seppure, evidentemente, senza condividerne le posizioni.
Professor Giorello, quali aspetti della questione del rapporto tra ateismo e religioni ha voluto affrontare nel suo libro?
«Cinque punti in particolare. Il primo: il tema della “reverenza” pretesa, e spesso attribuita, ai rappresentanti delle religioni e ciò che questo atteggiamento comporti in termini di autonomia e libertà di una società. Secondo: il rifiuto della “rassegnazione”, cioè il rifiuto dell’idea, radicata nel cristianesimo (ma non solo), che il male sia un castigo che l’essere umano si è meritato e attraverso il quale possa espiare una colpa. Terzo: un’analisi di come nella storia l’autorità religiosa si sia spesso opposta alla scienza e alla ricerca: dal caso di Ipazia a quello di Galileo Galilei, fino all’atteggiamento di fronte alle teorie sull’evoluzione di Charles Darwin, le varie “chiese” si sono spesso opposte al libero pensiero e al progresso della scienza. E anche oggi le cose spesso non sono molto diverse. Quarto: contro la proibizione. Sogno una società in cui vengano meno tutta una serie di divieti inutili, che non servono ad altro che a mantenere le persone in una condizione di sudditanza psicologica. Gli individui non sono pecore, e quindi non credo che abbiamo bisogno di un “buon pastore”. Quinto e ultimo punto: un excursus storico sulle prove dell’esistenza di Dio. Da filosofo sono affascinato dall’acutezza argomentativa di queste prove. Il loro problema, però, è che spesso esse muovono da premesse più impegnative (e non verificate) dello stesso assunto che intendono dimostrare».
Si aspettava il cauto apprezzamento di un esponente di spicco del mondo cattolico, come l’ex-arcrivescovo di Milano, Martini?
«Io credo che l’ateismo possa essere un buon compagno di strada anche per un religioso. Martini è una persona di grande intelligenza e ha sempre affermato che la vera distinzione non dovrebbe essere quella tra credenti e non credenti, bensì quella tra persone pensanti e persone non pensanti. Credo che sia lui che io apparteniamo a quest’ultima categoria. Quando guidava la diocesi di Milano, Martini si fece promotore di un’iniziativa illuminata come la ‘cattedra dei non credenti’. Partendo da un dato: in ogni credente alberga un non credente (in termini di dubbi e domande che egli si pone), come in ogni non credente c’è un credente (con alcune domande di senso sull’esistenza). La ragione dovrebbe insegnarci a prendere in considerazione gli argomenti e da nuove prove. Ma lo si fa senza imporre dogmi o reciproche scomuniche. Ma attenzione, non sto proponendo di sostituire alla religione la scienza, facendo di quest’ultima, in qualche modo, un nuovo credo, come fa, ad esempio, un collega, pure simpatico, come Piergiorgio Odifreddi. Abbiamo già quattro vangeli canonici, più quelli apocrifi, non ci serve un nuovo “vangelo della scienza” non siamo più nel secondo Ottocento, nell’età del positivismo. Dico solo che dalla scienza dobbiamo apprendere un metodo di riflessione e di discussione».
Secondo lei oggi in Italia esiste un problema di laicità? «Direi proprio di sì. Lo diceva già Gramsci: il concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica è un “contratto trappola”, perché dà tutti i vantaggi a una sola parte, cioè alla Chiesa. Poi mi sembra grave che, per l’ingerenza del Vaticano negli affari politici nazionali, non si possa discutere serenamente di testamento biologico, regolamentazione giuridica delle convivenze di fatto e di alcuni temi che attengono alla scienza».

il Fatto 1.10.10
Gli xenofobi decidono dell’Olanda: divieto di burqa e via gli stranieri
di Giampiero Gramaglia


Dentro il nocciolo duro dell’integrazione europea, il Benelux. Proprio in quell’Olanda che esplorò l’integrazione nel calcio con antillesi e molucchesi nella nazionale oranje. Lì nasce un governo di minoranza di centro-destra con l’appoggio esterno, determinante, di un partito xenofobo anti-Islam, il Pvv. Geert Wilders, il suo leader, detta le condizioni, accettate per sostenere la coalizione senza farne parte: il divieto di indossare il burqa e restrizioni al'utilizzo del velo da parte di alcuni settori del pubblico impiego. Ci sono voluti quasi quattro mesi, 112 giorni esatti, per concordare – dopo le elezioni di giugno – composizione e programma del nuovo governo olandese. Mark Rutte, leader dei liberali del Vvd, il maggiore partito )31 seggi su 150), e Maxime Verhagen, negoziatore dei cristiano-democratici del Cda, il partito sconfitto, 21 seggi, hanno concordato con Wilders il sostegno esterno del Pvv, 23 seggi.
PER LA PRIMA VOLTA nella storia olandese, un partito d’estrema destra è parte di un’intesa di governo; e, per la prima volta da oltre 70 anni, dal lugubre 1939 pre-bellico, c’è una coalizione di minoranza di destra al potere. L’Olanda si scopre laboratorio di compromessi in un’Europa battuta dal vento della xenofobia e del razzismo. La buona notizia è che liberali, cristiano-democratici e anti-Islam, insieme, hanno una maggioranza risicata, un solo seggio: il governo nasce instabile e molti pensano che, nella primavera prossima, o al massimo fra un anno, si tornerà a votare. Fuori dall’inciucio xenofobo-conservatore, restano i socialisti, la seconda forza politica olandese, con 30 seggi: l’accordo con loro avrebbe reso superfluo l’appoggio dell’estrema destra e più robusta la coalizione, ma la distanza tra il rigore dei liberale e la politica della spesa socialista era troppo grande per essere colmata. Wilders gongola (“È un grande giorno per il nostro Paese, ci saranno grandi cambiamenti: faremo sentire il nostro peso perché abbiamo molto da dire”); Rutte prevede “un’Olanda più forte”; i cristiano-democratici sono perplessi: domani, un congresso valuterà l’intesa (e potrebbero esserci sviluppi a sorpresa). Wilders, che vuole cacciare gli immigrati e chiudere le moschee (ieri ha annunciato che l’immigrazione extra Ue verrà ridotta del 50%) dovrà presentarsi in tribunale lunedì e difendersi dalle accuse di incitazione all’odio razziale e alla discriminazione. C’è chi pensa che coinvolgere gli xenofobi permetta di moderarli e persino neutralizzarli. Per ora, dà loro potere e visibilità.

il Fatto 1.10.10
Leggere davvero Calamandrei
di Gian Carlo Caselli


Nel suo discorso alla Camera dei deputati il premier ha citato Piero Calamandrei, padre costituente fra i più autorevoli, sui cui scritti, generazioni di giuristi si sono formati. Citazione per citazione, poiché nel suo discorso il premier ha ripetuto per l’ennesima volta lo stanco refrain dell’uso politico della giustizia, accusando i magistrati di aver alterato – negli ultimi 15 anni – l’equilibrio fra giurisdizione e politica (“l’ever green di una pedata alla magistratura”, ha commentato Mattia Feltri su La Stampa), vorrei fare appello a un passo di Calamandrei che si legge nel suo celebre Elogio dei giudici scritto da un avvocato, reperibile – nell’indice alfabetico-analitico dei nomi, degli aforismi e degli argomenti – sotto la voce “Criptocomunista (giudice considerato tale)”.
CALAMANDREI narra di quel miliardario il cui figlio, guidando a velocità pazzesca, aveva sfracellato contro il muro un passante che andava per i fatti suoi sul marciapiede. Il padre corre dal primo avvocato della città, tacita con un forte indennizzo la famiglia dell’ucciso, ma c’è quel fastidio dell’istruttoria penale che continua ad andare avanti: uno sconcio che l’avvocato deve far finire senza badare a spese. Alla spiegazione dell’avvocato, che la giustizia non è una merce in vendita, il miliardario – sdegnato – reagisce infine con la frase “ho capito, lei non me lo vuole confessare: abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista”.
ROBA di settant’anni fa, ma da rileggere oggi per constatare come sia decisamente vecchia e sorpassata l’ossessione vittimistica di chi tende a buttare “in politica” i propri guai giudiziari, esibendosi in offese senza l’ombra di una prova e in gratuiti attacchi all’autonomia della funzione giurisdizionale; offese e attacchi che fanno temere la propensione per un sistema (poco rispettoso dell’ordine costituzionale dei poteri) dove le sentenze ‘giuste’ sono soltanto quelle gradite “in alto loco” e dove si aprono ampie piste a riforme lesive del principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.Chissà mai. Forse una rilettura di Calamandrei potrebbe riportare il dibattito sui problemi della giustizia nel perimetro degli interessi generali, abbandonando finalmente la logica degli interventi pensati con un occhio di riguardo a certi particolari interessi. Sperare che ciò avvenga può essere da ingenui, ma è anche fiducia in un futuro possibile, che riparta dalla Costituzione per lavorare a una comunità più capace di rompere le ingiustizie.

l’Unità 1.10.10
Il manicomio elettrico e il suo cantastorie
di Alberto Crespi


Aconferma che i festival fanno male alla salute, siamo rimasti sorpresi dalle reazioni veneziane a La pecora nera, esordio nella regia cinematografica di Ascanio Celestini. Diversi recensori hanno rimarcato la natura «teatrale» del film (e qui ha sbagliato Ascanio: non doveva dirlo in giro, che La pecora nera è anche uno spettacolo teatrale, e nessuno se ne sarebbe accorto...). Dal canto suo, si dice che la giuria abbia per qualche istante pensato di premiarlo come attore, che sarebbe stata una scelta buffa: Celestini è un incredibile performer, una forte presenza scenica, ma è difficile pensarlo come «attore» in film altrui, alla fine fa sempre... Celestini, sia pur declinato nei vari personaggi modellati su se stesso.
Proviamo quindi a far finta che Venezia non ci sia stata (non è difficile, dai!). Signore e signori, benvenuti al primo bellissimo film di Ascanio Celestini, autore teatrale musicale e radiofonico, attore e cantante, scrittore di romanzi, documentarista, custode della memoria romana e non solo, in una parola: cantastorie, nel senso più nobile del termine. Sì, Ascanio Celestini è un uomo che racconta delle storie, e il cinema era l’unico strumento che ancora non aveva utilizzato. Nello spettacolo al quale La pecora nera si ispira è in scena da solo, con pochissimi arredi e l’unica forza della sua voce e della sua faccia barbuta. Il film riprende fedelmente le situazioni dello spettacolo, non rinunciando alla voce fuori campo, ma le «apre» e le ambienta in periferie dal sapore pasoliniano e in un manicomio che restituisce tutto l’orrore dell’Istituzione con la «I» maiuscola. Nicola ci vive da quando è bambino, nel «manicomio elettrico» (ovvero, dove si pratica l’elettroshock). La pecora nera è la storia di come ci è arrivato e di come ha costruito, in questa via crucis, un modus vivendi che tutto sommato lo rassicura e gli permette di andare avanti. Il senso tragico della Pecora nera è proprio questo: come la chiesa e la famiglia e la caserma e tanti altri universi concentrazionari, il manicomio è rassicurante. La paura sta fuori. Per questo, nella barzelletta che apre il film, i matti in fuga scavalcano 99 cancelli e, arrivati al centesimo  e ultimo, si stufa- no. E tornano indietro.

L’espresso 40.2010
A Freud piace l'e-book
di Antonella Fiori


La rivoluzione del libro digitale arruola il padre della psicoanalisi, ma anche García Márquez, Sepúlveda, Safran Foer, Pennac... È il nuovo business dell'editoria. Ecco autori, titoli, cifre e i rischi della prossima stagione

Molti anni dopo, davanti al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio... La storia dell'e-book italiano potrebbe iniziare così: da un incipit epico come quello di "Cent'anni di solitudine" di Gabriel García Márquez, che ha ceduto i diritti digitali dei suoi romanzi in esclusiva mondiale a Mondadori e avrà una versione in e-book solo in italiano. La smaterializzazione del libro è cominciata. Impalpabili, con volta pagina fruscianti, su sfondi color seppia sfumati, gli e-book stanno per arrivare sui nostri reader lanciati in Rete dalle nuove piattaforme digitali realizzate dagli editori italiani. La battaglia si scatenerà alla vigilia di Natale, quando è previsto un boom nella vendita dei supporti, dall'i-Pad al Kindle al nuovissimo Samsung. Ma le case editrici stanno già cominciando a presentare i pezzi da novanta. E alla Buchmesse di Francoforte, dal 6 ottobre, non si parlerà d'altro: l'e-book farà scintille con "Frankfurt Sparks".
Intanto, cosa fanno i giganti? Ecco qualche nome e titolo. Mondadori parte con Ken Follet: "La caduta dei giganti", appena uscito in cartaceo, sarà disponibile in digitale nei prossimi giorni. Rizzoli darà battaglia con gli italiani: Gianrico Carofiglio "La manomissione delle parole", Dacia Maraini "La seduzione dell'altrove" e Giampaolo Pansa "I vinti non dimenticano". Ciliegine sulla torta (per Rizzoli): un esordiente d'eccezione, il direttore d'orchestra Riccardo Muti e il catalogo a fumetti con tutta l'opera di Hugo Pratt. Il Gruppo Gems (Guanda, Longanesi, Bollati Boringhieri, Garzanti tra i suoi marchi) risponde con James Patterson, tra i più richiesti al mondo in digitale, Wilbur Smith e Massimo Gramellini (tutti Longanesi), ma anche con il meglio del raffinato catalogo Guanda: da Jonathan Safran Foer a Luis Sepúlveda. E poi l'"Interpretazione dei sogni" di Freud (Bollati Boringhieri). Si potrà leggere in e-book il nuovo libro per ragazzi di Susanna Tamaro (Giunti), tutta l'opera di Pennac (Feltrinelli), e, sempre per Feltrinelli, autori come Jonathan Coe, Galimberti, Saramago. Infine Marsilio lancia la trilogia di Stieg Larsson, caso emblematico: i libri dello scrittore svedese negli Stati Uniti hanno venduto quasi il doppio in versione e-book rispetto al cartaceo.
Confortati dalle notizie Usa dove il mercato del libro elettronico non ha eroso quello tradizionale, gli editori italiani hanno vinto le loro paure: "L'offerta sarà di sette-ottomila titoli scaricabili entro Natale. La previsione è quella di un mercato che arriverà a coprire, entro dicembre, l'1,5 per cento del catalogo e l'8-9 per cento delle novità", dice Cristina Mussinelli, consulente per l'editoria digitale dell'Aie, Associazione italiana editori. A prima vista sembra poco, in realtà è l'inizio di una rivoluzione, soprattutto per l'investimento nelle novità.
E già in molti si pongono la domanda: riusciranno le star della carta da Stephenie Meyer a Erri De Luca, a Nick Hornby (tutti quanti tra gli autori di libri che saranno scaricabili) a scalare anche le classifiche digitali? Il mercato italiano, si sa, è piccolo, ragione per cui la nostra editoria ha ripiegato (si fa per dire) su prodotti di altissima qualità. O se vogliamo: l'editore italiano si rivolge a lettori forti, spesso diffidenti a leggere su schermi digitali, anche se si tratta di un'abitudine che, secondo le ultime rilevazioni, si è triplicata in tre anni e riguarda quasi due milioni di italiani. Gli editori rispondono così: scaricare un romanzo su e-reader ha dei vantaggi. Velocità, possibilità di passare alla soddisfazione immediata del desiderio di lettura, senza aspettare l'ordine via Internet, o andare in libreria. Ma anche "ritrovare libri spariti troppo in fretta dagli scaffali, che grazie al formato elettronico, potranno avere nuove fortune", come dice Claudia Tarolo di Marcos y Marcos. Lo stesso editore proporrà titoli fuori catalogo. Libri che in cartaceo non sarebbero mai stati ristampati: troppo alto il divario tra l'investimento e i possibili guadagni. Diverso il discorso sul destino dei classici, che ormai in rete si scaricano gratis. Paolo Zaninoni, direttore editoriale di Rizzoli, è certo: "Resisteranno collane come la Bur, con apparati e commenti necessari per chi studia".
E così si arriva alla questione dei costi: ovviamente fondamentale. Molto del destino della nuova industria editoriale si giocherà sul prezzo del libro. Oggi si parla del 20-30 per cento in meno rispetto al cartaceo. Ma per Francesco Cataluccio, veterano dell'editoria (ha diretto Bruno Mondadori e Bollati Boringhieri) e autore di "Che fine faranno i libri?", uscito pochi mesi fa con Nottetempo, il prezzo del libro digitale dovrebbe arrivare almeno alla metà di quello tradizionale dato che "l'e-book riduce del 46 per cento le spese". Più cauto Gianluca Foglia, direttore editoriale di Feltrinelli, che proporrà in digitale circa 800 titoli, ossia un terzo di quelli attualmente in commercio: "I libri costeranno meno ma non troppo di meno". E spiega qual è il vero pericolo: "Dobbiamo stare attenti a non mandare all'aria l'industria editoriale come è successo nel caso della musica". Il pericolo pirateria è evidente. Ma intanto con l'e-book moltissimi costi si azzerano: basta carta, inchiostro, magazzini, rese. E anche benzina, camion. La distribuzione sarà affidata a piattaforme digitali. Un'occasione per rendere l'editoria più democratica? Forse, ma siamo in Italia, e come nelle altre industrie culturali (tv, cinema) anche qui avremo a che fare con un duopolio (con un piccolo terzo polo): da una parte Mondadori, dall'altro Edigita, nata dalla partnership di RCS Libri, GeMS, Feltrinelli, Messaggerie italiane. Il meccanismo prevede che possano distribuirsi in vendita attraverso siti di e-commerce italiani (Bol, IBS e Feltrinelli) e stranieri (Amazon e iBookstore) tutti gli e-book. "Il modello italiano comunque è più pluralista di quello americano dove Amazon e Google agiscono come unici operatori", dice Foglia, "per quel che riguarda le strategie di promozione il processo naturale è che quando i libri cartacei saranno messi in vendita sugli scaffali lo saranno anche in e-book".
E il terzo polo? Si chiama Book Republic, è stato fondato da Marco Ghezzi e Marco Ferrario (16 anni in Mondadori), e unisce una cordata di piccoli e medi editori di qualità: Codice, Saggiatore, Minimum Fax, Iperborea, Nottetempo, Maestrale. Book Republic oltre a essere il distributore è anche uno store già attivo come altre librerie virtuali. "Sta cambiando tutto e i libri si potranno acquistare anche da Facebook o da altri social network", spiega Ferrario, e scommette che l'e-book arriverà a una quota del 10 per cento nei principali mercati europei nel giro di tre anni. Intanto ha dato vita a 40K, casa editrice di soli e-book che lancia a Francoforte in prima mondiale "Il bisturi partenopeo" di Bruce Sterling, romanzo ambientato nell'Italia ottocentesca. Un modello, quello di 40 K che prevede anche innovazioni contrattuali. In sostanza: i diritti mondiali varranno solo tre anni (e non più sette o dieci come è nel mondo del cartaceo) con autori che sono interessati al formato di short stories e saggi brevi, e alla pubblicazione in contemporanea in tutto il mondo e in più lingue. Perché, appunto, è nel settore delle royalties che stanno mutando gli equilibri. Non tutti gli autori sono pronti a cederli. Tanto che un agente di primo piano come Roberto Santachiara, ha messo in guardia gli autori che rappresenta, da Roberto Saviano a Simona Vinci a Wu Ming dal vendere le royalties delle versioni digitali delle proprie opere. Il ragionamento è semplice e richiama a quanto detto da Cataluccio e Foglia: poiché un e-book ha costi minori, le percentuali dell'editoria tradizionale (dall'8 e fino al 15 per cento sul venduto) non sono più applicabili. Quello di Santachiara è solo un ragionamento ed è piuttosto logico: la vera prima guerra dell'e-book è stata invece quella tra il potentissimo agente Andrew Wylie e il colosso americano Random House. È finita con un accordo. Ma nel frattempo si è capita una cosa semplice: qualcuno (Wylie) sta ipotizzando un mondo senza più editori tradizionali. Wylie (prima dell'accordo raggiunto, e vedremo quanto tempo terrà) aveva annunciato una partnership con Amazon per la pubblicazione e la vendita di una dozzina di libri degli autori che rappresenta: da Nabokov e Updike in formato e-book, senza l'intermediazione appunto dell'editore.
Ma allora, quanto valgono i diritti? Dipende. Il fatto è che nessun editore oggi è disposto a dare a un autore che offre un romanzo fruibile solo su un altro supporto elettronico lo stesso anticipo di un'opera in cartaceo. Tutti sono certi però che il mercato esploderà. E che cambierà la natura del prodotto. "Se avete visto "Alice in Wonderland" per iPad e iPhone non potrete che rimanere affascinati dall'idea di giocare con il testo, con la storia, come se il libro si fosse trasformato, ma mi verrebbe da dire fosse diventato un oggetto ludico", dice Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale Bompiani. In Mondadori, intanto, dal primo settembre è nata la Direzione digital, una nuova area, diretta da Vittorio Veltroni. E Riccardo Cavallero, direttore generale Libri Trade della stessa casa torna alla questione delle questioni, il prezzo: "Che nell'e-book, al contrario del cartaceo dove cambia solo se muta il formato, può variare velocemente, e diventa uno strumento di marketing". Un problema è quello dell'Iva, che non è la stessa nei vari paesi europei. "Prevedo che gli store che venderanno i libri con sede legale in Italia, Germania, Inghilterra, con l'Iva al 20 per cento praticheranno prezzi più alti di quelli dove l'Iva è più bassa". La galassia Mondadori, da parte sua, metterà in commercio entro fine anno oltre 1.400 titoli digitali, tra cui il nuovo romanzo di Alessandro Piperno, "Persecuzione" e uscirà a Natale con una ventina di titoli con apparato multimediale: dal romanzo "Alexandros "di Valerio Massimo Manfredi a Geronimo Stilton per Piemme. La rivoluzione è cominciata davvero. Ed è curioso che il suo primo simbolo sarà uno scrittore come García Márquez che, come pochi altri, ha saputo giocare con la magia e l'immaginazione per raccontare un altro mondo: eroico, romantico, nostalgico, ma proiettato nel futuro.

L’espresso 40.2010
Resurrezioni
Verdiglione spa
dI Gianfrancesco Turano


Psicoanalista e craxiano d'assalto negli anni d'oro, il filosofo torna in pista alla guida di un impero economico. Che va dalla cultura ai matrimoni a feste alla "Eyes Wide Shut"

Cantaci, o Diva, Armando Verdiglione, filosofo, psicoanalista, immobiliarista. Imprenditore con oltre un miliardo di patrimonio ma con denaro insufficiente a pagare i dipendenti, che devono rivolgersi al giudice. Craxiano con un passaggio alla casella prigione, resuscitato durante il berlusconismo, capace di accogliere a villa San Carlo Borromeo, la sua umile dimora trecentesca di Senago in bassa Brianza (300 milioni di euro di valore), intellettuali come Edgar Morin, Alain Finkielkraut e, in passato, Eugène Ionesco, Jorge Luís Borges, Jacques Lacan. L'emigrante di Agromastelli, frazione di Caulonia nella Locride, ha saputo diventare amico del bibliofilo Marcello Dell'Utri. Ha ricevuto il governatùr lombardo Roberto Formigoni, il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, il potente Gaetano Miccichè di Banca Intesa. Insieme alla moglie Cristina Frua De Angeli, erede di un'antica famiglia meneghina, ha costruito una galassia di società che ha la stessa trasparenza del periodare verdiglioniano, condensato nel Dizionario di cifrematica.
Esempio. "Duello: le cose procedono dal due. Corpo e scena. Corpo immortale e scena originaria. Non il corpo mortale e sacrificabile o sacrificale. Non la scena del negativo, del male, della corruzione, del peccato. Duello, ironia: il modo del due. La speranza, il futuro, la preghiera, l'eucaristia: è questa l'ironia, il modo dell'inconciliabile. Il modo del due, corpo e scena. L'inconciliabile. Leonardo da Vinci dice chiaroscuro. Nel contrasto chiaroscuro si tratta dell'inconciliabile. Né tutto chiaro né tutto scuro. Chiaroscuro: l'inconciliabile".
Verdiglione, 66 anni a novembre, persiste a conciliare l'inconciliabile. Di qua, i maestri russi dell'Ottocento. Di là, i matrimoni nel nuovo gazebo da mille posti inaugurato in settembre nei 10 ettari del parco di Villa Borromeo. Da una parte, la festa della filosofia (marzo 2010) e l'annuale festival della modernità. Dall'altra, l'evento molto speciale del Capodanno 2010, quando l'ex dimora del cardinale Federigo Borromeo è stata data in affitto alla Castle Events, società dello svizzero Andrej Lorenc che organizza party per scambisti mascherati nello stile di "Eyes Wide Shut" di Stanley Kubrick. Niente pubblicità, si intende. Solo qualche foto e una sobria descrizione della festa nel sito della Castle events, a ricordare le 75 coppie presenti e la cena da cinque portate seguita da un "unrestrained party" proseguito fino alle sette di mattina nella stanza 115.
Tempi difficili, d'altronde. Bisogna prendere quello che viene. Anche se il calendario delle manifestazioni aziendali a villa Borromeo continua ad essere affollato. Soltanto per fare qualche nome, hanno affittato le strutture della residenza per i loro eventi società come Mazda, Bp, Fastweb, Intesa Sanpaolo. I vertici di Mediaset si sono riuniti a Senago per definire la stagione 2010-2011 dei canali in chiaro e della piattaforma criptata di Premium.
Terminati matrimoni e convention, il sabato ruota attorno alla cultura. Verdiglione, che trascorre la settimana negli uffici-residenza di via Gabba, dietro via Montenapoleone, apre il ricevimento alle 9 di mattina. Accoglie i suoi collaboratori principali: Fabiola Giancotti, il responsabile finanza Rino Poli, Anna Gloria Mariano, che segue i grandi eventi, e un personaggio quasi altrettanto flamboyant quanto il guru calabrese. Si tratta di Guido Crapanzano, ex cantante anni Sessanta con il nome di Guidone, tra i fondatori del clan Celentano, presente come gruppo d'appoggio al concerto milanese dei Beatles, e oggi consulente filatelico di Bankitalia su nomina dell'ex governatore Antonio Fazio, dopo avere partecipato all'ideazione dell'euro con il gruppo di esperti della Bce. L'atmosfera sembra diversa da quella degli anni Ottanta, quando il filosofo venne arrestato, poi condannato a quattro anni per truffa e circonvenzione di incapace, nonché apparentato a un santone che si approfittava di seguaci troppo creduli.
Molti dei manager di oggi sono anche soci delle fondazioni, movimenti e università che controllano le società di capitali dove ogni anno entrano, all'incirca, 320 milioni di euro di ricavi. A giudicare dai conti, sono attività in ottima salute, con debiti lordi di gruppo di poco superiori ai 100 milioni di euro, cioè nulla rispetto al patrimonio dichiarato. Anche a fare la tara alle perizie sulle opere d'arte, realizzate da sodali del filosofo per un valore di molti milioni di euro, gli immobili sono più che sufficienti a tenere tranquille le banche finanziatrici.
La gallina dalle uova d'oro è villa Borromeo. Acquistata nel 1983, la residenza fattura da sola quasi 150 milioni di euro. La sua posizione è altamente strategica, visto che si trova a sette chilometri dalla nuova Fiera di Milano di Rho-Pero e a dieci chilometri dall'area espositiva di Fiera Milanocity, nell'area del Portello. Questo significa contiguità con i terreni dove sorgeranno, Formigoni permettendo, i padiglioni dell'Expo milanese del 2015. Di fatto, la struttura di Senago finirà integrata nello spazio dell'esposizione universale a nord-ovest di Milano.
Questo dovrebbe avere conseguenze positive sui profitti da distribuire ai soci. Chi siano i fortunati è difficile dire, considerata la presenza di sigle molto riservate: il Movimento cifrematico, l'Associazione cifrematica e l'Associazione del Museo di villa Borromeo, le fondazioni Modernitas e, la più roboante, la Fondazione Culturale Internazionale Armando Verdiglione Università del Secondo Rinascimento.
A fianco di questi club esclusivi, c'è una batteria di holding estere: le britanniche Coffsharb, Aleph City, Wisden Rock, e la svizzera Geston di Sion, che risulta in liquidazione agli atti del registro elvetico aggiornati al luglio 2010. A disposizione di questa rete oscura, ci sono le italiane Stalo, Zephyros, Events and Hospitality, la cooperativa Sanitas atque salus e la Frua De Angeli Holding, che ha incorporato la più vecchia e la più giovane delle proprietà di Verdiglione.
La prima è Spirali, la casa editrice che ha segnato il debutto del filosofo trent'anni fa e che, a detta del fondatore medesimo, "ha promosso intraprese molteplici dagli effetti incommensurabili" oltre ad avere "acquisito una notorietà immensa tanto da diventare mito e leggenda". Dentro Frua De Angeli Holding c'è anche l'ultimo affare del gruppo Verdiglione, la villa Rasini a Medolago, una frazione del comune brianzolo di Limbiate. Anche questa è una residenza realizzata nel Quattordicesimo secolo. L'acquisto risale a quattro anni fa. La Frua De Angeli holding l'ha comprata dalla famiglia triestina Baldassarre per una valutazione che si aggira attorno ai 16 milioni di euro. In più, va calcolato l'investimento necessario a rendere funzionale l'immobile. La villa ha bisogno di essere completamente restaurata e per questo sono in corso contatti con la giunta comunale amministrata da Antonio Romeo. Fra Verdiglione e il sindaco di Limbiate, rieletto con un tonante 61 per cento alle ultime municipali, ma bocciato come consigliere regionale al voto del 2010, ci sono origini comuni nella provincia di Reggio Calabria. Finora la ristrutturazione di villa Rasini, approvata dalla giunta comunale, stenta a prendere piede, anche se nel 2008 Bondi ha autorizzato i lavori che dovrebbero portare alla realizzazione di un centro congressi, un albergo di 130 stanze, una spa e un ristorante.
Ma il gruppo Verdiglione sembra non disporre dei fondi necessari a realizzare le opere per decine di milioni di euro che avrebbero dovuto concludersi nel 2010 e che sono ancora molto indietro. Il quadro politico locale non aiuta. La Brianza Felix e i suoi amministratori sono finiti coinvolti in pesanti polemiche, dopo che a luglio la Direzione distrettuale antimafia di Milano guidata da Ilda Boccassini ha arrestato 300 esponenti della 'ndrangheta e ha individuato in Limbiate uno dei centri di massima infiltrazione del crimine organizzato calabrese in Lombardia. Le 'ndrine hanno scarsi interessi filosofici ma adorano l'edilizia.

giovedì 30 settembre 2010

l’Unità 30.9.10
Il discorso del segretario del Pd
Bersani: «Qui si chiude una pagina vecchia. Apriamo noi la nuova»
Dieci minuti di intervento per demolire il fantastico mondo berlusconiano. «Chieda il Nobel per la pace», ironizza Bersani. Berlusconi ascolta e scuote la testa, sorride, cerca la complicità di Tremonti.
di Simone Collini


Compiono tutti e due gli anni ma è Bersani a fare la festa al premier. Il leader del Pd interviene in aula per le dichiarazioni di voto e in una decina di minuti demolisce il favoloso mondo di Berlusconi, «l’epoca gloriosa del ghe pensi mi» che doveva portare crescita economica e ha invece prodotto maggiore disoccupazione, «i cinque punti di ribollita» che dovrebbero rilanciare l’azione di governo ma neanche lambiscono «l’Italia, quella vera», «le promesse che marciano sulla Salerno-Reggio Calabria» e le «rivendicazioni di un ruolo internazionale»: «Chieda il Nobel per la pace!», ironizza alla fine Bersani tra gli applausi dei deputati dell’opposizione. E Berlusconi per tutto il tempo annuisce ridendo, oppure scuote la testa, o sorride, dà di gomito al vicino di banco Tremonti e con le mani giunte fa come per dire: ma che va dicendo?
«Voi oggi mettete una fiducia per debolezza, perché nessuno vuole in mano il cerino acceso della crisi. Questa è la fiducia del cerino, parliamoci chiaro», attacca Bersani che ormai con i suoi ragiona su come prepararsi per un voto che potrebbe arrivare in primavera. E che anzi sfida la maggioranza a dire apertamente quello che il ministro leghista Maroni (col quale Bersani si ferma a parlare in Transatlantico) va dicendo riservatamente (nel caso specifico, ieri intercettato dai microfoni di La7, a Vendola), e cioè che tra sei mesi si andrà alle urne. «Non veniteci a dire che abbiamo paura delle elezioni, ve le siete rimesse in tasca voi le elezioni, non noi, attenzione», dice Bersani puntando il dito contro i banchi del centrodestra. «Oggi qui non si apre una pagina nuova, qui si comincia a chiudere una pagina vecchia. La pagina nuova la apriamo noi».
Berlusconi gesticola, Tremonti lo asseconda, Bersani va avanti. «Il Paese ha bisogno di fatti veri e non di propagande di miracoli. Mi spieghi il misterioso motivo per cui lei, signor presidente del Consiglio, non va a Napoli o non lo cita neanche. Io ci vado domani. Vogliamo andare insieme a vedere dove è il miracolo dei rifiuti? Vogliamo andare insieme a L’Aquila per vedere a che punto si trova il programma di ricostruzione? Adesso ci stiamo andando noi. Venga anche lei a farsi un giro».
PARADISI FISCALI DELLA POLITICA
Applausi di qua, contestazioni di là, e Berlusconi in mezzo seduto al banco del governo che si liscia la cravatta, sorride, si sistema il nodo alla gola, scuote la testa, sospira e non sta fermo un attimo. Bersani parla di «un sogno» che poi si è rivelato «una favola» che si è poi «dispersa in mille bolle di sapone». Attacca la Lega «volete spiegarmi per quale diavolo di motivo avete votato tutte le leggi che hanno favorito la cricca?» denuncia la compravendita dei parlamentari «i deputati vanno e vengono, viviamo nei paradisi fiscali della politica, le carriere sono al portatore, le leggi sono al portatore» e difende Fini («non si deve dimettere»)
incassando l’applauso anche di Italo Bocchino quando dice rivolto a Berlusconi: «Lei fa dire ai suoi telegiornali che è l’uomo del fare e non del teatrino della politica. Guardi, lei è l’impresario di questo teatrino qui. La politica da quindici anni sta facendo il girotondo attorno a lei, alle sue questioni, e se lei, come si è visto questa estate, indica con il dito un malcapitato, quello lì va alla gogna per colpe che a lei sarebbero, e sono, mille e diecimila volte perdonate».
Alla fine tutti i deputati Pd sono in piedi ad applaudire. Walter Veltroni (citato dal premier nel suo intervento) si avvicina al segretario per stringergli la mano. Berlusconi aspetta che si spengano gli applausi per ascoltare le dichiarazioni di voto di Fabrizio Cicchitto, al quale intanto il premier ha inviato qualche “pizzino” («Dì che è la Iervolino che non fa la raccolta differenziata»). Il capogruppo del Pdl comincia a parlare e il premier finalmente si rilassa sulla poltrona. Ma ormai è andata, e mentre Bersani più tardi si dice certo che «è stato meglio il mio compleanno del suo», Berlusconi confessa al capogruppo dell’Idv Massimo Donadi, che incrocia in aula: «Sto passando un compleanno di m...».

Repubblica 30.9.10
Il segretario parla di "fiducia del cerino". Casini: Berlusconi non faccia Alice nel paese delle meraviglie
Bersani attacca e scalda i Democratici "Dal premier 15 anni di favole, a casa"
di Giovanna Casadio


Anche Veltroni si complimenta col leader, poi riunisce "Movimento democratico"

ROMA «Un buon compleanno il mio, di certo meglio del suo. Comunque gli faccio gli auguri». Appena apprende i numeri della fiducia che consegnano Berlusconi nelle mani dei "futuristi" di Fini e dell´Mpa di Lombardo Pier Luigi Bersani ripete che sì, «qui si chiude una pagina vecchia». Quella nuova aveva concluso il suo intervento in aula la apriamo noi. I Democratici sono rinfrancati. Il segretario del Pd giudica il governo «ulteriormente indebolito, con una difficoltà vera ad andare avanti; articolato in quattro componenti che neppure sono riuscite a firmare la stessa mozione di fiducia», ma hanno avuto bisogno di presentarne quattro uguali. «Dovrebbero andarsene a casa. Questa è la fiducia del cerino acceso, perché nessuno di voi vuole rimanere con in mano il cerino della crisi. Berlusconi ha deciso di pattinare, galleggiare denuncia Andrà sempre peggio, non ci credono neanche loro, si apre un periodo di instabilità». Perciò, nel giorno del compleanno di entrambi 59 anni per Bersani, 74 per Berlusconi il leader democratico è soddisfatto.
Per lui standing ovation dei suoi, alla fine di un discorso che mira a smascherare il premier-illusionista. Concreto: «Sapete com´è messa la scuola? Quanti servizi salteranno per i tagli agli enti locali? C´è un paese in carne ed ossa...». Incalza, Bersani: «Lei fa dire ai tg che è l´uomo del fare e non del teatrino della politica, ma è l´impresario del teatrino della politica. Sono 15 anni che la politica fa girotondo intorno ai suoi affari. Invece di cinque punti di ribollita servono 3 punti (fisco, burocrazia, lavoro) da realizzare. Servono fatti, non propaganda». Con la propaganda, Berlusconi sembra essere pronto a chiedere «il Nobel per la pace». Lo applaude il capogruppo dei finiani, Italo Bocchino quando il segretario Pd difende Fini e accusa: «Se Berlusconi indica col dito un malcapitato, quello lì va alla gogna». E poi: «Viviamo nel paradiso fiscale della politica, i deputati vanno e vengono, le carriere sono al portatore». Veltroni, l´avversario interno, va a complimentarsi: «Ha svelato le illusioni di Berlusconi».
E se dai banchi del Pdl le contestazioni per Bersani sono contenute, poco prima l´emiciclo è esploso, si è diviso e svuotato per Di Pietro. Il leader di Idv pronuncia una requisitoria anti Berlusconi aspra: «Lei è uno stupratore della democrazia. Un pregiudicato illusionista; è bravo solo a comprare il consenso dei parlamentari; fa come il suo predecessore Nerone; sa fare dossieraggio e killeraggio; i suoi maestri sono quelli della massoneria deviata». Ingiurie che vanno fermate, gridano a Fini i deputati Pdl, battendo oggetti sugli scranni e lasciando l´aula. Il presidente della Camera interviene quattro volte; chiede a Di Pietro di usare un linguaggio «più consono». Ma a Berlusconi non basta. Perde la pazienza il premier e rivolto a Fini chiede di fermarlo. A gesti dà del matto a Di Pietro. L´ex pm non si scompone, però raccoglie gli applausi solo dell´Idv.
Lo attacca Casini l´ex alleato a cui Berlusconi volentieri avrebbe offerto l´agnello grasso purché tornasse da figliol prodigo nella maggioranza: «Lei non faccia Alice, non ci sono neppure le meraviglie. Questa giornata segna l´epilogo di una stagione di ricatti, dossier e odio». Un j´accuse sul «trasformismo cancro della democrazia». No alla fiducia annunciato anche da Tabacci per l´Api: «Lei ha galleggiato su Tangentopoli...». Per l´opposizione è però anche l´ora di essere pronti al "dopo Berlusconi". E ieri sera nasce il "Movimento democratico", la minoranza di Veltroni, Gentiloni, Fioroni. Oggi riunita Areadem. Nichi Vendola, il leader di Sel, in Trasatlantico commenta: «Berlusconi è la Vanna Marchi della politica». E Anna Finocchiaro a Repubblica tv definisce Berlusconi «imbarazzante e senza progetto». E non è nell´opposizione alla Di Pietro «ma nell´alternativa nel paese» che si costruisce la svolta.

l’Unità 30.9.10
La dichiarazione Onu dei diritti dell’uomo
Vecchie idee (ancora nuove) per la sinistra
di Francesco Lenci


Con fatica e con un senso di disperazione cerco di seguire la discussione che oggi si va svolgendo nel Pd e nella “sinistra” sulla necessità di “nuove idee”. Personalmente non
sento alcuna necessità di “nuove idee”. Ne ho presenti di “vecchie” (ma “come nuove”, forse perché poco o mai usate) che se costituissero patrimonio culturale e ideale da non tradire e fossero trasformate in guide di intervento non rinunciabili e non negoziabili permetterebbero di cambiare davvero il quadro politico di questo nostro povero Paese.
Mi limito a fare un paio di esempi di “idee vecchie”, prendendo come riferimento un testo che dovrebbe essere conosciuto da tutti: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del 1948 (la trovate su Internet all’indirizzo http://www. unhchr.ch/udhr/lang/itn.htm) i cui punti fondanti si trovano, chiarissimi, anche nella Costituzione della Repubblica italiana.
«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza... (Art.1); ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione... (Art.18); ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; e ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà... (Art. 25); l’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi... (Art. 26)».
È troppo auspicare che chiunque pensi di poter “guidare” il Paese, qualunque sia la sua età anagrafica, consideri irrinunciabile e non negoziabile il non accettare mai, senza se e senza ma, forme di accanimento “istituzionale” e “popolare” a fare la guerra, non alla povertà, ma ai poveri, ad emarginare chi avrebbe bisogno di accoglienza, a praticare ottusamente intolleranza e fondamentalismo, a perseguitare immigrati alla ricerca disperata di fonti di sopravvivenza? È troppo chiedere che un lavoro dignitoso venga riconosciuto come un diritto inalienabile per ogni cittadino e che venga rifiutata un’organizzazione del lavoro che combina forme di “dispotismo” arrogante (“se vuoi lavorare, queste sono le condizioni”) a mantenimento di sacche di disoccupazione e sofferenza? È troppo augurarsi che abbiano fine le squallide querelles tra i vari Renzi e Veltroni e si cominci a lavorare per il bene comune?

l’Unità 30.9.10
Intervista a Ignazio Marino
«È a rischio l’incolumità delle persone tutelata dalla nostra Costituzione»
di Mariagrazia Gerina


Non è più questione di singoli casi. C’è una vera e propria emergenza, in Italia. Riguarda ciò che accade nelle sale parto. La commissione sull’efficienza del Servizio sanitario presieduta Ignazio Marino ha già aperto una inchiesta. Cosa sta succedendo nelle sale parto? «Il governo dice che il parto in Italia è un evento sicuro. Ma è egualmente sicuro in ogni luogo del paese? La risposta è no. La mortalità materna al momento del parto varia dal 3,9 per centomila delle strutture d’eccellenza del Nord fino a un massimo di 22 per centomila in Sicilia. Se c’è una parte d’Italia dove il rischio è sei volte superiore, qualcosa non va. E siccome qui è “a rischio l’incolumità delle persone”, secondo il titolo V della Costituzione, il governo ha il dovere di intervenire in sostituzione».
Ma l’ultimo episodio si è verificato a Bergamo. «È chiaro che l’attenzione deve essere alta su tutto il territorio. Ma i numeri dicono che la situazione è molto più grave nel Sud, per mortalità al momento del parto che per numero di cesarei. Erano il 10% nel 1980, oggi è il 39%, tre volte di più del teto fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità al 13,7%. Nel cesareo il rischio è tre volte superiore: va eseguito se necessario, altrimenti no».
Una decisione delicata. Ma come è possibile che si litighi in sala parto? «Una lite non dovrebbe mai esplodere in un luogo di cura. Su Bergamo, per ora, abbiamo solo le notizie di stampa. Ma a Messina, invece, abbiamo documentazione che sia andata proprio così. E certo chi non è in grado di concentrarsi sul paziente dovrebbe stare lontano dai luoghi di cura. C’è un punto di metodo però. È normale che la donna al momento del parto voglia avere al proprio fianco il ginecolo che l’ha seguita. Però spesso il medico di guardia è un altro. In Toscana questo problema è stato risolto: il medico di fiducia può assistere la donna ma indossa un camice di carta per ribadire anche simbolicamente che la responsabilità è del medico di guardia. Al Sud ci si mette d’accordo e non sempre funziona. Un numero dà l’idea di quanto sia importante la professionalità del medico. In Campania il 62% dei parti sono cesarei. Però quel numero che è il più alto d’Italia, a Castellammare scende al 16,6%. In passato era al 53% anche lì».
Per altri interventi si può anche decidere di operarsi altrove. Ma di solito si partorisce nel posto più vicino. «Questo è un punto critico. La nostra rete dei punti nascita è stata disegnata negli anni del baby boom. Ed è capillare. Nel frattempo sono diminuiti i parti ed è cambiata la percentuale di donne che partoriscono dopo i 35 anni (meno del 10% prima dell’80, oggi oltre il 30%). Molti punti nascita oggi andrebbero chiusi. Almeno quelli con meno di 500 parti l’anno. Lo ha stabilito il ministero nel 2000. Meglio percorrere venti chilometri di più ma partorire in un luogo si è garantita maggiore sicurezza alla madre e al nascituro».

l’Unità 30.9.10
La protesta dell’Europa sociale
Sciopero e scontri in Spagna
Migliaia di lavoratori europei in corteo a Bruxelles contro le misure di austerity varate dai governi Tafferugli a Madrid e Barcellona, Grecia di nuovo paralizzata. La Cgil in piazza a Roma
Migliaia in piazza a Bruxelles, sciopero in Spagna, il primo dell’era Zapatero. Scontri con la polizia: 30 feriti, 80 fermati, auto e megozi presi a sassate. A Roma, Epifani chiede un «cambiamento della politica».
di Laura Matteucci


Decine di voli cancellati, servizi minimi per treni, metrò, autobus, ospedali e scuole, traffico stradale interrotto dai picchetti: la Spagna gira al rallentatore nella giornata del primo sciopero generale del governo Zapatero, nel giorno della mobilitazione indetta dalla Confederazione europea dei sindacati (Ces) contro le misure anti-crisi introdotte dai governi, e per rivendicare misure in favore del lavoro e della giustizia sociale. Centommila persone da 30 Paesi diversi, soprattutto belgi, tedeschi e francesi, ma anche polacchi e slovacchi, si sono riversate oggi nelle strade di Bruxelles al suono delle «vuvuzela». La marcia era aperta simbolicamente da falsi «businessman» con manifesti dell’« Associazione europea imprese fraudolente» e dell’«Unione europea degli speculatori». «I lavoratori spiega il segretario generale della Ces John Monks hanno un messaggio chiaro per i dirigenti dell’Europa: siete ancora in tempo a cambiare strada. Perchè questi piani avranno un effetto disastroso sulle persone e sull’economia».
Protesta anche a Roma, con la Cgil (ma non Cisl e Uil) in piazza e il leader Gulielmo Epifani che lancia l’affondo contro il governo: «Con un esecutivo che affronta la crisi attaccando i diritti, lasciando solo il Mezzogiorno, non affrontando i problemi della competitività, non ci può essere nessun patto per la crescita del Paese, che reclama invece un cambio radicale delle politiche», scandisce. «Il patto sociale presuppone la condivisione delle scelte continua Io chiedo un radicale cambiamento delle politiche. Ecco perchè questo rende non possibile un patto sociale con tutti, mentre è possibile un cammino su singoli temi nell’interesse dei lavoratori».
FERITI E FERMATI
In Spagna, intanto, la protesta promossa dai sindacati Ugt e Ccoo attacca la riforma del mercato del lavoro, che diminuisce le indennità di licenziamento, congela le pensioni e gli stipendi pubblici. Le manifestazioni più importanti a Madrid e Barcellona, teatri anche di disordini, scontri con la polizia, con un bilancio di una trentina di feriti e 80 arresti, auto e negozi presi a sassate. Lo sciopero generale è arrivato alla vigilia della presentazione in Parlamento della Finanziaria per il 2011, in un Paese strangolato dal debito e dove il tasso di disoccupazione è al 20%, il più alto dell’Ue.
Manifestazioni e scioperi di trasporti e personale sanitario ospedaliero hanno creato molti disagi anche in Grecia. Ad Atene si sono fermati i mezzi pubblici, in tutto il paese hanno incrociato le braccia i ferrovieri. In sciopero anche i medici ospedalieri, cui si aggiunge la mobilitazione dei farmacisti contro i piani del governo di liberalizzazione.
Le proteste giungono mentre il paese si trova alle prese con il blocco degli autotrasportatori, che ha lasciato vuoti i supermercati delle principali città e isole. La Grecia deve ottemperare agli obblighi di austerity e riforme economiche imposte dall’Unione e dal Fondo Monetario internazionale in cambio di un megaprestito di 110 miliardi, che ha per ora evitato al Paese la bancarotta.

il Fatto (da The Guardian) 30.9.10
Rosa è il colore della rivoluzione
Carcere, torture e calunnie contro la rete delle attiviste iraniane
il Movimento Verde nato dopo il voto del 2009 ha messo al centro della protesta i diritti delle donne
di Peter Beaumont e Saeed Kamali Dehghan


Shahrzad Kariman è riuscita finalmente a vedere sua figlia Shiva Nazar Ahari per pochi minuti nel Tribunale di Teheran dove la 26enne attivista dei diritti umani era stata condotta per essere processata. “L’abbiamo appena vista”, ha detto Kariman. “Solo il tempo di abbracciarla. Ma non abbiamo nemmeno potuto chiederle come era andato il processo”.
I capi d’imputazione sono gravissimi per l’Iran: muharebeh (guerra contro Dio). In teoria un reato punibile con la pena capitale, mai contestato prima ai dissidenti politici. Ma l’accusa forse più grave – negata sia dalla sua famiglia che dalla sua organizzazione – è quella di collusione con il gruppo Mujaheddin-e Khalq ritenuto dal regime un’organizzazione terroristica. Secondo la sua famiglia Shiva Nazar Ahari condanna questo gruppo e il terrorismo. Arrestata due volte dopo le elezioni del giugno 2009 e detenuta nella famigerata prigione di Evin, Nazar Ahari, dal dicembre scorso non ha potuto comunicare con l’esterno.
I loro volti visti da mezzo mondo
ASSIEME A LEI è stata arrestata Mahboubeh Abbasgholizadeh, attivista e cineasta che successivamente è riuscita a lasciare il Paese ed è stata condannata in contumacia a due anni e mezzo di reclusione. Nei 15 mesi trascorsi dalle elezioni-truffa, i volti di queste e di altre donne sono stati visti in tutto il mondo. Accanto ai loro ci sono i volti delle donne morte, come Neda Agha-Soltan, assassinata il 20 giugno 2009 durante una manifestazione di protesta. Oltre alle attiviste, altre donne iraniane sono diventate tristemente famose per-
ché minacciate di essere giustiziate. Emblematico il caso di Sakineh Ashtiani, la 43enne madre di due figli condannata alla lapidazione per adulterio. È semplice la ragione per cui c’è uno stretto legame tra le donne che si battono per i diritti e Sakineh Ashtiani. Le loro storie riflettono aspetti diversi della tragedia iraniana: il ruolo delle donne e la reazione del regime pronto ad accusarle dei reati più inverosimili e a processarle senza garanzie.
Una cosa è certa: il Movimento Verde nato sull’onda delle elezioni del 2009 ha messo al centro della sua protesta i diritti delle donne. La dottoressa Ziba Mir-Hosseini, un’attivista che vive e insegna a Cambridge, sostiene che, considerata la storia dei diritti delle donne in Iran, era inevitabile che le donne fossero in prima linea nella lotta tra “dispotismo e democrazia. È una tensione esacerbata dal contraddittorio atteggiamento della Rivoluzione islamica del 1979 nei confronti dei diritti politici delle donne. Le leggi sulla parità di diritti in seno alla famiglia e in materia di divorzio introdotte dallo scià, furono abrogate dopo la sua caduta. La Rivoluzione islamica permise alle donne di continuare a votare, ma gradualmente tolse loro diritti con il pretesto di difendere il loro onore’”. “Mohammad Khatami durante gli 8 anni di presidenza e di governo riformista istituì un ‘Centro per la partecipazione femminile’ grazie al quale il numero delle Ong femminili passò in Iran da 45 a oltre 500”, aggiunge Ziba Mir-Hoseini. “E si andò affermando nelle giovani generazioni il femminismo, parola che nei primi anni ’80 non poteva essere nemmeno bisbigliata. Nel 2006, un anno dopo l’elezione di Ahmadinejad, sebbene la campagna tutta al femminile “Un milione di firme” fosse riuscita a bloccare temporaneamente la riforma del diritto di famiglia voluta dal nuovo presidente che avrebbe reso la poligamia più facile per gli uomini e il divorzio più difficile per le donne, il ruolo sempre più attivo delle donne nelle manifestazioni di protesta finì per mettere le attiviste in rotta di collisione con i falchi del governo.
“Le donne erano in prima fila ed è anche per questo che tra i principali obiettivi del governo c’è l’attacco ai diritti delle donne”, dice Maryam Namazie dell’organizzazione ‘Solidarietà con l’Iran’.
Ma, con l’eccezione del premio Nobel Shirin Ebadi, l’attivismo delle donne in Iran era praticamente ignorato dagli organi di informazione internazionali prima del 2009. Poi c’è stato il cosiddetto “effetto Neda” e il mondo ha cominciato a occuparsi delle donne che in Iran si battono per la democrazia. Un ultimo elemento è la condanna a morte per lapidazione di Sakineh. La vicenda ha dimostrato al mondo quanto le attiviste iraniane andavano dicendo da tempo, vale a dire che era in atto il tentativo di azzerare completamente i diritti delle donne.
Arrestata a luglio 2009 mentre stava andando all’Università di Teheran, Shadi Sadr, avvocato, è stata rinchiusa nel carcere di Evin in isolamento e interrogata sulle attività dei movimenti femminili e sulle elezioni per poi essere incriminata di attentato alla sicurezza nazionale. Due giorni dopo l’inizio del processo Shadi Sadr è fuggita in Turchia. Parlando Shadi Sadr dice: “Non mi è mai stato permesso di vedere Shiva. Poi sono stata arrestata e, per ironia del destino, sono finita nella stessa cella dove era stata rinchiusa. Sul muro della cella c’erano ancora i messaggi scritti di suo pugno. Un avvocato e la sua cliente nella stessa cella. Una cosa impensabile. Non mi era stato permesso di ascoltare cosa aveva da dire, ma l’ho letto sul muro della cella. L’arresto di Shiva e in particolare l’accusa di muharebeh, sono un messaggio chiaro alle attiviste: smettetela se non volete essere uccise”.
Le vicende di Shadi Sadr, Shiva Nazar Ahari e Mahboubeh Abbasgholizadeh sono quanto mai istruttive. I loro casi sono stati utilizzati come pretesto per smantellare il movimento dei diritti delle donne e per ridurre al silenzio le donne agitando la questione della sicurezza nazionale. Il regime ha parlato di legami con il “terrorismo” o di collaborazione con Paesi stranieri allo scopo. Lo scopo, dice Parisa Kakaee, veterana del movimento dei diritti delle donne, è quello d’offrire alle attiviste 3 alternative: “Stare zitte, andare in prigione o lasciare il Paese”.
Sempre meno, e meno libere
IL MESE SCORSO è stata la volta di Nasrin Sotoudeh, 45 anni, avvocata e collega di Shirin Ebadi che nella sua carriera ha difeso molte attiviste. Nasrin è stata avvicinata da agenti dei servizi e minacciata di essere arrestata se avesse continuato a patrocinare la premio Nobel che è riuscita a lasciare il Paese un giorno prima delle elezioni. Qualche giorno dopo Nasrin Sotoudeh è stata arrestata.
Commentando il suo arresto, Shirin Ebadi dice: “La sola ragione per cui è stata arrestata è perché difende senza paura le attiviste incriminate per la loro azione politica. Dopo le elezioni si è intensificata l’azione di intimidazione nei confronti degli avvocati, in particolare delle donne. Molte sono state costrette a lasciare l’Iran e alcune sono in prigione. Nasrin era tra le poche avvocate e attiviste ancora a piede libero”. Shirin Ebadi è sicura delle ragioni per cui il regime ha paura delle donne: “Ricordate bene le mie parole: saranno le donne a portare la democrazia in Iran”.
Copyright The Guardian Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 30.9.10
Un saggio sulle rivoluzioni grafiche da Diocleziano a Gutenberg
Come la scrittura cambiò il mondo
Il modo di confezionare i libri era spesso il risultato di giochi di potere
di Agostino Paravicini Bagliani


Più di cinquecento anni fa, l´invenzione della stampa ad opera di Gutenberg inaugurò una fase nuova nella storia della cultura occidentale, sostituendo al libro manoscritto, di per sé unico, la possibilità di riprodurre un libro simultaneamente per un numero di copie potenzialmente illimitato. La stampa con caratteri mobili aveva così posto le premesse di una sempre maggiore democratizzazione del sapere. Nei secoli precedenti, il libro e la scrittura erano stati monopolio delle classi sociali elevate, religiose e aristocratiche, e persino le forme grafiche di scrittura erano il risultato di giochi di potere. È questa una delle linee di fondo dell´aggiornata e brillante storia delle scritture antiche e medievali a cura di Paolo Cherubini e di Alessandro Pratesi (Paleografia latina. L´avventura grafica del mondo occidentale, Scuola Vaticana di Paleografia, pagg. 785, euro 50).
Già il III secolo aveva conosciuto una rivoluzione grafica con la nascita di una scrittura latina vergata con lettere minuscole. La nascita del doppio binario grafico, maiuscolo e minuscolo, di cui ci serviamo ancora oggi aveva cause sociali e politiche. Nell´impero di Diocleziano, l´alfabetizzazione aveva raggiunto tassi elevatissimi, esigendo forme di scrittura capaci di assicurare una maggiore leggibilità.
L´alta cultura classica e la religione cristiana che si stava sempre più affermando volevano però disporre anche di libri di prestigio, un desiderio così profondo da far nascere una nuova scrittura, l´onciale, che per cinque secoli (dal quarto al nono) fu il principale vettore della nuova cristianità, da Costantinopoli alla Spagna, dall´Egitto all´Inghilterra. I codici che Gregorio Magno (590-604) affidò al monaco Agostino quando lo inviò in Inghilterra per convertire gli Angli erano stupendi codici scritti in onciale.
Gregorio Magno viveva in una nuova Europa, governata dai Visigoti in Spagna, dai Longobardi in Italia, dai Franchi in Gallia. In questa Europa, nata dalle spoglie dell´Impero romano, l´uniforme scrittura minuscola latina finì per lasciare il passo a scritture nazionali, insulari (Irlanda, Inghilterra), merovingiche, visogotiche e così via.
Intorno all´anno 800, l´affermazione dell´impero di Carlomagno produsse una nuova uniformizzazione della scrittura. Il rinnovamento degli studi voluto dal nuovo imperatore aveva bisogno di un supporto grafico chiaro, ordinato, elegante, per diffondere gli autori classici e le imponenti glosse dei loro commentatori oltre che la letteratura biblica e cristiana. Non a caso, a creare la scrittura carolina fu il consigliere culturale di Carlomagno, il monaco Alcuino, uno dei più alti intellettuali dell´epoca.
Anche le università di Bologna e di Parigi dominarono per almeno due secoli il panorama grafico europeo, imponendo una nuova scrittura, la minuscola gotica, capace di accelerare la lettura di testi sempre più numerosi (sono ben più di 13.000 gli autori medievali stando al recente repertorio – Bislam – pubblicato dalle Edizioni del Galluzzo www.sismel.it), grazie anche alle numerose abbreviazioni, veri e propri ideogrammi indispensabili a una rapida assimilazione mnemonica. Insomma, anche le forme grafiche di scrittura hanno contribuito a costruire negli ultimi secoli del Medioevo un´Europa universitaria omogenea.
Verso la metà del Trecento, Petrarca, Boccaccio ed altri preumanisti si dissero però insoddisfatti delle litterae scholasticae, perché troppo ricercate e poco leggibili, e incominciarono a sognare una scrittura più adatta a sostenere la nuova cultura cui aspiravano. La realizzazione di questo sogno avverrà all´inizio del Quattrocento a Firenze, per opera di uno dei primi umanisti, Poggio Bracciolini, il quale, nel tentare di ritrovare la scrittura dell´antichità romana creò la scrittura umanistica che è di fatto un´imitazione geniale della carolina del dodicesimo secolo... Come già la riforma scolastica di Carlomagno o le nascenti università medievali, anche l´umanesimo ebbe dunque bisogno di un supporto grafico uniforme quale veicolo di comunicazione di profonde idealità culturali.

Repubblica 30.9.10
Marilyn quella bambina che guarda nell'abisso
Così Norma Jeane sognava di essere una farfalla
di Antonio Tabucchi


Anticipiamo un brano dello scrittore che introduce le riflessioni inedite dell´attrice americana
Questi testi rivelano l´altra faccia della luna C´è l´anima di una donna colta e poetica

Se fosse un film sarebbe un flashback. Si vedrebbe una bambina dal viso dolce e gli occhi grandi che si chiama Norma Jeane, indossa una calzamaglia con due alucce trasparenti sulle spalle che la fa sembrare una creatura uscita dal mondo di Peter Pan, cammina su un cavo teso in alto, molto in alto, come un´acrobata, con le braccia che fanno da bilanciere, avanza in precario equilibrio, eppure sembra sicura di sé, con la sicurezza inconsapevole dei sonnambuli. Ma non dorme, è ben sveglia; che strano, non è un cavo d´acciaio, l´obiettivo si avvicina, è un filo di seta che oscilla pericolosamente nell´aria. Come può un filo così sottile reggere una bambina sospesa nel vuoto?
La bambina guarda in basso, verso l´abisso. Da una parte, c´è una casetta modesta a cui il misterioso regista del film ha fatto togliere il tetto affinché si possa vedere l´interno come nelle maquettes delle agenzie immobiliari.Dentro c´è una donna dall´aria disperata, indossa una vestaglia, ha una bottiglia di liquore sul comodino, il letto è disfatto, accanto a lei c´è un marinaio dall´aria rozza che ride, ma senza che si possa udire, e che tende le mani verso la bambina per afferrarla. Ha braccia mostruosamente lunghe, anzi, che si stanno allungando fino a sfiorare i piedi della bambina. Ma lei avanza senza paura e guarda dall´altra parte del filo, verso la parete di un grattacielo di New York; allora appoggia i gomiti nell´aria come se si affacciasse a un balcone. In fondo all´abisso, sul marciapiede di una strada percorsa dalle automobili, c´è una folla che la invoca con ampi gesti, la acclama, tende le braccia verso di lei, e tutte quelle braccia di tutta quella folla cominciano ad allungarsi mostruosamente fino a sfiorarle i piedi. La vogliono, la reclamano, urlano. Ma si vedono solo bocche spalancate, perché il film è muto e in bianco e nero. Da quale parte scendere?
A questo punto nel film irrompe una voce off. Viene dalla bambina, ma lei non apre bocca: dolce e un po´ nasale, infantile ma adulta, sembra implorare la vita di guidare i suoi passi.

Vita –
Ho in me entrambe le tue direzioni
Restando come appesa all´ingiù
più spesso
ma forte come la tela di un ragno al
vento – esisto di più nella fredda brina scintillante.
Ma i miei raggi perlati hanno i colori che ho
visto in un quadro – ah vita ti hanno
imbrogliata

La voce off sta recitando una poesia di Marilyn Monroe. Non è più un flashback, è un flashforward. Non è più un film, è la vita vera, siamo a questo libro. Un libro che ci rivela a posteriori una personalità intellettuale e artistica che i più non potevano sospettare, neppure i biografi e gli esegeti più attenti. I documenti che questo volume ci consegna rivelano un´altra Marilyn rispetto all´immagine che il cinema ha lasciato di lei: un´immagine in cui prevale, al di là di quella di registi come Huston e Hathaway che l´hanno chiamata per ruoli complessi come la sua personalità meritava, la figura di una bellissima donna bionda, all´occorrenza candida, o comunque dotata di un´intelligenza che non disturbi l´intelligenza maschile, una donna affascinante, quella del cinema, affascinante e nata con la funzione di sedurre gli uomini: la donna che ogni uomo sognerebbe di avere soprattutto "quando la moglie è in vacanza".
Questo libro è l´altra faccia della luna, e tuttavia non nega l´immagine-icona della Marilyn cinematografica, quel meraviglioso naturale involucro del quale la natura dotò Marilyn, anzi lo anima di un´energia incredibile. Dentro quel corpo, che in certi momenti della sua vita Marilyn portò come si porta una valigia, viveva l´anima di un´intellettuale e di un poeta che nessuno sospettava.
Come sarebbe stata la storia se Marilyn, invece di avere quella straordinaria bellezza che la rese celebre per il cinema, fosse stata una donna dall´aspetto comune? Avrebbe pubblicato in vita quello che noi leggiamo ora e probabilmente si sarebbe suicidata come si è suicidata Sylvia Plath. E forse si sarebbe detto che come Sylvia Plath si era suicidata perché era troppo sensibile e troppo intelligente, e le persone troppo sensibili e troppo intelligenti soffrono di più delle persone poco sensibili e poco intelligenti e tendenzialmente si suicidano (questo lo sostengono gli psichiatri e le statistiche). Se le persone scarsamente sensibili e intelligenti tendono a far del male agli altri, le persone troppo sensibili e troppo intelligenti tendono a fare del male a se stesse: chi è troppo sensibile e intelligente conosce i rischi che comporta la complessità di ciò che la vita sceglie per noi o ci consente di scegliere, è consapevole della pluralità di cui siamo fatti non solo con una natura doppia, ma tripla, quadrupla, con le mille ipotesi dell´esistenza.
Questo è il grande problema di coloro che sentono troppo e capiscono troppo: che potremmo essere tante cose, ma la vita è una sola e ci obbliga a essere solo una cosa, quella che gli altri pensano che noi siamo.
***
Idolo nel senso etimologico della parola (greco eidolon, il doppio "aereo" di un vero corpo), Marilyn sembra fuori da se stessa, o accanto a se stessa, come se avesse un´aura a lei identica ma imprendibile, e lei coincidesse più con quest´aura che con il suo corpo.
Una donna di una carnalità così gioiosa, con un doppio fatto d´aria per la malinconia. È mai possibile?
Siamo sulla spiaggia di Long Island. È il 1949, e André de Dienes la sta fotografando. È la fine della seduta fotografica, Marilyn per tutto il pomeriggio ha prestato il suo corpo all´obiettivo, ora stanno parlando, come si può parlare sulla spiaggia: ipotesi, sciocchezze, cose astruse, altre vite possibili dopo questa vita terrena. Tutti noi, lo ricordiamo, una volta abbiamo parlato di cose così, d´estate, sulla spiaggia, cose tipo reincarnazioni ed altre metafisiche tascabili. All´improvviso Marilyn ha un´idea. È allo stesso tempo una premonizione e una inconsapevole presa di coscienza, come può succedere solo a coloro che riescono a vedersi dal di fuori. Sibilla di se stessa, Marilyn si vede come farfalla: «Un giorno, mentre la stavo fotografando, ci avventurammo in una lunga discussione sulla reincarnazione. Eravamo all´aperto, sotto un bel cielo dove correvano le nuvole. Marilyn era contenta e rideva. Mi confessò che nella sua prossima vita avrebbe voluto essere una farfalla. Inseguendo le nuvole le dissi: "Guarda, Norma Jeane, intorno a noi c´è una forma di reincarnazione palese. Una buona parte del nostro corpo è fatta di acqua. Quando moriamo, quest´acqua evapora e si trasforma in nuvole. Le nuvole diventano pioggia e la pioggia fertilizza la terra, dove crescono le piante che gli animali e gli uomini mangeranno. È così che il ciclo della vita si ripete di continuo". Marilyn mi rispose: "Vuoi che diventi una nuvola? E allora fotografala!". Spalancando le braccia mi corse incontro, il viso rivolto al cielo, i capelli al vento...». (André de Dienes, Marilyn, Taschen, 2004).
Marilyn non è solo un mito o un´icona (pare che l´immagine del suo volto sia conosciuta nel mondo quanto La Gioconda di Leonardo). Forse, mentre André de Dienes la sta fotografando Marilyn ha visto la propria "essenza", e ha pensato di offrirla all´obiettivo. Ma l´aura non può restare impressa nella pellicola, sarebbe come fotografare una cefalea – e infatti André de Dienes cercherà di fare un montaggio infilando Marilyn fra le nuvole.
Marilyn non lo sa, ma il suo è già un commiato, quasi una psicoanalisi "selvaggia" di se stessa, il desiderio di staccarsi dalla vita corporea per volare come farfalla verso il suo Nonsodove. Sta guardando il suo Phantasma. (...)
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
© Antonio Tabucchi 2010

mercoledì 29 settembre 2010

l’Unità 29.9.10
Bersani attacca: «È corruzione la compravendita di deputati»
«Se uno promette la rinomina o comunque uno stipendio è corruzione, roba da magistratura», dice Bersani. Per il quale il ricorso al voto di fiducia è «segno di debolezza e paura»: «È una crisi non rimediabile».
di Simone Collini


«Corruzione». Per Pier Luigi Bersani c’è poco da scherzare sulla compravendita di parlamentari, c’è poco da ironizzare sul fatto che a Berlusconi questa faccenda sarà costata più della campagna acquisti del Milan, come si fa in qualche capannello che si forma e si disfa in Transatlantico aspettando il voto di oggi. «È in corso un’operazione che prelude all’ipotesi del governo Berlusconi-Bossi-Cuffaro», dice il leader del Pd attaccando l’asse Pdl-Lega a cui si vanno ad aggiungere i transfughi siciliani dell’Udc. «Ma poi sono in corso altre manovre, già successe in passato e che si ripetono», aggiunge Bersani parlando della compravendita di cui si parla sui giornali: «Se uno promette la rinomina o comunque uno stipendio è corruzione, roba da magistratura». Parole dure, che preannunciano per oggi un intervento in aula tutto all’attacco.
Sarà Bersani a prendere in aula la parola per le dichiarazioni di voto. Il leader del Pd dirà che il governo ha «fallito» da qualunque punto di vista lo si guardi farà riferimento all’incapacità di far fronte alla crisi economica, al «più grande licenziamento di massa» ai danni dei precari della scuola, allo «scandalo» dell’assenza di un ministro dello Sviluppo e alle leggi ad personam nel campo giustizia chiederà a Berlusconi di farsi da parte e lasciare che sia il Quirinale a decidere gli ulteriori passi: «La maggioranza è in crisi politica, una crisi non rimediabile che può preludere a tentativi di aggiustamenti poco credibili. Ma il paese non ha tempo di aspettare. Il governo prenda atto della crisi, se ne vada e si rimetta alle decisioni del Capo dello Stato».
Bersani ha riunito nel suo ufficio alla Camera una sorta di cabina di regia pre-crisi: la presidente del Pd Rosy Bindi, i capigruppo di Camera e Senato Dario Franceschini e Anna Finocchiaro, il vicesegretario Enrico Letta e il coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca. E l’esortazione ai vertici del suo partito è stata questa: «Dobbiamo stare pronti in caso di caduta».
FIDUCIA COME DEBOLEZZA
Ma nel Pd non si fanno troppe illusioni su come finirà oggi. Se da un lato Bersani dice che l’aver posto la fiducia «è un evidente segno di debolezza e paura» da parte di Berlusconi («perché uno si fa un recinto, se non perché ha paura?») dall’altro questa mossa consente al premier di mettere i finiani di fronte a un aut-aut complicato: votare la fiducia o prendersi la responsabilità della crisi, con quel che comporta di penalizzante in caso di elezioni anticipate. Per questo nella riunione serale che Bersani fa con i deputati del Pd si fanno calcoli che non lasciano ben sperare, in nessun caso. Oggi, spiega di fronte al gruppo il “mago dei numeri” Rolando Nannicini, il governo potrebbe incassare la fiducia con circa 350 sì, compresi i 35 di Futuro e libertà e i 5 dell’Mpa. Una situazione negativa, perché il governo avrebbe i numeri per andare avanti ma senza avere veramente una maggioranza politica che gli consenta di governare. Dice Anna Finocchiaro: «Mi chiedo che valore possa avere il via libera che la Camera potrebbe dare a Berlusconi quando gli italiani ormai sanno, con tutta evidenza, che una parte dei quei voti è figlio indecente di una compravendita, con moneta sonante, delle coscienze e del voto di alcuni parlamentari».
Durante la riunione dei deputati Pd si è parlato anche della disponibilità annunciata da Calearo di votare sì («se il discorso di Berlusconi che ascolterò domani mi convincerà gli darò il mio appoggio»). Una decisione che ha generato non poca irritazione tra le fila del Pd. Tant’è che lo stesso Veltroni, che alle politiche decise di candidarlo capolista nel Veneto, per poi vederlo passare con l’Api, fa sapere di averci parlato e di avergli ricordato «l’impegno da lui assunto a sostegno del centrosinistra e in opposizione al centrodestra». Dice Veltroni: «Calearo, pur ribadendo le ragioni di un disagio politico, mi ha confermato nettamente la sua volontà di attenersi all’impegno assunto davanti agli elettori. Sono certo che sarà coerente con se stesso». Bersani a sera conferma il pressing, rispondendo così ai cronisti che gli chiedono cosa pensi del fatto che Calearo votare la fiducia a Berlusconi: «Vediamo se lo farà. Finché le cose non succedono, è meglio non darle per fatte».

il Fatto 29.9.10
“Gli intellettuali sono assopiti, è l’ora della sveglia”
Flores D’Arcais: due manifestazioni per scelta del Popolo viola. In piazza per difendere libertà e costituzione


Sta per arrivare un     autunno caldo e denso di manifestazioni. Separate. Le piazze contro Berlusconi e il governo, infatti, saranno due: una sabato, quando si mobiliterà il Popolo viola, l’altra il 16 ottobre, che vedrà marciare insieme la Fiom e la società civile. Quest’ultima è stata lanciata dalla colonne di MicroMega da Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri, Margherita Hack e don Gallo.
Professore, due manifestazioni danno la pessima impressione di un’opposizione sfasciata.
Prima di agosto in un editoriale su Il Fatto quotidiano avevo espresso la necessità che la società civile tornasse in piazza “al più presto”. In meno di un paio di settimane siamo riusciti con Camilleri, la Hack e don Gallo a metterci in comunicazione, concordare un testo e lanciare un appello per una giornata che non fosse la ripetizione del “No B. Day” ma andasse oltre, e proponevamo 5 “parole d'ordine”.
Quali?
Fuori Berlusconi, realizziamo la Costituzione, via i criminali dal potere, restituire le televisioni al pluralismo ed elezioni democratiche.
Poi che è successo?
La data non era definita. Dicevamo “al più presto”, se possibile addirittura a fine settembre. Quest’appello, pubblica-
to sul sito di MicroMega e su quello del Fatto Quotidiano, in due o tre giorni ha raccolto 25 mila adesioni oltre a una quantità di associazioni, Popolo viola e personalità, tra i primi Antonio Tabucchi e Fiorella Mannoia. Ai quali si sono aggiunti Sabina Guzzanti, Ascanio Celestini, Moni Ovadia, Corrado Stajano, Luigi De Magistris, Gianni Vattimo, Sonia Alfano e molti altri.
Poi le cose sono cambiate.
Nel frattempo la pagina viola nazionale aveva lanciato dal suo sito il “No B. day bis” e tra varie tendenze viola erano iniziati scambi di accuse feroci. Per questa ragione noi quattro promotori pubblicammo su Il Fatto quotidiano un articolo in cui dicevamo che “due manifestazioni sarebbero meno di zero: un regalo a Berlusconi” e invitavamo tutte le realtà che volevano quel giorno manifestare a realizzare la giornata insieme. Ma non ci siete riusciti.
La pagina viola nazionale ha tenacemente voluto fare il suo “No B. day bis” rinfocolando la polemica con tutti gli altri gruppi – se non capisco male dai loro siti le tendenze viola che si scontrano sembrano addirittura quattro – comunque a qualsiasi manifestazione contro Berlusconi, anche se guastata dal settarismo, si fanno i migliori auguri.
Quindi avete scelto il 16 ottobre, con la Fiom. Quello che abbiamo definito “settarismo autoreferenziale” stava distruggendo la giornata del 2 ottobre. Per fortuna sono intervenuti due fatti nuovi: uno “soggettivo”, cioè il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini e i maggiori dirigenti regionali avevano aderito al nostro appello con tutta la radicalità politica che conteneva. Un secondo “oggettivo”: l’offensiva anticostituzionale e antioperaia di Marchionne a Pomigliano era diventata la linea di Federmeccanica e di Confindustria, col sostegno smaccato del governo. A quel punto ci è sembrato logico e doveroso impegnare tutte le nostre energie perché la giornata del 16 attorno alla Fiom diventi “una indimenticabile giornata di passione di civile”.
La borghesia scende in piazza con gli operai. Significa essere rimasti fermi agli anni ‘70 o ci sono nuove necessità?
I diritti civili e i diritti sociali sono due facce della stessa medaglia. Il fatto che oggi per una serie di circostanze la Fiom autonomamente indica una manifestazione non solo sui temi sindacali, ma sui diritti in generale, e che la società civile dei “ceti medi riflessivi” e dei giovani del Web autonomamente, mantenendo le parole d’ordine del nostro appello, si organizzi per fare sinergia con la manifestazione dei lavoratori metalmeccanici, da sempre punta avanzata dello schieramento sindacale, mi sembra apra una prospettiva nuova e positiva, spero entusiasmante per un radicale rinnovamento della vita civile del paese. Allora perché non scendere in piazza con i precari? L’obiettivo del nostro appello è di coinvolgere tutte le situazioni di lotta sociale, di protesta e di rivolta morale. Dai precari della scuola e della ricerca, alle manifestazioni anti ‘ndrangheta della Calabria. L’elenco, che non continuo, è lungo perché sono moltissime le situazioni di disagio nonostante la tv le censuri sistematicamente.
Siete riusciti a mettere insieme gli anticlericali dell’associazione “Giordano Bruno” con i cattolici. C’è la partecipazione inedita di un mondo cattolico di base in evidente rotta di collisione con il fiancheggiamento ruiniano al regime. Ci saranno don Enzo Mazzi, don Paolo Farinella, don Franco Barbero, don Ferdinando Sudati, don Walter Fiocchi, e altri esponenti del mondo cattolico a partire dall’agenzia Adista.
Le adesioni di personalità si notano ma il mondo intellettuale non le sembra ancora un po’ assopito? Penso che di fronte alla volontà dichiarata di Berlusconi di assassinare la Costituzione, in effetti la sollevazione morale e politica degli intellettuali dovrebbe essere unanime, attiva e intransigente. Gli intellettuali sono due volte privilegiati perché hanno scelto liberamente il lavoro che fanno, cosa che capita solo ai manager e ai preti, e perché hanno il privilegio inestimabile della voce pubblica, di essere ascoltati. Ecco perché credo abbiano il dovere stringente di impegnar-
si personalmente. È ormai una battaglia finale in difesa delle libertà più elementari. Ho l’impressione che questo sentimento, in vista del 16 ottobre, si stia diffondendo e che quindi la partecipazione degli intellettuali, delle associazioni e delle situazioni di lotta sarà tale da poter il 16 dire: finalmente l’Italia s’è desta (c.pe.)

l’Unità 29.9.10
Contro le donne
Consultori. La controriforma parte dal Lazio
di Giulia Rodano


Il Consiglio regionale del Lazio ha avviato l’iter di discussione della proposta di controriforma della legge istitutiva dei consultori familiari, presentata da Olimpia Tarzia, presidente del Movimento per la vita del Lazio e consigliere regionale della lista Polverini. Se la legge fosse approvata, i consultori familiari nel Lazio scomparirebbero, per essere sostituiti da confuse, non solo private ma confessionali strutture di consulenza alla famiglia, naturalmente solo quella fondata sul matrimonio.
Il patrimonio costruito in trent’anni che ha fatto del consultorio un esempio di lavoro d’équipe per prendere in carico le donne, le coppie, gli adolescenti per tutelarne la salute riproduttiva, renderne consapevoli e libere le scelte verrebbe cancellato. Il lavoro compiuto per promuovere la procreazione responsabile, contribuendo, come dimostrato, a far diminuire il numero degli aborti, verrebbe bruscamente interrotto. La porta aperta libera, gratuita, esente da ticket per tante donne, sole, deboli, oggi per tante immigrate, verrebbe chiusa.
Cosa verrebbe creato al posto dei consultori pubblici, liberi e gratuiti? Basta leggere la presentazione della legge: «Non più strutture deputate a fornire una serie di servizi sanitari e parasanitari alle famiglie, bensì istituzioni vocate a sostenere e promuovere la famiglia ed i valori etici di cui essa è portatrice». Verrebbero create strutture controllate da un comitato di bioetica che dovrebbe verificare il comportamento “etico” degli operatori, solo quelli pubblici naturalmente. Quelli privati, se riconosciuti da questa legge, non potrebbero che essere di per sé coerenti con i valori propugnati dalla legge. Nei nuovi consultori le donne verrebbero costrette a un calvario aggiuntivo, illegittimo, crudele e inutile, per accedere alla interruzione di gravidanza, durante il quale gli operatori dovrebbero ricordare alla donna «il suo dovere morale di collaborare nel tentativo di superare le difficoltà che l’hanno indotta a chiedere l’interruzione volontaria di gravidanza», e indurla a firmare una sorta (del tutto illegale) di consenso informato.
Si tratta di un percorso a ostacoli, una vera e propria “lapidazione psicologica della donna”.
È evidente dunque lo scopo della proposta, iniziare cioè a scardinare il sistema di diritti e dignità costruito nel nostro Paese attraverso tanti anni di battaglie di civiltà. Un rischio che non possiamo permetterci.
Molte associazioni e molti cittadini, non solo donne, si sono già mobilitate, nelle piazze e sulla rete. Si tratta di una battaglia difficile, anche per i numeri espressi nel Consiglio regionale. Abbiamo bisogno di uscire dal silenzio. Per questo chiediamo aiuto a quanti, uomini e donne, possano aiutarci a farlo.

l’Unità 29.9.10
Intervista a Miriam Lamizana
«Quando le mutilazioni s’annunciavano alla radio»
La presidente del Comitato interafricano contro l’escissione dei genitali femminili: «Una risoluzione delle Nazioni Unite può aiutare le donne»
di Marina Mastroluca


Miriam Lamizana ricorda ancora quando in Ciad si usava annunciare via radio la mutilazione sessuale delle proprie figlie. «Era una grande festa. Fuori c’era gente che ballava e cantava, dentro si sentivano gli strilli delle ragazzine. Se accadesse ora, se qualcuno provasse ora a dare un simile annuncio per radio, beh credo proprio che arriverebbe la polizia». Miriam Lamizana, già ministro degli Affari sociali del Burkina Faso, è presidente del Comitato interafricano contro le mutilazioni genitali femminili, in questi giorni a Roma dopo essere stata a New York per sostenere l’approvazione di una risoluzione Onu contro questa pratica che ha sfregiato 150 milioni di donne nel mondo. In Italia ha trovato una sponda nell’associazione «Non c’è pace senza giustizia», che con Emma Bonino e il ministero degli Esteri sostiene la campagna perché si arrivi ad una risoluzione delle Nazioni Unite. «Sarebbe il coronamento di tutto il lavoro fatto in questi decenni e lo strumento per andare avanti», dice Miriam. Il «lavoro» di cui parla è quello che oggi le consente di ridere, quando racconta degli annunci alla radio del Ciad. «Se lo immagina lei, un annuncio per dire: venite tutti alla mutilazione di mia figlia?». Perché non importa che sia parziale, non importa che il taglio preveda o meno l’amputazione completa dei genitali esterni. Non importa se sia infibulazione o escissione, o come la si voglia chiamare. Quello che è in gioco è il diritto delle donne a veder rispettata l’integrità del proprio corpo, un diritto umano, questo dice la bozza di risoluzione.
Come è nata questa campagna?
«All’inizio è stata soprattutto l’iniziativa di singoli attivisti, che sono riusciti nel tempo ad allargare la loro presa fino a coinvolgere i governi e istituzioni internazionali. Se proprio vogliamo indicare una data, è il decennio che parte dal 1975, quando si sono moltiplicate le iniziative contro la violenza sulle donne. Nel 1984 è nato il Comitato interafricano, che ha deciso di creare una propria struttura in ognuno dei 28 Paesi in cui si praticava l’escissione, in gran parte paesi dell’Africa occidentale e specialmente sub-sahariana, oltre al Corno d’Africa».
Una risoluzione Onu può cambiare davvero il ricorso ad una pratica che spesso è già vietata? «Bisogna capire che noi lavoriamo per tappe. Abbiamo cominciato a livello nazionale, per vedere quali fossero gli ostacoli. Abbiamo fatto un’azione di sensibilizzazione, cominciando a parlare dei problemi che l’escissione provoca per la salute della donna e del bambino. Poi abbiamo cominciato a ragionare sull’educazione e sull’autonomia economica delle donne: sono tutti aspetti dello stesso problema. Ci sono resistenze socio-culturali che non si possono rimuovere dall’oggi al domani. Ma con l’azione dal basso abbiamo spinto il governo a prendere coscienza del problema e a riconoscere le associazioni che vi si dedicavano. Poi siamo passati su una scala regionale. Con la ratifica nel 2005 del protocollo di Maputo,che vieta tra l’altro le mutilazioni genitali femminili siamo riuscite a fare un altro passo: il protocollo ha spinto molti Paesi che non l’avevano a dotarsi di una legge specifica a questo proprosito. Oggi gli Stati che vietano l’escissione sono diventati 15 su 28, prima erano otto o nove. Per questo credo che la risoluzione Onu avrebbe un grande valore politico, perché spingerebbe i governi ad assumere politiche sempre più chiare e decise sulle mutilazioni genitali. E c’è poi un altro punto: servirebbe ad innescare la solidarietà di quei Paesi dove questa pratica non esiste, che potrebbero però dare un aiuto». Che tipo di risposta avete trovato nei Paesi africani? Che cosa è cambiato? «Il cambiamento si vede soprattutto nelle nuove generazioni. Nel mio Paese, per esempio, la percentuale di mutilazioni inflitte alle bambine è scesa dal 75 al 38%, con un processo cominciato dagli anni ‘70. In tutto questo tempo è caduto un tabù, che in Africa è molto forte quando si fa riferimento al sesso, e si è cominciato a parlare dell’escissione come di un problema, quanto meno di salute se non di diritti umani. C’è stata una presa di coscienza. In Mauritania, per esempio, i leader religiosi hanno emesso una fatwa contro le mutilazioni genitali. Ci sono programmi statali di informazione, che si preoccupano anche di trovare un lavoro alternativo alle donne che fino a questo momento hanno praticato l’escissione. Bisogna procedere per gradi, ma il segno del cambiamento c’è».
Come riuscite a convincere le comunità locali, dove si esercita materialmente la pressione sulle donne, a cambiare atteggiamento?
«Il mezzo principale è l’informazione. Cominciamo con le ostetriche. Una volta durante il parto si preoccupavano di riaprire le donne escisse, per far nascere il bambino, ma non dicevano nulla. Oggi invece spiegano alla nuova madre e alla sua famiglia perché devono procedere in questo modo, spiegano il danno prodotto dall’escissione e i rischi che comporta. Vengono affrontati anche problemi sessuali. Spesso capita infatti che la mutilazione dei genitali esterni, soprattutto quando è praticata in bambine molto piccole, cicatrizzi quasi completamente rendendo impossibile il rapporto sessuale. Facciamo vedere foto, video o manichini. E mostrare che cosa sia davvero un’escissione è molto più efficace di tante parole». L’escissione è stata spesso considerata una cerimonia di iniziazione. Come si supera questo scoglio? «Questo è sempre meno vero. L’introduzioni di leggi che la vietano, ha spinto a ricorrere a questa pratica in clandestinità, anticipando molto i tempi. Quando arriva il momento della cerimonia di iniziazione all’età adultà, le ragazze hanno spesso già subito la mutilazione. Le due cose quindi si sono separate. Noi cerchiamo di conservare la festa e cancellare il danno».
In Africa c’è una crescente presenza politica della donne. È questo che ha fatto la differenza? «Potrei dire che è vero il contrario. C’è stata la generazione nata negli anni 50 che è stata molto attiva a livello di base, anche sul tema delle mutilazioni genitali, e da questa generazione sono emerse figure politiche. Ma è un processo che è cominciato dal basso, non viceversa».

l’Unità 29.9.10
La missione Irene. Il catamarano portava aiuti umanitari e giocattoli per la Striscia
Il falco Lieberman gela Obama: ci vorranno decenni per arrivare alla pace con i palestinesi
Israele blocca nave per Gaza. A bordo nove pacifisti ebrei
A bordo della nave della pace anche un sopravvissuto all’Olocausto e il padre di una ragazza uccisa in un attentato a Gerusalemme: «Un vero eroe è colui che cerca di trasformare un nemico in amico».
di Umberto De Giovannangeli


Reuven Moshkovitz, 82 anni, sopravvissuto alla Shoah. Rami Elhan, un padre che ha perso la figlia di 14 anni in un attentato suicida in un centro commerciale di Gerusalemme nel 1997. Reuven e Rami hanno saputo trasformare il loro dolore in energia positiva. In determinazione ad agire contro i soprusi perpetrati da Israele contro la popolazione della Striscia. Una determinazione che li ha spinti a far parte della spedizione dell’ «Irene», il catamarano con a bordo nove pacifisti ebrei, tra i quali anche israeliani, che ieri ha cercato di forzare il blocco navale israeliano per raggiungere Gaza City, con un piccolo carico di medicinali, giocattoli e apparecchiature per la purificazione dell’acqua. «È un dovere sacro per me, come sopravvissuto all’Olocausto – dice Reuven Moshkovitz quello di protestare contro la persecuzione, l’oppressione e la carcerazione del popolo di Gaza, compresi 800.000 bambini». Grazie al prezioso contributo della Rete romana di solidarietà con il popolo palestinese, riusciamo a metterci in contatto telefonico con gli uomini a bordo dell’«Irene». «Vogliamo dire al mondo che in Israele ci sono anche tante persone che giudicano un crimine contro l’umanità il blocco a Gaza. Non è opprimendo un altro popolo, negandogli libertà di movimento, e il diritto ad uno Stato indipendente, che garantiremo la nostra stessa sicurezza», afferma Rami Elhan. «La nostra aggiunge – vuol essere una protesta non violenta e per questo ancora più forte». La linea cade. Un momento prima, sentiamo voci concitate: «Stanno arrivando», riesce a dire Rami. È l’avvisaglia di ciò che da lì a qualche minuto accadrà. Le ultime parole danno conto di un momento drammatico: «Un cacciatorpediniere israeliano ci taglia la strada...Un’altra piccola imbarcazione si avvicina...Il cacciatorpediniere si sta avvicinando ed anche le piccole barche stanno intralciando al nostra rotta...Hanno mitragliatrici a poppa e prua...Il cacciatorpediniere sta bloccando a prua la nostra rotta mentre il naviglio minore ci sta circondando». Poi, il silenzio.
Un commando della marina israeliana prende il controllo della imbarcazione, battente bandiera britannica. L’azione è confermata da una portavoce militare, secondo la quale l’equipaggio dell’«Irene» è stato contattato mentre si avvicinava alla Striscia di Gaza e sollecitato a cambiare rotta poiché secondo Israele stava «violando la legge israeliana e quella internazionale»’. Ma ha opposto un rifiuto. Di qui l’abbordaggio, conclusosi in ogni caso «senza violenze da una parte o dall’altra», «La sorte di questa barca simboleggia il destino delle speranze di pace in questa regione», rimarca da Londra Richard Kuper della Jews for Justice for Palestinians e del Comitato organizzatore della nave «Irene».
NEL PORTO DI ASHDOD
Nel primo pomeriggio l’«Irene» ha fatto il suo ingresso forzato nel porto israeliano di Ashdod. Il ministero degli Esteri israeliano ha accusato i pacifisti di aver attuato una deliberata «provocazione» e «di versare deliberatamente benzina sul fuoco dell’odio verso Israele nel mondo». Ma per Reuven Moshkovitz, 82 anni, sopravvissuto alla Shoah, «vero eroe è colui che cerca di trasformare un nemico in un amico» . I pacifisti israeliani sono stati fermati dalla polizia per interrogatori, quelli stranieri saranno espulsi.
Dalle acque agitate di Gaza a quelle, non meno tempestose, di un negoziato in bilico. Il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) chiede che Israele rispetti una moratoria sulla colonizzazione «fino a quando vi saranno negoziati» di pace. «Chiediamo la moratoria fin quando vi saranno negoziati di pace perché, finché vi saranno nego-
ziati di pace, vi sarà speranza», dice da Parigi il presidente dell’Anp, ai microfoni di Radio Europe. Una risposta, indiretta, viene da New York. Ed è una risposta raggelante. Ad offrirla è il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman. Pochi giorni fa dalla tribuna dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Barack Obama aveva affermato che è possibile, entro un anno, raggiungere una pace fondata su «due popoli, due Stati».
Dalla stessa tribuna, Lieberman, capofila dei falchi israeliani, avverte: c’è’ il rischio che ci vogliano decenni per un accordo tra israeliani e palestinesi, perché occorre risolvere prima la questione iraniana. E da Gerusalemme l’ufficio del premier licenzia una nota ufficiale fortemente irritata: le affermazioni del ministro degli Esteri sul conflitto israelo-palestinese «non rappresentano la posizione del Governo israeliano».

l’Unità 29.9.10
A Bruxelles manifestazione di 50 sindacati da 30 paesi diversi. Sono attese 100mila persone
A Roma si mobilita la Cgil. Non Cisl e Uil, che invieranno solo delegazioni nella capitale belga
Lavoratori europei in corteo contro le misure d’austerity
Oggi la Confederazione europea dei sindacati (Ces) si mobilita a Bruxelles e nei vari paesi contro le misure di austerity varate da molti governi Ue. Anche la Cgil organizza una manifestazione a Roma.
di Luigina Venturelli


Insieme oltre frontiera, divisi in patria. Le organizzazioni sindacali italiane si presentano così, in ordine sparso, alla giornata di azione europea promossa per oggi dalla Confederazione Europea dei Sindacati (Ces). Per dire no alle misure d’austerità introdotte da molti governi nelle finanze pubbliche contro la crisi economica e per rivendicare misure che favoriscano lavoro, giustizia sociale e solidarietà, circa cinquanta sigle provenienti da trenta diversi paesi sfileranno in giornata a Bruxelles e nei rispettivi paesi d’origine.
Così anche la Cgil, che parteciperà al corteo nella capitale belga con una delegazione guidata dal segretario confederale, Fulvio Fammoni e contestualmente organizzerà una manifestazione a Roma, in Piazza Farnese a partire dalle ore 16.30. Diversamente hanno deciso Cisl e Uil, che invieranno delegazioni in terra straniera, ma che in Italia eviteranno di scendere in piazza in attesa della propria manifestazione del 9 ottobre per chiedere meno imposizione fiscale sul lavoro. Sono ancora troppo profonde le fratture tra le tre confederazioni perchè sfilino fianco a fianco.
LA CGIL IN PIAZZA A ROMA
Da diversi mesi il sindacato di Corso d’Italia insiste sulle parole d’ordine della mobilitazione Ces di oggi: «In quasi tutti i paesi europei i tagli hanno colpito il lavoro, lo sviluppo e l’occupazione. Per questo la Ces ha immaginato una grande giornata di lotta che in Italia terremo a Roma per dare dimostrazione dell’unità d’azione delle nostre battaglie con quelle della Confederazione europea» ha spiegato il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che concluderà la manifestazione romana, a cui ha aderito anche l’Arci, dopo gli interventi dei colleghi stranieri Sehrbrock (Germania), Doz (Spagna), Dassis (Grecia) ed Aubin (Francia).
LA MOBILITAZIONE EUROPEA
Ma la mobilitazione promossa dalla Ces investirà tante altre capitali del continente europeo, oltre al suo epicentro a Bruxelles dove, in concomitanza dell’incontro dei ministri europei delle finanze, sono attese circa 100mila persone, rappresentanti e militanti di cinquanta organizzazioni sindacali provenienti da circa trenta paesi diversi. Anche nelle alre nazioni si terranno scioperi e manifestazioni: ci sarà lo sciopero generale in Spagna, continueranno le proteste unitarie in Francia, mobilitazioni sono in programma in Portogallo, Irlanda, Lettonia, Polonia, Cipro, Romania, Repubblica Ceca, Lituania e Serbia. In Italia inoltre, parallelamente a quella di Roma, sono previste manifestazioni anche Napoli e a Venezia. Ovunque lo slogan dell’«Action day», nel giorno in cui la Commissione Ue presenterà nuove misure per stringere sui conti pubblici, sarà lo stesso: «No all’austerity. Priorità all’occupazione e alla crescita».
«Daremo voce alle preoccupazioni circa il contesto economico e sociale» ha affermato il segretario generale della Ces, John Monks. «Siamo particolarmente preoccupati per l’aumento disoccupazione, che oramai si attesta intorno al 10%, e per la crescita delle diseguaglianze». Insomma, i lavoratori dipendenti non possono essere gli unici a pagare per la speculazione messa in atto da alcune istituzioni finanziarie irresponsabili. A preoccupare è soprattutto la piaga della precarietà, che rischia di segnare il destino di gran parte delle generazioni future.
La ricetta non può essere che una: «Puntare a un lavoro di qualità». È questo il messaggio che la Confederazione europea vuole trasmettere all’esecutivo di Bruxelles, in particolare al presidente della Commissione Jose Manuel Barroso e all’attuale presidente del Consiglio europeo, il premier belga Yves Leterme, che i sindacati incontreranno oggi al termine della manifestazione.

il Fatto 29.9.10
Non la lapidano ma la impiccano
Dopo le proteste internazionali l’Iran “occidentalizza” la pena per Sakineh
di Giampiero Gramaglia


Qual    ‘è il problema? La lapidazione? E allora, niente lapidazione. O la condanna per adulterio? E allora, niente adulterio. L’Iran integralista di Mahmud Ahmadinejad “accontenta” l’Occidente che protesta per la condanna a morte inflitta a Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna di 43 anni, madre di due figli, moglie infedele, la cui vicenda suscita emozioni e polemiche forti in Italia e in Francia e – meno – nel resto del Mondo. Sakineh morirà impiccata, colpevole di avere complottato per fare uccidere il marito dall’amante. Proprio come Teresa Lewis, la donna americana di 41 anni, con un quoziente intellettivo poco al di sopra della soglia dell’handicap mentale, la cui condanna è stata eseguita nel carcere di Jarratt, in Virginia, Stati Uniti, la settimana scorsa: due storie parallele, l’iniezione letale da una parte, la forca dall’altra. Che differenza c’è, in fondo? Certo, il sistema giudiziario iraniano è meno trasparente di quello americano. Ma, di fatto, il regime di Teheran “de-islamizza” e “occidentalizza” il reato e la pena e “mette il silenziatore” alle proteste, o almeno ne delegittima molte, specie quelle – già flebili – statunitensi.
PER SAKINEH la sentenza di condanna a morte per adulterio tramite lapidazione era stata sospesa fin da luglio. A far ora sapere che la donna è stata condannata all’impiccagione è stato il procuratore generale iraniano Gholamhossein Mohseni-Ejei, citato dal Teheran Times. Poco dopo, il ministero degli esteri affermava che “il procedimento giudiziario non s’è ancora concluso” e che “il verdetto sarà pronunciato in via definitiva quando l’iter sarà finito”. Il figlio di Sakineh mediaticamente più attivo, Sajjad Ghadarzadeh, chiede in lacrime all’Italia “d’intervenire “. E la Farnesina auspica “fortemente che la condanna possa essere rivista”, aggrappandosi allo spiraglio di speranza lasciato dal ministero degli esteri iraniano e assicurando che il governo italiano “continua ad adoperarsi con la massima determinazione, come ha finora fatto”. L’Italia è e resta contraria alla pena di morte “ovunque e in qualsiasi modo venga eseguita”. La vicenda umana e giudiziaria, che si trascina da quattro anni, resta intrisa di contraddizioni e zeppa di punti oscuri. Sakineh, di etnia azera, subisce, nel maggio del 2006, 99 frustate: lo dispone un tribunale di Tabriz, perché la donna è rea confessa di adulterio (lei dirà di averlo ammesso sotto tortura).
NEL SETTEMBRE del 2006, un altro tribunale la condanna per l’omicidio del marito: morte per lapidazione, è la sentenza, confermata l’anno dopo dalla Corte Suprema. Non accade nulla per tre anni, quando l’esecuzione della sentenza pare vicina. Innescata dai figli, Sajjad e una ragazza, scatta la mobilitazione internazionale. L’esecuzione è sospesa. Ma, in agosto, Sakineh confessa in tv l’adulterio e la complicità nell’omicidio (dichiarazioni forse estorte). Il caso diventa uno dei tasselli del confronto tra l’Iran e l’Occidente. La scorsa settimana, a New York, il presidente iraniano nega che la sentenza di lapidazione sia mai stata pronunciata. E la mancanza di trasparenza del sistema giudiziario iraniano non consente di fare chiarezza. Ora, il procuratore generale dice che le sentenze sono due, ma che quella per omicidio “ha la precedenza” su quella per adulterio. Il figlio, di cui si ignora quali siano le fonti, afferma che la condanna a morte sarà “annunciata ufficialmente fra due settimane”. L’avvocato Javid Hutan Kian cercherà, nei prossimi giorni, di bloccare l’esecuzione e di ottenere una revisione del verdetto.
In Italia, le notizia da Teheran suscitano reazioni a raffica. Il presidente dei Verdi Angelo Monelli chiede che “l’Italia ritiri immediatamente l’ambasciatore a Teheran” (e quello a Washington?), accusando Ahmadinejad “di stare facendo un uso politico della vita di Sakineh per alzare il livello dello scontro”. Ma l’attenzione dei media occidentali è molto diversificata: alle 15.00 di ieri, la Reuters non aveva dedicato a Sakineh una riga nel notiziario generale, l’Afp un dispaccio e l’Ansa almeno 15 notizie. Segno d’una diversa sensibilità delle opinioni pubbliche.

Repubblica 29.9.10
La macchina della paura
di Roberto Saviano


Ho detto ieri, dialogando con i lettori e gli spettatori di Repubblica Tv, che ormai la politica in Italia è una cosa buia, che non appassiona più nessuno, né chi la fa, né chi la segue. Su questa affermazione mi hanno scritto in tanti, che credo abbiano condiviso con me questo sentimento di impotenza, avvertito talvolta come un impedimento, la denuncia di qualcosa che ostruisce la partecipazione, il normale rapporto che un cittadino deve avere con la vita pubblica del suo Paese. E insieme, c´è un altro sentimento in chi mi scrive: rabbia e ribellione per sentirsi espropriati dalla politica come strumento di impegno e di cambiamento, rifiuto di accettare che questa stagnazione prevalga.
Chi analizza fatti, episodi e metodi della politica italiana, in questo momento, non può che avere una reazione di spavento e pensare: non è per me. Ricatti, timori, intimidazioni. Tutti hanno paura. Anche io ho paura: non ho nulla da nascondere, con la vita ridotta e ipercontrollata cui sono costretto, ma sento questo clima di straordinaria ostilità, e vedo l´interesse a raccoglierlo, eccitarlo, utilizzarlo. Mi guardo intorno e penso: come deve sentirsi un giovane italiano che voglia usare in politica la sua passione civile, il suo talento? La politica di oggi lo incoraggia o lo spaventa?
E qual è il prezzo che tutti paghiamo per questa esclusione e per questa diffidenza? Qual è il costo sociale della paura? Chi fa già parte del sistema politico nel senso più largo del termine, o ha comunque una responsabilità pubblica e sociale, sa che oggi in Italia qualsiasi sua fragilità può essere scandagliata, esibita, denunciata ed enfatizzata. Non importa che non sia un reato, non importa quasi nemmeno che sia vera. Basta che faccia notizia, che abbia un costo, che faccia pagare un prezzo, e che dunque serva come arma di ammonimento preventivo, di minaccia permanente, di regolamento dei conti successivo. Ma la libertà politica, come la libertà di stampa, si fonda sulla possibilità di esprimere le proprie idee senza ritorsioni di tipo personale. Se sai che esprimendo quell´opinione, o scrivendola, tu pagherai con un dossier su qualche vicenda irrilevante penalmente, magari addirittura falsa, ma capace di rovinare la tua vita privata, allora sei condizionato, non sei più libero.
Siamo dunque davanti a un problema di libertà, o meglio di mancanza di libertà. Siamo davanti a uno strano congegno fatto di interessi precisi, di persone, di giornalisti, di mezzi, di strumenti mediatici, che tenta di costruire un vestito mediaticamente diffamatorio; ha i mezzi per farlo, ha l´egemonia culturale per imporlo, ha la cornice politica per utilizzarlo.
Nella società del gossip si viene colpiti uno per volta, e noi siamo spettatori spesso incapaci di decodificare gli interessi costituiti che stanno dietro l´operazione, i mandanti, il movente. Eppure la questione riguarda tutti, perché mentre la macchina infanga una persona denudandola in una sua debolezza e colpendola nel suo isolamento, parla agli altri, sussurrando il messaggio peggiore, antipolitico per eccellenza: siamo tutti uguali, dice questo messaggio, non alzare la testa, non cercare speranze, perché siamo tutti sporchi e tutti abbiamo qualcosa da nascondere. Dunque abbassa lo sguardo, ritraiti, rinuncia.
Come si può spezzare questo meccanismo infernale, pericoloso per la democrazia, e non solo per le singole persone coinvolte? L´antidoto è in noi, in noi lettori, spettatori e cittadini, se preserviamo la nostra autonomia culturale, se recuperiamo la nostra capacità di giudizio. L´antidoto è nel non recepire il pettegolezzo, nel non riproporlo, nel non reiterarlo. Nel capire che ci si sta servendo di noi, dei nostri occhi, delle nostre bocche come megafoni di pensieri che non sono i nostri. Nel non passare, come fanno molti addetti ai lavori, le loro giornate su siti di gossip che mentono a pagamento, che costruiscono con tono scherzoso la delegittimazione, che usano informazioni personali soltanto per metterti in difficoltà. È il metodo dei vecchi regimi comunisti, delle tirannie dei paesi socialisti che volevano far passare i dissidenti per viziosi, ladri, nullafacenti, gentaglia che si opponeva solo per basso interesse. Mai come nell´Italia di oggi si trova realizzato nuovamente, anche se con metodi differenti, quel meccanismo delegittimante.
Dobbiamo capire che siamo davanti a un metodo, che lega Fini a Boffo e a Caldoro nella campagna di screditamento. Dobbiamo ripeterci che in un Paese normale non si comperano deputati a blocchi, giurando intanto fedeltà al responso degli elettori. Dobbiamo sapere che la legge bavaglio non tutela la privacy ma limita la libertà di conoscere e di informare. Dobbiamo sapere che le norme del privilegio, gli scudi dal processo, le leggi ad personam sono i veri polmoni che danno aria a questo governo in affanno, perché altrimenti cade l´impero.
Dobbiamo semplicemente pretendere, come fanno migliaia di cittadini, che la legge sia uguale per tutti, un diritto costituzionale, che è anche un dovere per chi ha le più alte responsabilità. Non dobbiamo farci deviare da falsi scandali ingigantiti ad arte. Ogni essere umano fa errori ed ha debolezze. Ogni politica, ogni scelta ha in se delle contraddizioni. E si può sbagliare sempre. Ma oggi bisogna affermare con forza che se ogni essere umano sbaglia e ha debolezze non tutti gli errori e non tutte le debolezze sono uguali. Una cosa è l´errore, altro è il crimine. Una cosa è la debolezza umana, un´altra il vizio che diviene potere in mano ad estorsori. Comprendendo e smontando la diffamazione che viene costruita su chiunque decida di criticare o opporsi a questo potere, si può resistere, si può persino difendere la libertà, la giustizia, la legalità. Non dichiarandoci migliori, ma semplicemente diversi. Rifiutando l´omologazione al ribasso, per salvare invece le ragioni della politica e le sue speranze: salvarle dal buio in cui oggi affondano, con le nostre paure.
©2010Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

Corriere della Sera 29.9.10
Nella tana delle parole
Come si forma il linguaggio? La risposta va cercata nell’architettura del cervello
di Andrea Moro


In laboratorio Il fattore considerato determinante è la struttura dei neuroni. I progressi compiuti grazie alla collaborazione tra la linguistica e la neurobiologia

C’è una domanda che per certi versi costituisce la prima e più radicale questione che l’uomo ha posto sulla natura del linguaggio: la struttura di questo codice è in qualche modo influenzata dalla struttura del mondo o si forma in modo indipendente? Come tutte le grandi domande è facile formularla, meno facile capirne tutte le implicazioni, praticamente impossibile trovare una risposta esauriente; ma la scienza non è scienza se non riconosce il mistero, dunque non è certo questa consapevolezza a fermare il desiderio di conoscere uno dei fenomeni che più ci caratterizza, se non addirittura quello che ci caratterizza totalmente. Per capire quanto complessa sia la questione, basti pensare che certamente il linguaggio è prodotto dal nostro cervello, che è a sua volta parte del mondo, e che dunque, in un certo senso, è scontato dire che il nostro linguaggio è in qualche modo sottoposto alle leggi fisiche e biologiche che permettono lo sviluppo del cervello sia nell’individuo che nella specie. Ma ovviamente ciò che non è affatto scontato è se la struttura del codice, cioè, per esempio, le regole che a partire dalle parole danno le frasi, dipende o meno dalla struttura del cervello. È questa domanda che oggi per certi versi è ritornata ad essere al centro dell’arena, sotto i nuovi e potenti riflettori della linguistica moderna e della neuropsicologia.
Certamente nel corso dei secoli la riflessione sul linguaggio ha oscillato più volte tra le due polarizzazioni possibili. Cosa mai può aggiungere la scienza moderna rispetto a questa domanda così ingombrante ma pure così importante? La prima novità è che le nuove risposte possono solo nascere dalla collaborazione tra scienze indipendenti, in questo caso dalla linguistica e dalla neuropsicologia. Oggi possiamo contare su almeno un risultato di forte convergenza tra queste due discipline, nate con metodi e scopi diversi, ormai consolidato. E stato dimostrato, infatti, che la capacità di produrre un numero potenzialmente infinito di frasi a partire da un insieme finito di parole — capacità che possiedono tutti e solo gli esseri umani — dipende in qualche modo dalla struttura del cervello. Non solo: il fatto che tutte le lingue del mondo abbiano un nucleo di regole comuni e che alcuni tipi di regole, pur concepibili a tavolino, non si trovino mai in nessuna lingua non è più visto come un accidente storico o il risultato di una convenzione culturale ma come l’espressione dell’architettura neurobiologica del cervello.
Questo risultato, che fornisce nuovi supporti alle intuizioni maturate in seno alla linguistica nella seconda metà del novecento a partire dai lavori di Noam Chomsky, non sarebbe stato neppure immaginabile se non avessimo avuto accesso, sia pure indiretto, ad alcuni aspetti dei meccanismi neuropsicologici come ad esempio quelli misurabili con le tecniche delle neuroimmagini. Ed è proprio dalle neuroimmagini che arrivano due risultati che ripropongono la polarizzazione della quale stiamo parlando in modo inedito e affascinante. Entrambi si basano su una delle scoperte dominanti della fine del secolo scorso: l’esistenza nel cervello delle scimmie di neuroni specchio, cioè una popolazione di neuroni che si attiva sia quando si compie un’azione di tipo motorio secondo una certa intenzione (ad esempio afferrare una mela e portarsela alla bocca) sia quando la si vede (o la si sente) compiere. Questa scoperta, che fa capo al gruppo di ricerca coordinato da Giacomo Rizzolatti ha ormai dati empirici forti a favore dell’ipotesi che un sistema sostanzialmente simile a quello dei neuroni specchio delle scimmie sia presente nell’uomo.
Paradossalmente, malgrado il grandissimo interesse, da un certo punto di vista questa scoperta ci lascia, per così dire, equidistanti rispetto al problema generale della natura del linguaggio umano. Da una parte, infatti, si è capito che per comprendere frasi che esprimono azioni come afferro un coltello il cervello attiva una rete che si sovrappone sostanzialmente a quella del sistema dei neuroni specchio degli animali, suggerendo che il linguaggio si possa essere parzialmente evoluto a partire da meccanismi che sono cooptati da sistemi diversi, come appunto quello motorio e che dunque si correli in modo diretto alla struttura del mondo. Dall’altra, proprio un esame dello stesso sistema di neuroni in un recente esperimento sulla comprensione delle frasi negative porta dati nuovi a favore dell’idea che esista invece un residuo del linguaggio che non possa intrinsecamente essere ricondotto a nessuno stimolo del mondo fisico. Si è infatti osservato che quando si interpretano frasi di azione negative del tipo non afferro un coltello il sistema dei neuroni specchio viene parzialmente inibito. Ora, siccome nel mondo non esistono «fatti negativi», questo risultato conduce necessariamente ad ammettere che esistono aspetti centrali del linguaggio — e certamente la negazione, legata alla capacità di giudicare il vero o il falso è centralissima — che non possono essere derivati dalla struttura del mondo.
Siamo daccapo; anzi no. Non abbiamo risposto alla domanda centrale sulla relazione tra struttura del mondo e struttura del linguaggio ma siamo riusciti a riformularla secondo prospettive inedite e possiamo ragionevolmente aspettarci che nei prossimi anni la ricerca si concentri proprio su questi temi. Come la tartaruga per Achille, il linguaggio umano sembra inafferrabile nella sua interezza ma, lentamente, con passione, si ha l’impressione che ci si possa avvicinare almeno tanto da riuscire a guardarla negli occhi, la nostra tartaruga.

Repubblica Firenze 29.9.10
Nazionale, la replica a Bondi "Quei fondi sono già impegnati"
La direttrice: ci serve un milione. Tagli, sos dagli archivi
Ida Fontana: "Personale, spazi, soldi per le bollette: mancano impegni precisi"
di Mara Amorevoli


Non basta la soluzione Bondi, ovvero «rimodulare i fondi in giacenza e non utilizzati pari a 5.650.000 euro» per garantire il futuro e stabilità alla Biblioteca nazionale. La direttrice Ida Fontana risponde al ministro e precisa: «Non ci sono fondi in giacenza, poiché si tratta di somme già impegnate per lavori di ristrutturazione». Tuttavia si può ricorrere ad un escamotage. Dichiara la direttrice: «Su quei fondi si possono fare piccole economie. Ad esempio i bandi di gara si fanno al ribasso e questo permette dei risparmi. Ovvero di accumulare risorse che da spendere nell´immediato, se il ministro ci autorizza, per scongiurare la chiusura della Biblioteca». Una cifra che in totale, osserva Fontana, si dovrebbe aggirare sui 200-300 mila euro, un espediente per far fronte ai pagamenti e alla gestione ordinaria dei servizi dell´istituto e la suo funzionamento «Ma il nostro problema ora - prosegue - è legato ai tempi lunghi, per garantire il funzionamento delle Biblioteca ci serve un milione di euro all´anno».
Insomma per ora si tampona la falla con un provvedimento di emergenza. Ma sul futuro, «sulla mancanza assoluta di personale, di spazi e di fondi per pagare 250 mila euro l´anno di energia elettrica o 93 mila euro di tassa sui rifiuti - precisa la direttrice - mancano impegni precisi». «Una crisi che non si risolvere con continui provvedimenti tampone. Il Governo deve riconoscere le priorità rappresentate da alcune grandi istituzioni ed assicurare finanziamenti stabili» incalza il senatore Andrea Marcucci, responsabile cultura per il Pd della Toscana, rimarcando la necessità di investimenti sul patrimonio librario toscano.
Un patrimonio che è in sofferenza anche per quanto riguarda i beni archivistici toscani. Domenica prossima si terrà la giornata nazionale degli archivi aperti al pubblico, con iniziative anche in tutte le sedi toscane. L´Archivio di Stato di Firenze «è nella stessa situazione della Biblioteca nazionale - spiega una funzionaria - in questi ultimi anni ci sono stati tagli al bilancio sempre più alti e consistenti. Per l´anno prossimo si parla di un ulteriore 40% in meno che ci metterà in ginocchio. Non ci piangiamo addosso, vogliamo reagire positivamente chiedendo aiuto e partecipazione alla nostra iniziativa a tutti i cittadini». Una stessa situazione tocca la Soprintendenza archivistica regionale. «Ogni anno il budget si assottiglia. Anche per il prossimo anno si prospetta un taglio del 30% ai fondi - spiega la soprintendente Diana Toccafondi - ci difendiamo attivando rapporti con banche ed enti pubblici. Tra 5 anni, su 21 dipendenti 20 andranno in pensione: non c´è ricambio e ci chiediamo che fine faranno tutte le professionalità messe in campo fino ad oggi».