giovedì 31 dicembre 2015

il manifesto 31.12.15
Tsipras: «Vi spiego cos’è oggi una sinistra europea»
La sfida del governo, la politica dei piccoli passi e della coesione sociale. Con l’obiettivo di sconfiggere l’austerità. Il bilancio di fine anno di Alexis Tsipras
di Teodoro Andreadis Synghellakis


«Politica di sinistra vuol dire lottare per proteggere le pensioni, per la difesa dei più deboli, per il diritto al lavoro, per ristabilire la giustizia e la democrazia». È con questa frase che Alexis Tsipras ha aperto un suo recente articolo sul quotidiano di Atene Efimerìda ton Syndaktòn. In questa sua riflessione, nell’ultimo mese di un anno denso di eventi e spesso difficile, il premier greco ripropone con chiarezza il suo pensiero: la sinistra deve saper affrontare sfide complesse, costruire soluzioni alternative, giorno per giorno, passo dopo passo, cercando alleanze politiche e sociali. Senza farsi tentare dal comodo e facile richiamo del ritorno o dell’eterna permanenza all’opposizione. Ed è per questo che abbiamo deciso di riproporre ai lettori del manifesto questa riflessione a tutto campo del leader di Syriza.
«Quando con la rappresentanza del governo greco abbiamo visitato la Palestina, un alto dirigente palestinese mi ha ricordato: “voi europei non potete capire quanto sia importante vivere in un territorio, in una condizione di pace, per più di settanta anni”. Credo si tratti di una constatazione che dobbiamo prendere in considerazione molto seriamente. Specie quando intorno a noi le nubi dell’instabilità si infittiscono, con tre crisi che si presentano contemporaneamente: la crisi economica, quella sociale e quella legata alla questione dei profughi. L’area in cui viviamo si trova al centro di un triangolo di scontri periferici, che si sono sviluppati in Libia, in Siria e Iraq e in Ucraina. Il fanatismo religioso destabilizza il Medio Oriente e rappresenta, ormai, una minaccia terroristica diretta per l’Europa. La stessa Europa appare trovarsi in un momento cruciale. Da una parte, le forze ultraconservatrici hanno imposto una politica economica estrema, che ha saccheggiato i paesi del Sud, e non hanno neanche esitato a mettere in pericolo gli equilibri interni dell’Unione europea, con la minaccia del Grexit. Dall’altra parte, le forze del populismo di estrema destra alzano muri ai propri confini, mostrando indifferenza per la politica sui profughi adottata in modo comune e moltiplicando la pressione esercitata sui paesi vicini. L’insieme di austerità e xenofobia, rafforzata dagli attacchi terroristici, crea le condizioni per la crescita dell’estrema destra in Europa. Qui si vede quanto sciocchi siano tutti coloro che ancora oggi insistono nel ritenere la sinistra un nemico dell’Europa. La sinistra che si batte contro l’austerità, e non l’estrema destra, che – al contrario — si batte contro le conquiste del diritto comunitario».
Alexis Tsipras sa bene che la Grecia, il suo governo, le scelte fatte,  costituiscono un punto di riferimento fondamentale per tutta la sinistra europea. Abbandonare la prima linea delle rivendicazioni, assumere un atteggiamento rinunciatario, non può, quindi, far parte dell’agenda di Syriza.
«In questa situazione, la Grecia è determinata ad emergere come forza della democrazia, a rivendicare un ruolo da protagonista,nella lotta che stanno portando avanti le forze progressiste di tutta Europa, contro il ripiegamento ultraconservatore. Moralmente e simbolicamente, il nostro popolo e il nostro paese fanno già parte dell’avanguardia progressista europea. La trattativa dei sette mesi passati e il momento culminante del referendum hanno mostrato chiaramente il deficit democratico dell’Europa e hanno smascherato i difensori del dogmatismo dell’austerità. Sulla questione dei profughi, la Grecia lotta per l’umanesimo e la solidarietà e tiene vivi i valori europei. Per quel che riguarda poi il fronte interno, lo scontro con l’intreccio di interessi sotterranei, la lotta per difendere la democrazia, la giustizia e la parità di fronte alla legge, crea il paradigma di una forma di governo di sinistra, in un periodo di profonda crisi economica e sociale. Tutto ciò dà forma all’ambito entro il quale può e deve venirsi a creare, oggi, una strategia di sinistra, che corrisponda alle reali condizioni in cui viviamo. Perché è chiaro che né lo scontro cieco, né il ritorno all’opposizione, né il ritiro volontario dalle responsabilità di governo, costituisce una strategia di sinistra. Al contrario, una strategia di sinistra è quella che su ogni punto e su ogni fronte specifico difende la coesione sociale. È quella che pone le condizioni per l’uscita graduale dalla crisi, con la redistribuzione e con nuovi posti di lavoro dignitosi. È quella che ricerca alleanze progressiste in Europa, tanto a livello sociale e politico, quanto di governo, per riuscire a far mutare i rapporti di forza. È la strategia che mette in risalto come obiettivo europeo immediato e imprescindibile la difesa della pace e la cooperazione, nella più vasta area in cui si trova la Grecia».
Il primo ministro greco non si nasconde, ovviamente, che ci sono ancora delle difficoltà. Sa bene  che la politica dell’austerity, a livello europeo, non è stata ancora battuta, ma rivendica i risultati positivi raggiunti, malgrado gli spazi di manovra siano ancora piuttosto limitati.
«Le condizioni, ovviamente, sono difficili. La legge finanziaria votata dal parlamento greco, a condizioni e limitazioni date, ha costituito un complesso esercizio di redistribuzione. Tuttavia, all’interno di un quadro di austerità molto stretto, imposto dall’accordo firmato, abbiamo fatto in modo di potenziare le risorse per la politica sociale per 820 milioni di euro, i finanziamenti per gli ospedali per 300 milioni di euro, il programma di investimenti pubblici per 350 milioni, e anche di sostenere le necessarie assunzioni nella scuola, come anche la creazione di 200 mila nuovi posti di lavoro. Ovviamente, è più semplice e comodo denunciare, rimanendo al sicuro, la politica del governo, insieme alla dirigenza dei sindacati che ha preso subito posizione a favore del sì al referendum di luglio, ma questa pratica non può riuscire a creare un progetto e neanche, ovviamente, una politica di sinistra. La politica di sinistra è data dalla lotta per proteggere le pensioni, per la difesa dei più deboli, per il diritto al lavoro, per ristabilire la giustizia e la democrazia. Il governo si batte insieme alla società, tanto all’interno del paese, quanto nella trattativa con i partners, lottando per arrivare all’obiettivo finale, che è riuscire a liberare definitivamente la Grecia dal cappio dell’austerità. Nessuno ha mai detto che si tratti di una cosa semplice: ma è un ingenuo chi ha creduto che la sinistra si sarebbe potuta trovare ad assumere posizioni di responsabilità per gestire cose semplici. Siamo noi stessi a dover aprire la strada. Lo faremo alleandoci con le forze sociali del nostro paese e con le forze progressiste di tutta Europa. Il futuro non arriverà mai da solo, se non faremo nulla perché questo accada».
Il Sole 31.12.15
Cina, priorità l’eccesso di capacità
Nel 2016 il governo dovrà ridurre la sovrabbondante offerta industriale
Emergenti in crisi. Le riforme economiche in rampa di lancio per contrastare la frenata della crescita
di Rita Fatiguso


PECHINO La Cina si lascia alle spalle un anno in cui ha mandato in soffitta il dogma del figlio unico, ha portato alle estreme conseguenze la lotta alla corruzione – centomila “vittime” inclusa la cattura della “grande tigre” Zhou Yongkang -, ha varato la sua prima legge antiterrorismo, ha creato una sorta di World Bank asiatica, l'Aiib, e piazzato lo yuan (non convertibile) nel paniere delle monete del Fondo monetario internazionale.
Niente male per l’autostima della seconda potenza mondiale sempre più votata al socialismo con caratteristiche cinesi, se non fosse che, nel 2016, il Paese ha davanti a sé sfide titaniche, da far tremare i polsi.
Un’avvisaglia della fragilità del sistema è emersa con il crack finanziario dello scorso mese di agosto che ha risucchiato la metà del valore borsistico delle piazze cinesi trascinando nel gorgo i listini di mezzo mondo.
La fine d’anno è stata obnubilata dallo smog, il che ha anche tolto smalto agli impegni presi dalla Cina al vertice sul clima di Parigi: a Pechino proprio a Natale il livello dei pm 2.5 rasentava quota 600 mentre ai pochi stranieri rimasti nella capitale per le festività le autorità consigliavano di non frequentare luoghi a rischio di attentati.
Adesso si comincia con la presidenza del G-20, poi le elezioni di Taiwan a metà gennaio, l’adozione definitiva del 13° piano quinquennale con il suo carico di riforme sempre più urgenti, e sempre più complicate da realizzare.
Perché il quadro economico è estremamente incerto, gli economisti di People’s Bank of China guidati da Ma Jun hanno parlato di una crescita del 6,9% nel 2015 contro il 7-6,8% atteso nel 2016, un dato tuttavia molto difficile da raggiungere.
Siamo alla crescita più lenta in un quarto di secolo e nell’ultimo scorcio d’anno l’economia ha rivisto i fantasmi del 2008, simbolo della grande crisi mondiale.
La linea del Piave cinese resta la bottom line del 6,5, che per la Cina è pochissimo, quasi una tragedia annunciata. Perché il Paese è ancora lontano dall’aver imboccato la necessaria riconversione della propria economia.
La dipendenza dalla domanda esterna sempre debole e la crescita dei prestiti incagliati e anche l’andamento del mercato immobiliare (441 milioni di metri quadrati di abitazioni invendute rilevate a novembre 2015) peseranno inevitabilmente sulla ripresa. È inoltre ancora troppo presto per verificare la ricaduta di misure di stimolo destinate ad avere effetto solo entro la seconda metà del 2016. Il tasso di inflazione 2015, è vero, potrebbe crescere dell’1,5%, ben al di sotto dell’obiettivo del governo del 3% ma le esportazioni totali rischiano un calo, a consuntivo, del 2,9 e le importazioni del 14,8. Gli investimenti fissi della Cina sono destinati a crescere del 10,3% contro il 15,7 dell'anno precedente. Con queste premesse, la cautela è d’obbligo, ma la bestia nera è la overcapacity.
Nel terzo weekend di dicembre si è svolta la Central Work Economic Conference, la classica assise a porte chiuse che prepara le decisioni dell’anno successivo: davanti al presidente Xi Jinping e al premier Li Keqiang, i leader cinesi anche in vista del lavoro da fare per il piano quinquennale si sono impegnati sia a tenere la crescita economica a un livello costante, sia a portare avanti il progetto di riforma delineato dal Terzo plenum nel 2013, che ha visto il debutto della nuova leadership.
La Cina deve riformare se stessa e, quindi, la Central Work Economic Conference ha stabilito che le riforme devono partire proprio dall’overcapacity.
La Cina ne soffre, da tempo, in vari settori dal siderurgico alla produzione di pannelli solari allo shipping. Ciò ha contribuito a una crisi del debito del Paese, ma ha anche portato a frizioni all’estero, specie per le accuse di dumping da parte dei concorrenti stranieri.
Il problema della overcapacity è un sintomo grave dei limiti del modello economico cinese, con un’evidente mancato incontro tra domanda e offerta, sia in casa che fuori. I leader cinesi hanno deciso di affrontare il problema della overcapacity come parte delle riforme dal lato dell’offerta. Tra i cinque compiti fissati per la Cina nel 2016, quindi, il taglio della capacità industriale è il numero uno. Costerà lacrime e sangue, specie sul fronte del lavoro, anche per il fatto che tutta la catena andrà migliorata, inclusa la supply chain. L’innovazione diventa davvero un fattore chiave, mentre la riduzione dei costi aziendali si ricollega alla necessità di utilizzare lavoro e capitale in modo più efficiente, in particolare nelle imprese statali cinesi. Anche l’overcapacity immobiliare sarà combattuta incoraggiando una riduzione dei prezzi nel settore dell’edilizia abitativa e con l’aumento della domanda, facilitando la concessione ai migranti della registrazione delle famiglie (hukou) nelle città minori.
La crescita della fascia sociale medioalta rimane una priorità assoluta per la leadership cinese, il presidente Xi Jinping ha ammesso che l’unico modo per la Cina per raggiungere il suo obiettivo di raddoppiare i dati del Pil entro il 2020 è quello di crescere almeno il 6,5 per cento annuo. Quindi i consumi interni non possono essere accantonati. Ma quale sarà l’obiettivo reale? Inferiore a quello di quest’anno del 7 per cento, forse a 6,8 o addirittura 6,5 per cento? Per avere la cifra giusta bisognerà aspettare il discorso di Li Keqiang ai primi di marzo alla Plenaria del Congresso.
il manifesto 31.12.15
Obiettivo di Ankara è fermare i kurdi
Murad Akincilar, direttore dell’Istituto di Ricerca Politica e Sociale di Diyarbakir: «L’avanzata delle forze democratiche siriane creerà un nuovo equilibrio di potere nell’intera regione»
intervista di Chiara Cruciati


Aylan aveva tre anni e arrivava da Kobane. È morto a settembre su una spiaggia turca, indignando per qualche giorno l’Europa. Con la famiglia scappava dalla città che più di ogni altra in questi anni ha rappresentato il movimento di liberazione del popolo kurdo, la resistenza alla brutalità fascistoide dello Stato Islamico, ma anche quella al ruolo della Turchia nella cosiddetta lotta al terrore.
Ankara non si rivolge all’Isis: dopo il massacro di Suruc, a luglio, il governo turco dichiarò guerra agli islamisti, fino ad allora più che tollerati. I raid contro al-Baghdadi sono però durati pochissimo, rivelandosi subito per ciò che in realtà erano: la giustificazione per un’operazione militare contro il Pkk in Turchia e nel nord Iraq. Da fine luglio la popolazione kurda turca è oggetto di una violentissima repressione: civili uccisi, coprifuoco, missili contro le abitazioni civili.
A monte sta la volontà turca di spezzare la resistenza kurda in un periodo positivo per il movimento di liberazione guidato dal Pkk e ripreso dalle Ypg siriane: le unità di difesa kurde hanno sostituito agli occhi di Usa e Russia le opposizioni moderate e hanno ottenuto armi e raid in cambio informazioni di intelligence e cooperazione militare. Pochi giorni fa le Forze Democratiche Siriane, fronte misto di arabi, assiri, turkmeni e kurdi, hanno ripreso la diga Tishreen lungo l’Eufrate, tagliando la via di rifornimento islamista tra Aleppo e il confine turco. Per Erdogan, che teme un’avanzata kurda verso ovest, è un grave smacco. Dei rapporti tra autorità turche e movimento kurdo e delle ripercussioni sulla crisi siriana, abbiamo parlato con Murad Akincilar, sindacalista e direttore dell’Istituto di Ricerca Politica e Sociale di Diyarbakir.
Qual è il principale target delle autorità turche a sud est?
Il governo turco non fa differenza tra Pkk e Hdp di fronte all’opinione pubblica. Le autorità di Ankara sono ostaggio di un’élite politica che tenta di delegittimizzare tutta la lista di richieste kurde. Il governo è ben consapevole che la distruzione fisica della resistenza kurda non è fattibile ma tenta lo stesso di disegnare una nuova «natura kurda» fondata su priorità confessionali e collaborazione economica con i gruppi neoliberali e conservatori. Ma la sensibilità ecologica e il desiderio di autonomia della realtà kurda, così come il concetto di libertà fondato sulla centralità della donna nella società, sono in contraddizione con questa logica della ridefinizione del popolo kurdo. Per raggiungere questo obiettivo, però, l’élite politica turca cerca di costringere l’Hdp a fare un passo indietro sulle questioni cuore della causa kurda e quindi di marginalizzarle.
Come vede il futuro del Kurdistan del nord, il Kurdistan turco?
È un futuro strettamente connesso a quello futuro del Kurdistan dell’ovest, ovvero Rojava. Se le forze democratiche siriane guidate dal Pyd (Partito di Unione Democratica) riusciranno a tenere fuori l’Isis da Jarabulus [Cerablus in kurdo], la guerra nel Kurdistan del nord finirà in un contesto di giustizia e pacificazione. Se i kurdi saranno invece in qualche modo traditi dai loro alleati sul terreno, la guerra nel Kurdistan turco durerà per un tempo non facile da prevedere.
Quale ruolo ha la crisi siriana nella repressione da parte turca del movimento di liberazione kurdo?
Il popolo kurdo in Turchia paga il prezzo dell’avanzata delle forze democratiche in Rojava. Il movimento di liberazione kurdo non è stato militarmente represso fino a quando rappresentava la parte più debole nel conflitto generale. Per il momento in Turchia l’Hpg (Forze di Difesa Popolare, braccio armato del Pkk) non gioca un ruolo vitale nel conflitto a parte per il ruolo dei giovani armati nei quartieri dove l’esercito ha sostituito la polizia anti-sommossa. La guerra rischia di diventare sempre più brutale perché le forze armate regolari hanno cominciato a confrontare la gente. Se guardiamo ai dati, vediamo che il numero di civili kurdi uccisi è molto più alto del numero di vittime tra i combattenti armati. La politica nazionalista turca non ha alleati in Siria, se non le forze salafite, e questo spiega «la benigna negligenza» di cui l’Isis ha saputo approfittare fino a due mesi fa.
Il Pkk ha giocato un ruolo importante nella liberazione del Sinjar, in Iraq, e nel difendere dall’avanzata dello Stato Islamico la regione di Rojava in Siria. L’operazione militare turca contro i suoi combattenti può fermare la partecipazione del movimento di Ocalan nella lotta all’Isis?
L’offensiva militare di Ankara contro il Pkk può rallentare la lotta contro lo Stato Islamico, ma non a tempo indeterminato. Le forze armate turche non sono in grado di giocare un ruolo decisivo nel suolo iracheno. Per questo motivo l’unico alleato del governo turco in Iraq è l’amministrazione Barzani, il Kurdistan iracheno. La strategia messa in piedi dalla Turchia vuole far sollevare il governo Barzani contro il Pkk, ma questa ostilità prefabbricata non trova il consenso della maggioranza dell’opinione pubblica kurda, sia nel Kurdistan del nord che in quello del Sud [Kurdistan iracheno, ndr].
Il 2016 sarà l’anno della svolta nella battaglia anti-Isis tra Siria e Iraq?
Penso che l’avanzata delle forze democratiche siriane andrà avanti e creerà un nuovo equilibrio di potere nell’intera regione. La parte più fragile di questa avanzata è data dalla congiunzione dei ruoli giocati dagli interventi separati di Usa e Russia. Per il momento la presenza russa non costituisce una chiara rivalità militare con le forze armate statunitensi, ma le operazioni sul terreno e le rispettive priorità delle due super potenze non combaciano. Con gli attuali equilibri di poteri, con la partecipazione di tanti diversi gruppi alla lotta all’Isis e il sostegno che Mosca e Washington garantiscono loro per prevalere nel campo mediorientale, la situazione dei kurdi, dei gruppi arabi democratici, dei cristiani, degli yazidi, dei turkmeni, delle comunità sciite non potrà che migliorare. Tutti beneficeranno dalla maggiore libertà e dall’espansione dei diritti nel medio termine, ne sono certo.
il manifesto 31.12.15
Pioggia di diserbanti su Gaza, Israele conferma «operazione di sicurezza»
Israele/Territori occupati. Nei giorni scorsi aerei agricoli israeliani hanno irrorato con gli erbicidi almeno 150 ettari di terreni fertili palestinesi, distruggendo le coltivazioni di centinaia di famiglie. Si temono rischi per la salute della popolazione. ONU: nel 2015 sono morti in scontri e attacchi 170 palestinesi e 27 israeliani.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «È un disastro per centinaia di famiglie contadine e non conosciamo gli effetti che questi prodotti chimici potranno avere sulla popolazione di Gaza». Scuote la testa Khalil Shahin, vice direttore del Centro per i Diritti Umani, che sta indagando sull’irrorazione, con diserbanti e defolianti, fatta nei giorni scorsi da aerei agricoli israeliani di almeno 150 ettari di terreni coltivati nella fascia orientale di Gaza, adiacente alle linee di confine. «Non è la prima volta che accade, l’Esercito israeliano sostiene che distruggendo la vegetazione si impediscono i lanci di razzi e altri attacchi» ci spiega Shahin «ma negli anni passati questa irrorazione era limitata a pochi terreni vicini alle recinzioni di confine. Nei giorni scorsi gli aerei israeliani invece si sono spinti in profondità, per molte centinaia di metri. In alcuni casi i liquidi, spinti dal vento, sono arrivati fino a due km di distanza dal confine, quindi a ridosso dei centri abitati di Gaza».
Da parte israeliana si conferma l’uso di erbicidi e di inibitori di germinazione, allo scopo di «garantire lo svolgimento delle operazioni di sicurezza lungo il confine», ha spiegato un portavoce militare. Anche gli Stati Uniti, negli anni Sessanta, parlavano di «condizioni di sicurezza da garantire» quando spruzzavano ampie porzioni del Vietnam con il famigerato Agente Arancio, per rimuovere le foglie degli alberi e privare i Vietcong della copertura del manto vegetale. Il conto negli anni successivi lo hanno pagato tanti civili vietnamiti, soggetti agli effetti cancerogeni dell’Agente Arancio, senza dimenticare i neonati malformati. La comunità internazionale intervenne con una convenzione del 1978 che vieta o limita fortemente l’uso degli erbicidi durante i conflitti, alla luce alle conseguenze devastanti che hanno sulle persone. Israele non l’ha firmata.
Cosa significherà questa pioggia di diserbanti peruna porzione della popolazione di Gaza si saprà solo in futuro. Così come si stanno ancora studiando le possibili contaminazioni causate dai bombardamenti dal cielo e da terra compiuti da Israele nell’estate del 2014 — nella stessa fascia di territorio orientale di Gaza irrorata nei giorni scorsi — e quelle precedenti provocate delle offensive militari del 2012 e del 2008–9 (sono proprio questi i giorni dell’anniversario dell’Operazione “Piombo fuso”). La conseguenza immediata è economica: centinaia di famiglie con i campi nelle zone di Qarara e Wadi al Salqa hanno visto distrutti in poche ore spinaci, piselli, prezzemolo e fagioli. Contadini che già devono fare i conti tutto l’anno con le restrizioni imposte da Israele all’ingresso nella cosiddetta “no-go zone”, la zona lungo il confine, larga fino a 300 metri (è la più fertile della Striscia), dove i palestinesi non possono entrare. Qui l’Esercito negli ultimi tre mesi ha ucciso almeno 16 persone e ferito altre 400 durante le manifestazioni innescate dall’Intifada di Gerusalemme.
Di cosa potranno ora vivere i contadini palestinesi rimasti senza raccolto non è un problema che interessa all’esercito israeliano. Senza dimenticare che raramente le produzioni agricole riescono ad uscire da Gaza. E quando accade, sempre con l’autorizzazione di Israele, la spedizione non va sempre a buon fine. Nei giorni scorsi alcune tonnellate di pomodori sono state rispedite al mittente dagli israeliani. Perchè, secondo le autorità militari, erano state aggiunte illegalmente a un carico di altri ortaggi. A Gaza però sono circolate altre voci. Pare che i pomodori contenessero alte concentrazioni di un pesticida, usato in modo improprio, quindi pericoloso per la salute. Il ministero dell’agricoltura palestinese però ha smentito, sostenendo che queste voci «fanno solo il gioco dell’occupante israeliano».
Intanto Ocha, l’ufficio di coordimento delle attività umanitarie dell’Onu, ha diffuso alcuni dati sull’anno che finisce oggi. Nel 2015, fino al 28 dicembre, sono stati uccisi almeno 170 palestinesi e 26 israeliani (ieri è morto un colono ferito a metà mese a Hebron), in attacchi e scontri nel territorio palestinese occupato e in Israele, avvenuti in maggioranza dopo il 1 ottobre, data con la quale si indica l’inizio dell’Intifada di Gerusalemme. Durante il 2015, le autorità israeliane hanno fatto demolire “per mancanza di permesso” 539 edifici palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Sono state ridotte in macerie, a scopo punitivo, altre 19 case appartenenti a palestinesi accusati di attacchi contro gli israeliani.
il manifesto 31.12.15
Francia, il vicolo cieco dei diritti
Parigi. La pericolosa svolta securitaria dopo gli attentati
di Alain Gresh


PARIGI C’era un campo nel quale François Hollande e la sinistra di governo in Francia non avevano ancora abdicato: quello delle libertà, dei principi. Anche se questi ultimi, pur continuamente ribaditi, entravano spesso in contraddizione con le pratiche dello Stato e delle forze di polizia.
La sinistra si richiamava alle libertà, ai diritti umani, all’eredità del 1789. E proclamava con forza, in quest’ambito, la sua opposizione non solo all’estrema destra e al Front national, ma anche alla destra pronta a chiedere sempre più sicurezza in nome della lotta contro la delinquenza o contro il terrorismo.
Dalla vittoria elettorale nel maggio 2012, François Hollande e il Partito socialista avevano abbandonato via via tutte le loro promesse. Avevano rinunciato a qualunque forma di resistenza al liberismo economico, applicando le ricette di austerità in precedenza condannate, e aggravando le disuguaglianze.
Si erano piegati al diktat di Bruxelles, che in campagna elettorale avevano stigmatizzato. E, tradimento finale, avevano lasciato solo il governo greco, frutto di una grande volontà popolare, di fronte a una Commissione europea e a un governo tedesco chiusi nelle proprie certezze.
La politica estera di Hollande è stata essenzialmente caratterizzata dall’uso della forza militare come mezzo di risoluzione dei conflitti. Mai in precedenza, dalla seconda guerra mondiale, un governo francese era stato impegnato in tanti teatri di operazione.
Dal Mali all’Iraq, dalla Repubblica centrafricana alla Siria, la Francia, malgrado i mezzi limitati, malgrado i proclami di austerità, trova le risorse necessarie a intervenire in armi. Comportandosi sempre da fedele alleata degli Stati uniti.
E quando Parigi ha criticato Washington, è stato per rimproverare al presidente Barack Obama la sua debolezza di fronte a Tehran sul dossier nucleare.
Di fronte all’ondata di rifugiati provenienti dalla Siria e dal Medioriente, ingigantitasi nel corso del 2015, la Francia socialista ha dato prova di pavidità, rifiutando di onorare la tradizione di accoglienza e di rispettare il diritto internazionale che obbliga i paesi a proteggere le persone minacciate.
E’ tristemente ironico, del resto, che la grande maggioranza dei rifugiati preferisca la Germania, il Regno unito e l’Europa del Nord: è lontano il tempo in cui la Francia era la seconda patria dei rifugiati armeni, degli ebrei centroeuropei, dei polacchi e degli spagnoli.
E gli attentati del 13 novembre 2015, dopo quelli contro Charlie Hebdo e il supermercato kosher nel mese di gennaio, hanno portato il governo a rinnegare l’ultimo baluardo, quello della difesa dei diritti umani, dei grandi principi di una democrazia liberale.
Mentre la Corte di cassazione, incoraggiata dalle autorità, criminalizzava la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani nota come Bds (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) – facendo della
Francia l’unico paese democratico nel quale si applichi una simile misura -, il governo decideva di proclamare lo stato di emergenza, di prorogarlo per tre mesi e infine di progettarne l’ingresso nella Costituzione.
Questa legge del 1955, adottata agli inizi di quella che la Francia rifiutava di chiamare «guerra di Algeria», era stata prevista per liquidare l’insurrezione di un popolo.
Si sa che cosa accadde. Ma è la prima volta che la legge è estesa a tutto il territorio nazionale (nel 1955, copriva solo i «tre dipartimenti francesi» di Algeria). Se passerà la riforma della Costituzione (che in gennaio sarà presentata al Congresso, Parlamento e Senato in seduta comune, e dovrà ottenere la maggioranza dei tre quinti dei votanti – un risultato impossibile senza il sostegno della destra), «l’eccezione diventerà la regola», come ha titolato il quotidiano Le Monde, e alle forze di polizia e all’amministrazione saranno accordati poteri esorbitanti in materia di arresti, detenzioni domiciliari, perquisizioni, intercettazioni telefoniche di decine di migliaia di cittadini.
Sono state già decise 200 assegnazioni agli arresti domiciliari (anche di militanti verdi), ed effettuate oltre tremila perquisizioni – in gran parte senza alcun risultato rispetto all’obiettivo dichiarato, la «lotta contro il terrorismo».
I musulmani sono l’obiettivo privilegiato di questi attacchi e il potere sta incoraggiando un’islamofobia della quale il Front national di Marine Le Pen non è affatto l’unico portatore.
Da tempo la destra e settori importanti della sinistra e anche dell’estrema destra, con vari pretesti – lotta all’«oscurantismo», laicità, eguaglianza fra i generi – si sono trasformati in cantori di questa nuova forma di razzismo che prende di mira prioritariamente gli immigrati e settori delle classi popolari.
Ma è con una misura ben più che simbolica che François Hollande ha chiuso il cerchio delle sue abiure. E’ la misura che intende privare della cittadinanza i cittadini nati francesi ma che dispongono anche di un’altra nazionalità.
Così si trasformerebbero di fatto in cittadini di serie B i figli di immigrati, nati francesi sul territorio nazionale, ma che hanno ancora la cittadinanza dei loro genitori. In passato aveva sostenuto questa misura solo il Front national, raggiunto nel 2010 da Nicolas Sarkozy.
Si accentuerà senza dubbio la frattura fra le popolazioni «musulmane» e i francesi «per sangue», e si finirà per legittimare il discorso dell’Organizzazione dello Stato islamico (il Daesh) che incita i musulmani a rifiutare una società che li disprezza.
Come dichiarava Henri Leclerc, avvocato, presidente d’onore della Lega dei diritti umani (Ldh) e figura emblematica della sinistra giudiziaria (Médiapart, 24 dicembre 2015): «Fatte le debite proporzioni, ricordiamoci che nel 1933 Hitler si era avvalso degli strumenti legislativi creati dai socialdemocratici.
Se un giorno avremo un governo di estrema destra, questo potrebbe trovare strumenti per attuare politiche ultra-securitarie e spaventosamente repressive».
*ex caporedattore di Le Monde diplomatique, direttore del giornale online Orient XXI
(Traduzione di Marinella Correggia)
il manifesto 31.12.15
Marino quasi candidato: «Non sarò indifferente alle richieste dei romani»


«Da romano, non sono e non sarò indifferente alle aspettative che tanti cittadini ancora hanno e che mi chiamano direttamente in causa. Le romane e i romani non la daranno vinta a chi con un colpo di mano vorrebbe riportare Roma alle logiche di spartizione e di sottogoverno». Non è ancora l’annuncio ufficiale, ma ripetita iuvant.
L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino torna a lanciare un segnale di disponibilità per la candidatura alle prossime amministrative di giugno e soprattutto torna a ricordare al premier/segretario che alle primarie dovrà in qualche modo fare i conti anche con lui.
E su Fb Marino posta un video girato domenica in due quartieri periferici di Roma per mostrare la calorosa accoglienza ricevuta, non potendo ricevere la soddisfazione di essere accompagnato direttamente da Renzi, come gli aveva proposto: «Alcuni dei fantastici amici del gruppo Facebook “Io sto col sindaco Ignazio Marino” erano con me a Primavalle ed hanno realizzato un breve video della nostra passeggiata. Sono davvero commosso da tanta partecipazione»
. L’ex sindaco riferisce dell’«umiliazione» dei cittadini «per un commissariamento punitivo e immeritato, imposto alla città dall’alto, che sta solo aggravando i problemi».
E così, dopo il sostegno ricevuto nel circolo Pd di San Basilio e durante il dibattito organizzato dal gruppo consiliare capitolino di Sel all’Alessandrino, l’ex marziano mostra le decine di persone che lo incitano: «Presentati Marino! Presentati!», «Rimarrai sempre il nostro sindaco». E firma «la splendida pista ciclo-pedonale che dal 2014 ridà respiro al quartiere costituisce il nuovo centro della vita sociale di tutta la zona, che va dalla collina di Torrevecchia alla Balduina».
Il Sole 31.12.15
Roma, candidature in alto mare
Comunali. Incognita Marino: «I romani mi chiamano, non sarò indifferente»
Tensioni nel M5S
di An. Mari.


La situazione in vista delle amministrative di giugno nelle grandi città è ancora magmatica. Tuttavia, la conferenza stampa di fine anno del premier Matteo Renzi ha chiarito alcuni aspetti, determinanti soprattutto per la Capitale: non ci sarà alcun rinvio del voto (probabile il 12 giugno) e nel centrosinistra ci saranno le primarie il 6 marzo. Nel Pd i candidati in campo saranno definiti sono dopo la pausa natalizia. Forte è il pressing dei renziani per Roberto Giachetti. Il vicepresidente della Camera, renziano da sempre e già capo segreteria e capo di gabinetto dal 1993 al 2001 del sindaco Francesco Rutelli , sarà oggi in visita al carcere di Rebibbia insieme al leader dei radicali Marco Pannella per portare i «consueti auguri di buon anno ai detenuti».
Tuttavia, dopo la burrascosa uscita di scena dell’ex sindaco Ignazio Marino, la partita per il Pd pare tutta in salita. Da una parte c’è, nonostante i tentativi di ricucire, la rottura con Sel , che presenta Stefano Fassina come candidato. C’è poi l’incognita proprio dell’ex primo cittadino, che ieri ha scritto su Facebook: «Da romano, non sono e non sarò indifferente alle aspettative che tanti cittadini ancora hanno e che mi chiamano direttamente in causa. Le romane e i romani non la daranno vinta a chi con un colpo di mano vorrebbe riportare Roma alle logiche di spartizione e di sottogoverno». Se Marino dovesse scendere in campo come candidato sindaco di una propria lista potrebbe drenare ulteriori voti al Pd e rendere proibitiva al centrosinistra la partecipazione al ballottaggio.
A Roma, chi sente il vento in poppa dopo gli scandali di Mafia Capitale, sono i 5 stelle. Il nome del candidato sarà scelto a febbraio: si parla di una doppia votazione online, prima sui 233 che hanno inviato le loro candidature, poi i più votati (i primi 15-20) verranno sottoposti al giudizio della rete. È probabile che a esser scelto sia uno dei 4 ex consiglieri. E già si parla di tensioni tra l’ex capogruppo Marcello De Vito e la consigliera Virginia Raggi, la legale di 37 anni, considerata da alcuni nel movimento come la favorita.
A Milano, nel caso delle primarie del centrosinistra (previste per il 7 febbraio), a sfidare il commissario Expo Giuseppe Sala c’è Francesca Balzani, vicesindaca di Milano, e Pierfrancesco Majorino, assessore alle politiche sociali. Balzani, ieri, rispondendo all’ipotesi di alleanza con Sel, ha detto che una «coalizione ampia è più dinamica».
Nel centrodestra, Silvio Berlusconi è orientato ad aspettare l’esito delle primarie del centrosinistra prima di scegliere il suo candidato per Milano. La vittoria di Balzani sul più moderato Sala aumenterebbe le chance di un candidato più identitario come Alessandro Sallusti. Per Roma, la partita è più complicata. Qui gioca un ruolo importante Giorgia Meloni, leader di FdI, che una volta sciolta la sua riserva potrebbe essere la candidata anche di Fi. Anche se una parte degli azzurri e alcuni esponenti moderati vedrebbero bene l’appoggio all’imprenditore indipendente Alfio Marchini.
il manifesto 31.12.15
L’Italicum resta così. «Sulla Corte li abbiamo fregati»
La legge elettorale è blindata, Renzi ha deciso dopo che M5S ha consegnato la Consulta al Pd. Il testo non è più a rischio. Ma ora il premier punta al referendum costituzionale, prova generale del ballottaggio. La sinistra e il quesito: «Cerca il plebiscito, il tentativo è nascondere il merito della riforma della Carta perché venga analizzato con lucidità»
di Andrea Colombo

L’Italicum non si tocca: questo ha detto forte e chiaro Matteo Renzi nella conferenza stampa di fine anno, annunciando così di aver risolto un dubbio che lo animava da mesi, con una scelta già quasi definitiva dopo le elezioni spagnole. Sarà una pietanza amara nel cenone di moltissimi politici, non solo di opposizione ma anche nella minoranza del Pd. In una revisione della legge elettorale ci avevano sperato in molti. È probabile che nonostante le parole di Renzi ci sperino ancora, ormai però contro ogni evidenza. Nel momento stesso in cui ha ricordato a Berlusconi di essere rimasto paralizzato per vent’anni nonostante fosse il dominus della politica italiana proprio perché impastoiato dalle coalizioni, Renzi ha mosso un passo che non prevede retromarcia.
L’eventualità di modificare la nuova legge elettorale a palazzo Chigi è stata presa in considerazione seriamente dopo l’estate. Il punto debole dell’Italicum con il premio assegnato alla lista, dal punto di vista di Renzi, è in effetti vistoso. Con due forze d’opposizione diverse, per molti versi inconciliabili ma con elementi in comune come il Movimento 5 Stelle e la destra a trazione leghista, il rischio che al ballottaggio i voti convergano su quella delle due forze che sarà arrivata alla sfida finale è fortissimo. Lo è tanto più nell’eventualità assai probabile che quella forza sia l’M5S.
In caso contrario, infatti, l’eredità di un antiberlusconismo che ormai sopravvive al berlusconismo stesso potrebbe ancora frenare gli elettori a cinque stelle, mentre è più difficile che la base leghista o meloniana (nel senso della destra radicale dei Fratelli d’Italia) sfugga alla tentazione di affibbiare comunque un colpo micidiale a Renzi, visto non come il capo del Pd ma come il leader della politica tradizionale.
In parte, a convincere Renzi è stato l’esito per lui trionfale della lunghissima guerra di posizione sul fronte della Corte costituzionale. Un esito diverso di quel conflitto avrebbe infatti esposto l’Italicum al forte rischio di essere dichiarato incostituzionale, dal momento che non sana nessuno dei limiti evidenziati dalla Corte nella bocciatura del Porcellum. Per ingenuità o per calcolo, cioè perché convinti che l’Italicum torni anche a loro vantaggio, i pentastellati hanno consegnato la Consulta a Renzi, come ammetteva la sera stessa dell’elezione, in privato, Luca Lotti, tripudiando: «Ci hanno regalato la Corte. Li abbiamo fregati di nuovo». Da quel punto di vista, la legge elettorale di Renzi è ormai blindata.
Ma soprattutto quel che spinge Renzi a difendere l’Italicum, nonostante i rischi che comporta e che in molti gli hanno pur segnalato, è il fatto che combacia perfettamente con il suo progetto. Matteo Renzi ha una sua idea precisa di come dovrebbe funzionare la democrazia italiana: un modello fondato da un lato sul commissariamento, cioè su un presidente del consiglio i cui poteri sono quelli di un super commissario agli affari nazionali ed esteri, e dall’altro su un rapporto plebiscitario con l’elettorato, se possibile persino più marcato di quel che intratteneva Berlusconi con il suo popolo votante. Al commissario non si chiede conto di ciò che fa , spulciando le sue scelte riforma per riforma. O ci si fida oppure lo si licenzia.
Nella medesima conferenza stampa Renzi ha avvertito che questo farà quando si voterà nel referendum sulla riforma costituzionale. Inutile sprecare tempo e meningi nel chiedersi se il modello funziona o no, se quella democrazia decurtata piace o no. O con me o contro di me: il voto di fiducia, diventato norma in Parlamento e contro il Parlamento allargato dalla platea dei rappresentanti a quella dei rappresentati. «Il tentativo — commentava ieri Loredana De Petris — è quello di nascondere il merito delle scelte per impedire che vengano analizzate lucidamente».
Ma proprio perché questa è e resterà la rotta Renzi avrà bisogno di non arrivare al plebiscito con la sua stella appannata da una batosta alle elezioni comunali.
Il Sole 31.12.15
La politica in numeri
Il premier punta sul referendum perché incassa consensi trasversali
di Roberto D'Alimonte


Il 2016 sarà l’anno del referendum sulla riforma costituzionale. Così ha ripetuto il premier nella sua conferenza stampa di fine anno. E ha aggiunto testualmente: «Se lo perdessi sarebbe il fallimento della mia esperienza in politica». A giudicare dai dati che abbiamo in mano ora Renzi ha buone chance di vincere la sua scommessa, ma l’esito non è del tutto scontato. Nell’ultimo sondaggio Cise-Il Sole 24 Ore (si veda Il Sole 24 Ore del 29 novembre) c’erano tre domande sul referendum costituzionale. In prima battuta è stato chiesto agli intervistati se per loro la riforma fosse una cosa positiva. Il 55% ha risposto che era d’accordo o molto d’accordo con questa affermazione. Il restante 45% si è dichiarato per niente d'accordo (23%) o poco d’accordo (22%). Una chiara maggioranza a favore ma non una maggioranza schiacciante.
Ma quanti andranno a votare? Anche se, come è noto, la validità di questo referendum non è legata a un quorum di partecipanti, l’affluenza alle urne sarà un fattore importante. La seconda domanda del sondaggio riguardava questo aspetto. Il 67% degli intervistati ha dichiarato che sarebbe andato a votare contro il 18% che ha risposto negativamente e il 15% di indecisi. Infine, a quelli che hanno risposto che sarebbero andati a votare è stato chiesto come si sarebbero espressi. Il 68% ha dichiarato che avrebbe votato a favore della riforma, il 32 contro.
Sono dati di sondaggio. Vanno presi con le molle. Le domande sono state fatte a freddo, a quasi un anno di distanza dal voto che presumibilmente sarà a ottobre 2016. Ci sarà una campagna elettorale molto vivace. Qualcuno cambierà opinione. Il quadro politico-economico potrebbe essere molto diverso da quello attuale. E così via. Tutte queste sono osservazioni legittime che suggeriscono cautela. Eppure questi numeri indicano una tendenza da non sottovalutare. L’opinione pubblica sembra essere in maggioranza favorevole alla riforma costituzionale, ma l’area della incertezza resta elevata. Sulla base di questi dati solo un terzo del complesso degli elettori ha già maturato la decisione di votare a favore (il 33%) contro un 15% che voterà contro. Ma cosa farà l’altra metà (il 52%)? Una parte non andrà a votare. Circa il 33%. Gli altri dicono che andranno a votare, ma non sanno ancora come voteranno. Da qui l’incertezza.
Ma se questi dati dicono il vero sarà difficile per gli oppositori della riforma riuscire a ribaltare il quadro fotografato qui. I 18 punti percentuali che separano chi è favorevole da chi è contrario sono tanti. Questo gap potrebbe essere colmato solo se la partecipazione alle urne fosse più alta di quella registrata oggi e se tutti o quasi gli indecisi di oggi decidessero di votare contro la riforma domani. Sono condizioni improbabili. È vero che la campagna elettorale vedrà il Pd praticamente da solo contro tutti, ma a Renzi non mancano argomenti validi per difendere la bontà della riforma. Mentre alcuni dei suoi avversari faranno fatica a giustificare il no a una riforma che, fino a un certo punto, hanno votato (è il caso di Foza Italia) o che li potrebbe avvantaggiare. Quest’ultimo è il caso del M5s, perché senza riforma costituzionale (e quindi con il Senato attuale) l’Italicum sarebbe inservibile. E questa non è una buona cosa per il movimento di Grillo, come ha dimostrato il nostro sondaggio.
Inoltre, come si vede dalla tabella in pagina, non sono pochi gli elettori dei partiti di opposizione che dichiarano di essere favorevoli alla riforma, nonostante la posizione contraria dei loro partiti di riferimento. Nel caso di coloro che intendono votare Forza Italia il 37% dice che non andrà a votare, ma tra quelli che voteranno il 47% è favorevole. Tra i leghisti la percentuale dei favorevoli scende al 23%. Ma c’è da dire che la riforma piace anche ad una fetta di elettori del M5s. Il 26% di loro è disposto ad approvarla. Il dato che colpisce di più però è il comportamento stimato degli elettori di sinistra. L’opposizione più netta alla riforma è qui dentro. Infatti il 50% di loro dichiara che voterà contro. Tra tutti quelli che hanno espresso una intenzione di voto per un partito è la percentuale decisamente più alta. A sinistra la nuova Costituzione decisamente non piace. Ma Renzi dovrebbe riuscire comunque a vincere la sua scommessa anche senza la sinistra. E se la vincerà cambierà non solo il quadro istituzionale, ma anche quello politico. Infatti, non è affatto irrilevante che il sì alla riforma possa far breccia tra gli elettori dei partiti del centro-destra e del M5s, come si vede da questi dati. Dopo il referendum sarà tutta una altra storia. Sia che Renzi lo vinca sia che lo perda.
Il Sole 31.12.15
Unioni civili verso la conta in Aula
Il ddl in Aula a fine gennaio - Resta il no di Ncd alla stepchild adoption, mediazione dei cattolici dem
Renzi: nel 2016 correremo ancora di più
Adozioni, maggioranza senza intesa
di Barbara Fiammeri


Roma Prima di partire per Courmayeur (questa volta in auto) per il Capodanno in famiglia, Matteo Renzi non rinuncia all’ennesima ventata di ottimismo. «Nel 2015 abbiamo fatto molto e ancora di più faremo nel 2016», assicura il premier via Facebook, per nulla intimorito dalla crescita dei partiti della protesta. «Lo so, sembrano numerosi quelli che protestano, che urlano che va tutto male, quelli che noi chiamiamo gufi perché pur di andare contro il Governo sperano che l’Italia fallisca. Ma io sono certo che gli italiani sanno benissimo che l’unico modo per rilanciare questo bellissimo Paese è mettersi in gioco, rischiare, provarci».
Il premier è già proiettato sul 2016, che si aprirà però con una crepa nella maggioranza. A provocarla il ddl sulle unioni civili che a fine gennaio sarà in aula al Senato e che molto probabilmente verrà approvato solo grazie all’«alleanza» anomala con il M5s e nonostante il «no» di Ncd, il partito del ministro dell’Interno Angelino Alfano, e di una ventina di senatori cattolici dello stesso Pd, che fino all’ultimo hanno sperato in un compromesso per rimuovere dal ddl il famigerato articolo 5 che prevede la stepchild adoption per le coppie omosessuali. A dare il via libera definitivo è stato lo stesso Renzi martedì alla conferenza stampa di fine anno. Il premier, pur premettendo che la decisione spetta esclusivamente al Parlamento e che quindi il Governo non metterà la fiducia, ha detto chiaro e tondo che nonostante la diverse «sensibilità» all’interno della maggioranza, «le unioni civili dobbiamo portarle a casa», stepchild adoption compresa.
La battaglia a questo punto si sposta in Aula. L’attenzione in particolare si concentrerà sia sulla disciplina delle convivenze di fatto che soprattutto sugli emendamenti all’articolo 5 sull’adozione. Tra questi ce ne sarà certamente uno dei 20 senatori dissidenti (alcuni dei quali renziani come Rosa Maria Di Giorgi) che già aveva tentato una mediazione trasformando la stepchild adoption in affido rafforzato. La nuova ipotesi di compromesso, che sarà contenuta nell’emendamento, non prevede invece più l’affido ma punta a circoscrivere le possibilità di adozione, ad esempio consentendola solo nel caso in cui il minore sia nato da una precedente relazione di uno dei due “coniugi”. «Saranno settimane cruciali per raggiungere una mediazione necessaria, ciascuno deve rinunciare a qualcosa per garantire ogni diritto ai minori», sottolinea la senatrice Di Giorgi, che ritiene «altissimo il rischio che questa legge sia solo un pasticcio». La maggioranza del Pd è però orientata a procedere speditamente. «L’importante è avere il riconoscimento della civil partnership», spiega il renziano Andrea Marcucci, ribadendo che a decidere sarà il Parlamento «come è avvenuto per il divorzio, lasciando fuori anatemi e guerre di religione».
Del resto le divisioni non sono solo nella maggioranza. Anche dentro Fi sono emerse su questo tema posizioni differenti. E non è da escludere che nel segreto dell’urna aumentino, anche se al Senato la linea dura portata avanti da Maurizio Gasparri è decisamente maggioritaria.
Il vero problema per Renzi però è il «no» di Ncd, ribadito anche ieri da Maurizio Sacconi che preannuncia un referendum contro il ddl sulle unioni civili «nella malaugurata ipotesi venga approvato». Al di là del merito, il rischio per i centristi è che il via libera alle unioni civili possa favorire nuove fughe dal partito. «Al Senato Renzi si regge sui vostri voti, usateli! È l’unica minaccia credibile», attacca su twitter l’ex senatore centrista Gaetano Quagliariello, che dopo l’addio a Ncd ha fondato il movimento «Idea». E sui numeri della maggioranza attacca anche Fi: «Se il ddl passerà con i voti dei 5 stelle Renzi avrà cambiato ancora una volta maggioranza e questo non potrà non avere conseguenze istituzionali», dice la responsabile comunicazione Deborah Bergamini.
Ma per Renzi l’unica partita che potrà avere «conseguenze» è invece quella sulla riforma costituzionale. Dopo il via libera della Camera alla riapertura del Parlamento, tra tre mesi la riforma viaggerà nuovamente tra Senato e Camera per il sì definitivo del Parlamento. E per l’approvazione questa volta sarà indispensabile la maggioranza assoluta che a Palazzo Madama non è affatto scontata.
il manifesto 31.12.15
In gioco non è la Terra, ma la razza umana
Clima. La comunità umana sarà capace di superare le difficoltà del pianeta. E anche se nel testo finale della Conferenza di Parigi le parole «agricoltura», «biodiversità», «coltivazione» non compaiono mai, il 2016 sarà un anno positivo, di svolta
di Carlo Petrini


Qual è lo stato di salute del pianeta? Questa domanda non è certo di facile risposta, soprattutto perché riguarda una molteplicità di aspetti e di fattori che non è semplice riuscire a considerare in uno stesso colpo d’occhio. Interrogarsi su quale sia la qualità della nostra casa comune, tuttavia, non è solo un dovere che ci tocca come abitanti, ma una necessità sempre più pressante dato che, evidentemente, dallo stato del nostro pianeta dipendono tutte le nostre possibilità di sopravvivenza come specie umana. Forse già qui sta il primo punto di riflessione: a essere a rischio, con i cambiamenti climatici, la distruzione delle risorse naturali, l’ipersfruttamento dell’ambiente a scopo produttivo e l’erosione di habitat fragili a causa della pressione demografica, non è il pianeta ma semmai il futuro della specie umana.
Ecovoracità
La convinzione stessa che 7 miliardi di uomini possano porre fine alla vita di un pianeta che ha 5 miliardi di anni è, infatti, quantomeno un po’ eccentrica, se non decisamente megalomane. Ed è la stessa premessa culturale che fa sì che il rapporto che abbiamo con la Terra sia spesso predatorio e di dominazione piuttosto che di equilibrio e adattamento.
La realtà è invece ben diversa, perché con ogni probabilità altre specie sul pianeta prenderanno il posto di quelle che stiamo distruggendo con i nostri comportamenti produttivi scellerati, le risorse naturali si ricostituiranno quando noi non saremo più in grado di eroderle ma nel frattempo, speriamo di no, l’unica cosa che si sarà davvero persa per sempre sarà la specie umana, con tutta la sua potenza produttiva e tutta la sua gloriosa civiltà.
È dunque questo il triste destino che ci attende? Penso proprio di no, perché sono convinto che la nostra intelligenza, la nostra capacità di cooperare e il nostro spirito di sopravvivenza faranno sì che sapremo riprendere il contatto con la realtà e invertire questo processo autodistruttivo che affonda le radici nelle rivoluzioni industriali e che nell’ultimo secolo ha subito un’accelerata senza precedenti.
Il punto, infatti, è che come società umana abbiamo reso egemone un modello di relazioni e di interazioni basato su un’economia capitalista che identifica falsamente l’accumulazione di denaro con il progresso ma che in realtà genera la competizione sfrenata, la sopraffazione, l’ingiustizia, la sperequazione, lo spreco, la distruzione, lo sfruttamento, la povertà. Un’economia che uccide, come spesso ha ripetuto Papa Francesco che lo ha anche messo nero su bianco nell’enciclica Laudato Sì. Non solo, ma siamo anche riusciti a convincerci che questo sia il modello «naturale», che non ci sia altro modo di abitare la casa comune e di convivere con i nostri simili e con l’ambiente che ci ospita.
Per fortuna, invece, cambiare direzione si può, ma servono nuovi paradigmi che ci consentano di ricostruire il tessuto del nostro vivere comune su basi nuove, di cooperazione, di sostegno reciproco, di equità. Occorre un percorso comune, in cui però i paesi del nord globale (che sono i maggiori responsabili del deterioramento ambientale e dell’ipersfruttamento delle risorse) abbiano la forza e la dignità di assumersi la guida del cambiamento. Anche perché, non a caso, a subire maggiormente le conseguenze catastrofiche dei cambiamenti climatici saranno proprio quelle popolazioni e quelle aree del pianeta più fragili perché più povere o storicamente instabili.
In questo percorso di rinnovamento, la produzione del cibo può essere un esempio eclatante della forza propulsiva che hanno nuovi comportamenti virtuosi. Oggi il 70% delle risorse idriche è utilizzata per agricoltura e allevamento, fertilizzanti e pesticidi rappresentano una fonte rilevantissima di emissioni di gas serra, gli allevamenti industriali con le deiezioni degli animali sono grandissimi inquinatori delle falde acquifere, per non parlare delle enormi quantità di terreni che vengono utilizzati per la produzione dei mangimi, spesso deforestando vaste aree e utilizzando colture geneticamente modificate che erodono il patrimonio di biodiversità. Nello stesso tempo, però, proprio nella produzione di cibo sono evidenti enormi segnali di riscatto, di novità, di cura e di attenzione, proprio quei nuovi paradigmi di cui tanto sentiamo il bisogno e che spesso non sappiamo dove cercare.
Basti pensare alle esperienze dei milioni di contadini che in ogni angolo del mondo stanno già andando nella direzione della conservazione delle risorse naturali, utilizzando metodi agricoli in armonia con il territorio e con le condizioni ambientali, che non solo non impattano sugli habitat all’interno dei quali si inseriscono, ma al contrario ne aumentano resilienza e durabilità. Non solo, ma al fianco di questi produttori ci sono masse enormi di cittadini che hanno scelto di sostenere questo sforzo, tagliando gli intermediari e pagando un prezzo più alto ai produttori, remunerando in maniera equa il lavoro, pagandone in anticipo il prodotto in modo da non costringerli a prestiti spesso svantaggiosi, valorizzandone il lavoro pulito e promuovendone lo sviluppo. Questo nuovo mondo è già presente, è già diffuso, funziona e genera dignità, sviluppo e soddisfazione in tutti gli attori che vi prendono parte.
Eppure, nel dibattito mondiale sul clima, anche nella recente Conferenza di Parigi che aveva il compito di fissare pratiche e obiettivi concreti per contenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi centigradi, il settore dell’agricoltura è stato relegato ai margini. Come già evidenziato più volte, nel testo uscito dai negoziati non compaiono nemmeno una volta i termini «agricoltura», «biodiversità» e «coltivazione». Un ulteriore segno scoraggiante questo, perché esemplificativo di come non ci si renda conto che, per uscire dalla crisi ambientale in cui siamo immersi, non si può non assegnare un ruolo di primissimo piano all’attività necessaria alla sopravvivenza di ogni singolo essere umano: l’atto di nutrirsi.
Tutta l’attenzione è rivolta ai settori dell’energia, dell’industria, dei trasporti; è vero che si parla anche di suolo e di sicurezza alimentare, ma non si riconosce in modo esplicito il ruolo centrale del rapporto diretto fra clima, coltivazione della terra e cibo.
Tornando dunque alla domanda di partenza, probabilmente la riflessione sulla salute del pianeta non può essere compiuta se non ci domandiamo anche quale sia lo stato della comunità umana che lo abita. Quale mondo vogliamo lasciare ai nostri figli, quale idea di felicità vogliamo perseguire e come pensiamo di poterla raggiungere? Io credo fortemente nella nostra capacità di cambiare, di cooperare e di superare le difficoltà e questo mi rende ottimista. Bisogna tuttavia continuare a lottare per favorire la presa di coscienza globale che il feticcio della competizione non è compatibile con una vita degna e felice. In questo senso il 2016 che sta per iniziare sarà un anno di svolta, e sono convinto che lo sarà in termini
il manifesto 31.12.15
L’Esodo biblico è il dolore dei migranti
Profughi. Stessa schiavitù e persecuzione. Il popolo della Terra promessa non era solo ebreo ma «mucchio selvaggio» di etnie e subalterni
Da questa stessa etica l’antidoto ai disastri del razzismo
di Moni Ovadia


Lo spostamento in massa di decine di migliaia, di centinaia di migliaia, di milioni di esseri umani grandi e piccoli, giovani e vecchi, donne e uomini, riceve comunemente su tutti i media la definizione di «esodo biblico». Ma l’Esodo è anche e soprattutto un preciso evento accaduto, o per meglio dire, raccontato nel libro più famoso della storia dell’umanità: la Bibbia.
Quale relazione esiste fra gli eventi che oggi definiamo come esodo e quel celebre Esodo? Un tratto comune è quello quantitativo di uno spostamento di massa, un altro tratto che li accomuna è il trattarsi di una massa composita che trascende l’età o il sesso, ma la caratteristica più significativa che accomuna l’esodo biblico di allora con gli esodi biblici di oggi, non viene sottolineato dalla mainstream del pensiero omologato e ridondante del nostro tempo, ovvero il fatto che anche allora, riferisce il biblista, il popolo ebraico scelse la via dell’esodo per sottrarsi a condizioni di oppressione: la schiavitù e la persecuzione attraverso l’ordine dato alle levatrici egizie di sopprimere i maschi ebrei dopo averli portati alla luce e di lasciare in vita solo le femmine.
Anche le genti migranti odierne scelgono la via dell’esodo per sottrarsi a schiavitù ed oppressione. Nessuna persona sensata potrebbe contestare il fatto che la fame coatta sia una terrificante forma di schiavitù e che le guerre siano una forma crudele di oppressione alla quale ogni essere vivente ha il pieno diritto di sottrarsi.
Eppure già a questo livello una prima differenza ci colpisce. Ci sono molti politici sostenuti da folle di elettori che non riconoscono nella fame una forma di schiavitù e pretendono di creare una discriminazione fra gli esseri umani che scelgono la via dell’esodo per sfuggire alla probabile morte, individuando in essi due categorie di fuggitivi: quelli legittimi, definiti rifugiati politici e quelli illegittimi definiti emigranti economici.
Quando ci si riferisce all’Esodo biblico, la sua legittimità non viene sottoposta a questioni di merito. Quei migranti che chiamiamo e tramandiamo col nome di ebrei e che si mossero al seguito di un profeta balbuziente il quale si presentò a loro dichiarandosi investito dal Dio del monoteismo, il Dio dello schiavo e dello straniero, erano un popolo etnicamente omogeneo? Beh! Pare di no. Stando alla definizione del grande Rabbino statunitense e scrittore Haim Potok, riportata nella sua opera Storia degli ebrei, erano una specie di «mucchio selvaggio», c’erano israeliti discendenti di Giacobbe, vari asiatici: mesopotamici accadi, ittiti, transfughi egizi e molti habiru, — termine forse di origine protosinaitica che indicava i fuorilegge a vario titolo -, sovversivi, contrabbandieri, ruffiani, ladri. Tutti coloro definiti «ebrei» seguirono Mosè? Anche in questo caso la risposta dovrebbe essere negativa! La maggior parte di essi preferì negoziare la certezza di una schiavitù accettabile, all’avventura di una difficile e rischiosa libertà. Il coacervo di sbandati che riconobbe la parola vertiginosa del profeta balbuziente, divenne il popolo eletto, eletto perché popolo di schiavi e stranieri che riconosce in quella condizione il valore di un’elezione. Un popolo eletto, eletto dal basso. Un popolo che si aggrega durante l’esodo stesso intorno ad una patria mobile, una legge che propugna una declinazione originaria e inedita di giustizia e di etica e si dirige verso una terra «promessa», la terra del Signore, dove istituire una modalità di vivere come straniero e soggiornante, straniero fra stranieri, dopo essersi liberato dalla nefasta eredità della terra d’Egitto, nazione di idolatria e di schiavitù. Che cosa chiedeva il popolo eletto? Chiedeva di servire il Dio della libertà e dell’anti-idolatria. Questa storia celeberrima fonda una delle linee narrative dell’Occidente e della sua tanto conclamata identità giudaico-cristiana, identità piena di tare e patologie.
L’arrivo nella terra abitata da altre genti determinerà, con l’andare del tempo, una deriva di impronta nazionalista. L’abbandono dell’etica dello straniero, capace di vivere in prima istanza come straniero a se stesso, con l’andare del tempo farà fallire il progetto, tremila anni fa nella terra biblica, come oggi nella terra del cosiddetto Sionismo. L’esodo intendeva essere l’avanguardia di un’umanità che sceglieva di fondarsi su un’economia di giustizia, su una società di uguali e liberi fondata sull’ethos di custode della Terra e non di suo Padrone.
I migranti di oggi, dal canto loro, non fuggono anch’essi da idolatria e schiavitù nella loro forma più specifica, ovvero la violenza contro l’innocente? E cosa cercano? Cosa chiedono? Una «Terra promessa» dove essere accolti da stranieri come cittadini. Sperano di essere riconosciuti nella loro dignità universale. Essi a torto e/o a ragione vedono nei paesi dell’Occidente la loro terra promessa e con un altissimo e contraddittorio tasso di ambiguità, l’Occidente, seduttivamente, appare come tale. Si tratta però in gran parte di seduzione perversa. L’Occidente è stato per secoli il Faraone colonialista e oggi crea la crisi e prosegue la sua rapina del pianeta e delle sue risorse di cui, inopinatamente, si ritiene proprietario con forme sempre più pervasive del neo-colonialismo. Impone surrettiziamente guerre e violenza, la sua logica di uno sviluppo ipertrofico determina inedite forme di espropriazione, altera le condizioni ecologiche, influisce sul clima devastando lo stato di vastissimi territori e provoca alterazioni destinate a innescare nuove e sempre più tragiche ed inarrestabili ondate migratorie segnate da una crescente disperazione.
Una parte del vecchio continente, con sconcertante stupidità e cecità, reagisce ancora ridando la stura al più sconcio e putrescente armamentario nazionalista intriso da residui di logiche nazifasciste, soprattutto in quell’Europa centro-orientale che pure ha sperimentato il cancro di quella peste nera con il suo bagaglio di morte, distruzione, odio e sterminio. Anche un sedicente socialista come Holland, per pure ragioni elettoralistiche, riesce a farsi complice di questo clima.
Ovviamente questa pandemia è stata alimentata anche dall’ossessione ideologica e tardoimperialista degli Stati Uniti che non hanno mai cessato di alimentare l’anticomunismo malgrado l’assenza dei comunisti e persino della loro lingua. Gli Usa non hanno smesso di imporre a tutto l’Est l’estensione della Nato nonostante la fine della guerra fredda ed essa alimenta un insensato revanscismo che rischia di provocare disastri ma soprattutto pregiudica la nascita di un’Europa unita in un’autentica democrazia.
L’etica dell’Esodo applicata ai grandi flussi migratori potrebbe diventare, in questo contesto, un prezioso e poderoso antidoto per contrastare un potenziale disastro che si annuncia con sinistra e crescente incombenza.
il manifesto 31.12.15
Susanna Camusso: «Ci riprenderemo i diritti del lavoro ferito»
«Molti i momenti difficili dell’anno. Ma chi mi ha colpito di più sono state tutte quelle persone che mi hanno raccontato di aver dovuto ritirare i figli da scuola o dall’univesità. La Carta dei diritti universali del lavoro sarà la nostra bussola»
intervista di Antonio Sciotto


Segretaria Camusso, il bilancio 2015 secondo la Cgil è positivo o negativo?
Se consideriamo che ci sono alcuni milioni di lavoratori senza contratto e che, come milioni di pensionati e altre famiglie, non partecipano della cosiddetta “ripresa”, se guardiamo i dati della disoccupazione in particolare di quella giovanile, il bilancio non può essere positivo. Ma è anche vero che ci sono buone premesse per il 2016: nonostante i tentativi di blocco abbiamo rinnovato alcuni contratti e con Cisl e Uil abbiamo aperto una vertenza sulle pensioni.
Sperate in qualche risposta dal governo?
Credo che al presidente del consiglio non basterà celebrarsi sulla sua e-news per aver tolto l’articolo 18. Sulle pensioni abbiamo aperto una vertenza e cercheremo in tutti i modi di ottenere dei risultati.
La vostra e-news è diversa da quella di Renzi?
La Cgil ritiene che le priorità siano altre. Se vogliamo la fine dell’austerity in Europa, refrain più volte ripetuto dallo stesso Renzi, dobbiamo mettere al centro il lavoro, la redistribuzione dei redditi e la riduzione delle disuguaglianze. Non il profitto, l’impresa e la finanza. Il governo non ha compiuto scelte di questo genere. Si pensi a quanta riduzione fiscale è andata al lavoro e quanta all’impresa senza peraltro vincolarla a creazione di occupazione o investimenti.
Quale è stato, personalmente, il momento più difficile dell’anno?
Purtroppo ce ne sono stati molti. La mancata soluzione per Alcoa è una ferita aperta. Penso alla complicata situazione dell’Ilva di Taranto. Emotivamente mi hanno colpito molto tutte quelle persone che hanno raccontato di aver dovuto ritirare i figli da scuola, o di non averli potuti iscrivere all’università, perché hanno perso il lavoro o non guadagnano abbastanza. È un anno che discutiamo di scuola ma nessuno ha saputo raccontare come l’istruzione sia diventata selettiva per reddito.
E un momento gratificante?
Almeno due. Il contratto dei chimici, il primo in una stagione molto difficile. L’aver lanciato la campagna e la consultazione straordinaria sulla “Carta dei diritti universali del lavoro”.
Ma il governo Renzi ha portato almeno un provvedimento positivo?
Se penso al lavoro citerei le norme sul caporalato, che speriamo siano presto completate: danno ragione di una battaglia che abbiamo condotto con tenacia in tutti questi anni. Poi ci sono questioni su cui abbiamo espresso apprezzamento: sui rifugiati, sul nodo pace/guerra. Anche l’idea un miliardo per la sicurezza e un miliardo per la cultura l’ho trovata condivisibile. Quello che delude è il modo in cui viene realizzata: si limita alla distribuzione di singoli bonus come i 500 euro ai diciottenni alimentando l’individualismo invece di valorizzare un’idea collettiva, pubblica, di cultura.
Con il presidente Renzi, al di là degli incontri ufficiali, vi sentite mai? Anche solo via sms, o almeno via Twitter.
Non abbiamo questa consuetudine. Agli incontri ufficiali ha un atteggiamento cordiale, ma ha scelto di praticare e rendere visibile la sua distanza dal lavoro e dal sindacato.
Cosa proponete con la Carta dei diritti universali del lavoro?
Abbiamo scelto di chiamarla “Carta dei diritti universali del lavoro” e le abbiamo dato come sottotitolo “Il nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori”. Già questo segna la nostra volontà di innovare. Siamo in una situazione molto diversa dagli anni Settanta, dove il lavoratore s’identificava con il suo contratto subordinato a tempo indeterminato. Oggi, invece, dobbiamo sancire che i diritti sono in capo alla persona che lavora, e che il suo contratto – subordinato, parasubordinato, in partita Iva — non è fondamentale per connotarla. Le modalità di fruizione dei diritti – maternità, riposi, formazione — non saranno omogenee, ma devi assicurarli a tutti.
Insomma, vorreste riscrivere il Jobs Act, ma in versione Cgil.
Siamo molto più ambiziosi. Abbiamo ragionato sulla legge 30, sul Collegato Lavoro, sulle norme introdotte dal governo Monti. Vogliamo applicare l’articolo 39 della Costituzione, con la misurazione della rappresentanza, anche delle imprese, la riduzione del numero dei contratti. Vogliamo che sia data attuazione all’articolo 46 sapendo che per noi partecipazione dei lavoratori all’impresa non è azionariato e capitale di rischio, ma possibilità concreta di incidere sulle decisioni di investimento e riorganizzazione. E ancora, vogliamo ripristinare il primato della contrattazione: grande rilevanza al contratto nazionale e alla sua validità erga omnes; un nuovo rapporto tra legislazione e contrattazione in modo che la prima non soffochi la seconda, come invece accade oggi con l’Articolo 8 varato da Sacconi che permette le deroghe. Abbiamo poi guardato alla realtà del lavoro, alla mancanza d’inclusione o, ad esempio, alla complicazione e al costo proibitivo che è diventato istruire una causa. E allora, ecco un altro obiettivo ridare ai lavoratori la possibilità di agire in giudizio sia singolarmente che collettivamente. Della Carta dovremo certamente discutere con Cisl e Uil, con le associazioni del lavoro autonomo, con i giuristi, ma spero che il dibattito sia ancora più ampio. E’ anche per questo che abbiamo lanciato la consultazione straordinaria dei nostri iscritti, in un momento storico in cui gli spazi della partecipazione si restringono sempre più.
Alla Carta dei diritti verranno affiancati, probabilmente, dei referendum. Non temete di imbarcarvi in una avventura che spesso in Italia risulta essere deludente a causa della alta soglia del quorum?
Il dato fondamentale resta la Carta e quello che contiene per il futuro. La consultazione dirà se lo strumento referendario potrà essere utile a sostenere la nostra proposta. Paradossalmente se i nostri iscritti dicessero sì ai referendum ma non alla Carta, lo vedrei come un problema. Non vogliamo tornare a “prima delle ultime leggi”. Il nostro obiettivo è universale, unificante e inclusivo: riscrivere i diritti per tutte le figure che oggi esistono, autonomi inclusi. La sfida comporta dei rischi, non ce li nascondiamo, ma procediamo con assoluta linearità e trasparenza.
Alle imprese cosa chiedete per il 2016?
Il nostro obiettivo è il rinnovo dei contratti. Vedo invece imprese e governo procedere sugli stessi binari: vogliono affermare l’idea che il contratto non sia più uno strumento di difesa dei lavoratori e crescita dei salari. Strumento che, segnalo a Confindustria, tutela dalla concorrenza sleale e dal lavoro nero che tanti danni arrecano alle imprese oneste. Con Cisl e Uil stiamo preparando un modello comune, il lavoro è prossimo alla conclusione: credo che all’inizio di gennaio potremo presentarlo. Posso già dire che non ci sarà più un solo indicatore, come in passato l’inflazione, e che sarà fondamentale sancire l’universalità dei minimi.
Con la Coop che succede? La tensione è salita ultimamente.
Un loro fortunato slogan dice “La Coop sei tu”, il socio, parte di una storia e di un insieme di valori etici. Ma allora, cosa c’entrano le retribuzioni più basse, il trattamento peggiore sulla malattia, il non riuscire a siglare un contratto con Federdistribuzione che vuole dare meno di Confcommercio? Da un lato il messaggio mutualistico, poi si scopre che, pure loro, il conto vogliono farlo pagare ai lavoratori. Colpisce che quel mondo oggi sia appiattito sull’idea che l’unica leva sia quella dell’unificazione al ribasso delle condizioni di lavoro, come per le grandi multinazionali del profitto.
Al referendum sulla riforma costituzionale la Cgil scenderà in campo per il no alla formula targata Renzi?
Abbiamo espresso critiche, ma anche consensi. Da tempo siamo per il superamento del bicameralismo perfetto, quindi non siamo contrari a una riforma, ma non ci piace come la si vuole realizzare. Il Direttivo della Cgil esprimerà un parere più completo quando ci sarà il testo definitivo. Inviteremo sicuramente al voto, ma credo che, come abbiamo sempre fatto in questi casi, lasceremo agli iscritti la libertà di votare come meglio ritengono.
il manifesto 31.12.15
Stefano Rodotà: una falsa democrazia anticipa il nuovo regime
«Il premier Renzi governa come se ci fossero già l’Italicum e la nuova Costituzione. Il presidente Mattarella non distoglierà lo sguardo da questa situazione. Il bipolarismo crolla ma non c’entra il populismo. I partiti non sanno più leggere la società»
intervista di Andrea Fabozzi


«Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza». L’intervista con Stefano Rodotà comincia dal giudizio sui risultati elettorali in Francia e Spagna. «In entrambi i casi il bipolarismo va in crisi. Ma in Francia il fenomeno assume tinte regressive. Lì il Front National coltivava da tempo il disegno di sostituirsi ai due grandi partiti in crisi, ed è stato facilitato dalla rincorsa a destra di Sarkozy e Hollande, che hanno finito per legittimare Le Pen. In Spagna Podemos ha interpretato un movimento reale, quello degli Indignados, e ha predisposto uno strumento di tipo partitico per raccogliere il fenomeno. Il risultato pare essere un’uscita in avanti dal bipolarismo».
Renzi benedice la nuova legge elettorale italiana e sostiene che da noi non potrà succedere.
Non coglie il senso di quello che sta succedendo e con la sua risposta non fa che aumentare la distanza tra il partito e la società. Sostanzialmente dice: «A me della rappresentanza non importa nulla, a me interessa la stabilità». Ma con un governo che rappresenta appena un terzo degli elettori ci sono enormi problemi di legittimazione, di coesione sociale e al limite anche di tenuta democratica.
In Spagna e Francia si è votato con sistemi elettorali non proporzionali. Di più, lo «spagnolo» è stato a lungo un modello per i tifosi del maggioritario spinto. I risultati dimostrano però che l’ingegneria elettorale da sola non basta a salvare il bipolarismo. Può fallire anche l’Italicum?
L’ingegneria elettorale è un modo per sfuggire alle questioni importanti. In questi anni non solo è stato invocato il modello spagnolo, ma anche quello neozelandese e quello israeliano. Sembrava di stare al supermarket delle leggi elettorali. Tutto andava bene per mortificare la rappresentanza, sulla base dell’idea che ciò che sfugge agli schemi è populismo. Invece è una legittima richiesta dei cittadini di partecipare ed essere rappresentati. Il nuovo sistema italiano, l’abbiamo spiegato tante volte, presenta il rischio di distorsioni spaventose. Può aprire la strada a soluzioni pericolose, ma anche ad alternative interessanti. Penso per esempio alla stagione referendaria che abbiamo davanti: dal referendum costituzionale, a quelli possibili su Jobs act, scuola e Italicum.
Il primo referendum, quello sulle trivellazioni, il governo ha deciso di evitarlo. Renzi è meno tranquillo di quanto dice?
È possibile, del resto le previsioni sul referendum costituzionale sono difficili, ancora non sappiamo esattamente come si schiereranno le forze politiche. Di certo la partita non è chiusa. E vorrei ricordare che nel 1974 una situazione elettorale che sembrava chiusa fu sbloccata proprio da un referendum, quello sul divorzio. I cittadini furono messi in condizione di votare senza vincoli di appartenenza politica e l’anno dopo si produsse il grande risultato alle amministrative del partito comunista.
In questo caso il presidente del Consiglio sta politicizzando al massimo il referendum, anzi lo sta personalizzando: sarà un voto su di lui ancora più che sul governo.
Il fatto che abbia deciso di giocarsi tutto sul referendum costituzionale apre una serie di problemi, il primo è la questione dell’informazione. C’è già un forte allineamento di giornali e tv con il governo, la riforma della Rai non potrà che peggiorare le cose. Renzi ha già impropriamente politicizzato tutto il percorso della riforma, il dibattito parlamentare è stato gestito in modo autoritario. In teoria quando si scrivono le regole del gioco il cittadini dovrebbero poter votare slegati da considerazioni sul governo, in pratica non sarà così. Il gioco è chiaro: se dovesse andargli male, Renzi punterà alle elezioni anticipate con un messaggio del tipo: o partito democratico o morte, o me o i populisti.
La strategia è evidentemente questa. Il ballottaggio serve a chiedere una scelta tra il Pd e Grillo, al limite Salvini. E se fosse un calcolo sbagliato? L’Italia non è la Francia, «spirito Repubblicano» da far scattare ne abbiamo poco.
Può essere un calcolo sbagliato. l’Italia non è la Francia per almeno due ragioni. Il Movimento 5 Stelle non fa paura come il neofascismo del Front National. E la mossa dei candidati socialisti in favore di quelli di Sarkozy è stata seguita perché lì la dialettica politica restava aperta. Da noi al contrario si rischierebbe l’investitura solitaria, rinunciare significherebbe consegnarsi pienamente a Renzi. L’appello al voto utile non credo funzionerà anche perché l’Italia non solo non è la Francia, ma non è più neanche l’Italia di qualche anno fa. Renzi non può chiedere il voto a chi quotidianamente delegittima, negando il diritto di cittadinanza alle posizioni critiche. Infatti si comincia a sentire che il vero voto utile, quello che può servire a mantenere aperta la situazione italiana, può essere quello al Movimento 5 Stelle. Sono ragionamenti non assenti dall’attuale dibattito a sinistra, mi pare un fatto notevole.
Sulle riforme costituzionali la sinistra spagnola va all’attacco, Podemos ha cinque proposte puntuali. Perché in Italia siamo costretti a sperare che non cambi nulla?
Proposte ne abbiamo fatte per uscire dal bicameralismo in maniera avanzata, per favorire la rappresentanza e la partecipazione, non escludendo la stabilità. Sono state scartate, nemmeno discusse. Alcuni di noi avevano denunciato il rischio autoritario della riforma costituzionale, siamo stati criticati, poi abbiamo cominciato a leggere di rischi plebiscitari, «democratura» e via dicendo. Troppo tardi, ormai lo stile di governo di Renzi è già un’anticipazione di quello che sarà il sistema con le nuove regole costituzionali e la nuova legge elettorale. Il parlamento è già stato messo da parte, addomesticato o ignorato, com’è accaduto sul Jobs act per le proposte della commissione della camera sul controllo a distanza dei lavoratori. Lo stesso sta avvenendo sulle intercettazioni.
Dobbiamo considerare un’anticipazione anche il modo in cui è stata gestita l’elezione dei giudici costituzionali?
È stata data un’immagine della Consulta come luogo ormai investito dalla lottizzazione, cosa che ha sempre detto Berlusconi. Un altro posto dove viene rappresentata la politica partitica, più che un’istituzione di garanzia. Lo considero un lascito grave della vicenda. La Corte dovrà prendere decisioni fondamentali, mi auguro che le persone che sono state scelte si liberino di quest’ombra, hanno le qualità per farlo.
L’altra istituzione di garanzia che finisce nell’ombra di fronte a questo stile di governo è il presidente della Repubblica.
Sulle banche il presidente Mattarella ha giocato un ruolo attivo. Le sue mosse possono essere considerate irrituali, ma di fronte al rischio per la tenuta del sistema bancario e per il rapporto tra cittadini e istituzioni ha fatto bene a intervenire. Stiamo scivolando verso una democrazia scarnificata, rinunciamo pezzo a pezzo agli elementi sostanziali — la rappresentatività, i diritti sociali e individuali — in cambio del mantenimento di quelli formali — il voto, la produzione legislativa. La situazione è grave ma le conclusioni un po’ affrettate per il momento me le risparmierei. Se questo orientamento proseguirà non credo che il presidente della Repubblica distoglierà il suo sguardo.
il manifesto 31.12.15
Dario Fo: «Francesco ora rischia la vita»
Intervista. «La normalità del papa contro i potenti dentro e fuori la Chiesa, usata per riattualizzare il Vangelo, è rivoluzionaria. Lui è un gigante ma se non sarà sostenuto farà la fine di Celestino V»
intervista di Luca Kocci


Il 2015 è stato l’anno anche di papa Francesco. Il terzo del suo pontificato, quello più denso di eventi, almeno finora.
A maggio la beatificazione di mons. Romero – il vescovo di San Salvador ucciso nel 1980 dagli squadroni della morte della giunta militare per il suo impegno per la giustizia – dopo oltre 30 anni di ostracismi e boicottaggi da parte della curia romana e dell’episcopato conservatore che temevano, insieme a Romero, la legittimazione dell’odiata teologia della liberazione. A giugno l’enciclica socio-ambientale Laudato si’, ispirata da Francesco d’Assisi e anche dalle tesi altermondialiste. A settembre il viaggio nelle Americhe, passando da Fidel e Raúl Castro ad Obama e il Congresso Usa, testimonianza del disgelo ormai avvenuto ma non ancora concluso, anche per l’ostinato mantenimento del bloqueo contro Cuba. Ad ottobre la conclusione del Sinodo dei vescovi sulla famiglia, ancora in attesa di un pronunciamento ufficiale papale che apra (forse) le porte che il Sinodo ha preferito tenere socchiuse. A novembre il primo viaggio in Africa, con l’apertura della prima «porta santa» giubilare a Bangui (Repubblica centrafricana) ma il silenzio assoluto sulle leggi che discriminano (e condannano all’ergastolo) le persone omosessuali. L’8 dicembre, infine, l’inizio solenne del Giubileo dedicato alla misericordia, a San Pietro, riaffermando, nei fatti, la centralità romana.
Dario-Fo 85
Un anno importante quindi, da leggere in chiaroscuro: la novità di papa Francesco o la svolta che ancora non c’è? Dario Fo propende decisamente per la prima ipotesi: quello di Bergoglio è un pontificato rivoluzionario. «Papa Francesco – spiega – è un uomo di grande coraggio, ha il coraggio di dire la verità e di dirla in faccia. Quando parla fa nomi e cognomi, e quando non li fa esplicitamente, tutti capiamo di chi parla e a chi si rivolge. Inoltre chiede perdono, chiede perdono per la Chiesa, ammettendo quindi che nella Chiesa ci sono cose indegne. Altrimenti perché chiederebbe perdono?».
Chiede perdono per alcune colpe storiche della Chiesa…
La Chiesa ha commesso atti infami, illegali, crimini, e papa Francesco chiede perdono. Pensa se un nostro dirigente di Stato chiedesse perdono per i propri errori, per esempio per quello di pochi giorni fa.
Cosa è successo?
Il nostro presidente della Repubblica ha firmato la grazia per i due agenti della Cia coinvolti nel rapimento di Abu Omar.
L’imam egiziano rapito a Milano nel 2003 in collaborazione con i nostri servizi e la polizia?
È la prova che siamo un Paese senza nessuna autonomia, perché gli agenti della Cia possono venire da noi, rapire chi vogliono, portarlo via dal luogo in cui vive, poi si fa il processo, vengono condannati, ma alla fine arriva il presidente della Repubblica che dice: nessuna condanna, liberi tutti. E non solo, perché veniamo a sapere che la nostra polizia e i nostri servizi segreti coprivano i rapitori, cioè evitavano che ci fossero delle interferenze. È un’infamia, e noi siamo un popolo senza autorità e senza dignità. Queste cose non le fanno mica in Svezia o in Danimarca. Se poi fosse successo negli Usa, sarebbe scoppiata l’ira di Dio! Dovrebbero dire: scusate, ci vergogniamo, abbiamo tolto la potestà al nostro popolo, ci siamo venduti a chi è più forte, abbiamo ceduto a chi ha autorità mentre noi non ne abbiamo.
Torniamo a papa Francesco. A quale richieste di perdono per le colpe della Chiesa si riferisce? Alle parole sulla corruzione presente anche nella Chiesa? Al fatto che l’istituzione ecclesiastica ha rinunciato alla povertà e ha abbracciato ricchezza e potere?
A tutto. Papa Francesco ha parlato della dignità, ha detto che non esiste dignità se non c’è giustizia, ha denunciato l’equilibrismo dei governanti tale che i furbi e i potenti abbiano la possibilità di muoversi come vogliono, che il ricco può tutto e il povero deve pagare. Ha parlato anche delle banche, e pensiamo a quello che accade in questi giorni.
Su altri temi caldi, che riguardano più da vicino la Chiesa — le persone e le coppie omosessuali, il ruolo delle donne -, però Francesco pare più timido.
Guarda che lui ha detto fin dall’inizio: quest’uomo vuole sposarsi con un altro uomo, che autorità ho io per impedirglielo? È omosessuale, e io cosa devo dirgli, che non si fa? Quale autorità, che diritto ho io di impedirlo?
Veramente il papa si è limitato a dire «chi sono io per giudicare un gay.
E allora? Basta questo. Cosa vuoi di più?
Che alle parole, nuove ed importanti, seguano anche dei fatti, delle riforme che intervengano sulla struttura ecclesiastica e sulla disciplina canonica, altrimenti il rischio è che passato Francesco nulla sia cambiato e tutto rimanga uguale.
Ma se per «farlo fuori» si sono inventati che ha un cancro alla testa, benigno per carità! Tentano di far vedere che è malato alla testa, quindi non può essere sereno, lineare e logico in quello che dice. Quando si arriva a dei gesti di questo genere, puoi aspettarti di tutto, anche che lo ammazzino. Cosa vuoi di più da uno che si espone fino a far impazzire i vescovi, i cardinali, tutti coloro che nei secoli hanno goduto di privilegi e vantaggi? Non dobbiamo perdere mai di vista gli equilibri, perché sennò andiamo avanti a fare chiacchiere. È intervenuto anche perché fosse dichiarato beato il vescovo che difendeva i diritti dei poveri, ucciso in America latina.
Monsignor Romero?
Sì. L’altro papa invece, Wojtyla, si è messo in ginocchio sulla sua tomba, ma non ha fatto nulla.
Alcuni gesti e parole del papa rimandano al tema della Chiesa povera e dei poveri…
Ma certo, del resto si chiama Francesco. Il papa lo ha detto: nel momento in cui mi chiamo Francesco, io scelgo di essere Francesco. E chi è Francesco? È uno a cui, 40 anni dopo la sua morte, hanno deciso di cambiargli completamente la vita. Hanno preso la sua vita e ne hanno scritta un’altra, inventando miracoli che non aveva compiuto e cancellando tutte le cose straordinarie che aveva fatto. Francesco d’Assisi è stato riportato all’ordine, trasformato in una sorta “santino” dal potere ecclesiastico, perché fosse meno scomodo. Certo. Gli hanno cambiato i connotati, gli hanno dato un’altra faccia, un altro modo di vivere. E allora un papa che ha il coraggio di prendere quel nome, che la Chiesa ha falsificato e ha buttato via, è un gigante.
Molte scelte individuali di papa Francesco — abitare a Santa Marta, rinunciare ad abiti sfarzosi, muoversi con semplici automobili — stanno rendendo il papato più «normale»?
No, non è normale, è fuori dalle regole!
Normale nel senso che ridimensionano la «sacralità» e la «potenza» del papato costruite attraverso i secoli…
Questa è una scelta rivoluzionaria, che nella Chiesa non c’è mai stata. Altri ci hanno provato, hanno fatto dei bei discorsi, ma quando hanno cercato di mettere a posto le cose, si sono dovuti dimettere, come Celestino V. Perché papa Celestino aveva una bella idea, ma glie l’hanno fatta passare subito e l’hanno tolto di mezzo: o te ne vai o ti ammazziamo.
Oltretevere è scoppiato un nuovo Vatileaks: fuga di documenti riservati, episodi di corruzione, notizie false, come appunto il tumore di cui sarebbe affetto il papa. Cosa ne pensa?
È la solita tecnica del potere: il potere sputtana. Il potere cerca di farti passare per scemo. Quando non ha a disposizione altri mezzi, il potere deve cercare di convincere la gente che dici delle cose giuste, che fanno impressione, ma che sono dette da uno che non è sano, da uno che è via di testa.
La Chiesa cambierà? L’istituzione ecclesiastica tornerà al Vangelo?
Solo se nella Chiesa si creerà un movimento forte capace di imporre il Vangelo a tutti i furbacchioni. Perché questi personaggi che hanno l’abitazione all’ultimo piano che costa come una cattedrale, fin quando vivranno tranquillamente e avranno qualcuno che li sosterrà, non sarà mica vinta la battaglia, la battaglia va avanti.
Quindi papa Francesco deve essere sostenuto dalla base?
Sì, perché se non sarà sostenuto si ritroverà come Celestino V.
Repubblica 31.12.15
Una repubblica fondata sul Natale
di Guido Ceronetti


BRUTTO segno quando vedi apparire in giro e occupare le prime, ballatoi, alberghi, savane, e l’ignobile espressione floreale di colore rosso scarlatto detta Stella di Natale.
Vuol dire che la peste delle feste di fine anno è alle porte. Signore, fino a quando?
Craxi ci fece sognare nei suoi onesti anni: per due anni consecutivi aboliva la Befana festiva. Sindacati e Vaticano congiunti lo costrinsero a reintrodurla.
Sulle illuminazioni di strade (vedi un po’, quelle commerciali e pedonali) si è cominciata a fare qualche provvida, anche se tardiva, economia; ma i regali restano una insana inconfondibile febbre maniacale.
Aveva senso e incanto l’eredità di Greccio, il presepe, statico e meccanizzato; ma non è penetrata nei templi della Santa Grande Distribuzione e nelle case ha prevalso l’abete nordico e i regali ai bambini li porta il vecchione con le renne sempre ricomparente nel quale i bambini fingono di credere e che oggi riceve un numero incalcolabile di email dai miliardi di frange più povere di complessiva evoluzione mentale.
Era un grande affare, finalmente, la fine d’anno per la strenna-libri ma temo stia cessando di esserlo. Oppure c’è vendita traboccante di libri di cucina, di diete e di eBook, sintomo forte di agonia della lettura autentica: quella da cui li separerà soltanto “nostra sorella morte corporale”. I librai me lo vorranno subito scrivere con posta verace presso questo giornale che mi trasmetterà alla clinica dove attualmente trascorro le mie giornate per colpa delle diete longevizzanti che ho seguito per istinto di lunga conservazione. Perché potrebbe essere accaduto qualcosa d’inaudito: le vendite dell’anno 2015 potrebbero essere state favolose, di narrativa celebre e persino di storia della Grande Guerra quasi dimenticata, di appena cento anni fa con esiti strepitosi.
Una caduta totale certa di vendite- strenna è quella che io ho incrementato per più di ottant’anni: le stilografiche. Io le incremento, sia pure riduttivamente da questa camera di malato dove vado scrivacchiando, con un pennino d’acciaio queste appassionanti osservazioni. Dai cartolai sono quasi scomparse le care stilo, le disprezzano perfino i malviventi più operativi. Non le vedi più che in qualche vetrina di Casa della Penna morente nel gorgo antropizzato da radiosi cellulari.
Ma, dimmi, l’uomo pensa ( homo cogitans) — Spinoza dixit — e questo assioma avrà ancora corso legale o è stato spazzato via da un immane tsunami tecnologico ed è rimasto impigliato nella memoria tarlata di una cattedra naufraga da cui s’irradiava filosofia?
E poi non sarebbe una galera, per esseri fisicamente così poveri, pensare sempre senza mai distrarsene? Pensiamo a come muore Cesare: la sua preoccupazione, sotto i pugnali dei congiurati, è di proteggersi i genitali con la toga, narra Suetonio.
Corriere 31.12.15
«Sono affascinato dall’occhio» Il suo legame con l’arte romanica
di Irene Soave


«Per me l’occhio si collega alla mitologia. Cosa intendo per mitologia? Per me è mitologico tutto quello che è dotato di un carattere sacro, come lo è una antica civiltà». Forse possiamo partire da qui per avvicinarci a al rapporto, troppo poco indagato dalla critica, di Joan Miró con l’arte romanica, con gli affreschi del San Clemente a Tahull, staccati nel 1920, ed esposti ora al MNAC di Barcellona. Lo conferma il pittore: «Posso dirti da dove vengono i miei personaggi che hanno occhi ovunque... da una cappella romanica in cui si trova un angelo e le sue piume sono sostituite da occhi, sono sempre affascinato dall’occhio… l’occhio vede tutto».
Gli affreschi del San Clemente e di Santa Maria di Tahull, ben noti anche prima dello stacco dalle due chiese della valle di Bohì nei Pirenei, sono capolavori romanici datati 1123. L’abside del San Clemente mostra al centro, in mandorla, il Pantocratore, a destra due grandi angeli, sotto i simboli evangelici con il Toro e il Bue dai corpi densi di occhi; accanto a loro i cherubini, le ali brulicanti di occhi, come del resto i due cherubini dell’abside di Santa Maria de Aneu pure al MNAC di Barcellona (c. 1100). A Tahull la scena è quella della fine dei tempi dove si collegano l’Apocalisse di Giovanni e la visione di Ezechiele: ma perché sono tanti gli occhi dei cherubini? Essi, con sei ali, due a coprire il corpo, due verso l’alto, due spiegate, stanno, dopo i serafini, nel cielo più prossimo a Dio, occhi dunque come simboli della conoscenza assoluta, per l’uomo irraggiungibile.
Miró assume, dai dipinti romanici, le tinte piatte, la dissoluzione dello spazio, lo scandito contorno, gli occhi segno di conoscenza. Certo, a Parigi (1919), il pittore deve avere amato anche il «primitivo» del Doganiere Rousseau ma, mentre Picasso studia la scultura negra, lui recupera le proprie radici, gli affreschi romanici dove «l’occhio si collega alla mitologia... del sacro».
Corriere 31.12.15
L’icona senza icone
il fascino «ecumenico» di Miró in quel segno libero e gioioso la sua «fuga» dal pessimismo
di Francesca Bonazzoli


Non è difficile riconoscere «un Miró»; e ancor più facile è amare quelle tele fatte di cerchi, stelle, pupazzi, strani uccelli, macchie, cerchi e triangoli colorati. Miró piace a tutti, grandi e bambini, perché c’è solo da guardare e niente da capire nei suoi segni liberi e gioiosi. È la tipica arte davanti alla quale anche coloro che non lo sono, si sentono artisti e pensano: lo so fare anch’io. Eppure, nonostante siano così accessibili e riconoscibili, nessuno dei quadri di Miró è diventato un’icona come per esempio l’Urlo di Munch o La Danse di Matisse.
È un fenomeno che si riscontra soprattutto nell’arte astratta, analogo a quanto avviene, per esempio, con Mondrian e le sue tele di rettangoli colorati separati da strisce nere. Tuttavia, la stessa sorte è toccata anche alle Ninfee di Monet che, pur forzando la forma al punto di non ritorno verso il segno astratto, restano immagini figurative. Il mondo intero le conosce, ma nessuna delle circa duecento versioni è diventata un’icona, incontrastata portabandiera delle altre. Il motivo, dunque, che ha impedito a una singola opera di Miró o Mondrian o Monet di diventare un’icona, è la serialità del soggetto, o del segno: la riproduzione in molteplici varianti può determinare la riconoscibilità dello stile dell’artista, ma è di ostacolo all’affermazione di una singola opera.
La formula del successo dello «stile Miró » sta nell’aver saputo unire la ripetitività del segno alla sua libertà. Libertà d’interpretazione da parte di chi guarda; libertà dai messaggi; libertà dalle regole accademiche; libertà dalle ideologie.
«I dogmi mi danno fastidio», affermò per spiegare la sua posizione defilata nel gruppo dei Surrealisti, atteggiamento che gli causò anche una scomunica (in seguito revocata) da parte del sommo pontefice André Breton che lo accusava di aver profanato l’ideologia sovversiva, rivoluzionaria, del Surrealismo e di lavorare per compiacere l’alta borghesia. Anche Miró, come Matisse, rimase politicamente in disparte in un’epoca storica in cui, tutt’intorno, scoppiavano guerre mondiali e civili. Nella sua opera i segni di quegli avvenimenti sanguinosi non sono evidenti e persino i quadri che appaiono più tragici, le «Pitture selvagge», furono eseguiti poco prima dello scoppio della Guerra civile spagnola. Il suo maggiore coinvolgimento politico si espresse attraverso la partecipazione alla mostra del Padiglione della Repubblica spagnola durante l’Esposizione Internazionale di Parigi, cosa che in seguito gli costò l’emarginazione dalla cultura ufficiale del regime franchista.
Non aveva nulla nemmeno degli atteggiamenti eccentrici dei colleghi parigini. Il fotografo Brassaï, che lo incontrò nello studio di Barcellona, lo descrisse così: «La testa rotonda e il viso roseo da neonato non gli impediscono di agghindarsi come un vero dandy. L’esigenza d’ordine e di pulizia si rispecchiano nel suo atelier, in cui pennelli e tubetti di colore sono meticolosamente ordinati come in un laboratorio».
In procinto di lasciare quell’atelier per trasferirsi a Palma di Maiorca, Miró accompagnò il fotografo in un giro di commiato per la città dimostrandosi di un’insolita loquacità: «Fortunatamente Miró non era più la persona discreta, educata e sorridente, ma impenetrabile e taciturna che avevo conosciuto a Parigi».
Pare che, nei circoli intellettuali della capitale francese, il suo mutismo irritasse molto gli astanti e d’altronde era lo stesso Miró a definirsi «di natura tragica e taciturna». Il suo pessimismo gli faceva temere che tutto potesse trasformarsi in male. Uno stato d’animo apparentemente in contraddizione con l’aspetto colorato e ludico della sua opera. «Se c’è qualcosa di umoristico nei miei dipinti», diceva, «non l’ho cercato coscientemente. Questo umore nasce dal fatto che sento la necessità di sfuggire il lato tragico del mio temperamento. È una reazione, ma involontaria».
Raramente la lettura dell’intera opera di un artista diverge così radicalmente dalla sua biografia. Chi, guardando le opere di Miró , potrebbe dire che era un pessimista?
Proprio nessuno. E infatti i segni di Mirò sono stati usati per una campagna che negli anni Ottanta pubblicizzava Barcellona come la città della movida catalana fatta di «bar, cel, ona», ossia bar, cielo e onda del mare. L’immagine grafica non utilizzava un preciso quadro di Miró , ma solo i suoi colori e il suo tipico segno grafico di stelle, tondi e rettangoli irregolari. Tutti potevano immediatamente riconoscere Miró, ma la città non ha dovuto pagargli i diritti d’autore.
Corriere 31.12.15
Dante e il nascente ceto borghese Una voce contro il degrado morale
Con la sua «Commedia» non si limitò a fondare una nuova lingua ma rivoluzionò il compito della poesia: con lui nasce l’indignazione civile
di Franco Manzoni


A differenza di tutte le letterature del mondo, ciò che impressiona nella nostra è che il vertice sia stato subito raggiunto in senso cronologico. Dante struttura un viaggio allegorico in una prospettiva apocalittica della civiltà medievale in crisi, la realtà che sta vivendo. Con inarrivabile concezione stilistica l’autore raggiunse il sublime, trattando anche di argomenti legati all’umile e al quotidiano, tanto da eternare la Commedia . Un poeta consapevole di possedere capacità superiori, tratte dal continuo esercizio della propria attività laboratoriale, che si esplicitano nell’ardore inesausto di conoscenza, nell’alchimia della pluralità di generi utilizzati.
Vorrebbe, lo si percepisce, che il suo poema non venisse letto come una narrazione da svago, una finzione letteraria, semmai alla stregua di un evento realmente accaduto. Il metro di paragone resta la Bibbia , il libro dettato da Dio. Nessun altro autore è riuscito a creare un capolavoro così denso di valori epici, religiosi, etici, civili, politici, umani, profetici, e oggetto di varie possibilità d’interpretazione. Di conseguenza ancora adesso alcuni passi della Commedia risultano enigmatici e passibili di ulteriori indagini degli studiosi: un corpus in perenne movimento.
Dante non è semplicemente il padre della lingua italiana, colui che consacra il volgare alla dignità di lingua della cultura. La teorica del De vulgari eloquentia proviene dalla passata esperienza del poeta lirico, che sta per rendersi conto della fragilità e dell’insufficienza di affrontare soltanto l’argomento amoroso nei suoi testi. Si rifiuta di declinare l’elemento femminile nuovamente tramite un codice che riproponga la devozione eterna del cavaliere alla sua dama.
Tutto questo a Dante uomo maturo non interessa più. La Beatrice della Commedia è scelta a rappresentare un prezioso mezzo per elevarsi verso il metafisico. È tutto fuorché donna con armi di seduzione. Accompagnato prima dalla Ragione nella figura di Virgilio, di seguito il protagonista si affida alla Teologia quale guida verso l’incontro con Dio, alla visione diretta dell’Entità suprema. Lo sguardo, veicolo d’amore nella tradizione poetica medievale, si trasforma in una dimensione trascendente.
Arso dal desiderio di conoscenza, il personaggio Dante vive una incomparabile esperienza visiva. La comunicazione diviene esclusivamente luminosa, mai verbale. Perdura per pochissimo nella memoria la facoltà di ricordare. Dante fissa gli occhi nel raggio divino, fonte di vita e sapienza: chi guarda aumenta il proprio potere di conoscere. Se distogliesse lo sguardo dalla luce, sarebbe preda del buio del peccato. Non cade in estasi, non rinuncia a comprendere. Anzi, accresce le proprie facoltà sino a unirsi con l’assoluto e l’infinito eterno. Tutto questo è trasmesso in poche parole, in modo essenziale perché davvero indicibile.
Ma Dante è soprattutto la voce politica del nuovo ceto borghese, che si scaglia contro la lussuria e il degrado etico di nobiltà e clero, tutti smodatamente compresi a spartirsi il denaro derivante da tasse, elargizioni o pagamento di indulgenze. Nostro contemporaneo in tutti i sensi, il poeta denuncia la dilagante corruzione senza paura. Vittima del sistema, osa attaccare il potere e per questo è costretto all’esilio. Con una persistente tensione dinamica la narrazione procede a scorci con l’aggiunta dell’effetto straordinario dell’improvvisa sospensione.
Al contrario dell’Alighieri, l’intellettuale cosmopolita Petrarca, figlio dell’Umanesimo e massimo lirico della nostra letteratura, modello ineguagliato nei secoli, concepisce l’amore come qualcosa di terreno, origine di passione, traviamento, sofferenza e dolore. Il dissidio implicito fra Dante e Petrarca ha creato due differenti linee di approccio al linguaggio nella storia della letteratura italiana.
Così accade ora anche nella poesia contemporanea: un solco «forte», che si cimenta in forma poematica, spesso con indignazione civile, l’altro «debole», che pone in rilievo l’elemento diaristico, un certo piacere nel soffrire, intimista, abile a descrivere il tormento dell’amore inappagato.
Se volessimo trovare esempi nel mondo della canzone d’oggi Dante potrebbe essere un rocker internazionale come Springsteen o Bob Dylan, Petrarca una popstar italiana alla Baglioni, Ramazzotti o Pausini. Al di là di accezioni filosofiche, metafisiche, morali, e di analisi figurali, plurilinguistiche, strutturali, la Commedia resta l’unica opera capace di toccare il cuore a tutti i lettori, anche ai più umili. Sono molteplici le testimonianze di persone che conoscono a memoria tutta la Commedia , senza sapere il significato dei versi.
Un vero spettacolo, un esempio per i giovani quello di chi recita ad alta voce solo per la bellezza del suono, attratto quasi in senso mistico dalla musica dantesca.