sabato 26 gennaio 2013

l’Unità 26.1.13
Camusso: «Il lavoro non nasce dai tagli»
Il segretario: è tempo di un governo che punti sul rilancio dell’occupazione
Confronto sul Piano del lavoro con Bersani, Vendola Tabacci e il ministro Barca
di Massimo Franchi


Ha promesso riforme ma ha portato solo tagli. È l’accusa che Susanna Camusso lancia a Monti presentando il Piano del lavoro messo a punto dalla Cgil: «Per noi riformare significa ridurre le diseguaglianze e dare risposte per traguardare lo sviluppo». Bersani: «So che molti tecnici non sono d’accordo, ma per cambiare ci vuole anche coesione». Barca: «Abbiamo bisogno di una vera revisione della spesa».

«Per noi riforma significa cambiare per ridurre diseguaglianze, per dare risposte eque ed efficaci, per traguardare lo sviluppo». È una Susanna Camusso all’attacco e che non ci sta a passare per conservatrice quella che presenta il Piano per il lavoro della Cgil nella prima giornata della Conferenza di programma. Al Palalottomatica di Roma la sua relazione attenta e rigorosa, che concede pochissimo alla platea di delegati, punta ad aprire un dibattito che vuole uscire dai confini del sindacato e investire subito la politica. A meno di un mese dalle elezioni, la Cgil decide infatti di invitare i leader del centro sinistra e attacca senza esitazioni Mario Monti. La Cgil pone «esplicitamente il problema del riconoscimento e del rispetto». E «non è riconoscimento e rispetto attacca il segretario della Cgil quel tramestio che caratterizza questa campagna elettorale, che non distingue i ruoli, che confonde responsabilità, che cerca nemici per non provare a misurarsi sui contenuti, che scarica responsabilità per non ammettere che ha trascurato il Paese». La colpa peggiore di Monti? «Il rigore e l’ossessione del debito pubblico», come in gran parte d’Europa, sostiene Camusso. Un Monti che non può certo ergersi a esempio di riformismo. «Abbiamo visto tanti tagli, non riforme, in qualche caso alterando persino il patto di cittadinanza».
I LIMITI DELL’AGIRE
E allora l’unica risposta per «chiudere una lunga epoca di transizione, di politiche liberiste», è la consapevolezza che «non si esce dalla crisi italiana se non c’è un governo che sappia e voglia scegliere, che sappia proporre una via di uscita». Ma il sindacato è geloso della propria autonomia, vuole cancellare l’abusata metafora della cinghia di trasmissione del partito e allora Camusso sottolinea come «la necessità di un nuovo governo» non basta: serve «un’altra idea che riconosca i limiti dell’agire di tanti anni trascorsi e valorizzi le potenzialità partendo dalle risorse che ha il nostro Paese».
«NO AL MASSIMO RIBASSO»
Per farlo però l’unico modo è «partire dal lavoro». Si deve parlare di lavoro che «è il pane» e «non può essere povero, figlio del massimo ribasso, incerto o precario». La ricetta Cgil è molto diversa e ha come obiettivo la «piena e buona occupazione»: «A questo devono essere dedicate risorse ed energie, pensiero, idee e soprattutto azioni».
L’esempio è quello del Piano del lavoro nel 1949/50 che «indicava le scelte del Paese, indicava che cosa Cgil, lavoratori e lavoratrici, pensionati avrebbero messo al servizio del Paese». L’analogia con l’oggi sta nel fatto che quel «Piano mise a disposizione lavoro per ricostruire infrastrutture e per progettare consumi per un mondo del lavoro che ben pochi consumi poteva permettersi». Oggi non si esce da una guerra come allora, ma «dalla crisi più lunga dal dopoguerra, dopo cui niente sarà più come prima». I problemi oggi non vengono dalla penuria di risorse, ma dai «criteri europei», dettati «da quest’epoca liberista». «Non crediamo a quell’adagio tanto di moda del “ce lo chiede o impone l’Europa”, alibi per non assumersi la responsabilità di tante politiche inique e sbagliate».
E allora, consapevole dei vincoli che vengono da Bruxelles, la Cgil propone una serie di misure: la mutualizzazione del 20% del debito degli Stati («che permetterebbe di liberare risorse per lo sviluppo»), «lo scorporo degli investimenti dai criteri del Patto di stabilità interna», l’uso «dei fondi della previdenza complementare» e della Cassa depositi e prestiti («che, come in Francia e Germania, fa da grande volano degli investimenti e degli indirizzi di politica industriale e delle reti»).
La Cgil però non rinuncia all’idea, lanciata nel 2008, di una «tassa sulle grandi ricchezze, sui patrimoni e sulle rendite finanziarie mobiliari e immobiliari». Queste risorse serviranno per «un’idea di finanziamento che non gravi sul debito pubblico ma che operi redistribuendo la ricchezza, ovvero utilizzando risorse oggi concentrate nella disponibilità di pochi e a nostro avviso sottratte invece a tutti».
La conclusione è un’orgogliosa rivendicazione del percorso fatto: il Piano del lavoro è sì «una proposta aperta al contributo e al confronto», ma «non è il libro dei sogni ma dà concretezza e immediatezza, celerità di risposta alla disoccupazione dei giovani».
Per il resto la prima giornata ha visto gli interventi di tanti ospiti non direttamente candidati: da Giuliano Amato («Mi pare opinabile che, quando la situazione si fa difficile, tutti gli occhi si puntino sul sindacato e gli si dica: tu devi cambiare»), a Fabrizio Barca. Fra gli interventi dei segretari di federazione Maurizio Landini ha chiesto «più coraggio nella richiesta di cambiamento e di diritti per i lavoratori».
Oggi la chiusura dalla Conferenza di programma con gli interventi (fra gli altri) di Carla Cantone e le conclusioni di Susanna Camusso.

l’Unità 26.1.13
Il centrosinistra si confronta con la sfida e le proposte Cgil
Bersani: i sindacati non sono la controparte
L’intervento di Barca
di Maria Zegarelli


Chi c’è. Nichi Vendola, Bruno Tabacci, Pier Luigi Bersani, il ministro Fabrizio Barca, l’ex premier Giuliano Amato. Chi non c’è: i segretari della Cisl e della Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Il convitato di pietra, invece, è il premier Mario Monti, con i suoi attacchi alla Cgil, al Pd, a Vendola. Fa notizia e fa discutere questo repentino spostamento del Professore bocconiano a destra, qui tra i delegati della Cgil. Monti sa che la sua unica possibilità di avere un ruolo futuro risiede in una vittoria a metà del centrosinistra: da qui gli attacchi frontali al Pd di prima mattina sul Mps, quelli costanti sulla presunta sudditanza alla Cgil, sindacato accusato di essere conservatore, proprio come Vendola.
Inevitabile che la campagna elettorale, allora, entri a piene mani anche in questa iniziativa del più grande sindacato italiano ed è inevitabile che da qui partano attacchi e controattacchi a Monti dall’ormai perduto tratto inglese. «Se per dirsi innovatore bastasse dire che l’altro è conservatore sarebbe troppo comodo dice Bersani che apre il suo intervento con “cari compagni e care compagne”Le parti sociali non sono la controparte. L’idea che siano un impaccio è sbagliata, non sono controparti né quando si governa né quando c’è la campagna elettorale. Non ricordo di aver mai lasciato le cose come le ho trovate quando sono andato al governo, ma non ricordo neanche di aver mai fatto nulla senza un dialogo». Avverte: attenzione al qualunquismo, «che può nascere ovunque, ma finisce sempre a destra con affermazioni fascistoidi, come abbiamo visto anche recentemente». Il prossimo governo, afferma, «dovrà determinare uno sforzo di coesione e cambiamento: so che per tanti tecnici e politici coesione e cambiamento risultano un ossimoro, io sono convinto del contrario. Si deve trovare una sintesi». Con il sindacato, con Confindustria, «con la Caritas, l’Arci e i Comuni, non c’è l’obbligo di trovare l’accordo ma la consapevolezza che con il confronto si sbaglia meno».
Uno dei primi atti se andrà al governo sarà quello di puntare a un allentamento del Patto di stabilità per far partire dai Comuni un «piano di piccole opere» con tempi certi di realizzazione per la scuola, la viabilità urbana, la riqualificazione del territorio e dell’ambiente», risorse da sbloccare e in grado di smuovere un punto di Pil e far bene all’occupazione.
«UN GRILLO IN LODEN»
Il lavoro, dice, il «tema drammatico» del Paese, un Paese allo stremo anche se in questa campagna elettorale negli altri schieramenti, «se ne parla pochissimo». Degli esodati, poi, nell’agenda del premier non ce n’è traccia, nello Stivale invece, esistono, figura di nuovo conio che porta la firma del ministro Fornero. «Condivo l’analisi di Susanna Camusso sulle ragioni di questa crisi prosegue Bersani Ormai sono l’unico a dirlo e sono sorpreso che in questa campagna elettorale raramente ci sia un resoconto della difficoltà del momento che viviamo. Mi stupisce sentir dire che tutto è possibile, che i problemi sono risolti».
Austerità e rigore «sono la condizione della politica economica ma non possono essere l’obiettivo». Da qui la necessità di nuove misure, «servono eurobond, riforma del mercato intero», sottrazione di una quota di investimenti dal calcolo del deficit. «C’è bisogno di prestare soccorso alla parte più debole della popolazione. Siamo pronti con la Cig, gli esodati, gli ammortizzatori sociali?», chiede polemico con Monti. «No», non lo siamo, conclude pensando alle ricette del premier uscente.
Puntare al lavoro inteso non solo come possibilità di mantenere la famiglia, «ma come quota di trasformazione del mondo a cui ognuno ha diritto», dice il segretario Pd, e se la Cgil chiede la patrimoniale, Bersani non la cita, ma rilancia un intervento per rendere l’Imu progressiva, più leggera per le fasce più deboli più pesante per i patrimoni più importanti. Elenca le priorità di un governo di centrosinistra, dalle leggi per i diritti civili, dei lavoratori, delle coppie di fatto, di cittadinanza: è questo il passaggio più applaudito del suo intervento.
Applaudito anche l’unico ministro ancora in carica invitato, Barca, che seppure esprime dubbi sul fatto che dalla riforma fiscale chiesta dalla Cgil possano arrivare 40 miliardi di euro necessari a finanziari gran parte del Piano del lavoro, offre un suo contributo per il futuro: «Abbiamo bisogno di una vera revisione della spesa, una revisione accurata e profonda». Cita cifre che raccontano quanto dolente sia la nota degli investimenti pubblici: nel 1960 erano il 3,5% del Pil, ora siamo al 2% e su questo, aggiunge, «la Cgil pone con forza un accento in modo moderno e innovatore, altro che conservazione». Ma servono azioni «pubbliche vere» e un radicale cambiamento della «macchina pubblica». Vendola che definisce Monti, «un Grillo in loden», suona le stesse corde del leader Pd: «Le élite che chiedono lo scalpo della Cgil vogliono abolire il punto di vista del mondo del lavoro. Ma la democrazia e il lavoro sono inscindibili senza il lavoro la democrazia è incompiuta».
Bruno Tabacci apre con una battuta: «Con tutto questo rosso che c’è qui attorno, i miei amici “Marxisti per Tabacci” coglierebbero di certo l’occasione per fare qualche bel fotomontaggio...». Poi, la stoccata al Professore: «Il vero discrimine tra conservatori e progressisti non si misura sui dati del Pil o sul profitto, ma sulla qualità dell’agire pubblico e privato. In Italia lo spartiacque tra il passato e il futuro è tra chi persegue l’interesse generale facendo attenzione alle fasce più deboli, confrontandosi per poi decidere, e chi fa invece gli interessi di alcuni blocchi sociali».

il Fatto 26.1.13
Camusso batte Monti. Per ora
Da Bersani a Barca, da Amato a Vendola, il centrosinistra scopre la Cgil
di Salvatore Cannavò


La Cgil, con il suo “Piano del lavoro”, ispirato a Giuseppe Di Vittorio del ‘49, ottiene un primo risultato: compattare il centrosinistra. Il Palalottomatica di Roma, infatti, sede della Conferenza programmatica, diventa il palcoscenico di un dibattito sulla politica economica in cui Monti esce di scena e, almeno per un giorno, il timone è spostato verso sinistra. La Conferenza era prevista per marzo-aprile ma Susanna Camusso ha deciso di anticiparla prima delle elezioni e di far intervenire, inusitatamente, i politici. Quasi tutti con possibili ruoli di primo piano: capo del governo (Bersani), dello Stato (Amato), ministri (Vendola e Tabacci, ma anche Epifani), segretario dello stesso Pd (Barca). Un pacchetto (da cui manca, volutamente, Ingroia) su cui la Cgil punta a un’influenza diretta.
IL SEGRETARIO della Cgil, dunque, propone una relazione “bersanian-vendoliana” con un respiro europeista, “gli Stati Uniti d’Europa”, la distanza dai “partiti personali” e il valore dell'“égalité”, l’uguglianza di cui parla anche Bersani. Poi però vira a sinistra, rilancia l’Imposta sulle Grandi Ricchezze, fulcro di una riforma fiscale dalla quale punta a ottenere 40 miliardi di euro (ma Barca si dirà dubbioso) da investire nel “piano”, e ribadisce l’ipotesi di una “mutualizzazione ” del 20% del debito pubblico. Il “lavoro” è il cuore di tutto, “pane e dignità” che serve “non per mettere cerotti” ma per “prendersi cura” dell’ambiente, della scuola, del welfare. Nichi Vendola, seduto in prima fila, piega la testa convinto: poi snocciola la sua “narrazione” per marcare le distanze da Monti, definito “un Grillo in loden” e utilizzare l’occasione per condividere con Camusso l’ancoraggio a sinistra dell’alleanza. Si aggrega anche il ministro Fabrizio Barca con un intervento di spessore che lega il “piano del lavoro” di Di Vittorio alla “Nota aggiuntiva” di Ugo La Malfa del ‘62, manifesto delle ambizioni del centrosinistra. Un filo teso con linguaggio marxista in cui si insiste sul “lavoro vivo” e “lavoro morto” per dare sostanza a tre priorità: sicurezza dei territori, rilancio del welfare e investimenti su scuola e conoscenza. Ma Barca ricorda anche che occorre predisporsi a un “compromesso sociale” applicando la “conflittualità ragionevole” di cui parla Amartya Sen in particolare sulla contrattazione territoriale e sulla riforma della pubblica amministrazione.
Nel pomeriggio tocca a Giuliano Amato. Anche qui, è tutto un ribadire l'importanza dell’economia reale, dell’industria e del lavoro: “Io mi rifaccio ancora a Pinocchio dove Collodi ci ha spiegato l’importanza del lavoro e della scuola contro l’illusione del Gatto e la Volpe che basti piantare soldi per fare altri soldi”. La linea è tracciata: lo sviluppo contro le fantasie della finanza speculativa. Il Monte Paschi resta sullo sfondo e se Amato lascia intendere che di patrimoniale si può parlare, e ancora di più lo fa Bruno Tabacci, Pier Luigi Bersani preferisce blandire la platea - “ci conosciamo, so chi siete” - prendendo le distanze da Monti e rilanciando gli investimenti produttivi: scuola, ambiente, mobilità. Ma anche lui recupera l'invito fatto da Barca: occorre mettere insieme “coesione e cambiamento” e quindi predisporsi a un patto sostenibile tra le forze sociali.
OGGI SUSANNA Camusso chiude i lavori. La sua Cgil ha alimentato una discussione anche se questo la espone politicamente. Pur condividendo la scelta politica, Maurizio Landini nel suo intervento preferisce insistere sull’autonomia del sindacato, anche dal prossimo governo, e lo stesso farà oggi il segretario dei pensionati, Carla Cantone. Le uniche critiche alla segreteria giungono dalla sinistra di Giorgio Cremaschi che protesta perché alle minoranze non è consentito intervenire.

l’Unità 26.1.13
Un’agenda per essere meno provinciali e più europei
di Nicola Cacace


RISPETTO A UNA CAMPAGNA ELETTORALE CHE PARLA DI ALLEANZE E DI TASSE, la Cgil costringe tutti a mirare più in alto, con un’agenda centrata sul lavoro negli Stati Uniti d’Europa. Un nuovo modello di sviluppo ecocompatibile, una ripresa della domanda interna trainata da consumi e investimenti pubblici e privati per mettere in sicurezza l’Italia, dal territorio ai suoi beni storico-artistici. Una nuova responsabilità pubblica nel finalizzare all’occupazione «piena e di qualità» gli investimenti necessari, nazionali ed europei, una nuova solidarietà europea che non disdegni di mutualizzare almeno il 20% dei debiti nazionali, così tagliando finalmente le unghie a una speculazione finanziaria vincente sinora più per carenze europee che nazionali, che pure non mancano.
Il Piano parla di investimenti finalizzati al nuovo modello di sviluppo che, a norma delle linee guida già approvate dall’Europa ma non ancora rese esecutive dovranno poter essere detratte dal Fiscal compact. Di fronte ai passati decenni dove lo sviluppo era trainato da consumi e indebitamento e la finanza straripava sottraendo risorse all’economia reale e al lavoro, la Cgil propone con il Piano un nuovo modello di sviluppo aperto ai contributi di tutti, a partire da quelli più auspicati delle organizzazioni sindacali e sociali e di tutta la società civile.
Non è un libro dei sogni anche se ha lo spessore dell’ambizione, come quella di trasformare gli attuali (vergognosi), tasso di occupazione più basso d’Europa e tasso di disoccupazione più alto d’Europa, in numeri più in linea con il Vecchio continente. A fronte dei quali Fabrizio Barca, che pure ha elogiato il Piano per la forza del suo grido di dolore e di reazione nel rifiuto di una marginalizzazione del lavoro «quello vivo» della precarietà ed iniquità dei giovani, e quello «morto» incorporato nel patrimoni storico-artistico massacrato dall’incuria passata, ha ammonito sulla difficoltà di pensare a tempi non graduati sull’attuale stato della nostra pubblica amministrazione, di cui egli ben conosce le lacune.
Il piano si rivolge all’Europa proprio perché attacca frontalmente quella strategia dell’austerità portata avanti sinora soprattutto per impulso dei paesi del nord, Germania in testa. Una strategia che, come ha sottolineato anche Silvano Andriani, non è più un “unicum” nel mondo, visto che potenze a noi simili per dimensioni del debito pubblico, come Stati Uniti e Giappone l’hanno abbandonata e sostituita con politiche di sostegno della domanda interna e politiche monetarie più espansive. Insomma Keynes più Shumpeter, come auspica il piano. Visto come, proprio per la contrazione della domanda interna da politiche di austerità senza sviluppo, l’Europa è in piena recessione. Cosa ci dice il piano? Se la domanda non cresce non si crea lavoro. Se le diseguaglianze non si riducono non ci sarà ripresa. Anche se rilanciare la domanda è misura necessaria ma non sufficiente per creare lavoro. C’è il problema attualissimo del “jobless growth” da tecnologie riduttive di posti di lavoro cui noi, il mondo e tutta l’Europa dobbiamo guardare con attenzione in epoca di globalizzazione. Anche con una crescita economica “europea” e non “cinese”, del 2% 3% annuo, è possibile che non si crei lavoro per tutti se non si ritorna a politiche di redistribuzione del lavoro.
Interessanti a questo proposito gli ammonimenti simili venuti da due personaggi diversi come Landini e Giuliano Amato, il primo ricordando i casi tedesco ed olandese degli orari ridotti, il secondo ricordando le tecnologie “job killing”, entrambi auspicando implicitamente una ripresa del processo storico di riduzione degli orari, dimezzati da 3000 a 1500 ore/anno nell’ultimo secolo e che oggi sono invece contrastati da provvedimenti come la pensione a 70 anni, la fiscalizzazione degli straordinari, etc... L’iniziativa coraggiosa ed europea della Cgil è anche una risposta, ardita e difficile, alle accuse di conservazione di recente rivoltele dal premier Monti. Si può contestare l’agenda a medio termine del maggior sindacato italiano, si deve riconoscere che essa contiene obiettivi economico-sociali più definiti e con qualche quantificazione in più di altre agende presentate come più ambiziose. Naturalmente il tema delle diseguaglianze, che tutti i dati di successo dei Paesi meno diseguali, Austria, Germania, Francia, Olanda e Paesi scandinavi, dimostrano essere sempre più un obiettivo di sana economia oltre che di democrazia e civiltà, è stato fortemente sottolineato da Pier Luigi Bersani che non ha mancato di rimarcare come la necessaria ripresa della domanda interna non può essere di una domanda qualsiasi. E questo non sarà l’ultimo dei problemi che, come prossimo presidente del Consiglio, dovrà affrontare.

Repubblica 26.1.13
Il retroscena
L’allarme dei democratici “Adesso tutto è più difficile c’è chi non vuol farci vincere”
La preoccupazione del segretario
di Francesco Bei


ROMA — Ora Bersani inizia davvero a temere per il risultato finale. L’attacco concentrico di Monti, di Ingroia, di Grillo e del Pdl, la rapidità con cui è stata decisa l’audizione del ministro Grilli a Camere sciolte, i rumors di altri clamorosi colpi di scena in arrivo, i sospetti su una maxitangente rilanciati dal Giornale e da Mentana, tutto ciò sta rendendo la vicenda del Monte dei Paschi di Siena ad altissimo rischio. «Si respira di nuovo l’aria avvelenata del 2005», sospira un dirigente del Nazareno. Il 2005: l’Opa dell’Unipol di Consorte su Bnl, quando l’allora presidente della Margherita, Arturo Parisi, arrivò a rinfacciare al Pds il ritorno della «questione morale».
Per Bersani il sospetto, confidato ieri a un amico, è che il bersaglio grosso sia proprio il Pd e il risultato elettorale: «Ci sono ambienti di questo paese che stanno facendo di tutto per farci perdere le elezioni». Il rischio c’è e ne sono consapevoli i maggiori esponenti del partito. «Stare sulla difensiva per un mese su questo tema potrebbe portare danni immensi — riflette preoccupato un pd di provenienza democristiana — e l’idea che 150 finanzieri abbiano setacciato per giorni la sede della banca e le abitazioni di Mussari e Vigni (ex presidente ed ex direttore generale di Mps, ndr) non tranquillizza nessuno. Sulla banca si è giocata una faida interna ai Ds». La paura insomma è che la saga Mps-Antonveneta sia soltanto alla prima puntata.
Nel quartier generale del Pd la tensione è alle stelle e ogni dichiarazione viene soppesata con il bilancino. Per questo ha fatto scalpore ieri a Largo del Nazareno l’attacco durissimo sferrato da Mario Monti. Non solo perché arrivato da una persona che formalmente sarebbe ancora il premier sostenuto dal Pd e probabile alleato di governo nel futuro. Bersani e i suoi hanno infatti letto in quell’affondo di Monti un disegno preciso per affossare il centrosinistra. E si sono attrezzati con le prime contromisure. «Monti — ha sussurrato ieri Bersani a un vecchio “compagno” della Cgil all’Eur — prova a fare il furbo sul Monte dei Paschi ma non mi sembra nella posizione di poter dar lezioni». Nel Pd ora si fa notare la partecipazione di Francesco Gaetano Caltagirone, suocero del leader Udc, al vertice del Monte dei Paschi, di cui è stato fino a un anno fa vicepresidente e secondo azionista. O la candidatura al Senato per Scelta Civica di Alfredo Monaci che, come ricorda Francesco Boccia, «è stato membro del consiglio di amministrazione di Mps dal 2009 al 2012 con Mussari, ex presidente di Biver Banca e tuttora è presidente di MPS immobiliare». Insomma, non proprio un passante rispetto alle vicende che tengono banco.
Ma sono tante le «strane coincidenze » che ai piani alti del Pd fanno pensare a un intervento orchestrato per procurare più danni possibili. Anche l’audizione lampo del ministro dell’Economia Grilli, che parlerà dello scandalo Mps martedì prossimo a Montecitorio, rientra tra queste. Un’audizione concordata dal presidente della Camera con Monti su richiesta di un deputato ex Idv, Francesco Barbato, «che normalmente - dicono al Pd - viene considerato da Fini un cavallo pazzo e tenuto in nessuna considerazione ». Come mai stavolta la domanda di Barbato, uno che ha chiesto l’iscrizione al partito dei Pirati e se l’è vista negare, salvo poi fondare giorni fa un suo movimento personale («Democrazia liquida»), è stata accolta con tanta solerzia? Questa è una delle domande che si fanno in queste ore al Nazareno. Anche il ruolo di Anna Maria Tarantola, montiana di ferro e nominata dal premier al vertice della Rai, è passato al microscopio visto che era lei il capo della vigilanza della Banca d’Italia all’epoca dei fatti. Quella stessa Bankitalia che fin dalla scorsa primavera aveva aperto il dossier Mps, chiedendo a Rocca Salimbeni la rimozione del direttore Vigni e del presidente Mussari.
Ma al di là dei sospetti per le presunte manovre in corso, quello che conta per il vertice del Pd è togliersi dal mirino nelle ultime settimane prima del voto, smettere di stare sulla difensiva e uscirne con una proposta forte. Bruno Tabacci - che sulla battaglia intorno ad Antonveneta si alzò quasi da solo in Parlamento per denunciarne le storture avrebbe un consiglio per i suoi nuovi alleati del Pd: «A questo punto ci vuole una soluzione forte, traumatica. Dovrebbero invitare il governo a commissariare la “loro” banca».

Corriere 26.1.13
Dati diversi sui partiti. E subito comincia la «guerra dei sondaggi»
Ma la classifica resta quasi invariata
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — È scoppiata la «guerra dei sondaggi». Vincono, stravincono, rimontano, avanzano. Ognuno può scegliere il suo sondaggio e trovarvi un motivo di speranza. Ieri 25 gennaio, sono stati pubblicati, ad esempio, i sondaggi elettorali di Demos & Pi, e «la rimonta Pdl non c'è» più. La partita elettorale in qualche modo appare già chiusa, visto che «la coalizione di centrosinistra è data al 38,1 alla Camera (il solo Pd al 33,5%) ben 12 punti sopra Pdl e Lega», mentre i centristi sono al 16,2 e Grillo-Cinque Stelle è a quota 13,0.
Ma ecco che subito la rimonta del Pdl torna con prepotenza, perché spesso i numeri tra un sondaggio e l'altro ballano e non solo perché i giorni di rilevamento sono sfalsati gli uni dagli altri. E così il partito di Berlusconi torna a sperare leggendo il sondaggio di SkyTg24, realizzato il 19 gennaio 2013 da Tecnè, secondo cui il centrosinistra è «solo» al 35,8%, il centrodestra al 26,5%, Monti al 15,2%, il Movimento Cinque Stelle al 14%, Rivoluzione civile al 4,8%.
E così, ancora al contrario, l'altro ieri, giovedì 24 gennaio, Demopolis per Otto e Mezzo vede sì davanti il centrosinistra, ma il Pd attestarsi addirittura sotto il 30% per la prima volta dalle primarie, la coalizione al 34,5% e il centrodestra che incalza al 27,5%.
Mentre la lista Monti è data in leggero incremento, a quota 11%, all'interno della sua stessa coalizione «quotata» al 16% (l'Udc di Casini 3,8% e Futuro e libertà di Fini al 1,2%) dall'ultimo studio dell'Ipsos di Nando Pagnoncelli. Ipsos mostra invece il Pd al 33,1% e il Pdl al 17,8%. Stesso discorso per le coalizioni: il centrosinistra, è al 37,9%, Sel di Vendola al 4,8%, mentre il centrodestra si attesta al 25,4%, la Destra di Storace al 1,1%, la Lega di Maroni al 5,3% e Fratelli d'Italia di Meloni e Crosetto all'1,2%.
In quella che senz'altro si può già definire la campagna elettorale più «americanizzata» della storia politica italiana, come è stato per Gallup e Roper negli States, agli italiani sono diventati familiari i nomi dei principali istituti demoscopici Euromedia research, Ipr, Ipsos, l'Ispo del professor Renato Mennheimer, Piepoli, Swg, e Tecnè, Demos, Demopolis.
Resta il fatto che i sondaggi vanno raccontati nel loro contesto e spiegando la metodologia con cui sono realizzati (interviste solo su telefoni fissi o anche cellulari, oppure via web?), senza trarne conseguenze assolute, relativizzando tutto. Ma anche, come spiega il politologo Roberto D'Alimonte, tenendo presente che «la graduatoria», il ranking, delle prime quattro posizioni è ormai «stabilizzato da tempo». «Questo è un dato certo: tutti i sondaggi — dice D'Alimonte — danno al primo posto il centrosinistra, secondo il centrodestra, poi la lista Monti e infine Grillo: non si è mai registrata un'inversione di queste posizioni». Quindi i sondaggi divergono solo in relazione alla «distanza», alla forbice tra questi gruppi principali.
Ma le differenze come si giustificano? Continua D'Alimonte: «Siamo ancora in una fase di grande fluidità, perché l'offerta politica non è del tutto chiara agli elettori: un esempio, quanti conoscono dove si collocherà Gianpiero Samorì?» C'è poi un altro dato importantissimo: l'ampiezza della cosiddetta «area grigia». «Nel 2008 andò a votare l'80,3 per cento degli aventi diritto: la percentuale di quelli che non hanno ancora deciso se lo faranno il prossimo 24 febbraio — dice D'Alimonte — secondo me è molto maggiore. Ebbene, anche fosse solo il 20 per cento, ciò significa che sono incerti se votare o no tra i sette e gli otto milioni di elettori, un "partito" grande come il Pdl — ecco, dunque, l'ampiezza dell'area grigia stimata nei vari sondaggi - influenza inesorabilmente i risultati che si ottengono».
A differenza di quella dei Roses, la guerra dei polls finirà ineluttabilmente, per legge, tra quindici giorni. Dal 9 febbraio sarà infatti vietato pubblicare, per legge, i sondaggi perché si sa che influenzano i votanti, con due effetti opposti: il cosiddetto «effetto carrozzone» (tutti si «buttano» ad accrescere il consenso del supposto vincitore) o al contrario, ma in misura minore, l'«effetto perdente» (underdog), di chi vota, anche se non ne condivide l'impostazione, per il partito che è dato per sconfitto. Per simpatia.

La Stampa 26.1.13
Bersani prova a dare una chance alla Cgil
Ma Barca lo stoppa
Il Pd apre al taglio del debito europeo. Monti lontanissimo
di Paolo Baroni

qui

Corriere 26.1.13
Barca: farò il dirigente del Pd
Monti? Sulla Cgil sbaglia. Non è la conservazione
di Maria Teresa Meli


ROMA — Di nome fa Fabrizio. Di cognome Barca. I Fabrizio in Italia sono tantissimi, i Barca un po' meno, e comunque si contano sulle dita di una mano quelli che hanno fatto la storia della politica italiana. Uno di loro è suo padre, Luciano, senatore e tanto altro nel Pci. Lui fa il ministro per la Coesione territoriale. Al governo lo ha chiamato Mario Monti, ma è a sinistra che batte il suo cuore. Non al centro.
Dunque, ministro, dicono che in Europa, anzi, nel mondo ci sia grande preoccupazione per il governo Bersani-Vendola.
«Io credo che non ci sia proprio nessun rischio».
Lei dice così, ma è stato un venerdì in cui tutti i futuri governanti, da Nichi Vendola a Pier Luigi Bersani, sono andati a perpetuare il rito del bacio della pantofola alla Cgil.
«In tutto il mondo contano le strutture intermedie della società. Strutture di cui i sindacati rappresentano un pezzo fondamentale perche portano la voce dei lavoratori come cittadini della società. Io sono stato alla Cgil e non ho avuto problemi a dire cose diverse cose dalle loro».
Bè, ministro, il suo presidente del Consiglio sostiene che i sindacati bloccano tutto. Ergo il governo Bersani potrebbe essere il governo della conservazione.
«Non condivido questa vulgata secondo cui all'improvviso arriva un governo amico dei sindacati e che quindi farà quello che dice la Cgil. Non esiste».
Di nuovo: Monti sostiene che i sindacati sono conservatori.
«Non esiste. Il problema dei sindacati è che entrano sulla difensiva, e in questo senso vengono definiti conservatori, quando hanno la sensazione di non essere ascoltati. C'è una bellissima frase di Camusso che dice: "Se di fronte a ottanta crisi aziendali io non vedo una strategia, di fatto, mi arroccherò"».
Ministro non le pare di peccare di eccesso di fiducia nella Cgil?
«Io sto solo dicendo: mettiamo alla prova il sindacato. È ovvio che so che all'interno della Cgil ci sono delle resistenze. Per esempio su un tema decisivo come quello della macchina dello Stato. Sulle politiche per il pubblico impiego, insomma. Ma è chiaro che resiste finché non lo testi e non ti confronti».
Monti ci si è confrontato... e non è che abbia trovato grande disponibilità da parte della Cgil.
«Bè, se fai sempre trovare la Cgil di fronte a fatti compiuti... Diciamo la verità: non esiste la querelle tra innovatori e conservatori. L'innovazione viene quando gli innovativi sfondano: questa è la partita del prossimo governo. E la Cgil è chiamata a giocare anche questa partita. Del resto, quando la Confindustria presenta un suo documento a nessuno viene in testa di fare tutte queste dietrologie».
Magari ci sono testi più innovativi.
«No. Le faccio un esempio: la Cgil pone un tema importante come quello della manutenzione del territorio. Del lavoro morto, dico io, perché così lo chiamava Carlo Marx».
Veramente ministro c'è chi dice che i sindacati ripropongono all'infinito solo l'assistenzialismo di sempre.
«Se invece di chiamarlo Welfare state o Stato sociale lo avessimo chiamato social innovation stia sicura che il messaggio del sindacato sarebbe stato definito innovativo».
Lei è uno dei ministri più apprezzati. Si è mai chiesto il perché?
«Va bene, ma è facile. Mi chiamo ministro per la Coesione territoriale, una definizione quasi di sinistra, per questo godo di un certo apprezzamento. Pensi se fossi stato ministro delle tasse...».
Le è piaciuto fare il ministro. Ma dicono dalle parti del Pd che le piacerebbe anche fare politica nel partito.
«Dico la verità: io penso di essere più utilmente spendibile in un partito piuttosto che in un organo istituzionale».
Si candida come il prossimo segretario del Partito democratico?
«Che cosa strana: questo è un Paese dove una persona che manifesta la volontà di impegnarsi in politica viene subito bollato come uno che vuole fare il segretario. Tra l'altro non sono ancora iscritto».
Scusi, ministro Barca, vorrebbe farci credere che si iscriverà al Partito democratico per fare il semplice militante? Si rende conto che non è credibile...
«È ovvio che io non farò il militante ma avrò un ruolo nel gruppo dirigente, ma non si tratta di fare organigrammi, bensì di immaginare un partito nuovo, che diventa un veicolo di conoscenza e non solo di bisogni».
Dicono anche che potrebbe andare in Bankitalia, al posto del direttore generale Fabrizio Saccomanni. O anche al posto dell'attuale governatore Ignazio Visco...
«Ogni giorno se ne inventano una nuova. Questa non l'avevo mai sentita. Si immagini se invece tra qualche mese mi troverà ancora al mio posto, qui al ministero...».
Scusi ministro Barca?
«Bè, se non c'è una maggioranza stabile potrebbe accadere che una volta eletto il nuovo presidente della Repubblica si torni alle elezioni. E in questo caso per il disbrigo degli affari correnti resterebbe il governo attualmente in carica...».

La Stampa 26.1.13
Mario Tronti, 81 anni
“Passare il testimone? Sì, ma con dolcezza
di F. Sch.

qui

Corriere 26.1.13
Evitare l’abuso del carcere. Giusto richiamo dalla Cassazione
di Giovanni Bianconi


La colpa sarà pure della politica, che non sa o non vuole prendersi la responsabilità di varare misure per alleggerire lo scandalo delle carceri italiane. Ma lamentarsi e additare solo responsabilità altrui non basta più. Bisogna sobbarcarsi le proprie. Anche i magistrati devono darsi da fare per evitare la situazione «indegna» in cui lo Stato italiano costringe a vivere i detenuti, come ebbe a dire il presidente della Repubblica.
«Giudici della libertà e garanti del rispetto dei diritti fondamentali», li ha chiamati ieri il loro collega più autorevole, Ernesto Lupo, primo presidente della Corte di Cassazione. Invitandoli a comportarsi di conseguenza. Anche per riempire gli spazi lasciati colpevolmente vuoti dagli altri due poteri, esecutivo e legislativo. Di fronte all'emergenza, «occorre rilanciare l'impegno e la responsabilità di tutti gli organi giudiziari». Restituendo sostanza a principi come «proporzionalità», «adeguatezza», e «costante verifica dell'idoneità delle misure applicate», troppo stesso disattesi.
È un richiamo forte, quello del primo giudice d'Italia. Che suona come un'opportuna sferzata a governo e parlamento, ma pure alla sua categoria. Un invito esplicito a fare minor ricorso alla detenzione. Chiudendo le porte delle celle dietro le spalle dei cittadini coinvolti in inchieste e processi solo quando è strettamente necessario. Tanto più se sono ancora in attesa di giudizio, come capita a quattro su dieci: «percentuale inaccettabile», sottolinea il presidente Lupo. Che considera la recente raccomandazione del procuratore di Milano ai suoi sostituti a utilizzare il carcere con maggiore oculatezza «un segnale che va additato a esempio».
Dopo i ripetuti moniti giunti dal Quirinale, che purtroppo hanno sortito ridottissimi effetti, le parole di Lupo costituiscono forse l'unica vera novità nello stanco dibattito sulle condizioni delle prigioni d'Italia, che nell'agone politico sembrano interessare solo i radicali. Perché sono un'esortazione a comportamenti concreti, senza più rifugiarsi dietro l'alibi di leggi che mancano o non arriveranno mai. Per restituire un po' di legalità e dignità a un luogo dove il percorso della giustizia dovrebbe, in teoria, giungere a compimento. E invece crea altre ingiustizie.

l’Unità 26.1.13
Gli eredi dei ragazzi di Salò
di Moni Ovadia


ECCOLI QUA DI RITORNO I BALDI RAGAZZI NAZIFASCISTI, I NIPOTINI MAI REDENTI DEI BRAVI GIOVANOTTI DI SALÒ, I PUPILLI DI ZIO ALEMANNO tanto coccolati dalla commozione di politici bipartisan assetati di riconciliazione revisionista. Non ci stancheremo mai di ripetere che la riconciliazione fu voluta e proposta all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, nella forma di una vasta amnistia, dall’allora Guardasigilli, il comunista Palmiro Togliatti.
Togliatti non solo mandò liberi i fascisti, ma permise loro di ritornare alla vita civile e politica garantiti da una Costituzione generata dalla resistenza antifascista. Se avessero vinto i ragazzi di Salò, quelli come me sarebbero passati per i camini, gli oppositori sarebbero stati passati per le armi o rinchiusi in amene località turistiche di qualche lager.
Ora, dopo l’ultimo ributtante episodio di antisemitismo avvenuto a Napoli, scoperto dalle indagini dei carabinieri, molti politici della destra mostreranno il viso indignato e addolorato, si produrranno in manifestazioni di esecrazione pubblica con toni melodrammatici: «Che orrore, progettare di violentare una ragazza ebrea, pianificare l’incendio di un negozio israelita!». E, una volta di più, avremo come viatico, il trionfo dell’ipocrisia. Per l’ennesima volta non si andrà alla radice della mala pianta: la connivenza, la benevolenza o l’indifferenza di vasta parte della classe politica e non solo della destra berlusconiana, nei confronti della sottocultura nazifascista e di tutte e sue declinazioni pseudo folkloristiche di cui fa parte anche il razzismo negli stadi. Anche non pochi esponenti del centrosinistra hanno strumentalmente sottovalutato l’indisturbato fiorire e rifiorire delle culture razziste, xenofobe e antisemite. Hanno accettato per quieto vivere la celebrazione di veri e propri sabba revisionisti nei salotti conniventi della televisione di Stato. Hanno tollerato le più infami calunnie contro i partigiani che hanno dato le loro vite perché noi vivessimo liberi in una democrazia mentre dichiarati fascisti e antisemiti avevano accesso al Parlamento repubblicano.
Da ultimo, hanno lasciato che l’istituzione del Giorno del Ricordo diventasse il campo di battaglia del revanscismo filofascista e hanno compiuto l’opera demolitrice della cultura antifascista che aveva preso l’avvio con la rimozione dal corso degli studi scolastici della materia di Educazione Civica che aveva il compito di formare i nostri giovani nella conoscenza consapevole della Costituzione. Adesso ci facciano la birra con la loro finta indignazione pelosa. Non ne abbiamo bisogno. Ciò di cui abbiamo bisogno è che l’antifascismo ritorni al centro del nostro sistema di valori.

Repubblica 26.1.13
La Giornata della memoria

Ricordare guardando al presente
di Adriano Prosperi


“A poco a poco il ricordo...” : Saul Friedländer ha raccontato nel bellissimo libro che ha questo titolo l'emozione dell'affiorare nella coscienza del ricordo dei genitori e dell'infanzia ebraica dopo anni di vita in un collegio religioso che per salvarlo gli aveva dato un nome e una identità cristiana. Ma gli insondabili abissi della memoria personale che ispirarono a Sant’Agostino espressioni di religioso tremore sono cosa diversa dalla memoria collettiva orientata da poteri di governo. La Giornata della memoria che ricorre domani ne offre un buon esempio. La legge istitutiva del 20 luglio 2000 la finalizzò al “ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati politici e militari italiani nei campi nazisti”. Qui la legge dell’ottimismo che secondo i neurobiologi governa la selezione del ricordo assume i tratti della censura consolatoria: gli italiani vi compaiono come perseguitati e vittime nonostante il dato di fatto di una responsabilità collettiva del nostro Paese e dei suoi governanti nel razzismo e nella persecuzione degli ebrei, nella guerra mondiale a fianco della Germania nazista. Ora è pur vero che al razzismo la popolazione italiana rimase in gran misura estranea sul piano delle convinzioni e su quello dei comportamenti. Lo dimostrarono gli atti di solidarietà e le forme di aiuto alla minoranza ebraica perseguitata: agì in questo una moralità diffusa di istintiva solidarietà con le vittime e coi perseguitati. Ma questa separazione tra un popolo pacifico e un potere statale aggressivo e razzista è precisamente il fatto su cui dovremmo riflettere.
Il rito della memoria della Shoah rischia di illuderci di una distanza da quel passato che molti indizi si incaricano di smentire. Allora in nome dello “stato d’eccezione” furono travolti i principi del diritto internazionale, scatenate guerre senza preavviso, calpestata la convenzione di Ginevra, eliminati malati mentali e altre persone “non degne di vivere”, praticata sistematicamente la tortura. Oggi nella metropoli del mondo occidentale la tortura è praticata e legittimata. Amaro più di tutto è stato il fallimento delle promesse della presidenza di Obama. Uno dei suoi primi atti fu l’ordine di chiusura della prigione di Guantanamo firmato il 22 gennaio 2009. A quattro anni di distanza quell’ordine aspetta ancora di essere eseguito. E intanto ha ripreso vigore nella cultura di governo americana un orientamento favorevole al ricorso alla guerra e all’impiego della tortura come atti legittimi del potere giustificati dalla regola fondamentale della lotta contro il terrorismo. Il terrorista non è un combattente di un esercito nemico in una guerra dichiarata: è un public enemy, un nemico pubblico. Lo si può torturare: anzi si deve farlo se c’è bisogno di ricavare informazioni strategiche sui piani militari dei nemici. Questo scrive John Yoo consulente del Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti che ha fornito un allucinante elenco dettagliato delle violenze che si possono praticare senza infrangere la legge. È una deriva inarrestabile. In Germania Niklas Lumann e Winfried Brugger hanno teorizzato la cosiddetta “tortura di salvezza”, quella necessaria per far parlare il terrorista che ha messo una bomba da qualche parte. Tutto è lecito nella guerra al terrore (“war on terror”). Il presidente degli Usa può ordinare di uccidere il nemico con un atto di killeraggio travolgendo ogni diritto internazionale e dichiarare poi soddisfatto che “giustizia è fatta”: è lui il “comandante in capo” (“Commander in chief”), può assumere i pieni poteri, può scatenare una guerra. Sappiamo quali prezzi il mondo intero e le nostre società abbiano pagato alla ventata di protagonismo che gonfiò il petto di un mediocrissimo George Bush jr portando al delirio le folle americane. Un delirio simile si era già visto sulle piazze di Berlino e di Roma ai tempi dell’Asse. Sembrava che l’avvento di Obama dovesse rimettere in pista il ritorno all’osservanza delle regole democratiche. Non è stato così; e ciò ha reso malinconico di passate frustrazioni e di delusioni anticipate il ballo della festa della sua rielezione. Certo, questo non è solo un problema americano: l’argomento della “guerra umanitaria” e la voglia di esercitare i poteri speciali di “comandante in capo” che con un ordine fa levare in volo i caccia e salpare le portaerei è forte anche in Europa. Intorno a noi si levano fiammate di guerra mediorientali e africane. Queste fiamme per ora sembrano lontane da noi: e invece sono già sufficienti per incenerire i legami dell’unità europea, nati dalla restaurazione dei diritti inalienabili delle persone.
Il referendum minacciato da Cameron rischia di diventare un plebiscito ben oltre i confini dell’Inghilterra. Il fatto è che lo “stato di eccezione” schmittiano è diventato una realtà per ora solo finanziaria ma foriera di ben altre metamorfosi: come non ricordare che la crisi finanziaria fu la levatrice dell’età delle dittature e che le ricette keynesiane ne tennero fuori a stento le istituzioni democratiche degli Usa. E intanto, mentre rievochiamo Auschwitz, sarà bene non perdere di vista un presente dove la tortura è praticata scopertamente e lo stato di diritto appare sempre più remoto, come scrivono Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa in un saggio lucido ed efficace dal titolo significativo (Legalizzare la tortura?, il Mulino). Quella tortura che Alessandro Manzoni definì una “cosa morta, e passata alla storia” è ridiventata il presente del mondo globalizzato dal terrore. E in questo contesto l’ottimismo di chi si volge ai ricordi della Shoah convinto di vivere nel migliore e più democratico dei mondi possibili rischia di annebbiare la coscienza critica del presente.


DOMANI DOMENICA 27 GENNAIO, CON L'UNITA' NELLE EDICOLE
Un inserto per ricordare
Raccontare per non scordare: domani con l’Unità uno speciale sul Giorno della Memoria dedicato anzitutto alle scuole e agli insegnanti

Repubblica 26.1.13
Ricorso Cgil a Strasburgo: aborto, troppi obiettori
I ginecologi che non praticano aborti in Italia sono circa il 90%, con regioni critiche come il Lazio
Gli aborti ono 115.372 gli aborti fatti in Italia nel 2010, circa la metà di quelli che si praticavano nel 1982


ROMA — I medici italiani non obiettori di coscienza, i (pochi) medici cioè che continuano a far applicare in Italia la legge 194, e dunque permettono alle donne di abortire, sono discriminati sia nella carriera che nella retribuzione. E la stessa legge 194, proprio a causa dell’altissimo numero di obiettori, non garantisce oggi alle donne il diritto di ricorrere all’aborto. È questo il contenuto di un ricorso presentato dalla Cgil al Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, così come ieri ha anticipato l’agenzia
Ansa.
Un atto forte che accende i riflettori sulla drammatica situazione italiana, dove quasi il 90% dei ginecologi si dichiara obiettore, e in molti ospedali i reparti di interruzione volontaria di gravidanza sono in abbandono.
Il testo del reclamo non è stato ancora ufficialmente comunicato al governo italiano, ma nel documento la Cgil dimostra come vi siano disparità di carriera e salariali tra medici obiettori e non, in favore dei primi. E secondo gli avvocati del sindacato, sarebbero stati violati gli articoli 1, 2, 3 e 26 della Carta sociale europea. Articoli che obbligano gli Stati a rispettare il diritto al lavoro, ed in particolare quello ad eque condizioni, alla sicurezza e all’igiene, e alla dignità sul posto di lavoro. Nel reclamo la Cgil si esprime anche sulla legge 194, evidenziandone le caratteristiche che violerebbero l’articolo 11 della Carta, che sancisce il diritto alla protezione della salute. Le legge per come è formulata — si sottolinea — non assicura alle donne di avere accesso all’interruzione di gravidanza anche a causa dell’alto numero di obiettori. Questa parte del reclamo ricalca la tesi sostenuta dal ricorso presentato dall’International Planned Parenthood Federation al Comitato europeo per i diritti sociali del Consiglio d’Europa, dichiarato “ricevibile” il 7 novembre. «Sono lieta che in Europa si ponga il problema della corretta applicazione della 194», commenta Marilisa D’Amico, ordinario di diritto costituzionale che ha curato il reclamo. «La legge sull’aborto deve essere applicata bene e non svuotata di significato».
(m.n.d.l.)

l’Unità 26.1.13
«Ecco le tangenti per la segreteria»
Bufera su Alemanno
Parla Edoardo D’Incà Levis «gola profonda» della inchiesta sulle mazzette pagate da Breda Menarini per la fornitura dei filobus alla Roma Metropolitane
di Marzio Cecioni


Nel corso di una conversazione Skype del giugno 2009 «Ceraudo fece riferimento alla “segreteria di Alemanno” come destinataria delle risorse finanziarie. Non precisò, nè io chiesi, se la segreteria di Alemanno fosse destinataria di tutto o di parte delle risorse». È il racconto fatto l’8 gennaio scorso, durante l’interrogatorio di garanzia, da Edoardo D’Incà Levis, uomo d’affari di 59 anni residente a Praga e autentica gola profonda dell’inchiesta condotta dal pm della procura di Roma Paolo Ielo che ha portato all’arresto dell’ex amministratore delegato di Breda Menarini, Roberto Ceraudo, e alle dimissioni dell’ad dell’ente Eur Spa, Riccardo Mancini. Una inchiesta dove adesso spunta anche il nome del sindaco della Capitale Gianni Alemanno. Ed è proprio la «lobby Rome» come scrive in inglese su una mail lo stesso D’Incà Levis, alla base del sistema che emerge dalle dichiarazioni rese dal manager tornato in libertà. «Ceraudo mi disse che la politica voleva ancora soldi, io stupito gli chiesi se era» il responsabile di una impresa edile «ed egli disse no, la politica, senza aggiungere nomi o sigle».
«Gli accordi preliminari non scritti con Ceraudo ha spiegato l’imprenditore al gip erano che il compenso di tutto il lavoro da me svolto per la fornitura dei 45 filobus ammontava all’1% della fornitura di competenza della Breda Menarini. Poco dopo, sempre nel 2008, Ceraudo mi manifestò la necessità di “aiutare” la commessa nel senso che andavano reperite risorse per un milione e 200mila euro da destinare a persone della De Santis Costruzioni in grado di influire sull’assegnazione dell’appalto». Il denaro destinato a Ceraudo per la formazione della tangente spiega Incà Levis è «stato consegnato allo stesso da una persona che mi è stata indicata da un amico: io materialmente ho dato ordine alla banca di consegnare a quest’uomo la somma di 233.360,00 euro in data 16 marzo 2009 e la somma di 312mila euro in data 24 settembre 2009, somme che Ceraudo mi ha confermato di avere ricevuto. La terza tranche pari a euro 204.100,00 è stata da me bonificata il 17 luglio 2009 su un conto presso Bsi Sa Lugano indicatomi da Ceraudo. In seguito nonostante già la stampa si fosse occupata della questione sotto le pressioni di Ceraudo emisi tramite la società inglese Rail & traction le altre fatture».
L’inchiesta giudiziaria, del pm Paolo Ielo, è quella sfociata nei giorni scorsi nell’arresto di Roberto Ceraudo, ex amministratore delegato di Breda Menarini, una delle società, del gruppo Finmeccanica, fornitrici dei 45 bus del comune di Roma. Per la commessa da 20 milioni di euro di bus, mai entrati in funzione e destinati ad essere utilizzati nel cosiddetto «corridoio della mobilità Laurentina», nel 2009 sarebbe stata pagata una tangente frutto del meccanismo delle sovrafatturazioni. Tra gli indagati anche Riccardo Mancini, fedelissimo del sindaco Gianni Alemanno, che proprio due giorni fa è stato costretto alle dimissioni dall’incarico di amministratore delegato dell’Ente Eur Spa. Per la procura di Roma Riccardo Mancini era il destinatario di una parte della tangente. Secondo la ricostruzione dei pubblici ministeri della Capitale Mancini sarebbe l’artefice dell’accordo che permise alla Breda Menarini di vincere l’appalto per la fornitura di 45 filobus alla Roma Metropolitane. E proprio nel corso delle perquisizioni disposte dai pm lo scorso autunno che vennero scoperti documenti e agende che annotavano il percorso compiuto dal denaro e il nome dell’imprenditore Edoardo D’Incà Levis, italiano ma residente a Praga. Finito agli arresti, quest’ultimo ha deciso di collaborare con la magistratura spiegando di aver ricevuto da Ceraudo la richiesta di «far sparire» dalla contabilità di Breda Menarinibus i soldi (si sospetta 800mila euro in totale) necessari al pagamento delle tangenti. Denaro transitato in fondi esteri anche negli Stati Uniti e finito parte nelle tasche di Mancini, parte in quelle di alcuni dirigenti di Finmeccanica e il resto, secondo quanto raccontato da Edoardo D’Incà Levis, alla «segreteria di Alemanno». Il sindaco replica: «Il mio entourage è estraneo».

l’Unità 26.1.13
Mohamed El Baradei
Ex direttore dell’Agenzia Onu per l’energia atomica, premio Nobel per la pace,
oggi è alla guida dei laici con il Partito della Costituzione
«Le ragioni della protesta valgono ancora oggi»
di Umberto De Giovannangeli


«Dal passato dobbiamo imparare una lezione fondamentale: divisi si perde. L’unità tra tutte le forze laiche, democratiche, progressiste è una strada obbligata. L’unità è un investimento sul futuro». A sostenerlo è una delle figure più rappresentative dell’Egitto laico, quello che si oppone alla «deriva islamista» imposta dai Fratelli Musulmani e dal «loro presidente»: a parlare è Mohamed El Baradei, ex direttore generale dell’Aiea, l’agenzia per energia atomica delle Nazioni Unite, premio Nobel per la pace. «Lavorare per il ritorno immediato dell’esercito alle caserme non è la priorità del momento afferma El Baradei nel secondo anniversario della caduta del regime di Hosni Mubarak. Ciò su cui dobbiamo accordarci è come raggiungere gli obiettivi della rivoluzione, iniziando dal redigere una vera Costituzione democratica e ristabilire l’economia». Bisogna lavorare, incalza El Baradei, per «ristabilire la sicurezza, l’indipendenza del sistema giudiziario e dei media e per garantire che le persone responsabili di omicidi dei manifestanti vengano perseguite».
Oggi lei è alla guida di un nuovo partito, laico, progressista: il Partito della Costituzione. Ma c’è chi sostiene che sia stata una operazione tardiva e che non ha impedito l’avanzata islamista.
«Non sono di questo avviso. Avrei voluto, e per questo mi sono battuto, una Costituzione ed elezioni autentiche ed oneste in un contesto ben preparato ma tutto questo non è avvenuto. La fondazione del partito è stata resa necessaria di fronte a una transizione assurda, alla mancanza di sicurezza, a un Parlamento e un presidente che non conoscono il loro mandato, a processi militari che continuano e a una informazione ufficiale supina. Lavoreremo per salvare l’Egitto dalla bassezza culturale e sociale nella quale si trova e per avere una rinascita. Non aspettatevi risultati oggi o domani, ma fra uno o due anni quando il partito sarà maggioritario. Un partito laico che rispetterà tutte le religioni per uscire dall’oscurità verso la luce».
A due anni dall’uscita di scena di Hosni Mubarak, l’Egitto fa i conti con una transizione difficile e per molti aspetti contraddittoria. C’è chi parla esplicitamente di un «Inverno islamista» che ha liquidato la «Primavera della speranza». «Questo rischio esiste e c’è chi lavora per questo. Dagli avvenimenti dell’ultimo anno dobbiamo trarre la lezione che divisi si perde. La divisione delle forze laiche, democratiche e progressiste ha pesato in maniera decisiva alla vittoria di Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani nelle elezioni presidenziali. Occorre voltar pagina e l’unità raggiunta tra Al-Dostour (il partito della Costituzione di cui El Baradei è stato co-fondatore, ndr) e l’Al-Adl (Giustizia», partito laico centrista, ndr) va nella giusta direzione».
Ma nel referendum costituzionale, le forze dell’opposizione erano unite eppure la Fratellanza ha vinto.
«L’altra lezione da trarre è quella del radicamento in ogni ambito della società egiziana. In questo, i Fratelli Musulmani hanno anni di vantaggio. Ma non siamo all’anno zero. Nel referendum a cui lei fa riferimento, il “no” è risultato maggioritario al Cairo, e questa è una base importante su cui fondare un “nuovo inizio” delle forze che si riconoscono in quelle istanze di libertà, pluralismo, giustizia sociale che sono state alla base della rivoluzione del 2011». Prima e dopo il referendum costituzionale, lei è stato molto critico verso i Fratelli Musulmani. Perché ?
«Perché il modo in cui i Fratelli Musulmani gestiscono il bene pubblico si scontra con i tentativi del popolo di trasformare l’Egitto in uno Stato di diritto. A ciò si aggiunga che nulla è stato fatto per migliorare le condizioni di vita della popolazione e offrire una prospettiva alle nuove generazioni. La lotta ora non è a Piazza Tahrir (il centro della rivolta anti-Mubarak, ndr), o non solo in essa, ma nell’arena politica.
L’impegno del mio partito è quello di radicarsi in ogni segmento della società egiziana».
Critiche, le sue, che hanno investito lo stesso presidente, Mohamed Morsi. Qual è la critica più forte?
«Quando è stato eletto, Morsi si era impegnato ad essere il presidente di tutti gli egiziani. Nei fatti, nelle forzature operate, si è rivelato un presidente di parte».
Piazza Tahrir ha celebrato il secondo anniversario della rivoluzione. Ma c’è ancora qualcosa da festeggiare?
«C’è molto da rivendicare. E altrettanto da difendere. Le ragioni che furono alla base della rivoluzione sono tutt’ora valide, e le rivendicazioni che portarono alla sollevazione popolare sono tutt’altro che risolte. Nessuno si illudeva che il processo di democratizzazione sarebbe stata una passeggiata di piacere. Ma non siamo tornati a casa. Non ci siamo arresi al nuovo-vecchio potere. Non ci siamo lasciati intimidire. Continuiamo a chiedere verità e giustizia. E continuiamo a batterci per una Costituzione valida per tutti. Perché una democrazia è tale, e può dirsi compiuta, se si fonda su regole condivise, se esiste un vero equilibrio tra i poteri. Non intendiamo contrapporre un regime “laico” a un regime “islamista”. Vogliamo realizzare uno Stato di diritto. Uno Stato di tutti».

Repubblica 26.1.13
Putin vara la legge anti-gay “Vietato persino parlarne”
La Duma approva il divieto di propaganda
di Nicola Lombardozzi


MOSCA — Rappresentano da sempre la più fragile, la meno amata, delle tante opposizioni al governo di Vladimir Putin. Adesso gli omosessuali di Russia stanno per essere definitivamente emarginati per colpa dell’ennesima legge dal gusto sovietico. Con una maggioranza pressoché assoluta il Parlamento russo ha approvato ieri l’estensione a tutto il territorio nazionale di una legge già in vigore a livello regionale a San Pietroburgo, Kaliningrad ed altre grandi città russe: il divieto di propaganda omosessuale. Da ora in poi sarà dunque reato parlare in pubblico dei diritti, degli
amori e delle speranze dei cittadini gay. La definizione, strategicamente un po’ vaga, di “propaganda” darà al giudice la possibilità di punire con pesanti multe (fino a 15mila euro) artisti, attori ma anche comuni cittadini colti ad esprimere un’opinione in pubblico sulla situazione degli omosessuali. Ma soprattutto mettere al bando o vietare preventivamente eventi, manifestazioni, concerti, che possano essere ritenuti a rischio di “propaganda gay”.
Non siamo al famigerato articolo 121, imposto da Stalin nel ‘34 e abolito solamente nel ‘93, che prevedeva cinque anni di carcere per il reato di omosessualità ma l’evocazione del passato è evidente e pesante. E tanti anni di omofobia di Stato hanno comunque
lasciato un segno. Pochissimi contestatori ieri davanti alla Duma. Solo un gruppetto di giovanissimi iscritti al semiclandestino movimento Russian Lgbt Network, l’unica cellula di attivisti Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) in tutto il paese, che da anni lotta inutilmente per rivendicare spazi e diritti.
Nell’indifferenza dei moscoviti e dei tanti movimenti di contestazione hanno sfidato le truppe speciali che facevano da guardia al Parlamento, provando a baciarsi in pubblico e a gridare qualche slogan. E’ bastato un solo furgone per portare in cella i trenta ragazzi catturati dopo qualche ben assestato colpo di manganello. Mentre salivano sul cellulare hanno preso qualche calcio e qualche sputo anche dai soliti estremisti della Chiesa ortodossa, sempre in piazza in occasioni come queste. Gli stessi che esultavano davanti al tribunale per la condanna delle Pussy Riot.
In aula intanto si poteva ascoltare una raffica di pareri e di pregiudizi che sono purtroppo largamente diffusi nell’opinione pubblica. «Siamo in Russia, non a Sodoma e Gomorra», diceva uno particolarmente esaltato. «Non è una legge contro gli omosessuali — spiegava in vena di giustificazioni — quanto una via per proteggere la nostra gioventù i cui valori sono minacciati da certi discorsi, certe immagini scandalose ». E i giornali più allineati riportavano con evidenza i risultati dell’istituto di sondaggi più serio del Paese, la Levada Center: quasi il 65 percento dei russi è d’accordo con la decisione del Parlamento. E c’è di peggio: due terzi della popolazione ritiene che l’omosessualità sia una malattia e condivide la recente decisione dell’esercito russo di radiare ogni “sospetto omosessuale” dal servizio militare.
La mancanza di solidarietà nei confronti dei giovani malmenati e arrestati del resto parla da sola. Il blogger anti corruzione Aleksej Navalnyj, ritenuto uno dei più coraggiosi oppositori del Cremlino e che attacca ogni giorno qualunque decisione del Parlamento, preferiva rimanere in silenzio. Solo la scrittrice Ljudmilla Ulitskaja, accettava di mettere tra virgolette una dichiarazione contro «una legge medievale che gioca sull’ignoranza di una popolazione ancora dominata da pregiudizi e da retoriche machiste».
Anche Vladimir Putin tace. Sull’omosessualità ha sempre evitato di esprimere pareri ma ha sempre precisato: «La Russia ha un problema demografico, io ho il dovere di occuparmi dei diritti delle coppie che generano prole».

Repubblica 26.1.13
Il parlamento dell’assurdo e le sue norme “creative”
di Viktor Erofeev


HO GIRATO mezzo mondo, ma in nessun luogo ho mai incontrato la propaganda dell'omosessualità. Mi è capitato di incontrare l'omosessualità, e anche la propaganda, ma la propaganda dell'omosessualità ho scoperto di avercela proprio sotto casa, nel mio paese. Altrimenti, la nostra Duma non avrebbe preso in esame una legge per vietare questo tipo di propaganda. Invece, la legge è già in fase di approvazione. O forse la Duma lotta contro un fantasma? No, sa bene chi vuole colpire: semplicemente, non ama gli omosessuali. Non li può sopportare. E per rendere la vita impossibile agli omosessuali, si inventa il concetto di propaganda dell'omosessualità.
La nostra Duma dell'assurdo collettivo, invasa da un furore conservator-nazionalista, fa tutto ciò che le pare. Da noi ben presto sarà proibito tutto. Ridere, piangere, gridare e tacere: tutto ciò sarà proibito e verrà punito anche con l'ergastolo. Ma già adesso ci sono talmente tante cose vietate che ci stiamo trasformando in un colossale teatro dell'assurdo. La Duma è il nostro regista! Approva le leggi sui divieti alla velocità del suono. E alla velocità del suono stiamo precipitando indietro verso l'Unione Sovietica. Alla Duma ci sono delle persone straordinariamente creative. Ovunque e in ogni cosa vedono le macchinazioni del nemico. Il nemico numero uno dai noi è diventata l'America, ma anche l'Europa è guardata con forte sospetto: a volte è un nemico, a volte un mezzo nemico. Quindi, questa demenza in spregio all'Occidente e in difesa dei nostri valori arcaici continuerà. Viva l'assurdo!

il Fatto 26.1.13
Questo Principe non invecchia mai
Compie cinquecento anni il capolavoro di Machiavelli
di Silvia Truzzi

  
Un vademecum di princìpi per i prìncipi ha attraversato la storia ed è arrivato, per nulla impolverato, fin qui: il Principe, l’opera più importante di Niccolò Machiavelli, ancora oggi è uno dei testi più famosi (e tradotti) della storia della letteratura italiana, potentissima (e affascinantissima) riflessione sul potere.
Nei giorni frenetici di alleanze, coalizioni, liste e listini, gli interrogativi del filosofo, segretario della Repubblica fiorentina, sono più che mai attuali. Come quello, fondante, su cosa sia necessario per “ascendere al principato” (salire in politica!): “Il favore del popolo o quello de’ grandi”? I suoi consigli serviranno ai nostri aspiranti, malridotti o sedicenti, prìncipi?
Il pamphlet – il titolo originale in latino è De Principatibus ma è scritto in volgare – fu composto dopo la prigionia (Niccolò venne sospettato di aver congiurato contro i Medici), in un podere della campagna toscana. L’anniversario non passerà in secondo piano. Da due settimane Radio Tre dedica un appuntamento – ogni sabato alle 18, per sei mesi – al saggio: in ogni puntata un interprete del presente prende le mosse dalle letture di un grande del passato, “proprio come faceva Machiavelli quando, al calar della sera, si ritirava a dialogare con i filosofi greci e romani, per capire l’oggi e immaginare una nuova politica”. Della dimensione politica laica, della gestione del governo e sul concetto di potere discuteranno Gennaro Sasso, Massimo Cacciari, Umberto Galimberti, Pier Carniti, Roberta De Monticelli e molti altri ospiti. Ieri intanto si è chiuso alla Casa delle Letterature di Roma un convegno di due giorni sull’attualità del pensiero politico, ma non solo, del sempreverde Principe.
NATURALMENTE anche gli scaffali saranno interessati da una rinnovata vague machiavellica: l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana ha in programma, oltre a una grande mostra che sarà allestita a Roma in ottobre, un’edizione “critica definitiva” del Principe curata da Giorgio Inglese. La congiura Machiavelli, dell’americano Michael Ennis, è in libreria per Newton Compton: il romanzo è ambientato nel 1502, a Imola, dove il Valentino – Cesare Borgia – ha radunato un esercito. Uno degli scopi del libro, ha spiegato l’autore, è quello di sfatare il mito del cinismo machiavellico: “Scoprirete un uomo che non aveva niente di machiavellico, fu un onestissimo servitore dello Stato, un amico fedele e un inguaribile romantico”.
Anche Maurizio Viroli, politologo dell’Università di Princeton e firma del Fatto Quotidiano, “riabilita” la pessima fama del filosofo in Scegliere il principe. I consigli di Machiavelli al cittadino elettore, di cui riportiamo qui sotto il capitolo introduttivo.
Scrive il professore: “Era uomo d’impeccabile onestà, virtù essenziale per un buon consigliere su questioni tanto importanti come quelle politiche. Prova della sua onestà era la sua povertà”. Già qui il tragitto passato presente è fulminante: nell’età dell’oro degli abusi e delle ruberie, la povertà di un importante consigliere è inimmaginabile. E dire che privilegi e “benefici collaterali” di cui gode una classe dirigente che si distingue quasi solo per l’altissimo tasso di corruttibilità o impresentabilità (per usare un termine in voga in questi affannati giorni) certo non sono giustificati da lungimiranza, profondità del pensiero, efficacia dell’azione politica.
PIÙ GLI ELETTI (in senso letterale) peggiorano, più si arricchiscono: è il paradosso della decadenza. Attorno hanno, più che consulenti, schiere di cortigiani, illuminati da un piccolo pamphlet di qualche secolo dopo, che pure non è per nulla invecchiato: il Saggio sull’arte di strisciare (Melangolo) del barone d’Holbach. I consigli a uso dei servi, suonano più o meno così: “La nobile arte del cortigiano consiste nel tenersi informato sulle passioni e i vizi del padrone. Gli piacciono le donne? Bisogna procurargliene” (ogni commento è superfluo). E poi: “Il cortigiano deve tenere ben presente che il Sovrano e più in generale l’uomo che sta al comando non ha mai torto”.
Di tutt’altro avviso Machiavelli, che al Principe dà consigli assai più assennati, con un capitolo che addirittura s’intitola Quo-modo adulatores sint fugiendi (In che modo sfuggire agli adulatori). È il momento giusto per sfatare qualche leggenda?

il Fatto 26.1.13
L’anticipazione
Dopo cinque secoli c’è ancora bisogno di lui
di Maurizio Viroli


Con tanti opinionisti, commentatori ed esperti può apparire idea bizzarra rivolgerci a Niccolò Machiavelli perché ci aiuti a scegliere bene il nostro principe, quando dobbiamo votare, e ci insegni a essere cittadini saggi. Machiavelli è vissuto a Firenze fra il 400 e il 500 (1469-1527), non hai mai visto una Repubblica democratica, ed è pure diventato famoso nel mondo per un’opera, Il Principe, nella quale non ha dato consigli ai cittadini, ma al principe. In realtà, Machiavelli è l’uomo giusto. Conosceva e capiva la politica come pochi altri, anche se alcuni suoi contemporanei, come il grande Francesco Guicciardini (1483-1540) ritenevano che talune sue idee fossero troppo audaci per i tempi e le circostanze. Quando era Segretario della Repubblica, un suo amico, Filippo Casavecchia, gli scrisse: “Voi siete il più grande profeta che sia venuto dai tempi degli ebrei”. Anche dopo che i Medici lo cacciarono da Palazzo Vecchio, nel 1512, gli amici ricorrevano a lui per capire le vicende politiche e per prevedere il comportamento dei politici del tempo.
Francesco Vettori (1474-1539), ambasciatore di Firenze presso la corte pontificia a Roma, gli scriveva nel 1514 che anche se erano passati due anni da quando stava in Palazzo Vecchio, “vi riconosco di tanto ingegno” che saprete aiutarmi (...) Sulla politica non aveva rivali. Era poi uomo d’impeccabile onestà, virtù essenziale per un buon consigliere su questioni tanto importanti come quelle politiche. Prova della sua onestà era la sua povertà. Dopo aver servito il governo popolare di Firenze guidato da Pier Soderini per 14 anni, e aver maneggiato enormi somme di denaro, si ritrovò, quando perse il suo incarico, più povero di prima. Aveva poi la virtù, considerata dai più un vizio, di esprimere schiettamente i suoi giudizi politici, anche se le circostanze della vita gli imposero a volte di simulare e mentire. Mentre era dai frati minori di Carpi, nel 1521, ad esempio, scrisse a Francesco Guicciardini che aveva imparato l’arte di non dire mai la verità o, se la diceva, di nasconderla fra tante bugie che era impossibile ritrovarla. Quando trattava di politica esprimeva il suo pensiero apertamente, anche ai potenti.
DELLA CHIESA affermò che se gli italiani erano diventati “sanza religione e cattivi” la colpa era dei papi e dei preti (frati compresi) ; dei Medici signori di Firenze scrisse che il grande Cosimo I fondò il suo regime con una politica di favori indegna del vivere repubblicano e che il tanto celebrato Lorenzo il Magnifico fece guerra contro Volterra per ambizione.
Sappiamo poi per certo che amava la patria con tutto se stesso, e che per tutta la vita dedicò le sue migliori energie a difendere la libertà della sua Firenze e dell’Italia. Aveva anche lui, com’era giusto che avesse, interessi personali e ambizioni, che però non erano in contrasto con il bene comune. Questa è la garanzia migliore che da lui avremo ottimi suggerimenti. E non dobbiamo dimenticare che pochi, nella nostra lunga storia, hanno capito l’Italia come Machiavelli. Riteneva che i suoi compatrioti avessero grandi energie intellettuali, artistiche e imprenditoriali; ma era anche consapevole che mancavano della tempra morale necessaria a vivere liberi. Da quando Cesare e gli altri imperatori avevano soffocato la vita repubblicana della Roma antica, fino ai suoi giorni, gli italiani avevano conosciuto soltanto una libertà fragile e avevano subito sia l’oppressione straniera sia varie forme di tirannide, più o meno velate.
Eppure, anche nei momenti più difficili della vita, mantenne viva la speranza che l’Italia fosse in grado di rinascere e di diventare una patria libera e ammirata.
RISPETTO ai tempi di Machiavelli, nella sostanza, la politica non è cambiata di molto. I politici dei nostri giorni hanno le medesime passioni di quelli che vivevano nella sua epoca: alcuni sono dominati dall’ambizione, altri dal desiderio di guadagno, o dalla paura, o dall’invidia o da varie combinazioni di queste passioni. Ma ci sono anche uomini e donne che hanno sentimenti generosi, quali l’amore della libertà e della giustizia, l’amore della patria, il desiderio di vera gloria. Machiavelli ci appare dunque un consigliere competente, certamente del tutto disinteressato e che ha a cuore il bene dell'Italia. Trovarne un altro con le stesse qualità è assai difficile. Del resto a lui è sempre piaciuto dare consigli, e per noi italiani ha un occhio di riguardo. Va da sé che per avere suoi suggerimenti dobbiamo rivolgergli le domande giuste e riflettere bene sulle sue parole. Dobbiamo insomma avere un po’ di pazienza, ma ne vale la pena. La saggezza che ci può regalare il buon Niccolò aiuta a essere migliori cittadini, e a vivere meglio.

SCEGLIERE IL PRINCIPE, di Maurizio Viroli, Laterza editore, 99 pag., 9 euro

Corriere 26.1.13
Ma mio figlio è iperattivo?
Quel confine sottile fra «malattia» e vivacità Le «colpe» dei genitori e i (facili) rimedi
di Paolo Di Stefano


C'è troppa famiglia o troppo poca. Troppa vicinanza tra il bambino e il cerchio familiare o troppa solitudine, frammentazione. I figli sono diventati un valore assoluto ed esclusivo oppure vengono lasciati a se stessi da genitori che non sanno incarnare le figure del padre e della madre. Si potrebbe cominciare da qui per affrontare la questione, sempre più grave, dell'iperattività infantile. Il tasso dei piccoli con diagnosi di deficit dell'attenzione e disordine da iperattività (nota tra gli esperti con la sigla Adhd) ha subìto un'impennata negli ultimi dieci anni negli Stati Uniti, al punto da segnalarsi come una vera e propria epidemia. È il risultato di una ricerca condotta su 850 mila bambini tra i 5 e gli 11 anni dal Keiser Permanente Southern California e pubblicata sulla rivista «Jama Pediatrics». Ebbene, le cifre sono quasi raddoppiate dal 2001, sfiorando il 5 per cento con una presenza tre volte maggiore tra i maschi e nettamente superiore nelle famiglie con redditi elevati. Dunque, visto che il problema interessa sempre più anche l'Italia, sia benvenuto lo studio dello psicologo e psicanalista Uberto Zuccardi Merli, uscito per Bruno Mondadori con il titolo, già in sé significativo, Non riesco a fermarmi.
Il libro risponde a quindici domande sull'argomento, ma si propone preliminarmente di mettere a fuoco il disagio, distinguendo tra bambini iperattivi e bambini molto vivaci. La differenza consiste nella capacità di gestire il movimento del corpo, per esempio nella fase rivelatrice del gioco. I bimbi vivaci sanno fermarsi a giocare, magari per un tempo limitato; gli iperattivi non sono in grado di stabilire un rapporto creativo con gli oggetti. Non ne ricavano piacere, perché — dice la psicanalisi — restano agganciati alla figura materna o meglio non riescono a sostituirla, la chiamano di continuo ed esigono sempre la sua presenza. Il piccolo iperattivo è schiavo dell'eccesso, non conosce nessun limite, tende ad aggredire i compagni, insulta i genitori, si scontra con gli insegnanti; viceversa, il bambino vivace, per quanto scatenato, reagisce di fronte al «no» deciso degli adulti.
Ed eccolo lì il concetto chiave: c'è troppa famiglia o troppo poca. L'eccesso sta in primo luogo nel cerchio familiare, dove è sempre più difficile imporre confini ragionevoli, ma prima ancora nella vita sociale, in cui le regole tendono a sfumare nell'arroganza e nella prevaricazione quando non nella violenza. «Il bambino iperattivo è come un motore che funziona sempre a pieno regime, senza pause», mostra un'insoddisfazione ingestibile, ignora la parola d'ordine dell'educazione e i principi che regolano la convivenza sociale. Zuccardi Merli si propone di mostrare come l'iperattività si generi non tanto per trasmissione genetica ma dal contatto tra i bambini contemporanei e il mondo in cui vivono: del resto, la mente, dice, è un organo sociale che implica la dimensione della responsabilità. C'è chi considera l'iperattività come un sintomo di intelligenza che non trova una risposta adeguata del contesto (familiare o scolastico); ma lo sviluppo di doti intellettuali sproporzionate alla propria età, che spesso è motivo di vanto per i genitori, può anche essere interpretato come una forma di ritiro dall'ambiente, una fuga dalle paure e dall'angoscia.
La difficoltà di socializzare e di gestire il proprio corpo in relazione con gli altri esplode ovviamente nella scuola primaria, dove per la prima volta vengono poste le regole della convivenza sociale e della formazione culturale. Non a caso il cuore del libro è il capitolo terzo, intitolato In classe è più difficile. «Quando un'istituzione diventa un luogo che perde di autorità, si trasforma in un tiro a segno», scrive Zuccardi Merli. A ciò contribuisce il frequente accanimento dei genitori contro la valutazione dei figli, la tendenza iperprotettiva di difesa del pargolo a prescindere: «l'iperattività è anche il risultato delle trasformazioni delle pratiche educative». Il permissivismo diffuso riguarda l'oggetto di consumo: cedere alle richieste incessanti dei bambini (stimolate dalla pubblicità, dalla televisione, dalla società dei consumi) produce un «ingolfamento mentale» che fa perdere interesse e concentrazione. Ancora una volta, ecco l'eccesso. L'eclissi del «No!» è una formula indubbiamente efficace per descrivere la mancata educazione alla rinuncia: e stare in società significa anche sapersi adeguare magari riducendo il proprio piacere individuale. In passato, la scuola elementare imponeva agli allievi di stare fermi, che è il principio dell'attenzione e della concentrazione, oggi tutto congiura contro la stasi (fisica e mentale): eccitazione e rifiuto dell'autorità, tipiche del vivere contemporaneo anche tra adulti, finiscono per essere i due tratti centrali dell'ipercinesi infantile.
Se la scuola è il luogo privilegiato in cui si scatenano questi sconfinamenti del comportamento, sarebbe utile, oggi più che mai, ristabilire un rapporto di fiducia tra insegnanti e genitori. Recuperare quell'antico patto tra scuola e famiglia che appare sempre più vicino alla rottura. Zuccardi Merli parla di «alleanza fiduciosa», anche con il bambino. Ma gli ultimi capitoli, che si soffermano su questioni più operative (Si guarisce? Cosa si rischia? Servono le medicine? eccetera), li lasciamo ai genitori che, senza essere permalosi né ansiosi, vogliano ragionare prima sui propri eccessi e poi su quelli dei figli.

Corriere 26.1.13Valerio Magrelli nella Geologia di un padre
Nella miniera dell’antenato
di Emanuele Trevi


Lo si potrebbe definire il problema dei problemi e il dubbio amletico per eccellenza, quello affrontato da Valerio Magrelli nella Geologia di un padre (Einaudi, pp.159, 18).
Quanto, del nostro destino, discende dal famoso libero arbitrio, con tutte le sue possibilità di errore e di abbandono al gioco del caso? E quanto, al contrario, ci rinchiude nel buio carcere dell'ereditarietà e della ripetizione? Per addentrarsi in questo spinoso rovo morale e filosofico, Magrelli dichiara fin dal titolo di affidarsi più volentieri alla geologia che alla psicologia. E in effetti, la metafora è così efficace, nella sua semplicità, che volentieri acconsentiamo a immaginarlo armato di torcia e di elmetto, mentre procede fra i sedimenti oscuri dell'Origine. Jules Verne contro Sigmund Freud? Fatto sta che ogni discorso sul Padre, sembra suggerirci lo scrittore, assomiglia più al Viaggio al centro della Terra che all'Edipo re. Viene fuori, da questo consegnarsi alla legge della gravità (che in fin dei conti è la più implacabile delle leggi), una figura indimenticabile di spettro: Giacinto Magrelli, ingegnere dotato di scarso o nullo senso pratico, in perenne disaccordo con la vita e con se stesso, condannato a procedere lugo il fiume dei suoi giorni sulla fragile zattera delle sue nevrosi. Pagina dopo pagina, lo amiamo sempre di più, questo professionista dell'infelicità, vittima del tedio domenicale, gran disegnatore e musicofilo, ammiratore del folle Borromini, preda di accessi d'ira inutili e devastanti al tempo stesso. Procedendo per brevi capitoli, il figlio dà prova di un'efficacia della rappresentazione che deriva da una scelta di registro ben precisa. Si direbbe che Magrelli abbia sfruttato al meglio, più ancora del suo talento, una sua peculiare incapacità. Difficilmente, infatti, chi conosce la sua opera in versi e in prosa, lo immagina nei panni del ritrattista.
Magrelli è un cultore dell'anamorfosi, del riflesso rivelatore, delle arcane somiglianze annidate nel dissimile. Anche il suo ricorso alla razionalità è una diga contro il caos, più simile a un ansiolitico che a un metodo di conoscenza. Se ogni mente è una macchina per speculare e dunque uno specchio, il suo è sempre concavo o convesso. E dunque, se non è affatto in grado di fare il ritratto di suo padre, è invece bravissimo a farne la caricatura. Gli viene spontaneo, confessa all'inizio della sua impresa «polarizzare gli elementi» della vita di suo padre, «accentuarne i tratti» come se, ostinandosi a sfregare i ramoscelli dei ricordi, ne facesse sprizzare le scintille del comico. Ma quando si evoca questa nobilissima arte della caricatura, bisogna sempre affrettarsi a sgomberare il campo da molti e fastidiosi equivoci di carattere moralistico. È un cattivo figlio, colui che si azzarda a fare la caricatura di suo padre? La deformazione non è, di per sé, la prova evidente di una fondamentale mancanza di rispetto? È possibile immaginare un Enea che ride del venerando Anchise, nel momento di metterselo in groppa? Ebbene, proprio perché queste domande hanno pure il diritto di premere sulla coscienza, Magrelli risponde nell'unica maniera decente che sia consentita a un artista. Rinunciando, cioè, al comodo e infingardo scudo delle petizioni di principio, e accettando l'unica prova che conta davvero, che è quella della scrittura, della congruenza estetica tra i mezzi e i fini, gli impulsi e le soluzioni linguistiche. Per uno scrittore, non c'è nessun'altra etica di quella che deriva dalla sua stessa efficacia, dal tipo di emozioni che è in grado di suscitare nei suoi lettori. E la caricatura di Magrelli, tratto dopo tratto, si rivela così piena di tenerezza e comprensione che davvero non si riesce a immaginare un monumento migliore per questo padre così degno di memoria.
Ancora una volta, in questa Geologia di un padre, la letteratura ci insegna che la grandezza umana, considerata al di là di ogni mistificazione, è di natura essenzialmente tragicomica. E di fronte a un nostro simile, a un nostro caro che abbiamo a lungo osservato e studiato, è nobile solo chi non nobilita, e si accorge che, una volta terminata, la caricatura del padre non è molto diversa da quella che il figlio potrebbe fare di se stesso.

l’Unità 26.1.13
Scrivere a mano arte dell’anima
La calligrafia come tecnica innovatrice per dare originalità alla scrittura
di Nicla Vassallo


NEL «FEDRO» PLATONE FA AFFERMARE A SOCRATE: «C’È UN ASPETTO STRANO CHE IN VERITÀ ACCOMUNA SCRITTURA E PITTURA. LE IMMAGINI DIPINTE TI STANNO DAVANTI COME SE FOSSERO VIVE, ME SE CHIEDI LORO QUALCOSA, TACCIONO SOLENNEMENTE. Lo stesso vale anche per i discorsi scritti: potresti avere l’impressione che parlino, quasi abbiano la capacità di pensare, ma se chiedi loro qualcuno dei concetti che hanno espresso, con l’intenzione di comprenderlo, essi danno una sola risposta e sempre la stessa. Una volta che sia stato scritto poi, ogni discorso circola ovunque, allo stesso modo fra gli intenditori, come pure fra coloro con i quali non ha nulla a che fare, e non sa a chi deve parlare ea  chi no». Come dare torto a Socrate, specie di questi tempi, in cui ogni discorso circola ovunque, senza pudicizia alcuna?
Oggi non solo c’è chi straparla, ma anche la scrittura è stata stravolta: i più hanno cessato di scrivere a mano per digitare sui tasti di computer, smartphone, tablet. Certo, ben prima, Johann Gutenberg ha inventato la stampa: una rivoluzione (buona o cattiva) che ha reso la Bibbia un best-seller. E ora, da alcuni anni, un’altra rivoluzione ci sta frastornando, forse con maggior potenza di quella di Gutenberg: non solo non scriviamo più a mano, ma leggiamo meno carta, leggiamo e-book, grazie a cui la pessima trilogia di E. L. James ha dominato per mesi la scena letteraria mondiale.
LA MANO DI BARTHES
Lo scrittore Nicholas Carr ci avvisa da tempo dei pericoli della rete, dell’utopismo tecnologico e dell’amoralità del Web 2.0 (vedi il suo Internet ci rende stupidi?, Cortina Editore, nonché il suo blog Rough Type). Del resto, l’informatico Jaron Lanier (vedi il suo Tu non sei un gadget, Mondadori) si scaglia contro l’aberrazione del populismo web, nemico di qualità e creatività. Ancora, alcuni studi psicologici attestano le scarse prestazioni cognitive dei nativi digitali, in fatto di concentrazione e memoria, nonché in termini di pensiero critico. Eppure alla rete, al computer, agli annessi ammennicoli non possiamo, né dobbiamo rinunciare. Si tratta però di tecnologie da impiegarsi con oculatezza, senza esasperazioni e dipendenze. Abusare di loro e astenersi dalla scrittura a mano è una forzatura da evitare: «Pur giudicata un lusso, la scrittura a mano, oltre che accessibile a tutti, sostiene Francesca Biasetton (www.biasetton. com), calligrafa professionista e presidente dell’Associazione Calligrafica Italiana è una competenza libera, familiare, affabile. Ogni scrittura a mano si rivela però originale e denota la preparazione e maestria di chi scrive. La penso come il Roland Barthes di Variazioni sulla scrittura: «Dalla parola scritta, potrei risalire alla mano, al muscolo, al sangue, alla pulsione, alla cultura del corpo, al suo godimento». Certo, non tutti si è calligrafi. Il calligrafo contemporaneo, vero e proprio, ha una professionalità specifica, derivata da anni e anni di studio, pratica, esercizio. Quando ci si affida a un calligrafo, lo si fa perché si desidera una scrittura unica, unica non solo dal punto di vista estetico strettamente contemporaneo». Così la calligrafia, lungi dall’essere all’antica, si presenta come una tecnica e, al contempo, un’arte innovatrice, progressista: viene impiegata per brochure, ceramiche, copertine di dischi e libri, inviti, lenzuola, lampade, loghi, menù, payoff, partecipazioni (di nozze e non), pubblicità, slogan, titoli di film, vestiti.
Se abbandoniamo la scrittura a mano, ci consegniamo a tipi di caratteri (font, per la precisione) che di noi rivelano poco o nulla. Un giorno impiego il Times New Roman e un altro giorno il Cambria: che differenza fa visto che molti altri individui impiegano i medesimi font? Nessuna, mentre la disponibilità di tanti tipi di caratteri non rende meno anonima la nostra scrittura digitale. Rimane pur sempre una questione di qualità, non di quantità, e la prima la riscontriamo nella scrittura a mano. Dunque, a differenza di Socrate, direi che sì scrittura e pittura sono di questi tempi accomunate, sebbene alcune scritture e immagini vivano, parlino, mentre altre tacciono.
Tacciono i tanti font che imitano la scrittura a mano. Li ritroviamo ovunque, specie sulle pagine pubblicitarie (così, almeno io, confondo un prodotto pubblicizzato con un altro), ma pure (a mo’ d’esempio) sui menù al ristorante. Sono tanti e si stanno moltiplicando provate anche solo a dare un’occhiata a quelli che vi offre il programma di scrittura del vostro computer. Con cosa abbiamo a che fare quando ci affidiamo a un font simil-scrittura-a-mano? Con un falso, o con un falsario, che depreda la nostre mani, cancella l’intimità del legame tra le mani, lo strumento di scrittura, il destinatario, invalida le nostre individualità. La tua scrittura non è la mia scrittura, e, tra l’altro, la tua, al pari della mia, muta in base allo stato d’animo in cui ci si trova, a cosa si sta scrivendo, a chi ci si indirizza. Sebbene esistano tanti modi di scrivere a mano quante sono le persone che a mano scrivono, non tutte queste ultime sono calligrafi, professionisti della bella scrittura. A dispetto di ciò, rimane pur sempre arido un font che imita la scrittura a mano, diffondendo in effetti una sorta di squallore che la grafia, anche quando goffa, non presenta. La scrittura a mano rimane un prodotto prezioso, e ciò vale in misura esponenziale per calligrafia. Tanto più in quanto la bellezza è in sé preziosa, mentre un falso non contiene né eleganza, né onestà. Del resto, Dante (memorabile il suo incontro con Mastro Adamo, falsario del fiorino, e quanto Virgilio apprezzi poco lo spettacolo) ha collocato la bolgia dei falsari all’Inferno. Eppure i falsi vanno di moda: li troviamo qui e là, ascoltiamo falsità, acquistiamo prodotti falsi.
Ci si dovrebbe turbare continua Francesca Biasetton anche perché, per riprendere le parole di Roland Barthes, “la scrittura manoscritta resta miticamente depositaria dei valori umani, affettivi; introduce del desiderio nella comunicazione”. Tra questi valori umani e affettivi annovero le regole. Ogni calligrafo professionista conosce bene le regole della calligrafia e, impiegando queste regole, mostra rispetto e affetto per il proprio committente. Scrivendo a mano si comunicano non solo contenuti, ma pure segni che trasmettono armonia, grazia, eleganza, equilibrio, proporzione. E si riesce perfino a comunicare, senza comunicare contenuti. Parte del mio lavoro la dedico all’“asemic writing”, ovvero a una scrittura priva di semantica. È una scrittura illeggibile, se così ci può esprimere, che però non tace, anzi».
Dietro ogni scrittura si trova un pensiero. La sua creatività, genuinità, profondità, intelligenza dipende dal mezzo. Forse, le cose stanno ancora diversamente, almeno secondo Friedrich Nietzsche: «I nostri strumenti di scrittura hanno un ruolo nella formazione dei nostri pensieri». Ciò non deve ineluttabilmente significare un’opposizione tra mondo calligrafico e mondo digitale. Pensiamo a Steve Jobs. Nel suo famoso discorso alla Stanford University, ha dichiarato di aver frequentato corsi di calligrafia al Reed College, nel cui campus ogni poster ed etichetta erano in calligrafia. Jobs ne rimase affascinato. Corsi e fascino inutili? Non per il pensiero, né per la creatività. Difatti, come ha sottolineato lo stesso Jobs, proprio a quei corsi e a quel fascino si deve la progettazione del primo Mac, «il primo computer dalla bella tipografia».

Repubblica 26.1.13
L’appuntamento
Sapienza, Lectio magistralis di Scalfari


ROMA — “Il significato e il ruolo delle pagine di arte e cultura de la Repubblica — Tra informazione e riflessione critica”, questo il titolo della lectio magistralis che Eugenio Scalfari terrà lunedì alle 15, al dipartimento di Storia dell’arte e dello spettacolo alla Sapienza di Roma. La lezione sarà presentata da Marina Righetti, direttore del dipartimento e da Paolo Serafini della Scuola di specializzazione in Beni storico artistici. Sarà, come esplicitato dal titolo, l’occasione per ripercorrere la storia del nostro quotidiano che decise di uscire, da subito, in un nuovo formato, e senza la tradizionale “terza pagina”, con i temi di arte, letteratura, storia, scienze e filosofia spostati nelle pagine centrali. Non solo. La lectio magistralis di Scalfari permetterà di riflettere sulla funzione di queste pagine oggi: non semplice informazione, ma spazio di riflessione critica, luogo delle idee e del confronto, strumento di comprensione del nostro tempo.

Repubblica 26.1.13
Se il Paradiso è in questa terra
Le riflessioni sulla preghiera della teologa Adriana Zarri
di Umberto Galimberti


«Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze». Queste parole di Nietzsche le sento risuonare in ogni pagina del libro di Adriana Zarri, Quasi una preghiera.
Quasi perché siamo soliti chiamare “preghiera” l’invocazione, o la richiesta di grazie, o quelle noiosissime nenie che recitano formule senz’anima, senza partecipazione, senza canto. Queste «formule scritte da altri e assunte da noi senza che spesso riusciamo ad aggiungere nulla di nostro» non sono per Adriana Zarri vere preghiere perché «non consentono un libero e personale esprimerci e parlare col Signore».
Ma perché questa preghiera possa sorgere e scaturire spontanea e sincera con tutta la partecipazione del cuore bisogna ribaltare quella concezione teologica che descrive la terra come «valle di lacrime» o come «esilio», perché, scrive la teologa, monaco ed eremita, Adriana Zarri, se la terra è «la creazione bella e buona predisposta dal Signore per noi», se non è «un deserto, ma un giardino: il giardino dell’Eden», se «il Signore non ci ha messi in esilio, ma ci ha collocati nella nostra patria, nella casa che aveva amorevolmente preparato per noi», allora a questa patria, a questa casa, a questo giardino a questa terra dobbiamo essere fedeli e «pregare Dio per questa terra in senso proprio, questa terra di terra, per questo cielo d’aria e non per quello metaforico popolato dagli angeli, per questo cielo nostro, questo cielo di nuvole e di vento, percorso dalle ali degli uccelli».
Così risuona nelle parole di Adriana Zarri l’invocazione di Nietzsche: «Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra», ma risuonano anche le «sovraterrene speranze» a cui Nietzsche invita a non credere. Eppure la fedeltà alla terra di Adriana Zarri fa la sua comparsa anche nelle «sovraterrene speranze» se appena ascoltiamo l’invocazione della sua ultima preghiera: «E questo nostro dolce mondo, ti prego, Dio, fallo risorgere tutto, così com’è, perché è così com’è che noi lo amiamo, ed è così com’è che noi lo attendiamo quando “i cieli nuovi” e “le terre nuove” che ci hai promesso risorgeranno dal gran rogo finale. Ti prego, non dimenticartene, Signore, perché io aspetto di trovarle di là. Se non ci fossero ne resterei delusa, e in paradiso non può esserci delusione».
Possiamo leggere questo libro di Adriana Zarri, che prega il Signore con il canto che si leva dalla contemplazione delle sue creature e delle sue bellezze, che il succedersi delle stagioni offre nella loro varietà, in sintonia con la variazione che caratterizzala la gamma dei nostri sentimenti, come un libro lirico, mistico, non dissimile dalla mistica francescana. Ma Adriana Zarri non è solo questo. Perché da teologa ha anticipato il Concilio Vaticano II, e da voce libera e forte ha avuto il coraggio di ribaltare quella visione che il cristianesimo, dimentico del Vangelo, ha ereditato da Platone, il quale ha disprezzato la terra e il mondo sensibile per il mondo delle idee collocate sopra il cielo. Questa tradizione greca e non cristiana è stato ripresa da Agostino che ha deprezzato la città terrena per esaltare quella celeste, e da allora in poi la terra è diventata valle di lacrime e di dolore: il dolore che redime.
Quasi una preghiera, prima di essere un libro lirico o mistico, è un libro teologico, dove ciò che si chiede è di abbandonare il dualismo platonico e poi cristiano che oppone la terra al cielo, lasciando l’uomo senza quella patria, quella casa, quel giardino che il Signore aveva amorevolmente preparato per lui.

venerdì 25 gennaio 2013

l’Unità 25.1.13
Oltre la crisi e l’austerità
Vale 60 miliardi il piano della Cgil
Si apre oggi la conferenza di programma
Si punta su innovazione e beni comuni per far tornare la disoccupazione al 7%
Le proposte: mutualizzazione europea del 20 per cento del debito e Banca nazionale di investimento
di Massimo Franchi


Un piano di legislatura ricordando Di Vittorio ma puntando ad un nuovo modello economico che riporti finalmente al centro della politica il lavoro. Figlio di un dibattito interno e territoriale partito già nello scorso giugno, il Piano del lavoro che questa mattina la Cgil presenta al PalaLottomatica di Roma ha un obiettivo ambizioso: «ridurre il tasso di disoccupazione nel 2015 al livello pre-crisi: il 7%» e «piena, buona e sicura occupazione». Per farlo servono «risorse per 50-60 miliardi in un triennio», reperibili grazie ad «una riforma del sistema fiscale» (40 miliardi), «la riduzione dei costi della politica e gli sprechi di spesa pubblica» (20 miliardi), «il riordino delle agevolazioni alle imprese» (10 miliardi) e «l’utilizzo di una parte delle risorse delle fondazioni bancarie e dei fondi pensione.
Sebbene il nome voglia rendere merito all’espressione scelta da Giuseppe Di Vittorio nel II congresso confederale di Genova del 1949 (e i cui principi si manifestarono negli anni sessanta), la Cgil guarda al futuro. Il futuro più prossimo, con le elezioni politiche che arrivano fra meno di un mese e che la portano a proporre al centrosinistra (oggi interverranno, in ordine cronologico, il ministro Fabrizio Barca, Nichi Vendola, Pier Luigi Bersani, Giuliano Amato) le sue proposte economiche. E il futuro più lungo, quello su 3-5 anni che fermi il declino del Paese, l’austerità imperante e punti ad una crescita che ridia lavoro ad un’Italia sempre più scoraggiata.
SEI MESI DI CONFRONTO
Il testo finale che sarà presentato questa mattina con la relazione di Susanna Camusso è stato limato fino alle ultime ore. È figlio di un dibatitto lungo sei mesi con centinaia di riunioni con tutte le strutture, territoriali e centrali. Un lavoro capillare, coordinato da Gaetano Sateriale che andrà avanti: il testo è infatti aperto al confronto fino al prossimo Congresso confederale del 2014.
PAROLE CHIAVE
Se le proposte, gli strumenti, le coperture delle risorse necessarie potranno variare, il cuore del documento si basa su concetti e parole chiave su cui la Cgil ha deciso di puntare. Beni comuni, innovazione e condivisione territoriale sono i principali. L’attenzione ai beni comuni è centrale nell’approccio di Corso Italia: «la prima grande ricchezza dell’Italia è se stessa, il suo territorio, la sua cultura, il suo patrimonio storico e artistico», si legge in un passaggio. La seconda parola (innovazione) è il leit motiv di ogni proposta: la Cgil contesta e vuole affrancarsi dall’immagine di un sindacato ancorato al passato e che dice sempre “No” (come sostiene Mario Monti) e punta sul mettere in rete formazione e tecnologia. In una delle slide che arricchisce il testo si evidenzia come l’Italia nell’ultimo decennio sia fanalino di coda nell’economia ad alta intensità e della conoscenza. Nel nostro Paese la quota di valore aggiunto di questo settore è solo di 32,5% e occupa solo il 20% dei lavoratori totali, nonostante una produttività doppia rispetto agli altri settori. La Cgil punta ad invertire questi numeri mettendo in rete, grazie a politiche orizzontali, formazione, Università (e quindi tecnologia), imprese e territori. Quest’ultima è la terza parola chiave del Piano del lavoro: lo Stato centrale deve definire solo le linee di indirizzo e le risorse da utilizzare, tutto il resto è demandato ai territori (Regioni, Comuni, parti sociali locali): «Il territorio deve ritornare al centro dello sviluppo: il lavoro si lega necessariamente al welfare, ai sistemi territoriali, per questo la contrattazione sociale nel territorio e il confronto sindacale con Regioni e Comuni può diventare il momento di attivazione, di adattamento e di verifica dei Progetti operativi per la crescita, sostegno delle Piccole e medie imprese».
NUOVO RUOLO DEL PUBBLICO
Il Piano per il lavoro è molto lontano dai tanti progetti di intervento pubblico diretto in economia che si sono succeduti negli anni. La Cgil punta invece a definire un «nuovo ruolo del settore pubblico», partendo dal presupposto che la crescita si può ottenere solo agendo sul lato della domanda: aumentando investimenti e consumi. Per ottenerli il ruolo delle imprese e dei privati è complementare a quello statale. Le politiche di crescita ed innovazione devono essere co-finanziati, lasciando però al pubblico il ruolo della gestione. Per il resto si punta Progetti operativi di politica industriale attiva e “orizzontale” e che punti «alla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, produzioni verdi e blu, edilizia antisisimica, reti digitali, Trasporto pubblico) e ai servizi pubblici (tutela del territorio, ciclo dei rifiuti, riassetto idrogeologico).
PIANO STRAORDINARIO PER IL SUD
L’unico punto in cui il ruolo dello Stato è diretto è quello del Piano straordinario di creazione diretta di lavoro. Per «fermare il declino» specie delle parti più deboli del Paese la Cgil propone un piano straordinario di creazione diretta dell’occupazione, in particolare nel Mezzogiorno, attraverso una grande iniezione di investimenti pubblici in beni comuni (ambiente, energia, infrastrutture, conoscenza, welfare). A questo progetto vengono destinati tra i 15 e 20 miliardi, finanziati però in gran parte dai Fondi europei, già ben utilizzati dal ministro Fabrizio Barca, proprio per questo invitato a parlare oggi.
PATRIMONIALE PER REDISTRIBUIRE
Dal 2009 la patrimoniale è un cavallo di battaglia della Cgil. L’idea viene riproposta nel Piano per il lavoro, ma la sua implementazione è rimodulata. A differenza di quello che molti sostengono, la Cgil non vuole una tassazione straordinaria: si prevede infatti una Imposta strutturale sulle grandi ricchezze e i grandi patrimoni. Lo scopo non è aumentare il carico fiscale, bensì redistribuirlo e ridurre la parte sul lavoro (la più alta in Europa con il 43%) per ridare fiato a imprese e lavoratori e rilanciare i consumi.
MUTUALIZZARE IL DEBITO CON BCE
A conferma che la Cgil è cosciente dei vincoli di bilancio che la situazione internazionale impone, arriva la proposta forse più innovativa. Il Fiscal Compact sottoscritto anche dall’Italia imporrebbe almeno 45 miliardi di tagli al debito ogni anno. Per Corso Italia è una quantità insostenibile per far ripartire il Paese. E quindi ecco la proposta: il governo italiano si faccia promotore, assieme ad altri Paesi contrari all’austerità di bilancio, di una richiesta alla Bce di mutualizzazione del 20 per cento dei debiti pubblici europei. La Banca europea garantirebbe questa quota e in questo modo la riduzione del debito risulterebbe molto più sopportabile.
BANCA NAZIONALE DI INVESTIMENTO
Accanto ad una Cassa deposito e prestiti che investa realmente e direttamente nel salvataggio delle industrie in crisi (come anticipato da Susanna Camusso a l’Unità in agosto) e che finanzi «progetti di sviluppo ed infrastrutturali», il Piano per il lavoro introduce un nuovo strumento: la Banca nazionale di investimento. Sull’esempio di altri Paesi, si tratta di un fondo a controllo pubblico ma aperto ai privati per finanziare filiere di innovazione e progetti sui beni comuni. Potrà emettere titoli e sarà tutto il contrario di una banca d’affari: perseguirà il bene comune.
PIANO DEL WELFARE
Altro punto molto importante è il piano per un Nuovo Welfare a cui la Cgil dedica fra i 10 e i 15 miliardi. Con le indicazioni sulla sanità già anticipate nel convegno di martedì, il piano punta da un lato ad ammornizzare i livelli essenziali sul territorio: le diseguaglianze, specie fra Nord e Sud, sono intollerabili e rischiano di aprire le porte alle assicurazioni private. Su ospedali, rete sanitaria, asili e servizi alla persona non devono esistere differenze sul territorio.
Diverso il discorso su una necessaria riorganizzazione del sistema welfare. Un forte “No” alla privatizzazione tipica del modello lombardo e un convinto “Sì” ad un Terzo settore, ad un’associazionismo che sul territorio sia conosciuto, stimato e soprattutto accreditato in modo trasparente dalle istituzioni pubbliche. In questo modo, per la Cgil, è possibile anche far diminuire gli sprechi e controllare la spesa pubblica in materia.

l’Unità 25.1.13
Per un Paese più giusto
Da trent’anni la condizione del lavoro peggiora e il suo valore sociale svanisce
di Rinaldo Gianola


LA CONDIZIONE DEL LAVORO IN ITALIA peggiora da trent'anni, il Paese è diventato più ingiusto. La mancanza di politiche per uno sviluppo equilibrato e per un’occupazione sana e di qualità è stata ed è la ragione principale delle profonde difficoltà economiche e delle insopportabili diseguaglianze che stiamo vivendo. I precari, i giovani e le donne che si affacciano sul mercato, sono le vittime di questa situazione che presenta processi di degenerazione, una minaccia alla nostra convivenza civile e democratica.
Il senso di ingiustizia, di abbandono che provano i lavoratori, chi cerca un’occupazione, l’afasia crescente di chi non ce la più nemmeno a lottare, a volte anche la perdita di speranza, sono i segnali preoccupanti che la storia di questi anni di crisi ci ha raccontato e ci rappresenta quotidianamente.
Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro e di ingiustizie? Il tasso di disoccupazione reale è ormai prossimo al 12%, considerati i lavoratori in mobilità. Oltre il 30% dei giovani non trova lavoro, le donne non si iscrivono nemmeno più alle liste di disoccupazione tanto è impossibile trovare un posto. È stato calcolato che l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha uno stipendio che è 430 volte quello medio di un suo operaio. Il manager ha incassato nel 2011 una retribuzione complessiva annua di 17milioni di euro, mentre un cassintegrato di Mirafiori prende 850 euro al mese. Nel 2009 il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva un reddito 11.490 volte superiore a quello di un lavoratore di Pomigliano d'Arco. Il rapporto tra le retribuzioni medie dei manager e dei lavoratori dipendenti era di 45 a 1 nel 1980, è salito a 500 a 1 nel 2000. Secondo il Sole24Ore (non la Pravda...) nel 2011 la Borsa di Milano ha perso il 25%, ma la retribuzione media annua dei top manager italiani è cresciuta da 3 a 3,5 milioni di euro. Questo è il mondo in cui viviamo, si potrebbe osservare, e non si può fare troppa demagogia, non ci si può sempre scandalizzare. L'ingiustizia che patisce il lavoro in Italia è testimoniata dalla dinamica della distribuzione della ricchezza nazionale: la quota di pil destinata a rendite e profitti continua a crescere mentre quella per i salari precipita. La percentuale di pil indirizzata ai profitti è salita dal 23% del 1983 al 31% nel 2005, per i salari invece si è partiti dal 76% per scendere al 68% e oggi è ancora inferiore. Il sociologo Luciano Gallino ha stimato in 250 miliardi di euro all'anno la ricchezza uscita dai salari a favore dei profitti. Ancora: secondo la Banca d’Italia circa il 10% della popolazione italiana controlla oltre il 50% della ricchezza nazionale. Ecco come siamo messi, oggi gennaio 2013, a un mese dalle elezioni politiche. Possiamo andare avanti così?
La crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2008 è diventata una prolungata scossa sistemica dell'intera economia mondiale, in cui è stata coinvolta direttamente e drammaticamente l'Italia. La nostra economia è stata travolta da una profondarecessioneche,alimentata anche da speculazioni e manomissioni finanziarie, si è rivelata non più una semplice crisi momentanea, che arriva e dopo un anno o due se ne va, ma una tempesta continua, imprevedibile nella sua durata e nella sua estensione. Questo terremoto nasce dal fallimento delle politiche neoliberiste che da trent'anni ci opprimono e che proprio nel momento più drammatico del disastro riescono a trovare freschi predicatori, nuovi sostenitori, fedelissimi adepti i quali, anziché finire sul banco degli imputati come meriterebbero, "scoprono" nei debiti sovrani, nell'insufficiente produttività e nella rigidità del lavoro, nell'eccessiva protezione sociale dei sistemi di Welfare, negli sprechi dello Stato o delle eventuali "caste" le vere cause della crisi. A fronte di questo ribaltamento della verità, la politica, la società, la cultura si adeguano, quasi tutti, tristemente all'elogio dei tecnocrati che, come conoscitori della tecnica, sono in grado di sostituirsi alle classi di governo, quelle politiche ma anche quelle imprenditoriali ormai poco affidabili, riducendo la democrazia, comprese le elezioni, a un semplice inutile esercizio. Viviamo, dunque, non una banale recessione economica, con la chiusura delle imprese e la crescita della disoccupazione, ma un cambiamento del capitalismo, del suo modo di pensare e di agire, sempre più individualistico, manageriale, socialmente irresponsabile, dotato di privilegi e retribuzioni impensabili, condizionato solo dall'andamento dei corsi di Borsa e dai capricci dei grandi azionisti, dei fondi e delle banche di investimento. Viviamo, anche in Italia, un passaggio dominato dall’allargamento delle ingiustizie, dall'alterazione intollerabile delle capacità di reddito tra chi sta sopra e chi sta sotto, con la cancellazione di diritti, contratti, interessi, regole di convivenza in fabbrica, in ufficio, a scuola.
In questo sistema, che nemmeno il fenomenale Obama è riuscito a ostacolare nonostante già la sua prima vittoria del 2008 fosse basata sull'impegno a tagliare le unghie ai nuovi predatori, il lavoro è stato ridotto a una semplice, secondaria, componente del processo economico. Il lavoro vale poco, sempre meno. Stiamo vivendo una regressione culturale, una deriva di cui il Paese non pare accorgersi nella sua drammatica gravità, siamo investiti da una bufera che cambia i termini della nostra democrazia, ma andiamo avanti, applaudiamo come dei cretini il bocconiano di turno o il manager campione di stock options come prototipi del sicuro successo. È in questa situazione che oggi e domani la Cgil, il più grande sindacato italiano, presenta il suo piano per il lavoro. Una proposta che evoca fin dal titolo altre emergenze sociali in altri periodi storici. Che Susanna Camusso e la sua organizzazione abbiano deciso di chiamare i leader del centrosinistra a confrontarsi su questa priorità assoluta è un segno di consapevolezza e di responsabilità verso il Paese. Anche se Mario Monti non riesce a comprenderlo. È proprio il caso di augurare buon lavoro.

La Stampa 25.1.13
Ma nel partito anche la sinistra giura “Siamo autonomi”
Epifani: il sindacato credo si rivolga a tutti
di Roberto Giovannini


Dietro le quinte, alla vigilia della partecipazione e dell’intervento di Pier Luigi Bersani alla Conferenza Cgil sul «piano del lavoro», molti dignitari democrat esprimono grandissime perplessità sul merito delle proposte che oggi il leader della Cgil Susanna Camusso illustrerà al Palalottomatica di Roma. Ovviamente il Pd e Bersani concordano fino in fondo con l’esigenza cigiellina di rilanciare l’occupazione, spingendo sul pedale della domanda e in una chiave di sviluppo sostenibile. Ma molte delle proposte di dettaglio - come le pianificate assunzioni nella pubblica amministrazione, per esempio - sono respinte al mittente come impraticabili. Come pure certe ipotesi di copertura finanziaria delle misure di spesa contenute nel piano Cgil, davvero poco plausibili.
Nulla di tutto questo però trasparirà però oggi, quando Bersani prenderà la parola dinanzi ai delegati Cgil. Del resto, fanno notare i «bersanologi», mercoledì il segretario ha evitato accuratamente di entrare nel merito anche a proposito della «terapia d’urto» proposta dal Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che contiene idee altrettanto indigeribili al Pd. E come a Squinzi ha detto solo che «è importante che si parli finalmente di economia reale», in casa Cgil Bersani valorizzerà soprattutto la consonanza con il sindacato sui temi del lavoro e della ripresa della domanda.
Ieri si è polemizzato sull’invito della Cgil a Bersani e Vendola. Uno che non ci trova assolutamente nulla di strano è Guglielmo Epifani, ex-leader Cgil e ora candidato del Pd. «Quella conferenza si fa ogni quattro anni e la sua data era stata fissata da un anno - spiega Epifani - io nel 2008 invitai Tremonti e nessuno lo trovò strano. L’importante è che si parli di lavoro, di investimenti e di crescita. Dopo di che, la Cgil credo si rivolga a tutti, a partire naturalmente dai partiti che le sono più vicini». Ma in Parlamento - o al governo - Epifani avrà comunque un occhio di riguardo per la sua vecchia organizzazione? «Il problema è portarsi dietro una cultura di attenzione ai temi del lavoro e della giustizia sociale», è la risposta.
Anche uno di «sinistra» come l’economista Pd Stefano Fassina nega che la Cgil conti più nelle scelte del partito. «In questi anni il Pd ha costruito una sua cultura politica ed economica autonoma», puntualizza. «Che poi sulla centralità della persona che lavora - prosegue Fassina - ci sia una convergenza con la Cgil questo non è un male. Ma la Cgil fa sindacato, come Cisl e Uil; noi siamo un partito che vuole costruire un progetto politico tenendo insieme una pluralità di interessi: i lavoratori dipendenti organizzati dal sindacato, ma anche le piccole imprese, o le professioni, o i disoccupati che nessuno rappresenta». Ad ascoltare però con attenzione le parole di Bersani (e a fargli le pulci se non saranno quelle che si aspetta) oggi ci sarà anche Carla Cantone, la potente numero uno dei tre milioni di pensionati della Cgil, che per Bersani alle primarie molto si è spesa. «Mi chiede se il Pd o Sel ci ascolteranno? Devono ascoltarci - avverte Cantone - Noi non imponiamo nulla; noi chiediamo che la politica ascolti le richieste dei pensionati su welfare e giustizia sociale. E sarà meglio che certe cose le dicano in modo esplicito, se vogliono l’attenzione della nostra gente».

Corriere 25.1.13
L’agenda economica ormai divide anche strumentalmente
di Massimo Franco


Era inevitabile che lo scontro elettorale si concentrasse sempre più sulle questioni economiche. La vera sfida è la possibilità per l'Italia di non avvitarsi in una recessione della quale da tempo si colgono gli indizi; e di non perdere di vista l'aggancio con un'Europa in transizione. Dal Forum mondiale di Davos, in Svizzera, Mario Monti ricorda che per la prima volta dopo anni il giudizio sul nostro Paese è meno negativo. Ma i veleni fra i partiti sembrano innervosire il premier. Il fatto che Pier Luigi Bersani insista nelle allusioni ad un'eredità governativa che forse ha lasciato «un po' di polvere sotto il tappeto», induce Monti a rispondere con durezza. Il segretario del Pd ha fatto capire più di una volta che il governo dei tecnici potrebbe avere lasciato conti pubblici meno virtuosi di quanto dichiari il presidente del Consiglio.
Non è andato oltre, ma è bastato a provocare una replica che suona quasi come un rimprovero. «Suggerisco per la seconda volta» dice il premier «di non usare l'espressione "polvere sotto il tappeto". L'espressione può risultare sinistra e far pensare ai mercati che ci sia qualcosa nascosto nel bilancio pubblico». Insomma, Monti accusa Bersani di spaventare la comunità finanziaria internazionale, danneggiando l'Italia. Ma il candidato del Pd a Palazzo Chigi si difende ribadendo il suo punto di vista in modo liquidatorio. Non è l'unico fronte conflittuale. Monti e il segretario del Pdl, Angelino Alfano, in guerra sul resto, attaccano insieme la Cgil. Il centrodestra parla di subalternità di Pd e Sel al sindacato guidato da Susanna Camusso. Ma il premier non è da meno.
Ribadisce infatti che rispetto ad alcune riforme del lavoro la Cgil può diventare «fattore di ostacolo o di ritardo». E la tensione torna a lievitare, con Bersani che accusa Monti di usare «luoghi comuni insufflati dalla destra» e rifiuta l'idea di disdire l'alleanza con Nichi Vendola dopo le elezioni per formare un governo con i centristi. «Chi crede che mollerò Sel se lo tolga dalla testa». Ma la spina più pericolosa promette di diventare il caso del Monte dei Paschi di Siena: la banca che ha subito perdite per quasi quattro miliardi di euro investendo in titoli «derivati» e il cui ex presidente, Giuseppe Mussari, si è dovuto dimettere dal vertice dell'Abi. Si tratta di una questione che all'opinione pubblica interessa meno di altre di più immediata percezione e di maggiore impatto.
La polemica elettorale, tuttavia, la sta facendo diventare argomento di propaganda negativa. Probabilmente era inevitabile. Soprattutto per il Pdl e la Lega, è un'occasione ghiotta per tentare di infilzare insieme Monti, Bersani e Bankitalia, invisa soprattutto al Carroccio. L'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, oggi candidato a palazzo Chigi per il partito di Roberto Maroni, non ha mai nascosto l'ostilità verso i vertici di via Nazionale e in particolare verso l'ex governatore Mario Draghi, oggi al vertice della Bce. E adesso, è irrefrenabile la tentazione del centrodestra di puntare il dito contro il premier «amico delle banche» che spenderebbe i soldi dello Stato per ripianare gli azzardi finanziari del più antico istituto creditizio italiano.
Subito dopo il governo, Bankitalia è accusata di non avere vigilato a sufficienza sulle operazione del Monte dei Paschi; e al Pd si imputa la gestione di quella che viene definita una banca vicina alla sinistra. Si tratta di un'operazione con evidenti aspetti strumentali; ma che si incornicia in una vicenda oggettivamente grave. Sta assumendo contorni preoccupanti, al punto da spingere Giorgio Napolitano a ribadire la propria fiducia a Bankitalia. Eppure, anche il capo dello Stato sa che lo scontro è appena cominciato, e i prossimi passaggi parlamentari sono destinati a drammatizzarlo. Il tentativo è quello di evitare che lo scandalo provochi, al di là delle intenzioni e del tonfo del titolo in Borsa, un effetto domino incontrollabile e, alla fine, un cortocircuito istituzionale.

Corriere 25.1.13
La riunione degli economisti pd e le critiche ai trattati europei
La ricetta antiliberista su welfare, crescita e lavoro
di Enrico Marro

ROMA — Il Pd punta a cambiare la lettura dominante della crisi economica e delle ricette per uscirne. Un lavoro che il dipartimento Economia diretto da Stefano Fassina sta portando avanti da tempo con la collaborazione un network di economisti d'area, impegnati a elaborare una nuova linea da opporre al pensiero liberista. Un'operazione, questa, condotta parallelamente anche da un altro protagonista della sinistra, la Cgil, che presenterà oggi il suo Piano del lavoro nella Conferenza di programma che vedrà gli interventi dei segretari del Pd, Pier Luigi Bersani, di Sel, Nichi Vendola, dell'ex premier Giuliano Amato e del ministro delle Coesione Fabrizio Barca.
Giusto una settimana fa il network di economisti d'area («più di 50-60 persone», qualcuno anche «della Banca d'Italia o altri centri studi») si è riunito per tre incontri seminariali dedicati a: politiche per la crescita; diseguaglianza e politiche sociali; crisi dell'euro e politiche europee. Vi hanno partecipato anche Paolo Borioni, della Fondazione Brodolini, e Carlo D'Ippoliti, della Facoltà di Statistica dell'Università La Sapienza, i quali hanno poi steso una «Breve sintesi», delle riunioni, ovviamente dal loro punto di vista. Che però dà una certa idea del dibattito, anche se Borioni ci tiene a precisare che si tratta appunto di un «resoconto soggettivo» della discussione e «non va quindi preso come la posizione del Pd». A chiudere gli incontri è stato Fassina, «rispondendo a diverse critiche che gli erano state poste».
Forse la cosa più interessante emersa, a parte la messa in discussione in radice delle politiche neoliberiste, è l'opinione abbastanza condivisa che il Fiscal compact non reggerà, perché saranno molti gli Stati non in grado di rispettare i vincoli di pareggio di bilancio e di riduzione del debito fissati dall'intesa europea. Lo spiega Massimo D'Antoni, incaricato da Fassina di coordinare il network di economisti e che ha partecipato al seminario. «Il Fiscal compact — dice D'Antoni — rischia di essere superato nei fatti. Le stesse politiche di austerità stanno rendendo impossibile rispettare gli impegni di riduzione del debito. Del resto lo ha riconosciuto anche il Fondo monetario che i moltiplicatori fiscali, cioè gli effetti recessivi delle politiche di rigore, sono stati sottostimati». Detto questo, precisa D'Antoni, «non è emersa una richiesta di revisione del Fiscal compact, ma piuttosto una presa d'atto di uno scenario destinato a cambiare. Un cambiamento che ovviamente sarebbe provvidenziale per uscire da questa spirale recessiva» e in questo senso viene auspicato dal Pd. Una posizione, però, che sembra troppo timida agli economisti più a sinistra. Per esempio, Carlo D'Ippoliti annota che secondo lui «il Pd si prepara a prendere qualsiasi ramoscello d'ulivo provenga d'Oltralpe: l'idea è quella di essere un piccolo partito in un piccolo Paese di fronte alla grandezza d'Europa e dei mercati e quindi di non avere molto potere contrattuale». Secondo l'appunto a Fassina «interessa cosa fare subito, appena si insedierà il prossimo governo di centrosinistra. Questo esclude qualsiasi ipotesi di riforma dei trattati europei» perché comunque non se ne potrebbe parlare prima del 2015 («insediamento del nuovo parlamento europeo»). Invece, dice D'Antoni, non è così, non è vero che il Pd sia arrendevole, ma insegue una logica diversa: «Noi siamo per cessioni di sovranità in Europa per rafforzarla ed andare verso politiche economiche comuni», ovviamente di segno diverso. «Ma non vogliamo — assicura — abbandonare le politiche del rigore, bensì coniugarle con quelle della crescita».
In particolare, per l'Italia l'enfasi è stata posta sulle politiche industriali e sul rilancio della ricerca e dell'innovazione come alternative alla linea che punta tutte sulle riforme strutturali, in particolare proponendo ancora una maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Una strada che finora ha prodotto solo un aumento della precarietà, secondo il Pd. Meglio guardare alle imprese, alla loro dimensione, che deve crescere attraverso e politiche fiscali d'incentivo, e agli investimenti in tecnologia. Sul welfare, invece, la priorità è contrastare chi vorrebbe ridurne l'area di intervento. Si tratta invece, continua D'Antoni, di combattere la crescita della diseguaglianza e di supportare l'occupazione femminile e giovanile. Non è vero che non c'è flessibilità in entrata e in uscita. Lo ha spiegato Michele Raitano facendo riferimento ai dati Inps.

Repubblica 25.1.13
Vince il centrosinistra, il Pdl non rimonta: a un mese dal voto 12 punti di distacco
Sondaggio Demos: 30% di incerti, molti di loro nel 2008 con Berlusconi. Pd primo partito: al Senato sfiora il 35%. Cavaliere a quota 18, Monti al 16, Grillo al 13. Ingroia supera la soglia del 4%. Per l'ex premier il competitore più insidioso è il suo successore che lo "confina" a destra 

di Ilvo Diamanti
qui

La Stampa 25.1.13
La proiezione. La distrbuzione dei seggi
Tra un mese si vota: ecco come potrebbe essere il Parlamento
Sondaggio dell’Istituto Piepoli per La Stampa in ogni circoscrizione. Alla Camera vince il centrosinistra Ma il centrodestra prende Lombardia, Veneto e Sicilia al Senato. Per governare Bersani ha bisogno di Monti
di Marco Castelnuovo


Le tabelle qui

http://www.scribd.com/doc/122126525/TABELLE-PIEPOLI-PER-LA-STAMPA

Manca esattamente un mese al voto. Il 25 febbraio sapremo chi ha vinto le elezioni. Non sapremo però, se sarà in grado di governare. La fotografia scattata a trenta giorni dal voto dall’Istituto Piepoli per La Stampa è chiara: Pd e Sel vincono agevolmente alla Camera dei deputati, ma non al Senato. Per avere la maggioranza a Palazzo Madama, dovranno allearsi con il centro.
Il sondaggio non si ferma alle percentuali, né al livello nazionale. Calato in ogni circoscrizione della Camera e in ogni Regione per il Senato, calcola l’esatto numero di seggi che ogni partito guadagnerà. Ovviamente manca un mese, quindi i numeri potrebbero cambiare, ma oggi la situazione sembra consolidata. Ampia maggioranza alla Camera per la coalizione che sostiene Bersani, che però non sarà autosufficiente al Senato. Una coalizione che oltre a Pd e Sel si apra al centro, invece, avrebbe ampi numeri per governare il Paese. Ben 181 seggi, contro i 168 che aveva la maggioranza Pdl-Lega nel 2008. Ma ha ragione Bersani a dire che non lascerebbe Vendola per Monti. Al Senato una coalizione Pd-Lista Monti avrebbe la maggioranza assoluta, ma per solo un seggio. Troppo fragile per poter governare.
Il senato bloccato Prima di analizzare i numeri, una premessa: la legge elettorale in vigore, il famigerato Porcellum, dà un premio di maggioranza pari al 55% dei seggi, qualunque sia la percentuale dei voti raccolti, alla coalizione che prende più voti a livello nazionale. Al Senato invece il premio di maggioranza è regionale. Viene premiata con un surplus di seggi cioè, la coalizione che in ogni singola regione prende più voti. Le regioni più popolose danno un numero maggiore di seggi, ovviamente. La Lombardia è quella che ne dà di più, 49 senatori, ed è per questo che è definita l’Ohio d’Italia. Difficile governare al Senato se non si vince in Lombardia. Soprattutto se le coalizioni sono più di due. Prendiamo per esempio proprio la Lombardia. Chi vince prende 27 seggi, chi perde 22. Se ci sono due coalizioni lo scarto è di soli 5 seggi, la sconfitta potrebbe anche essere accettabile. Ma se le coalizioni che superano l’8% dei voti, la soglia di sbarramento minima per accedere al riparto dei seggi, sono più di due, le cose si complicano. Perché quei 22 seggi vanno divisi tra tutti gli sconfitti. E questa volta, non solo Pd-Sel e Pdl-Lega, ma anche Scelta civica con Monti e Movimento 5 stelle superano abbondantemente l’8% in ogni regione.
I risultati Come detto il centrosinistra è la coalizione che prende più voti alla Camera. Vince perciò il premio a livello nazionale: su 617 deputati - al totale di 630 eletti vanno tolti i dodici eletti all’estero e il singolo deputato eletto con un altro sistema elettorale dalla Val d’Aosta - il Pd ne prenderebbe 284, Sel 44, il Psi 10, due per la Südtiroler Volkspartei. Totale: 340 seggi. All’opposizione finirebbero il Pdl con 86 seggi (ne prese 190 in più nel 2008), Lega 30 (la metà del 2008), 10 per Fratelli d’Italia.
Il «Movimento 5 stelle» di Beppe Grillo ottiene 50 seggi, come «Scelta civica con Monti». All’Udc andrebbero 20 deputati, al Fli 5. Dovrebbe infine riuscire a costituire grupopo autonomo, la «Rivoluzione Civile» di Ingroia che conquisterebbe 20 deputati.
Al Senato il conto è fatto su 308 eletti (esclusi i sei eletti all’estero e il senatore valdostano). Il centrosinistra vince in tutte le regioni tranne Lombardia, Veneto e Sicilia: si ferma così a 143 seggi (121 per il Pd, 18 per Sel e 4 Svp) su una maggioranza assoluta di 158 (esclusi i senatori a vita). Non può fare conto sugli eletti all’estero, né sui 3 senatori che Rivoluzione civile riuscirà a eleggere (due in Campania e uno in Sicilia). Ecco perché solo con un accordo con la Lista Monti, che dovrebbe eleggere 38 senatori, supererebbe il quorum. Il centrodestra prende nel complesso 97 senatori (67 per il Pdl, 25 alla Lega, 5 per gli altri del centrodestra) e il Movimento 5 stelle, 27.

La Stampa 25.1.13
«Le regioni-chiave resteranno a Pdl e Lega»
domande a Nicola Piepoli sondaggista
di Marco Bresolin

Professor Piepoli, la situazione è quindi la seguente: il centrosinistra dovrà allearsi a Monti per avere la maggioranza in Senato?
«Secondo i nostri sondaggi, il Pd avrà 121 seggi a Palazzo Madama. Con i 38 di Monti la maggioranza assoluta c’è, anche senza gli altri alleati di centrosinistra, come ad esempio Sel».
Impossibile uno scenario in cui Pd e Sel costituiscono una maggioranza “autonoma”?
«È alquanto improbabile che il centrosinistra riesca a farcela da solo in Senato. Dovrebbe vincere in almeno due delle tre grandi regioni in cui attualmente è in vantaggio la destra».
Lombardia, Veneto e Sicilia. È escluso un sorpasso del centrosinistra?
«Lo vedo molto difficile. Tra le tre, l’unica che forse può riservarci qualche sorpresa è la Sicilia. Come tutti gli «imperi» è imprevedibile, ma le intenzioni di voto pendono a destra».
Nelle due regioni del Nord, invece?
«Innanzitutto va detta una cosa: sono da considerare come un tutt’uno, come il Lombardo-Veneto. Difficilmente da quelle due regioni uscirà un esito diverso. E anche se lo scarto tra i due schieramenti non è molto ampio, la vittoria del centrodestra sembra ormai consolidata».
È l’effetto Lombardia?
«È l’effetto Maroni. Il segretario della Lega sta facendo una campagna di comunicazione devastante e molto efficace: con i suoi messaggi diretti, come quello sul 75% delle tasse da trattenere in Lombardia, sta arrivando dritto al cuore della gente. Con questi temi ha guadagnato un punto percentuale a livello nazionale».
La coalizione che sostiene Bersani, invece, sta perdendo consensi. Dove sono finiti quei voti?
«C’è stata una lenta discesa e i consensi sono finiti fuori dalla coalizione. Verso Ingroia, che è sul filo dello sbarramento, e verso il Movimento di Grillo. Ma nel prossimo mese non dovrebbero esserci grossi scossoni».
In compenso il Pdl è cresciuto. A svantaggio di chi?
«Il Pdl è cresciuto di tre punti in tre settimane, ma nello stesso periodo l’intero centrodestra ha registrato un aumento inferiore ai due punti, circa un punto e mezzo. Questo vuol dire che il partito di Berlusconi “ruba” voti ai suoi alleati. Ma ormai sembra aver “saturato” i suoi consensi. Difficile che cresca ulteriormente».

Corriere 25.1.13
Monti: accordi con il Pdl, senza Berlusconi
Il professore apre a destra. «Ma il partito deve essere mondato dal tappo che impedisce le riforme». «Non col Pd se prevale la sinistra»

qui

La Stampa 25.1.13
E a sinistra scatta la sindrome accerchiamento
di Marcello Sorgi


Man mano che la campagna elettorale si riscalda, il centrosinistra soffre sempre più di sindrome da accerchiamento. Dalla trincea di Nichi Vendola, ieri sono partite le prime bordate contro Ingroia, accusato di aver messo insieme liste maschiliste, in cui è davvero difficile trovare candidate donne. Ma il punto non è l’argomento scelto per attaccare, quanto il calo che Sel comincia ad avvertire consistente nei sondaggi, per l’erosione di consensi a vantaggio di «Rivoluzione civile».
Stando al sondaggio messo in onda ieri sera a «Otto e mezzo» da Lilli Gruber, la lista dell’ex pm viaggia ormai abbondantemente sopra il 5 per cento, e questo dato nazionale, unito a quello di Grillo che sta sul 16 per cento, sono tali da allarmare il centrosinistra, in cui anche il Pd accusa una leggera tendenza negativa. Dati del genere infatti rendono ardua la partita in Sicilia, una delle due regioni su cui si gioca la maggioranza al Senato, e dove, benché ineleggibile nell’isola in cui ha esercitato per anni il ruolo della pubblica accusa, Ingroia punta egualmente a raggiungere l’8 per cento dei voti, sia per eleggere senatori dalla sua lista, sia per impedire al Pd, che da ottobre è al governo della Regione, di ottenere il premio di maggioranza.
Bersani deve anche fronteggiare l’offensiva Pdl contro la foto che ha diffuso in cui appare insieme a Tabacci e a Vendola: Alfano e Gasparri accusano il leader del Pd di avere un accordo sottobanco con Monti, per cui la coalizione di centrosinistra tornerebbe a spaccarsi subito dopo il voto, lasciando fuori, come da insistente richiesta del presidente del Consiglio, la sinistra radicale, e forse anche il «centrino» di Tabacci.
La reazione bersaniana è stata a due stadi: contro il centrodestra, ma anche verso Monti, che se vorrà tentare di ricostruire un’alleanza dopo le elezioni dovrà appunto mettere in conto di collaborare con tutta intera la coalizione, e non solo con la parte Pd. Bersani continua a insistere anche sul tema degli esodati, sfidando Monti a inserire nella sua «agenda» una soluzione per il problema, con toni che certamente non faranno piacere al premier. Intanto Berlusconi è al lavoro per presentare nei prossimi giorni una nuova bozza di «contratto con gli italiani», sul modello di quello che lo portò alla vittoria nel 2001. Dopo i giorni della rimonta, il Pdl però s’è fermato. E la distanza tra centrosinistra e centrodestra rimane di sette punti a favore del primo.

l’Unità 25.1.13
Siena si scopre orfana del “babbo” e adesso è costretta a cambiare
Industriali: «Cinghia di trasmissione spezzata»
Guicciardini (Pd): «Sì all’autocritica, ma c’è chi gioca allo sfascio»
di Vladimiro Frulletti


Gli operai della Floramiata pur senza stipendio per più di tre mesi sono andati a lavorare lo stesso perché altrimenti tutte le piante si sarebbero seccate». Niccolò Guicciardini, giovanissimo (ha 28 anni) segretario della federazione del Pd di Siena cita la lotta dei lavoratori della nota azienda vivaistica del senese per spiegare che i passaggi che attendono la città e suoi cittadini non saranno né facili né indolori e che però c’è anche «voglia di reagire» e di «riprendersi il futuro». Insomma questa traversata nel deserto alla fine potrebbe anche risultare salutare. Far seccare la pianta sarebbe la fine per tutti. Anche se c’è chi per attaccare il Pd, nota Guicciardini, e per lucrare qualche «virgola di consenso in più in vista delle elezioni» non esita a puntare sullo sfascio totale. Del resto il sindaco Franco Ceccuzzi è stato fatto saltare proprio dopo aver cambiato i vertici di Mps. «Cercare di ricostruire facendo autocritica è più difficile, però è il compito che ora spetta al Pd» dice Guicciardini.
Il problema però è che come avverte il presidente degli industriali, Cesare Cecchi, «un modello di sviluppo», quello in cui Mps faceva da «solida cinghia di trasmissione», è da considerarsi chiuso. E quindi prima di tutto per Cecchi ci vuole la consapevolezza che «dalla crisi non ne usciremo uguali a come ne siamo entrati». Lo stesso Monte dei Paschi sarà diverso. Meno senese. Tanto che Ceccuzzi, ricandidato dal Pd alle comunali di fine maggio dopo le primarie di domenica scorsa, non esclude che il futuro presidente della Fondazione possa essere un «non senese».
Ma al di là dei natali dei vertici di banca e Fondazione quello che sta avvenendo a Siena concretamente vuol dire che nel futuro, almeno prossimo, la città non potrà contare sui ritorni economici che fino a qualche mese le erano garantiti dall’essere capitale del terzo gruppo bancario italiano. Ma che anzi dovrà pagare dazio, sia dal punto di vista economico che d’immagine, a una cattiva gestione del suo bene più importante. Ovvio che il clima sia di forte preoccupazione e di forte rabbia. Se il Siena calcio vende Calaiò, il bomber che l’ha riportata in serie A e che l’anno scorso l’ha brillantemente salvata, non è per scelta tecnica. Ma per far cassa e risparmiare su un ingaggio pesante. Perché Mps non garantisce più la sponsorizzazione fin qui concessa (circa 8 milioni) e non può più permettersi di fare, appunto, la “cinghia di trasmissione”. E lo stesso (pur con cifre e tempi diversi) vale per la Mens Sana di basket da anni leader incontrastata (sei scudetti di fila) della pallacanestro italiana. Poco male si potrebbe dire, lo sport è importante ma non fondamentale.
Però Mps significava anche sostegno alle istituzioni, a cominciare dal Comune, e quindi risorse per servizi e welfare. E poi fondi per le associazioni, la cultura, l’università e anche le contrade del Palio. Tutto però da coniugare al passato. «Ma noi siamo quelli che ne soffriranno di menoannota Fabio Pacciani, priore della contrada del Bruco e rettore del magistrato delle contrade perché stiamo in piedi grazie ai sacrifici dei contradaioli. Ma anche per noi ci sarà da rivedere il tenore di vita. Quello che mi auguro e che da questa crisi se ne tragga anche un beneficio con tutti che tornano a fare solo il proprio mestiere: la banca che fa la banca, le contrade che fanno le contrade e il Comune che fa il Comune».
I prezzi più alti comunque rischiano di essere a carico del sistema produttivo. «È per questo che serve la massima chiarezza spiega Guicciardini che guida una segreteria dall’età media, 30 anni, bassissima per la politica italiana . C’è sdegno e rabbia non solo perché quelle scelte spregiudicate, dannose per i lavoratori e la banca, sono state tenute nascoste, ma anche perché erano l’opposto degli indirizzi politici dati dalle istituzioni». E cioè non spericolata finanza, ma credito a famiglie e imprese. «È una deriva che onestamente non mi aspettavo dice amareggiato il segretario della Cgil Claudio Guggiari. Le ultime vicende aumentano lo sconcerto anche perché Mps è fondamentale per questo territorio e spero che la nuova gestione possa farci superare questa fase». Anche perché abituata da sempre a essere in cima alle classifiche della qualità della vita, Siena sta facendo registrare pericolosi campanelli d’allarme. «Rispetto al resto della Toscana fa notare Guggiari siamo una delle poche realtà in cui aumentano tutti e tre i tipi di cassa-integrazione e di mobilità, contiamo già ora più di 2500 posti di lavoro a rischio e dei nuovi assunti solo il 6% ha un contratto a tempo indeterminato». Cioè il connubio fra la crisi generale e quella specifica di Mps potrebbe anche essere esplosivo soprattutto per una realtà che non è allenata a tirare la cinghia mettendo a rischio quella coesione sociale e civica che fin qui ha retto anche grazie alle risorse di Mps. «Al momento stiamo tenendo. La capacità di risparmio delle famiglia rimane alta. Ci sono ancora tanti pensionati che aiutano con le loro pensioni. Certo è che se la crisi continuerà per molto anche Siena sarà a rischio» dice Guggiari.

l’Unità 25.1.13
Enrico Rossi
Il presidente della Toscana: «Sinistra a lungo subalterna su questi temi. Nel Pd c’è stata
una battaglia su Mps, ora il rinnovamento»
«Niente ipocrisie, risposte politiche ai nodi del credito»
di Osvaldo Sabato


La bufera che si è abbattuta sul Monte dei Paschi per lo scandalo dei derivati ha fatto irruzione nel dibattito politico. Naturalmente il Pdl e Ingroia hanno subito accusato il Pd, con i democratici che si dichiarano estranei alla vicenda. «Non si può entrare nel tritacarne della campagna elettorale su materie così delicate» avverte Enrico Rossi. Per il presidente della Toscana «si sbaglia a farne un caso e a strumentalizzarlo politicamente. Questo non solo è un errore, produce un danno ad una grande azienda e all’economia di un’intera regione».
Presidente questa è una crisi che parte da lontano?
«Con la liberalizzazione della finanza c’è stato uno spostamento dell’attenzione delle banche dalle famiglie e dalle imprese verso il commercio finanziario internazionale, pieno zeppo di titoli tossici derivati, tutto questo ha coinvolto tutti, compreso il Monte dei Paschi».
Il pericolo dei titoli tossici era noto tanto da spingere l’Europa a mettere a disposizione delle banche 4 mila miliardi per evitarne il crack.
«E il doppio negli Stati Uniti. Quando poi si legge che ancora continuano gli scambi dei titoli tossici ce da rabbrividire».
Sul piano politico si sollecita una sorta di autocritica del Pd.
«Semmai è la sinistra in generale che per troppo tempo è stata culturalmente succube di fronte a tutto ciò. Quindi di questo è bene che la politica se ne occupi. Se facevano cose poco chiare nel consiglio di amministrazione di Siena, doveva controllare il Pd? C’erano ben altri organi. Guai a cadere in un provincialismo tutto italiano, in una strumentalizzazione che sarebbe davvero penosa. Forse però conviene riflettere che con la legge Amato del ‘95 il carattere locale ha finito per avere un dominio pressochè assoluto e forse nel tempo sono emersi elementi di inadeguatezza e di chiusura. Quanto alla managerialità della banca, anche qui la discussione è tutta politica, perché non ci dobbiamo dimenticare che la Lehman Brothers è saltata e non certo per colpa della politica».
A Siena però il legame della politica e delle istituzioni con la banca è molto forte.
«E deve essere discusso, forse si possono trovare delle soluzioni diverse. Ribadisco la politica deve discutere su come tracciare un confine fra se stessa e la gestione, ma deve farsi avanti ancora di più sulle regole. E se posso permettermi: deve dare risposte anche in campagna elettorale su un tema cruciale dell’economia, che è appunto il tema del credito, se non lo si fa prima di tutto alle imprese è molto difficile che l’economia possa riprendersi».
Tutti argomenti che secondo lei dovranno entrare con forza nella prossima agenda di governo?
«Bisogna che questi temi ci siano. È necessario fissare delle regole a livello internazionale e su come si discute dei rapporti fra le fondazioni bancarie e le dimensioni locali e le banche stesse. Bisogna creare un canale per indirizzare il risparmio del territorio sullo stesso territorio».
Ora tutti se la prendono con Mussari e anche la Banca d’Italia dice che sui derivati è stata ingannata. Secondo lei ha delle responsabilità dirette? «Toccherà a qualcuno accertarle». Lei però ha detto che se ce l’ha dovrebbe risponderne.
«Saranno accertate, lui dovrà dare delle spiegazioni. Io noto soltanto che con tutte le strumentalizzazioni che si fanno, l’ex sindaco Ceccuzzi si è fatto promotore di un rinnovamento, credo che il nuovo corso stia dando già i primi risultati, attenzione a non colpire con le strumentalizzazioni un’azienda finanziaria che invece stava uscendo, grazie allo spread, ad una parziale riacquistata credibilità rispetto alle ambasce nelle quali si trovava». Ceccuzzi alla fine ne ha pagato le conseguenze per aver voluto dei cambiamenti.
«Questo sembra».
Sul Monte dei Paschi gli hanno fatto la guerra anche da dentro lo stesso Pd. «C’è stata sicuramente una battaglia anche dentro il Pd. Io mi sono espresso spesso sulla necessità di un cambiamento ai vertici e mi pare che ci sia qualche primo risultato».

La Stampa 25.1.13
Credito, cultura, Tav Addio Toscana felix
Gli scandali travolgono classe dirigente e modello di governo
di Gianluca Paolucci


«Se mi dice se queste vicende abbiamo una ripercussione per la regione sì, se mi parla di crisi di un modello le rispondo di no». Vannino Chiti, vicepresidente del Senato, taglia corto sulla prospettiva di una crisi che dal «modello Siena» venga estesa al «modello Toscana».
«Sono tutte vicende scollegate tra loro, non credo possano essere assimilate». Franco Ceccuzzi, da politico navigato, svicola la domanda sulle tante, troppe crisi che tutte insieme hanno colpito la ex Toscana felix. Ma se l’ex sindaco di Siena - oltre che ex parlamentare ed ex segretario provinciale dei Ds - ci tiene a chiarire che ogni vicenda fa storia a sé, non si può non notare che l’elenco di guai e pasticci sta diventando ormai piuttosto lungo. Oltre a Siena e al Monte dei Paschi, a distanza di pochi giorni due belle grane sono scoppiate nel capoluogo regionale. Mercoledì, mentre nella città del Palio deflagrava il bubbone dei derivati, a sessanta chilometri di distanza, a Firenze, il ministero dei beni culturali decideva di commissariare il Maggio Fiorentino, una delle più prestigiose istituzioni culturali della città. Motivo: gravi irregolarità gestionali, un perdita patrimoniale milionaria e la mancata ricapitalizzazione. Secondo i calcoli del ministero, tra il 2008 e il 2011 la perdita è stata di 14,5 milioni, più altri tre milioni nel 2011, più ulteriori tre milioni previsti per il 2012. La vicenda coinvolge direttamente la giunta Renzi, che dal 2010 ha promosso ha più riprese interventi sul capitale del Maggio mai realizzati. A perdere il posto è invece la Sovraintendente del Maggio, Francesca Colombo. Difesa dal Maestro Zubin Mehta, che da 27 anni dirige l’orchestra del Maggio, la Colombo lascia il posto con una serie di dichiarazioni spiazzanti, tira in ballo la politica e dichiara che la sua vicenda è paragonabile all’acido tirato in faccia al direttore del Bolshoi.
Il 17 gennaio scorso, in mattinata, le agenzie battevano la notizia di una maxi-inchiesta della procura fiorentina sui lavori per consentire l’attraversamento della città alla linea ferroviaria ad alta velocità. Oltre 30 indagati, una trentina di perquisizioni in tutta Italia, ipotesi di reato di truffa alla pubblica amministrazione, corruzione e smaltimento abusivo dei rifiuti. La trivella che doveva realizzare il tunnel per superare la città è sotto sequestro, il presidente della Regione Enrico Rossi promette richieste di risarcimento, ma intanto c’è di certo che nel consorzio che dovrebbe realizzare l’opera c’è la Coopsette di Reggio Emilia, colosso delle Coop rosse. Tanto basta - e avanza per scatenare le opposizioni sul caso. Tra gli indagati finisce anche Anna Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria passata alla presidenza di Italferr, altra società coinvolta che però sarebbe parte lesa.
Tornando a Siena, ieri si è tenuta l’udienza preliminare per l’inchiesta sulla privatizzazione dell’aeroporto di Ampugnano, rinviata a marzo: anche qui Giuseppe Mussari è indagato. Opera di non strettissima necessità: si sarebbe trattato del terzo aeroporto commerciale della regione. Da oggi è chiuso: niente più voli privati, turistici o per le emergenze sanitarie, le uniche attività del piccolo scalo attuale. Sempre a Siena, altra grossa grana è quella dell’Università. Per anni regno incontrastato di Luigi Berlinguer, che è stato rettore dal 1985 al 1994, l’Università di Siena si trova con buco di 200 milioni. Anche qui un’inchiesta in corso. A rifiutare l’assimilazione delle vicende senesi e fiorentine è anche Alessia Pedraglia, una lunga militanza nell’Arci toscano e attuale capolista di Sel in regione per le prossime politiche. «A parte i soldi che anche il Maggio riceveva dalla Fondazione Mps, e che comunque erano poca cosa, non vedo altri collegamenti», dice la Pedraglio.
«Se mi chiede se dentro la crisi di un modello di sviluppo debbano essere anche ripensati i modelli di riferimento locali le rispondo che sì, devono essere ripensati. Non possono essere gli stessi di quando io ero governatore della Regione», dice ancora Chiti. «Altra cosa è leggere con un’unica lente questa situazione. Vede, il problema vero del Monte è che c’è stato un “modello Siena”, quello sì, che è stato abbracciato da tutti, indipendemente dal colore. Da presidente di Regione ho perso battaglie su questo». Il clima da campagna elettorale non facilita la linea di difesa però. «No, lezioni da Tremonti no davvero: a pensare ad un controllo più forte sulle banche e su Bankitalia è stato lui, non noi. Quindi lezioni non ne accettiamo, né da lui nè da Pdl e Lega».

il Fatto 25.1.13
Il voto e il Monte
di Antonio Padellaro


La notizia, bisogna dirlo, l’ha pubblicata il Fatto”, disse Vespa, felice come chi si appresta a subire l’estrazione di un molare senza anestesia. Si parlava dell’allegra combriccola del Montepaschi che aveva fatto sparire 500 milioni (e chissà quanti altri ancora) nel buco nero della banca rossa, e sulla candida poltrona la candidata pd Moretti fu inquadrata mentre, rapita, fissava un punto imprecisato all’orizzonte. Il nero-crinito Lupi respirò gratitudine per gli uomini del Monte che avrebbero distratto gli elettori dai Cosentino e dalle altre ignominie pdl. E il montiano Olivero non seppe se rallegrarsi per l’imprevisto inciampo che poteva frenare il nemico e futuro amico Bersani oppure dolersene. Mercoledì sera non soltanto nello studio di Porta a Porta spuntavano lunghe e vaporose code di paglia. Massimo D’Alema incautamente disse: “Il presidente del Monte lo abbiamo cambiato noi”. Come se non si sapesse che a Siena non si muove foglia che il Pd non voglia. A Berlusconi spuntò un’affettuosa lacrima nel ricordare certi prestiti agevolati. Reduce dall’applauso miliardario di Davos il premier Monti lanciò un monito affinché “nessuno si facesse venire fantasie elettorali” sulla vicenda, e subito tutti si chiesero quali “fantasie” potessero riguardarlo. Passare alla storia come il premier del governo dei banchieri non sarà certo piacevole, ma se il sistema creditizio italiano oltre a divenire ostaggio di una finanza opaca e massonica, oltre ad aver succhiato immense risorse dalle tasche degli italiani, oltre ad aver maltrattato imprese e clienti oggi si mostra come un verminaio di interessi inconfessabili di chi è la colpa? Solo di quel Giuseppe Mussari che il Pd non può aver licenziato se prima non lo avesse arruolato? E la lobby dei banchieri che lo ha voluto al vertice dell’Abi? E la Banca d’Italia che non si era accorta di nulla? E intanto il ministro dell’Economia Grilli di cosa si occupava, del suo bell’appartamento ai Pario-li? Pagheranno sempre e solo i risparmiatori? Tra un mese si vota e sarà l’occasione più propizia che gli italiani avranno per regolare i conti con chi li ha truffati. Altro che fantasie elettorali, presidente Monti, queste sono solide realtà.

il Fatto 25.1.13
Il regalo alla Fondazione: 20 milioni da Mussari
Ecco perché l’ex presidente aggiustava i bilanci:
doveva garantire un vividendo all’azionista. Cioé alla politica
di Marco Lillo


C’erano più di 20 milioni di ragioni per truccare i conti di Monte Paschi di Siena nel 2009. Grazie al contratto segreto con Nomura, rimasto nella cassaforte per tre anni e mezzo, trovato solo il 10 ottobre 2012 e svelato dal Fatto, l’ex presidente Giuseppe Mussari ha permesso al suo grande socio legato alla politica e al Pd, la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, di “guadagnare” più di 20 milioni di euro tra mancato esborso e maggiore incasso di interessi sull’operazione F.R.E.S.H. ( Floating Rate Equity-linked Subordinated Hybrid Preferred Securities, strumenti finanziari convertibili in azioni ordinarie del Montepasch). Un prestito ibrido creato per scalare l’Antonveneta nel 2008.
La grande scalata
Gira e rigira si torna sempre lì al peccato originale. Per sostenere quell’operazione di acquisto a un prezzo folle di una banca con molti problemi, il sistema senese si è messo nei guai. Il F.R.E.S.H. era un problema per la Fondazione, che si era indebitata per sostenere Mussari. E Mussari potrebbe avere tolto le castagne dal fuoco al suo grande socio quando rischiava di vedere sparire all’improvviso dal bilancio più di 20 milioni di euro. Grazie al trucco contabile di Mussari invece la Fondazione anche nel 2010 (il F.R.E.S.H. pagava le cedole nell’anno successivo a quello del tarocco del bilancio) ha potuto disporre di una ventina di milioni di euro per finanziare i tanti progetti e associazioni dipendono dalla grande mammella di Siena.
Il trucco nel bilancio non ha prodotto solo l’effetto di permettere al direttore generale Antonio Vigni, quello che ha firmato il contratto segreto con Nomura poi trovato nella sua cassaforte, di incassare 800 mi-la euro di bonus nel 2010, grazie al bilancio chiuso in attivo a dicembre 2009. Quel bilancio taroccato ha permesso un guadagno ben maggiore alla Fondazione: è proprio il F.R.E.S.H. la pista più calda sulla quale sta lavorando la Procura di Siena. Grazie ai documenti e alle telefonate acquisiti nelle settimane scorse dalla Guardia di Finanza, sembra ormai scontata l’ipotesi di partenza dell’accusa nell’indagine sulle carte svelate dal Fatto: falso in bilancio e ostacolo all’attività di vigilanza per la mancata rappresentazione nella contabilità prima e poi nelle comunicazioni a Bankitalia delle perdite del derivato Alexandria nel 2009.
La cedola benedetta
Il falso in bilancio di Mps però potrebbe essere stato solo un mezzo per realizzare un finepiù importante per la politica senese: la distribuzione di una cedola su un titolo acquistato dalla Fondazione del Monte dei Paschi, saldamente nelle mani di Provincia e Comune, entrambi a guida PD. Proprio il F.R.E.S.H. e i redditi che superavano i 20 milioni di euro e che rischiavano di saltare, potrebbero essere stati insomma il movente del trucco contabile messo in piedi da Mussari e Vigni.
Se Mussari non avesse creato l’operazione con Nomura, infatti, a restare con il cerino in mano sarebbe stata la Fondazione alla quale lui stesso un anno prima aveva chiesto il sacrificio di finanziare la scalata della sua vita.
La grande scalata
Tutto inizia con l’acquisto da parte di MPS della Banca Antonveneta nel 2008 per 10 miliardi di euro. La madre di tutte le acquisizioni fallite è possibile grazie anche a un miliardo di euro provenienti da un prestito obbligazionario ibrido che viene sottoscritto per 490 milioni dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena diretta da Gabriello Mancini. Quel prestito F.R.E.S.H. è ibrido perché da un lato non garantisce utili a chi lo compra in caso di cattivo andamento della società sottostante, cioè il Monte dei Paschi di Siena, e dall’altro al termine è una doppia incognita perché si converte in azioni. F.R.E.S.H. viene emesso da Jp Morgan e finanziato da due banche, Mediobanca e Credit Suisse. La Fondazione Mps lo sottoscrive permettendo a Mussari di realizzare i suoi sogni di grandezza. Il resto viene sottoscritto da altre fondazioni, coinvolte da Mancini, come egli stesso si vanterà negli anni seguenti.
Per sottoscrivere il prestito obbligazionario la Fondazione si obbliga a pagare alle due banche che la finanziano, Medio-banca e Credit Suisse, un tasso pari all’Euribor più 2,7 per cento. Mentre dall’altro lato riceverà ogni anno (con scadenza trimestrale) una cedola maggiore: euribor più 4,2 per cento. In pratica il rendimento per la Fondazione Mps è dato dalla differenza tra l’interesse passivo pagato a Mediobanca e Credit Suisse e quello attivo ottenuto dall’emittente. Il differenziale è pari all’uno e mezzo per cento. Questo è il reale guadagno annuo sul F.R.E.S.H. anche se i quotidiani finanziari hanno parlato di 10 per cento. Il 10 per cento è il tasso garantito dall’Euribor del 2008 (al momento della sottoscrizione il tasso variabile era molto alto) più il 4,2 per cento di spread garantito alla Fondazione. Ma a questo guadagno bisognava sottrarre già nel 2008 il costo del finanziamento (pari a circa l’8 per cento) per cui l’interesse reale della cedola è sempre stato di un punto e mezzo.
Il pericolo da evitare nel 2010
Grazie al differenziale dei due tassi nel 2009 la Fondazione Monte dei Paschi per esempio ha incassato interessi correnti per 13 milioni e 860 mila euro. Nel 2010 però questo flusso si sarebbe interrotto. Il F.R.E.S.H. infatti prevede una condizione: paga la cedola solo se il Monte dei Baschi distribuisce utili. Se Mps quell’anno avesse chiuso in perdita, la Fondazione non avrebbe incassato la cedola di circa 7 milioni di euro (più bassa dell’anno precedente per via della discesa dell’Euribor) e avrebbe pagato invece l’interesse alle due banche sul prestito, per circa 14 milioni di euro. Quindi, tra mancato introito e pagamento di interessi, il saldo dell’operazione effettuata sul bilancio da Mussari è stato positivo per poco più di 20 milioni di euro.
Lo stesso ragionamento va applicato al resto del prestito F.R.E.S.H., cioé agli altri 510 milioni di euro, sottoscritti da Fondazioni ma anche da ignoti investitori privati. Sull’identità dei quali a Siena si fanno ipotesi fantasiose. Comunque l’allora presidente della Fondazione Mps, Gabriello Mancini, spiegava così l’operazione agli scettici: “Le modalità tecniche di adesione all’aumento di capitale 2008 furono note solo in prossimità dell’aumento di capitale ”, cioè a sorpresa, “e furono fortemente volute e avallate da tutti gli stakeholder della Fondazione che mai lasciarono spazi per un’eventuale diluzione”

Corriere 25.1.13
Vincenzo Visco
«Siena era una cosa a sé Il Pd non governava la banca»
di Mario Sensini


ROMA — «Il Monte dei Paschi non è un problema del Pd. È un problema di Siena. E l'unico a provare a far qualcosa, a scardinare e correggere i guasti di questa commistione tra società civile, politica e la banca, sono stato io quando da ministro commissariai la Fondazione per costringerla a modificare lo Statuto. E poi firmai il decreto per impedire al presidente della Fondazione, Pierluigi Piccini, di diventare presidente della banca» racconta Vincenzo Visco. «A Siena — ricorda l'ex ministro del Tesoro — ci ho potuto rimettere piede solo cinque anni dopo. Fui attaccato in modo durissimo, anche dal senatore di Siena del partito, Franco Bassanini, con il quale da allora i rapporti sono piuttosto freddini...».
Ma già questo non dimostra un rapporto perverso tra Pd e Monte dei Paschi?
«Era senatore di Siena, lo ripeto. E Siena era speciale. Quando le banche erano ancora pubbliche, e le nomine le facevano i partiti al Tesoro, si teneva conto di questo. Ma la direzione centrale del partito non ha mai espresso i vertici dell'Istituto, tranne in un'occasione, con la nomina di Luigi Spaventa».
Tanto il Comune e la Provincia, da sessant'anni in mano alla sinistra, facevano il bello ed il cattivo tempo in banca.
«E noi a Roma lavoravamo per spezzare questo pericolosissimo legame».
Senza riuscirci.
«Sul momento riuscimmo a impedire l'operazione Piccini, che era clamorosa. E la direzione centrale non si è mai stancata di criticare la gestione dei senesi. Anche Luigi Berlinguer, che abitava e insegnava a Siena, è sempre stato ferocemente all'opposizione sul modo di gestire la banca, tanto che lui non è mai stato eletto a Siena, ma altrove».
Poi cosa è successo?
«Poi perdemmo le elezioni, cambiò il governo, la città nominò Giuseppe Mussari alla guida della Fondazione...»
E tutto tornò come prima.
«Molto peggio! Perché Mussari di lì a poco passò dalla Fondazione alla Banca, in una situazione di evidente conflitto di interesse. Sono sicuro che se ci fosse stato ancora Mario Draghi al ministero del Tesoro, quell'operazione non sarebbe stata accettata, non sarebbe passata».
Mussari è pur sempre un iscritto al partito...
«Mah. Per la verità io ho anche potuto verificare che Mussari ha un ottimo rapporto con l'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. Ma poi, mi creda, quando ci sono in ballo queste cose qui, certe operazioni, le appartenenze politiche diventano quasi sempre molto, molto lasche».
È un caso che i guai della banca vengano fuori adesso, che c'è un management indipendente?
«Tutt'altro. Questi manager sono stati mandati lì apposta dal sindaco Sandro Ceccuzzi, per fare chiarezza e pulizia sui conti dell'Istituto. Dopodiché hanno cacciato lui, il sindaco. E ora Siena rischia di perdere pure la banca».
La crisi politica del Comune, tutta dentro la sinistra, non era la spia che qualcosa non andava?
«Secondo me sì, ma la cosa è stata sottovalutata. Questo per la banca è un altro brutto colpo, anche se dopo i Tremonti Bond per il Monte dei Paschi si poteva già parlare di salvataggio».
Il nuovo sindaco si troverà di fatto in mano il 35% delle azioni della banca. Se la piega è questa, la situazione non potrà che peggiorare...
«Bisognerebbe rimettere mano alla governance delle Fondazioni bancarie, valutare il peso degli enti locali. E occorre anche che il ministero del Tesoro, cui spetta la vigilanza sulle Fondazioni, la faccia».
Veramente il ministro del Tesoro dice che i controlli spettano alla Banca d'Italia...
«Ognuno si deve coprire. Ma Bankitalia non può sapere se i vertici dell'Istituto e Nomura fanno i contratti per telefono, registrando le conversazioni. Piuttosto, mi stupisce, e ritengo sia un problema serio, il comportamento di Nomura. Che senso ha una telefonata registrata, perché non hanno chiesto a Mussari gli atti del consiglio di amministrazione e la relazione dei revisori, che oggi sostengono di non aver mai visto?

il Fatto 25.1.13
Affari rossi
La passione per le banche che imbarazza il Pd
di Gianni Barbacetto


Il Pd “non si è mai occupato del Monte dei Paschi”, ha detto ieri Massimo D’Alema. “Il Pd non si è mai occupato e non si occupa di banche”, gli ha fatto eco Pier Luigi Bersani. Ora che il caso Mps-derivati è uscito dalle nebbie della finanza per diventare un caso politico, gli slogan devono fare i conti con la realtà. Realtà dura, come quella raccontata ai magistrati di Roma dall’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio: “A fine 2004 o nei primi mesi del 2005, Piero Fassino e Pier Luigi Bersani vennero da me per chiedere se si poteva fare una grande fusione Unipol-Bnl-Montepaschi”. È il primo atto di quel dramma italiano che ebbe come protagonisti i “furbetti del quartierino” nell’estate delle scalate ad Antonveneta e Bnl. Montepaschi, in realtà, si tirò subito fuori dalla partita: voleva Bnl, ma voleva che il controllo fosse a Siena, non a Bologna, nelle mani di Gianni Consorte, allora padre-padrone di Unipol. Così disse di no ai vertici del partito. Nel 2005 Franco Ceccuzzi, che poi diventerà sindaco di Siena, era il segretario dei Ds della città e raccontò a chi scrive di aver ricevuto telefonate e pressioni da Fassino, affinché Mps sostenesse Unipol nella scalata a Bnl. Rispose di no. E dissero di no a Fassino anche l’allora sindaco di Siena Maurizio Cenni (Ds), l’allora presidente della Provincia Fabio Ceccherini (Ds) e l’allora presidente della Fondazione Montepaschi Giuseppe Mussari.
In quell’occasione, l’interesse di campanile e l’orgoglio senese vinsero sull’obbedienza di partito. Ma quei no, paradossalmente, dimostrano il cordone ombelicale tra Siena e Roma, tra i vertici del partito che oggi si chiama Pd e la banca più antica del mondo. Chi comanda in Montepaschi? Non è difficile vederlo: è la Fondazione Mps, dall’alto del suo 34,9 per cento. E chi controlla la Fondazione? Dei 16 membri che formano la “Deputazione generale”, otto sono nominati dal Comune di Siena, cinque dalla Provincia. Vuol dire che prima i Ds e ora il Pd, che da sempre esprimono sindaco e presidente della Provincia, nominano 13 dei 16 membri: maggioranza bulgara.
CERTO, IERI D’ALEMA non ha potuto negare l’evidenza: mentre diceva che il Pd non si è mai occupato del Montepaschi, aggiungeva che “l’amministrazione comunale di Siena, certamente, essendo parte della Fondazione Monte dei Paschi, si occupa del Monte dei Paschi. È naturale che sia così, questo è il suo compito”. Anche perché con i dividendi della banca, la Fondazione nutre Siena e mantiene il consenso politico.
Bersani ribadisce: “Nessun imbarazzo per la vicenda Montepaschi”. Ma è difficile far credere che il partito (il Pci e i suoi derivati, fino al Pd) non si sia mai occupato di Mps. Lo smentisce seccamente non solo la visita di Bersani e Fassino al governatore Fazio, ma anche tutta la storia dei rapporti tra Siena e i vertici del partito, compresi i conflitti interni tra toscani, vicini al Montepaschi, ed emiliani, per lungo tempo sotto l’influenza di Consorte, di Unipol e delle coop emiliane. Del resto, anche D’Alema rivendica il ruolo (positivo e di rinnovamento) di un uomo di partito, Ceccuzzi, sebbene rivestito con la fascia tricolore di sindaco di Siena. È vero che Ceccuzzi ha chiesto la rottura con la gestione di Mussari (che era passato dal vertice della Fondazione a quello della banca), aprendo le porte di Rocca Salimbeni a un milanese, Alessandro Profumo. Ma la situazione a Siena era ormai ingovernabile, dopo che Mps aveva comprato Antonveneta. Mussari nel 2005 aveva dichiarato di non seguire Consorte nella sua avventura a debito per conquistare Bnl, perché il prezzo era troppo alto. Due anni dopo si è svenato pagando sull’unghia 9,5 miliardi di euro agli spagnoli del Santander. Poi ha tentato giochi di prestigio per nascondere i buchi che oggi vengono alla luce.
Politica e finanza, partito e istituti di credito: è un intreccio che viene da lontano, ben prima che Fassino esclamasse (sbagliando) “Abbiamo una banca”. Eppure il Montepaschi, nella sua lunghissima storia, ha visto anche interventi di altro segno. Nella massonica Siena, Mps fu negli anni Settanta una delle banche più inquinate dalla P2 (era iscritto alla loggia di Licio Gelli il direttore generale Giovanni Cresti), tanto che Silvio Berlusconi oggi non trova le parole per attaccare l’istituto: dichiara di nutrire un “affetto particolare” per Mps e di non volersi esporre “a dare un giudizio su una situazione che non conosco in tutti i particolari e che è legata a un istituto a cui voglio bene”. Certo: Berlusconi fu dal Montepaschi generosamente finanziato, come documentò la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2. E “al di là di ogni merito creditizio”, come scrisse nel 1981 il collegio dei sindaci Mps.

Corriere 25.1.13
Le colpe non viste
di Sergio Rizzo


Nessuno può chiamarsi fuori dalla vicenda che coinvolge il Monte dei Paschi di Siena.
Non il governo, e ciò vale tanto per quello passato quanto per quello ancora in carica: se nonostante la crisi devastante del 2008-2009 la bomba dei derivati rimane innescata, come sanno bene anche i tanti enti locali che hanno rischiato di rimetterci l'osso del collo, è perché non si sono prese le contromisure necessarie.
Non la Consob: che dovrebbe sorvegliare i mercati tutelando i risparmiatori, ma spesso si addormenta. Non la Banca d'Italia: alla quale spetta il compito di vigilare sulle banche e non vede sempre tutto, anche se va precisato che l'istituto di via Nazionale non ha poteri di polizia giudiziaria.
Non il sistema bancario, cui il terremoto finanziario sembra non aver insegnato niente: i rubinetti del credito verso le imprese sono ben chiusi mentre la macchina della finanza creativa ha ripreso a girare a pieno ritmo.
Meno che mai i politici, soprattutto quelli senesi, possono dire: io non c'entro.
Ma il fatto che siano tutti in una certa misura responsabili, e in un sistema finanziario sempre più integrato vanno chiamate in causa probabilmente anche le carenze europee, non può significare che nessuno è responsabile. Tutt'altro.
Questa vicenda non può essere archiviata come uno dei tanti incidenti di percorso del nostro sgangherato sistema finanziario. Né le dimissioni di Mussari dall'Abi possono essere considerate una sanzione sufficiente.
Non fosse che per un motivo. Dev'essere ricordato come, ancor prima che saltasse fuori lo scandalo dei derivati, per tirare fuori la banca dai guai causati da una serie di errori della sua precedente gestione, il contribuente ha versato nelle casse del Monte 3,9 miliardi. Per quanto le polemiche elettorali sollevate da chi ha accusato il governo di aver introdotto l'Imu per salvare «la banca del Pd» siano del tutto prive di fondamento, considerando che su quel prestito l'istituto paga al Tesoro un interesse del 9 per cento, e non c'è investimento sicuro che renda una simile cifra, si tratta pur sempre di soldi pubblici.
E non può assolutamente passare il messaggio che con i soldi dei contribuenti, sia pure pagati a caro prezzo, le banche possono tappare i buchi di speculazioni finanziarie sbagliate. Se poi si scoprisse che mentre il Monte era allo stremo alcuni soggetti avessero continuato a godere di un trattamento di favore, con conti correnti a reddito elevato e garantito, sarebbe gravissimo.
Ecco perché siamo convinti che il governo non si possa limitare a gettare la palla nel campo di qualcun altro, come ha fatto ieri il ministro del Tesoro Vittorio Grilli puntando il dito contro la Banca d'Italia. Mario Monti, che si candida a rimanere a palazzo Chigi, non può ignorare che questa storia coincide con il debutto della vigilanza europea sulle grandi banche, e per l'Italia non è davvero un bel viatico. Da lui ci aspettiamo una presa di posizione risoluta, come premier ancora in carica.
Certo fa sorridere che il primo fra i suoi sostenitori a sollecitare «chiarezza» sulla vicenda chiedendo a ognuno «di assumersi le proprie responsabilità politiche» sia stato Alfredo Monaci. Ovvero, un tipico esponente della classe politica locale che per anni ha retto Mussari e che ora è candidato della lista Monti in Toscana. Presidente della Mps immobiliare e dirigente del Monte, è il fratello minore di Alberto Monaci: a sua volta ex dipendente della banca, ex deputato dc, oggi presidente (democratico) del Consiglio regionale toscano. Monaci senior già vedeva come il fumo negli occhi lo sbarco a Siena di Alessandro Profumo. Ma dopo che è sfumata la vicepresidenza per suo fratello Alfredo è scoppiata una guerra interna al Pd che ha fatto saltare per aria la giunta comunale. Questa poco edificante lotta di potere contribuisce a far capire perché siamo arrivati qui. Il fatto è che il Monte è un formidabile strumento di welfare cittadino. Finanzia il Comune, la squadra di calcio, quella di basket, gli stessi cittadini. A Siena dà lavoro a circa 5 mila persone: quasi il 10 per cento dell'intera popolazione. Per non parlare delle decine di poltrone nei consigli di amministrazione. Nonché del fiume di denaro che attraverso la fondazione si è riversato, anno dopo anno, nel territorio circostante. Intendiamoci, questo non è un problema limitato alla sola Siena: sono le scorie della vecchia riforma che ha fatto nascere in tutta Italia le fondazioni bancarie dalle ceneri delle vecchie banche pubbliche. Sarebbe anche ingiusto negare che i contributi del Monte abbiano messo in moto iniziative di pregio, come la realizzazione di strutture sanitarie d'eccellenza e di centri di ricerca all'avanguardia. Ma è chiaro che adesso Siena e la sua banca sono a un bivio. Paradossalmente, dunque, questo scandalo dei derivati offre un'occasione da non perdere per cambiare registro. A tutti: al Monte, al sistema bancario, agli organi di vigilanza. E alla politica. Sempre che la sappiano (e la vogliano) cogliere.

Corriere 25.1.13
Dall'Università al Palio, fino al basket
La Rocca cede e la città traballa Siena e il «legame inscindibile tra la politica e la finanza»
di Marco Imarisio


SIENA — «Avvoltoi». La signora agita in aria la tazzina del caffè come fosse una spada. L'epiteto è rivolto a un gruppo di giornalisti che al banco del caffè Nannini dipingono scenari sul futuro del Monte dei Paschi e su quello della città, che poi è la stessa cosa. «Non potete farlo, voi non siete di qui». I forestieri sono sempre individuati come nemici, ma almeno i criteri che definiscono l'identità locale hanno l'indubbio pregio di una rigida semplicità. Tutto ciò che non è Siena, semplicemente non è Siena, oltre alla Storia lo dice anche un proverbio.
Bisogna partire da questa innata tendenza all'autarchia, da un riflesso pavloviano che si perpetua nei secoli, per capire le paure e i cedimenti di una delle città più belle d'Italia, che negli ultimi anni ha scordato di essere un borgo da cinquantamila abitanti appena. La memoria non c'entra nulla. Siena ha solo ripetuto quel che fa da sempre. Seguire, anzi farsi portare dalla banca, causa unica e primaria della sua vocazione solitaria.
C'è una logica, quella di sempre. Perché aprirsi all'esterno quando Babbo Monte vede e provvede, quando la sua Fondazione irrora con milioni di Euro la città e i suoi meravigliosi dintorni? «Non esiste collezione, biblioteca, ricovero o collegio che nei secoli non sia stato foraggiato dal Monte». L'ex sindaco intellettuale Roberto Barzanti passa le sue giornate negli archivi, ma ha il dono della sintesi. «Il nostro destino comune non si spiega con la cronaca, ma con la storia».
La teca di cristallo che proteggeva Siena si è rotta. Le crepe erano visibili da anni, ma in tanti hanno fatto finta di niente. Quando il più forte si ammala, il contagio si diffonde in fretta, mancano anticorpi che nessuno ha mai neppure provato ad immaginare. Dal 1996 al 2010, ultimo anno felice, la Fondazione del Monte dei Paschi ha erogato finanziamenti diretti e indiretti per 5,9 miliardi di Euro, pari al sette per cento del Pil provinciale annuo, percentuale che raddoppia se si resta nella cinta daziaria della città.
La «marcata connotazione territoriale» che i manuali economici attribuiscono al Monte è un gentile eufemismo, che diventa trappola quando finisce il tempo dell'abbondanza. Ogni cosa sta sfiorendo, dicono i pensionati che girano intorno a Rocca Salimbeni, fortezza economica che da cinque secoli domina e incombe sulla città. Nessun simbolo è immune. L'omonima squadra di basket, orgoglio sportivo cittadino in quanto indigena in ogni posizione societaria, ha ridotto del cinquanta per cento budget e ambizioni, naviga a mezza classifica nel campionato nazionale dopo averlo dominato per sei stagioni consecutive. Il Siena calcio è malinconicamente ultimo, vicino sia alla retrocessione che a un futuro gramo: Mps non rinnoverà la sponsorizzazione da 8,5 milioni.
L'inverno di Babbo Monte non risparmia neppure il Palio, la creatura più amata. Ogni contrada dovrà rinunciare all'obolo annuale. Erano solo 225 mila Euro in tutto, ma di tutti i tagli questo è il più simbolico perché riguarda un bene protetto e inalienabile che con la sua esistenza definisce l'identità cittadina. «Ma certo, siamo in un cono d'ombra» dice Emilio Giannelli, avvocato ex direttore generale della Fondazione che i lettori del Corriere conoscono da anni per le sue quotidiane vignette in prima pagina. «Se vogliamo usare lo sport come metafora, questo declassamento è il risultato di anni trascorsi vivendo al di sopra delle proprie possibilità».
Ma i segni del declino sono ovunque, dice un malinconico Giannelli. Nelle librerie che chiudono a raffica, sette nel 2012, in una stasi culturale ormai prolungata e in turismo che ormai si è consegnato al mordi e fuggi, alla visita guidata di poche ore con i torpedoni in sosta oraria. Il contagio non ha risparmiato l'università, unica vera istituzione cittadina alternativa. L'inchiesta giudiziaria seguita alla scoperta di un buco da 200 milioni nelle casse dell'ateneo ha rivelato usi e costumi dolorosi, da magliari più che da accademici. L'azzeramento dei contributo della Fondazione, che fino al 2008 ammontavano a dieci milioni, non è certo la causa principale di una gestione dissennata.
I soldi c'erano, ma venivano spesi anche per l'acquisto di 360 chili di aragoste e polipi, che la Procura ha definito «materiale non pertinente» facendo sfoggio di una certa vena ironica. Angelo Riccaboni, il rettore chiamato a riparare il danno di portafoglio e d'immagine, è obbligato all'ottimismo. «La mia è una eredità pesante, come quella che questa nuova bufera lascerà sulla città. Ma forse ne può nascere del bene. Forse è davvero finito il tempo della nostra boriosa autosufficienza. Adesso siamo davvero obbligati ad aprirci all'esterno».
Il coraggio della sincerità viene più facile da una certa distanza. «A Siena non c'è mai stata distinzione tra finanza e politica. Il vero torto di Mussari e degli attuali amministratori cittadini è di aver costruito un sistema di potere che non funziona». Pierluigi Piccini sa di cosa parla. Anche lui è stato sindaco, prima di concludere la sua carriera lavorativa in Francia, da vicedirettore di Mps Banque. Dal 1983 al maggio 2011 tutti i primi cittadini senesi vengono dal sindacato del Monte dei Paschi, e terminato il loro mandato sono rientrati in azienda.
Quasi vent'anni, nel segno di una rivendicata autarchia. Il mondo andava verso la globalizzazione spinta, mentre Siena restava immobile. Adesso è cominciata la corsa a precisare, prendere le distanze, ostentare ignoranza su quel che tutti sapevano. Ha ragione la signora del bar Nannini. Sulla città e sul suo inverno volteggiano gli avvoltoi. Non necessariamente giornalisti.
Marco Imarisio

Repubblica 25.1.13
“È un dramma, ci hanno tradito tutti” la città si risveglia mortificata travolto il “groviglio armonioso” di Siena
E il centrosinistra locale implode tra colpi bassi e vendette
di Roberto Mania


SIENA NEL 2001 Ceccuzzi è stato testimone di nozze del banchiere calabro-senese che ha nascosto in cassaforte il patto perverso con i giapponesi di Nomura per la gestione del derivato Alexandria. Quel patto che fa tremare Siena la “rossa”. Che fa crollare il Muro del Monte. Che ha rotto la tranquillità di una provincia chiusa, ricca e orgogliosa, diventata negli anni un «groviglio armonioso», ossimoro, inventato da Stefano Bisi, massone di primo piano e direttore del Corriere di Siena, che è stato davvero la fotografia di questa città. Quel patto — ancora — che si insinua proprio come un “derivato” dentro la politica locale e non solo. Ceccuzzi è il primo che ha chiesto «discontinuità» rispetto alla pluriennale gestione di Mussari (cinque anni alla Fondazione, e quasi sei a Rocca Salimbeni). Anche per questo è saltata l’estate scorsa la giunta comunale. Sette consiglieri della maggioranza hanno bocciato il bilancio, come rappresaglia per essere stati estromessi dalla definizione della lista del Comune per il cda della banca. Ora a piazza del Campo c’è il commissario.
Perché questa è una storia anche di tradimenti. Questa è una città tradita. Tradita dal “Babbo Monte” che irrorava, narcotizzandolo, il territorio con centinaia di milioni l’anno attraverso il bancomat della Fondazione e ora denuncia più di quattromila lavoratori in eccedenza con una perdita in bilancio arrivata a 6,2 miliardi, più della metà del suo patrimonio netto. L’assemblea di oggi varerà l’aumento di capitale per fronteggiare l’emergenza.
Siena, 55 mila abitanti, tradita da una classe dirigente autoreferenziale, chiusa in se stessa, consociativa. Che ha mortificato pure la sua gloriosa e antica Università appesantita da un buco di 200 milioni di euro, cominciato a formarsi durante il rettorato di Luigi Berlinguer. Tradita, appunto, dalle lotte intestine del Pd, già Ds e poi ancora prima Pds e Pci. Dalla sinistra.
«Forse è una tragedia. Di certo stiamo in una condizione di depressione psicologica», riflette Fabio Pacciani, dentista, rettore del magistrato delle contrade, l’organismo che rappresentante delle diciassette contrade del Palio. Continua: «Non ci sono più riferimenti, non si intravede un progetto. Non c’è nemmeno la giunta comunale. E’ una situazione devastante. Questa è una città stordita, sorpresa, sgomenta. E preoccupata: in pochi anni si è depauperata una banca solida ». Il Monte ha chiuso i rubinetti anche per le contrade. Il nuovo ad, Fabrizio Viola insieme al presidente Alessandro Profumo, ha scritto che non doneranno più i 15 mila euro annuali a contrada. La banca, nata più o meno con le contrade nel ‘400, smette di fare il “protettorato”. Un brutto segno. Un segno di questo tempo. La prossima settimana ci sarà un incontro per tentare di ritornare all’antico. «Avrebbe un valore simbolico», spiega Pacciani. Per quanto tutti sappiano ormai che il “modello Siena” è finito. Lo dice netto Cesare Cecchi, mega industriale del chianti, presidente della Confindustria locale: «C’è la consapevolezza che si vada rescindendo lo storico legame del territorio con la propria banca e che quindi sia venuto meno un modello di sviluppo di cui Mps rappresentava certo una solida cinghia di trasmissione». Espressione che fa venire in mente altro. Per esempio che qui dal 1983 al 2011 il sindaco era dipendente del Monte e anche dirigente della potentissima Fisac, il sindacato dei bancari della Cgil, che fino all’ultimo ha difeso l’ex direttore generale del Monte Antonio Vigni. «Se tra le migliaia di iscritti alla Fisac ci sono alcuni che vengono eletti nel consiglio comunale non vedo cosa ci sia di strano. Non lo do per scontato, ma mi pare che sia naturale», sostiene Claudio Gucciardini, segretario della Camera del lavoro. Che parla di «grande rabbia dei senesi per essere stati sputtanati a livello planetario». Ha interrotto l’epopea sindacal-bancaria proprio Ceccuzzi. E ora contro di lui si stanno costituendo una serie di liste civiche trasversali. Il candidato sindaco, sostenuto dal Pdl che però non ci ha messo il simbolo, è il cardiochirurgo
Eugenio Neri. Con lui si è sostanzialmente schierata “Nero su bianco” l’associazione fondata a settembre da Alfredo Monaci, ex dc, ex pdl e anche un po’ ex pd, ora candidato nella lista Monti per la Camera. Alfredo Monaci è stato sempre nel board della banca ai tempi di Mussari, ed è fratello di Alberto, ex dc, presidente del Consiglio regionale toscano. Tra i sette dissidenti piddini che hanno provocato la caduta della giunta comunale, quattro — si dice a Siena — stanno con Alfredo Monaci e due con il fratello, una dei quali è la moglie Anna Gioia, mamma di Alessandro Pinciani, vicepresidente della Provincia. Con Neri ci sarebbe “Ora Siena” di Maurizio Cenni, ex sindaco, uscito dal Pd, con due suoi ex assessori, una dei quali è Daniela Bindi (già Fisac), consorte di Fabio Borghi (già Cgil) ed ex membro del cda del Monte. Si potrebbe andare avanti da un intreccio che tira l’altro. Questo è il “groviglio”, non più armonioso. Oggi c’è l’assemblea del Monte. E’ c’è pure Beppe Grillo. «E’ venuto a chiedere i dividendi. E’ giusto che sia così. Li chiedo anche io come azionista. E’ normale», sdrammatizza Ceccuzzi. E’ la normalità che però Siena non c’è.

il Fatto 25.1.13
L’Italia che evade: nascosti 66 miliardi


CRISI O NON CRISI, l’evasione fiscale continua. Sono oltre 8.000 gli evasori totali scoperti nel 2012 dalla Guardia di Finanza, che lo scorso anno ha denunciato 12.000 responsabili di reati e frodi fiscali e ha sequestrato beni per oltre un miliardo di euro.
In particolare, hanno spiegato ieri le Fiamme gialle, sono stati denunciati 11.769 responsabili di frodi e reati fiscali, principalmente per aver utilizzato o emesso fatture false (5.836 violazioni), per non aver versato l'Iva (519 casi), per aver omesso di presentare la dichiarazione dei redditi (2.579 violazioni) o per aver distrutto o occultato la contabilità (2.220 casi).
Per quanto riguarda l'evasione fiscale internazionale, i ricavi non dichiarati e i costi indeducibili scoperti dalle Fiamme Gialle ammontano a 17,1 miliardi di euro. Nel mirino sono finiti soprattutto i trasferimenti fittizi di residenze, lo spostamento all'estero di capitali per non pagare le tasse in Italia con operazioni di ristrutturazione societaria o di transfer pricing. La Gdf ha scoperto 8.617 evasori totali, accusati di aver occultato redditi al fisco per 22,7 miliardi di euro, mentre sono stati individuati 16.233 lavoratori totalmente 'in nero' e 13.837 irregolari, impiegati da 6.655 datori di lavoro.
La sola attività di contrasto alle “Frodi Iva” nel 2012 ha permesso di individuare 4,8 miliardi di Iva evasa, di cui 1,7 riconducibili alle cosiddette “frodi carosello” basate su fittizie transazioni commerciali con l’estero. Irregolare, infine, il 32% degli oltre 447 mila controlli sul rilascio di scontrini e ricevute fiscali. La Gdf aggiunge che i verbali hanno permesso il recupero a tassazione per circa 6,2 miliardi di euro, mentre grazie ai controlli l'Agenzia delle Entrate ha accertato maggiori imponibili per ulteriori 15 miliardi di euro. Inoltre, sono stati sequestrati beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per oltre 1 miliardo di euro. “La legalità, alla fine, vince” ha detto il Comandante Generale della Gdf, Saverio Capolupo.

l’Unità 25.1.13
Piero Grasso
L’ex procuratore antimafia capolista Pd al Senato nel Lazio:
faremo subito le leggi contro il falso in bilancio, la frode fiscale l’autoriciclaggio
«La legalità crea sviluppo, evadere è criminale»
di Claudia Fusani


Nei luoghi difficili il giudice poi procuratore è nato, cresciuto e diventato grande. In omaggio al suo passato, in onore di un futuro prossimo, Piero Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, capo lista nel Lazio al Senato per il Pd, ha deciso di cominciare la campagna elettorale dal municipio di Tor Bella Monaca. Un luogo che è bene descrivere con cifre e fatti: VIII municipio di Roma, 250 mila abitanti, oltre la metà dei residenti è precaria e con gravi problemi di reddito. Quartiere di negozi e servizi, ha oggi circa la metà delle saracinesche chiuse. E non sono turni di riposo. In un posto così la camorra, dicono le inchieste della magistratura, si è prima allungata e poi allargata: estorsioni, usura, traffico di droga, prostituzione, usura, gioco illegale, riciclaggio.
Ecco che la saletta di quartiere con le luci al neon zeppa di giovani, anziani, stranieri, dev’essere sembrata al procuratore quanto di più simile a una Scampia napoletana o a uno Zen palermitano trasportati nella Capitale. È un filo emozionato Grasso, si capisce da come posta il suo primo tweet, «per il mio primo comizio pubblico ho scelto Tor Bella Monaca». Ma in fondo stare qui vuol dire anche non correre il rischio di soffrire di certe nostalgie. Quella che segue è una chiacchierata pochi minuti prima di affrontare la prima piazza della sua campagna elettorale.
«Ho idee e progetti maturati in 43 anni da magistrato. Le diagnosi sono fin troppo chiare, adesso è il tempo delle cure e di riforme decisive. Contro le economie criminali, ad esempio».
A quanto ammonta oggi il fatturato delle mafie? Le ultime stime di Transcrime parlano di reddito pari a 30 miliardi... «Le economie criminali non sono solo le economie mafiose. La voce comprende anche le stime della corruzione, tra i 50 e i 60 miliardi l’anno; quelle dell’evasione fiscale, 120 miliardi l’anno di cui 40 solo per l’Iva. Ecco se sommiamo queste cifre siamo intorno ai 210 miliardi l’anno».
Circa il 20 per cento del nostro Pil.
«Di più, se potessimo recuperare anche solo la metà di quei soldi avremmo potuto evitare al paese tutte le manovre del governo dal 2011 a oggi. Avremmo un paese meno devastato dalla crisi».
Legalità come voce di sviluppo?
«Non ci sono dubbi. Ma per uscire dalle parole, dovremmo tutti, soprattutto in posti come questo, comprendere fino in fondo queste cifre. Diventerebbe così chiaro a tutti che evadere le tasse, non pagare l’Iva, anche queste sono forme di economia criminale. La conquista illegale, sotto ogni forma, di spazi di potere economico inquina tutto, il tessuto sociale, la politica e le istituzioni. Quindi il risanamento dell’economia, ma anche una maggiore uguaglianza sociale e contributiva, passano anche per il contrasto e l’aggressione alle economie criminali».
Ha detto, “diagnosi chiara, adesso è il tempo delle cure”. Quali?
«Le elenco: una legge contro l’autoriciclaggio, contro il falso in bilancio, la frode fiscale e le false fatturazioni che sono sempre strumenti per creare soldi a nero».
Sfugge, spesso, il peso della norma contro l’autoriciclaggio. Può spiegarla?
«Al momento il nostro codice esclude che si possa procedere per riciclaggio contro chi ha commesso l’attività criminosa da cui provengono i beni occultati cioè contro chi occulta o investe danaro provento di attività illecite. Esempio: la legge consente di indagare sul rapinatore che ha preso 100 milioni in banca ma non sulla successiva attività di occultamento o impiego magari in attività lecite, di quei 100 milioni. Questa successiva attività finisce con l’inquinare l’economia e va quindi punìta ulteriormente, come avviene ormai in quasi tutti i paesi del mondo, trattandosi di un altro reato. Oggi è molto importante collegando l’autoriciclaggio con i reati di frode fiscale o di corruzione, avere uno strumento ulteriore per sequestrare e confiscare i capitali criminali». Sembra ovvio e scontato. Perchè non s’è fatto finora?
«Da anni richiedo invano al Parlamento questi provvedimenti. Adesso finalmente potrò proporre io la legge che ritengo più giusta in quadrando il reato di auto riciclaggio fra i reati contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio».
Gli strumenti investigativi? Sufficienti?
«Manca ancora un vero coordinamento e accentramento delle fonti informatiche esistenti. Mi riferisco, soprattutto, al fatto di poter dare all’autorità giudiziaria le stesse potenzialità informatiche che ha l’Agenzia delle entrate. Sarebbe utile inoltre scambiare i risultati degli accertamenti amministrativi con quelli delle indagini patrimoniali». Anche questo sembra l’uovo di Colombo. Perchè non s’è fatto finora?
«Credo per una malintesa forma di garantismo in nome della privacy, che non consente all’autorità giudiziaria di entrare nel rispetto della legge nei segreti delle banche. In Italia deve passare il concetto che chi fa una dichiarazione dei redditi fasulla non è un furbetto ma uno che tradisce il proprio paese. È così negli Stati Uniti, così in Germania. Chi ha tradito la fede del mercato non può tornare sul mercato».
E per utilizzare al meglio i beni confiscati?
«Serve più managerialità presso l’Agenzia nazionale dei beni confiscati, più liquidità ma anche rivedere il codice delle leggi antimafia. Ogni tanto sarebbe utile anche vendere qualcosa. Se la mafia lo riacquista, lo sequestriamo di nuovo».

il Fatto 25.1.13
Cristiani in corsa, Avvenire fa l’elenco


IL QUOTIDIANO DEI VESCOVI E I NOMI DI CHI DIFENDE I VALORI “NON NEGOZIABILI”
Attenzione: “Occhi sulle liste”. Prima pagina di Avvenire di mercoledì 23 gennaio. Il quotidiano dei vescovi fa l’elenco dei “cristiani che si candidano”. Una “prima panoramica”, precisano, che serve a capire chi aderisce “ai grandi valori di riferimento dell’antropologia cristiana”. Il rinnovamento, ammettono, non c’è stato. Ma sostengono che la lista dove “è andata meglio” è quella di Mario Monti. Nessun endorsement però per i cattolici in corsa con il Professore: la linea politica non è ancora definita, “in particolare sui principi non negoziabili”. I nomi dei “determinati a incidere” invece ci sono.
Per esempio Gennaro Iorio, “sociologo di riferimento dei Focolari”. O Simonetta Saveri, già dirigente della pastorale giovanile in Liguria. E poi una serie di medici che va da Lucio Romano, ginecologo obiettore presidente di Scienza&Vita a Gian Luigi Gigli “il grande neurologo che si spese per la vita di Eluana Englaro”. Sono tutti candidati con Monti. E tutti in posizione da elezione. Sono addirittua capilista Andrea Olivero, ex presidente delle Acli, Luigi Marino, al vertice di Confcooperative, e il portavoce di Sant’Egidio Mario Marazziti.
Ma c’è del buono anche nel Pdl. Se Mario Mauro se n’è andato con i centristi, Teresa Restifa resta in corsa nel centrodestra (circoscrizione Australia) per “salvaguardare la continuità di un impegno”.
Nel Pd, spiega ancora Avvenire, il “poker di candidati di ispirazione cattolica” conta Edo Patriarca, portavoce del Forum Terzo Settore, Francesco Russo del’Azione Cattolica, Flavia Nardelli (presenza “evocativa” perché “figlia dell’ex leader Dc Flaminio Piccoli”) e ancora Giorgio Santini, numero due della Cisl. “Per tutti la sfida è cambiare il Paese”.

Repubblica 25.1.13
Bertone: "I cattolici non disertino le urne.
Ricordino nel voto i valori cristiani"

qui

il Fatto 25.1.13
Migranti
Lampedusa, cinque minori rinchiusi illegalmente da un mese
di Chiara Daina


Erano scappati dalla miseria per inseguire la libertà. Si risvegliano naufraghi su un granello di roccia, senza affetti, né diritti, in condizioni igieniche precarie e derubati dei loro sogni. Sono i 5 minori (erano 36 una settimana fa) rinchiusi da oltre un mese nel centro di prima accoglienza di Contrada Imbriacola, sull’isola di Lampedusa. Tutti in fuga dall’Africa subsahariana. Alcuni di loro nei giorni scorsi hanno inviato una lettera allo Stato italiano e all'Alto Commissariato Onu per i rifugiati (pubblicata sul Fatto Quotidiano del 13 gennaio) chiedendo il riconoscimento dei loro diritti e che qualcuno si prenda cura di loro. Nel centro ci dovrebbero rimanere qualche ora, o qualche giorno, giusto il tempo di essere identificati e poi trasferiti nelle case famiglia (gli adulti, invece, finiscono nei centri di accoglienza per richiedenti asilo). In pratica, non è mai così. “Oggi ci sono 30 migranti, erano 250 la settimana scorsa, sono sbarcati il 14 dicembre, oltre un mese fa” dice il sindaco Giusi Nicolini. “Non ci sono materassi, non ci sono medici, c'è acqua sul pavimento” si legge sulla lettera. E quando cala la sera esplode il delirio. “I grandi di notte si ubriacano e tutte le notti succede qualcosa di brutto”, è la penultima riga. Abbandonati a se stessi e lo Stato non gli garantisce l'assistenza psicologica. Per non parlare di un piano di inserimento. Risultato: quei bambini, schiacciati dalla noia, si scordano di essere dei bambini. Una schiera di poliziotti e soldati li sorveglia di continuo. Forse un bambino che fugge dalla guerra si chiude gli occhi ogni volta che un soldato gli passa accanto. Ancora inagibile l'ala del centro incendiata da alcuni migranti nel settembre 2011, in segno di protesta contro il sovraffollamento. “I minori occupano l'ufficio di identificazione, le donne stanno nell'infermeria” spiega Alessandra Ballarini, avvocato di Terre des Hommes, in visita il 14 gennaio al centro con la parlamentare Pd Sandra Zampa e Gabriella Guido della campagna “Lasciate-Cientrare”. Quelle persone sono trattate come prigionieri. “L'articolo 13 della Costituzione vieta di recludere una persona in assenza di convalide giudiziarie – scandisce l'avvocato – L'Italia viola anche la Convenzione dei diritti del fanciullo”.
AI MIGRANTI viene fornito un kit di sopravvivenza: saponetta (di quelle da hotel), giacca, scarpe, tuta, un mini dentifricio e un campioncino di shampoo. È evidente che non servono a garantire l'igiene personale fino a un mese. I lampedusani gli hanno regalato coperte e vestiti per ripararsi dal freddo: il senso di ospitalità di un isolano è più forte del mare in tempesta o del divieto di una norma. Contro il soggiorno forzato, i migranti protestano dentro e fuori il centro. Il 12 gennaio hanno manifestato davanti la Chiesa perché gli hanno impedito di pregare. Il regolamento prevede la totale clausura. Ultimamente uscivano da un buco nella recinzione. Poi hanno tappato la via di fuga. “Non va bene, mai, con e senza emergenza – ribadisce il sindaco – Vivono un doppio isolamento, inaccettabile”. Il piano di accoglienza del Governo è terminato il 31 dicembre. La spesa al giorno per ogni migrante è passata da 70 euro a 28. È lecitochiedersi se l'ospitalità debba mai avere una data di scadenza.

l’Unità 25.1.13
Candidati al Parlamento, volevano violentare l’ebrea
Dieci arresti nell’estrema destra a Napoli «Preparavano scontri di piazza» Intercettazioni agghiaccianti e antisemite: «Facciamolo davanti alla Facoltà...»
Fra gli accusati anche due esponenti di Casapound in lista per le elezioni
di Raffaele Nespoli


Tra i loro progetti ci sarebbe stato quello di stuprare una studentessa ebrea: «farlo davanti a tutta la facoltà». In una nota del Procuratore aggiunto di Napoli, Rosario Cantelmo, si legge che gli indagati «erano dediti tra l’altro alla sistematica attività di indottrinamento dei giovani militanti, all’odio etnico e all’antisemitismo mediante riunioni in cui si discuteva anche dei contenuti del libro Mein Kampf di Adolf Hitler». Roba che sarebbe potuta entrare di diritto nella sceneggiatura de Suss l’ebreo, film di propaganda antisemita di Veit Harlan del 1940. E questo è solo uno spaccato della realtà nell’inchiesta della Procura di Napoli su movimenti politici di estrema destra, primo tra tutti Casapuond, che ieri ha portato all’esecuzione di dieci provvedimenti di custodia cautelare ai danni di altrettanti esponenti del movimento. Pesantissime le accuse: banda armata, associazione sovversiva, detenzione e porto illegale di armi e di materiale esplosivo, lesioni a pubblico ufficiale e attentati incendiari. In particolare i destinatari dei provvedimenti sono accusati dal procuratore aggiunto Rosario Cantelmo e dal sostituto Luigi Musto di aver organizzato e pianificato scontri di piazza nella primavera del 2011 a Napoli, progettato e realizzato attentati con lancio di bottiglie incendiarie contro un centro sociale di Napoli.
Così l’operazione dei carabinieri del Ros sembra aver scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora. Le intercettazioni e le indagini della Procura disegnano infatti un volto completamente inedito per molti ragazzi «politicamente impegnati» di estrema destra, giovani rampolli della Napoli «bene» che nasconderebbero delle verità inconfessabili. Sorprende che tra i destinatari degli arresti domiciliari ci sia anche Emanuela Florino, ventiseienne figlia dell’ex senatore di destra Michele Florino e candidata con Casapound alle prossime politiche. La sua è una figura emblematica, a cominciare dal soprannome, «la Ducessa». Per capire un po’ più di lei, del suo modo di interpretare la vita basta guardare il suo profilo Facebook. Come religione indica «La mistica fascista». Per capirsi quella che Niccolò Giani definì «un complesso di postulati morali, sociali e politici, categorici e dogmatici, accettati e condivisi senza discussione da masse e da minoranze...». E che «ripone il proprio credo in Benito Mussolini quale Duce infallibile e creatore della civiltà fascista. Nega che all’infuori del Duce abbia padri spirituali o putativi». Cita poi Alda Merini: «Non sono una donna addomesticabile» e «L’inferno è la mia passione». L’altra, appare chiaro, è il fascismo: «È stata una rivoluzione, l’unica che abbia effettivamente avuto luogo in questo Paese, e per come la vedo io ha rappresentato una visione sociale avanzata, un fiorire dell’arte, dell’onestà, dell’ironia...». E poi su Casapound: «Non è solo un luogo fisico, CasaPound è un’idea. E certe idee non muoiono. Mai!».
Oltre alla Florino, il gip ha concesso i domiciliari ad Aniello Fiengo, Giovanni Senatore, Giuseppe Guida e Massimo Marchionne; in carcere Enrico Tarantino e Giuseppe Savuto, anche lui candidato al collegio Campania 1 della Camera. Mentre per Raffaele Palladino, Andrea Coppola e Alessandro Mennella è stato disposto l’obbligo di dimora. Naturalmente, dopo le misure cautelari di ieri non si è fatta attendere la reazione Casapound. Dal movimento è arrivata immediata la denuncia del leader Gianluca Iannone, che ha parlato di «arresti a orologeria». A dimostrarlo, secondo Iannone, ci sarebbe «il tempismo con il quale un’indagine avviata quasi due anni fa ha portato all’esecuzione di una serie di provvedimenti cautelari a poche ore dall’ammissione delle liste alle elezioni politiche». E le polemiche di ieri hanno finito con il coinvolgere anche il Movimento 5 Stelle. Il sindaco De Magistris non ha perso occasione per lanciare qualche stoccata a Grillo, nei giorni scorsi «morbido» con il movimento di estrema destra.
Sconcertano gli intenti di violenza che emergono da intercettazioni contenute nell’ordinanza. Se alcuni indagati progettavano di violentare una studentessa universitaria, in altre conversazioni si parlava anche della possibilità di dare fuoco a un’oreficeria di proprietà di un ebreo. Uno degli indagati, Giuseppe Savuto, impartiva poi direttive ai giovani militanti di Casapound, e li invitava a non divulgare sul social network, tra i giornalisti e a scuola, le loro idee antisemite. In una conversazione ambientale registrata il 18 settembre 2011 nella sezione «Berta», luogo di ritrovo degli indagati sottoposto ieri a sequestro dai carabinieri, Savuto si rivolge a un giovane militante, e nel fare riferimento all’Olocausto dice: «Io pure sono d’accordo che non sono mai esistite le camere a gas e non c’è mai stata nessuna deportazione, sono il primo a dirtelo... Però in questo caso davanti a un professore, davanti a un giornalista... ». Parole che lasciano intravedere la strategia, secondo il gip, per «non sporcare l’immagine ufficiale di Casapound, che vuole accreditarsi come un interlocutore credibile per le Istituzioni».

l’Unità 25.1.13
Casapound: glamour, legami potenti e mazze di ferro
Aggressioni a studenti di sinistra, rampolli dell’establisment e la benedizione di Grillo
di Jolanda Bufalini


Arresti ad orologeria, si indigna il portavoce di Casapound Gianluca Iannone, copiando dai più scafati esponenti della politica tradizionale, a cominciare da Berlusconi. Ma, detta da Casapound, la frase sembra un nonsense perché Casapound gli arrestati, e i condannati, li candida, anzi sono un fiore all’occhiello. A Roma, in lista alla Camera è stato orgogliosamente messo Alberto Palladino, per gli amici Zippo, condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione, «per l’aggressione con mazze e bastoni ha denunciato il parlamentare del Pd Emanuele Fiano avvenuta nel novembre del 2011, ai danni di 5 militanti del Partito democratico romano». Insieme a Zippo, ma al Senato, c’è la mamma, Rosanna Svaluto Moreolo, indagata per falsa testimonianza nello stesso procedimento in cui il figlio è stato condannato in primo grado. Quando, la notte della presentazione delle liste, Beppe Grillo ha invitato i Casapound a entrare nel Movimento 5 stelle, «purché in possesso dei requisiti», Simone Di Stefano, vicepresidente dell’organizzazione e candidato governatore nel Lazio, ha spiegato al comico: «Ci sono condannati e condannati». I loro, di solito, finiscono nelle maglie della giustizia per episodi di violenza a sfondo politico o xenofobo. A Firenze, nel 2011, vennero freddati due immigrati senegalesi. Il killer è Gianluca Casseri, che poi si toglierà la vita. Casseri frequentava Casapound ma immediatamente è arrivata la dissociazione: «Un semplice simpatizzante».
Glamour, iniziativa sociale, legami forti con il potere e, però, anche: catene, mazze e cinghie usate contro gli avversari, come avvenne nell’ottobre 2008 quando Blocco studentesco aggredì i manifestanti di sinistra a piazza Navona. Abile impasto, quello su cui si regge il movimento dei fascisti del terzo millennio, assomiglia a quello di certe associazioni islamiste ultra radicali. Nella grande sede di via Napoleone III ci sono passati tutti: brigatisti rossi e parlamentari di sinistra, intellettuali anticonformisti e cuori neri. È il palazzo del demanio occupato «per fini abitativi» che né i governi di centrodestra, né il sindaco Alemanno hanno mai cercato di ottenere indietro. Anzi, una delibera di giunta che, con la modica spesa di 11 milioni 800mila euro, avrebbe definitivamente assegnato l’edificio a Casapound, è stata stoppata in extremis dall’opposizione capitolina.
Comunicazione accurata e la presenza nel movimento dei rampolli del centrodestra assicurano buoni legami con il potere. Fra i frequentatori di Casapound c’è Manfro dj Alemanno e c’è Mario Vattani, detto Katanga, di professione diplomatico, nel tempo libero fasciorock. Sono legami con l’establishment che favoriscono le opportunità, come nel caso dell’assegnazione di beni immobili, quali i due casali della tenuta Redicicoli alla Marcigliana. Casapound ottiene dagli amici del centrodestra anche deleghe e assessorati, ma ciò non impedisce l’attrazione fatale con Beppe Grillo, di cui mutuano il linguaggio: «L’attacco degli organi di informazione e dei grandi partiti: è il vecchio mondo che reagisce contro le forze più giovani e più radicali».
Dietro il glamour e l’abilità di comunicazione, si nasconde il lato oscuro: in molte scuole romane gli studenti di sinistra denunciano atti di intimidazione, raid notturni e macchine sfasciate, sassaiole contro le occupazioni di sinistra. In questi casi non si mette la firma, e la firma non è mai certa, ma gli episodi sono frequenti in zone di Roma, come il Nomentano, dove Blocco studentesco (gli studenti di Casapound) è presente.

l’Unità 25.1.13
La piattaforma Anpi contro «il neofascismo spudorato»
di Toni Jop


«Non ho capito – si chiede il professor Smuraglia, presidente dell'Anpi -: è reato oppure no tirar fuori, allo stadio, bandiere con i fasci littori? Poi, si fa un gran parlare di riforme costituzionali, e non mi riferisco alle proposte di tagliare vitalizi e costi in generale della politica, parlo di quegli interventi con cui si vorrebbe modificare l'impianto dei principi ai quali la nostra Carta è ancorata: sono queste le riforme di cui abbiamo bisogno? A cosa si mira davvero lungo questa strada?».
Ieri mattina, nella saletta romana in cui l'Anpi presentava la piattaforma morale al cui rispetto richiamare i partiti impegnati nella campagna elettorale, non era ancora giunta l'eco di quel che si era scoperto a Napoli. Non si sapeva ancora di quei ragazzi indottrinati, attorno a Casa Pound, col Mein Kampf di Hitler, dei loro progetti di picchiare o violentare una studentessa ebrea, con la raccomandazione di mantenere sotto traccia la negazione della Shoah. Uno spaccato micidiale di ciò che accade nei sottoscala meno illuminati del nostro paese. Ma Smuraglia, a nome dell'associazione che riunisce i partigiani d'Italia, anticipava la cronaca, la più recente e a suo modo istruttiva, definendo «pericolosa» la situazione che ci coinvolge tutti. Perché sono sotto gli occhi di tutti i segni sempre più chiari e numerosi del riemergere «di un neofascismo aperto e spudorato». Perché si avverte l'approfondirsi della spaccatura che attraversa cultura e politica di qua e di là dell'argine al fascismo e alla sua rinascita sotto altre forme, difeso ancora una volta dalla Costituzione. Del resto, se è accaduto che un premier, Berlusconi, sia riuscito a rispondere che aveva altro da fare a chi gli domandava se era antifascista; se, è dei nostri giorni, Grillo, il leader di una grande forza politica, ha potuto, alla stessa domanda, rispondere che la questione «non gli compete» mentre strizzava l'occhio giusto a quelli di Casa Pound, in che paese europeo siamo?
Non c'è pedanteria, allora, nel richiamo potente che l'Anpi ha rivolto a tutti gli interpreti della competizione elettorale; rigore morale, correttezza e dignità, trasparenza, buona politica, lotta alla corruzione, alla mafia, rispetto, lotta al razzismo, contro ogni rigurgito di fascismo e nazismo, impegno per il lavoro, libertà, uguaglianza e dignità per le donne. Un breve spot video dell'Anpi, che dovrebbe girare da qui alle elezioni, illustrerà quella piattaforma di impegni.

l’Unità 25.1.13
Roberto Esposito
Il filosofo propone assieme a Galli della Loggia di creare un dicastero come in Francia: «Così il settore non resterebbe più ai margini»
«Il ministero della Cultura non sarebbe Minculpop»
di Stefano Miliani


Il rischio di un Minculpop non esiste più, Paesi come la Francia che ci surclassano in cura e investimenti culturali hanno un ministero della Cultura e invece un'istituzione simile potrebbe dare una mano a risollevare il nostro Paese e a rinnovare. Anche – indirettamente – sul fronte economico. Si può riassumere con queste parole la proposta dello studioso di filosofia politica napoletano Roberto Esposito e dell'editorialista del Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia: il primo del sud e di sinistra, il secondo del nord e non di sinistra. Per dire che l’idea non è di uno schieramento ma rivolta a chi andrà a Palazzo Chigi.
Professore, cosa proponete?
«Galli della Loggia e io abbiamo scritto un appello per istituire un ministero della cultura. Siamo politicamente lontani e proprio per questo l'iniziativa vuole avere un carattere istituzionale rivolto alle forze politiche».
Scusi, ma come nasce la vostra idea?
«In molti Paesi europei, come la Francia, esiste già, là ha rappresentato una svolta, negli anni 50. Un ministero così può aiutare a costruire un'idea del Paese nuova».
In Italia abbiamo già i ministeri per i Beni culturali e dell'istruzione, ricerca e università. Pensate a un accorpamento? Non si rischia una sovrapposizione? «Non servirebbe necessariamente un accorpamento. Le competenze possono sovrapporsi ad altri ministeri, già ora il ministero degli Esteri si occupa degli istituti di cultura all'estero. Si possono immaginare dipartimenti che confluiscano nel ministero della Cultura, bisognerebbe certo definire bene le competenze in rapporto al fatto che ci siano o no gli altri due ministeri, ma l'importante è segnare una discontinuità: la crisi italiana non è solo economica né solo politico-istituzionale, è anche culturale. Da tempo l'Italia non definisce da dove viene e tanto meno dove va, né coniuga la conservazione con l'innovazione come dovrebbe».
Nel vostro appello sostenete che un ministero della Cultura costituirebbe un elemento di identità: in che senso?
«La nostra sensazione è che gli Stati, mentre cedono una parte della sovranità all'Europa, tanto più dovrebbero definire gli elementi della propria identità culturale. E quella italiana è molto forte: abbiamo un potenziale enorme nell'arte, nelle biblioteche, quando si dice made in Italy si parla di moda e cucina ma c'è una falda più profonda». Parliamo di un settore che subisce tagli drastici. Un sondaggio in corso del Fondo per l'ambiente italiano vede come prima richiesta quella di destinare l'1% dei soldi pubblici ai beni culturali – come fa la Francia – quando l'Italia riserva loro appena lo 0,19% del suo bilancio. E non parliamo della scuola pubblica.
«Sì, la prima esigenza è finanziare cultura e istruzione. Vivo non lontano da Pompei e un sito simile in qualunque altra parte del mondo sarebbe anche un'enorme risorsa economica. Ma oltre al problema economico c'è il fatto che da noi la conservazione del passato è slegata alle tecnologie, all'innovazione. E un ministero come lo immaginiamo noi non dovrebbe essere marginale ma uno dei centri decisivi di governo». A suo tempo un'idea simile fu bocciata: rievocava il Minculpop fascista. «Esistono due obiezioni non del tutto infondate: questa e il timore che poi i partiti dicano quali debbano essere le forme d'arte, letterarie, cinematografiche... Ma siamo così distanti nel tempo e nella situazione dal fascismo che sul primo timore possiamo stare tranquilli. Sul secondo serve vigilare, ma bisogna correre un po' di rischio». Converrà che con il governo Berlusconi, ma poi anche con Monti, il settore cultura è stato messo da parte. Viceversa un Veltroni vicepremier volle il ministero proprio per dargli peso.
«Parlando ora a titolo solo personale, riconosco che in passato e anche in questa campagna elettorale la sinistra ha mostrato più interesse e sensibilità. Però questa non è una proposta di parte, verrà presentata a chiunque vinca».

Corriere 25.1.13
All'Italia serve un ministero della Cultura
Le buone ragioni perché l'Italia torni ad avere un ministero della Cultura
di Roberto Esposito e Ernesto Galli della Loggia


È la proposta di Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia. Il primo motivo, sostengono i due intellettuali, è che «la crisi in cui è entrata l'Italia con l'inizio del XXI secolo non è (o non è solo) una crisi economica, politica, istituzionale e quindi sociale. È prima di tutto una crisi d'identità e cioè in definitiva
una crisi culturale».

Pubblichiamo una proposta lanciata dagli intellettuali Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia per l'istituzione del ministero della Cultura. L'Italia è uno dei pochi Paesi d'Europa che non ha un ministero della Cultura: noi ne proponiamo l'istituzione. Lo facciamo conoscendo bene, naturalmente, i motivi che fin qui l'hanno sconsigliato. Ma ci sembra che assai più importanti siano le ragioni che militano a suo favore.
Una, prima di ogni altra. La crisi in cui è entrata l'Italia con l'inizio del XXI secolo non è (o non è solo) una crisi economica, politica, istituzionale e quindi sociale. È prima di tutto una crisi d'identità e cioè in definitiva una crisi culturale. È innanzi tutto venuto meno, infatti, quel fattore costitutivo di ogni identità personale e collettiva che è la consapevolezza di ciò che lega e, legando, tiene insieme cose differenti: nel nostro caso il legame, da un lato, tra il passato e il futuro possibile della nostra vicenda nazionale e dall'altro quello tra le varie parti e le diverse, talora diversissime, vocazioni che storicamente hanno composto in un tutto unico tale vicenda. Da tempo viviamo l'aspra congiuntura presente senza alcuna idea di fondo che possa conciliare le varie e drammatiche esigenze dell'oggi in una prospettiva d'insieme della storia nazionale. Anche perché abbiamo smarrito la consapevolezza della peculiarità di tale storia — una peculiarità altamente problematica, certo, ma pregna di inestimabili risorse intellettuali e pratiche. In un senso profondo non sappiamo più da dove veniamo e che cosa siamo. E perciò neppure dove dirigere il nostro cammino: l'arresto della crescita economica è anche questa paralisi della coscienza nazionale.
Si potrebbe obiettare che questo discorso era vero quando gli Stati nazionali erano organismi più o meno autosufficienti e dotati di pieni poteri sovrani. Non oggi, quando da un lato la globalizzazione, dall'altro l'Unione Europea nonostante i suoi limiti sottraggono ai governi dei singoli Paesi sempre più competenze. Non siamo d'accordo. In realtà, proprio perché è così, e tanto più per chi considera inevitabile e positiva questa cessione di sovranità all'Europa, la definizione di un'idea del Paese appare sempre più necessaria. L'Europa non può voler dire il supino convergere di Stati, popoli e nazioni in una sterile indeterminatezza. Al contrario, il processo d'integrazione ha un senso e un futuro solo se sarà capace di valorizzare le differenze culturali dei vari Paesi, se non apparirà un loro nemico. Il futuro dell'Europa sta proprio nella composizione tra la massima, reciproca compatibilità economica nonché istituzionale e la capacità di tener vive le diversità, a cominciare da quelle linguistiche.
È innanzi tutto a questo gigantesco insieme di problemi che noi vediamo sovrintendere un ministero della Cultura. Ma non solo. C'è forse qualcosa di ancora più importante. Si tratta della necessità di aprire una fase interamente nuova nella vita del Paese. Di creare una frattura con quanto d'insensato, di confuso, di meschino ha occupato negli ultimi decenni la scena italiana stravolgendola e spesso ferendola a morte. Abbiamo fatto scomparire luoghi e paesaggi unici al mondo, cadere in rovina siti archeologici e monumenti illustri, lasciato in abbandono biblioteche preziose. Ma non ci siamo accorti che, così facendo, inaridivamo anche la fonte di quella umile e insieme alta creatività per cui l'Italia va famosa e che si manifesta nella sua grande tradizione artigiana, nell'eccellenza di tanta sua produzione agricola, nell'inventiva ingegnosa di tante sue industrie di ogni tipo. Ma questa creatività, questa produzione di cose materiali, lo ripetiamo, non nasce dal nulla. Discende per mille tramiti da un articolatissimo substrato di gusto, di sensibilità, di idee. Nasce dalla cultura.
La cultura italiana, presa nel suo insieme e sull'arco lunghissimo che va da Roma fino ad alcuni segmenti del Novecento, mantiene una qualità, una forza, una ricchezza che non è facile trovare altrove e che a tratti affiora nell'interesse internazionale. Dove, più che in Italia, è stata pensata la storia come ciò che mantiene in rapporto e in tensione passato e presente, origine e attualità, conservazione e innovazione — dove altro i termini stessi di «Rinascimento» e di «Risorgimento» danno il senso di questa dialettica? Dove, più o prima che da noi, ci si è interrogati sul significato specifico di una politica non coincidente con la dimensione statale perché capace di contemperare ordine e conflitto senza sacrificare l'uno all'altro? E dove, se non nella nostra cultura, sempre in transito tra l'Italia e il mondo, è stata altrettanto vivace la dialettica tra identità e differenza, proprio ed estraneo, territorio e sconfinamento?
Solo appropriandoci nuovamente di questo patrimonio, solo ripensandolo e rianimandolo di propositi nuovi, sarà possibile riprendere il cammino uscendo dalla paralisi odierna. Sarà possibile rimettere al centro dell'attenzione il significato e il destino della nostra vita collettiva. Aprirci al futuro. È precisamente ciò che noi crediamo dovrebbe spingere a fare un ministero della Cultura: aiutare il Paese a pronunciare una parola alta e consapevole sulla sua storia passata e recente, aiutarlo a far udire questa voce fuori dei suoi confini e a ridefinire quello che può essere il ruolo dell'Italia in Europa: un ruolo prima che politico e istituzionale, ideale e umano. Il ruolo della cultura, appunto.
Conosciamo bene, naturalmente, i due principali motivi che hanno finora impedito l'esistenza di un tale ministero: e cioè il ricordo del Minculpop fascista da un lato e il timore di una cultura di Stato (che poi nel nostro caso diverrebbe inevitabilmente una cultura di partito) dall'altro. Erano motivi validi 50, forse 30 anni fa: ma per quanto tempo e in quanti campi ancora dovremo stare fermi, per paura di muoverci? Chi ha una ragionevole fiducia nella democrazia italiana e nelle sue istituzioni, e nella pur confusa ma alla fine perspicua intelligenza delle cose dei suoi cittadini, non deve restare prigioniero inerte del passato: deve avere il coraggio di aprire già oggi una nuova fase nella storia del Paese.

l’Unità 25.1.13
Israele, Netanyahu tratta con il «nuovo centro»
Il premier uscente costretto a corteggiare Yair Lapid, divenuto l’ago della bilancia. Sul tavolo la carica di ministro degli Esteri
Il nodo del servizio di leva per i giovani ortodossi spinge ai margini i partiti religiosi estremisti
I risultati definitivi: alla destra 61 seggi, per il centrosinistra 59
di Umberto De Giovannangeli


Israele, le grandi manovre post elettorali sono iniziate. E a condurle è l’uomo che avrebbe voluto «imperare», Benjamin Netanyah, e oggi invece deve corteggiare un ex giornalista televisivo uscito inaspettato vincitore nelle elezioni di martedì scorso: Yair Lapid. Mentre il presidente Shimon Peres avviava le prime consultazioni sulla formazione del prossimo governo, per adesso solo informali, dietro le quinte del mondo politico israeliano sono proseguite a ritmo serrato le trattative tra la destra, guidata dal premier uscente Benjamin Netanyahu, e il centro dell’esordiente Yesh Atid, partito «inventato» appena nove mesi fa dalla star televisiva Yair Lapid, l’uno e l’altro le vere e proprie sorprese delle elezioni anticipate di martedì scorso. Per l’outsider che è riuscito a fare della sua quasi neonata creatura la seconda forza (19 seggi) rappresentata alla Knesset, secondo i mass media israeliani, si profila un incarico di grande prestigio: potrebbe addirittura vedersi offrire il portafoglio degli Esteri al posto di Avigdor Lieberman, l’ultra-nazionalista il cui Yisrael Beiteinu ha fatto coalizione con il Likud di Netanyahu, solo per raccogliere un risultato assai inferiore alle attese, sebbene confermandosi la lista con il maggior numero di deputati.
GRANDI MANOVRE
«Il ministero degli Esteri non è legalmente registrato a mio nome», ha ironizzato suo malgrado Lieberman in un’intervista rilasciata alla radio dell’Esercito. Dimessosi dalla guida della diplomazia d’Israele un mese fa, dopo essere stato incriminato per frode e abuso di fiducia, il numero uno di Yisrael Beiteinu ha ammonito di essere comunque intenzionato a recuperare il dicastero che fu suo. Non lo ha affermato esplicitamente, ma tra le righe ha evocato il patto stretto con Netanyahu al momento di unire i ranghi: al premier la conferma alla guida dell’esecutivo; all’alleato, appunto, gli Esteri.
Fonti del Likud in via assolutamente riservata hanno tuttavia riferito alla radio pubblica che Lapid potrebbe ottenere alternativamente gli stessi Esteri oppure le Finanze in cambio del sostegno al prossimo gabinetto da parte dei diciannove deputati di Yesh Atid: un sostegno decisivo, in un Parlamento più spaccato di prima, con 61 seggi alla destra e 59 al centro-sinistra. Proprio le Finanze, ha però rimbeccato Lieberman, sarebbero la «naturale» ricompensa per l’ingresso di Lapid nella compagine governativa.
L’oggetto del desiderio non si sbilancia. L’unica cosa certa è il suo tirarsi fuori da una prospettiva «frontista» anti-Netanyahu: «Ho sentito parlare di blocco (anti-Netanyahu, ndr). Non ci sarà nessun blocco», ha affermato Lapid all’indomani delle elezioni legislative, lasciando intendere piuttosto di essere favorevole a eventuali, future, alleanze di governo con lo stesso Netanyahu. «I risultati delle elezioni sono chiari: bisogna lavorare insieme», ha sottolineato il leader del partito centrista. L’agenda politica di Lapid chiede: meno tasse, migliori servizi ai cittadini, a partire dall' istruzione, più uguaglianza nei doveri nei confronti dello Stato, ripresa del processo di pace con i palestinesi. E include: servizio militare o civile obbligatorio per i religiosi. È proprio la questione dei religiosi ortodossi haredim ad aver fatto breccia negli elettori convincendoli a votare per il partito di Lapid, Yesh Atid. Il problema è divenuto centrale, perché la società israeliana oramai non può più permettersi di mantenere una fetta così consistente della popolazione fuori non solo dall’obbligo di leva o del servizio nazionale alternativo, ma anche dallo stesso mercato del lavoro: la perdurante esenzione è oramai percepita come un privilegio e un fardello oramai intollerabili. Il che, secondo gli analisti politici a Tel Aviv, dovrebbe portare ad un’alternativa nella nuova coalizione: o il laico Lapid o i partiti religiosi.
Per Netanyahu che ieri a Gerusalemme ha incontrato il leader di Yesh Atid per oltre due ore e mezza la strada resta in salita anche se un po’ meno ostica dopo l’annuncio dei risultati definitivi che hanno fatto svanire il clamoroso pareggio, 60 seggi ciascuno, che si era profilato tra i due principali schieramenti alla Knesset. In virtù anche dello spoglio delle ultime schede mancanti, quelle relative a militari e detenuti, un seggio in più è stato assegnato ai sionisti di HaBayit HaYehudi (Focolaio Ebraico) , il partito dei coloni più intransigenti capitanato da Naftali Bennett, che passa da undici a dodici deputati. A farne le spese è stata Ram-Taal, la Lista Araba Unita, che scende da cinque a quattro. Il blocco conservatore conta adesso 61 seggi su un totale di 120, mentre al centro-sinistra ne restano 59.

il Fatto 25.1.13
L’intervista
Il voto visto dalla Palestina
“Difficile trattare anche con i moderati israeliani”
di Roberta Zunini


Certo questo inaspettato risultato elettorale cambia gli equilibri politici ma solo per quanto riguarda le questioni interne allo Stato israeliano. Per noi palestinesi il successo dei moderati non significa un'uscita automatica dalla situazione di stallo in cui Netanyahu ci ha costretti con il suo rifiuto di prolungare la moratoria sul blocco dell'espansione degli insediamenti ebraici”. Mentre il presidente israeliano Shimon Peres sta per affidare al premier uscente Benjamin Netanyahu l'incarico di formare il nuovo governo, inevitabilmente di coalizione, Nemer Hammad – ex rappresentante dell'Olp in Italia e attualmente consigliere del presidente dello Stato palestinese, Abu Mazen- - non abbandona il suo scetticismo sulla volontà delle istituzioni israeliane di riprendere i negoziati di pace. “Per formre il governo, Netanyahu non può prescindere da un'alleanza con Yair Lapid, il cui partito ha ben 19 seggi.
MA ANCHE LAPID, pur presentandosi come un moderato di centro, è a favore del mantenimento delle colonie in Palestina e della loro espansione, ciò significa che non intende realmente fermare l'occupazione”. Il fatto che Yair Lapid si sia più volte pronunciato a favore dei due popoli due Stati, dunque non garantisce secondo Hammad la ripresa dei negoziati. Per ottenere i numeri di seggi sufficienti per governare, il partito di maggioranza relativa, il Likud, dovrà peraltro imbarcare nella coalizione almeno un altro partito. “L'unico che ha i voti per permettergli di raggiugere 62 seggi su 120 è ‘Focolare ebraico’, il partito di destra legato ai coloni e questo inevitabilmente affievolisce le nostre speranze di pace. Voglio anche ricordare che ben 13 deputati del Likud appena eletti sono coloni agguerriti. La conseguenza è che il Likud di oggi non è per sua natura orientato ai negoziati”. Hammad aggiunge che anche i partiti di centro come Kadima e di centro-sinistra, il Labor, quando erano andati al governo, avevano incrementato l'occupazione. “La leader del Labor (Shelly Yachimovic) durante la campagna elettorale ha saltato a piè pari la questione palestinese, mentre Kadima è crollato. Si trattava del resto di un movimento personalistico, incentrato su Sharon e poi su Tzipi Livni, e quando la leadership è passata ad altri politici, meno carismatici, non ha tenuto”. Il consigliere di Abu Mazen non intende ovviamente dire che Lapid non rimarrà alla guida di “C’è futuro” (YeshAtid) ma che si tratta di una formazione ancora troppo giovane e quindi fragile e vulnerabile di fronte ai desiderata dei capitani di lungo corso.

il Fatto 25.1.13
Russia, l’orgoglio delle Pussy Riot


Le due Pussy Riot in carcere Maria Alyikhina e Nadezhda Tolokonnikova assicurano di non rimpiangere nulla di ciò che hanno fatto. Le due attiviste parlando delle condizioni della loro detenzione denunciano l'assenza di libri e l’isolamento. LaPresse

il Fatto 25.1.13
Il libro
Gli italiani, la colpa e la rimozione


Davanti al male, a quella ferita che ha squarciato il ‘900, gli italiani hanno avuto una lentissima e complessa presa di coscienza. Guardare in faccia l’Olocausto, non come un affare inventato dai cattivi discepoli di Hitler, ma come un crimine che coinvolse uomini e nazioni non è stata un’operazione semplice, né priva di contraddizioni, rimozioni, corto-circuiti culturali e politici. Come accade ogni anno all’alba della Giornata della Memoria, libri, mostre e convegni fanno girare all’indietro l’orologio della coscienza. E ci riportano nell’inverno della Storia, stagione atroce che ha trovato in Auschwitz una capitale ideale: il toponimo del campo liberato dalle truppe sovietiche il 27 gennaio 1945 è diventato un simbolo, in grado di significare da solo l’intera rete dell’operazione nazista. Robert Gordon, docente di Modern Italian Culture a Cambridge, ci guarda da fuori. In Scolpitelo nei cuori, (Bollati Boringhieri, in uscita in questi giorni) compila una storia sociale della memoria sull’Olocausto. Non è, come siamo abituati a leggere, la voce di un testimone del dolore, non è lo scritto di un ebreo italiano. Ma la prima analisi di ciò che, dopo l’orrore, è rimasto nella rete dei ricordi e della coscienza collettiva, elaborata attraverso lo studio della letteratura, della storiografia, ma anche della filmografia e della musica che hanno affrontato e proposto agli italiani il “problema Shoah”.
LE DOMANDE sono gravi – come, quanto abbiamo voluto tramandarne la memoria? Quali ricadute nelle nostre vite, quali insegnamenti, quali comportamenti ci deve imporre la storia della soluzione finale? – e le risposte non sempre sono facili da accettare. Gordon parte innanzitutto da una periodizzazione temporale, grazie alla quale emerge la linea di una “digestione culturale” lentissima. Che diventa presa di coscienza – delle dimensioni e delle responsabilità, anche nazionali – molto tardiva. Fino agli anni 50 si assiste a una “diffusa indifferenza, se non addirittura un totale silenzio, che circonda i crimini nazisti commessi contro gli ebrei e il sistema concentrazionario” e solo dagli anni 80 in poi, “la consapevolezza di massa raggiunge e si traduce in una pervasiva americanizzazione dell’Olocausto, anche attraverso il successo internazionale del film di Steven Spielberg Schindler’s List (1993)”.
L’Italia non è da meno: resta molto a lungo nel-l’atmosfera l’idea degli “italiani brava gente”, resta diffuso il sentimento autoassolutorio di un popolo che stenta a farsi carico del proprio passato. Gordon affronta diffusamente la legge Colombo (scritta e proposta da Furio Colombo alla Camera e presentata in Senato da Athos De Luca) che nel 2000 istituì in Italia la Giornata della Memoria, a cominciare dalla scelta della data: non quella “italiana” voluta da Colombo – il 16 ottobre, giorno del rastrellamento nel ghetto ebraico di Roma –, ma quella internazionale e più neutra del 27 gennaio. Sono pagine tristemente illuminanti quelle che mettono a nudo l’immaturità di un Paese che quasi mai è riuscito ad andare oltre il “tutti fascisti-nessun fascista”, ha usato la Resistenza come foglia di fico sulle responsabilità, anche collettive, e ancora oggi ha bisogno della misera par condicio dei crimini, fascisti e comunisti.

SCOLPITELO NEI CUORI di Robert S. C. Gordon, Bollati Boringhieri Pp 345, 27 euro

Repubblica 25.1.13
Dove sono tutti?
Il mistero delle galassie da cui nessuno si fa vivo
Le possibili risposte a un quesito nato con Fermi
di John D. Barrow


Quasi ogni settimana le agenzie stampa del mondo intero riferiscono la scoperta di nuovi pianeti orbitanti attorno a stelle lontane. Queste scoperte sono diventate così comuni da fare notizia soltanto se riguardo a esse c’è qualcosa di speciale. Il satellite Kepler della Nasa conquista i titoli in prima pagina perché è impegnato per lo più nella ricerca di pianeti abitabili: ciò significa pianeti piccoli e solidi come la Terra, che orbitino a una distanza media dalla loro stella tale da consentire alle temperature al suolo di restare miti e permettere all’acqua di rimanere liquida su buona parte della loro superficie. Se un pianeta è troppo grande, allora come Giove sarà formato da idrogeno gassoso o liquido. Se si avvicina troppo alla sua stella, la sua superficie diventerà troppo calda perché vi siano acqua e connesse forme di vita, come il lato rovente di Mercurio. Se orbita troppo lontano dalla propria stella, invece, allora l’acqua — qualora fosse presente — sarebbe eternamente ghiacciata. Meglio ancora: l’ideale sarebbe scoprire pianeti che si spostano lungo orbite praticamente circolari attorno alla loro stella, così da non subire sbalzi sostanziali di temperatura su base annua. Kepler può scoprire pianeti dall’orbita giusta misurando i loro periodi di rivoluzione attorno alla rispettiva stella. Poco alla volta, dopo alcuni anni di missione, sta iniziando a individuare pianeti che hanno dimensioni ridotte quali quelle della Terra e periodi di rivoluzione assai simili alla lunghezza del nostro anno.
La Missione Kepler è la prima missione spaziale in grado di identificare molti pianeti simili alla Terra intorno ad altre stelle. Fino a questo momento ha scoperto 2.740 pianeti candidati, e ha eseguito controlli e accertamenti dettagliati, giungendo alla conferma che 105 di essi sono effettivamente pianeti. Se a questo numero aggiungiamo quello appurato da altre ricerche, sappiamo che esistono 467 pianeti noti che orbitano attorno ad altre stelle. La frequenza con la quale Kepler individua nuovi candidati dotati di tali requisiti lascia intuire che almeno una stella su sei ha un pianeta abitabile e la metà di tutte le stelle ha un pianeta delle dimensioni della Terra. Estrapolando questo dato e applicando l’indice di frequenza delle scoperte all’intera nostra galassia della Via Lattea si arriva all’ipotesi che essa possa contenere 17 miliardi di pianeti simili alla Terra. E poi resterebbero da prendere in considerazione anche gli altri cento miliardi di galassie.
La grande quantità di pianeti interessanti che almeno in teoria potrebbero ospitare la vita ci spinge ancora una volta a riflettere sulla domanda che formulò per primo il grande fisico italiano Enrico Fermi nel 1950: se l’universo è così pieno di luoghi che possono ospitare la vita, e se la vita trova sempre un modo per evolversi, «dove sono tutti quanti?». Finora non abbiamo individuato alcun segnale proveniente da extraterrestri. Non abbiamo trovato prove di una vita consapevole da nessuna parte nell’Universo. Silenzio totale.
C’è tutta una serie di risposte che potremmo riuscire a dare alla domanda di Fermi. Quei “tutti quanti” potrebbero esistere ma non rivelarsi, forse perché noi siamo a tal punto interessanti da essere stati messi al riparo da qualsiasi tipo di interferenza così che possano studiare la nostra evoluzione. D’altra parte, potremmo anche essere troppo noiosi: se la nostra evoluzione e il nostro sviluppo sono tipici di ciò che accade in un numero incalcolabile di altri posti dell’Universo, non ci sarebbe tentativo alcuno di contattarci perché saremmo interessanti quanto può esserlo una nuova specie di coleotteri.
Un’altra possibilità è che siamo troppo ingenui: probabilmente sarebbe assai poco saggio manifestare la propria presenza quando forze ostili potrebbero considerarti una preda o una potenziale minaccia. In realtà, questo grande silenzio galattico potrebbe stare a segnalare una paranoia in crescendo sul silenzio. Se non si colgono segnali si pensa sempre che debba esistere una ragione per la quale gli altri non stanno emettendo segnali. Inviare segnali è forse pericoloso? Anche se si ignora quale sia il pericolo, è più sicuro starsene zitti.
È anche possibile che noi si sia molto più evoluti rispetto alle altre civiltà extraterrestri, al punto che nessuna di queste forse ha sviluppato la tecnologia necessaria a inviare un segnale. In effetti, noi stessi non avremmo potuto farlo un secolo fa. Quindi, siamo troppo evoluti. È anche possibile, tuttavia, che noi si sia troppo arretrati. Se esiste un Club Galattico d’élite, formato da civiltà parecchio più avanzate, può anche darsi che esistano alcuni requisiti di ammissione per farne parte. Potrebbe essere solo questione di tempo prima di scoprirlo: l’importante sarebbe sopravvivere allo sviluppo di tecnologie pericolose sufficientemente a lungo da dimostrare di aver sviluppato anche il sapere e la saggezza necessari a convincere il Club Galattico che permetterci di farne parte è sicuro. In alternativa, può anche darsi che l’ammissione al Club diventi possibile soltanto quando si è messo a punto un sistema di tecnologia delle comunicazioni molto più avanzato rispetto a quelli che abbiamo noi oggi. E soltanto allora saremo in grado di captare qualche segnale. Anche in questo caso, potrebbe essere necessario avere la capacità di sopravvivere a lungo come civiltà evoluta.
Questa idea ci induce a chiederci se stiamo andando nella direzione giusta rispetto a ciò che significa essere una civiltà tecnologicamente avanzata. In genere, noi siamo propensi a ritenere che “più avanzati” significhi avere razzi più grandi, macchine più potenti e un maggiore controllo dell’ambiente. In realtà abbiamo appena iniziato a prendere atto del potere della miniaturizzazione. Le nanotecnologie possono produrre macchine su scala molecolare. Forse le sonde spaziali degli extraterrestri molto avanzati sono costituite da macchine molecolari che passano del tutto inosservate, ma che sono in grado di riprodursi dalla materia reperita nello spazio, semplici minuscoli computer. Il nostro problema è che pensiamo troppo in grande.
Ci siamo anche chiesti se non siamo forse noi troppo in anticipo, la prima civiltà in grado di mettere a punto la tecnologia necessaria a comunicare a distanze interstellari. In ogni caso, ciò ci impone di avere uno status molto speciale, cosa che Copernico ci convinse di evitare di assumere. Nondimeno, c’è anche la più modesta possibilità che noi siamo troppo in ritardo. Forse sono esistite moltitudini di civiltà tecnologicamente avanzate, che vissero però per breve tempo. Forze interne quali malattie, inquinamento, guerre nucleari, sovrappopolazione e cambiamento del clima sono inevitabili e in definitiva ineluttabili. Una volta sviluppate alcune tecnologie, una civiltà è destinata ad andare oltre il proprio ambiente locale. Anche le forze esterne sono scoraggianti: i pianeti corrono sistematicamente il rischio di essere colpiti da asteroidi e comete, di subire irradiazioni provocate da esplosioni di stelle e di supernove. Le tecnologie molto avanzate potrebbero essere in grado di proteggere i pianeti e le forme di vita che li abitano da queste calamità, ma finché non si raggiunge quel livello molto avanzato e a meno di essere disposti a pianificare con enorme anticipo, si è sempre vulnerabili e soggetti a essere periodicamente risospinti nel passato, o estinti addirittura come i dinosauri, da cataclismi che si verificano con preoccupante regolarità.
Traduzione Anna Bissanti è professore di scienze matematiche all’università di Cambridge e ha pubblicato Il libro degli universi (Mondadori)

La Stampa 25.1.13
Castellitto: metto la tv (e me stesso) sul lettino
Costanzo dirige la versione italiana della serie cult “In treatment”
di Fulvia Caprara


Da aprile in onda La serie basata su un format israeliano - ripreso in Usa con Gabriel Byrne (foto sopra) è incentrata sul rapporto tra un analista (Castellitto) e i suoi pazienti

Qualcuno potrebbe addirittura scandalizzarsi. Si può trattare la psicanalisi come se fosse una soap-opera? Anzi, meglio, si può immaginare«un Posto al sole scritto da Sigmund Freud»? La risposta è sì. Lo ha dimostrato In treatment , basato sul format israeliano Be Tipul , ideato dal regista e sceneggiatore Hagai Levi, e adesso la versione italiana prova a bissare il successo della serie Usa realizzata da Hbo e divenuta subito culto. Nell’assaggio, presentato ieri sul set, a Formello, poco fuori la capitale, c’è un Castellitto impeccabile nei panni dell’analista Giovanni alle prese con i suoi pazienti. Sul divano, sotto il suo sguardo acuto, scorrono le loro vite. Un marito stressato (Adriano Giannini) e una moglie frivola (Barbora Bobulova), una bella ragazza che si è innamorata del suo terapeuta (Kasia Smutniak), un poliziotto infiltrato (Guido Caprino) che non riesce a liberarsi dai fantasmi di un’indagine sanguinosa: «Le parole - dice il protagonista - evocano immagini, sono come fiori che si schiudono. Durante ogni seduta viene fuori un pezzo dei personaggi, l’analista è come un confessore, una iena buona che si nutre dei pazienti».
Gli sceneggiatori di In treatment made in Italy (Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo, Alessandro Fabbri, Ilaria Bernardini e Giacomo Durzi) hanno «permeato tutto di una leggera mediterraneità, ma, nello stesso tempo, rinunciando a qualunque riferimento esplicito alla realtà italiana, hanno creato storie che potrebbero svolgersi ovunque». Gli argomenti al centro della serie (35 episodi prodotti dalla Wildside di Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Sky Cinema che li trasmetterà ad aprile) riguardano tutti noi: «La vita, la morte, il sesso, l’amicizia, la paternità, la maternità, i sensi di colpa». E la cosa più bella, sottolinea Castellitto, è la grande libertà con cui vengono affrontati: «Dopo tanta tv generalista, provo l’emozione dell’assenza totale dicensura, in questa sceneggiatura scritta così bene, si può parlare di tutto, affrontare qualsiasi terreno». Giovane psichiatra nel Grande cocomero di Francesca Archibugi, Sergio Castellitto dice che recitare è un po’ come andare in analisi: «Io non l’ho mai fatta, ma parlare, come fa chi va da un terapeuta, della propria anima e dei propri pensieri significa mettere in scena il proprio ego e in questo c’è un senso di vanità, proprio come quello che caratterizza gli attori... Insomma, per quanto mi riguarda, penso che a psicanalizzarmi sia stato il mio mestiere».
Ambientato nel chiuso dello studio dove si svolgono le sedute (una per ogni puntata, dal lunedì al venerdì), In treatment ricorda il teatro, ma in realtà è un esperimento di cinema da camera, perchè non c’è niente di più kolossal, di più spettacolare, dell’avventura dentro l’animo umano: «Io sono Sara - spiega Smutniak -, faccio l’anestesista e mi innamoro del mio analista. Nel corso dei nostri incontri cerco di convincerlo che sono la donna perfetta per lui». La lavorazione, senza «flash-back» e con pochi tagli , prevede ciak che durano anche 20 minuti, cosa inimmaginabile su un set cinematografico: «Abbiamo fatto prove come per il palcoscenico - dice il regista Saverio Costanzo - questo sta diventando il divano più difficile d’Italia». Del cast fanno parte anche Valeria Golino nel ruolo di Eleonora, la moglie (in crisi) del protagonista, Irene Casagrande in quello di Alice, giovane danzatrice che custodisce un trauma inconfessabile, Valeria Bruni Tedeschi, sua madre, e Licia Maglietta, vecchia amica e mentore di Giovanni che va a trovarla ogni venerdì, passando dall’altra parte della barricata, ovvero da analista ad analizzato: «Le serie tv - osserva Andrea Scrosati vice presidente di Cinema Sky - hanno riportato in alto il livello della scrittura televisiva, il nostro prodotto è concentrato proprio su questo, e sullo schermo si vede».

l’Unità 25.1.13
WASSILY KANDINSKY DALLA RUSSIA ALL’EUROPA

Pisa, Blu FIno al 17 febbraio LETTERE DALL’ESILIO, 1933-1940 Josef Albers e Wassily Kandinsky (pagine 164, euro 16, Mimesis)
Doppio Kandinsky: a Pisa in mostra 50 opere del periodo russo del padre dell'astrattismo (1901-1921). E 44 lettere scritte durante l’esilio: nel 1933 gli ultimi membri rimasti al Bauhaus decisero di chiudere prima dei termini imposti dal Terzo Reich.

l’Unità 25.1.13
FIRENZE L’ALCHIMIA E LE ARTI

A cura di Valentina Conticelli
Firenze, Galleria degli Uffizi Fino al 3/02 – catalogo Sillabe
Attraverso una sessantina di pezzi, tra dipinti, sculture, incisioni, codici manoscritti, testi a stampa illustrati, ampolle, alambicchi, fornelli, vasi farmaceutici e altre cose mirabili, l’esposizione racconta la passione per l’alchimia dei sovrani medicei Cosimo I e di suo figlio Francesco I. Fu quest’ultimo che nel 1586 stabilì l’officina di distillazione di medicinali agli Uffizi, dove rimase per circa 200 anni.