l’Unità 29.9.10
Bersani attacca: «È corruzione la compravendita di deputati»
«Se uno promette la rinomina o comunque uno stipendio è corruzione, roba da magistratura», dice Bersani. Per il quale il ricorso al voto di fiducia è «segno di debolezza e paura»: «È una crisi non rimediabile».
di Simone Collini
«Corruzione». Per Pier Luigi Bersani c’è poco da scherzare sulla compravendita di parlamentari, c’è poco da ironizzare sul fatto che a Berlusconi questa faccenda sarà costata più della campagna acquisti del Milan, come si fa in qualche capannello che si forma e si disfa in Transatlantico aspettando il voto di oggi. «È in corso un’operazione che prelude all’ipotesi del governo Berlusconi-Bossi-Cuffaro», dice il leader del Pd attaccando l’asse Pdl-Lega a cui si vanno ad aggiungere i transfughi siciliani dell’Udc. «Ma poi sono in corso altre manovre, già successe in passato e che si ripetono», aggiunge Bersani parlando della compravendita di cui si parla sui giornali: «Se uno promette la rinomina o comunque uno stipendio è corruzione, roba da magistratura». Parole dure, che preannunciano per oggi un intervento in aula tutto all’attacco.
Sarà Bersani a prendere in aula la parola per le dichiarazioni di voto. Il leader del Pd dirà che il governo ha «fallito» da qualunque punto di vista lo si guardi farà riferimento all’incapacità di far fronte alla crisi economica, al «più grande licenziamento di massa» ai danni dei precari della scuola, allo «scandalo» dell’assenza di un ministro dello Sviluppo e alle leggi ad personam nel campo giustizia chiederà a Berlusconi di farsi da parte e lasciare che sia il Quirinale a decidere gli ulteriori passi: «La maggioranza è in crisi politica, una crisi non rimediabile che può preludere a tentativi di aggiustamenti poco credibili. Ma il paese non ha tempo di aspettare. Il governo prenda atto della crisi, se ne vada e si rimetta alle decisioni del Capo dello Stato».
Bersani ha riunito nel suo ufficio alla Camera una sorta di cabina di regia pre-crisi: la presidente del Pd Rosy Bindi, i capigruppo di Camera e Senato Dario Franceschini e Anna Finocchiaro, il vicesegretario Enrico Letta e il coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca. E l’esortazione ai vertici del suo partito è stata questa: «Dobbiamo stare pronti in caso di caduta».
FIDUCIA COME DEBOLEZZA
Ma nel Pd non si fanno troppe illusioni su come finirà oggi. Se da un lato Bersani dice che l’aver posto la fiducia «è un evidente segno di debolezza e paura» da parte di Berlusconi («perché uno si fa un recinto, se non perché ha paura?») dall’altro questa mossa consente al premier di mettere i finiani di fronte a un aut-aut complicato: votare la fiducia o prendersi la responsabilità della crisi, con quel che comporta di penalizzante in caso di elezioni anticipate. Per questo nella riunione serale che Bersani fa con i deputati del Pd si fanno calcoli che non lasciano ben sperare, in nessun caso. Oggi, spiega di fronte al gruppo il “mago dei numeri” Rolando Nannicini, il governo potrebbe incassare la fiducia con circa 350 sì, compresi i 35 di Futuro e libertà e i 5 dell’Mpa. Una situazione negativa, perché il governo avrebbe i numeri per andare avanti ma senza avere veramente una maggioranza politica che gli consenta di governare. Dice Anna Finocchiaro: «Mi chiedo che valore possa avere il via libera che la Camera potrebbe dare a Berlusconi quando gli italiani ormai sanno, con tutta evidenza, che una parte dei quei voti è figlio indecente di una compravendita, con moneta sonante, delle coscienze e del voto di alcuni parlamentari».
Durante la riunione dei deputati Pd si è parlato anche della disponibilità annunciata da Calearo di votare sì («se il discorso di Berlusconi che ascolterò domani mi convincerà gli darò il mio appoggio»). Una decisione che ha generato non poca irritazione tra le fila del Pd. Tant’è che lo stesso Veltroni, che alle politiche decise di candidarlo capolista nel Veneto, per poi vederlo passare con l’Api, fa sapere di averci parlato e di avergli ricordato «l’impegno da lui assunto a sostegno del centrosinistra e in opposizione al centrodestra». Dice Veltroni: «Calearo, pur ribadendo le ragioni di un disagio politico, mi ha confermato nettamente la sua volontà di attenersi all’impegno assunto davanti agli elettori. Sono certo che sarà coerente con se stesso». Bersani a sera conferma il pressing, rispondendo così ai cronisti che gli chiedono cosa pensi del fatto che Calearo votare la fiducia a Berlusconi: «Vediamo se lo farà. Finché le cose non succedono, è meglio non darle per fatte».
il Fatto 29.9.10
“Gli intellettuali sono assopiti, è l’ora della sveglia”
Flores D’Arcais: due manifestazioni per scelta del Popolo viola. In piazza per difendere libertà e costituzione
Sta per arrivare un autunno caldo e denso di manifestazioni. Separate. Le piazze contro Berlusconi e il governo, infatti, saranno due: una sabato, quando si mobiliterà il Popolo viola, l’altra il 16 ottobre, che vedrà marciare insieme la Fiom e la società civile. Quest’ultima è stata lanciata dalla colonne di MicroMega da Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri, Margherita Hack e don Gallo.
Professore, due manifestazioni danno la pessima impressione di un’opposizione sfasciata.
Prima di agosto in un editoriale su Il Fatto quotidiano avevo espresso la necessità che la società civile tornasse in piazza “al più presto”. In meno di un paio di settimane siamo riusciti con Camilleri, la Hack e don Gallo a metterci in comunicazione, concordare un testo e lanciare un appello per una giornata che non fosse la ripetizione del “No B. Day” ma andasse oltre, e proponevamo 5 “parole d'ordine”.
Quali?
Fuori Berlusconi, realizziamo la Costituzione, via i criminali dal potere, restituire le televisioni al pluralismo ed elezioni democratiche.
Poi che è successo?
La data non era definita. Dicevamo “al più presto”, se possibile addirittura a fine settembre. Quest’appello, pubblica-
to sul sito di MicroMega e su quello del Fatto Quotidiano, in due o tre giorni ha raccolto 25 mila adesioni oltre a una quantità di associazioni, Popolo viola e personalità, tra i primi Antonio Tabucchi e Fiorella Mannoia. Ai quali si sono aggiunti Sabina Guzzanti, Ascanio Celestini, Moni Ovadia, Corrado Stajano, Luigi De Magistris, Gianni Vattimo, Sonia Alfano e molti altri.
Poi le cose sono cambiate.
Nel frattempo la pagina viola nazionale aveva lanciato dal suo sito il “No B. day bis” e tra varie tendenze viola erano iniziati scambi di accuse feroci. Per questa ragione noi quattro promotori pubblicammo su Il Fatto quotidiano un articolo in cui dicevamo che “due manifestazioni sarebbero meno di zero: un regalo a Berlusconi” e invitavamo tutte le realtà che volevano quel giorno manifestare a realizzare la giornata insieme. Ma non ci siete riusciti.
La pagina viola nazionale ha tenacemente voluto fare il suo “No B. day bis” rinfocolando la polemica con tutti gli altri gruppi – se non capisco male dai loro siti le tendenze viola che si scontrano sembrano addirittura quattro – comunque a qualsiasi manifestazione contro Berlusconi, anche se guastata dal settarismo, si fanno i migliori auguri.
Quindi avete scelto il 16 ottobre, con la Fiom. Quello che abbiamo definito “settarismo autoreferenziale” stava distruggendo la giornata del 2 ottobre. Per fortuna sono intervenuti due fatti nuovi: uno “soggettivo”, cioè il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini e i maggiori dirigenti regionali avevano aderito al nostro appello con tutta la radicalità politica che conteneva. Un secondo “oggettivo”: l’offensiva anticostituzionale e antioperaia di Marchionne a Pomigliano era diventata la linea di Federmeccanica e di Confindustria, col sostegno smaccato del governo. A quel punto ci è sembrato logico e doveroso impegnare tutte le nostre energie perché la giornata del 16 attorno alla Fiom diventi “una indimenticabile giornata di passione di civile”.
La borghesia scende in piazza con gli operai. Significa essere rimasti fermi agli anni ‘70 o ci sono nuove necessità?
I diritti civili e i diritti sociali sono due facce della stessa medaglia. Il fatto che oggi per una serie di circostanze la Fiom autonomamente indica una manifestazione non solo sui temi sindacali, ma sui diritti in generale, e che la società civile dei “ceti medi riflessivi” e dei giovani del Web autonomamente, mantenendo le parole d’ordine del nostro appello, si organizzi per fare sinergia con la manifestazione dei lavoratori metalmeccanici, da sempre punta avanzata dello schieramento sindacale, mi sembra apra una prospettiva nuova e positiva, spero entusiasmante per un radicale rinnovamento della vita civile del paese. Allora perché non scendere in piazza con i precari? L’obiettivo del nostro appello è di coinvolgere tutte le situazioni di lotta sociale, di protesta e di rivolta morale. Dai precari della scuola e della ricerca, alle manifestazioni anti ‘ndrangheta della Calabria. L’elenco, che non continuo, è lungo perché sono moltissime le situazioni di disagio nonostante la tv le censuri sistematicamente.
Siete riusciti a mettere insieme gli anticlericali dell’associazione “Giordano Bruno” con i cattolici. C’è la partecipazione inedita di un mondo cattolico di base in evidente rotta di collisione con il fiancheggiamento ruiniano al regime. Ci saranno don Enzo Mazzi, don Paolo Farinella, don Franco Barbero, don Ferdinando Sudati, don Walter Fiocchi, e altri esponenti del mondo cattolico a partire dall’agenzia Adista.
Le adesioni di personalità si notano ma il mondo intellettuale non le sembra ancora un po’ assopito? Penso che di fronte alla volontà dichiarata di Berlusconi di assassinare la Costituzione, in effetti la sollevazione morale e politica degli intellettuali dovrebbe essere unanime, attiva e intransigente. Gli intellettuali sono due volte privilegiati perché hanno scelto liberamente il lavoro che fanno, cosa che capita solo ai manager e ai preti, e perché hanno il privilegio inestimabile della voce pubblica, di essere ascoltati. Ecco perché credo abbiano il dovere stringente di impegnar-
si personalmente. È ormai una battaglia finale in difesa delle libertà più elementari. Ho l’impressione che questo sentimento, in vista del 16 ottobre, si stia diffondendo e che quindi la partecipazione degli intellettuali, delle associazioni e delle situazioni di lotta sarà tale da poter il 16 dire: finalmente l’Italia s’è desta (c.pe.)
l’Unità 29.9.10
Contro le donne
Consultori. La controriforma parte dal Lazio
di Giulia Rodano
Il Consiglio regionale del Lazio ha avviato l’iter di discussione della proposta di controriforma della legge istitutiva dei consultori familiari, presentata da Olimpia Tarzia, presidente del Movimento per la vita del Lazio e consigliere regionale della lista Polverini. Se la legge fosse approvata, i consultori familiari nel Lazio scomparirebbero, per essere sostituiti da confuse, non solo private ma confessionali strutture di consulenza alla famiglia, naturalmente solo quella fondata sul matrimonio.
Il patrimonio costruito in trent’anni che ha fatto del consultorio un esempio di lavoro d’équipe per prendere in carico le donne, le coppie, gli adolescenti per tutelarne la salute riproduttiva, renderne consapevoli e libere le scelte verrebbe cancellato. Il lavoro compiuto per promuovere la procreazione responsabile, contribuendo, come dimostrato, a far diminuire il numero degli aborti, verrebbe bruscamente interrotto. La porta aperta libera, gratuita, esente da ticket per tante donne, sole, deboli, oggi per tante immigrate, verrebbe chiusa.
Cosa verrebbe creato al posto dei consultori pubblici, liberi e gratuiti? Basta leggere la presentazione della legge: «Non più strutture deputate a fornire una serie di servizi sanitari e parasanitari alle famiglie, bensì istituzioni vocate a sostenere e promuovere la famiglia ed i valori etici di cui essa è portatrice». Verrebbero create strutture controllate da un comitato di bioetica che dovrebbe verificare il comportamento “etico” degli operatori, solo quelli pubblici naturalmente. Quelli privati, se riconosciuti da questa legge, non potrebbero che essere di per sé coerenti con i valori propugnati dalla legge. Nei nuovi consultori le donne verrebbero costrette a un calvario aggiuntivo, illegittimo, crudele e inutile, per accedere alla interruzione di gravidanza, durante il quale gli operatori dovrebbero ricordare alla donna «il suo dovere morale di collaborare nel tentativo di superare le difficoltà che l’hanno indotta a chiedere l’interruzione volontaria di gravidanza», e indurla a firmare una sorta (del tutto illegale) di consenso informato.
Si tratta di un percorso a ostacoli, una vera e propria “lapidazione psicologica della donna”.
È evidente dunque lo scopo della proposta, iniziare cioè a scardinare il sistema di diritti e dignità costruito nel nostro Paese attraverso tanti anni di battaglie di civiltà. Un rischio che non possiamo permetterci.
Molte associazioni e molti cittadini, non solo donne, si sono già mobilitate, nelle piazze e sulla rete. Si tratta di una battaglia difficile, anche per i numeri espressi nel Consiglio regionale. Abbiamo bisogno di uscire dal silenzio. Per questo chiediamo aiuto a quanti, uomini e donne, possano aiutarci a farlo.
l’Unità 29.9.10
Intervista a Miriam Lamizana
«Quando le mutilazioni s’annunciavano alla radio»
La presidente del Comitato interafricano contro l’escissione dei genitali femminili: «Una risoluzione delle Nazioni Unite può aiutare le donne»
di Marina Mastroluca
Miriam Lamizana ricorda ancora quando in Ciad si usava annunciare via radio la mutilazione sessuale delle proprie figlie. «Era una grande festa. Fuori c’era gente che ballava e cantava, dentro si sentivano gli strilli delle ragazzine. Se accadesse ora, se qualcuno provasse ora a dare un simile annuncio per radio, beh credo proprio che arriverebbe la polizia». Miriam Lamizana, già ministro degli Affari sociali del Burkina Faso, è presidente del Comitato interafricano contro le mutilazioni genitali femminili, in questi giorni a Roma dopo essere stata a New York per sostenere l’approvazione di una risoluzione Onu contro questa pratica che ha sfregiato 150 milioni di donne nel mondo. In Italia ha trovato una sponda nell’associazione «Non c’è pace senza giustizia», che con Emma Bonino e il ministero degli Esteri sostiene la campagna perché si arrivi ad una risoluzione delle Nazioni Unite. «Sarebbe il coronamento di tutto il lavoro fatto in questi decenni e lo strumento per andare avanti», dice Miriam. Il «lavoro» di cui parla è quello che oggi le consente di ridere, quando racconta degli annunci alla radio del Ciad. «Se lo immagina lei, un annuncio per dire: venite tutti alla mutilazione di mia figlia?». Perché non importa che sia parziale, non importa che il taglio preveda o meno l’amputazione completa dei genitali esterni. Non importa se sia infibulazione o escissione, o come la si voglia chiamare. Quello che è in gioco è il diritto delle donne a veder rispettata l’integrità del proprio corpo, un diritto umano, questo dice la bozza di risoluzione.
Come è nata questa campagna?
«All’inizio è stata soprattutto l’iniziativa di singoli attivisti, che sono riusciti nel tempo ad allargare la loro presa fino a coinvolgere i governi e istituzioni internazionali. Se proprio vogliamo indicare una data, è il decennio che parte dal 1975, quando si sono moltiplicate le iniziative contro la violenza sulle donne. Nel 1984 è nato il Comitato interafricano, che ha deciso di creare una propria struttura in ognuno dei 28 Paesi in cui si praticava l’escissione, in gran parte paesi dell’Africa occidentale e specialmente sub-sahariana, oltre al Corno d’Africa».
Una risoluzione Onu può cambiare davvero il ricorso ad una pratica che spesso è già vietata? «Bisogna capire che noi lavoriamo per tappe. Abbiamo cominciato a livello nazionale, per vedere quali fossero gli ostacoli. Abbiamo fatto un’azione di sensibilizzazione, cominciando a parlare dei problemi che l’escissione provoca per la salute della donna e del bambino. Poi abbiamo cominciato a ragionare sull’educazione e sull’autonomia economica delle donne: sono tutti aspetti dello stesso problema. Ci sono resistenze socio-culturali che non si possono rimuovere dall’oggi al domani. Ma con l’azione dal basso abbiamo spinto il governo a prendere coscienza del problema e a riconoscere le associazioni che vi si dedicavano. Poi siamo passati su una scala regionale. Con la ratifica nel 2005 del protocollo di Maputo,che vieta tra l’altro le mutilazioni genitali femminili siamo riuscite a fare un altro passo: il protocollo ha spinto molti Paesi che non l’avevano a dotarsi di una legge specifica a questo proprosito. Oggi gli Stati che vietano l’escissione sono diventati 15 su 28, prima erano otto o nove. Per questo credo che la risoluzione Onu avrebbe un grande valore politico, perché spingerebbe i governi ad assumere politiche sempre più chiare e decise sulle mutilazioni genitali. E c’è poi un altro punto: servirebbe ad innescare la solidarietà di quei Paesi dove questa pratica non esiste, che potrebbero però dare un aiuto». Che tipo di risposta avete trovato nei Paesi africani? Che cosa è cambiato? «Il cambiamento si vede soprattutto nelle nuove generazioni. Nel mio Paese, per esempio, la percentuale di mutilazioni inflitte alle bambine è scesa dal 75 al 38%, con un processo cominciato dagli anni ‘70. In tutto questo tempo è caduto un tabù, che in Africa è molto forte quando si fa riferimento al sesso, e si è cominciato a parlare dell’escissione come di un problema, quanto meno di salute se non di diritti umani. C’è stata una presa di coscienza. In Mauritania, per esempio, i leader religiosi hanno emesso una fatwa contro le mutilazioni genitali. Ci sono programmi statali di informazione, che si preoccupano anche di trovare un lavoro alternativo alle donne che fino a questo momento hanno praticato l’escissione. Bisogna procedere per gradi, ma il segno del cambiamento c’è».
Come riuscite a convincere le comunità locali, dove si esercita materialmente la pressione sulle donne, a cambiare atteggiamento?
«Il mezzo principale è l’informazione. Cominciamo con le ostetriche. Una volta durante il parto si preoccupavano di riaprire le donne escisse, per far nascere il bambino, ma non dicevano nulla. Oggi invece spiegano alla nuova madre e alla sua famiglia perché devono procedere in questo modo, spiegano il danno prodotto dall’escissione e i rischi che comporta. Vengono affrontati anche problemi sessuali. Spesso capita infatti che la mutilazione dei genitali esterni, soprattutto quando è praticata in bambine molto piccole, cicatrizzi quasi completamente rendendo impossibile il rapporto sessuale. Facciamo vedere foto, video o manichini. E mostrare che cosa sia davvero un’escissione è molto più efficace di tante parole». L’escissione è stata spesso considerata una cerimonia di iniziazione. Come si supera questo scoglio? «Questo è sempre meno vero. L’introduzioni di leggi che la vietano, ha spinto a ricorrere a questa pratica in clandestinità, anticipando molto i tempi. Quando arriva il momento della cerimonia di iniziazione all’età adultà, le ragazze hanno spesso già subito la mutilazione. Le due cose quindi si sono separate. Noi cerchiamo di conservare la festa e cancellare il danno».
In Africa c’è una crescente presenza politica della donne. È questo che ha fatto la differenza? «Potrei dire che è vero il contrario. C’è stata la generazione nata negli anni 50 che è stata molto attiva a livello di base, anche sul tema delle mutilazioni genitali, e da questa generazione sono emerse figure politiche. Ma è un processo che è cominciato dal basso, non viceversa».
l’Unità 29.9.10
La missione Irene. Il catamarano portava aiuti umanitari e giocattoli per la Striscia
Il falco Lieberman gela Obama: ci vorranno decenni per arrivare alla pace con i palestinesi
Israele blocca nave per Gaza. A bordo nove pacifisti ebrei
A bordo della nave della pace anche un sopravvissuto all’Olocausto e il padre di una ragazza uccisa in un attentato a Gerusalemme: «Un vero eroe è colui che cerca di trasformare un nemico in amico».
di Umberto De Giovannangeli
Reuven Moshkovitz, 82 anni, sopravvissuto alla Shoah. Rami Elhan, un padre che ha perso la figlia di 14 anni in un attentato suicida in un centro commerciale di Gerusalemme nel 1997. Reuven e Rami hanno saputo trasformare il loro dolore in energia positiva. In determinazione ad agire contro i soprusi perpetrati da Israele contro la popolazione della Striscia. Una determinazione che li ha spinti a far parte della spedizione dell’ «Irene», il catamarano con a bordo nove pacifisti ebrei, tra i quali anche israeliani, che ieri ha cercato di forzare il blocco navale israeliano per raggiungere Gaza City, con un piccolo carico di medicinali, giocattoli e apparecchiature per la purificazione dell’acqua. «È un dovere sacro per me, come sopravvissuto all’Olocausto – dice Reuven Moshkovitz quello di protestare contro la persecuzione, l’oppressione e la carcerazione del popolo di Gaza, compresi 800.000 bambini». Grazie al prezioso contributo della Rete romana di solidarietà con il popolo palestinese, riusciamo a metterci in contatto telefonico con gli uomini a bordo dell’«Irene». «Vogliamo dire al mondo che in Israele ci sono anche tante persone che giudicano un crimine contro l’umanità il blocco a Gaza. Non è opprimendo un altro popolo, negandogli libertà di movimento, e il diritto ad uno Stato indipendente, che garantiremo la nostra stessa sicurezza», afferma Rami Elhan. «La nostra aggiunge – vuol essere una protesta non violenta e per questo ancora più forte». La linea cade. Un momento prima, sentiamo voci concitate: «Stanno arrivando», riesce a dire Rami. È l’avvisaglia di ciò che da lì a qualche minuto accadrà. Le ultime parole danno conto di un momento drammatico: «Un cacciatorpediniere israeliano ci taglia la strada...Un’altra piccola imbarcazione si avvicina...Il cacciatorpediniere si sta avvicinando ed anche le piccole barche stanno intralciando al nostra rotta...Hanno mitragliatrici a poppa e prua...Il cacciatorpediniere sta bloccando a prua la nostra rotta mentre il naviglio minore ci sta circondando». Poi, il silenzio.
Un commando della marina israeliana prende il controllo della imbarcazione, battente bandiera britannica. L’azione è confermata da una portavoce militare, secondo la quale l’equipaggio dell’«Irene» è stato contattato mentre si avvicinava alla Striscia di Gaza e sollecitato a cambiare rotta poiché secondo Israele stava «violando la legge israeliana e quella internazionale»’. Ma ha opposto un rifiuto. Di qui l’abbordaggio, conclusosi in ogni caso «senza violenze da una parte o dall’altra», «La sorte di questa barca simboleggia il destino delle speranze di pace in questa regione», rimarca da Londra Richard Kuper della Jews for Justice for Palestinians e del Comitato organizzatore della nave «Irene».
NEL PORTO DI ASHDOD
Nel primo pomeriggio l’«Irene» ha fatto il suo ingresso forzato nel porto israeliano di Ashdod. Il ministero degli Esteri israeliano ha accusato i pacifisti di aver attuato una deliberata «provocazione» e «di versare deliberatamente benzina sul fuoco dell’odio verso Israele nel mondo». Ma per Reuven Moshkovitz, 82 anni, sopravvissuto alla Shoah, «vero eroe è colui che cerca di trasformare un nemico in un amico» . I pacifisti israeliani sono stati fermati dalla polizia per interrogatori, quelli stranieri saranno espulsi.
Dalle acque agitate di Gaza a quelle, non meno tempestose, di un negoziato in bilico. Il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) chiede che Israele rispetti una moratoria sulla colonizzazione «fino a quando vi saranno negoziati» di pace. «Chiediamo la moratoria fin quando vi saranno negoziati di pace perché, finché vi saranno nego-
ziati di pace, vi sarà speranza», dice da Parigi il presidente dell’Anp, ai microfoni di Radio Europe. Una risposta, indiretta, viene da New York. Ed è una risposta raggelante. Ad offrirla è il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman. Pochi giorni fa dalla tribuna dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Barack Obama aveva affermato che è possibile, entro un anno, raggiungere una pace fondata su «due popoli, due Stati».
Dalla stessa tribuna, Lieberman, capofila dei falchi israeliani, avverte: c’è’ il rischio che ci vogliano decenni per un accordo tra israeliani e palestinesi, perché occorre risolvere prima la questione iraniana. E da Gerusalemme l’ufficio del premier licenzia una nota ufficiale fortemente irritata: le affermazioni del ministro degli Esteri sul conflitto israelo-palestinese «non rappresentano la posizione del Governo israeliano».
l’Unità 29.9.10
A Bruxelles manifestazione di 50 sindacati da 30 paesi diversi. Sono attese 100mila persone
A Roma si mobilita la Cgil. Non Cisl e Uil, che invieranno solo delegazioni nella capitale belga
Lavoratori europei in corteo contro le misure d’austerity
Oggi la Confederazione europea dei sindacati (Ces) si mobilita a Bruxelles e nei vari paesi contro le misure di austerity varate da molti governi Ue. Anche la Cgil organizza una manifestazione a Roma.
di Luigina Venturelli
Insieme oltre frontiera, divisi in patria. Le organizzazioni sindacali italiane si presentano così, in ordine sparso, alla giornata di azione europea promossa per oggi dalla Confederazione Europea dei Sindacati (Ces). Per dire no alle misure d’austerità introdotte da molti governi nelle finanze pubbliche contro la crisi economica e per rivendicare misure che favoriscano lavoro, giustizia sociale e solidarietà, circa cinquanta sigle provenienti da trenta diversi paesi sfileranno in giornata a Bruxelles e nei rispettivi paesi d’origine.
Così anche la Cgil, che parteciperà al corteo nella capitale belga con una delegazione guidata dal segretario confederale, Fulvio Fammoni e contestualmente organizzerà una manifestazione a Roma, in Piazza Farnese a partire dalle ore 16.30. Diversamente hanno deciso Cisl e Uil, che invieranno delegazioni in terra straniera, ma che in Italia eviteranno di scendere in piazza in attesa della propria manifestazione del 9 ottobre per chiedere meno imposizione fiscale sul lavoro. Sono ancora troppo profonde le fratture tra le tre confederazioni perchè sfilino fianco a fianco.
LA CGIL IN PIAZZA A ROMA
Da diversi mesi il sindacato di Corso d’Italia insiste sulle parole d’ordine della mobilitazione Ces di oggi: «In quasi tutti i paesi europei i tagli hanno colpito il lavoro, lo sviluppo e l’occupazione. Per questo la Ces ha immaginato una grande giornata di lotta che in Italia terremo a Roma per dare dimostrazione dell’unità d’azione delle nostre battaglie con quelle della Confederazione europea» ha spiegato il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che concluderà la manifestazione romana, a cui ha aderito anche l’Arci, dopo gli interventi dei colleghi stranieri Sehrbrock (Germania), Doz (Spagna), Dassis (Grecia) ed Aubin (Francia).
LA MOBILITAZIONE EUROPEA
Ma la mobilitazione promossa dalla Ces investirà tante altre capitali del continente europeo, oltre al suo epicentro a Bruxelles dove, in concomitanza dell’incontro dei ministri europei delle finanze, sono attese circa 100mila persone, rappresentanti e militanti di cinquanta organizzazioni sindacali provenienti da circa trenta paesi diversi. Anche nelle alre nazioni si terranno scioperi e manifestazioni: ci sarà lo sciopero generale in Spagna, continueranno le proteste unitarie in Francia, mobilitazioni sono in programma in Portogallo, Irlanda, Lettonia, Polonia, Cipro, Romania, Repubblica Ceca, Lituania e Serbia. In Italia inoltre, parallelamente a quella di Roma, sono previste manifestazioni anche Napoli e a Venezia. Ovunque lo slogan dell’«Action day», nel giorno in cui la Commissione Ue presenterà nuove misure per stringere sui conti pubblici, sarà lo stesso: «No all’austerity. Priorità all’occupazione e alla crescita».
«Daremo voce alle preoccupazioni circa il contesto economico e sociale» ha affermato il segretario generale della Ces, John Monks. «Siamo particolarmente preoccupati per l’aumento disoccupazione, che oramai si attesta intorno al 10%, e per la crescita delle diseguaglianze». Insomma, i lavoratori dipendenti non possono essere gli unici a pagare per la speculazione messa in atto da alcune istituzioni finanziarie irresponsabili. A preoccupare è soprattutto la piaga della precarietà, che rischia di segnare il destino di gran parte delle generazioni future.
La ricetta non può essere che una: «Puntare a un lavoro di qualità». È questo il messaggio che la Confederazione europea vuole trasmettere all’esecutivo di Bruxelles, in particolare al presidente della Commissione Jose Manuel Barroso e all’attuale presidente del Consiglio europeo, il premier belga Yves Leterme, che i sindacati incontreranno oggi al termine della manifestazione.
il Fatto 29.9.10
Non la lapidano ma la impiccano
Dopo le proteste internazionali l’Iran “occidentalizza” la pena per Sakineh
di Giampiero Gramaglia
Qual ‘è il problema? La lapidazione? E allora, niente lapidazione. O la condanna per adulterio? E allora, niente adulterio. L’Iran integralista di Mahmud Ahmadinejad “accontenta” l’Occidente che protesta per la condanna a morte inflitta a Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna di 43 anni, madre di due figli, moglie infedele, la cui vicenda suscita emozioni e polemiche forti in Italia e in Francia e – meno – nel resto del Mondo. Sakineh morirà impiccata, colpevole di avere complottato per fare uccidere il marito dall’amante. Proprio come Teresa Lewis, la donna americana di 41 anni, con un quoziente intellettivo poco al di sopra della soglia dell’handicap mentale, la cui condanna è stata eseguita nel carcere di Jarratt, in Virginia, Stati Uniti, la settimana scorsa: due storie parallele, l’iniezione letale da una parte, la forca dall’altra. Che differenza c’è, in fondo? Certo, il sistema giudiziario iraniano è meno trasparente di quello americano. Ma, di fatto, il regime di Teheran “de-islamizza” e “occidentalizza” il reato e la pena e “mette il silenziatore” alle proteste, o almeno ne delegittima molte, specie quelle – già flebili – statunitensi.
PER SAKINEH la sentenza di condanna a morte per adulterio tramite lapidazione era stata sospesa fin da luglio. A far ora sapere che la donna è stata condannata all’impiccagione è stato il procuratore generale iraniano Gholamhossein Mohseni-Ejei, citato dal Teheran Times. Poco dopo, il ministero degli esteri affermava che “il procedimento giudiziario non s’è ancora concluso” e che “il verdetto sarà pronunciato in via definitiva quando l’iter sarà finito”. Il figlio di Sakineh mediaticamente più attivo, Sajjad Ghadarzadeh, chiede in lacrime all’Italia “d’intervenire “. E la Farnesina auspica “fortemente che la condanna possa essere rivista”, aggrappandosi allo spiraglio di speranza lasciato dal ministero degli esteri iraniano e assicurando che il governo italiano “continua ad adoperarsi con la massima determinazione, come ha finora fatto”. L’Italia è e resta contraria alla pena di morte “ovunque e in qualsiasi modo venga eseguita”. La vicenda umana e giudiziaria, che si trascina da quattro anni, resta intrisa di contraddizioni e zeppa di punti oscuri. Sakineh, di etnia azera, subisce, nel maggio del 2006, 99 frustate: lo dispone un tribunale di Tabriz, perché la donna è rea confessa di adulterio (lei dirà di averlo ammesso sotto tortura).
NEL SETTEMBRE del 2006, un altro tribunale la condanna per l’omicidio del marito: morte per lapidazione, è la sentenza, confermata l’anno dopo dalla Corte Suprema. Non accade nulla per tre anni, quando l’esecuzione della sentenza pare vicina. Innescata dai figli, Sajjad e una ragazza, scatta la mobilitazione internazionale. L’esecuzione è sospesa. Ma, in agosto, Sakineh confessa in tv l’adulterio e la complicità nell’omicidio (dichiarazioni forse estorte). Il caso diventa uno dei tasselli del confronto tra l’Iran e l’Occidente. La scorsa settimana, a New York, il presidente iraniano nega che la sentenza di lapidazione sia mai stata pronunciata. E la mancanza di trasparenza del sistema giudiziario iraniano non consente di fare chiarezza. Ora, il procuratore generale dice che le sentenze sono due, ma che quella per omicidio “ha la precedenza” su quella per adulterio. Il figlio, di cui si ignora quali siano le fonti, afferma che la condanna a morte sarà “annunciata ufficialmente fra due settimane”. L’avvocato Javid Hutan Kian cercherà, nei prossimi giorni, di bloccare l’esecuzione e di ottenere una revisione del verdetto.
In Italia, le notizia da Teheran suscitano reazioni a raffica. Il presidente dei Verdi Angelo Monelli chiede che “l’Italia ritiri immediatamente l’ambasciatore a Teheran” (e quello a Washington?), accusando Ahmadinejad “di stare facendo un uso politico della vita di Sakineh per alzare il livello dello scontro”. Ma l’attenzione dei media occidentali è molto diversificata: alle 15.00 di ieri, la Reuters non aveva dedicato a Sakineh una riga nel notiziario generale, l’Afp un dispaccio e l’Ansa almeno 15 notizie. Segno d’una diversa sensibilità delle opinioni pubbliche.
Repubblica 29.9.10
La macchina della paura
di Roberto Saviano
Ho detto ieri, dialogando con i lettori e gli spettatori di Repubblica Tv, che ormai la politica in Italia è una cosa buia, che non appassiona più nessuno, né chi la fa, né chi la segue. Su questa affermazione mi hanno scritto in tanti, che credo abbiano condiviso con me questo sentimento di impotenza, avvertito talvolta come un impedimento, la denuncia di qualcosa che ostruisce la partecipazione, il normale rapporto che un cittadino deve avere con la vita pubblica del suo Paese. E insieme, c´è un altro sentimento in chi mi scrive: rabbia e ribellione per sentirsi espropriati dalla politica come strumento di impegno e di cambiamento, rifiuto di accettare che questa stagnazione prevalga.
Chi analizza fatti, episodi e metodi della politica italiana, in questo momento, non può che avere una reazione di spavento e pensare: non è per me. Ricatti, timori, intimidazioni. Tutti hanno paura. Anche io ho paura: non ho nulla da nascondere, con la vita ridotta e ipercontrollata cui sono costretto, ma sento questo clima di straordinaria ostilità, e vedo l´interesse a raccoglierlo, eccitarlo, utilizzarlo. Mi guardo intorno e penso: come deve sentirsi un giovane italiano che voglia usare in politica la sua passione civile, il suo talento? La politica di oggi lo incoraggia o lo spaventa?
E qual è il prezzo che tutti paghiamo per questa esclusione e per questa diffidenza? Qual è il costo sociale della paura? Chi fa già parte del sistema politico nel senso più largo del termine, o ha comunque una responsabilità pubblica e sociale, sa che oggi in Italia qualsiasi sua fragilità può essere scandagliata, esibita, denunciata ed enfatizzata. Non importa che non sia un reato, non importa quasi nemmeno che sia vera. Basta che faccia notizia, che abbia un costo, che faccia pagare un prezzo, e che dunque serva come arma di ammonimento preventivo, di minaccia permanente, di regolamento dei conti successivo. Ma la libertà politica, come la libertà di stampa, si fonda sulla possibilità di esprimere le proprie idee senza ritorsioni di tipo personale. Se sai che esprimendo quell´opinione, o scrivendola, tu pagherai con un dossier su qualche vicenda irrilevante penalmente, magari addirittura falsa, ma capace di rovinare la tua vita privata, allora sei condizionato, non sei più libero.
Siamo dunque davanti a un problema di libertà, o meglio di mancanza di libertà. Siamo davanti a uno strano congegno fatto di interessi precisi, di persone, di giornalisti, di mezzi, di strumenti mediatici, che tenta di costruire un vestito mediaticamente diffamatorio; ha i mezzi per farlo, ha l´egemonia culturale per imporlo, ha la cornice politica per utilizzarlo.
Nella società del gossip si viene colpiti uno per volta, e noi siamo spettatori spesso incapaci di decodificare gli interessi costituiti che stanno dietro l´operazione, i mandanti, il movente. Eppure la questione riguarda tutti, perché mentre la macchina infanga una persona denudandola in una sua debolezza e colpendola nel suo isolamento, parla agli altri, sussurrando il messaggio peggiore, antipolitico per eccellenza: siamo tutti uguali, dice questo messaggio, non alzare la testa, non cercare speranze, perché siamo tutti sporchi e tutti abbiamo qualcosa da nascondere. Dunque abbassa lo sguardo, ritraiti, rinuncia.
Come si può spezzare questo meccanismo infernale, pericoloso per la democrazia, e non solo per le singole persone coinvolte? L´antidoto è in noi, in noi lettori, spettatori e cittadini, se preserviamo la nostra autonomia culturale, se recuperiamo la nostra capacità di giudizio. L´antidoto è nel non recepire il pettegolezzo, nel non riproporlo, nel non reiterarlo. Nel capire che ci si sta servendo di noi, dei nostri occhi, delle nostre bocche come megafoni di pensieri che non sono i nostri. Nel non passare, come fanno molti addetti ai lavori, le loro giornate su siti di gossip che mentono a pagamento, che costruiscono con tono scherzoso la delegittimazione, che usano informazioni personali soltanto per metterti in difficoltà. È il metodo dei vecchi regimi comunisti, delle tirannie dei paesi socialisti che volevano far passare i dissidenti per viziosi, ladri, nullafacenti, gentaglia che si opponeva solo per basso interesse. Mai come nell´Italia di oggi si trova realizzato nuovamente, anche se con metodi differenti, quel meccanismo delegittimante.
Dobbiamo capire che siamo davanti a un metodo, che lega Fini a Boffo e a Caldoro nella campagna di screditamento. Dobbiamo ripeterci che in un Paese normale non si comperano deputati a blocchi, giurando intanto fedeltà al responso degli elettori. Dobbiamo sapere che la legge bavaglio non tutela la privacy ma limita la libertà di conoscere e di informare. Dobbiamo sapere che le norme del privilegio, gli scudi dal processo, le leggi ad personam sono i veri polmoni che danno aria a questo governo in affanno, perché altrimenti cade l´impero.
Dobbiamo semplicemente pretendere, come fanno migliaia di cittadini, che la legge sia uguale per tutti, un diritto costituzionale, che è anche un dovere per chi ha le più alte responsabilità. Non dobbiamo farci deviare da falsi scandali ingigantiti ad arte. Ogni essere umano fa errori ed ha debolezze. Ogni politica, ogni scelta ha in se delle contraddizioni. E si può sbagliare sempre. Ma oggi bisogna affermare con forza che se ogni essere umano sbaglia e ha debolezze non tutti gli errori e non tutte le debolezze sono uguali. Una cosa è l´errore, altro è il crimine. Una cosa è la debolezza umana, un´altra il vizio che diviene potere in mano ad estorsori. Comprendendo e smontando la diffamazione che viene costruita su chiunque decida di criticare o opporsi a questo potere, si può resistere, si può persino difendere la libertà, la giustizia, la legalità. Non dichiarandoci migliori, ma semplicemente diversi. Rifiutando l´omologazione al ribasso, per salvare invece le ragioni della politica e le sue speranze: salvarle dal buio in cui oggi affondano, con le nostre paure.
©2010Roberto Saviano/Agenzia Santachiara
Corriere della Sera 29.9.10
Nella tana delle parole
Come si forma il linguaggio? La risposta va cercata nell’architettura del cervello
di Andrea Moro
In laboratorio Il fattore considerato determinante è la struttura dei neuroni. I progressi compiuti grazie alla collaborazione tra la linguistica e la neurobiologia
C’è una domanda che per certi versi costituisce la prima e più radicale questione che l’uomo ha posto sulla natura del linguaggio: la struttura di questo codice è in qualche modo influenzata dalla struttura del mondo o si forma in modo indipendente? Come tutte le grandi domande è facile formularla, meno facile capirne tutte le implicazioni, praticamente impossibile trovare una risposta esauriente; ma la scienza non è scienza se non riconosce il mistero, dunque non è certo questa consapevolezza a fermare il desiderio di conoscere uno dei fenomeni che più ci caratterizza, se non addirittura quello che ci caratterizza totalmente. Per capire quanto complessa sia la questione, basti pensare che certamente il linguaggio è prodotto dal nostro cervello, che è a sua volta parte del mondo, e che dunque, in un certo senso, è scontato dire che il nostro linguaggio è in qualche modo sottoposto alle leggi fisiche e biologiche che permettono lo sviluppo del cervello sia nell’individuo che nella specie. Ma ovviamente ciò che non è affatto scontato è se la struttura del codice, cioè, per esempio, le regole che a partire dalle parole danno le frasi, dipende o meno dalla struttura del cervello. È questa domanda che oggi per certi versi è ritornata ad essere al centro dell’arena, sotto i nuovi e potenti riflettori della linguistica moderna e della neuropsicologia.
Certamente nel corso dei secoli la riflessione sul linguaggio ha oscillato più volte tra le due polarizzazioni possibili. Cosa mai può aggiungere la scienza moderna rispetto a questa domanda così ingombrante ma pure così importante? La prima novità è che le nuove risposte possono solo nascere dalla collaborazione tra scienze indipendenti, in questo caso dalla linguistica e dalla neuropsicologia. Oggi possiamo contare su almeno un risultato di forte convergenza tra queste due discipline, nate con metodi e scopi diversi, ormai consolidato. E stato dimostrato, infatti, che la capacità di produrre un numero potenzialmente infinito di frasi a partire da un insieme finito di parole — capacità che possiedono tutti e solo gli esseri umani — dipende in qualche modo dalla struttura del cervello. Non solo: il fatto che tutte le lingue del mondo abbiano un nucleo di regole comuni e che alcuni tipi di regole, pur concepibili a tavolino, non si trovino mai in nessuna lingua non è più visto come un accidente storico o il risultato di una convenzione culturale ma come l’espressione dell’architettura neurobiologica del cervello.
Questo risultato, che fornisce nuovi supporti alle intuizioni maturate in seno alla linguistica nella seconda metà del novecento a partire dai lavori di Noam Chomsky, non sarebbe stato neppure immaginabile se non avessimo avuto accesso, sia pure indiretto, ad alcuni aspetti dei meccanismi neuropsicologici come ad esempio quelli misurabili con le tecniche delle neuroimmagini. Ed è proprio dalle neuroimmagini che arrivano due risultati che ripropongono la polarizzazione della quale stiamo parlando in modo inedito e affascinante. Entrambi si basano su una delle scoperte dominanti della fine del secolo scorso: l’esistenza nel cervello delle scimmie di neuroni specchio, cioè una popolazione di neuroni che si attiva sia quando si compie un’azione di tipo motorio secondo una certa intenzione (ad esempio afferrare una mela e portarsela alla bocca) sia quando la si vede (o la si sente) compiere. Questa scoperta, che fa capo al gruppo di ricerca coordinato da Giacomo Rizzolatti ha ormai dati empirici forti a favore dell’ipotesi che un sistema sostanzialmente simile a quello dei neuroni specchio delle scimmie sia presente nell’uomo.
Paradossalmente, malgrado il grandissimo interesse, da un certo punto di vista questa scoperta ci lascia, per così dire, equidistanti rispetto al problema generale della natura del linguaggio umano. Da una parte, infatti, si è capito che per comprendere frasi che esprimono azioni come afferro un coltello il cervello attiva una rete che si sovrappone sostanzialmente a quella del sistema dei neuroni specchio degli animali, suggerendo che il linguaggio si possa essere parzialmente evoluto a partire da meccanismi che sono cooptati da sistemi diversi, come appunto quello motorio e che dunque si correli in modo diretto alla struttura del mondo. Dall’altra, proprio un esame dello stesso sistema di neuroni in un recente esperimento sulla comprensione delle frasi negative porta dati nuovi a favore dell’idea che esista invece un residuo del linguaggio che non possa intrinsecamente essere ricondotto a nessuno stimolo del mondo fisico. Si è infatti osservato che quando si interpretano frasi di azione negative del tipo non afferro un coltello il sistema dei neuroni specchio viene parzialmente inibito. Ora, siccome nel mondo non esistono «fatti negativi», questo risultato conduce necessariamente ad ammettere che esistono aspetti centrali del linguaggio — e certamente la negazione, legata alla capacità di giudicare il vero o il falso è centralissima — che non possono essere derivati dalla struttura del mondo.
Siamo daccapo; anzi no. Non abbiamo risposto alla domanda centrale sulla relazione tra struttura del mondo e struttura del linguaggio ma siamo riusciti a riformularla secondo prospettive inedite e possiamo ragionevolmente aspettarci che nei prossimi anni la ricerca si concentri proprio su questi temi. Come la tartaruga per Achille, il linguaggio umano sembra inafferrabile nella sua interezza ma, lentamente, con passione, si ha l’impressione che ci si possa avvicinare almeno tanto da riuscire a guardarla negli occhi, la nostra tartaruga.
Repubblica Firenze 29.9.10
Nazionale, la replica a Bondi "Quei fondi sono già impegnati"
La direttrice: ci serve un milione. Tagli, sos dagli archivi
Ida Fontana: "Personale, spazi, soldi per le bollette: mancano impegni precisi"
di Mara Amorevoli
Non basta la soluzione Bondi, ovvero «rimodulare i fondi in giacenza e non utilizzati pari a 5.650.000 euro» per garantire il futuro e stabilità alla Biblioteca nazionale. La direttrice Ida Fontana risponde al ministro e precisa: «Non ci sono fondi in giacenza, poiché si tratta di somme già impegnate per lavori di ristrutturazione». Tuttavia si può ricorrere ad un escamotage. Dichiara la direttrice: «Su quei fondi si possono fare piccole economie. Ad esempio i bandi di gara si fanno al ribasso e questo permette dei risparmi. Ovvero di accumulare risorse che da spendere nell´immediato, se il ministro ci autorizza, per scongiurare la chiusura della Biblioteca». Una cifra che in totale, osserva Fontana, si dovrebbe aggirare sui 200-300 mila euro, un espediente per far fronte ai pagamenti e alla gestione ordinaria dei servizi dell´istituto e la suo funzionamento «Ma il nostro problema ora - prosegue - è legato ai tempi lunghi, per garantire il funzionamento delle Biblioteca ci serve un milione di euro all´anno».
Insomma per ora si tampona la falla con un provvedimento di emergenza. Ma sul futuro, «sulla mancanza assoluta di personale, di spazi e di fondi per pagare 250 mila euro l´anno di energia elettrica o 93 mila euro di tassa sui rifiuti - precisa la direttrice - mancano impegni precisi». «Una crisi che non si risolvere con continui provvedimenti tampone. Il Governo deve riconoscere le priorità rappresentate da alcune grandi istituzioni ed assicurare finanziamenti stabili» incalza il senatore Andrea Marcucci, responsabile cultura per il Pd della Toscana, rimarcando la necessità di investimenti sul patrimonio librario toscano.
Un patrimonio che è in sofferenza anche per quanto riguarda i beni archivistici toscani. Domenica prossima si terrà la giornata nazionale degli archivi aperti al pubblico, con iniziative anche in tutte le sedi toscane. L´Archivio di Stato di Firenze «è nella stessa situazione della Biblioteca nazionale - spiega una funzionaria - in questi ultimi anni ci sono stati tagli al bilancio sempre più alti e consistenti. Per l´anno prossimo si parla di un ulteriore 40% in meno che ci metterà in ginocchio. Non ci piangiamo addosso, vogliamo reagire positivamente chiedendo aiuto e partecipazione alla nostra iniziativa a tutti i cittadini». Una stessa situazione tocca la Soprintendenza archivistica regionale. «Ogni anno il budget si assottiglia. Anche per il prossimo anno si prospetta un taglio del 30% ai fondi - spiega la soprintendente Diana Toccafondi - ci difendiamo attivando rapporti con banche ed enti pubblici. Tra 5 anni, su 21 dipendenti 20 andranno in pensione: non c´è ricambio e ci chiediamo che fine faranno tutte le professionalità messe in campo fino ad oggi».