venerdì 11 luglio 2014

l’Unità 11.7.14
Domani con l’Unità
Cambiare il fiscal compact per salvare l’Italia
Nel numero di Left in edicola la battaglia per modificare le regole europee e liberare risorse per l’occupazione e il reddito dei cittadini
di Giovanni Maria Bellu


Altro che 80 euro: il bonus fiscale sarà di 200 euro al mese in più in busta paga. Poi ci saranno investimenti in welfare, infrastrutture, scuola, ricerca, cura del territorio, mobilità sostenibile. È anche previsto un aumento del 40 per cento delle pensioni minime, oltre a un reddito minimo garantito per i giovani e i precari. Sogni? Oggi certamente sì. Perché il fiscal compact ci obbliga al pareggio di bilancio. Ma se le regole cambiassero (e la sola regola fosse che il debito pubblico non deve crescere ulteriormente) potremmo disporre da subito di 34 miliardi, poi di 26 miliardi nel 2015, di 52 miliardi nel 2016, di 64 miliardi nel 2017 e di 77 miliardi nel 2018. La stima è di Riccardo Realfonzo, ordinario di Economia all’università del Sannio, uno tra i promotori di un referendum contro il fiscal compact su cui è da poco iniziata la raccolta di firme.
Un tema complesso dal punto di vista tecnico. Ma è stata proprio la resa davanti a questa complessità (il ritenere che la nostra vita fosse ormai regolata da uno strano e spietato computer sistemato da qualche parte tra Berlino e Bruxelles) a rendere ostile l’Europa a milioni di elettori. Ragionare sulle regole economiche continentali, battersi per cambiarle, è la sola strada per difendere l’idea europeista. «Dinanzi alle politiche economiche europee -scrive Sergio Cofferati nell’editoriale di apertura - la sensazione prevalente è di trovarsi davanti all’orchestrina del Titanic. Le istituzioni sono troppo impegnate nell’ordinaria amministrazione per rendersi conto dell’assoluta necessità di risposte eccezionali che marchino una netta inversione di rotta rispetto a quanto visto in questi anni». Secondo Cofferati la sacrosanta battaglia del governo per aumentare la flessibilità dei parametri rischia di non essere sufficiente: la rinegoziazione del fiscal compact è il tema da mettere subito all’ordine del giorno.
In questo numero ci occupiamo anche del dibattito a sinistra. Lo facciamo a partire da un’idea che Pippo Civati lancerà da oggi a Livorno nel suo Politicamp. Un’idea semplice: tentare di unire, almeno nel confronto, le varie anime della sinistra non attraverso una nuova tessera, ma con un “portatessere”. Un contenitore non neutro e però capace di mettere assieme identità e storie diverse. Già, ma quali storie? Per rispondere abbiamo pensato di dare un nome e un volto ad alcune delle tessere che potrebbero entrare nel portatessere civatiano. L’abbiamo fatto realizzando sette brevi ritratti di altrettanti giovani leader della sinistra, impegnati su vari fronti: dal sociale all’immigrazione, dalla difesa della legalità ai beni comuni. Non per indicare un nuovo capo (abbiamo anzi deliberatamente escluso i “leader storici”) ma per dare un’idea della complessità, e dunque anche della ricchezza, del nostro mondo.

l’Unità 11.7.14
Ai lettori
Il CdR


Meno venti. Venti giorni ancora per trasformare le parole in fatti. Venti giorni per salvare l’Unità. In tanti tra i nostri lettori ci hanno fatto sentire il loro sostegno dicendoci: «La vostra lotta è anche la nostra». Aggiungendo le loro voci a quelle dei lavoratori nell’affermare che nessuno ha più alibi. A oggi nessuna proposta concreta è stata avanzata ai liquidatori della società editrice, malgrado da mesi la crisi del giornale sia all’attenzione di diversi soggetti, politici e imprenditoriali. Si sta giocando con la vita delle persone, con il futuro di decine di famiglie. È intollerabile. Gli unici che hanno dimostrato con i fatti e con le loro prese di posizione pubbliche un senso di responsabilità, sono stati i lavoratori. Abbiamo diritto a risposte serie. Su questo non transigeremo.

l’Unità 11.7.14
l’Unità in lotta
Un giornale e il coraggio delle belle idee
di Valeria Viganò


FIORISCONO I GIORNALI ONLINE, TALVOLTA È UN BATTITO DI CIGLIA CHE NON MUOVE UNA PIUMA, altre volte sono occhi più indiscreti e onnipresenti sul mondo, altri solo emanazione rapida e mediatica del quotidiano cartaceo, altri ancora ospitano blog opinionistici di valore x o y. Si leggono notizie su notizie su notizie che si accumulano, rapide, alla fine inconsistenti nel loro elidersi a vicenda, una dopo l’altra. Il web spesso è un turbine che ci solleva dalla fatica dell’approfondimento, dell’analisi. E quando c’è, deve avere come prerogativa la brevità leggibile. Nel marasma della velocità delle notizie sul web, c’è una necessità che viene dimenticata, e che solo le pagine cartacee e ben dispiegate su un tavolo, offrono: la riflessione. Bene, tra i giornali cartacei l’Unità è stato, per un tempo lunghissimo, un particolare luogo di riflessione politica e culturale. Sebbene abbia subito amputazioni e ridimensionamenti assassini, e avuto alcune direzioni pessime, i giornalisti e i collaboratori che la abitano sono stati negli anni e sono tutt’ora persone che credono che si possa ancora pensare. E lo fanno con passione e attaccamento a un’idea di articolazione dell’elaborazione critica.
Perdere l’Unità sarebbe un omicidio perpetrato da chi riconosce la supremazia della frivolezza e dell’egocentrismo come unità di misura, da chi vuole cancellare, nella corsa insensata al conformismo culturale imperante e vincolato al mercato, la storia di un paese, della sua libertà intellettuale. Del valore intrinseco che solo chi scrive eticamente e onestamente, con preparazione, possiede. La mia esperienza di scrittura lunga più di vent’anni nelle pagine culturali de l’Unità è stata, e spero continui a essere, in un nuovo futuro vitale del giornale che ci auguriamo miracolosamente avvenga, una delle più feconde e interessanti perché ho trovato sempre interlocutori preparatissimi, aperti, curiosi e fuori dal coro delle auto o imposte celebrazioni. Per questo l’Unità è un quotidiano diverso. Non esente da discussioni e confronti, ma vivo e ancora palpitante nel drastico e drammatico taglio dipeso corpo reo che ha subito, che ha previsto ’eliminazione di rubriche di straordinario interesse, e la magrezza delle pagine. Tuttora ciò che si legge su l’Unità ha un’impronta di off main streaming, un occhio acuto che non batte le ciglia ma spalanca gli occhi. Non solo l’Unità va salvata, l’Unità va arricchita come un tempo, va irrobustita, va rilanciata. Vorrei che qualcuno, oltre la speculazione meramente economica, ci credesse e desse nuova linfa alla sua variegata ricchezza. La ricchezza dei soldi si può ammantare con la ricchezza delle idee.

Quando nacqui, nel gennaio 1955, mio padre faceva il cronista all'Unità, allora "organo ufficiale del Partito Comunista Italiano fondato da Antonio Gramsci". La lasciò l'anno successivo, tra i tanti che abbandonarono giornale e partito per i fatti d'Ungheria. Lo scrivo per spiegare cosa mi lega a quel quotidiano, che oggi se la passa male. Rischia il fallimento, ci sono soldi in cassa solo per un mese, poi va in liquidazione. Eppure soldi ne sono arrivati in questi anni all'Unità: intanto con i fondi pubblici all'editoria (3 milioni 709.854 due anni fa e 3 milioni 615.894 l'anno scorso), poi con i finanziamenti immessi dagli editori che si sono succeduti (che certo non ci hanno guadagnato), e infine con le vendite in edicola, sul web e gli abbonamenti. Già, in quanti pagano per leggere l'Unità? I dati ufficiali di Ads ci parlano di una media di 22.193 copie nello scorso mese di maggio. In linea teorica il prodotto dovrebbe tirare: in quello stesso mese di maggio 11 milioni 203.231 elettori italiani hanno votato per il partito cui l'Unità resta almeno un po' legato, pur senza esserne più "organo". Evidentemente parte di loro legge Repubblica, o il Corriere, o altri quotidiani. E soprattutto la stragrande maggioranza si informa su tv e web. E allora la considerazione è magari agra, ma non provocatoria: non avrebbe più senso cercare di proiettare l'impresa giornalistica dell'Unità, come tante altre reduci di un glorioso (e ben finanziato) passato, su altre piattaforme di diffusione? Quale è la paura, di uscire dalle rassegne stampa, o dalle dinamiche redazionali da film di Billy Wilder? O di vivere la migrazione digitale come una degradazione, una diminutio capitis, o peggio come un preludio di morte? E' come se le band musicali si ostinassero a farsi incidere sui vecchi 33 giri per paura di scomparire nel mare dei download. Che senso ha passare una vita a battersi per il cambiamento dalle colonne di un giornale, e poi avere per primi paura di cambiare?


I renziani, in combutta con Forza Italia e Lega...
l’Unità 11.7.14
Senato, accordo in extremis Da lunedì alla prova dell’aula
L’ultimo nodo sciolto dopo una giornata di tensioni: i 100 nuovi membri di Palazzo Madama saranno eletti dai consigli regionali
Finocchiaro: «Missione compiuta»
di Andrea Carugati


«Missione compiuta», sorride Anna Finocchiaro, stanchissima. Alla fine di un’altra giornata difficile, la commissione Affari costituzionali del Senato ha detto sì: approvato il disegno di legge che riforma larga parte della Costituzione, e che lunedì approda in Aula, con l’obiettivo di chiudere definitivamente entro fine luglio.
Complice anche l’infortunio di Roberto Calderoli, uno dei dominus della riforma, gli ultimi giorni sono stati segnati da slittamenti e rinvii, accordi siglati e poi saltati, emendamenti da scrivere e riscrivere, vertici improvvisi, limature. Ieri pomeriggio è stato sciolto anche il nodo più delicato, l’articolo 57 della Costituzione che determina la composizione e le modalità di elezione del nuovo Senato. I senatori verranno eletti dai consigli regionali, in base alla popolazione, minimo due per Regione (più un sindaco per ogni Regione). Saranno scelti dalle assemblee regionali con metodo proporzionale, i seggi verranno «attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio regionale». Su quest’ultimafrase la battaglia ieri è stata lunghissima, perché Calderoli e con lui Ncd si opponevano alla prima formulazione (decisa da Finocchiaro con governo e Forza Italia) che fissava come unico paletto la «composizione dei consigli regionali ». Questo meccanismo, a detta di Calderoli, «non rappresentava una vera elezione, ma una spartizione dei posti tra Pd e Forza Italia».
La norma costituzionale rinvia comunque a una specifica legge elettorale che andrà scritta per il Senato. Alla fine la maggioranza più Forza Italia e Lega si sono detti soddisfatti: il patto del Nazareno ha tenuto e, in effetti, rispetto al testo base del governo sono cambiate molte cose: molti meno sindaci, nuovi quorum per eleggere il Capo dello Stato e per i referendum, più poteri per la camera delle autonomie. «Il testo è stato migliorato e arricchito dal lungo lavoro che abbiamo fatto», spiega la presidente Finocchiaro. «Ed è stato votato da un’ampia maggioranza. Il Senato non sarà un organo inutile, avrà molti poteri di controllo. Con questa maggioranza ampia non mi aspetto sorprese in Aula ». Più brutale Calderoli, rimasto in commissione tutto ieri nonostante la brutta frattura alla vertebra: «Il testo che è arrivato qui in aprile non era democratico, questo lo è».
Il fronte M5s-Sel annuncia l’ostruzionismo. «La vergognosa contro-riforma targata Renzi porterà in Senato molti sindaci e consiglieri regionali indagati e condannati, grazie all’immunità », tuona il capogruppo Giovanni Endrizzi. «Hanno detto persino alla nostra proposta di portare a 4mila euro tutti gli stipendi dei parlamentari». Con loro anche gli ex M5s, con Francesco Campanella che paragona la riforma al parto di un «Frankenstein ubriaco». Il fronte del no comprende anche una decina di senatori Pd, guidati da Vannino Chiti, che anche ieri ha ribadito le sue critiche: «Si stanno squassando gli equilibri della Costituzione». Il fronte dei «frenatori» (copyright Mario Mauro) punterà in Aula sull’elezione diretta dei senatori, e anche su più competenze per la Camera alta, ad esempio sui temi etici e i diritti civili. Mai numeri, sulla carta, non vanno molto oltre i 70-80 no, che comprendono M5s, Sel, ex M5s, un paio di popolari, due Ncd, una decina di Forza Italia e altrettanti del Pd.
Le votazioni in Aula inizieranno mercoledì, e quasi certamente nonsi chiuderanno la prossima settimana. L’obiettivo del governo è chiudere entro fine luglio. «Penso che l’Aula concluderà l'esame prima della pausa estiva», spiega Finocchiaro. Ma ci sono varie incognite. In Aula i grillini ripresenteranno il tema dell’immunità, che nel testo approvato ieri è identica a quella dei deputati. «Deciderà l’Aula», hanno spiegato i vertici del Pd, e dunque su questo tema sono possibili sorprese. Previsti molti emendamenti per l’elezione diretta. Si annuncia battaglia anche sui quorum per i referendum (M5s non vuole 800mila firme) e sul collegio dei Grandi elettori per il capo dello Stato: molti, anche nel Pd, vorrebbero aggiungere anche gli eurodeputati, per rendere il collegio meno dipendente dal partito che vince alla Camera. Infine, c’è il tema del taglio del numero dei deputati, chiesto a gran voce da molti partiti, anche da senatori Pd. Anche su questo sarà l’Aula a dire l’ultima parola. L’altra posta in gioco è l’Italicum. Molti nervosismi dentro il Pd e tra i piccoli partiti sino dovuti proprio al combinato disposto tra un Senato ad elezione indiretta e una Camera con liste bloccate e premio di maggioranza (e soglie molto alte per entrare). La linea l’ha dettata Bersani: «Dopo il sì del Senato bisognerà riflettere sull’insieme del sistema. Non intendiamo avere un paese dove chi vince col30%decide tutto e nomina tutti io credo che bisogna dare un’aggiustata ». I grillini, che vedranno Renzi la settimana prossima, spingono per le preferenze. I bersaniani vogliono ritoccare le soglie dell’Italicum, i piccoli ieri hanno trattato col governo per abbassare le soglie d’ingresso. Ma Berlusconi intende restare ancorato al vecchio testo. Sarà battaglia. «Subito dopo le riforme affronteremo la legge elettorale», assicura il ministro Boschi.
La riforma tocca molti articoli della Costituzione: se approvata, il Senato non voterà più la fiducia ai governi, sarà composto da soli 100 senatori: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 scelti dal Quirinale per alti meriti. Vengono ridefiniti i rapporti e le competenze di Stato ed enti locali, energia, infrastrutture e turismo tornano sotto il controllo statale, ma le regioni con in conti a posto avranno ampi margini di autonomia. Finisce, dopo trent’anni di dibattiti e commissioni, il bicameralismo perfetto.

il Fatto 11.7.14
Articoli in saldo
Il giurista Massimo Villone
“È una bestemmia alla Costituzione”
Le spese reali sono gli immobili, i servizi, il personale
Usare questo pretesto per giustificare il nuovo Senato è una boiata pazzesca
intervista di Silvia Truzzi


Non sarà un Belpaese l’Italia controriformata dallo stravolgimento costituzionale. “Guai a valutare separatamente la legge elettorale e la riforma del Senato. Si azzera il Senato e pure la Camera, che attraverso l’Italicum garantisce al leader eletto un obbediente parco buoi. Il parlamento non conta più, e nemmeno l’esecutivo. Conta il leader, già si vede con il governo Renzi dove i ministri sono la sua squadra personale. Il disegno è proprio questo: un governo personale”, spiega Massimo Villone, ordinario di diritto Costituzionale all’Università Federico II di Napoli, ex senatore prima del Pds e poi dei Ds.
Professore, i cittadini non capiscono perché per sanare una situazione causata da una legge elettorale dichiarata incostituzionale se ne predisponga un’altra fortemente sospettata degli stessi limiti.
L’incostituzionalità dell’Italicum è evidente. Le censure che la corte rivolge al Porcellum su liste bloccate e premio di maggioranza valgono tal quale per il nuovo sistema. L’Italicum risponde esattamente al disegno politico e agli interessi dei due attori, Renzi e Berlusconi, che trovano la risposta a quello che, secondo loro, è il problema della competizione politica oggi. Non so se questa analisi resiste, considerando che Forza Italia non è più la seconda forza. È un sistema pensato per i due maggiori partiti: gli altri possono anche morire.
Dopo la sentenza della Corte sul Porcellum era chiaro che bisognava fare la legge elettorale, ma sarebbe stato molto più rispettoso verso i cittadini lasciar fare le riforme costituzionali a un parlamento di eletti e non di nominati.
È arroganza politica e mancanza di cultura costituzionale. Questo Parlamento manca di legittimazione sostanziale, anche se non di legittimità formale. E la maggioranza che vuole le riforme – costruita sulle norme incostituzionali la legge fondamentale in base alla quale è priva di legittimazione. Per un costituzionalista è una bestemmia contro la Carta.
Il suo collega Alessandro Pace al Fatto di ieri ha dichiarato: “Una siffatta concentrazione di poteri, in capo a un solo organo e a una sola coalizione (per non dire in capo a un solo partito e al suo leader) è impensabile in una democrazia liberale. Lo affermò esplicitamente lo stesso presidente Napolitano nel discorso per il 60° anniversario della Costituzione, allorché prese le distanze dal semipresidenzialismo francese”.
Credo che Napolitano sia genuinamente preoccupato della salute delle istituzioni, ma non si può dire “riforme comunque” . “Quali riforme” è pregiudiziale. Qui si mette in campo una cosa che non ha riscontri, nemmeno nel modello francese, che conserva la possibilità d’identità politiche diverse tra Parlamento e presidente. Nel modello che si prefigura per noi il leader è eletto sostanzialmente in modo diretto, comanda la sua maggioranza, si fa le liste, cioè porta alle Camere chi vuole. Un sistema più riduttivo degli spazi di democrazia rispetto al semipresidenzialismo e al presidenzialismo. Un’assemblea elettiva con una maggioranza prefabbricata e blindata è un vuoto simulacro di democrazia.
Renzi dice: il Senato non elettivo fa risparmiare. Non era meglio ridurre il numero complessivo dei parlamentari?
Certo. Ma era più difficile perché si disturbava la Camera, i cui numeri sopperiscono alle fragilità della maggioranza in Senato. Le indennità dei senatori – cui si aggiungono comunque i costi di permanenza a Roma – sono alla fine spiccioli. Basta leggere i bilanci del Senato per vedere che i costi veri – e questi rimangono – sono la gestione e manutenzione degli immobili, i servizi, il personale. È una boiata pazzesca.
Il premier dice anche che il sistema del bicameralismo, con la navetta tra una Camera e l’altra, fa perdere tempo.
Guardate le statistiche sul sito del Senato. La quasi totalità della produzione legislativa fa capo al governo, con decreti delegati o legge. Al voto finale per la conversione di un decreto legge si arriva in ciascuna camera in un tempo medio di 14 giorni.
L’immunità è una garanzia prevista dai padri della patria, dicono.
La garanzia originaria è stata importante per la sinistra. Un tempo, deputati e senatori si mettevano a capo delle manifestazioni perché avevano la copertura parlamentare. Poi, la garanzia è uscita dall’orbita dell’agire politico ed è entrata nei meccanismi corruttivi. Oggi, è sensato mantenere (sia per i deputati che per i senatori di seconda scelta non eletti) solo l’insindacabilità delle opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni, e forse l’autorizzazione per l’arresto, che può incidere sugli equilibri politici dell’assemblea.
Cosa succederà?
La prima lettura della legge costituzionale si svolge esattamente come una legge ordinaria, con maggioranza non qualificata. Dopo l’eventuale navetta, la prima deliberazione si chiude con l’approvazione di un identico testo. Nella seconda si può solo dire sì o no. Non ci sono emendamenti, questioni pregiudiziali, sospensive: prendere o lasciare. Dunque, si decide tutto qui e ora.

il Fatto 11.7.14
Maria Elena, l’alter ego chiacchiere e distintivo
Con il ministro Boschi il renzismo è riuscito dove il berlusconismo ha fallito:
dare credibilità istituzionale alla mera apparenza
di Daniela Ranieri


Il fatto che il ministro Boschi (a Le invasioni barbariche chiese di non esser chiamata ministra, e sia) sia insopportabile, non costituisce criterio di giudizio. Né siamo di quelli tanto accecati dalla sua bellezza da perdere lucidità d’analisi.
Se malgrado 20 anni di efferato barzellettismo al potere e a dispetto degli sforzi umoristici di Renzi la simpatia non è una categoria politica, non lo è manco l’avvenenza, su cui disse tutto l’inarrivabile manifesto Il favoloso mondo di Nicole stilato dalla consigliera regionale Minetti contro i politici bruttarelli seppur onesti e capaci.
LA BOSCHI, della cui onestà non c’è motivo di dubitare, deve ancora dimostrare la sua competenza. Se i maschi hanno fatto le peggio cose, e persino i finti miti come Forlani erano “conigli mannari”, chissà quali vette di sublime cinismo istituzionale può agevolare l’eterea determinazione di una first lady di fatto col polso della Thatcher e il volto da copertina di Lady D.
Per ora ciò che offre, nonostante il suo (?) slogan “voglio essere giudicata per le riforme e non per le forme”, non va oltre la sua immagine e una certa permalosità alle critiche, in linea col premier-Pigmalione che dal quasi nulla di una consulenza legale su cose di Firenze l’ha creata ministro e quindi madrina costituente. Appena arrivata a Roma, chiese all’Huffington Post di cancellare un articolo che la voleva a inciuciare con quelle di FI (ripresa dalla Annunziata, negò, s’impuntò, s’arrese), poi mostrò una vellutata sportività per l’imitazione della Raffaele lasciando al braccio armato del Pd twitterino l’onere di sparare a zero contro il sessismo di certa satira, mentre col sorriso accusava i “professori” come Rodotà di “bloccare le riforme da 30 anni”. Gli episodi rivelarono l’arroganza da parvenu, forse fisiologica al rodaggio istituzionale: a parte l’organizzazione della Leopolda , infatti, non risulta che Boschi abbia fatto un solo giorno di scuola o gavetta politica prima di essere messa a riscrivere la Costituzione.
Chissà se ha imparato: si può criticare i politici anche se donne, trasecolare per i provvedimenti “honcrethi”, esprimere dubbi sulla bigiotteria brillocca di un potere pieno di donne gradevoli, ma dopo 6 mesi ancora troppo istituzionalmente trasparenti e teleguidate dal carisma di un premier maschio nel senso biologico e nell’altro. Il potere la fa serena: la liturgia della stampa filo-renziana prevede una foto di lei che avanza gioconda dal fondo in primo piano, o da sinistra verso destra, o esce da Palazzo Chigi in beige, col telefono in mano; sotto, una scritta, come nei santini. Mentre i fashion blog commentano i suoi completi Zara, lei sorvola con sprezzatura sul pasticcio dell’immunità per i neo-senatori (“non la volevo”); intanto con falcate assertive da red carpet sfila in Transatlantico, davanti a quella Camera dove andò a dire tutto d’un fiato che il Pd crede nella presunzione d’innocenza e perciò distribuisce nomine tra gli indagati.
La Boschi è la punta di diamante del new deal informato sul modello del gineceo al lavoro, rispettabile e glam. Non la mandammo noi in Congo a prendere i bambini adottati trasformando il volo nella fiera della photo opportunity, ma Renzi. Che non spedì i ministri competenti Alfano o Mogherini né la sua legittima moglie come usa nelle monarchie e in America, ma appunto lei, riconoscendole la telegenia quale dote più chiara, con una mossa di squisita, machiavellica marca politica.
Fisiognomicamente speculare alla Santanchè, lei articola concetti istituzionali scostandosi una ciocca di capelli dagli occhioni, rimarcando con pedanteria da esame biennalizzato una implicita differenza rispetto alle donne di quel regno burlesco di cui B. era signore e schiavo, fatte bersaglio delle peggiori illazioni da quegli stessi che oggi agitano il vessillo delle quote rosa.
Certo il renzismo è riuscito dove il berlusconismo ha fallito, anche nel dare credibilità istituzionale alla mera apparenza.
LA BOSCHI, ambizioso alter ego mitologico di Renzi e sua faccia “secchiona” (ipse dixit), si intesta fiera il ddl sul Senato che rischiava di passare come il Finocchiaro-Calderoli e lo gnommero della legge elettorale scritta con Verdini, presentando un dossier-emendamento inverosimile (capilista nominati e candidati scelti con preferenze per chi vince le elezioni; per gli altri, liste bloccate) che ha fatto arrabbiare le frattaglie riottose del Pd e dato a noi l’impressione che la ragazza punti al potere vero e non a quello rosaquotato applicandosi sulla Costituzione con lo stesso corruccio fanciullesco di quando da bambina montava la cucina di Barbie. Certo ha distolto l’attenzione dalle altre insensatezze contenute nel suo testo e questo, lo ammettiamo, è un risultato politico. Antipatica, caruccia, inesperta: al momento, l’unica che potrebbe farle ombra è Francesca Pascale.

il Fatto 11.7.14
Palazzo Madama, il governo ci mette un’altra toppa
Lunedì il testo in aula, ma sul sistema di voto si attende una legge ad hoc
di Wanda Marra


Non ho paura del voto dell’Aula perché se al Senato ci sarà qualcuno che vuole frenare....”. Palazzo Chigi, conferenza stampa post-Cdm. Lascia in sospeso la frase Matteo Renzi. Gli avvertimenti, nei giorni scorsi, si sono sprecati. Dalle elezioni anticipate in giù. Ma tutto sommato fa fede la prima parte, perché il premier lo dice e lo ripete più volte: “Oggi è stata una giornata importante, segnata dal sì in Commissione Affari Costituzionali alle riforme”. Mette i puntini sulle “i”: “È assurdo parlare di torsione autoritaria”. D’altra parte, “la gente vuole la speranza. È il pensiero che ho la sera quando vado a dormire e la mattina quando mi sveglio”. Perché “se corrispondiamo alla speranza l’Italia torna a crescere, se alimentiamo lo scetticismo, la stanchezza, la rabbia, tradiremo la fiducia”. Il racconto è chiarissimo, la determinazione è forte. Pazienza se la strada delle grandi riforme sia stata lastricata di incidenti e di intoppi e che lo sarà ancora.
CHE SPERANZA sia, dunque. Ieri il Senato ha vissuto l’ennesima giornata rocambolesca e convulsa. Complice un emendamento sull’elettività dei nuovi senatori, il nodo centrale. Si dovrebbe essere agli ultimi sgoccioli in Commissione quando Roberto Calderoli - in forma smagliante e combattiva, nonostante la mano ingessata - ritira la firma dal testo in cui si dice che i membri della nuova Camera verranno eletti con sistema proporzionale, “tenuto conto della consistenza dei gruppi parlamentari”. Insieme alla Lega, sul piede di guerra c’è Ncd: questo significherebbe che non è possibile per i partiti piccoli avere alcun senatore. Non solo: detta così, sembra pure che a designarli saranno i capigruppo. Riparte il pallottoliere dei no, si contano tutte le assi possibili della dissidenza. Ma il governo lavora indefessamente a una mediazione. “Così è un iper-Porcellum”, commenta Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia, uno dei presunti dissidenti dem. Affonda: “Non ci sto a farmi dare del gufo. Un presidente del Consiglio dovrebbe fare un uso più attento delle parole. Discuta del merito”. Augusto Minzolini annuncia la richiesta con 25 firme di rimandare ulteriormente il voto in Aula. Il Pd Miguel Gotor diffonde interpretazioni: “Vogliono arrivare in Aula in concomitanza con la sentenza della Corte d’Appello su Ruby”. Ore concitate. Poi, ecco l’accordo (o l’accrocco): “I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun consiglio”. Si terrà conto non solo dei seggi effettivamente conquistati dai singoli partiti, con ogni legge regionale, grazie al premio di maggioranza, ma anche dei voti. FI su questo non ha mollato, consapevole della sua debolezza sui territori. E dunque, da una parte in Costituzione si mettono dei paletti di una precisione inedita, per il sistema elettorale, dall’altra si rimanda tutto ancora una volta a una legge ordinaria.
FINE dei listini bloccati? Insomma. In sede di prima applicazione (prima che la legge sia fatta), si prevede che “ogni consigliere può votare per una sola lista di candidati, formata da consiglieri e da sindaci dei rispettivi territori” . Esce Quagliariello, rivendicando la vittoria. Esce la Finocchiaro, ribadendo il lavoro svolto. Chi gongola però è Calderoli: “Gli accordi bilaterali non reggono quando scrivi la Costituzione”. Il riferimento al Patto del Nazareno non è puramente casuale. Giocando di sponda con Minzolini, facendo pressioni sul governo, alleandosi con Ncd ha ottenuto un certo peso. Ma poi sono giochi incrociati, come dicono tutti in Senato: il punto è l’Italicum. La guerra alle soglie di entrata troppo basse per i piccoli condotta da Ncd è capitanata da Calderoli. Non a caso Renzi in conferenza stampa gli “regala” un ringraziamento speciale: “Per la straordinaria tenacia che ha dimostrato arrivando persino ingessato a darci una mano”. Lui aveva detto: “Gridare al lupo al lupo è servito”. Tanto che continua: “In Aula presenterò delle modifiche”. Trattativa Renzi-Lega evidentemente aperta. Lunedì comunque, forte del mandato della Commissione ai relatori, il testo arriva in Aula. Si comincia a votare mercoledì. Tra dissidenti dem, bersaniani un po’ ribelli, frondisti di Fi, leghisti frizzanti, e neocentristi preoccupati sarà tutto da vedere. “Al Senato ci verranno contro sulle riforme? Non credo”, dice il premier. “Stiamo dando un grande segnale di cambiamento al paese: stiamo dicendo che l’Italia può cambiare e che alcuni tabù possono esser vinti”. Poi se la prende con chi critica e basta. “Oggi mentre facevo ginnastica, ho sentito alcune trasmissioni del mattino che parlano solo delle cose che non vanno". Omnibus e Agorà sono avvertiti.

La Stampa 11.7.14
Nuovo Senato, ecco cosa cambia
La tensione resta alta. In sintesi i punti del decreto legge

qui

il Fatto 11.7.14
Stato di confusione
Il nodo dell’elezione, in arrivo 95 “nominati” dalle Regioni


IL PASTICCIO di ieri in commissione Affari costituzionali del Senato è scoppiato sui metodi di elezione della nuova assise di Palazzo Madama. La formulazione del testo della relatrice Anna Finocchiaro prevedeva che i seggi per l’elezione del nuovo Senato fossero attribuiti “con sistema proporzionale, tenuto conto anche della composizione del Consiglio regionale”. Ncd e Lega si sono messi sulle barricate, Calderoli che ha ritirato la propria firma dal provvedimento ha spiegato: “Così come è impostata, che i consiglieri votino o non votino non cambia nulla, né sul numero di coloro che andranno in Senato né su chi vi andrà. Chi sceglie? Sceglie il capogruppo. Neanche in Russia succede così”. Dovendo infatti rispettare la proporzionalità, e non prevedendo un voto, non si tratterebbe più di una elezione (seppur di secondo livello), ma di una nomina. Il testo, così come riformulato dai relatori dopo le proteste di Lega e Ncd (peraltro ancora passibile di modifica da parte dell’aula), inserisce un listino attraverso cui eleggere i senatori spettanti alla regione. Calderoli annuncia comunque modifiche in aula. Si discute anche di una futura legge elettorale per il Senato.

il Fatto 11.7.14
Grasso, l’ultimo chiude il Senato
Il presidente che aveva avvertito “resti un’assemblea elettiva”
Ora è costretto a rispettare i tempi stretti del rottamatore pressato anche dall’ansia di Napolitano al Quirinale
di Fabrizio d’Esposito


La solitudine di Pietro Grasso. Dalla resistenza alla rassegnazione, al quasi silenzio. Il Senato sta morendo per mano del renzusconismo, letale sintesi tra lo Spregiudicato e il Pregiudicato, e il siculo Grasso è costretto ad assistere passivamente al funerale della creatura che presiede. I nuovi e vecchi “saggi”, da Calderoli a Boschi, che compulsano testi, emendamenti, scadenze e direttive lo trattano con istituzionale sufficienza. Come se la seconda carica dello Stato, presidente della Repubblica supplente in caso di necessità, fosse una semplice formalità tra loro e il Cambiamento annunciato. Lui, a dire il vero, prova ad avere quantomeno un sussulto d’orgoglio. L’ultimo ieri, quando è stato chiaro a tutti che l’ulteriore fretta dei rivoluzionari del Nazareno stava provocando un mezzo pasticcio. La seduta è durata meno di trenta minuti e questo è stato il botta e risposta finale tra Grasso e Calderoli, dopo uno spassoso minuetto sul braccio ingessato del senatore leghista. Calderoli: “Signor Presidente, volevo segnalarle che i relatori ritengono che data e orario definiti per l’attività emendativa possano e debbano essere riconfermati. Così ha deciso la commissione all’unanimità. Pertanto, salvo restando qualunque evento eccezionale, ritengo che la data stabilita sia congrua con i tempi prefissati”. Secca e infastidita la risposta di Grasso: “La ringrazio, anche se i poteri su questo non li ha la commissione ma il presidente”.
UN SEGNALE di ribellione, un dettaglio nei resoconti parlamentari, ma che misura il mal di pancia del magistrato antimafia scelto a suo tempo da Bersani. Altra era geopolitica. Il renzismo non fa prigionieri e lui è condannato a chiudere per sempre la porta di Palazzo Madama. Malachia predisse che l’ultimo papa della storia si chiamerà Pietro II, come il principe degli apostoli. Ecco, Grasso si chiama Pietro e sarà l’ultimo presidente del Senato secondo la profezia di Matteo. È stato lasciato solo anche da Giorgio Napolitano. Anche il Monarca del Quirinale vuole fare subito e il povero “Pietro” è costretto finanche a smentire la notizia di un incontro con il capo dello Stato.
Alle cinque del pomeriggio, la seduta è già tolta. In Transatlantico passano i protagonisti della battaglia rivoluzionaria. Nessuno si cura di Grasso. Nessuno parla di lui. Per i democratici il vero presidente in questo frangente, garante del patto con il Condannato, è il canuto Luigi Zanda, capogruppo. “Ieri sera (mercoledì per chi legge, ndr) è stato Zanda a imporre l’accelerazione di oggi. Grasso si è adeguato”. A sua volta a premere sul capogruppo democratico sarebbe stata Maria Elena Boschi, onnipresente vestale del renzismo. La cinghia di trasmissione della rivoluzione che cambia verso al Senato è questa. Grasso è l’ultima rotella del meccanismo. Alla fine di marzo non sembrava così. Con un’intervistona a Repubblica, house organ del renzismo, il presidente di Palazzo Madama mostrava il petto ai fucilatori del nuovo corso democratico: “Non abolite il Senato, resti un’assemblea elettiva”. Parole che ancora oggi vengono tradotte crudelmente nei capannelli dei senatori: “Diciamo la verità, quando Grasso è stato eletto non conosceva nulla di questo posto. Si è consegnato all’amministrazione del Senato che oggi è in prima fila nella resistenza della conservazione”.
IN OGNI CASO a rimettere al suo posto Grasso, pubblico ministero che ha fatto la guerra alle cosche, ci pensò la gentile vicesegretaria del Pd, Debora Serracchiani, che gli ricordò il neocentralismo renziano: “Grasso è un presidente di garanzia ma credo anche che, essendo stato eletto nel Pd, debba accettarne le indicazioni”. Vero in parte. Perché Grasso la spuntò su Schifani grazie ai voti grillini. Nel Movimento 5 Stelle scoppiò il primo casino sul soccorso amico ma poi i rapporti si sono distesi, se non ribaltati. Il feeling con M5S è costante e reciproco e forse questo è l’unico tesoretto accumulato dal presidente del Senato nella funesta corsa verso la distruzione del vecchio Senato.
A meno che la rassegnazione di questi giorni non nasconda il prezzo da pagare per l’ambizione mai sopita di farsi issare quando sarà sul trono del Quirinale. Prima o poi il patto del Nazareno approderà all’inciucio finale sul nuovo capo dello Stato (ah, quante grazie da reclamare) e Grasso potrebbe essere un candidato autorevole. In fondo, politicamente, è giovane ed è adattabile alle stagioni che passano. E l’onta di essere l’ultimo presidente, una sorta di Madamazo brasiliano, diventerà un peccatuccio veniale

La Stampa 11.7.14
L’inizio di una nuova transizione
di Marcello Sorgi

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La Stampa 10.7.14
Riforme, si allunga sempre più la lista dei mal di pancia
Chi sono, e cosa vogliono, tutti i potenziali no trasversali a Renzi-Berlusconi
di Jacopo Iacoboni

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Corriere 11.7.14
L’intesa in extremis non cancella il timore di altre resistenze
di Massimo Franco


È un messaggio bifronte, quello arrivato ieri dal Senato: di responsabilità e di confusione. L’accordo in extremis in commissione sulla riforma di Palazzo Madama apre la strada alla sua approvazione. Ma non cancella del tutto le incognite sulla tenuta dell’asse tra maggioranza e Forza Italia: se non altro per quanto è successo tra la mattina e il pomeriggio. Ha rischiato di scricchiolare l’intera impalcatura con la quale Matteo Renzi ha puntellato finora la sua ascesa. Il rilancio in conferenza-stampa contro la burocrazia è figlio delle tensioni nelle ore precedenti. Si riprende lunedì al Senato, dopo mediazioni affannose. Ma la situazione non è pacificata. Rimangono spinte centrifughe trasversali, e non solo.
Sono rispuntate le resistenze del Nuovo centrodestra e della Lega sull’elezione dei senatori a livello regionale. Al punto da far dire all’esponente del M5S, Luigi Di Maio: «L’asse Pd-FI si sta sfasciando». Probabilmente, però, è una speranza. La durezza con la quale Renzi evoca la prospettiva di un voto anticipato è fatta per piegare le ultime riserve. E Denis Verdini, anello di congiunzione tra Silvio Berlusconi e il premier, ieri ha ribadito che i patti vanno rispettati; e che i senatori per il «no» alla fine saranno meno di 22. Nella riunione di tutti i parlamentari di FI, fissata per martedì, l’ex premier dovrebbe ottenere dunque il «sì» dei gruppi da offrire a Palazzo Chigi.
Non si possono escludere altri ritardi e colpi di coda. Ieri la commissione Affari costituzionali ha «vistato» il testo finale dopo le limature di Anna Finocchiaro e di Roberto Calderoli. Ma la proposta del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, subirà in aula nuovi tentativi di sabotaggio da un fronte trasversale che non vuole un «Senato Frankenstein», nella metafora di M5S. Al di là di ogni polemica tra «conservatori» e «riformisti», il problema sono gli obiettivi del premier. Il timore degli avversari è che stiano arrivando segnali a ripetizione su una manovra correttiva in autunno; e che Renzi la voglia evitare.
La freddezza delle istituzioni europee di fronte alle richieste di flessibilità sulla spesa pubblica avanzate dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, promette male. E l’invito a fare «riforme strutturali», spedito ieri dal presidente della Bce, Mario Draghi, ai Paesi dell’Eurozona, conferma che si è ancora immersi nella crisi. La preoccupazione è che il ridimensionamento del Senato e, dopo l’estate, la modifica del sistema elettorale, non portino alla stabilizzazione della legislatura ma alle urne. Con un processo un po’ strumentale alle intenzioni di Renzi, la tesi di chi lo osteggia è che sarebbe un modo per rinviare la manovra al 2015; per poi farla, forte di un mandato politico pieno.
Ma questo ragionamento ha l’unico effetto di frenare la strategia della velocità che Renzi persegue con tenacia; e di alimentare i dubbi sulle sue reali capacità di governo. Nel numero di oggi, il settimanale britannico The Economist si chiede se il premier riuscirà davvero a salvare l’economia italiana. E addita il rischio che venga percepito come un «Berlusconi della sinistra». Palazzo Chigi tenta l’ultima accelerazione con il placet di Giorgio Napolitano, che aspetta di vedere nei prossimi giorni un Senato trasformato: la prima riforma realizzata dopo anni di appelli inascoltati del capo dello Stato.

l’Unità 11.7.14
Berlusconi vuole chiudere prima della sentenza Ruby
Romani svela il piano: «In un percorso di pacificazione ci sta anche la grazia...»
L’ex Cav: «Renzi è un interlocutore anche sulla giustizia»
Verdini in missione per convincere i frondisti: «Chi è contro la riforma è contro Silvio»


Fronda o non fronda, Berlusconi il suo vero obiettivo sembra averlo centrato: il voto finale dell’Aula del Senato sulla riforma costituzionale cadrà proprio in concomitanza con la sentenza d’appello sul processo Ruby. Tra il 18 e il 23-24 luglio. Una coincidenza nient’affatto casuale, che spiega meglio di tanti cavilli e latinorum le ultime contorsioni dei lavori in commissione Affari costituzionali. Con emendamenti scritti e riscritti, accordi raggiunti e poi evaporati, subemendamenti che spuntavano fuori all’ultimo per rallentare i lavori. «È da almeno un mese che questo disegno dell’ex Cavaliere appare chiaro: non lo vede solo chi non lo vuole vedere», ragiona il deputato Pd Miguel Gotor.
Non c’è solo una coincidenza temporale. La recente assoluzione di Confalonieri e Piersilvio nel processo Mediatrade ha convinto Berlusconi che l’assedio giudiziario può finire, o almeno attenuarsi. E l’ha convinto su quella strategia che, in fondo, Alfano e Quagliariello gli suggerivano fin dai tempi della scissione: «Solo con un atteggiamento responsabile si può sperare di ottenere qualcosa sul fronte giudiziario ». Nell’autunno scorso, la posta in gioco era il sostegno al governo Letta. Ora c’è il patto del Nazareno con Renzi, riforme istituzionali e legge elettorale, che stanno tanto a cuore anche al Quirinale. Se tutto andasse in porto, spiega la colomba Paolo Romani, «dentro un percorso di pacificazione nazionale ci sta anche la grazia...».Ma senza riforme, con uno strappo brutale dopo tanto lavoro fatto sull’Italicum e sulla riforma del Senato, è impossibile anche solo pensarci.
Il Cavaliere vorrebbe chiudere la partita sul Senato prima della sentenza. Per apparire come un «padre della Patria» che, come tale, non dovrebbe essere vessato dai giudici. E così il cammino in Aula della riforma, da parte di Forza Italia, non dovrebbe subire ulteriori rallentamenti. Anzi, da mercoledì si vota e i forzisti, ribelli a parte, marceranno come un sol uomo. Paolo Romani, capo dei senatori, ieri ha smontato la fronda di Minzolini, che l’ex direttore del Tg1 accredita oltre i 20 senatori, gli stessi che ieri hanno chiesto di rinviare l’approdo in Aula delle riforme. «Molti di loro si atterranno alle indicazioni del partito», ha detto al termine della riunione dei senatori. Summit a cui ha partecipato anche Denis Verdini, che si è spinto persino oltre: «Sul voto non ci sarà dissidenza. Tra i nostri ci sono opinioni diverse, non dissidenza. Il Patto del Nazareno verrà assolutamente rispettato». «Chi è contro la riforma è contro Silvio», così Verdini ha arringato i ribelli.
Certo, Forza Italia somiglia a un Vietnam, come capita a tutti i partiti con un leader a fine ciclo. Ma il Cavaliere, dopo aver tolto il sostegno a Letta dopo la condanna dell’estate 2013, ha deciso di cambiare strategia. «Anche in caso di condanna su Ruby, il patto con Renzi è l’unica ciambella a cui possiamo restare attaccati senza finire fuori dai giochi», spiega una fonte forzista. Dunque martedì, prima del voto in Aula, ci sarà l’ultima assemblea di deputati e senatori: chi si vorrà sfogare lo farà, «poi il presidente Berlusconi trarrà le conclusioni, noi non siamo abituati a votare», taglia corto Romani. Conclusioni già anticipate ieri nel pranzo con gli eletti in Europa: «Non possiamo tirarci fuori, anche se questo testo non è il migliore possibile. Renzi ci ha riconosciuto un ruolo di interlocutori che continuerà anche sulla riforma della giustizia», ha detto l’ex Cavaliere.
Il fronte del no, quello degli autodefiniti «frenatori», dunque sembra assottigliarsi. Nel Pd non arriveranno a dieci i senatori che non voteranno la riforma. In maggioranza ci sono poi un paio di Ndc, e i popolari Mario Mauro e Tito Di Maggio. Numeri che, alla fine, non faranno traballare la maggioranza. Tanto i due terzi sono necessari sono nelle a terza e quarta votazione. Sulle barricate restano M5s e Sel, e con loro anche Vannino Chiti e Paolo Corsini, Corradino Mineo e Walter Tocci. In Aula annunciano battaglia, e non mancheranno le scintille. «Noi useremo tutte le possibilità che ci offre il regolamento per fermare questo pasticcio », dice Loredana De Petris di Sel. Significa una cosa sola: ostruzionismo.

Repubblica 11.7.14
l fantasma del processo Ruby: “Silvio condannato e salta tutto”
di Francesco Bei


ROMA. Cosa c’entra una ragazza marocchina con il processo costituente in corso al Senato? Molto, moltissimo se si chiama Ruby El Mahroug. Perché è proprio al giudizio d’appello in corso a Milano nei confronti di Silvio Berlusconi che tutti - i frondisti Pd in primis - rivolgevano ieri gli occhi per capire che fine farà la riforma Renzi. Il 18 luglio i magistrati si chiuderanno infatti in camera di consiglio per decidere se confermare la condanna a sette anni. E nelle stesse ore, a Palazzo Madama, i senatori saranno impegnati nei voti finali sul disegno di legge Delrio-Boschi: tra renziani e ribelli è già partita una gara che intreccia questa scadenza fatidica. «Il nostro obiettivo - confida sottovoce in Transatlantico il dem Paolo Corsini a Pino Pisicchio - è tirarla per le lunghe fino al 18 luglio. Poi cosa accadrà in caso di condanna di Berlusconi? Forza Italia salterà in aria e tutto potrà essere rimesso in discussione».
Il premier è il primo a essere consapevole di questo rischio. Si spiega così l’insistenza con la quale il ministro Boschi ha spinto ieri fino all’ultimo affinché il testo fosse incardinato in aula il prima possibile, senza ulteriori rinvii. Proprio un ragionamento sulla giustizia del resto è quello che ha tenuto banco ieri mattina a palazzo Grazioli tra Berlusconi, Verdini, e Ghedini. Un vertice che è servito a ribadire una convinzione che nel leader forzista si è fatta certezza. Quella relativa alla grazia. «L’unica speranza per avere la grazia - spiega un forzista vicino al cerchio magico - è restare seduti al tavolo delle riforme. Dopo aver riscritto il Senato e il Titolo V passeremo alla giustizia. A quel punto sarà Renzi stesso a spendersi per non farmi andare in galera ». Il nuovo corso garantista del Pd sta facendo ben sperare Berlusconi. Sulla soglia degli ottant’anni, con un premier non ostile a Palazzo Chigi e la riforma della giustizia scritta a quattro mani con il Pd, anche la condizione posta nel 2013 da Napolitano - il temuto passo indietro dalla politica - diventerebbe meno oneroso. Ma sono discorsi che gli uomini più vicini al leader accettano malvolentieri di fare, quasi che il solo parlarne potesse compromettere l’operazione. Intanto c’è da portare a casa il risultato sulle riforme. Un obiettivo per niente scontato. Come si è visto ieri mattina, quando in commissione l’accordo faticosamente raggiunto è sembrato sfumare per un’alzata di sopracciglio di Roberto Calderoli. Il fatto è che il relatore leghista si era accorto di un dettaglio non secondario nascosto in un emendamento concordato nel triangolo Pd-Governo-ForzaItalia.
L’emendamento su cui Paolo Romani, il ministro Boschi e Anna Finocchiaro avevano trovato l’intesa soddisfaceva pienamente gli «azzurri» e i democratici, ma poteva rivelarsi una minaccia per tutti gli altri. Il meccanismo prevedeva che in ogni consiglio regionale i senatori fossero nominati da ciascun gruppo «proporzionalmente» alla loro consistenza. Visto che ogni regione manderà a Roma solo pochi senatori, è chiaro che Pd, Fi e M5s si sarebbero accaparrati tutti i posti disponibili. Calderoli, tornato a Roma dopo un ricovero in ospedale, appena ha capito l’inghippo ha fatto sal- tare tutto ritirando la sua firma e portandosi dietro anche Ncd e Sel. Da qui l’estenuante mediazione durata tutto il pomeriggio tra Finocchiaro, Boschi, Calderoli e i capigruppo di maggioranza. Fino alla vittoria finale del fronte dei piccoli. «Qualcuno oggi ha dovuto calare le braghe », ghignava soddisfatto Calderoli a fine giornata. Ma dietro il braccio di ferro sull’emendamento si è iniziato a giocare il primo tempo di un’altra partita, ancora più importante. Quella della nuova legge elettorale. Raccontano infatti che sia stato proprio l’Italicum il convitato di pietra al tavolo delle riforme. Lega e Ncd sono tornati alla carica sulle soglie di sbarramento troppo elevate: sia quelle interne alla coalizione sia quella per i partiti che si presentano da soli. Tutto si tiene. Vista la fronda interna al Pd e a Forza Italia, Renzi ha bisogno dei voti di Alfano e di Salvini per far passare l’abolizione del Senato elettivo. In cambio i piccoli gli hanno chiesto di modificare l’Italicum.
A complicare ulteriormente il cammino della riforma ci si mette la discussione interna a Forza Italia, dove ieri è finalmente venuto allo scoperto il fronte ribelle con una richiesta, firmata da 22 senatori e rivolta al presidente Grasso, di rimandare di un giorno la discussione in aula della riforma Renzi. Numeri consistenti, che hanno costretto Denis Verdini a intervenire nell’assemblea dei senatori per ribadire la volontà del capo. Con toni perentori: «I patti si rispettano dalla A alla Zeta. Chi è contrario sappia che mette in discussione una decisione presa da Berlusconi ». Ad affrontare a muso duro Verdini ci si è messa Cinzia Bonfrisco. «Verdini dice che Berlusconi vuole questa riforma. Ma io lo voglio sentir dire da lui in assemblea, poi mi regolerò». Insomma, la situazione interna resta tesa. E lo ha dimostrato anche il pranzo con gli eurodeputati a Palazzo Grazioli, occasione colta da Raffaele Fitto per ribadire al leader tutte le perplessità sulla «fretta da Gran Premio di Formula 1» con cui il premier vuole archiviare la pratica Senato. Da domani al 18 luglio ogni giorno sarà sudato.

La Stampa 11.7.14
Il Cavaliere frena sui tempi agitato dal “piano B di Matteo”
Il premier vuole il voto 2015? Verdini rassicura, ma Silvio teme
di Ugo Magri

qui

l’Unità 11.7.14
dall’articolo di Maria Zegarelli

Renzi: «Quando sento dire che stiamo andando verso una deriva autoritaria mi scappa un sorriso»
Corradino Mineo non molla. «Caro Matteo Renzi forse sei ancora in tempo. Straccia l’accordo del Nazareno, convoca Vannino Chiti e salva la riforma e non solo».
Pippo Civati va oltre, dice che sarà difficile restare nel Pd se diventerà «il Pdr», cioè il partito di Renzi.

Corriere 11.7.14
E Bettini apre le porte del Pd ai delusi di Sel e Scelta civica


ROMA — Costruire un «campo largo», dice Goffredo Bettini. «Aprire le porte del Pd», conferma Matteo Orfini. E non è un caso che al convegno di «Campo democratico» abbiano partecipato esponenti esterni al Pd, in rotta di avvicinamento al partito di Matteo Renzi: al Tempio di Adriano ieri erano presenti Andrea Romano (di Scelta civica), Gennaro Migliore (ex di Sel) ed Enrico Boselli (socialista). Prove tecniche di allargamento del partito, senza mettere in discussione la leadership di Matteo Renzi. Perché è vero che rimane, dice Bettini, «la distanza culturale e perfino antropologica». Ed è vero, come dice Boselli, che «c’è imbarazzo a parlare di Pd, sembra sempre che si voglia fare un inchino a Renzi». Ma è anche vero che c’è da prendere atto di una «vittoria storica», che testimonia, dice Bettini, «il ritorno in campo della responsabilità in politica». Il prezzo da pagare al rinnovamento è stato il decisionismo. Ma occorre avere coraggio, dice Orfini: «Se avessimo chiesto agli italiani in un referendum se volevano Letta o Renzi, avrebbero scelto il primo. È stata una scelta dolorosa, ma è stato giusto così».

Corriere 11.7.14
Bertinotti non si scusi per una festa di troppo
di Pierluigi Battista


In un’intervista ad Antonello Caporale per il Fatto quotidiano Fausto Bertinotti dice, pentendosene, di essere stato danneggiato dall’aria un po’ festaiola cui si è abbandonato negli anni in cui era il leader di una parte della sinistra. Quelle frequentazioni trasversali, quelle terrazze, quel suo presidiare il mondo che il grande Umberto Pizzi avrebbe immortalato nel suo «Cafonal», persino il cachemire (che però Bertinotti smentisce di indossare con predilezione), tutto questo avrebbe compromesso la sua immagine, e avrebbe addirittura contribuito alla sua sconfitta. Alberto Sordi, in una delle sue memorabili performance, lamentava di essere stato rovinato dalla «malattia». Bertinotti dalle «feste». Ma la sua è una «excusatio non petita». Ma davvero, ci si deve scusare per aver frequentato innocenti feste conviviali? E davvero il destino politico di Bertinotti ha subito la cattiva impressione che i media pettegoli e gossipari si sono fatti di lui? Nella stessa intervista Bertinotti parla con spietato realismo del collasso epocale della sinistra. Sostiene che siamo tornati all’Ottocento, che i diritti dei lavoratori tornano ad essere calpestati come nel secolo di Dickens. Una catastrofe. Una disfatta apocalittica. Un tuffo all’indietro di dimensioni colossali. Ora è difficile che la portata di una tale sconfitta sia associabile alla frequentazione spensierata di qualche cocktail. Anzi, la disponibilità dei coniugi Bertinotti a mescolarsi in modo «trasversale» ha rappresentato quasi un’oasi di relativa trasgressione nel clima di militarizzazione bipolarista degli animi lungo tutti gli anni della Seconda Repubblica, in cui era vietatissimo, o comunque esposto alla riprovazione dei virtuosi, far entrare in contatto mondi opposti e in conflitto. La catastrofe della sinistra d’antan, in tutta Europa, è invece la cifra di un mondo in cui quel linguaggio non sembra appartenere all’Ottocento, ma ad un’era giurassica. In questo mondo il lessico di Bertinotti è stato travolto, non in qualche terrazza romana. Non c’è da chiedere scusa per un drink. Solo riflettere su un mondo che non c’è più.

Repubblica 11.7.14
Il nodo dell’Italicum
di Gianluigi Pellegrino


TEMPI rispettati, dopo una giornata di passione. Antipasto del fuoco incrociato che attende in aula la riforma del Senato. In realtà, quanto ai mal di pancia, si scrive Senato ma si legge Italicum. Perché sono lì i veri nodi da sciogliere, sia per le opposizioni strumentali che per le critiche di merito. Del resto se la revisione costituzionale richiede ben quattro letture con accessorio referendum confermativo, al contrario la legge elettorale è norma ordinaria ed è già passata alla Camera; e se Renzi tiene fede agli impegni verrà approvata in via definitiva al più tardi in autunno. Ed è lì che si morde nella carne viva dei partiti; come per altro verso è sempre lì che prende corpo la spina dorsale, il cuore pulsante di una democrazia rappresentativa. Come abbiamo tristemente sperimentato con il Porcellum, se quella norma fonda- mentale è paludosa e poco democratica, basta da sola a svilire un intero sistema, fiaccandone l’autorevolezza e il reciproco riconoscimento tra cittadini e istituzioni. E se non assicura governabilità, crea confusione, discredito internazionale e ancora una volta disaffezione.
Per questo l’assetto finale della legge elettorale risulta decisivo sia per il giudizio complessivo che è giusto esprimere nel combinato con il nuovo Senato, sia per le pretese di vario cabotaggio che accampano i diversi partiti.
Per averne un assaggio basti considerare quanto incomprensibile fosse apparso ieri mattina l’improvviso stop imposto da Calderoli e Nuovo Centrodestra che non a caso si è rivelato in poche ore una tempesta in un bicchier d’acqua, facendo giustamente pensare che il segnale fosse ancora una volta al negoziato sulle soglie di ingresso dell’attuale testo dell’Italicum. Ma i contenuti della nuova legge elettorale sono decisivi anche per le meno prosaiche obiezioni costruttive e di merito sul complessivo pacchetto di riforma.
Ci sono ovviamente più modi di riformare l’ordinamento istituzionale. Ma è chiaro che quanto più si accentua giustamente il supera- mento del bicameralismo perfetto e si scarta l’opzione per un Senato delle garanzie, preferendo una espressione di secondo grado dei consigli regionali, tanto più il sistema di elezione dell’unica Camera rappresentativa della sovranità popolare, deve risultare frutto di una mediazione alta tra le diverse esigenze da comporre e non di un compromesso al ribasso. E ciò soprattutto dopo dieci anni devastazione democratica e di svilimento del Parlamento causato dalla peggiore legge elettorale che una democrazia moderna abbia mai conosciuto. E non rassicura certo che rechi la firma del medesimo Calderoli.
Qui la faglia che nei giorni scorsi si è visibilmente aperta nel Movimento 5 stelle e che ha trovato plastica conferma nei dieci punti del documento dove convivono chiare provocazioni e virtuose proposte costruttive, non deve essere respinta, agevolandone una deteriore ricomposizione su radicali posizioni disfattiste, ma anzi deve essere coltivata e raccolta. Non solo per sfuggire all’intesa obbligata con Berlusconi e Verdini, che c’è sempre il rischio che perseguano obiettivi obliqui, ma perché la parte costruens delle proposte pentastellate può solo giovare all’Italicum. L’accettazione del doppio turno va accolta insieme alla giusta richiesta che allora sia un ballottaggio effettivo e quindi giammai evitabile con un risicato 37%. L’abbandono della provocazione delle preferenze (retaggio appiccicoso della prima repubblica) va unito con l’accoglimento della richiesta di collegi elettorali più piccoli sempre proporzionali che potrebbero essere al massimo binominali, garantendo così anche l’equilibrio di genere e comunque abbandonando sul serio le inaccettabili e ancora lunghe liste bloccate. Rappresentanza con collegi piccoli e governabilità con un vero ballottaggio e giusto premio di maggioranza: né risibile né abnorme. Poche modifiche che nemmeno Forza Italia potrebbe rifiutare e che, se annunciate subito, renderebbero ben più leggibili le posizioni sulla riforma del Senato, consentendo di distinguere, dentro e fuori dalla maggioranza, le obiezioni virtuose dalle opposizioni deteriori e strumentali. Con il risultato di agevolarne l’approvazione, che non sia solo in “prima lettura”.

Repubblica 11.7.14
Il senatore leghista Calderoli
“Ma l’Italicum non passerà è solo un porcellinissimus”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA. «Ho dovuto firmare per farmi dimettere dall’ospedale, ma stavano facendo una tale vaccata qui...». Roberto Calderoli è co-relatore del disegno di legge costituzionale che trasforma il Senato in Camera delle autonomie. Lunedì scorso è caduto ed è stato ricoverato al San Raffaele a Milano.
Calderoli, è tornato a Roma per mandare all’aria la riforma?
«Ma certo! Si può essere per l’elezione indiretta o diretta del nuovo Senato, ma non si può togliere il voto persino ai consiglieri regionali. Non ci sarebbe stata più la democrazia. Neppure in Bulgaria avrebbero pensato una cosa così ».
Può spiegare nel merito?
«Ci sarebbe stata una pre assegnazione dei seggi sulla base della consistenza numerica dei gruppi in consiglio regionale. Ma di fatto c’era un blocco, e a scegliere sarebbero stati i capigruppo consiliari. Ora è tutt’altra storia, è stato cambiato completamente, abbiamo evitato il pasticcio: sarà una legge a stabilire le regole, tenendo conto del voto espresso nell’elezione regionale».
Com’era successo questo “pasticcio”, colpa di chi?
«Il governo aveva accolto la posizione di Forza Italia».
Non è che tutto questo accade per fare saltare l’Italicum?
«Rispetto all’Italicum la nostra vecchia legge elettorale, che ho definito una porcata, era un fiorellino. L’Italicum è un Porcellinissimus. Però un conto è la legge elettorale, altra cosa sono le regole della Costituzione che devono servire per i prossimi cinquant’anni. Allora su queste non si può seguire l’orto. Ma non vedo padri costituenti in giro...».
In aula la Lega voterà il testo sul nuovo Senato?
«Lo votiamo».
I leghisti sono di nuovo l’ago della bilancia viste le fronde in Forza Italia e nel Pd?
«Non voglio essere ago di bilancia di nulla. Se le cose sono fatte bene, non sono sensibile alle fronde. Comunque modifiche se ne possono fare ».
La sentenza d’appello per Berlusconi nel processo Ruby il 18 luglio, può cambiare tutto?
«L’ho sostenuto da un sacco di tempo. Sono inutili gli accordi bilaterali. Mi va su la pressione, quando sento parlare del “patto del Nazareno”. Intanto nessuno ha mai capito cosa c’è dentro. E poi sulla Costituzione non si possono fare accordi».
Ma il Titolo V, che restituisce allo Stato molte competenze, le piace?
«L’avrei fatto ovviamente in maniera meno statalista, ma quel testo un equilibrio ce l’ha. C’è il tentativo di un neo centralismo, però noi leghisti siamo riusciti a smorzarlo. E poi sono stati introdotti i costi standard in Costituzione. Sulla sanità ad esempio, questo consente un risparmio di qualche decina di miliardi».
È in sintonia con il pragmatismo di Renzi?
«Renzi mi è simpatico, ma non mi piace la politica degli annunci. Prima vengono i risultati. E lo voglio vedere alla prova della legge di stabilità. Sulla riforma costituzionale ci vorranno 4 o 5 passaggi, il traguardo credo si raggiungerà a metà 2015»

La Stampa 11.7.14
Ma è già scattata l’offensiva dei partitini per cambiare l’Italicum
Ncd e Lega: sbarramenti più bassi. Sfida a Berlusconi
di Amedeo La Mattina


In questi giorni il Senato sembra una tonnara che ribolle sotto la fiocina delle riforme costituzionali. I senatori-tonni si agitano perché con le loro mani stanno scrivendo sul portone di Palazzo Madama il cartello «chiuso d’autorità». Si agitano perché quasi nessuno di loro ritornerà a calcare i parquet scricchiolanti dei corridoi damascati e riciclarsi alla Camera sarà quasi impossibile. Scartare dai binari del patto Renzi-Berlusconi ora sembra impossibile ma c’è un sospetto che cresce dentro Forza Italia e riguarda la legge elettorale. Non se ne parla molto. «Adesso dobbiamo concentrarci sulle riforme costituzionali - spiega il ministro Maria Elena Boschi - e immediatamente dopo sulla legge elettorale». Il premier ha riaperto, con poco entusiasmo, al dialogo con i 5 Stelle, dicendo di essere disponibile a incontrare la delegazione grillina la prossima settimana. Quello che ancora non si dice è che l’Italicum è destinato a cambiare e non è detto che le modifiche che circolano a Palazzo Chigi piaceranno al Cavaliere. Si vogliono abbassare le soglie di sbarramento, quelle percentuali di voti che un partito o una coalizione deve raggiungere per eleggere un certo numero di deputati (i senatori non si eleggeranno più). Sono i piccoli e medi partiti che spingono in questa direzione e sono i loro gruppi al Senato che possono fare la differenza nelle prossime votazioni in aula sulla riforma costituzionale. Ieri Lega e Ncd infatti hanno dato una dimostrazione di ciò che potrebbe succedere senza i loro voti: hanno fermato un emendamento che non garantiva nella composizione del nuovo Senato la rappresentanza proporzionale dei partiti. Era un emendamento, spiega Roberto Calderoli, che avrebbe garantito solo il Pd e Fi: «Ora quel testo è tornato a essere democratico. Qualcuno ha dovuto calare le braghe». Non lo dice, ma questo «qualcuno» è il partito del Cavaliere. «Mentre il ministro Boschi era d’accordo con noi», spiega uno degli uomini che ha trattato per Ncd. Ecco l’avviso ai naviganti: andremo avanti, ma sappiate che quando arriverà l’ora della legge elettorale sapremo usare le nostre armi. In fondo è questo il senso delle parole di Renato Schifani quando ricorda che «Ncd ha svolto un ruolo importante di mediazione. Questo ruolo attivo lo svolgeremo anche nell’ambito della legge elettorale. Nessuno pensi - conclude Schifani - che basti un accordo a due per definire le regole del voto».
Il vero nodo sono le altre soglie che una lista o una coalizione deve raggiungere per eleggere i propri deputati. Chi non è coalizzato ha di fronte il muro dell’8%. Chi invece lo è deve superare l’asticella del 4,5%. Né la Lega né Ncd più Udc hanno grandi speranze di raggiungere il primo sbarramento: sarebbero costretti ad allearsi con Berlusconi, alle condizioni di Berlusconi. L’obiettivo è portare tutto al 5%, meglio se 4%.
Sulla legge elettorale ci sarà la madre di tutte le battaglie. C’è chi giura che se n’è cominciato a parlare con la ministra Boschi, la quale qualche apertura sta cominciando a farla. Non le dispiace ad esempio che il voto venga espresso sulla lista e non sulla coalizione (è una proposta del coordinatore Ncd Quagliariello e dei 5 Stelle). Una tale soluzione non piace a Berlusconi che qualche dubbio comincia ad averlo. «Con questo nuovo Senato vincono sempre loro, se poi cambiano l’Italicum è finita», ha detto a chi ci ha parlato ieri.

l’Unità 11.7.14
Pippo Civati
«Renzi vuole la contrapposizione. Noi la sinistra possibile»
Il deputato Pd dà il via oggi a Livorno a “Politicamp”. «Le opinioni diverse ormai sono vissute con fastidio Errani? Una dimostrazione di stile. Ora le primarie»
intervista di Gigi Marcucci


L’appuntamento è per il Pd ma non solo. Al Politcamp civatiano che inizia oggi a Livorno ci sarà un ventaglio amplissimo di opinioni: quello che Pippo Civati, dissidente democrat, definisce ormai la «sinistra possibile». Oltre a Vannino Chiti e ai parlamentari che resistono alla riforma del Senato, ci saranno esponenti della lista Tsipras, la docente della Columbia University Nadia Urbinati, l’ex ministro della Pubblica Istruzione Maria Chiara Carrozza.
L’evento di Livorno viene presentato come una sorta di anti-Leopolda. È corretta questa interpretazione?
«Ultimamente la politica italiana vive di contrapposizioni, anche perché il premier attualmente in carica spesso le cerca. Non è nel mio stile: è una grande assemblea che dal Pd guarda fuori, verso sinistra e verso le battaglie più belle, per la democrazia, la partecipazione e l’uguaglianza. Sinceramente l’ultimo dei miei pensieri è quello di mandare chissà quale segnale a Renzi: parleremo di politica, anche di quei temi di cui sembra “impossibile” parlare ». Perché avete scelto Livorno? «Perché è una città democratica e ospitale, luogo del cuore per la sinistra italiana, un cuore tradito, recentemente, per via dell’incapacità di rappresentare i cittadini, e non certo dei cittadini stessi».
A Bologna ci fu da parte vostra una scelta piuttosto sofferta di votare la fiducia all’esecutivo Renzi. Lei disse “Se potessi votare no senza rompere con il Pd lo farei”. Avete trovato un modo per dire "no" senza rischiare di rompere col partito?
«Sinceramente no, anche perché le opinioni diverse sono vissute con fastidio, ogni proposta è vista con sospetto: pensi al Senato e alla riforma. Chi vuole una riforma diversa - e per quanto mi riguarda parecchio migliore di quella proposta dal governo - viene bollato come frenatore, attaccato alla poltrona, professorone. Da ultimo, il premier se l’è presa con i giornalisti, come Mucchetti, che fanno i senatori del Pd, come se avessero meno diritto di esprimere le proprie opinioni. Curioso, tra l’altro, per un premier che gode di ottima stampa». Siete accusati di fare melina sulle riforme istituzionali.
Non sentite la responsabilità di rallentare un processo di cambiamento?
«Rifiuto categoricamente questa accusa: le riforme sono lente perché il governo ha cambiato molte volte la propria proposta, ha prima indicato la data delle elezioni per portare in aula la riforma, poi si è reso conto che non ce l’avrebbe mai fatta (e che forse non era nemmeno il caso), poi è intervenuta la mediazione di Calderoli, poi è stato aggiornato il patto del Nazareno. E mentre facciamo questa intervista le cose si sono incartate ancora, perché la Lega e quasi tutto il Parlamento si sono ribellati alle modalità di elezione dei consiglieri regionali. E sa qual è il colmo: che noi in commissione non abbiamo nessun riferimento, perché i nostri sono stati sostituiti».
È sololaprospettivadiunSenatoconpoteriridottiaspaventarvioèilcombinato disposto con il premio di maggioranza previsto dalla riforma elettorale?
«Entrambe e ciascuna delle due, mi verrebbe da dire». Lei una volta disse che Matteo Renzi le ricordava Bettino Craxi. Lo confermerebbe? Anche con un Renzi che alle Europee prende il 40 per cento dei voti, cosa mai accaduta a Craxi? «Ho detto che il metodo (sempre più egocentrico) è di sicuro appeal sull’elettorato italiano, che vi è stato abituato in questi vent’anni, ma non mi pare la strada migliore per cambiare il Paese in profondità. Quanto a Craxi, lui si confrontava con il Pci e la Dc, e governò per quattro anni. Renzi ormai non ha più avversari: e quelli tradizionali sembrano piuttosto alleati subalterni del Pd, che avversari gagliardi».
Renzi ha fatto un pressing su Errani perché non si dimettesse, dicendo che si è innocenti fino al giudicato; Errani continua invece per la sua strada e si dimetterà: lei con chi è d’accordo.
«Penso che Errani abbia dato una grande dimostrazione di stile. Inusuale. Rispettosa delle istituzioni».
Per sostituire Errani ci vogliono le primarie?
«Ci vogliono in Emilia, in Toscana, in Puglia, in Umbria...».

il Fatto 11.7.14
La svolta che deve far riflettere chi ha votato Pd
L’intervento di un consigliere comunale di Firenze che conosce bene il premier
di Cristina Scaletti - Consigliere comunale


Durante tutta la parabola di Silvio Berlusconi non ho mai avuto seri timori sulla tenuta democratica, perché ne vedevo attivi e reattivi tutti i necessari anticorpi. Ora, invece, sembra proprio che il Potere stia vincendo il suo “gran gioco” perché mentre Berlusconi aveva da fare i conti con una serie di contropoteri, niente sembra oggi volersi opporre alla marcia trionfale di Renzi. Al punto che quello che dovrebbe essere il suo principale antagonista spera vivamente (e lo fa dire al figlio) che il giovane premier faccia il gioco sporco al posto suo e sistemi come si deve le sue aziende e, soprattutto, quel cancro dei giudici politicizzati. Che fare, dunque? Sfidare Renzi sul piano dei contenuti e delle contraddizioni fra promesse e cose fatte, perché quanto a parlantina e disinvoltura il ragazzo non ha eguali al mondo.
Cristina Scaletti - Consigliere comunale per “La Firenze Viva”

l’Unità 11.7.14
A proposito di garantismo
di Luigi Manconi


Prima scena. Quando, nel pomeriggio di martedì scorso, ho appreso della condanna inflitta a Vasco Errani, gli ho subito inviato un sms di amicizia personale. Ma già dopo una mezz’ora le agenzie erano invase dalle tonitruanti dichiarazioni di solidarietà de li mejo giustizialisti del Pd e della sinistra, che giuravano sull’innocenza del presidente dell’Emilia Romagna.
Richiamava no il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio e invocavano i sacri valori del garantismo.
Seconda scena. Nel febbraio scorso la Procura della Repubblica di Napoli chiede al Senato l’autorizzazione all’acquisizione dei tabulati telefonici relativi a 24 mesi di uso dei telefoni cellulari intestati al senatore Antonio Milo. Da quei tabulati la Procura ritiene di poter desumere se Milo sia stato effettivamente in cura presso il Centro fisioterapico di Napoli delle cui prestazioni ha chiesto il rimborso all’assistenza sanitaria per i parlamentari. La Procura intende dimostrare l’assenza di qualunque aggancio dei telefonini intestati a Milo alla cella di localizzazione dell’istituto presso cui si sarebbero svolte le cure. Se si dimostrasse che i telefonini di Milo «non sono stati mai lì», si avrebbe la prova del comportamento truffaldino dell’intestatario di quegli apparecchi. A prescindere da evidenti discrepanze (per esempio, l’arco temporale indagato va oltre i limiti entro i quali si sarebbe consumata la truffa), viene ignorata la banalissima possibilità che il parlamentare in questione si sia recato in quel centro privo di telefonino, o con quello intestato alla consorte, o a un lontano cugino di Montù Beccaria. Per converso, l’eventuale presenza di untelefoninodelsenatoreMilopressoilCentrofisioterapiconontestimonierebbe, di per sé, delle prestazioni effettivamente rese. Ebbene, di fronte a ciò, il primo luglio l’aula del Senato, con voto segreto e a maggioranza, autorizza l’acquisizione di quei tabulati. Indovinate un po’ come si pronunciano e come si schierano i parlamentari di sinistra.
Questi due episodi, pur nella loro profonda diversità, consentono di affrontare il tema già catalogato come «il Pd e il garantismo» da una pluralità di punti di vista. Ci si deve chiedere, innanzitutto, se il garantismo sia un’opzione «di sinistra». Tradizionalmente, così non è stato, e per un formidabile motivo: la componente maggioritaria della sinistra ha sempre privilegiato, e per robuste ragioni storiche, i diritti sociali rispetto a quelli della persona e le garanzie collettive rispetto a quelle individuali. Nella più recente fase politica, il garantismo è stato associato alla destra e ai suoi progetti di riforma della giustizia. In altri tempi, a sinistra, lo si qualificava spregiativamente come «liberale». Negli ultimi decenni, i suoi più qualificati interpreti sono stati - oltre che i radicali - personalità di sinistra e liberali, come Norberto Bobbio e Luigi Ferrajoli.
Ciò dovrebbe bastare per sostenere che il garantismo non è né di destra né di sinistra, o - meglio - può essere sia di destra che di sinistra. (Qui, palesemente, a quelle due categorie novecentesche della politica si attribuisce ancora un qualche, seppur controverso e residuale, significato). Di destra è il garantismo ispirato al principio dello Stato minimo e della libertà dell’individuo da ogni indebita interferenza dell’autorità pubblica. Di sinistra è il garantismo che tutela chi non può farlo da sé, anche per mezzo dell’autorità pubblica e dei suoi strumenti. Dunque, sostenere ora che il Pd si sia convertito a una posizione di destra, o che abbia riscoperto un valore tipicamente di sinistra, significa - in entrambi i casi - ricorrere ad argomenti retorici di circostanza o volerla buttare a tutti i costi in caciara. A destra come a sinistra, infatti, essere garantisti significa innanzitutto riconoscere il primato della persona umana, della sua libertà e della sua dignità, sulle necessità contingenti della sfera politica e dell’autorità pubblica. Insomma, significa riconoscere la prevalenza dei fini rispetto ai mezzi, e delle ragioni della politica rispetto ai suoi strumenti.
L’importante è ricordarsi, con Bobbio, che, «malgrado le solenni dichiarazioni di principio», «la battaglia in difesa del garantismo è pur sempre... una battaglia di minoranza», tante e tali sono le tentazioni e le pressioni di segno opposto.
Da tutto ciò discende una domanda: in nome del garantismo, che ne facciamo di indagati, imputati e condannati in via non definitiva? Va da sé che essi debbano essere tutelati da ogni etichettatura e da ogni anticipazione di pena. Questo dovrebbe valere anche per gli accusati di reati considerati, e non sempre a ragione, gravi, che si vuole costretti in carcere prima del tempo perché «socialmente pericolosi »: e spesso non già per quello che sono accusati di aver fatto, ma per quello che si teme possano fare. E altrettanto dovrebbe valere per chi ricopra ruoli o funzioni istituzionali. Ciò non toglie che chi lo ritenga opportuno- come ha fatto Errani - possa decidere di dimettersi da un incarico pubblico perché raggiunto da un’accusa ritenuta ingiusta, main cui non vuole coinvolgere l’istituzione che rappresenta. E questo gli fa onore.
Considerato tutto ciò, il quesito conclusivo è: il Pd «deve» essere garantista? Il fatto che, come si è detto, il garantismo non sia né di destra né di sinistra, o che possa essere sia di destra che di sinistra, e che dunque un partito di centrosinistra non sia necessariamente garantista o il suo contrario, obbliga a una libera decisione politica: essere garantisti oppure no. Il messaggio di Matteo Renzi(«finché non c’è una sentenza passata in giudicato un cittadino è innocente. Si chiama garantismo») indica una scelta di campo che andrebbe accolta senza pregiudizi da parte di chi si ritiene garantista. Certo se ne dovrà valutare la coerenza con i comportamenti futuri, ma è un importante passo avanti per chi coltiva il garantismo «da sinistra», in nome dell’eguaglianza delle opportunità e dei diritti.

il Fatto 11.7.14
Senza lavoro
Jobs Act, l’incompiuta del premier
di Stefano Feltri


Doveva essere il lavoro. Non la Pubblica amministrazione, le tasse, il Senato. Doveva essere il lavoro la grande riforma di Matteo Renzi, la sfida generazionale, una rottura radicale fin dal nome, Jobs Act, modello Obama. Invece niente o quasi: il Senato rinvia l’esame del disegno di legge delega che – comunque con tempi biblici – dovrà essere la premessa per una vera riforma. Per ora si è visto solo un decretino che liberalizza un po’ i contratti a tempo determinato (era più liberista, poi la minoranza di sinistra del Pd lo ha neutralizzato in Parlamento).
Una volta Renzi si presentava come l’ariete di Pietro Ichino, il giuslavorista eletto quasi per sbaglio senatore del Pd che continuava a trovarsi in minoranza con le sue idee di contratto a tutele crescenti e superamento dell’articolo 18. Poi Ichino è passato a Scelta Civica, Renzi ha capito che per conquistare il Pd doveva sfidare le burocrazie sindacali ma conquistare il voto dei loro iscritti. E quindi addio alle promesse ai giovani precari e alle partite Iva e avanti con rassicurazioni a impiegati statali a fine carriera e insegnanti. Il ministro del Welfare Giuliano Poletti doveva essere il volto pacioso della rivoluzione renziana. Invece ora lo scopriamo uguale a tutti i suoi predecessori, a denunciare in apposite interviste che “manca un miliardo per la cassa integrazione”. Per forza: il governo non ha neppure cominciato a riformare gli ammortizzatori sociali e quindi le Regioni continuano a presentare le loro discutibili richieste di fondi per la cassa integrazione in deroga (che, come dice il nome, dovrebbe essere una misura tampone, non strutturale).
Certo, il contesto non aiuta: il progetto di Garanzia Giovani voluto dal governo Letta (e rivendicato da quello Renzi) non sta funzionando bene, le agenzie per l’impiego mettono in contatto domanda e offerta di lavoro, ma a fronte di 110 mila candidature le imprese hanno da riempire solo 4mila posti. Pochini. La Commissione europea continua a sollecitare il governo a fare un bilancio della riforma Fornero: se la revisione dell’articolo 18 non ha dato i risultati sperati, perché i licenziamenti più facili non hanno fatto aumentare investimenti e assunzioni, bisogna intervenire ancora. Ma il Renzi rottamatore è diverso da quello di governo. Da premier ha capito che il lavoro è un tema che è meglio evocare piuttosto che affrontare, sperando che la Bce, la buona sorte, l’inversione del ciclo economico, migliorino un po’ le statistiche sull’occupazione. Il governo potrà comunque prendersene il merito.

La Stampa 11.7.14
La riforma del lavoro può attendere
di Walter Passerini


Il rinvio del cosiddetto Job act e la sua mancata calendarizzazione al Senato avranno pesanti conseguenze nella lotta alla disoccupazione, ma sono anche l’indicatore delle diverse priorità che caratterizzano i cittadini italiani e la politica. Lo confermano i membri della Conferenza dei capigruppo, che nello stilare i lavori dell’aula non hanno messo in calendario dibattito e votazioni sul Job act, rimandandolo a dopo la riforma costituzionale e il decreto competitività. Se ne parlerà dopo l’estate, altro che terapia d’urgenza, un rinvio inspiegabile e inaccettabile. Ma c’è un’aggravante. Le ragioni del rinvio non stanno solo nell’ingorgo istituzionale che si è venuto a creare a partire dalla riforma del Senato, ma nelle divergenze riemerse tra le forze politiche, in particolare sui due articoli del disegno di legge delega, uno relativo al contratto a tutele progressive, l’altro sull’ennesimo tentativo di sterilizzazione dell’articolo 18. Sembra incredibile. In un momento in cui i dati indicano una caduta della produzione industriale a maggio (- 1,2) e l’aggravarsi della situazione occupazionale, i partiti si lanciano irresponsabilmente in una nuova tenzone fortemente ideologica, facendo perdere tempo alla necessaria riforma del lavoro e minando la fiducia dell’opinione pubblica.
Qualche avvisaglia vi era stata all’approvazione del decreto Poletti, che aveva rinviato al disegno di legge delega gli aspetti più controversi. La conferma delle difficoltà è arrivata dall’abolizione del vertice europeo sul lavoro, durante il semestre di presidenza italiana, previsto per oggi e rinviato a dicembre. Ora, dopo il fallimento dei tentativi di compromesso da parte dello stesso ministro del Lavoro, la mancata calendarizzazione mette in seria discussione una tempestiva approvazione. Sarà l’autunno del lavoro? Sembra proprio di sì, a meno di ripensamenti dell’ultima ora. E pensare che il lavoro è la priorità del paese, come emerge da tutti i sondaggi sulle preoccupazioni degli italiani, è il tema di discussione più caldo, la fonte di grandi incertezze.
Ma la politica, tutta presa dai suoi riti, non se ne accorge. Eppure il disegno della riforma del lavoro, così come è stato tracciato nella versione originale del Job act nelle sue diverse parti, aveva suscitato interesse e larga condivisione: riduzione del carico fiscale per imprese e lavoratori (solo in parte realizzata con gli 80 euro), riduzione del peso della burocrazia, semplificazioni, linee di politica industriale e competitività, revisione delle formule contrattuali, contratto a tutele crescenti, Agenzia per l’occupazione, rafforzamento della rete dei servizi all’impiego, revisione degli ammortizzatori e politiche attive del lavoro. Questi temi strategici non vengono dopo la riforma costituzionale, ma hanno almeno pari dignità. Il rischio è che quando si aprono troppe agende e ci si fa prendere dal gioco del potere aumenta la lista della spesa e delle cose da fare, ma si perdono di vista le vere priorità.

il Fatto 11.7.14
Pubblicità sul web, a rischio l’inciucio De Benedetti & B.
Il gruppo Espresso smentisce l’alleanza con Mediaset (più Banzai e Rcs) per cercare di arginare lo strapotere di Google e Facebook nel mercato delle inserzioni on line
di Virginia Della Sala


Sembrava fosse un accordo già fatto quello per la creazione di una concessionaria di pubblicità online tra i gruppi di Silvio Berlusconi (Mediamond e Publitalia) e Carlo De Benedetti (Manzoni), insieme a Banzai Media e Rcs. Per due giorni non si è parlato d’altro. Fino a ieri, quando con una nota il gruppo editoriale L’Espresso ha definito “del tutto infondate” le illazioni su un tale accordo, precisando che “eventuali progetti tra concessionarie di pubblicità di diversi operatori del settore potranno avere una natura circoscritta e un carattere puramente operativo e commerciale”.
Una frenata dettata forse dal risvolto politico dell’operazione, come nel 2005 quando le firme di Repubblica si opposero all’apertura di De Benedetti verso i figli di Berlusconi per ilo sviluppo del fondo salva-imprese Management & Capitali. Il progetto di sfidare di sfidare Facebook e Google sul web sembra comunque un po’ velleitario..
“SE DEVO SCEGLIERE a chi rivolgermi per pubblicizzare i prodotti dei miei clienti - racconta Nino Salemme, direttore generale dell’agenzia pubblicitaria S&PH Italia, che si occupa di marketing per le imprese – cerco ciò che è più vicino alle esigenze del mio cliente. Google è imbattibile. È il motore di ricerca più usato al mondo e detta le regole del web. Quando si cerca qualcosa, le prime indicizzazioni sono quelle sponsorizzate da Google. Nessuno potrebbe mai raggiungere il suo impatto”.
Secondo l’ultima indagine dell’Agcom, l’autorità delle comunicazioni, nel 2012 i ricavi netti della pubblicità online in Italia sono stati pari a 982 milioni di euro. Di questi circa la metà è andata a Google, il resto si divide tra Italia Online, Facebook, Microsoft, Rcs, Gruppo Editoriale L’Espresso, Mediaset, Banzai media, Gruppo 24 Ore e altri operatori. Anche unendo il loro fatturato pubblicitario, Rcs, Gruppo Espresso, Mediaset e Banzai Media si unissero, non riuscirebbero mai a raggiungere la quota di Google.
“Le agenzie pubblicitarie puntano soprattutto alla qualità della strategia di marketing – spiega Salemme –. Quindi, se devo pubblicizzare un pomodoro mi rivolgo a un blog di cucina, se devo pubblicizzare una borsa contatto un giornale online che si occupi di moda. Nel mezzo ci sono i centri media che comprano spazi in grandi quantità e li vendono a caso, senza una strategia. È questa la parte che garantisce il maggiore introito alle concessionarie che così si assicurano quasi sempre la vendita di almeno il 50 per cento degli spazi. E se Google può permettersi di distribuire qualsiasi tipo di pubblicità in qualsiasi parte del web, per un editore è più difficile”. Il mercato online cresce a ritmi sostenuti, nonostante una complessiva tendenza negativa del comparto pubblicità. “Sotto il profilo della ripartizione dei ricavi tra i principali operatori in Italia, emerge chiaramente la posizione di forza di Google – spiega l’Agcom – seguito da Facebook e da ItaliaOnline, che include i ricavi conseguiti dalla concessionaria di pubblicità Matrix e dalla società Libero”.
L’ALTRO ATTORE nel mercato delle pubblicità sul web è il social network più diffuso al mondo, cioè Facebook che non teme la competizione di una possibile nuova grande concessionaria. “Ogni media ha i suoi punti di forza – spiegano da Facebook Italia – e la nostra è una piattaforma capace di entrare in relazione con le persone attraverso amici e famigliari, li connette e consente la condivisione di esperienze”. Una strategia che si basa sui rapporti interpersonali e la catalogazione dei singoli utenti in base ai loro interessi e con cui è ancora più difficile competere. “Così
– spiegano – rispondiamo ai bisogni del mercato e riusciamo ad anticipare le tendenze di consumo emergenti la piattaforma si è evoluta, sviluppando innovazione anche per le aziende”.
Secondo gli ultimi dati Nielsen, in Italia nei primi cinque mesi del 2014 il volume di mercato della pubblicità sul web è stato pari a 191,8 milioni di euro, raggiungendo quasi il valore delle inserzioni nei giornali periodici. Una crescita che quasi compensa le perdite di ricavi della stampa cartacea quotidiana, che ha avuto un calo del 12,8 per cento.
IL FUTURO della pubblicità è una questione di strategia: “Ormai tablet e smartphone sono il secondo schermo in Italia, dopo la tv e prima del computer – spiega Carlo No-seda, presidente di IAB Italia (Associazione dedicata all’Advertising Interattivo) – e hanno una forte penetrazione tra i giovani, coinvolgendo anche un target più adulto: quello di chi decide gli acquisti. Un dato che si può trasformare in una grande opportunità per il mercato e per gli investitori”. Per l’alleanza De Benedetti-Berlusconi-Rcs-Banzai non sarebbe stato facile conquistare un mercato che cambia in fretta e così ben presidiato.

l’Unità 11.7.14
«Il silenzio del Parlamento sulla bioetica non va bene»
Napolitano avverte: «Tema importante, ma c’è un atteggiamento insoddisfacente». Sacconi: «Il Presidente non solleciti lacerazioni»
di Pino Stoppon


Un silenzio assordante, che non risponde alle esigenze largamente avvertite dai cittadini. È un monito severo quello lanciato ieri dal Presidente Napolitano sui temi della bioetica. Per quello che riguarda diritti civili, fecondazione eterologa, eutanasia «il silenzio del Parlamento - dice la nota - non può costituire un atteggiamento soddisfacente rispetto ai problemi la cui complessità e acutezza continua a essere largamente avvertita ». L’occasione è stato l’appuntamento al Quirinale con una delegazione del Comitato nazionale di Bioetica presiduto dal professor Casavola; ma l’intervento del Capo dello Stato non è piaciuto al presidente dei senatori Ncd Maurizio Sacconi che accusa: «Mi auguro non voglia sollecitare la lacerazione della nazione».
Il nuovo scontro sui temi della bioetica arriva a pochi giorni dall’insediamento del Comitato - voluto da Lorenzin - per decidere le linee guida sull’eterologa dopo il pronunciamento della Cassazione. Un tema che promette non poche polemiche visto che all’interno del Comitato il ministro della Salute ha voluto insediare una sua collaboratrice che si è già apertamente schierata contro la sentenza della Consulta che ha smantellato ogni divieto sulla inseminazione artificiale. Il timore è proprio che si tenti il colpo di mano cercando di rimettere in piedi le limitazioni previste nella legge 40 con il pretesto di dare nuove regole. Ieri nella sua relazione il professor Casavola ha toccato tutte le questioni poste in questi anni dalla scienza e dall’evoluzione della società, ma tanto è bastato a sollevare critiche a destra. «Mi auguro che le espressioni attribuite al presidente Napolitano in occasione dell’incontro con il Comitato nazionale di bioetica - ha stoccato Sacconi - non significhino sollecitazione al Parlamento affinché deliberi sui temi eticamente sensibili producendo divisioni nella nazione sui principi stessi sui quali è stata fondata prima ancora della nascita dello Stato unitario e che la Carta costituzionale ha poi recepito ». «Il Parlamento - ha proseguito - non è rimasto inerte perché la discussione su questi temi ha aiutato il reciproco ascolto e ha consentito di evitare fino ad ora soluzioni ideologiche. Dall’omofobia alle unioni civili, alla fecondazione eterologa, alla tutela della vita nelle condizioni di massima fragilità una cosa è la soluzione di problemi pratici inerenti la difesa della dignità umana un’altra è la loro strumentalizzazione per costruire una antropologia di Stato opposta a quella naturale. Il Nuovo Centrodestra sarà sempre indisponibile a negoziare principi che credenti e non credenti dovrebbero riconoscere perché appartengono all’esperienza insistita nei secoli del nostro popolo». Così il senatore Gasparri: «Non voglio alimentare polemiche - ha detto -ma ricordo che qualche anno fa si tentò di affrontare con un decreto questa materia e che questo decreto non vide mai la luce».
Di parere opposto il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova: «Sulla bioetica - ha scritto su Twitter - è giusto il richiamo di Napolitano. Ineludibili risposte su fine vita, fecondazione assistita e ricerca scientifica». E Barbara Pollastrini, ex ministro Pd per le Pari Opportunità: «Illuminanti le parole del Presidente della Repubblica. Governi e Parlamento non possono sottrarsi al dovere di dare linee o norme su materie delicate e significative della nostra modernità. Si tratti di testamento biologico o di applicazione della fecondazione assistita dopo le numerose sentenze di tribunali e della Corte - ha detto Pollastrini - ; di diritti civili, e penso alle coppie omosessuali e alle condizioni nelle carceri, le istituzioni non agiscono al buio. C’è una Costituzione con articoli che scolpiscono il principio di uguaglianza e dignità in ogni passaggio e ambito dell’esistenza. Una politica responsabile è una politica laica, dialogante e insieme coraggiosa».

l’Unità 11.7.14
Fecondazione assistita, non c’è alcun vuoto
di Carlo Flamigni


NON SONO MAI STATO BRAVO A FAR PREVISIONI, MA CI SONO OCCASIONI IN CUI È IMPOSSIBILE NON INDOVINARE COSA CI STA PREPARANDOILFUTURO e questa delle donazioni di gameti, finalmente ammesse anche in Italia dopo la sentenza della Corte Costituzionale, è una di quelle. Avevo effettivamente previsto che il mondo cattolico (quello intollerante e cattivo, quello che ha scritto sui suoi giornali che bisogna eliminare la Corte Costituzionale, quello che sollecita i «fedeli » a fare obiezione di coscienza nei confronti di questo Stato che trasuda immoralità, quello stesso che ha scritto che l’Onu, con le sue dichiarazioni favorevoli all’aborto volontario, ha lasciato cadere la maschera e si è rivelata quello che abbiamo sempre saputo, alito del demonio) non avrebbe accettato questa sentenza senza qualche convulsione e che la crisi epilettica più probabile ci avrebbe riportati in Parlamento, alla ricerca di soluzioni utili per attutire il colpo e diminuire il dolore. A dire il vero, avevo persino detto cosa avrebbe chiesto il suddetto mondo cattolico al Parlamento e anche questa previsione, lo ammetto, non richiedeva particolari arti divinatorie. Adesso leggo sul Corriere della Sera che il ministro Lorenzin(che su questa materia si comporta come un playmaker di terza divisione, finte e controfinte ma mai un canestro) ha annunciato di aver nominato una commissione ad hoc composta da venti esperti, di voler preparare le necessarie linee guida e di ritenere indispensabili alcuni «passaggi parlamentari». Sono riuscito a conoscere i nomi dei venti esperti (in realtà c’è anche il direttore dell’Istituto che si occupa della conservazione di organi e tessuti, che di queste cose sa pochino, e una professoressa di chimica, che ne sa meno di quanto ne so io di coltivazione del radicchio) e mi limito a fare la stessa critica che faranno tutti coloro che hanno fatto parte di molte commissioni: le migliori sono quelle composte da due membri, quelle tra cinque e dieci fanno solo confusione, sopra i 15 finiscono generalmente in questura per disturbo della quiete pubblica.
Vorrei che la signora Lorenzin capisse che tutto questo è inutile, che esistono già le regole necessarie, che non c’è alcun vuoto legislativo. Mala cosa che mi preme maggiormente è di far capire al ministro che dovrebbe smettere di pensare alla Procreazione Medicalmente Assistita (Pma) come a un «Far West», non si lasci imbrogliare dai suoi amici e consulenti. Voglio essere concreto e proporre un confronto. Ci sono più di 300 centri di Pma e il numero di quelli che sono stati coinvolti in qualche scandalo (donazioni di gameti a donne ultrasessantenni, sperimentazioni su embrioni et similia) non supera le quattro o cinque unità, senza contare il fatto che per ora nessuna di esse ha ancora subito processi per aver violato le leggi dello Stato. Cisono315senatori nel Senato della Repubblica: andate a vedere quanti di loro sono stati o sono coinvolti in problemi legali, per aver imbrogliato, rubato o complottato con la mafia, poi mi direte dove si trova in realtà il Far West. Potrei chiedervi di fare conti analoghi con i ministri della nostra religione di Stato e cercare quanti hanno interpretato a modo loro il vangelo di Marco («sini te parvulos venire ad me », 10, 14), o hanno trafficato destramente col denaro delle loro banche: non lo faccio solo perché sono un uomo fondamentalmente tollerante.
Quello che il ministro deve cercar di capire, invece, riguarda il fatto che bussa prepotentemente alle porte un nuovo paradigma, un nuovo modello di riferimento, quello che in filosofia si chiamerebbe archetipo. Maurizio Mori, che è molto paziente con me e mi dà lezioni di filosofia - io sono un povero ginecologo - mi fa fare sempre un confronto con un antico scontro tra paradigmi, quello tra Galileo e il Santo Uffizio, in cui il punto simbolico della querelle era un versetto della Bibbia: «Fermati, Sole!». Oggi lo scontro è tra due prospettive antropologiche, e il punto simbolico è ancora la Bibbia («Maschio e femmina li creò»), laPma non è solo una cura della sterilità di coppia, è un modo nuovo di pensare alla generazione, l’annuncio di una rivoluzione scientifica. Vuole qualche esempio? Negli Usa un numero sempre crescente di donne giovanissime lascia le proprie cellule uovo in frigorifero con l’intento di andarsele a riprendere dopo 20 anni, sottraendosi così alle punizioni sociali che gli uomini continuano a imporre alle ragazze; in molti laboratori si sperimentano modelli di ectogenesi che consentiranno alle donne di sottrarsi alla schiavitù delle gravidanze; nel 2013 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato illegittimo il Defence of marriage act, che impediva di riconoscere i matrimoni gay. Potrei continuare, ma non credo che ne valga la pena: si tratta solo di capire che il mondo sta cambiando, perché il nuovo paradigma definisce un nuovo modello di società destinato a durare per un certo periodo di tempo, quanto nessuno lo può sapere. Una rivoluzione biomedica che si unisce a quella tecnologica e a quella sociale (spero che nessuno si sia dimenticato dell’aborto, del divorzio, dei milioni di bambini educati – e bene – da uns olo genitore). E su questa straordinaria novità arriva la benedizione delle Corti di giustizia che ci avvertono che la regola etica si fa sulla base della morale di senso comune.
Come sempre c’è chi difende disperatamente il vecchio paradigma; come sempre c’è chi si propone come mediatore (ieri lo fece Tycho Brahe, oggi il ministro Lorenzin). Temo (faccio per dire) che sia tutto tempo sprecato.
Questo articolo doveva finire qui, ma poi sono andato, con alcuni colleghi del Comitato Nazionale della Bioetica, dal Presidente Napolitano che ci ha ricevuti con la sua solita cortesia e ha approfittato dell’occasione per sollecitare il Parlamento a non continuare a ignorare i problemi della bioetica, importanti per il Paese altrettanto quanto lo sono quelli dell’economia. La prima reazione al suo discorso, è venuta da Sacconi, e non posso proprio ignorarla. Con raro senso delle circostanze il nostro ex-socialista ha subito replicato che non era proprio il caso di sollecitare un interesse che avrebbe aumentato le divisioni del Paese, ignorando del tutto il fatto che il Presidente aveva chiaramente parlato di «una serena discussione». Lo cito dunque come un difensore del vecchio paradigma. Se fossi sicuro che conosce il latino gli direi di non agitarsi troppo, perché le forze del radicalismo cattolico, purtroppo per loro, non prevalebunt. Capirà?

Corriere 11.7.14
Che cognome diamo ai figli? Saranno i genitori a scegliere
A 18 anni i ragazzi decideranno se e come modificarlo
di Alessandra Arachi


ROMA — Adesso la libertà di scelta sarà totale. Nasce un bimbo? Potrà avere il cognome del padre, o della madre, o di tutti e due, secondo un criterio di scelta che non metterà mai più in primo piano l’obbligo del cognome paterno. Così ha deciso ieri la commissione Giustizia della Camera. In questa maniera arriverà in Aula lunedì prossimo un testo frutto di una unificazione certosina: ci sono i diversi disegni di legge di origine parlamentare, ma anche il decreto del precedente governo che era stato approvato nel gennaio scorso.
Già con quel decreto governativo si aboliva il primo tabù (sulla spinta di una sentenza della Corte di Strasburgo che ci aveva redarguito in tema di diritti civili) dell’obbligo univoco del cognome paterno per i figli. Ma questa volta si è andati molto più avanti.
Questa volta, addirittura, un figlio maggiorenne potrà decidere di aggiungere il cognome materno al suo attuale: gli basterà fare una semplice dichiarazione all’ufficiale di stato civile. Con un solo limite: se nato fuori dal matrimonio non potrà prendere il cognome del genitore che non lo ha riconosciuto.
Questa volta i genitori di un bimbo potranno decidere di dare un cognome o l’altro o tutti e due. E nel caso non ci dovesse essere accordo fra i due genitori il figlio avrà tutti e due i cognomi e l’ordine sarà, semplicemente, quello alfabetico.
«L’obbligo del cognome paterno è il simbolo di un retaggio patriarcale fuori dal tempo», ha commentato Donatella Ferrante, del Pd, presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, ricordando la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, il 7 gennaio di quest’anno. Aggiunge, perciò: «Il testo che andrà in Aula lunedì prossimo è un atto dovuto che ci pone finalmente in linea con gli altri Paesi europei».
Il testo approvato ieri prevede norme anche per i figli adottati: vale anche per loro. Nel senso che i coniugi decidono in maniera concorde un cognome (uno soltanto) da anteporre a quello originario. E anche in questo caso, se l’accordo non c’è, varrà l’ordine alfabetico.
E cosa succede ai figli dei figli che hanno un doppio cognome? Per evitare la moltiplicazione esponenziale la legge decide che si potrà trasmettere soltanto uno dei due cognomi, a scelta dell’interessato.
Il testo dovrà andare in Aula lunedì e poi verrà trasmesso al Senato. L’iter potrebbe essere anche veloce, volendo pure prima dell’estate. Con un «ma»: queste norme non saranno immediatamente operative. L’applicazione è infatti subordinata all’entrata in vigore del regolamento che deve adeguare l’ordinamento dello stato civile. È compito del ministero dell’Interno che ha tempo un anno per provvedere.

l’Unità 11.7.14
I tank israeliani assediano Gaza
Netanyahu muove i tank «La tregua non è in agenda»
Carri armati ammassati al confine della Striscia
Intensificati i raid aerei, oltre 80 vittime tra i palestinesi
Ban Ki-moon: «Forza eccessiva»
Sirene a Tel Aviv, lanciati da Gaza 365 razzi
di Umberto De Giovannangeli


Per ora la guerra è «solo» aerea. Ma quei tank con la stella di Davide ammassati ai valichi di frontiera con la Striscia danno conto di una invasione imminente. È di 83 morti e 575 feriti il bilancio dei raid israeliani sulla Striscia di Gaza, in tre giorni di offensiva denominata «Margine protettivo». La metà sono donne e bambini. Cinque piccoli palestinesi sono tra le 21 persone uccise l’altra notte dai raid a Khan Yunis, la città più colpita nel sud del territorio controllato da Hamas. Il lato palestinese del valico di Eretz, al confine tra Israele e la Striscia di Gaza, è stato distrutto. Un raid ha toccato il campo profughi di Nusseirat. Fra le vittime anche un giornalista locale. Altri tre palestinesi sono morti colpiti da un missile mentre viaggiavano in automobile a Jabalya. Ma è un conteggio impossibile da fare, e continua a salire. «Una tregua con Hamas non è in agenda», nessun cessate il fuoco in questa fase», ribadisce Benjamin Netanyahu. Nel corso della giornata, una riunione del premier israeliano con i membri della Commissione Affari Esteri e Difesa del Parlamento a Tel Aviv è stata bruscamente interrotta dal suono della sirena d’allarme che ha costretto tutti a correre nei rifugi anti-missili. Israele sta iniziando le operazioni di schieramento di carri armati lungo il confine con la Striscia. La tv Canale10 riporta che l’esercito israeliano avrebbe cominciato ad avvertire i residenti di Gaza vicino al confine di allontanarsi dalla zona. Potrebbe trattarsi di una mossa psicologica - avverte l’emittente -ma forse anche di un’iniziativa preliminare all’invasione.
Nelle ultime 24 ore, e in particolare durante l’altra notte, il volume di fuoco è stato infernale: oltre 320 gli obiettivi che i militari israeliani affermano di aver colpito nel territorio di Gaza. Presi di mira postazioni di lancio, tunnel, basi di addestramento, depositi di armi e munizioni, capi militari di Hamas o delle altre fazioni radicali, distrutto il lato palestinese del valico di Eretz. Nello stesso lasso di tempo sono stati oltre 100 i razzi, di varia gittata, 21 dei quali intercettati in volo e 82 caduti in territorio israeliano. Sono 365 i razzi sparati dalla Striscia dall’inizio del conflitto.
L’ARSENALE
Le sirene sono risuonate di nuovo ieri mattina pure a Tel Aviv. E testimoni riferiscono di aver visto scie di razzi provenire anche dal vicino e turbolento Sinai egiziano. Due razzi sono stati lanciati dalla Striscia contro Gerusalemme, ma sono stati intercettati da missili «Iron Dome». Lo ha riferito un portavoce dell’esercito israeliano senza fornire ulteriori dettagli. Altri due razzi, lanciati contro la Città Santa, sono caduti in spazi aperti. Secondo testimoni e fonti della sicurezza palestinese, un razzo è caduto nei pressi dell’insediamento di Maaleh Adumim in Cisgiordania, vicino all’area industriale di Mishor Adumim, mentre un secondo vicino alla prigione militare israeliana di Ofer, a ovest di Ramallah. È la seconda volta in due giorni che le sirene risuonano nella Città Santa, facendo correre la popolazione nei rifugi. Subito dopo si sono avvertite tre esplosioni.
Un arsenale, quello dei missili palestinesi, che - accusa Israele - ha ricevuto evidenti aiuti dall’Iran, con vettori in grado di colpire qualsiasi città israeliana, perfino Haifa. Un arsenale, rilevano fonti militari citate dai media, stimato in almeno11.500 pezzi, 6.000 dei quali in mano ad Hamas e 5.500 alla Jihad islamica: difficili da distruggere, perché spesso nascosti in affollati condomini o edifici pubblici.
«Sono allarmato dalla nuova ondata di violenza che ha travolto Gaza, il sud di Israele e la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Questo è uno dei test più critici che la regione ha affrontato negli ultimi anni», dichiara il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon alla riunione del Consiglio di sicurezza. «Il deterioramento della situazione a Gaza sta portando a una spirale verso il basso che potrebbe rapidamente sfuggire al controllo di chiunque», ha aggiunto parlando con i giornalisti al Palazzo di Vetro, «più urgente che mai trovare un terreno comune per un ritorno alla calma e a un accordo di cessate il fuoco».Ban ha anche condannato l’«eccessivo uso della forza da parte di Isarele». Il segretario Onu ha telefonato al presidente dell’Egitto, Abdel- Fattah al-Sissi, ai leader dell’Arabia Saudita e del Qatar, nonché al segretario di Stato Usa John Kerry, chiedendo a loro di fare pressioni sugli israeliani e palestinesi affinché ritornino all’accordo sul cessate il fuoco del novembre 2012 e riprendano i negoziati di pace.
Da Ramallah, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) è tornato ad attaccare duramente Israele minacciando il ricorso alle agenzie internazionali, compresa la Corte penale dell’Aja. «Gli eventi di queste ore non sono una guerra contro Hamas, ma una guerra contro il popolo palestinese. Partita da Hebron, passata a Shufat e adesso a Gaza», ha sottolineato Abu Mazen, riferendosi sia alle operazioni israeliani in Cisgiordania, dopo il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani, sia al ragazzo palestinese sedicenne, Mohammed Abu Khdeir, arso vivo nel sobborgo di Gerusalemme da estremisti ebrei.

l’Unità 11.7.14Lucio Caracciolo
«Non saranno i missili israeliani a distruggere Hamas»
di U.D.G.


La guerra di Gaza nel contesto di un Medio Oriente destabilizzato. L’Unità ne parla con Lucio Caracciolo. direttore della rivista italiana di geopolitica Limes. Quanto alle affermazioni rilanciate in questi giorni da ministri israeliani sulla «resa dei conti finale» con Hamas, il direttore di Limes annota: «È propaganda. Hamas si spegnerà eventualmente dall’interno. Ad abbatterlo non saranno i missili israeliani, semmai è vero il contrario». Raid aerei israeliani nella Striscia, razzi palestinesi su Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa, Dimona...Tsahal che ammassa carri armati ai confini della Striscia. Siamo a un tragico déjà vu?
«Il rischio è che si prenda quello che sta avvenendo come un già visto. Molti parametri sembrano effettivamente ripetitivi: dalle provocazioni di Hamas alle reazioni di Israele. Ma ci sono anche molte novità».
Quali?
«Sul fronte interno palestinese, l’agonia delle leadership politiche e l’emersione di schegge jihadiste incontrollabili e capaci di dettare l’agenda ai presunti capi della Palestina e allo stesso Israele. Nello Stato ebraico, il pragmatismo di Netanyahu sembra cedere sotto la pressione dell’opinione pubblica angosciata dai razzi che piovono da Gaza, e dell’estrema destra interna ed esterna alla coalizione di governo. Infine, dopo tre anni di “Primavere” e controrivoluzioni pilotate dai sauditi, il contesto regionale è instabile, al punto di minacciare persino quei Paesi, come la Giordania, che apparivano fino a ieri immuni dal rischio di disgregazione».
In questo scenario di guerra e di instabilità regionale, chi parla ancora di dialogo e di trattativa fra israeliani e palestinesi, continua a far riferimento a una soluzione a due Stati. Ma ha ancora senso battere su questo tasto?
«No, è un modo di non affrontare i problemi. La speranza di tutti, ma che nessuno vuole esprimere pubblicamente, è che l’incendio si spenga da solo. Nessuno comunque sembra avere né voglia né i mezzi per intestarsi la qualifica di “pompiere”».
Nei giorni scorsi, in un articolo pubblicato dal quotidiano progressista israeliano, Haaretz, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha affermato che la sicurezza non può che discendere da un negoziato di pace. Alla luce di una trattativa allo stato comatoso e dei venti di guerra che spirano in Terra Santa. Siamo alla ripetizione di un «mantra» senza riscontri nella realtà?
«Assolutamente sì. Un negoziato si fa tra interlocutori paritari, ma oggi non c’è nessuno che possa credibilmente rappresentare la Palestina. Questa è una responsabilità anzitutto palestinese, poi israeliana, ma anche americana. Di noi europei meglio non parlare».
In questi giorni ministri israeliani hanno ripetuto una frase già usata nelle precedenti operazioni militari contro la Striscia: «Per Hamas sarà la fine». Come definire queste affermazioni?
«Propaganda. Hamas si spegnerà eventualmente dall’interno. Non saranno i missili israeliani ad abbatterlo. Semmai potrebbero contribuire a salvarlo ».
La guerra di Gaza si colloca in uno scenario mediorientale segnato dall’avanzata dei jihadisti sunniti di Isil in Iraq, con la costituzione del «Califfato islamico» sulla dorsale Mosul-Aleppo.
«Questi pseudo califfi non vanno presi troppo sul serio. Ho l’impressione che nemmeno i loro presunti sudditi lo facciano. Possono però diventare degli spauracchi utili a chi vuole infiammare la regione o anche a chi, non sapendo come gestirla, pensa che un finto “Califfo” possa togliergli le castagne dal fuoco».
Prima delle bombe e dei razzi, a suscitare sdegno e commozione nell’opinione pubblica internazionale, oltre che in Israele e Palestina, sono stati i barbari assassinii dei tre giovani seminaristi israeliani e dell’adolescente palestinese. Siamo all’orrore che non conosce limiti?
«Assolutamente sì. Le modalità dei due crimini sono talmente efferate da poter essere comprese solo fuori da qualsiasi ostilità politica ma dentro un profondo, abissale odio razziale, anche se francamente riesce difficile stabilire il confine “razziale” fra le vittime».

l’Unità 11.7.14
Due debolezze politiche e il peso degli estremismi
di Moni Ovadia


IL COPIONE DELL’ENNESIMO «CONFLITTO» FRA HAMAS E IL GOVERNO ISRAELIANO SEMBRA VOLERSI RIPETERE CON LE STESS E INELUDIBILI modalità e, in uno dei suoi aspetti, il più sinistro, lo fa già: l’atroce contabilità delle vittime. La colonna dell’attivo è popolata quasi esclusivamente dai civili inermi palestinesi. Già il bilancio delle primissime ore del conflitto lo prova inesorabilmente. Le fonti ufficiali israeliane di fronte allo scontro si esprimono con lo stesso linguaggio di sempre: «dalla Striscia di Gaza i terroristi di Hamas fanno piovere sul sud di Israele una pioggia di missili - di crescente gittata rispetto ai precedenti - noi difendiamo la nostra popolazione». Gli effetti collaterali? Colpa dei terroristi che usano i civili come «scudi umani». Traduciamo l’espressione «scudo umano» dal linguaggio militar-burocratico in quello del senso comune: qualsiasi donna, bimbo o vecchio che si trovi nei dintorni di un obiettivo deciso da Tsahal (l’esercito di Israele).
Comunque il meccanismo della morte si reitera come negli episodi precedenti perché immutata resta la soverchia sproporzione fra le forze in campo: i missili di Hamas su Israele, ancorché più efficienti, fanno scarsi danni materiali e grazie a Dio non provocano vittime fra i civili, se non fosse così non osiamo pensare quali sarebbero le conseguenze dell’escalation. Il quadro politico tuttavia è notevolmente cambiato rispetto al tempo dell’operazione «Piombo fuso», come con sguardo pressoché unanime osservano i migliori analisti dello scacchiere. In questo frangente si confrontano due debolezze politiche, quella di Hamas che ha avuto una decisa caduta di ruolo, anche a causa della perdita del sostegno da parte dei Fratelli Musulmani, per le note vicende e quella del governo Netanyahu che non sa fare altro che galleggiare nello status quo deteriorandolo, senza un solo straccio di idea se non quella di sopravvivere salmodiando la frusta litania sicuritaria.
In queste condizioni le agende di entrambi gli schieramenti sono condizionate dai reciproci estremisti. E tutto ciò in un contesto generale che, grazie alle guerre «umanitarie» degli Stati Uniti, sostenute dal miserabile spirito gregario degli europei, è esploso a frammentazione incendiaria vanificando ogni concreto progetto politico. Le guerre «umanitarie» tuttavia hanno indubitabilmente prodotto un cospicuo profitto: decine e decine di migliaia di morti civili innocenti, in particolare fra gli iracheni e gli afgani.
Ma soprattutto, i governi degli Usa - dal fallimento degli accordi di Oslo in avanti - hanno esercitato con effetti pratici e simbolici micidiali, un falso ruolo di mediatore fra israeliani e palestinesi con lo scopo di inscenare una sequela di finte trattative di pace. Ve le ricordate le Wye Plantation, le road map, vi ricordate i cocktail party di Rafah, di Eretz? Solo fumo da buttare negli occhi della asfittica e compiacente opinione pubblica e della grande stampa mainstream, nonché in quelli dei rappresentanti e dei funzionari della presunta legalità internazionale allo scopo di alleviare il complesso di colpa per avere consentito un’occupazione illegale perdurante da decenni e gravata dalla ingiustificabile colonizzazione di terre altrui da parte dell’occupante. Le amministrazioni statunitensi portano il peso di una gravissima colpa quella di essersi fatte passare, da oltre vent’anni, per mediatore quando sono stati sempre e solo parte in causa, totalmente appiattita sui desiderata del governo israeliano di turno. Questa menzogna è stata indirettamente una gravissima offesa ad un grande israeliano, Itzkhak Rabin, che per avere cercato di concludere una pace possibile ha sacrificato la propria vita per mano di un estremista del suo stesso Paese.
Ma gli attori che sono stati complici di questa truffa delle finte trattative sono stati molti, fra questi brillano per squallore la Comunità Europea e l’Onu. L’onestà intellettuale impone, per ragioni di decenza, che si smetta di dare credito alle invereconde messe in scena che hanno come unico scopo il mantenimento di una condizione di iniquità che irradia in tutte le relazioni israelo-palestinesi, non solo quelle politiche, ma anche quelle culturali, quelle legali e in generale quelle esistenziali. Questo stato di cose ha impedito anche l’emergere di figure autorevoli nel campo palestinese. Oggi l’unica figura credibile è probabilmente Morwan Barghouti, ma è condannato ad interminabili pene detentive in un carcere israeliano. La destra capeggiata da Nethanyahu non riesce neppure a concepire un vero interlocutore, figuriamoci se saprebbe liberare un «nemico» per trattare con lui sul serio.

l’Unità 11.7.14
Nei disegni dei bambini le gambe lunghe per fuggire
I piccoli palestinesi hanno traumi da stress
Gli israeliani di Sderot: 30 secondi per mettersi in salvo
di U.D.G.


I loro disegni raccontano di una sofferenza indicibile. I loro occhi impauriti narrano di una infanzia violata. Essere bambini nell’inferno di Gaza o nei bunker di Sderot. Bambini palestinesi e bambini israeliani, vittime innocenti di un conflitto senza fine. La guerra è la loro ossessione. La paura la condizione permanente. I bambini di Gaza, nel racconto di Anne, giovane cooperante americana: «I bambini nei loro racconti, spesso fanno riferimento alla guerra. Dopo che abbiamo fatto il gioco delle sagome, abbiamo notato che i bambini riconoscono i loro occhi e le loro orecchie come punti di debolezza nel loro corpo, spiegando che con gli occhi vedono le distruzioni e con le orecchie sentono il bombardamento. Invece per quanto riguarda i punti di forza, i bambini rispondono, le gambe perché ci aiutano a fuggire e le mani perché ci aiutano a nascondere la faccia». Non conoscono pace, i bambini di Gaza. Per loro la «normalità » è un trauma permanente. «Ogni volta che sento i rumori degli aerei, ho paura perché penso che gli israeliani ci attaccheranno di nuovo», dice Mohammed, 8 anni, di Beit Lahya. «I miei figli quando sentono qualsiasi rumore, per esempio una porta che sbatte, pensano che sia ricominciato l’attacco », spiega Ahmad, il padre del piccolo.
LE TESTIMONIANZE
Un trauma infinito. «La prima volta che sono tornato a Gaza dopo la guerra (“Pilastro di Difesa”, 2012, ndr) sono rimasto impressionato da quanto madri e bambini soffrissero per la portata dei bombardamenti - rimarca Akihiro Seita, il direttore dei programmi di salute dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi -. Tutte le mamme che ho incontrato nei centri di salute dell’Unrwa hanno messo in evidenza come i loro figli si comportassero in maniera diversa durante e dopo il conflitto: alcuni non dormivano più, altri non mangiavano, altri ancora non riuscivano più a parlare. È straziante ascoltare questi racconti, ancora di più esserne testimone». Secondo Aida Kassab, del Gaza Community Mental Health Program, moltissimi bambini soffrono del post traumatic stress disorder, esattamente lo stesso disturbo di cui soffrono i militari americani tornati dall'Iraq o dall'Afghanistan.
LE SIRENE
Sderot dove la vita è una roulette russa. Sderot, la città israeliana più bersagliata dai razzi palestinesi. Sderot è un obiettivo da colpire, una città da terrorizzare, una «entità sionista» da distruggere. E non importa se a essere ripetutamente colpiti dai razzi palestinesi siano l'asilo e la scuola elementare Ogni cosa attorno ai bambini di Sderot racconta di una condizione psicologica insostenibile. La parola più pronunciata dai bambini di Sderot è «pachad» paura. Quando Tahal Pfeffer, 4 anni, torna a casa dall'asilo, si accuccia sotto il tavolo della cucina e lì rimane. Quando Tahal ha cominciato a comportarsi così, circa sei mesi fa, sua madre Ofra ha pensato che si trattasse di un gioco.Tuttavia dopo averla incoraggiata a parlarne, Ofra si è resa conto che questo era il modo escogitato dalla figlia per controllare lo stress causato dall’allarme sicurezza all’ombra del quale la bambina ha vissuto gran parte della sua giovane vita: i razzi Qassam che cadono su Sderot, il rumore dell'artiglieria israeliana che fa fuoco su Gaza e i boom supersonici provocati dagli aerei dell’aviazione militare dello Stato ebraico. Tahal trasale al minimo rumore, così come fa Yaakov, suo fratello maggiore, sette anni: dallo squillo di un campanello ad uno sbattere delle porte. Quando parte la sirena dell’allarme «Treva Adom», il segnale che un Qassam è in avvicinamento, i bambini si bloccano immediatamente. Se accade di notte, corrono immediatamente nel letto della madre. Sono smarriti, impauriti, emotivamente destabilizzati. La vita a Sderot è una roulette russa: passano nemmeno trenta secondi dall’avvistamento del razzo al suo impatto. Trenta secondi per cercare un rifugio, per evitare di essere intrappolato nelle macerie di un palazzo centrato dai missili palestinesi. La scansione della quotidianità a Sderot è segnata dalla paura. E dal dolore. Anche questo è inferno. Per tutti. Soprattutto per i più innocenti e indifesi: i bambini. A Gaza, a Sderot.

Corriere 11.7.14
Quei sei bambini uccisi da un missile «È stato un errore»
di D. F.


GERUSALEMME — Il primo avvertimento arriva alle 13.30. «Avete cinque minuti per scappare, prendete i bambini», dice la voce al telefono. A Gaza tutti sanno che cosa significhino quelle parole, sono le stesse pronunciate nella guerra del 2009 e negli otto giorni di offensiva due anni fa. Passa più di un’ora e un drone lascia cadere un razzo sul tetto: non esplode, non deve, è un altro colpo di avviso. La casa è su tre piani, sette appartamenti, i Kaware vivono tutti insieme, ci abita anche Odeh, uno dei figli del capofamiglia Ahmad. Sarebbe lui l’obiettivo perché è un miliziano delle brigate di Hamas.
Escono dall’edificio e pochi minuti dopo rientrano, salgono le scale per arrivare in cima al cubo grigio di cemento e cercare di fermare il bombardamento. È troppo tardi, il missile è partito, muoiono in otto, tra loro sei bambini. Adesso l’aviazione israeliana dice che la strage di martedì a Khan Younis, nel sud della Striscia, è stata un errore. «Non c’è stato niente da fare — spiega una fonte al quotidiano Haaretz —, il missile era già in volo e non c’è stato modo di deviarlo. Nel video si vedono i famigliari ritornare di corsa , a quel punto era troppo tardi».
I palestinesi raccontano che non tutti i Kaware avevano lasciato il palazzotto, le vittime erano rimaste dentro. «Gli israeliani hanno sparato lo stesso». B’Tselem, organizzazione di Gerusalemme per i diritti umani, ha raccolto le testimonianze e ricorda che le case dei civili non sono obiettivi militari legittimi, «anche se non ci fossero vittime collaterali». L’esercito risponde che Odeh è il comandante militare dell’area: «Da eliminare». Non è rimasto ucciso, forse non era neppure in casa.
Le Brigate Ezzedin Al Qassam l’hanno ribattezzato nei loro proclami «il massacro dei bambini di Khan Younis»: «È stata superata una linea rossa, consideriamo tutti gli israeliani come bersagli». Non che prima evitassero i tiri indiscriminati sulle città.
Le ruspe scavano la sabbia e quel che resta del Fun Time Beach, un locale sulla spiaggia dove in molti erano usciti mercoledì sera per vedere la partita tra Olanda e Argentina. Negli appartamenti l’elettricità va e viene, qui c’era un generatore e lo schermo gigante. Il colpo potrebbe essere partito dalle navi che in quella notte hanno bombardato la Striscia: i morti sono nove. «Avrebbe dovuto essere una serata normale», dice un poliziotto locale all’agenzia France Presse . «I ragazzi erano venuti per rilassarsi, l’aria è più fresca in riva al mare. Invece gli ebrei hanno vinto 9 a 0».

Repubblica 11.7.14
L’offensiva su Gaza
“Noi scudi umani tra Hamas e gli sms di Israele”
di Fabio Scuto


GERUSALEMME. LA CHIAMATA sul cellulare è arrivata alle tre del mattino, una voce incisa diceva in arabo: hai 5 minuti per lasciare la casa che sta per essere bombardata », racconta Khaldun Rami di Beit Hanun, «come fai a raccogliere l’essenziale e scappare in 5 minuti con moglie e tre figli che dormono?». Khaldun ce l’ha fatta. Due figli appesi al collo, uno piccolo in braccio alla moglie Safa e giù per tre piani di scale a perdifiato e per correre il più lontano possibile. «Vivevamo lì in tre famiglie e loro volevano uccidere un uomo solo».
«Hanno sparato contro l’edificio comunque. Cinque minuti dopo un missile l’ha polverizzato ». Sul posto è rimasto un enorme cratere, mezzo pieno di detriti, lamiere e mobili frantumati, il terreno intorno è disseminato di palme e ulivi sradicati. Il “bersaglio” Hafez Hammad, un leader della jihad islamica che abitava lì, non ha ricevuto nessun avviso e nessun messaggino sul cellulare: è morto insieme a cinque membri della sua famiglia, tra loro due donne e una figlia di 16 anni.
A casa della famiglia Kaware a Khan Younis, nel sud della Striscia, è arrivato invece un sms sul cellulare della nuora di Salah, il capofamiglia. Un testo breve e semplice: fuori in 5 minuti o morirai. Poi un ulteriore avvertimento è arrivato mentre i residenti uscivano: un drone ha sparato un missile sul tetto - «ha bussato», dicono a Gaza - della casa di quattro piani. A quel punto, racconta sempre Salah, sono accorsi i vicini di casa «come per formare uno scudo umano, qualcuno è salito sul tetto per cercare di evitare l’attacco, altri erano per le scale quando la casa è stata bombardata qualche minuto dopo». Un caccia F-16 a volo radente ha sparato un missile che ha trasformato la palazzina in una nuvola di polvere uccidendo 7 persone e ferendone altre 25.
Nel tentativo di contenere il numero dei civili palestinesi uccisi nei raid contro Hamas l’esercito israeliano ha adottato da anni diverse misure di “avviso” per evitare le accuse di uccisioni indiscriminate o quella di crimini di guerra. Ma intanto al terzo giorno di operazioni militari, degli 80 morti palestinesi la metà sono donne e bambini. Già durante l’operazione “Piombo Fuso” nel 2009, gli israeliani hanno usato telefonate e volantini per avvisare la gente di prima di colpire Ma spesso, come nel caso di Khan Yunis, le persone muoiono in ogni caso perché ignorano o sfidano l’avviso, oppure lasciano la casa troppo tardi. I bombardamenti non sono mai chirurgici e i missili talvolta non colpiscono l’edificio a cui sono destinati. Arye Shalicar, portavoce dell’Esercito, spiega che le forze israeliane hanno fatto tutto il possibile per evitare vittime civili innocenti, che hanno aspettato che la casa fosse abbandonata ma poi alcune persone sono ritornate poco prima dell’attacco, quando non era più possibile fermare il raid.
Gli “scudi umani” sono la strategia difesa di Hamas: che piazza adesso le sue batterie in mezzo ai centri abitati per evitare la rappresaglia (che però puntualmente arriva), e che anche se non è convinto che sia un deterrente per gli israeliani comunque alza il numero delle vittime civili facendo il gioco degli integralisti. E forse non tutti lo fanno davvero spontaneamente. Uno dei loro boss è andato addirittura in tv per elogiare e sollecitare altri “martiri”. «Chiediamo a tutto il popolo di Gaza di seguire questa pratica», ha detto dagli schermi di Al Aqsa, la rete controllata da Hamas. Ieri pomeriggio il “rinato” ministero dell’Interno di Hamas ha diramato un comunicato a tutti i cittadini della Striscia invitandoli «a ignorare questi avvertimenti del nemico, a non lasciare le proprie abitazioni collaborando così con gli israeliani ». Avvisi minacciosi che però sono stati ignorati dagli abitanti di Beit Hanoun e Beit Laya - le due cittadine a ridosso del confine - che a centinaia stanno lasciando le loro case, mentre l’Unrwa (l’agenzia Onu che si occupa dei profughi) ha dato disposizione di aprire le “sue” 259 scuole per ospitarli. Gli israeliani stanno lanciando in questi giorni decine di migliaia di volantini su Gaza che invitano a non cooperare con il terrorismo e di stare lontano dalle zone di confine dove è più frequente uno scambio di colpi, avvertimenti che per Human Rights Watch non esonerano le forze armate israeliane, che devono invece «assicurarsi che le avvertenze siano efficaci e non consentono attacchi vietati dal diritto internazionale ». Gli israeliani non sempre però lanciano avvertimenti, naturalmente. Come nel caso delle “eliminazioni mirate”: ieri sono state centrate tre auto con a bordo miliziani e una motocicletta guidata da un capo della jihad islamica. Non erano né di Hamas né della jihad, invece, gli appassionati di calcio che mercoledì nonostante i bombardamenti seguivano (dalla tv israeliana piratata) la semifinale Olanda-Argentina, in un chiosco sulla spiaggia davanti al campo profughi di Khan Yunis. Forse speravano nella “tregua olimpica” come avvenne per i Mondiali 2006. Sette di loro non sapranno mai com’è finita. Un missile di un caccia israeliano ha centrato il chiosco durante i rigori. Anche ai venti feriti gravi, adesso, non importa più.

Repubblica 11.7.14
Il ruolo Jihadista
Sulla Palestina l’ombra del califfo nero
di Marek Halter


BENJAMIN Netanyahu sta sbagliando bersaglio. Non sono le milizie di Hamas che lanciano razzi contro Israele, perché il movimento islamico non ha nessun interesse a scatenare una guerra totale contro il suo vicino. Chi è allora il responsabile della morte dei tre ragazzi israeliani e della pioggia di razzi sullo Stato ebraico? In Medio Oriente è improvvisamente apparso un nuovo attore, una figura inaspettata, che non rispetta le regole.
E CHE nessuno sa come contenere, aggredire o neutralizzare. Sto parlando di Abu Bakr al Baghdadi, il nuovo Bin Laden, che a differenza del fondatore di Al Qaeda ha scelto di operare in una regione del mondo che ci riguarda più da vicino, per il petrolio, ovviamente, ma anche perché a Gerusalemme c’è il Dio delle tre grandi religioni monoteiste, dove i fedeli possono camminare sulle orme di Gesù, del re Davide e di Maometto. Al Baghdadi ha una strategia ben precisa. Scatenare l’inferno a Gaza è il diversivo che gli consentirà di penetrare in Giordania. Mentre Israele combatte o invade la Striscia, lui potrà tranquillamente dirigersi verso Amman per realizzare il sogno del califfato, un progetto tutt’altro che assurdo. Infatti, con il califfato si aboliscono le frontiere politiche e si ritorna all’idea originaria dell’Islam, dove i ricchi saranno costretti a spartire i loro beni con i poveri e dove sarà la religione a risolvere ogni problema. È un’idea seducente, che piace a molti. Per metterla in opera, Al Baghdadi e i suoi hanno capito che è necessario superare la guerra tra sciiti e sunniti, e hanno perciò creato brigate sciite che marceranno assieme ai sunniti, scongiurando il rischio di provocare un’ennesima fitna , una guerra civile tra musulmani.
Il jihadista Al Baghdadi procede ora su due teatri: alla frontiera con la Siria, per unirsi con i musulmani radicali siriani, allo scopo di abolire insieme quel confine; e alla frontiera con la Giordania, dove è consapevole che una volta entrato gli sarà facilissimo far insorgere la popolazione contro il re, il quale verrebbe difeso solo dai beduini. Ma anche Israele sarebbe allora costretto a intervenire per proteggere la monarchia giordana, perché una volta arrivate in Giordania le brigate di Al Baghdadi si troverebbero di fatto già in Palestina. Ecco perché il nuovo Bin Laden vuole aprire un secondo fronte a Gaza.
L’ultima volta che incontrai Khaled Meshal, il capo di Hamas, mi disse che presto non avrebbe più controllato Gaza, dal momento che la situazione gli stava sfuggendo dalle mani. Mi disse anche che era giunto il momento di negoziare con Israele, perché nella Striscia stavano nascendo falangi jihadiste, le quali non avrebbero mai trattato con lo Stato ebraico. Ebbene, a Gaza sono proprio quei gruppi paramilitari, molto più intransigenti e più radicali di Hamas, che oggi stanno mettendo il fuoco alle polveri.
Per opportunismo politico, a Netanyanhu e ai suoi alleati della destra israeliana conviene dire che è soltanto colpa di Hamas, perché in questo modo giustificano l’impasse dei negoziati con Abu Mazen. Il leader palestinese ha firmato un trattato con Hamas per formare un governo comune: dunque, dice Netanyanhu, se Hamas continua a lanciare razzi su Israele, noi non possiamo di certo negoziare con il suo sodale o con il suo alleato. Il premier israeliano è prigioniero della sua stessa strategia. In realtà Hamas ha teso la mano ad Abu Mazen nella speranza, un giorno, di vincere democraticamente le elezioni in Palestina e governare sia in Cisgiordania sia a Gaza, costringendo Israele a negoziare anche alle sue condizioni. Ma Hamas non può più contare sull’appoggio egiziano, poiché il generale Sissi li considera alla stregua dei Fratelli musulmani. E, a parte il Qatar e qualche principe saudita, nessuno è più disposto ad aiutarlo. In questo momento, avrebbe troppo da perdere se scoppiasse una vera guerra con Israele. Al contrario, i jihadisti non hanno nulla da perdere. Senza contare che se Israele conosce tutte le basi militari di Hamas e le bombarda con precisione chirurgica, ignora dove siano ubicate le cellule islamiche nella Striscia, che continuano indisturbate a lanciare i loro sofisticati razzi.
Se volessimo risalire negli anni, uno degli artefici di questo disastro è l’ex presidente George W. Bush, il quale usando la menzogna ha destabilizzato quella parte del pianeta, dall’Iraq alla Siria. Bush è un criminale di guerra che andrebbe processato dal Tribunale internazionale dell’Aja.

Corriere 11.7.14
Gli insulti razzisti all’ideatore della Cupola di ferro


Minacce di morte e applausi. Gli estremisti ebrei attaccano Amir Peretz, ministro dell’Ambiente, colpevole per loro di aver visitato la famiglia di Mohammed Abu Khudair, il ragazzino palestinese rapito e ammazzato martedì scorso. La sua pagina Facebook è diventata un elenco di insulti, incitazioni razziste, odio contro gli arabi. L’altra Israele, la maggioranza, lo ferma per strada e gli stringe la mano per ringraziarlo. Peretz rischierebbe di passare alla storia come uno dei peggiori ministri della Difesa (tra il 2006 e il 2007, gestione criticata della guerra con il Libano) se non fosse anche l’artefice politico di Iron Dome, il sistema anti missilistico che ha voluto e sostenuto quasi da solo. È la sua Cupola di ferro a proteggere in questi giorni le città .
(d.f.)

Corriere 11.7.14
La pace spiegata a mio figlio
Dio non ci donerà la pace. Insegnerò a mio figlio la parola «compromesso»
di Etgar Keret

scrittore e regista israeliano

Mio figlio, di otto anni e mezzo, a scuola ha cantato una canzone sul desiderio di pace. I bambini hanno poi chiesto al buon Dio un regalo: la pace. Ma la pace è un compromesso tra uomini.
A essere sinceri ho cominciato a scrivere questo pezzo già qualche settimana fa, quando tre ragazzi israeliani, che ora sono sottoterra, ancora ridevano e scherzavano e un ragazzo palestinese di sedici anni, il cui corpo carbonizzato è stato pure seppellito nel frattempo, probabilmente se la spassava con i suoi amici. La richiesta mi è arrivata dal quotidiano Haaretz , che ha organizzato una Conferenza di pace in occasione della quale anche Abu Mazen ha scritto un pezzo molto interessante e persino il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha inviato un suo commovente contributo. Naturalmente anch’io ho accettato di scrivere qualcosa. In fin dei conti voglio la pace come tutti — e non da oggi — e in queste settimane aride, in cui un simile obiettivo sembra più lontano che mai dalle nostre vite, tutto ciò che resta è scrivere. Quando però ho provato a mettermi al computer ho scoperto che, a differenza di un tempo, quando riuscivo a comporre un pezzo su questo argomento a scadenza bimestrale per qualunque giornale straniero che volesse trasmettere ai suoi lettori un po’ di speranza per il futuro della regione, questa volta non mi veniva in mente niente.
La situazione era calma all’apparenza anche se, dopo l’interruzione dei colloqui di pace e la diffusione di una generale atmosfera di disperazione che ha contagiato persino gli ingenui Stati Uniti (i quali sembrano aver rinunciato all’idea di una soluzione politica per la regione), era chiaro che fosse solo questione di tempo prima che succedesse qualcosa di criminale e, nel clima afoso e deprimente di questi giorni, trovavo difficile scrivere della pace senza sentirmi un idiota, o per lo meno distaccato dalla realtà.
Nel frattempo sono cominciate le vacanze estive e i Mondiali di calcio e, poco dopo, anche quella follia tanto nota da queste parti che riesce a essere al tempo stesso sconvolgente, inconcepibile e del tutto prevedibile. Mentre i cannoni tuonavano e i membri del governo israeliano si infiammavano è iniziata la Conferenza di pace israeliana e io ho avuto modo di ascoltare e leggere i discorsi di molte personalità eloquenti e determinate che continuano a parlare dell’agognata pace senza battere ciglio anche in momenti come questi, in cui la terra brucia sotto ai nostri piedi.
Cosa c’è in questa pace sfuggente della quale tutti amano tanto parlare ma che nessuno riesce ad avvicinare neanche di un millimetro?
Qualche mese fa mio figlio, di otto anni e mezzo, ha partecipato a scuola a una cerimonia in cui a ogni bambino è stata consegnata una copia della Torah. Al termine della cerimonia tutti gli alunni hanno cantato una canzone popolare che parlava del desiderio di pace. E, alla fine della canzone, hanno chiesto al buon Dio un unico, piccolo regalo: la pace sulla terra.
Sulla strada di casa ho riflettuto su questa canzone. A differenza di altre che mio figlio canta in varie cerimonie e in cui ci si batte senza paura o si scaccia il buio con fiaccole ardenti, in questa la pace non viene conquistata con il sangue e col sudore, ma viene richiesta. E non solo: viene richiesta in dono. E questa, probabilmente, è la pace alla quale aneliamo. Un qualcosa che saremmo felicissimi di ricevere in dono senza dover pagare nessun prezzo e senza dare nulla in cambio. Ma, a differenza della nostra comprovata capacità di sopravvivenza, che dipende unicamente da noi, questa pace è nelle mani della Divina Provvidenza.
Credo che mio figlio appartenga alla seconda se non alla terza generazione indottrinata a considerare il conflitto israelo-palestinese come una condanna del cielo. Qualcosa di cui, proprio come il brutto tempo, si può parlare, ci si può lamentare o scrivere canzoni, ma a proposito del quale non si può fare niente.
Due anni fa, nell’ambito di un particolare progetto di Haaretz , intervistai il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e gli chiesi cosa stesse facendo per risolvere il conflitto in Medio Oriente. Lui parlò a lungo della minaccia iraniana e dell’instabilità degli altri regimi della regione ma quando, con un’ostinazione quasi infantile, io insistetti a volere una risposta alla mia domanda iniziale, Netanyahu ammise che non stava facendo niente per risolvere il conflitto, perché il conflitto non può essere risolto.
A quanto pare anche Netanyahu, coraggioso ex ufficiale dell’esercito che non ha avuto paura ad affrontare situazioni impossibili sul campo di battaglia, sul tema della pace la pensa esattamente come mio figlio e i suoi compagni di classe. Non vorrei rovinare il buon umore al Primo ministro e a tutti i bambini della seconda elementare, ma ho la netta sensazione che Dio non ci darà nessuna pace e che saremo noi a dover fare uno sforzo per ottenerla. E se ci riusciremo né noi né i palestinesi l’avremo ricevuta in dono. La pace, per definizione, è un compromesso tra due parti e in un compromesso ogni parte deve pagare un prezzo concreto e pesante, non solo in termini di concessioni territoriali o economici ma anche di un effettivo cambiamento del proprio modo di vedere il mondo.
Quindi, forse, come primo passo per costruire un clima di fiducia tra noi e questa vecchia e mai realizzata fantasia, si dovrebbe smettere di usare la parola «pace», che da tempo ha assunto sia per la sinistra che per la destra un significato trascendentale e persino messianico, e sostituirla con il termine «compromesso», forse meno entusiasmante ma che per lo meno ci ricorda, ogni volta che lo utilizziamo, che la soluzione a cui aneliamo non si trova nelle nostre preghiere ma nel perseverare in un faticoso e non sempre perfetto dialogo fra noi e l’altra parte.
Quindi sì, è vero. È molto più difficile comporre canzoni sul compromesso che sulla pace, certamente più di quelle che mio figlio e altri bambini possano cantare con le loro voci angeliche. È difficile trovare rime adatte a questa parola o una sua rappresentazione grafica che faccia bella figura stampata su una maglietta. Ma contrariamente a «pace», un vocabolo morbido, che rotola bene in bocca e non pretende nulla da chi la usa, il termine «compromesso» richiede dei presupposti. Chiunque voglia utilizzarlo, infatti, deve essere disposto innanzi tutto a fare delle concessioni, e forse anche di più: ad accettare il fatto che, al di là della propria, assoluta verità, potrebbe essercene un’altra contraria. E nella realtà razzista e violenta in cui viviamo anche questo non è poco.
(traduzione di Alessandra Shomroni )

il Fatto 11.7.14
Striscia di Gaza
La trappola palestinese chiusa al mondo
di Cosimo Caridi


Striscia di Gaza . Saracinesche chiuse e strade sgombre, Gaza sembra dormire. Come rintocchi in lontananza si sentono le esplosioni. Squilla il telefono. “Allon-ta-na-tevi subito, la casa sta per essere distrutta dalle nostre forze armate”. Questione di qualche minuto, un razzo piove dal cielo e trasforma gli edifici in cumuli di macerie. Sono oltre 80 i morti e almeno 500 i gazawi feriti nei bombardamenti “chirurgici” ordinati da Netanyahu. L’operazione Margine Protettivo, iniziata 4 giorni fa, vuole colpire Hamas, ma a pagare il prezzo più alto sono i civili. Ieri Arye Shalica, portavoce dell’esercito israeliano, ha ammesso che martedì un’intera famiglia è stata sterminata per errore.
I Karawe, abitavano a Khan Yunis, la seconda città più popolosa della striscia. Una telefonata li ha avvertiti dell’arrivo di un razzo. La famiglia ha abbandonato la casa, subito il missile ha colpito la loro abitazione: un piccolo ordigno che non trasportava esplosivo, per “bussare sul tetto” come viene chiamata questa procedura in gergo militare. Il missile doveva confermare la serietà dell’avvertimento telefonico, ma in 8 hanno pensato il pericolo fosse passato e sono corsi dentro. Mentre rientravano in casa viene lanciato un secondo missile, questo più grande e micidiale, capace di distruggere l’edificio. Muoiono tutti. L’obbiettivo dell’esercito israeliano era Odeh Kaware , uno dei capi di Hamas a Khan Yunis. Il miliziano non era in casa al momento dell’attacco. I leader di Hamas sono spariti da giorni e si fanno sentire solo tramite portavoce o attraverso messaggi video. Proprio da una tv Hamas ha chiesto ai civili di fare da scudo umano, salendo sui tetti delle case. Impendendo così il lancio dei razzi israeliani.
“I BOMBARDAMENTI su Gaza sono più frequenti degli anni bisestili” dice Nail con un sorriso amaro. “Ma ora noi siamo stanchi – continua, scrutando il cielo - chi non muore sotto le macerie si spegne lentamente schiacciato dall’occupazione”. Tornato dagli Stati Uniti nel 2005 Nail ha tentato di investire nella Striscia i suoi risparmi d’espatriato. “Sto ancora pagando per i danni che ho subito nei bombardamenti del 2012”. Mentre parla si sente il frastuono di un enorme combustione. È un missile che dalla Striscia viene lanciato contro Israele. Secondo l’intelligence di Gerusalemme i miliziani di Hamas sarebbero in possesso di circa 10mila “razzi artigianali”.
Nei primi 3 giorni dall’inizio dell’operazione il movimento islamico ha lanciato oltre 350 missili tra cui gli M302, ordigni con una gittata di oltre 100 chilometri che compromettono la sicurezza di Gerusalemme e Tel Aviv. L’esercito dichiara che il 90% dei missili a lunga gittata sono stati abbattuti dal sistema di difesa Iron Dome. Sono però le città nel sud d’Israele le più esposte agli attacchi. Hamas non telefona ai suoi bersagli prima di lanciare i razzi. Secondo le istruzioni dell’esercito chi vive ad Ashkelon ha 15 secondi, dall’inizio delle sirene antiaeree, per correre nei rifugi. Ogni casa ha una stanza di sicurezza, sovvenzionata dallo Stato.

il Fatto 11.7.14
Tel Aviv
Tra spiagge e autostrade la nuova fobia dei razzi
di Roberta Zunini


Te la ricordi la lavanderia dove ci nascondevamo ai tempi dei razzi di Saddam? Ieri ci siamo andati di nuovo, questi razzi iniziano a ricordarci quelli del rais”. “Quando mi sono svegliato questa mattina ho scoperto che un pezzo di razzo era caduto davanti nel giardino. La mia fidanzata mi ha detto che questa notte, quando la sirena aveva iniziato a dare l'allarme, aveva provato a svegliarmi in tutti i modi. Mentre stava per buttarmi in faccia una secchiata d’acqua, ha visto qualcosa dalla finestra che è caduta per terra facendo un bel rumore. Poi la sirena ha smesso di suonare e anche lei è tornata a letto”.
VOCI DA TEL AVIV. Iftach, Lior, Yeremy, Shira, Oree, Sharon, Michal, sono amici che abitano nella capitale israeliana dove anche ieri sono suonate le sirene per avvertire la popolazione che il 5° razzo nel giro di due giorni, era stato lanciato dalla Striscia di Gaza. Son stati tutti intercettati dal sistema di difesa antimissile ma i pezzi di uno sono arrivati dentro la zona sud della città, finendo su un auto, in autostrada e davanti a una casa, quella dell’ amico dal sonno inscalfibile.
Nella casa-ufficio di Iftach – un avvocato che si batte contro l'occupazione dei Territori palestinesi e ha difeso più volte in tribunale i giovani palestinesi di Gerusalemme Est incarcerati per il lancio di pietre contro i coloni – ero stata più volte per intervistare i suoi clienti e un giorno mi fece scendere nell'attuale lavanderia per mostrarmi la ‘camera di protezione’. “Non mi sorprende che Hamas sia in grado di lanciare tali razzi. L'Iran ha continuato a fornirglieli e nessuno è stato in grado di fermarlo. A dimostrazione che bombardando la Striscia si ottengono solo morti tra i civili ma non si blocca la capacità militare del movimento islamico. Ma se la forza fosse davvero efficace, allora perché dopo ‘Piombo fuso’ o ‘Colonna di difesa’ (nomi delle ultime due operazioni aeree israeliane contro Gaza, la più recente avvenuta un anno e mezzo fa, ndr) tutto è ricominciato come prima, anzi peggio, considerato che Hamas ora dispone di missili che riescono a raggiungere anche Haifa, a 150 chilometri dalla Striscia?”. La domanda retorica dell'avvocato Cohen non se la pongono in molti, soprattutto nelle ultime 24 ore, quando s’è registrato l'arrivo di un razzo ogni 10 minuti. “Se noi israeliani togliessimo il blocco delle frontiere di Gaza e non impedissimo l'ingresso di cibo, medicinali e materiale edile, insomma se non punissimo ogni giorno tutta la popolazione di Gaza col nostro assedio criminale, Hamas non avrebbe più scuse per lanciare i razzi. In realtà il nostro governo ha bisogno di un nemico come Hamas per evitare di concludere gli accordi di pace e distrarre i cittadini dai veri problemi del Paese”, conclude Cohen.
Ma ora gli israeliani, soprattutto quelli che vivono a ridosso della Striscia, nel sud-ovest di Israele, sono terrorizzati e passano ormai il loro tempo dentro i rifugi. L'ingresso delle truppe di terra a gaza si avvicina dunque sempre più e suona alle orecchie di tutti, assieme al suono delle sirene, come un'operazione di autodifesa. Finora non ci son state vittime, eccetto una signora scivolata nella doccia mentre cercava rifugio al suono delle sirene.

La Stampa 11.7.14
“Ma invadere la Striscia non conviene a nessuno”
Bremmer: il premier non vuole caduti, gli islamisti sono deboli
intervista di Paolo Mastrolilli


In quella regione un’escalation è sempre possibile, anche per errore, ma l’invasione di terra a Gaza non conviene a nessuno». Ian Bremmer, presidente e fondatore dell’Eurasia Group, azzarda la sua previsione mentre la violenza aumenta.
Non crede all’invasione?
«Intendiamoci: è sempre un’ipotesi plausibile. Netanyahu ha richiamato 40mila riservisti, i lanci di razzi da Gaza continuano, e un incidente potrebbe sempre scatenare la guerra. Detto questo, l’invasione non conviene al premier perché sarebbe costosa, farebbe vittime e avrebbe un prezzo politico. Essendo sotto attacco, deve parlare con durezza, ma non ha promesso la distruzione di Hamas o l’annullamento della sua forza militare: queste sarebbero parole in codice che renderebbero necessaria l’operazione di terra, ma Netanyahu ha fatto attenzione a non usarle».
Hamas non avrebbe interesse a provocare un conflitto, aprendo un nuovo fronte oltre alla Siria e l’Iraq?
«Non credo, perché è isolato come mai prima. In Egitto non ci sono più i Fratelli Musulmani, e gli altri paesi della regione hanno altri problemi».
Assad ed Hezbollah spingono Hamas ad attaccare?
«Mi pare che siano già abbastanza occupati dai loro problemi, non credo che stiano fomentando queste azioni».
Gli attacchi sono frutto di una spaccatura dentro Hamas, fra chi è favorevole al governo con Fatah, e chi vuole abbatterlo?
«Se chiedi agli israeliani, in via confidenziale ti rispondono che in realtà negli ultimi due anni Hamas è stato abbastanza responsabile nel cercare di evitare azioni che potrebbero provocare risposte dure come un’invasione di Gaza. Negli ultimi giorni questo atteggiamento è cambiato, e potrebbe essere frutto di dissidi interni, ma secondo me sono eventi separati da quanto sta accadendo in Iraq o nel resto della regione».
Cosa si aspetta in Iraq?
«Siamo in una fase di stallo. Isis ha proclamato il califfato per ragioni propagandistiche, raccogliere consenso, soldi e reclute. Però non è in grado di gestire uno stato o avanzare verso Baghdad. Il premier Maliki non sembra intenzionato a formare un governo inclusivo, e le sue truppe hanno cominciato la controffensiva in città simbolo come Tikrit. I curdi si sono presi un 40% in più di territorio, e non lo molleranno presto. In sostanza c’è una nuova realtà sul terreno, che lascia presagire un conflitto lungo».
Gli Usa cosa possono fare?
«Poco. In Israele e Gaza hanno lanciato appelli alle teste più fredde, ma dopo due anni di frustrazioni Kerry non ha alcun interesse a farsi coinvolgere ancora. Punta soprattutto sui paesi vicini per evitare la guerra: il nuovo governo egiziano sta lavorando alla tregua, e sarebbe un successo importante se riuscisse a ottenerla. In Iraq Washington non sosterrà Maliki, ma ha mandato i militari perché fa sul serio: vuole capire quanto è forte Isis e lanciare operazioni anti terrorismo, per difendere i suoi interessi qualunque cosa accada al governo centrale».

Corriere 11.7.14
La difficoltà di un dibattito aperto in Italia
«Non facciamo che radicalizzare la faida»
di Paolo Conti


Com’è difficile ragionare con pacatezza, anche qui in Italia, sul dramma del Medio Oriente. Persino di fronte alla morte. Davanti al massacro di Naftali, Gilad ed Eyal, i tre ragazzi ebrei rapiti e trucidati in terra palestinese. O, specularmente, quando si affronta la tragedia di Mohammed, il loro coetaneo palestinese rapito per rappresaglia e bruciato vivo. L’Italia, presidente di turno dell’Unione europea, vive le stesse, parallele spaccature che si registrano in Medio Oriente. Un dato aiuta a capire il perché del coinvolgimento. In Israele sono diecimila gli abitanti con passaporto italiano. Cittadini di religione ebraica che hanno scelto ora di risiedere nello Stato israeliano oppure sono figli o nipoti di chi emigrò nel dopoguerra. Un vincolo forte, che riguarda quindi migliaia di nuclei familiari, rimasti in Italia o residenti ora in Israele.
Ma naturalmente c’è di più. Ne è convinto Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, da anni impegnato nel sostegno a una pace raggiunta attraverso il confronto e la via diplomatica (uno dei successi è stata la pacificazione del Mozambico): «È verissimo. È quasi impossibile, da noi in Italia, affrontare la questione con lucidità senza dividersi in fronti. La tipica politica estera italiana fatta a uso e consumo della politica interna. L’espressione di un Paese che ha rinunciato ad avere un peso internazionale, all’interno di un’Europa diplomaticamente decaduta. Mentre impallidisce l’influenza degli Usa in quel quadrante, l’Unione sembra aver rinunciato a giocare un ruolo importante. Fatale che i processi conflittuali impazziscano sia nella terra in cui tragicamente si svolgono che in Italia».
Un Paese, ricorda Riccardi, che ha avuto una grande tradizione diplomatica in Medio Oriente: «C’era diversità di vedute, Giovanni Spadolini filo-israeliano e Giulio Andreotti filo-palestinese. Ma c’era, appunto, un quadro di rapporti, relazioni e investimenti. Ora non c’è quasi nulla».
Non è diversa la convinzione di Matteo Orfini, presidente del Pd: «Da troppo tempo l’Europa ha delegato agli Stati Uniti la gestione della tragedia mediorientale. Come ha ricordato il presidente Matteo Renzi, è tempo che l’Unione europea riprenda il suo ruolo, la sua missione di speranza. Se dalla scena europea scompare una buona politica estera per quell’area, tutto viene divorato da opposte tifoserie come si vede anche qui in Italia, dove le polemiche politiche interne strumentalizzano anche quei morti. Dobbiamo ricordare che vanno fermamente condannati i lanci di razzi così come la spropositata reazione di Israele che colpisce i civili e non Hamas. Non è così che si risolve il problema».
Il rabbino Giuseppe Laras, presidente emerito e onorario dell’Assemblea rabbinica italiana, pone a questo punto un quesito: «Gli israeliani sono spesso accusati di reagire troppo duramente, e forse possono esserci degli argomenti. Ma come si fa a discutere, qui in Italia o in qualsiasi posto al mondo, con chi dichiara che il suo scopo è farti sparire? In quanto alla difficoltà di un confronto nel nostro Paese penso ci sia oggettivamente un antefatto. Ovvero l’antisemitismo diffuso, anche se non lo si vuole riconoscere e ammettere. Gli israeliani sono ebrei, e il ragionamento può provocare reazioni abnormi figlie dell’antico sentimento antiebraico. Ma si deve uscire dalla tragedia del Medio Oriente, anche se il nodo appare indissolubile. Perché oltre c’è solo la disgregazione e la morte di tutti»
Un altro cittadino italiano è fortemente legato al Medio Oriente, si chiama Hamza Roberto Piccardo, è un editore e scrittore, membro del direttivo dell’Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia: «Non è questione di essere o non essere italiani, di ragionare qui o in qualsiasi altro posto del mondo. Basta mettere mano alle cartine geografiche storiche. Il territorio palestinese si è ridotto a un ventesimo rispetto al 1948. Subisce un’aggressione continua ed è spossessato di tutto. Direi le stesse cose se si trattasse di un paese centro-americano o del Botswana, cito due esempi a caso. Per questo è difficilissimo confrontarsi , c’è alle spalle una guerra di trent’anni e un’ingiustizia che non ha fine». Non ci sarà mai la pace, insomma? «Noi siamo credenti e preghiamo ogni giorno per la pace. Preghiamo e diffondiamo informazione».
Vero, verissimo. Com’è difficile parlare di Medio Oriente anche qui in Italia, senza dividersi esattamente come avviene in quella terra così vicina a noi italiani, quindi all’Europa.

Repubblica 11.7.14
Il Nobel Herta Müller parla di Russia e libertà in pericolo
“Europa, attenta Putin è malato di passato”
di Andrea Bajani


A GUARDARE il mondo da dentro una lacrima, il mondo sembra che affoghi. Eppure una lacrima è una lente così potente – e così personale – che neppure il più bravo degli oculisti saprebbe fare di meglio. Perché l’oculista pretende di restituire, attraverso una lente, il mondo com’è, mentre una lacrima restituisce il mondo deformato da chi lo guarda. In questo sta il suo limite e la sua forza. In questo sta la responsabilità di mostrarlo. «La lacrima è vuota », dice un personaggio di L’uomo è un grande fagiano nel mondo, il romanzo del Premio Nobel Herta Müller che uscirà in ottobre da Feltrinelli nella traduzione di Margherita Carbonaro. «La lacrima è vuota. Riempila d’acqua». La lacrima è la parola del corpo che nessuna censura può occultare dentro un archivio.
Cos’è d’altra parte la lacrima se non un doloroso – o commosso – atto di libertà? Di libertà – tema a cui sarà dedicato il suo incontro al Festival Collisioni, il 20 luglio a Barolo – parliamo con Herta Müller al Literaturhaus di Berlino, città in cui vive dal 1987 dopo essere sfuggita alle tagliole della dittatura di Ceausescu in Romania. Da qui la sua lacrima, che a ogni libro esce dura e poetica, un’avventura letteraria tra le più radicali degli ultimi decenni. Ed è quel prisma – la brutalità della dittatura – che le consente di ricordare quando un’ideologia che dal 1989 sembrava archiviata torna su, come un rigurgito del tempo. E di accorgersi quando la libertà viene messa sotto la suola delle scarpe, soprattutto se i piedi sono quelli di Vladimir Putin.
«Quello che sta succedendo in Ucraina è mostruoso. Già il primo passo, l’annessione della Crimea, era inaccettabile. Ma la destabilizzazione della regione più ricca dell’Ucraina prosegue. Putin si fa forte di una propaganda antifascista, ma i suoi valori sono di estrema destra. Vede nemici dappertutto. Perché è di nemici che ha bisogno ogni dittatore per poter giustificare le violazioni dei diritti umani. Putin poi è un esperto in destabilizzazione: ha agenti specializzati, coltiva separatisti. In fondo non vuole davvero riprendersi l’Ucraina: lui vuole soltanto che sia destabilizzata abbastanza da non poter entrare nell’Ue. È diabolico».
In tutto ciò supportato da una grande retorica nazionalistica, che oggi soffia in tutta Europa. Non le sembra ci sia un rischio di un contagio sempre più esteso?
«Con il nazionalismo si corre sempre il rischio che la situazione perda il controllo. Il nazionalismo ha sempre in sé un elemento irrazionale. Le ideologie non stanno ferme: montano, crescono. Se il nazionalismo fosse solo un sentimento personale, lo si potrebbe vivere anche in un altro modo. Ma nel momento in cui si trasforma in ideologia diventa pericoloso. Nel caso della Russia fa paura il fatto che si ritorni al fantasma della Grande Nazione. D’altra parte Putin arriva dal Kgb, e non conosce altro se non quel mondo».
Però quel mondo è passato, in teoria. Il passato non dovrebbe stare lì anche come monito?
«Se si fosse aperto un dibattito pubblico su che cosa è stato lo stalinismo, se davvero fosse stato detto a chiare lettere che Stalin era un assassino di massa, Putin non avrebbe la possibilità di comportarsi come si comporta. Ho fatto un viaggio in Ucraina vent’anni fa, e mi ricordo che le uniche sculture pubbliche erano i carri armati della seconda guerra mondiale esposti come opere d’arte. Cosa si è fatto dopo ? Non si è fatto altro che riandare con la memoria agli eroi della guerra. Ecco, Putin è riuscito nell’intento di far rivivere tutto questo. Si tratta di uno strategico e premeditato impoverimento del pensiero ».
Ma la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta non sono passati alla storia per il crollo delle ideologie?
«C’è stato un momento in cui tutti noi abbiamo pensato che con la Perestroika e la Glasnost i russi ce l’avrebbero fatta. Il Grande Paese si è diviso in tante piccole parti e si è pensato che andava bene così. Ci si è detti “siamo ungheresi, romeni, polacchi: lasciateci stare così”. Invece no. Oggi, con l’idea della Grande Nazione, torna tutto come prima. È che Putin è ammalato di fantasmi. Tutto quello che succede ora in Ucraina è il dolore che deriva da suoi fantasmi sovietici. Tutto ciò, lo ripeto, anche perché non è mai stato discusso veramente nulla. Putin ora è apprezzato: non è triste questo? Quello che mi stupisce è che anche ad esempio nell’est della Germania ci sia molta gente che capisce Putin. Lo trovo vergognoso. Il muro è caduto, ora hanno tutto, hanno i diritti… Chi arriva dall’est dovrebbe essere dalla parte dell’Ucraina. Mi fa arrabbiare quando la gente dell’ex DDR dimentica com’era la vita con la dittatura. Da là invece vogliono fuggire tutti. Nessuno vuole stare in questo Impero dell’Eurasia dove Putin comanda».
Putin è legato a un’altra questione delicata: Edward Snowden. Il racconto che gli Stati Uniti hanno sempre dato di sé è quello del Paese della Libertà. Eppure oggi Snowden non può dire tutto quello che pensa sugli Stati Uniti.
«È una questione complicata. Dopo l’11 settembre gli Stati Uniti si sono persi. I servizi segreti hanno conquistato un potere immenso. Ma gli Stati Uniti restano una democrazia, e questo è importante. È per questo che le forze democratiche devono far sì che il potere dei servizi segreti venga mantenuto entro certi limiti. Detto questo, la cosa che non mi è piaciuta di Snowden è che sia andato dai cinesi e da Putin. Non è stato politicamente intelligente: in questo modo Putin agli occhi del mondo si trasforma nel paladino dei diritti umani. Il che è triste ed è sbagliato. Grazie all’immensa reazione mondiale allo scandalo Snowden la dittatura della Cina e della Russia passano in secondo piano, e questo è pericoloso. E così Putin continua indisturbato a fare passi indietro nel tempo, e ora è quasi come se ci trovassimo al tempo dello stalinismo».
La Russia va indietro nel tempo e la Cina sembra voler correre sempre più avanti di tutti.
«La Cina è un mostro: Internet bloccato, dissidenti arrestati. È così ricca che potrebbe comprarsi metà della Terra. Tutto questo m’inquieta e mi preoccupa. Per questa ragione voglio continuare a fidarmi degli Stati Uniti. Però gli Stati Uniti devono sistemare alcune faccende. Anche lì succede che vengano violati i diritti, ed è importante che tutto ciò non venga minimizzato. Spero che Google o Wikileaks siano in grado di tenere a freno i servizi segreti. Spero, insomma, che la società civile si difenda. Abbiamo chiaramente bisogno dei servizi segreti, anche per combattere il terrorismo. Ma sono anche convinta di per sé siano diabolici. E sarebbe un problema se non fossero controllati. Perché i servizi segreti non ne hanno mai abbastanza: prendono tutto quel che possono, vanno al di là tutto.

La Stampa 10.7.14
Una mattanza di innocenti
Houston, sterminata un’intera famiglia
uccide quattro bambini e i loro genitori

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La Stampa 11.7.14
Londra, 1 milione in piazza contro i tagli a salari e pensioni
Statali in sciopero. La “middle class” si ribella a Cameron
di Alessandra Rizzo


I pompieri sono scesi in piazza indossando magliette con la scritta: «Noi salviamo le vite, non le banche». Gli insegnanti hanno portato forbici gonfiabili per protestare contro i tagli all’istruzione. Altri dipendenti pubblici si sono mascherati da zombie, dissanguati dall’austerity del governo. Il clima può essere carnevalesco ma il messaggio che dalle piazze britanniche arriva a David Cameron è chiaro: aumento dei salari e stop ai tagli della spesa pubblica.
Centinaia di migliaia di statali hanno incrociato le braccia nella più grande azione sindacale degli ultimi tre anni contro il governo, con cortei e picchetti in tutto il paese. A Londra, in migliaia si sono riversati a Trafalgar Square. «Nell’ultimo anno il salario è aumentato dell’1%. Quest’anno ci hanno offerto la stessa cosa», racconta Chris Black, madre single che lavora in municipio nel Somerset e guadagna 16 mila sterline l’anno (20 mila euro). «Non mi posso permettere un aumento del genere e pagare le bollette».
Il governo di coalizione guidato dal conservatore Cameron ha congelato i salari pubblici nel 2010 per due anni, per poi introdurre un tetto dell’1% agli aumenti di stipendio, meno dell’inflazione, causando un abbassamento del reddito reale. Il costo della vita aumenta, i contributi pensione anche, ma gli stipendi non si adeguano, protestano i sindacati. E’ soprattutto la classe media e medio-bassa a sentirsi ancora schiacciata dalla crisi economica nonostante la ripresa sia in atto. Tra aprile e giugno l’economia britannica è cresciuta dello 0.9% congiunturale, il migliore risultato da quattro anni. «Vedo i miei amici che non riescono a mettere la cena in tavola, poi sento che i ricchi sono sempre più ricchi», dice Corinna Edwards-Colledge, dipendente pubblica a Brighton.
Se la «working class» è stata rovinata dalla crisi economica, la «middle class» è sopravvissuta ma ha dovuto arrangiarsi: lavora di più e spende meno. Si sente vulnerabile e crede poco alle promesse dei politici, secondo recenti studi. Cresce la distanza tra la ricca e cosmopolita Londra, centro finanziario del paese, e il resto della Gran Bretagna. Ma anche la capitale cambia: aumentano i miliardari che comprano case di lusso con vista sul Tamigi ma un mercato immobiliare alle stelle spinge i professionisti con famiglia a vivere sempre più lontano dal centro. Molte coppie hanno abbandonato il sogno inglese di possedere la casa in cui si abita.
Lo sciopero ha mobilitato i lavoratori di ospedali, biblioteche, musei e causato disagi: sei mila scuole chiuse, aule di tribunale vuote e spazzatura non raccolta. Come sempre, è guerra di numeri: secondo i sindacati ha partecipato un milione di persone, secondo il governo la metà. Cameron non intende cambiare politica, forte della ripresa economica che dà speranza ai conservatori per le elezioni del prossimo anno. Anzi, lamentando i disagi ai cittadini, promette di rendere più difficile ai sindacati indire scioperi.

La Stampa 11.7.14
Gli italiani sprofondano nella depressione
2,6 milioni di persone soffrono di questo disturbo mentale

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La Stampa 11.7.14
Frodi scientifiche, la rivista “Nature” costretta a ritirare due studi
Dati plagiati e non riproducibili
Eliminate le pubblicazioni su un rivoluzionario protocollo per ottenere cellule staminali. Sarà il web a salvarci dalle bufale?
di Daniele Banfi

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Repubblica 11.7.14
A cosa serve l’esorcismo
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, sulla delicata materia dell’esorcismo la posizione di papa Bergoglio mi sembra in linea con quella di papa Ratzinger il quale, nel Catechismo firmato il 28 giugno 2005, a proposito dell’esorcismo, alla voce n. 352 dice: «Si ha esorcismo quando la Chiesa domanda, con la sua autorità, in nome di Gesù, che una persona o un oggetto sia protetto contro l’influsso del Maligno (lettera maiuscola!) e sottratto al suo dominio». Siamo nel XXI secolo e ci tocca leggere ancora queste affermazioni. Secondo autorevoli studiosi cattolici, l’esorcismo è una «consolazione dovuta a uomini e donne con disagi dell’anima più o meno gravi»; in parole laiche: affetti da depressione o da altre psicopatie, materia tipica della psichiatria. C’è da chiedersi se siffatta pratica dell’esorcismo non sia esercizio abusivo della professione di psichiatra.
- robi.giannarelli@gmail.com

La lettera del signor Giannarelli nasce da una notizia data il 3 luglio. Paolo Rodari informava sul riconoscimento dato agli esorcisti «sacerdoti dediti a quel ministero che recentemente l’esorcista Sante Babolin ha definito, nel suo libro L’esorcismo “della consolazione”». Quale consolazione? Quella dovuta «a uomini e donne con disagi dell’anima più o meno gravi: la Chiesa ritiene che pochissimi siano davvero posseduti dal maligno. La maggior parte, necessitano soltanto di affetto e cure mediche». Non mi pare che il timore manifestato nella lettera sia realistico. A voler tirare le estreme conseguenze da ipotesi del genere si potrebbe anche dire (infatti s’è detto) che la confessione sia una specie di sostituto della psicoanalisi. Gratuita, tra l’altro. La mia opinione è che queste forme di comunicazione e/o terapia abbiamo solo una funzione tranquillizzante e di rassicurazione. Lo stesso padre Francesco Bamonte, presidente dell’organizzazione internazionale degli esorcisti (Aie) ha precisato che l’esorcismo «è una forma di carità, beneficio di persone che soffrono; rientra, senza dubbio, tra le opere di misericordia corporale e spirituale». Preparando questa nota ho scoperto che su YouTube esiste un breve video in cui papa Francesco nel maggio 2013 in piazza san Pietro avrebbe esorcizzato un messicano quarantenne che si riteneva posseduto da quattro spiriti maligni. Secondo il suo racconto: «È stato nel 1999, ero su un autobus, di ritorno da Città del Messico. Ho sentito come una forza entrare nell’autobus. Non la vedevo, ma la percepivo. Si è avvicinata e si è fermata di fronte a me. A un tratto ho sentito come una pugnalata al petto, mi sentivo come se mi dovesse aprire le costole». Che pensare di questi fenomeni? Che se c’è qualcuno che trova nell’esorcismo un beneficio non c’è alcun motivo per negarglielo.

Repubblica 11.7.14
La ricetta del giudice
La prima volta fu con la cura Di Bella. Una sentenza decise che doveva essere rimborsata dal sistema sanitario nazionale L’ultima con il metodo Stamina
Di fronte a leggi scritte male, a questioni bioetiche ma anche alla scaltrezza di promotori di terapie senza base scientifica i magistrati indossano il camice e stabiliscono cosa spetta ai pazienti
di Michele Bocci


ERA il 16 dicembre del 1997 quando il pretore della cittadina pugliese di Maglie decise che la cura Di Bella doveva essere rimborsata dal sistema sanitario nazionale, anche se non era stata ancora sperimentata. La comunità scientifica era divisa, i media martellavano con le testimonianze di persone “salvate” dal cancro dal professore emiliano. C’era un’enorme pressione anche sugli oncologi. E allora è accaduto un fatto destinato ad avere conseguenze anche negli anni successivi: ha deciso un magistrato. È la storia recente del nostro paese e riguarda casi come quello di Stamina, di Eluana o della legge 40 sulla fecondazione: di fronte a questioni bioetiche complesse, a leggi scritte male ma anche alla scaltrezza di inventori di metodi senza base scientifica, i giudici indossano il camice e stabiliscono chi deve essere curato, magari anche come, e chi no. E spesso sullo stesso caso la vedono in modo diverso tra loro.
Gli scontri di carattere bioetico, gli appelli accorati delle famiglie, le accuse tra scienziati, ciarlatani e politici finiscono per chiamare in causa un principio sancito dalla Costituzione. «Quello della libertà di cura, inteso anche come libertà di non curarsi - dice Gaetano Azzariti, che insegna diritto costituzionale alla Sapienza - Il punto è capire fino a dove può spingersi questa libertà. Perché dall’altra parte c’è lo Stato che deve tutelare la salute pubblica, anche assicurandosi che le pratiche mediche seguano criteri scientifici». La libertà di cura è dunque il cardine intorno a cui ruotano quasi tutte le sfide giudiziarie. Il principio costituzionale viene usato dai magistrati che si trovano a decidere di eutanasia e interruzione dei trattamenti, come nei casi Welby o Englaro, con le famiglie a battersi per interrompere i trattamenti che li tenevano in vita. Ma anche da chi deve decidere su amputazioni rese necessarie da una malattia. Dieci anni fa per due anziane che non volevano essere operate, una in Liguria e una in Sicilia, ci furono prese di posizione opposte da parte della magistratura: ad una fu amputato comunque l’arto malato, l’altra invece ha ottenuto di non fare l’intervento. È morta perché furono rispettate le sue volontà. Poi ci sono giudici che impongono agli ospedali cure non approvate dalla comunità scientifica, come nei casi Stamina e Di Bella, sempre seguendo quel principio costituzionale. Ma i tribunali impongono anche risarcimenti per danni da vaccini, anche in casi di malattie che la medicina ufficiale ritiene non connesse alla somministrazione di quei prodotti.
Altri Paesi affrontano problemi simili. Proprio in questo periodo in Francia si discute del caso di Vincent Lambert, un uomo in stato vegetativo per il quale parte della famiglia chiede l’interruzione delle cure. Il Consiglio di Stato di Reims ha permesso di staccare le macchine ma la madre del malato ha vinto un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Mentre nel caso della legge 40 il sistema giudiziario ha contribuito a smantellare un testo contraddittorio rispetto alla normativa precedente, e le sentenze della corte Costituzionale sono state accolte con favore dai medici. Con Stamina in questi mesi si è raggiunto probabilmente il massimo dello scontro tra comunità scientifica e magistratura. Del metodo di Vannoni si sono occupati il tribunale amministrativo del Lazio, la procura di Torino e tantissimi giudici civili. Gli Spedali Civili di Brescia in questi mesi hanno ricevuto qualcosa come 500 ricorsi di famiglie che volevano “curare” i loro familiari con il sistema ideato da Vannoni. In circa 150 casi hanno vinto, negli altri la richiesta è stata respinta. Come sia possibile che vengano prese decisioni diverse sullo stesso tema resta uno dei punti più difficili da chiarire per tutta la comunità scientifica e per l’opinione pubblica. «Il giudice funziona come perito dei periti. Cioè seleziona gli stessi esperti che lo devono aiutare, cosa che è giusta e avviene in tutto il mondo - spiega l’ordinario di Storia della medicina della Sapienza Gilberto Corbellini - Il problema è che mentre in alcuni paesi come gli Usa hanno messo regole rigide sulle caratteristiche di questi esperti, da noi no. Il giudice può arruolare come psichiatra uno psicanalista, può chiedere aiuto sulle vaccinazioni a un omeopata o a un medico apertamente contrario a questi prodotti. Si scelgono persone giusto perché sono inserite in un albo, nessuno va a vedere se ci capiscono davvero qualcosa di quel tema. Finisce che i magistrati decidono diversamente su casi identici. La nostra situazione è figlia di una deriva che ha colpito lo Stato di diritto: ogni potere va per conto suo e si fa le regole per fatti suoi». Anche Azzariti, riferendosi alle prese di posizione su Stamina, parla di «fascia di grande ambiguità.
Su questa pratica si possono fare valutazioni soggettive. Allo stato dell’arte si deve dire che non ha effetto ma il giudice deve ponderare le esigenze, la libertà di cura dell’individuo e il bene pubblico della salute. Poi va considerato che ai giudici vengono chieste decisioni di urgenza e la loro è una “scelta tragica” come la definiscono gli americani. Non puoi non rispondere ma qualunque decisione assumi ha conseguenze, appunto, tragiche».
Il caso Di Bella è citato spesso come un precedente di Stamina, anche se l’oncologo faceva una terapia composta da farmaci comunque in commercio, quindi sperimentati e autorizzati. Ad essere bocciato da una commissione ministeriale è stato il modo in cui quei prodotti venivano combinati. Ma più magistrati hanno comunque previsto il rimborso da parte delle Asl per chi li acquistava. «La Corte Costituzionale ha detto più volte che l’attività medica si giustifica solo in quanto compiuta secondo i presupposti scientifici - dice Amedeo Santosuosso, giudice della Corte d’Appello di Milano e docente a Pavia - In sostanza questa pratica ha una riserva di scienza e chi opera al di fuori dei presupposti scientifici non ha copertura costituzionale. Parallelamente il giudice è soggetto solo alla legge e quindi nessuno può dirgli cosa deve fare, nemmeno il capo dello Stato. È una garanzia enorme ma l’altra faccia è che se si muove fuori dalle norme non è nessuno, non ha potere. Ecco se la mettiamo così, medici e giudici sono in una situazione simile. Ma come il dottore non è indipendente dalle legge, il magistrato non lo è dalla scienza». Quindi sentenze e ordinanze che ammettono cure non provate sono sbagliate? «Evidentemente non hanno funzionato alcune cose: la cultura dei singoli magistrati, il loro livello di conoscenza delle questioni e la dialettica processuale. L’Avvocatura dello Stato, ad esempio, quando si costituisce a giudizio per resistere a ricorsi di pazienti deve proporre perizie che dicano come stanno le cose».
Beniamino Deidda, già procuratore generale di Firenze, copriva lo stesso incarico a Trieste quando venne investito del caso di Eluana Englaro. «Dovevamo garantire l’esecuzione del provvedimento della Cassazione per l’interruzione delle cure - spiega - Abbiamo resistito a vari tentativi della politica di rinviare tutto, alle denunce, qualcuno ci ha pure accusati di omicidio doloso ». Il ruolo dei magistrati che decidono su questioni bioetiche è particolarmente delicato, proprio perché in questo caso entra in gioco anche la politica. «In certi casi quando si è trattato di decidere del diritto a morire dignitosamente alcuni giudici hanno detto no, perché non esiste una norma specifica - prosegue Deidda - Ma se c’è un conflitto il giudice deve decidere. Deve essere lui a dire l’ultima parola ma non può fare lo scienziato, ci vuole grande cautela». E il principio della libertà di cura? «Deve sempre essere seguito ma chi lo invoca per poter somministrare ai pazienti pratiche non scientificamente provate come Stamina, magari arriva a negarlo se viene invocato su delicati temi etici come quello del fine vita».

Repubblica 11.7.14
Ma ai medici non si può imporre il trattamento più efficace
di Marco Bobbio


OGNI volta che un medico deve assumere una decisione che riguarda la malattia di un paziente, deve integrare di volta in volta gli elementi che gli derivano dai dati scientifici (spesso sintetizzati dalle Società Scientifiche o da organismi del Servizio Sanitario in documenti di Linee guida), le disposizioni delle autorità sanitarie (vincoli, piani terapeutici), la propria esperienza di casi analoghi che hanno avuto esiti positivi o negativi e non ultimo le preferenze e i valori del paziente e dei familiari. Senza dimenticare che il medico è spesso condizionato dalle pressioni dei produttori di farmaci e di dispositivi medici e dalle restrizioni economiche imposte dalle aziende sanitarie. Di rado le informazioni necessarie a identificare la cura migliore coincidono; l’arte medica in sintesi consiste nel trovare l’equilibrio che meglio si adatti alle esigenze cliniche, scientifiche, emotive, economiche di quel singolo paziente.
Se in questo contesto complesso, che si ripete in ogni incontro tra un medico e un paziente, si sovrappongono le decisioni di alcuni magistrati che, in contrasto tra loro, impongono il proseguimento o l’interruzione di una cura, minacciando sanzioni se la propria sentenza non viene applicata, diventa impossibile svolgere un lavoro delicato e personalizzato con la dovuta serenità ed equità. Nessuno mette in discussione il diritto di un paziente, soprattutto quando si trova in condizioni disperate e senza soluzioni realistiche offerte dalla medicina ufficiale, di farsi curare con qualunque mezzo. Quello che diventa intollerabile è costringere il Sistema Sanitario a rimborsare cure che non hanno alcuna legittimazione scientifica e che vengono proposte senza aver seguito l’iter scientifico (uniforme in tutto il mondo e non dettato da qualche capriccioso burocrate italiano), in grado di garantire innanzi tutto la sicurezza e in secondo luogo l’efficacia della cura. Alla fine degli anni ‘90 nessuno aveva contestato al dottor Di Bella il diritto di prescrivere farmaci non autorizzati: qualunque medico può, in scienza e coscienza, proporre a un paziente una cura, purché lo informi adeguatamente sul fatto che si tratta di un trattamento di non dimostrata efficacia. In tal modo il paziente accetta il trattamento a suo rischio e pericolo. Allora, il caso esplose quando alcuni pazienti chiesero a gran voce che quei trattamenti, non approvati, venissero rimborsati e anche in quel caso alcuni magistrati obbligarono il Servizio Sanitario a garantire gratuitamente una terapia che le autorità sanitarie non riconoscevano e non avevano autorizzato, in mancanza di qualunque prova di efficacia e sicurezza.
Il primo imperativo di ogni medico è quello di proporre al paziente il miglior trattamento: questo non significa prescrivergli tutto il possibile o tutto ciò che è disponibile. Talvolta per un paziente è meglio soprassedere a ulteriori cure o accertamenti, quando mancano prove scientifiche di efficacia o quando ci sono dati che fanno ritenere inutile o addirittura dannoso il proseguimento delle cure. Molti studiosi sostengono che accompagnare il paziente nella sua sofferenza può essere più utile e rasserenante per lui stesso e per i suoi famigliari piuttosto che illuderlo con soluzioni salvifiche non sperimentate. È vero che le procedure di approvazione di un farmaco sono lunghe e costose, ma ciò è dettato dall’esigenza primaria di garantire ai pazienti trattamenti di cui si possono fidare. E lo Stato si impegna a garantire la rimborsabilità di questi trattamenti.
Noi medici ci impegniamo quotidianamente per proporre la soluzione più appropriata per ogni singolo paziente, ma non possiamo sentirci obbligati a prescrivere cure inadeguate e velleitarie, dettate dall’emotività del momento.
Marco Bobbio è cardiologo e autore del libro “ Il malato immaginato” (Einaudi)

Repubblica 11.7.14
Smemorato di Collegno dopo 90 anni la sua identità svelata dalla prova del Dna ma il mistero continua
L’uomo ritrovato nel 1926 fu poi conteso tra due donne Il test: non era Canella. La famiglia: “Non cambia nulla”
di Meo Ponte


TORINO. Nemmeno la prova del Dna svela il mistero dello smemorato di Collegno. L’altra sera i risultati dell’analisi, fatta dalla genetista Marina Baldi comparando il profilo di Julio, nipote certo del professor Giulio Canella in quanto figlio di un figlio del disperso sul fronte del Monastir, Macedonia, nato prima della guerra, con quello del fratello Camillo, figlio dello “smemorato” nato dopo la fine del conflitto, sono stati rivelati da Chi l’ha visto.
L’esame genetico non ha confermato che lo smemorato fosse Canella. «Una prova come altre. Per noi non cambia niente», ha spiegato Julio Canella, confermando l’ostinazione della sua famiglia nel riconoscere nello smemorato il professore scomparso nel 1916. Nel 1984 a risolvere l’eniglegno, ma aveva provato anche l’allora capo della polizia scientifica di Torino, Gigi La Sala che ricorda: «Comparai le impronte digitali trovate sul vaso di rame che lo smemorato aveva tentato di rubare dal cimitero israelitico con quelle di Bruneri, che erano nei nostri archivi e con quelle del professor Canella. Il risultato rivelò che si trattava di Bruneri».
Analisi, prove e ripetuti processi non hanno mai chiarito il mistero del paziente numero 44.170, ricoverato nel manicomio di Collegno nel pomeriggio del 26 marzo 1926 dopo essere stato sorpreso qualche ora prima dal custode del cimitero israelitico di Torino intento ad aggirarsi tra le tombe. Mentre cercava di fuggire dal pastrano lasciò cadere un grosso vaso di rame. Arrestato e portato in questura l’uomo era finito al manicomio di Col- dopo aver risposto alle domande degli agenti ripetendo: «La guerra... la guerra! Ho perso moglie e figli. Non so più chi sono. Desidero che mi si uccida». A far nascere il caso che poi appassionò non solo Pirandello che lo riecheggiò nel suo Come tu mi vuoi , ma anche Hollywood dove Greta Garbo e Eric Von Stroheim recitarono nel ‘32 in As you desire me, fino ad arrivare a Leonardo Sciascia che nel 1981 rievocò la vicenda nel Teatro della memoria fu la decisione, un anno dopo il ricovero, del direttore del manicomio di pubblicare le fotografie dello smemorato sulla Domenica del Corriere e l’ Illustrazione Italiana , i due principali settimanali dell’epoca.
La fotografia che ritraeva lo sconosciuto di profilo comparve su quella pagine il 27 febbraio 1927. Arrivarono subito lettere da tutta Italia: ogni vedova, mamma, figlia credeva di riconoscere il marito, il figlio o il padre scomparso. Lo smemorato le scartò tutte, tranne quella di Giulia Canella, ricca signora di Verona di 30 anni, il cui marito Giulio, professore di Filosofia, era scomparso sul fronte macedone. I due si incontrarono a fine di febbraio: lei non ebbe dubbi, il 2 marzo 1927 erano già insieme a Desenzano sul Garda, ospiti di amici. Ma la loro felicità durò poco. Tre lettere anonime arrivarono alle questure di Torino e Verona: dicevano che quello che passava per il professor Canella era in realtà Mario Bruneri, tipografo torinese, pregiudicato per truffa. La moglie lo riconobbe subito anche sei lui ripeteva: «Sono Giulio Canella». L’Italia di divise in bruneristi e canellisti, il primo processo nel 1927 negò che lo smemorato fosse Bruneri, il secondo nel ‘28 giunse a conclusioni opposte, confermate dal terzo nel ‘29 ma nel ‘30 la Cassazione diede ragione ai Canella. L’ultimo processo (1931) stabilì che lo smemorato era Bruneri, incarcerato per espiare i 10anni di condanna per truffa. Giulia Canella però non si diede per vinta. Incinta affrontò lo scandalo e aspettò quello che credeva suo marito. Insieme, nel ‘33 partirono per il Brasile dove lo smemorato morì nel 1941.

l’Unità 11.7.14
Pordenonelegge
Ospiti Grossman, Kureishi e Palahniuk

Dal 17 al 21 settembre 2014 si rinnova l’appuntamento con pordenonelegge, la Festa del Libro con gli Autori: è la quindicesima edizione di una tra le più attese manifestazioni dell’agenda culturale italiana, curata da Gian Mario Villalta (direttore artistico) con Alberto Garlini e Valentina Gasparet, promossa dalla Fondazione pordenonelegge. La prima notizia è il conferimento a Umberto Eco del Premio FriulAdria. Di straordinaria rilevanza la presenza di autori stranieri: sarà uno degli autori più amati, l’israeliano David Grossman, a inaugurare il festival mercoledì 17 settembre, per raccontare la sua vita di scrittore in un Paese provato dalla storia. E al festival farà tappa anche Hanif Kureishi. Fra i grandi protagonisti stranieri anche la canadese Margaret Atwood, che in anteprima racconterà il suo ultimo romanzo, e ancora Chuck Palahniuk, Jamaica Kincaid, Nicolai Lilin, Vladimir Kantor, il russo Evegenij Vodolazkin, il bulgaro Georgi Gospodinov, la scrittrice ceca Petra Soukupova, il danese Simon Pasternak, lo svedese Hakan Nesser, la scrittrice francese, Katherine Pancol, l'inglese Michael Dobbs, l’algerino Yasmina Khadra e molti altri.