sabato 10 gennaio 2009

Liberazione 10.1.09
L'ex segretario parla a Ferrero: «Sfiducia a Sansonetti, atto di rottura»
Bertinotti: «Prc irriconoscibile»
di Angela Mauro

«Solidarietà al giornale e a Piero Sansonetti perchè l'autonomia è elemento costitutivo per un partito democratico. Quindi, la destituzione di Sansonetti è un atto di rottura radicale che rende Rifondazione irriconoscibile da quello che abbiamo costruito insieme in questi anni». Dal suo ufficio alla presidenza della Fondazione della Camera dei Deputati, Fausto Bertinotti, sceglie di far sentire il suo peso nella turbolenta vicenda Liberazione . Lo fa al termine di un incontro con il segretario del Prc Paolo Ferrero. Un faccia a faccia durato oltre un'ora e mezza ieri. Colloquio non unico dal congresso di Chianciano che ha ribaltato gli equilibri interni al partito. Non unico, ma di sicuro il più annunciato sulla stampa.
Incontro delicato in una fase segnata dal cambio alla direzione del quotidiano, voluto dalla nuova maggioranza del Prc, e dall'annuncio dei propositi di scissione di una parte della minoranza vendoliana. Bertinotti non sta zitto, abbandona per un attimo il basso profilo volutamente osservato in questi mesi rispetto al partito, parla con Ferrero. Da parte sua, il segretario si limita a «prendere atto» delle posizioni dell'ex presidente della Camera su Liberazione . I suoi poi precisano che «quelle parole Bertinotti non le ha mai pronunciate così nel colloquio con Ferrero e non perchè non sappiamo cosa pensi Bertinotti del caso Sansonetti. Semplicemente, quella frase testuale così non è stata detta...».
Non è stato detto nemmeno il contrario, comunque, ammettono gli stessi ferreriani. Ad ogni modo l'interrogativo è: anche quello di Bertinotti è un annuncio di scissione? Di sicuro è una forte critica e presa di distanza rispetto all'atto che la nuova maggioranza del Prc si appresta a compiere lunedì prossimo in direzione nazionale: sfiducia a Sansonetti, per poi nominare un nuovo direttore. Sarà il sindacalista Dino Greco (se accetterà l'offerta della segreteria), affiancato da un altro direttore con il tesserino di giornalista. Quanto alla scissione, annunciata dall'ex segretario Franco Giordano in un'intervista a Repubblica giorni fa, ciò che preme di più all'ex presidente della Camera è mantenere un ponte di collegamento tra chi va e chi resta nel partito. Una rete, insomma, per non disperdere l'area "Rifondazione per la sinistra" e non sacrificare l'obiettivo della costruzione di un soggetto unitario a sinistra.
Ferrero intanto sembrerebbe rassegnato al divorzio, anche se dice di non comprenderne le ragioni. «Non capisco a cosa servirebbe - ribadisce - perchè abbiamo discusso tanto di unità della sinistra e, se tutto si risolve nella costruzione di un altro partitino, mi sembra che siamo in una situazione ridicola». La nuova maggioranza battezzata a luglio a Chianciano va avanti. Cambio al timone del giornale («nessun commissariamento, non sarà un bollettino», dice Claudio Grassi), lista di Rifondazione alle europee, insiste Ferrero, anche se il segretario del Pdci Oliviero Diliberto continua a premere per una «unità dei comunisti» sapendo bene di solleticare i gusti di una parte del gruppo dirigente del Prc (area Giannini e non solo). I vendoliani, che lunedì prossimo potrebbero dimettersi dalla direzione nazionale in protesta contro la sfiducia a Sansonetti, virano verso una lista unitaria della sinistra alle Europee con Sd, parte dei Verdi, gli anti-dilibertiani del Pdci. E i vendoliani che decideranno di restare nel Prc? Ce ne sono, hanno maturato la scelta per ragioni diverse, determinate da fattori anche individuali, e non perchè in dissenso con la prospettiva di un soggetto unitario a sinistra. Cavallo di Troia nel Prc? Cioè: lavorareranno da dentro per un obiettivo comune con chi sta fuori? Scomodare la leggenda greca è magari esagerato, parlare di "sommergibilisti" può rendere l'idea. E dopo le europee e le amministrative di giugno si vedrà. Anche perchè la lista unitaria (che potrebbe chiamarsi proprio "La sinistra") è solo la bozza del nuovo soggetto, lascia volentieri al futuro le decisioni sulla leadership, ha la forza - spiegano da "Rifondazione per la Sinistra" - di presentarsi per quello che è: un cartello elettorale. Cioè cosa diversa dal fallito esperimento della Sinistra Arcobaleno che pretendeva di presentarsi come innovazione unitaria ma alla fine era solo un cartello. Prima di giugno però ci sono le regionali in Sardegna. Guarda caso proprio lì il gruppo dirigente vendoliano ha deciso di non abbandonare Rifondazione. Con i propositi di Renato Soru, aspirante leader nazionale del Pd, a rifare l'Ulivo, il futuro è tutto da disegnare.

Liberazione 10.1.09
Contrastiamo la scissione fino in fondo
Investiamo sull'autonomia del progetto Prc
di Walter De Cesaris, Franco Russo

La scissione va contrastata fino in fondo. Non in nome di una ortodossia che non ci appartiene o in nome della fedeltà a una linea che non ci convince.
La scissione va contrastata per due ragioni di fondo, oltre che per una serie di ragioni di merito specifico.
La prima, è che non si possono raggirare le iscritte e gli iscritti del PRC. Tutti, non solo coloro che hanno votato per il secondo documento. La scissione è stata sempre negata da tutti in premessa, anzi si è reagito con enfasi ogni qual volta qualcuno, nei congressi di circolo, avanzava il sospetto che ci fosse quella volontà e che, oltre la costituente di sinistra, ci fosse il superamento del PRC e la nascita di un'altra formazione politica. E noi, abbiamo sempre difeso quella reazione indignata.
La seconda è che non si può consumare la scissione sul tema di come ci si presenta alle elezioni, anche se questo rimanda a una questione più di fondo, della prospettiva politica.
Strano destino quello di Rifondazione Comunista, la formazione politica che sulla carta avrebbe dovuto essere la più al riparo dall'istituzionalismo e che, invece, ha vissuto le sue scissioni sempre sul tema del governo e oggi si appresta a viverne una sul tema delle elezioni.
Come se fosse indifferente il fatto che vi sia stato un pronunciamento democratico nel congresso nazionale o fosse un particolare il fatto che siamo partecipi di un progetto europeo, la Sinistra Europea, avversata dal PdCI e siamo membri di un gruppo parlamentare, il GUE, che è alternativo al Partito Socialista Europeo.
La vera rivoluzione da fare, sarebbe quella che abbiamo predicato a Carrara e ancora non praticato: rompere con la separatezza istituzionale, ovvero fare del governo e delle elezioni l'alfa e l'omega della politica, il suo fine ultimo, di cui tutto il resto, alla fine, è semplice strumento (compreso l'altrettanto tanto predicato rapporto di internità con i movimenti).
Negli ultimi interventi, comincia ad apparire la retorica con cui si giustificano tutte le scissioni: non siamo noi che la facciamo, siete voi che avete modificato il codice genetico del PRC! Le stesse, identiche parole di Cossutta e Diliberto nel 1998. All'epoca, l'accusa era ancora più infamante: la rottura con Prodi veniva associata alla collusione con le destre e all'abbandono della discriminante antifascista. Un veleno sparso a piene mani, un'accusa che ci rimbalzò addosso per anni.
Oggi, l'accusa è di stalinismo, chiusura in una nicchia identitaria, minoritarismo, ecc..
Per favore, almeno ci si risparmi questa retorica da quattro soldi!
Non ci sfugge che la questione delle elezioni europee, nasconde una distanza strategica di progetto. E che in campo, ormai senza veli, c'è il progetto di una nuova forza politica della sinistra in cui Rifondazione Comunista debba sciogliersi o confluire.
La riteniamo una proposta sbagliata perché si rivolge alle forze politiche della sinistra, ristabilendo una gerarchia che pensiamo vada contestata e perché non chiarisce l'alternatività al PD, che riteniamo una questione di fondo. Anzi, scegliendo come interlocutore privilegiato Sinistra Democratica, che fa dell'orizzonte di un nuovo centro sinistra e della cultura della sinistra di governo i suoi capisaldi, indica già quale sia la direzione di marcia scelta (un tragico errore per noi). Detto questo, non mettiamo in discussione la legittimità di questa scelta e che con essa occorra misurarci. Anzi, ancora di più: che occorra dare una risposta alla domanda di unità che essa esprime. Bene, quindi, misuriamoci nel confronto e nell'iniziativa! A partire dalla crisi e dalle risposte da dare. Nello scorso Comitato Politico Nazionale, si è detto di lavorare per un appuntamento unitario a sinistra, le organizzazioni del lavoro, le associazioni, i movimenti, i partiti, partendo proprio da qui: come intervenire concretamente dentro la crisi, quali proposte, quali iniziative, quali strumenti. Non sarebbe necessario che il nostro confronto e la nostra sfida, partissero da qui e non sempre, stucchevolmente, da come ci si presenta alle elezioni, se appoggiare o meno quella giunta, se rifare o meno il centro sinistra?
Contrastare la scissione non in nome della fedeltà alla linea. Anzi, cercando di rompere la perfidia della prigione delle correnti e liberando il confronto interno.
Pensiamo che vada detto apertamente che sostituire Sansonetti alla direzione del giornale sia un errore. Non perché non sia condivisibile una critica politica aspra al giornale che è stato utilizzato come una tribuna privilegiata per promuovere l'operazione politica del superamento del PRC. Il punto che solleviamo è un altro: l'inopportunità per un partito come il PRC di passare da una critica politica fortissima ad atti amministrativi. Ogni volta che l'abbiamo fatto, anche nel recente passato, abbiamo compiuto uno sbaglio. Un atto che è contro la natura aperta e libera del nostro partito. E' evidente che c'è una contraddizione stridente tra la scelta democratica delle iscritte e degli iscritti nel congresso e la conduzione politica del giornale. Per noi è una contraddizione con cui convivere e che non si risolve con atti amministrativi ma con la politica, il convincimento, il coinvolgimento, la pressione delle iscritte e degli iscritti, insomma con una sorta di "assedio democratico".
Ma si badi bene, ancora una volta, non si tratta di un atto illegittimo. La Direzione del partito ha quella competenza e in quella sede, con il proprio voto, ognuno si assumerà una responsabilità.
Contrastiamo la scissione fino in fondo per non arrenderci a una forza inerziale degli eventi che ci vorrebbe portare alla costituzione di un altro partito della sinistra e, quasi specularmente, alla riunificazione con il PdCI, passando magari per una lista comunista alle elezioni europee. Due derive per noi sbagliate: questo si porterebbe alla liquidazione del progetto della rifondazione comunista.
Investire sull'autonomia del progetto della rifondazione comunista per costruire la sinistra di alternativa, liberamente, con una battaglia politica aperta, questa è la prospettiva per cui ci battiamo.
Oltre, quindi, nella rifondazione comunista.
Su questi temi, vogliamo proporre un incontro, sabato 17 gennaio, aperto a tutte e a tutti coloro disponibili a un confronto.

Salvare il progetto
della Rifondazione
comunista
Cara "Liberazione", penso che se la parte più oltranzista dei vendoliani del Prc (Giordano e non so chi altri) intendesse davvero fare quel salto nel vuoto che sarebbe la scissione, compierebbe un errore gravissimo: come farebbero questi compagni a continuare a ribadire che hanno a cuore Rifondazione se non appena passano in minoranza, dopo anni di governo indiscusso del Partito, sbattono la porta e se ne vanno? La loro impresa non sortirebbe altro effetto se non un ulteriore indebolimento della forza più cospicua rimasta a sinistra, oltretutto a pochi mesi da una scadenza fondamentale come quella delle elezioni europee. Un'altra formazione politica con risultati da prefisso telefonico sarebbe forse un utile contributo all'unità della sinistra? Di fronte al crollo del neoliberismo i comunisti dovrebbero essere coesi più che mai nell'indicare una via d'uscita e un'altra idea di società e invece una polemica continua paralizza quotidianamente la nostra azione politica. Per fortuna tante e tanti compagne/i che pure a Chianciano hanno sostenuto la seconda mozione si dicono oggi contrari alla scissione e criticano le modalità, a colpi di articoli sui giornali borghesi e dibattito tra ceto politico, con cui qualcuno vorrebbe arrivare ad un fantomatico soggetto unitario della sinistra. I margini per ricostruire e ripartire insieme a tutte e tutti loro ci sono eccome, così come ci sono quelli per salvare il progetto della rifondazione comunista.
Leonardo Zanchi Bologna

Liberazione 10.1.09
Decapitate un'esperienza giornalistica unica
24 redattori di "Liberazione"

Rifondazione comunista voterà lunedì la rimozione di Piero Sansonetti, direttore del suo quotidiano. E prima ancora di questo voto, con rara villania, indica chi dovrebbe sostituirlo.
Dietro il Grande Alibi della crisi di bilancio di Liberazione (qualcuno ha mai spiegato come si sia concretamente prodotto il tanto sbandierato buco?) e della diversità di progetto politico tra giornale e (risicata) maggioranza del partito, si attua una operazione di normalizzazione senza precedenti nel panorama della stampa italiana.
Una pagina nera, nerissima, nella storia di una sinistra agonizzante. Rivendicata esplicitamente: «E' ora che il partito si riprenda il giornale», annunciava alle agenzie di stampa il segretario Ferrero qualche settimana fa.
Tant'è. Chi ha preordinato queste scelte, chi le sottoscrive e chi non le contrasta con la necessaria efficacia se ne assume la responsabilità.
A noi preme solo chiarire senza possibilità di equivoco una cosa: non di sostituzione di un direttore si tratta, ma della decapitazione di un esperimento giornalistico che ci ha visto appassionatamente partecipi. Con tutte le differenze e le sfumature, talvolta anche critiche, di una situazione collettiva libera e viva. Con Sansonetti vengono di fatto neutralizzati l'intero gruppo dirigente della testata, e il collettivo redazionale allargato nella sua parte attiva. Sì perché il giornale che abbiamo fatto in questi anni non sarebbe esistito senza il suo invidiabile parterre di collaboratrici e collaboratori: già note/i o "lanciate/i" da noi, diverse/i per collocazione, età, esperienza, ma accomunate/i da una disponibilità e una adesione al progetto che ci hanno scaldato il cuore.
Piero Sansonetti ha spalancato porte e finestre del giornale, ha fatto circolare aria nuova, idee, progetti editoriali e interlocutori nuovi. E noi con lui. Una sperimentazione che, proprio perché condotta all'interno di un giornale di partito, rivendichiamo con orgoglio. A partire dai temi che hanno incontrato più resistenza e fatto più scandalo: il femminismo, la cultura glbtq, le battaglie antisecuritarie, anticarcerarie, antirazziste, non violente, antitotalitarie, antiproibizioniste, contro gli omicidi sul lavoro, in generale di libertà. Senza mai cedere alla indegna contrapposizione tra diritti sociali e diritti civili. E senza mai dimenticare la storia da cui proveniamo, il movimento operaio e la passione per la politica anche partitica.
Ma la ricerca giornalistica e la dignità della nostra testata vengono da molto più lontano: del quindicennio che abbiamo alle spalle, fatto di tante luci e tante ombre, vogliamo citare qui almeno le due esperienze più importanti, quella con Lucio Manisco e quella con l'indimenticabile Sandro Curzi.
Tutto questo arriva oggi al capolinea. Noi non siamo donne e uomini per tutte le stagioni. E del resto l'operazione in corso è stata annunciata con la massima chiarezza: vuole marcare una «discontinuità forte» con il giornale così come noi lo abbiamo fatto.
Al commissario politico (chiunque egli o ella sia) che arriva a fare la guardia all'avvizzito orticello a cui si è voluto ridurre il grande sogno di Rifondazione comunista, e al/alla giornalista che si presterà a dargli la copertura, diciamo che purtroppo una simile "presa di una redazione" azzera i margini di incontro: non c'è profilo personale, non ci sono ipotetiche "buone intenzioni", non c'è preteso superiore interesse che possano edulcorare la sostanza oggettivamente repressiva del lavoro che accettano di svolgere.
Noi abbiamo un'altra idea del giornalismo, della politica, delle relazioni collettive.
Alla fine di questa importante avventura, ringraziamo con grandissimo affetto e riconoscenza Piero Sansonetti che l'ha resa possibile. E ringraziamo compagne/i di strada, salutiamo lettrici, lettori: quelle/i che ci hanno comprato o letto gratuitamente su internet o sulle metropolitane di Roma e Milano. Nessuna/o intende regalare il bene inestimabile di un posto di lavoro (onorato negli anni da un massimo di impegno e coinvolgimento) agli irresponsabili che da mesi e mesi lo mettono a repentaglio mischiando crisi economica e scontro politico. Anzi a qualcuno di noi è già stato scippato. Ma da oggi ci riteniamo tutte/i imbavagliate/i.

Angela Azzaro, Stefano Bocconetti, Monia Cappuccini, Simonetta Cossu, Carla Cotti, Giuseppe D'Agata, Anubi D'Avossa Lussurgiu, Sabrina Deligia, Laura Eduati, Rina Gagliardi, Claudio Jampaglia, Antonella Marrone, Angela Mauro, Martino Mazzonis, Andrea Milluzzi, Frida Nacinovich, Angela Nocioni, Paolo Persichetti, Paola Pittei, Sandro Podda, Stefania Podda, Roberta Ronconi, Davide Varì, Daniele Zaccaria

Liberazione 10.1.09
Mrc Spa, Rifondazione eviti qualsiasi manovra speculativa
Comunicato sindacale di Fnsi, Stampa romana e Cdr di Liberazione

La Federazione Nazionale della Stampa, l'Associazione Stampa Romana e il Comitato di Redazione di Liberazione hanno avviato un confronto con la segreteria di Rifondazione Comunista e con l'amministratore unico della Mrc, casa editrice della testata, per monitorare la situazione economico-editoriale, analizzare i piani di rilancio del giornale, verificare la praticabilità e le modalità di un eventuale cessione di parte delle quote societarie a terzi.
Il segretario Paolo Ferrero e l'amministratore unico Sergio Boccadutri, si sono impegnati ad analizzare preventivamente con il sindacato il piano industriale e il piano editoriale, che verranno presentati una volta completati gli approfondimenti sulle proposte di acquisto presentate alla Mrc. L'editore ha confermato che prenderà in considerazione tutte le offerte pervenute, vagliandole alla luce del mantenimento del contributo pubblico e di un piano di rilancio del giornale che punti alla continuità delle pubblicazioni, salvaguardi i posti di lavoro e l'autonomia della redazione.
Da parte loro, Fnsi, Asr e Cdr chiedono al partito della Rifondazione Comunista di garantire una presenza societaria che impedisca qualsiasi manovra speculativa a medio e lungo termine. Questo anche alla luce della posizione assunta dalla Federazione in merito al nuovo regolamento per i contributi alle testate di partito, che è in discussione in queste settimane.


Massacro. L'Onu: Bambini un terzo delle vittime
l'Unità 10.1.09
«Crimini di guerra a Gaza
Un tribunale Onu deve processare Israele»
Intervista a Mairead Corrigan Maguire

Chiedo giustizia per i bambini, le donne, gli anziani, gli esseri umani massacrati a Gaza. Chiedo che si onori la loro memoria sancendo per ciò che è stata la loro morte: un massacro di innocenti. Chiedo, e per questo ho scritto una lettera al segretario generale delle Nazioni Unite Ban ki-moon, che i responsabili di questi massacri e i loro mandanti siano processati da un Tribunale internazionale istituito dall'Onu, per i crimini di guerra compiuti nella Striscia di Gaza, crimini che si aggiungono a quelli già perpetrati prima del 26 dicembre (l’inizio dell'offensiva militare israeliana a Gaza, ndr.) contro la popolazione palestinese della Striscia, sottoposto ad un embargo illegale e disumano che ha portato ad una crisi umanitaria. Una crisi che ancora qualche giorno fa, la signora Livni (Tzipi Livni, ministra degli Esteri d'Israele, ndr.) aveva sprezzantemente negato». Giustizia. È una parola che Mairead Corrigan Maguire, nordirlandese, Premio Nobel per la Pace nel 1976, presidente della Fondazione dei Nobel Peace Laureate, ripete più volte nel corso del nostro colloquio. «Giustizia, sì. Lo dobbiamo ad un popolo a cui da sessant'anni viene negata».
A Gaza è guerra totale….
«Questa guerra contro un popolo non nasce due settimane fa. Due settimane fa Israele ha deciso di scatenare una devastante potenza di fuoco contro un fazzoletto di terra popolato da un milione e mezzo di persone. La guerra era iniziata già prima e nel silenzio complice della diplomazia internazionale».
A cosa si riferisce?
«All’embargo imposto da Israele, alla trasformazione di Gaza in una enorme prigione a cielo aperto. L’ho ricordato nella lettera che ho scritto alcuni giorni fa al segretario generale delle Nazioni Unite. E voglio ripeterlo al suo giornale che non ha scoperto l’esistenza della tragedia di Gaza ai primi bombardamenti israeliani... Nel novembre 2008 visitai la Striscia e rimasi scioccata dalla sofferenza della popolazione di Gaza sotto assedio da oltre due anni. Questa punizione collettiva da parte del governo israeliano ha condotto a una grave crisi umanitaria. La punizione collettiva contro una comunità civili, da parte del governo israeliano, viola la Convenzione di Ginevra, è illegale, è un crimine di guerra e un crimine contro l'umanità. Invece di proteggere la comunità civile di Gaza e alleviare la sua sofferenza sollevando l'assedio, da ormai due settimane l'esercito israeliano esegue bombardamenti di cielo e mare contro i civili disarmati. Lanciare bombe, centinaia di tonnellate di bombe, contro civili disarmati, molti dei quali donne e bambini, distruggere moschee, ospedali e case, e devastare le infrastrutture di Gaza è illegale e costituisce crimini di guerra. I morti del popolo di Gaza sono ora quasi 800, i feriti superano i 3.200, molti dei quali donne e bambini. Le infrastrutture di Gaza sono state distrutte e la popolazione è tagliata fuori dal mondo - compresi i giornalisti, gli osservatori e gli attivisti umanitari, tutti chiusi fuori da Gaza e impossibilitati a entrare ad aiutare la popolazione. Questa è la realtà».
Cosa chiede all'Onu?
«L’Onu deve sostenere il rispetto dei diritti umani e della giustizia nei confronti del popolo palestinese, prendendo in seria considerazione l'istituzione di un Tribunale Criminale internazionale per Israele, così che il governo israeliano sia ritenuto responsabile di crimini di guerra».
Israele rivendica il diritto di difesa dal lancio dei razzi contro la popolazione del Sud.
«Ho condannato quei lanci ma non c'è diritto di difesa che possa giustificare i massacri di civili attuati a Gaza».
Repubblica 10.1.09
L´appello di Veltroni al partito "Unità almeno fino alle Europee"
Ancora tensioni nel Pd, a Firenze polemiche sulle primarie
Il leader: "In questi mesi ci siamo fatti solo del male, è quasi una vocazione"
di c.t.

ROMA - «Nel corso di questi mesi, abbiamo fatto del male solo a noi stessi. Quasi una vocazione cui non riusciamo a resistere... Ma almeno fino alle europee, ci sia il tempo della responsabilità e dell´unità». Walter Veltroni sembra prevedere il peggio per il Pd da giugno in poi. Le polemiche di questi giorni, del resto, sono state serrate: lo scontro sulla segreteria, la richiesta di dimissioni, le ipotesi di scissione, il ritorno al binomio Ds-Margherita. E anche il leader democratico adesso rinvia all´estate il redde rationem. «Si esprimano pure le proprie idee - ha detto ieri alla festa del tesseramento - ma sempre sentendosi parte di una squadra collettiva che ha un solo obiettivo». Insomma, è convinto che ci sia lo spazio per far crescere una «grande forza riformista» senza riproporre «vecchi schemi del passato. Non dobbiamo essere il partito dei professionisti della politica». «Noi - ha insistito - dobbiamo essere un partito aperto anche a chi non è mai stato iscritto ai Ds o alla Margherita». Frase che probabilmente hanno fatto fischiare le orecchie a Renato Soru che ieri aveva rilanciato il ritorno all´Ulivo. Ma anche i prodiani non hanno apprezzato. Basti pensare a quel che sostiene Mario Barbi: «Fa piacere quel che dice Soru» ma servirebbe una «rivoluzione» nel Partito Democratico, a partire «dalla messa in discussione dell´attuale vertice». Tutto il contrario del veltroniano Giorgio Tonini che boccia il «modello Sardegna» e ripete: «Dal Pd non si torna indietro». Che la bufera stia scuotendo Largo del Nazzareno, poi, lo si capisce dalla decisione di inviare una sorta di "commissario", Vannino Chiti, per seguire le primarie di Firenze.
Non solo. Anche la proposta avanzata dall´Udc agli ex margheritini di dar vita ad un nuovo Centro, è riuscita a scuotere il Pd. Il segretario centrista, Lorenzo Cesa, si è rivolto a uomini come Francesco Rutelli e Enrico Letta: «I cattolici del Pd vivono un profondo disagio. Noi stiamo costruendo la Costituente di Centro per andare oltre l´Udc e un accordo è possibile e auspicabile con tutti i moderati». Poche parole in grado di gettare lo scompiglio. Con una prevalenza di pareri negativi, ma anche con tanti distinguo. Letta ha tagliato corto: «Ringrazio per l´attenzione che so essere genuina, ma direi che non è cosa. D´altronde penso che Cesa risponderebbe allo stesso modo se gli proponessimo di entrare nel Pd». Sulla stessa linea Rosy Bindi: «Conosco le virtù della moderazione ma questo non vuol dire che sono moderata». Dalle parti dei "rutelliani", invece, le risposte non sono altrettanto trancianti. «Per noi - ragiona Gianni Vernetti - il rapporto con l´Udc è centrale per spostare l´asse della nostra alleanza al centro. Quindi noi lavoriamo a questa alleanza già dalle prossime amministrative». Ed Enzo Carra ritiene che «serva un lavoro comune da cercare con la necessaria convergenza in Parlamento». Per Arturo Parisi, invece, l´idea che «autorevoli dirigenti ex Dl possano passare all´Udc, è una conferma allarmante del mancato decollo del progetto Veltroni».

Corriere della Sera 10.1.09
Un partito ingovernabile tra nostalgie prodiane e attacchi al segretario
di Massimo Franco

Gli avversari di Walter Veltroni hanno deciso di usare il candidato alla presidenza della Sardegna, Renato Soru, come spauracchio. L'idea che lasciano balenare soprattutto i prodiani è che possa diventare nel medio periodo leader del partito, in nome appunto dell'Ulivo: un'evocazione nostalgica e dai contorni ambigui, in bilico fra riedizione dell'Unione e nuove frontiere nebulose. A prima vista, l'ipotesi potrebbe rivelarsi un azzardo: nel senso che prima Soru dovrà vincere le regionali. Ma l'attenzione generosa nei suoi confronti, e polemica verso Veltroni, è un altro sintomo del malessere che sta lievitando nel Pd; e che minaccia non di spaccarlo, ma di frantumarlo.
Non si vedono vere contrapposizioni. C'è solo una deriva centrifuga che nessuno sembra capace di arginare; e che si alimenta da sola. L'abbrutimento dei rapporti politici e personali a Napoli è ormai pubblico. E la decisione del sindaco Rosa Russo Iervolino di distruggere teatralmente il nastro con la registrazione (non concordata) di un colloquio col segretario cittadino del Pd, non basta a tamponarlo. Da Torino, Milano e Venezia crescono le pressioni per un «partito del nord», che sembra una variante della fronda anti-Veltroni; ma nasconde in realtà un malessere ed una crisi di identità più profondi.
La stessa correzione del meccanismo delle primarie per il sindaco di Firenze è emblematica. Certifica il fallimento di un modello di selezione: lo stesso che ha portato Veltroni alla segreteria, per poi arenarsi, sabotato dalle faide e dai personalismi. E sullo sfondo incombono le inchieste giudiziarie: una novità traumatica, che tende ad archiviare i pregiudizi positivi nei confronti del centrosinistra. È un orizzonte di macerie che il gruppo dirigente intravede, ma fatica ad allontanare. Ieri, da Roma, il segretario del Pd ha invocato una tregua di sei mesi contro «la vocazione spesso irresistibile a farci del male da soli ».
Ma il logoramento difficilmente si fermerà, senza novità radicali. L'attacco veltroniano contro i «professionisti della politica », ribadito ieri, è coerente con il no al «ritorno ai vecchi partiti » del suo braccio destro, Giorgio Tonini. L'attacco agli apparati, tuttavia, ha anche l'effetto di ingrossare le file degli avversari interni; e trasmette un'immagine ibrida del Pd. Quando esponenti moderati come Francesco Rutelli ed Enrico Letta si sentono chiedere se pensano di uscire dal partito per unirsi ai centristi dell'Udc, significa che qualcosa si sta rompendo: anche se loro smentite sono recise, ed appaiono credibili.
Non bastano a rilanciare l'opposizione neppure le convulsioni del governo su Cai-Alitalia. «In nome dell'italianità il governo Berlusconi ha svenduto Alitalia», accusa Veltroni. «Prodi l'aveva venduta». Per quanto semplicistico, o forse proprio per questo, l'argomento potrebbe anche far breccia. Il problema è che viene oscurato dall'immagine devastata del centrosinistra. Le incursioni di Di Pietro, seppure appannato, e le offerte dell'Udc, la sottolineano. «Se sei vivo e forte, attiri gli alleati. Altrimenti», ammettono nel Pd, «rischi di essere un tonno ferito intorno al quale nuotano i barracuda, mordendolo a turno».

Repubblica 10.1.09
Così la crisi cambia il nostro stile di vita
di Zygmunt Bauman

Che cosa temono maggiormente i nostri contemporanei, in particolare gli abitanti delle dieci città più grandi e più importanti del pianeta, e quali sono le loro (e le nostre!) più assillanti e tormentose preoccupazioni, quali le cause più minacciose all´origine dei loro (e nostri!) incubi (se ne hanno�)? Dal sondaggio del World Social Survey del luglio 2008 è stato possibile dedurre differenze sbalorditive tra i vari Paesi. Tra le principali preoccupazioni che assillano gli americani in cima all´elenco ci sono la paura che il loro standard di vita precipiti in un immediato futuro, la paura di perdere il posto di lavoro, il timore che la vita dei loro figli sia più difficile di quella dei loro genitori.
Gli americani sono stati i primi a dover stringere la cinghia e ad avvertire la morsa della crisi, poiché gli enti che erogavano mutui subprime, e ancor più coloro che erogavano prestiti, erano nei guai già a luglio. In Gran Bretagna nessuno di questi cupi presagi ha raggiunto il vertice della classifica delle paure, e nessuno ha trovato posto tra le prime otto preoccupazioni più di frequente citate dagli intervistati. Nel novembre 2008, però � dopo cinque mesi appena � un altro sondaggio ha permesso di apprendere che un britannico su due dormiva meno bene di quanto dormisse sei mesi prima, che uno su quattro si svegliava più di tre volte ogni notte, che due su tre imputavano la loro insonnia soprattutto alla penuria di soldi e allo spettro della disoccupazione.
Uno dei risultati più sconcertanti tra i molteplici della crisi creditizia, è - come possiamo constatare da altre prove e da una consapevolezza comune che si diffonde rapidamente - quanto connesse (anzi, in realtà, interconnesse e reciprocamente dipendenti) siano le nostre vite, le nostre prospettive e le nostre paure nel nostro mondo globalizzato. Non soltanto gli americani e i britannici, che per molti anni hanno vissuto a credito, spendendo e spandendo ben al di sopra dei loro mezzi, ma anche popoli di nazioni relativamente puritane - parsimoniose e prudenti, fiere delle loro esportazioni che superavano le loro importazioni, orgogliose dei loro budget di governo come pure di ogni singolo nucleo famigliare che non precipitavano nell´insolvenza - avvertono ora queste preoccupazioni e scoprono di colpo che dormire bene di notte è un vero e proprio lusso (come i clienti della Germania, per esempio, che non sono più in grado di permettersi i beni che essa vorrebbe esportare).
In un paese lontano del Queensland in Australia, una giovane che oggi ha 23 anni e si chiama Siobhan Healey alcuni anni fa ha ottenuto la sua prima carta di credito: quello è stato - a suo dire - il giorno della sua emancipazione. Finalmente era libera di poter gestire da sola le proprie finanze, libera di scegliere le sue priorità, libera di far corrispondere i suoi desideri alla realtà. Non molto tempo dopo, la giovane ha chiesto e ottenuto una seconda carta di credito per far fronte agli interessi e ai debiti accumulati sulla prima. Passato poco tempo ancora, ha appreso altresì il prezzo della sua tanto agognata "libertà finanziaria", per la precisione nel momento in cui ha scoperto che la seconda carta di credito non bastava a far fronte e a coprire gli interessi dei debiti della prima. Si è quindi rivolta a una banca per ottenere un prestito necessario a saldare gli scoperti di entrambe le carte, che a quel punto avevano già raggiunto la spaventosa cifra di 26.000 dollari australiani. Seguendo però l´esempio degli amici ha preso in prestito altri soldi ancora, per finanziarsi un viaggio oltreoceano - un must per chiunque abbia la sua età. Adesso, finalmente, è stata assalita dalla consapevolezza di avere pochissime chance di poter mai ripagare da sola il proprio debito, e ha compreso che sottoscrivere sempre più prestiti non è il modo giusto per farlo. E così ha dichiarato - purtroppo per lei, con uno o finanche due anni di troppo - di aver "cambiato completamente mentalità e di aver imparato che per fare acquisti è necessario risparmiare". Attualmente ha assunto un consulente finanziario, ha interpellato un amministratore e conciliatore che la aiuterà poco alla volta a tirarsi fuori dal baratro nel quale è caduta. Ma costoro la aiuteranno davvero a "cambiare radicalmente mentalità"? Resta da vedere. E quale aiuto trarrà dalle loro lezioni, se nessuno sarà disposto a offrirle un´altra sospensione della pena? Ben Paris, portavoce di Debt Mediator Australia, non si stupisce né si sconcerta più di tanto: paragona la tragica vicenda di Healey a "giocare al gioco delle sedie sul ponte del Titanic", per aggiungere quindi senza indugio che è del tutto normale per i giovani "prendere soldi in prestito ben oltre i propri mezzi", e fa notare che il caso di Siobhan Healey non è affatto unico e fuori dalla norma: «Ogni anno riceviamo 25.000 giovani che sono in situazione critica dal punto di vista finanziario, e questa è soltanto la punta dell´iceberg».
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, in Germania e in Australia per uomini e donne, per giovani e vecchi è ormai lapalissiano che sono giunti al termine i bei tempi in cui potevano ancora credere che nel caso in cui fossero finiti nei guai ci sarebbe sempre stato qualcuno accanto a loro o nei paraggi disposto in qualche modo a offrire un "prestito ponte" fino al momento in cui le loro fortune non fossero tornate a sorridere loro. Tre anni fa, mentre raccoglieva materiale per un suo articolo, Tim Adams del londinese Observer riuscì in pochissimo tempo a mettere insieme "la cifra teorica di centomila sterline semplicemente dando ripetutamente il cognome da nubile della madre in qualche telefonata a banche cordiali e società di credito in competizione tra loro per accaparrarsi un nuovo cliente", mentre di recente non è riuscito a ottenere un´estensione di diecimila sterline per il mutuo da una società bancaria con la quale ha rapporti da ben quaranta anni.
Molto prima che l´ultima bolla del mercato esplodesse, c´erano già numerosi segnali dai quali si evinceva che la fiducia reciproca - il fatto di credere nella serietà, nell´affidabilità e nella buona volontà altrui - non era poi così grande come avrebbe potuto essere in una società meno liquida e instabile e dunque più prevedibile e affidabile della nostra. Ma l´esplosione della bolla dei prestiti erogati e sottoscritti ha inferto un duro colpo a quella fiducia, proprio dove più fa male e dove la ferita è più deleteria. Nel nostro mondo pullulante di rischi, un mondo che ci blandiva, spronava e costringeva a essere temerari e coraggiosi e a proseguire nelle nostre acrobazie al trapezio anche se le reti di sicurezza andavano scomparendo una dopo l´altra, le banche in fin dei conti si sono presentate come l´ultimo riparo sicuro, si sono spacciate per l´ultimo bastione della fiducia: hanno promesso di ammortizzare la nostra caduta, se fossimo mai caduti. E noi abbiamo creduto anche che le banche avrebbero calcolato i rischi meglio di quanto fossimo capaci noi, e che ci avrebbero pertanto difeso dalle temibili conseguenze di mosse azzardate, sconsigliabili e stolte. Il fatto che riconoscessero il nostro status di individui meritevoli di fiducia costituiva una sorta di certificato della nostra sagacia, era la prova indiscutibile della nostra competenza che ci serviva per andare avanti.
Adesso, invece, i direttori di banca hanno perso fiducia nell´affidabilità di coloro ai quali erogavano i loro prestiti - affidabilità che loro stessi hanno messo maggiorente a rischio, esortando i loro clienti esistenti e i loro aspiranti clienti a vivere al di sopra dei loro mezzi, a spendere soldi non ancora guadagnati e che tutto sommato avevano ben scarse speranze di poter mai guadagnare, rassicurandoli che in caso di necessità il soccorso da parte delle loro banche amichevoli e sorridenti, sempre-pronte-ad-arrivare-anche-con-breve-preavviso non sarebbe venuto meno.
Invece, noi tutti abbiamo perso fiducia nell´affidabilità delle capacità di giudizio delle banche e nell´attendibilità delle loro promesse. Una volta sparito il sorriso dalle facce benevolenti dei manager di banca, ciò che è affiorato da sotto la maschera non era affatto rassicurante: sinistre e spietate maschere facciali di contenimento di esperti in recupero crediti e agenti addetti agli espropri. Abbiamo perso fiducia anche nei nostri esperti, nei consiglieri, negli specialisti in previsioni economiche, in coloro che pretendevano di avere una linea diretta con il futuro e di sapere perfettamente come riconoscere le iniziative sicure e prudenti da quelle avventate e stolte. Le banche assumevano - non è forse vero? - i consulenti migliori, quelli che non ci saremmo mai sognati di poter interpellare né tanto meno di retribuire per i loro servigi, e guarda un po´ in quali guai sono finiti! La fiducia - così sembra - sta vivendo tempi quanto mai difficili, come mai prima d´ora.
Non possiamo più seguire la fiducia nello spazio intergalattico nel quale è stata proiettata. Siamo infatti abituati ad avere a che fare con "questioni di fiducia" a nostra dimensione, umana, modesta: la maggior parte di noi si è imbattuta in questa questione faccia a faccia quando si è trattato di prendere in prestito o di prestare qualche centinaio, forse qualche migliaio di sterline o di euro, al più cento o duecentomila al massimo, nella rara circostanza in cui si comperava una casa o si apriva un´attività. Ogni giorno dai giornali apprendevamo che mentre noi eravamo in coda per ricevere magri sussidi statali, le scuole, gli ospedali, i teatri, le ferrovie, i trasporti municipali e altre istituzioni fondamentali per la nostra vita di tutti i giorni dovevano arrabattarsi e farsi in mille per ottenere finanziamenti di un milione o di qualche milione di sterline o di euro che - così sostenevano - avrebbero fatto la differenza tra la normalità e la catastrofe. Adesso su quegli stessi giornali leggiamo che al fine di ripristinare la fiducia tra banche e clienti, occorrono miliardi di sterline o di euro. Anzi, neppure miliardi, ma un numero non meglio quantificato di centinaia di miliardi. Il presidente eletto americano qualche giorno fa ha parlato di un trilione di dollari, nel momento stesso in cui alcuni commentatori facevano notare che le misure e i provvedimenti che egli ha in mente di realizzare costeranno molto, molto di più. Come ha calcolato Tim Adams, le cifre sbandierate in questi giorni in relazione al probabile costo che comporterà il ritorno alla normalità è equivalente (in valori attuali) all´importo complessivo speso per il Piano Marshall (l´Italia e Trieste ricevettero, per procedere alla ricostruzione post-bellica, poco più di un miliardo di dollari del budget complessivo previsto dal Piano Marshall e corrispondente a poco più di 12 miliardi di dollari), per il programma spaziale della Nasa e per la guerra del Vietnam. Tale cifra mette a dura prova la nostra comprensione. Va al di là di quello che riusciamo anche solo a immaginare.
Non siamo più saggi e non sappiamo che cosa fare di più (al di là di quello che noi, intesi come voi e io, possiamo singolarmente fare), non più di quanto saremmo e sapremmo fare se ci fosse stato detto che i ministri delle Finanze nel loro meeting d´emergenza indetto per un certo giorno avessero convocato una schiera di angeli e l´avessero fatta arrivare sulla Terra per porre rimedio a ciò che noi - indolenti esseri umani - abbiamo così rovinosamente distrutto. Unica reazione ragionevole dovrebbe sembrarci la preghiera, se solo sapessimo a quale arcangelo in carica indirizzare debitamente le nostre invocazioni. E´ troppo presto per dire se la crisi finanziaria ci stia cambiando e se all´uscita dal tunnel saremo di fatto diversi.
Per quanto riguarda la prognosi, ammiro - anche se non necessariamente invidio - gli esperti che non avendo apparentemente perduto un briciolo della loro fiducia in loro stessi, malgrado tutti i rovesci di fortuna e il fatto di averci rimesso la faccia, si precipitano a fare previsioni su quanti lavoratori complessivamente perderanno il loro posto di lavoro prima che torni a esserci un certo benessere, a che ora dell´anno prossimo o di quello dopo ancora le banche riprenderanno a erogare prestiti e noi potremo ricominciare a chiederli, e a quali comodità della nostra esistenza dovremo rinunciare temporaneamente o per sempre: la cena al ristorante? Le vacanze all´estero? I regali di Natale? Gli alimenti biologici, per altro costosi? Temo che, come il resto di noi, gli esperti siano sopraffatti dalla smisurata entità di questo enorme problema col quale siamo attualmente alle prese. Come i generali, anche loro combattono le battaglie del passato, le uniche che conoscono…Ma il crollo collettivo di quella fiducia che aveva caratterizzato, sorretto e mantenuto nei binari la nostra esistenza nei decenni recenti, e la sua fuga nel regno dell´inimmaginabile, non hanno sicuramente precedenti, e pertanto non vi è alcuna ovvia e naturale lezione di storia che possiamo trarre e mandare a mente. L´unico confronto storico che sembra all´altezza della nostra situazione è quello con Winston Churchill che dichiarò, proprio mentre stava per diventare palese a tutti, che l´unica strada verso la vittoria che egli si sentiva di poter responsabilmente promettere alla nazione in difficoltà, era quella che prevedeva ancora più sudore, più fatica, più sacrifici…
Traduzione di Anna Bissanti

Corriere della Sera 10.1.09
Togliatti torna in Italia, la svolta di Salerno
Risponde Sergio Romano

Sono convinto che la «svolta di Salerno» dell'aprile del 1944 sia da annoverare tra gli avvenimenti politici italiani del secolo scorso e credo, quindi, che esso meriti alcuni chiarimenti che mi permetto di chiederle. Come mai il viaggio di Togliatti da Mosca a Salerno durò più di 40 giorni? Vi furono interrogatori, colloqui, indottrinamenti da parte degli angloamericani che si aggiunsero a quanto imposto da Stalin a Mosca e finalizzato a determinare la suddetta svolta? Inoltre, come avvenne la comunicazione dei nuovi orientamenti politici ai dirigenti comunisti del Nord Italia, vi furono opposizioni e da parte di chi e in quale sede?
Franco Di Martino

Caro Di Martino,
Il viaggio di Togliatti da Mosca a Salerno durò effettivamente cinque settimane. Ma le ragioni della lunghezza furono semplicemente la guerra e la geografia. Togliatti partì da Mosca il 18 febbraio per Baku, in Azerbaigian, proseguì per Teheran, raggiunse il Cairo, approdò ad Algeri, dove dette una intervista a un giornale comunista, e salpò per Napoli a bordo della nave Ascania. Giunse in vista del Vesuvio il 27 marzo, nel giorno stesso in cui una enorme massa di fumo e una pioggia di cenere sottile, provocate da una eruzione del vulcano, oscuravano la vista della città. Scrisse più tardi che «il volto della patria, di nuovo raggiunta dopo diciotto anni di esilio, aveva qualcosa di apocalittico ». È possibile che durante il viaggio abbia avuto incontri politici, soprattutto ad Algeri, dove era installata la Commissione alleata di controllo. Ma buona parte del suo tempo fu impiegata ad attendere pazientemente la partenza di un mezzo di trasporto, nave o aereo, per la tappa successiva.
Sulle ragioni della «svolta di Salerno» (la partecipazione dei comunisti al governo Badoglio) è stato scritto molto ed esistono oggi gli importanti documenti rinvenuti da Elena Aga Rossi e Viktor Zaslavsky («Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca », edito dal Mulino). Sappiamo che Togliatti inviò a Badoglio due messaggi, fra il novembre e il dicembre 1943, per chiedergli di essere autorizzato a rientrare in Italia. Sappiamo che nelle settimane seguenti vi furono alcuni incontri fra il segretario generale del ministero degli Esteri italiano Renato Prunas e il rappresentante sovietico nella Commissione di controllo Andrej Vyshinskij. Sappiamo che questi incontri permisero la ripresa delle relazioni tra l'Italia e l'Urss e che la notizia dell'accordo fu data il 14 marzo, mentre Togliatti era al Cairo. E sappiamo infine che l'intesa raggiunta da Prunas e Vyshinskij non piacque agli Alleati e irritò in particolare il governo britannico.
Il ritorno di Togliatti, l'accordo italo-sovietico e l'irritazione della Gran Bretagna sono pezzi di uno stesso puzzle. Come ha ricordato Paolo Spriano («Togliatti segretario dell'Internazionale», Mondadori 1988), Churchill non si fidava degli antifascisti, voleva che l'Italia avesse un governo monarchico e intendeva tenere l'Urss fuori della penisola. Per rompere il loro isolamento, i sovietici si accordarono con Badoglio sulla ripresa delle relazioni e sostennero, con argomenti a cui gli americani erano sensibili, che le forze antifasciste erano indispensabili alla lotta contro la Germania e al futuro democratico del Paese. Sapevano di non poter fare in Italia ciò che avrebbero fatto di lì a poco in Romania, Bulgaria, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia. E puntarono su un obiettivo che avrebbe avuto almeno l'effetto di allargare la loro influenza sul Paese. Togliatti aveva il compito di spiegare ai comunisti intransigenti, come Velio Spano, e agli altri partiti antifascisti, che era dannoso in quel momento insistere sull'abdicazione del re e l'avvento della repubblica. Quei problemi potevano attendere la fine della guerra e, nel frattempo, era meglio stare al governo che starne fuori.

Corriere della Sera 10.1.09
Leonid Mlecin svela i meccanismi che portarono i sovietici a sponsorizzare il voto favorevole alla divisione della Palestina
Stalin, da «ostetrico» a nemico della nuova Israele
di Paolo Rastelli

Tel Aviv dopo il voto delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947. Il libro di Mlecin sarà presentato oggi (dopo le 10.30) su Radio Popolare durante il programma «Sabato libri» a cura di Bruna Miorelli

«Durante l'ultima guerra il popolo ebraico ha patito tremende e indescrivibili sofferenze… Il fatto che nessuno Stato dell'Europa occidentale sia stato capace di garantire i diritti elementari del popolo ebraico e di proteggerlo dalla violenza fascista, spiega il desiderio degli ebrei di costituirsi uno Stato proprio. Sarebbe ingiusto non prendere in considerazione questa circostanza e negare al popolo ebraico il diritto a realizzare le proprie aspirazioni… ». A pronunciare questo discorso appassionato a favore del diritto degli ebrei di costituire un proprio Stato in Palestina fu Andrej Gromyko, rappresentante permanente alle Nazioni Unite e viceministro degli Esteri dell'Unione Sovietica. Era il 4 maggio 1947 e l'Urss, vittoriosa nella Seconda guerra mondiale e già impegnata nel confronto con l'Occidente, aveva identificato nel Medio Oriente, ancora nella sfera di influenza di una debolissima Gran Bretagna, uno dei settori in cui misurarsi con gli ex alleati. Sia Londra sia gli Stati Uniti, un po' per gli interessi petroliferi in comune con i governi arabi, un po' per i tradizionali (e romantici) legami che soprattutto gli inglesi, da Lawrence d'Arabia in poi, avevano con le monarchie della regione, un po' per la diffidenza che gli ebrei palestinesi imbevuti di socialismo ispiravano al dipartimento di Stato di Washington, non erano affatto favorevoli alle aspirazioni sioniste. E così Mosca fece la scelta opposta.
Per chi è nato nel dopoguerra ed è cresciuto leggendo sui giornali dei grandi scontri arabo- israeliani, soprattutto quelli del 1967 e del 1973, è difficile pensare che ci sia stato un momento storico in cui Usa e Urss avevano ruoli opposti rispetto a quelli tradizionali di sponsor, rispettivamente, di ebrei e arabi. Eppure la grande mole di documenti, alcuni dei quali inediti, raccolti dal giornalista e storico russo Leonid Mlecin nel libro Perché Stalin creò Israele (Sandro Teti Editore, pp. 207, e 17, a cura di Luciano Canfora, introduzione di Enrico Mentana, traduzione di Svetlana Solomonova) non lasciano ombra di dubbio. Il georgiano di Mosca, mentre in patria perseguitava gli ebrei (e le altre nazionalità) in nome della russificazione dell'Urss, sulla scena internazionale fu «l'ostetrico» che fece nascere Israele: furono Urss, Ucraina, Bielorussia, Polonia e Cecoslovacchia, nella votazione definitiva all'Onu, a far pendere la bilancia a favore della spartizione della Palestina in due Stati autonomi, uno ebreo e l'altro arabo. E fu Stalin a consentire a Praga, appena entrata nell'orbita sovietica, di vendere armi moderne all'Haganah, in netta inferiorità di fronte agli eserciti arabi nella guerra del 1948. «Oggi non ho più dubbi: lo scopo dei sovietici era estromettere l'Inghilterra dal Medio Oriente», scrisse Golda Meir, ambasciatore a Mosca, poi ministro degli Esteri e infine primo ministro di Israele.
La rottura tra Tel Aviv e Mosca arrivò poco dopo la vittoria degli eserciti ebraici e l'affermazione definitiva di Israele, e fu rapida, come racconta Mlecin: Stalin, sempre a caccia di nemici interni nell'orwelliana ossessione di tenere il suo popolo in perenne stato d'assedio per compattarne la volontà antioccidentale, lanciò la sua campagna contro «la cricca» dei medici ebrei e aumentò le restrizioni all'emigrazione degli ebrei sovietici. La stampa israeliana lo attaccò duramente, nonostante la prudenza del governo di Tel Aviv. Ma Stalin, semplicemente, non poteva concepire l'idea di una stampa libera e vide dietro gli attacchi la mano di Ben Gurion e dei suoi. Poi ci fu un attentato all'ambasciata sovietica di Tel Aviv, la rottura delle relazioni diplomatiche e lo scivolamento di Israele nell'orbita americana. I diplomatici israeliani lasciarono Mosca il 20 febbraio 1953. Pochi giorni dopo Stalin moriva. Ma la frattura tra Israele e l'Urss non venne più ricomposta.

l'Unità 10.1.09
Toghe e politici
In un sistema democratico un magistrato libero è un magistrato scomodo
di Giancarlo De Cataldo

Finché i giudici sedevano alla mensa dei potenti nessuno li accusava
di tentazioni golpiste

Ciò che definiamo crisi della giustizia non è altro che la conseguenza inevitabile della combinazione di alcuni principi fondamentali del nostro sistema costituzionale a proposito del potere giudiziario». Così, a metà degli anni Ottanta, Giovanni Tarello, compianto studioso liberale. Una crisi strutturale tra i poteri dello Stato è fisiologica, se il giudice è soggetto alla legge e il PM non dipende dall'esecutivo; se la Corte Costituzionale può essere attivata da un singolo magistrato nel corso di un singolo processo; se il CSM è il garante irresponsabile (verso il Parlamento) dell'indipendenza dell'ordine giudiziario. Poteva quindi ben concludere Tarello che esiste «una crisi, o disfunzione, endemica, perché indotta da strutture che determinano comunque tensioni tra i poteri». I giudici, insomma, sono politicizzati e inaffidabili per qualunque maggioranza politica perché i meccanismi costituzionali possono di per sé determinare uno stato di attrito permanente tra i poteri politico e giudiziario.
Si potrebbe obbiettare che la Costituzione risale al '48, e tutto ha funzionato perfettamente sino a metà degli anni Sessanta: o, se si vuole, che sino a questa data i giudici erano ancora sani di mente e antropologicamente compatibili con il sistema. Obiezione respinta. Il sistema, pur contenendo in sé il germe della crisi, ha retto finché tra i poteri è esistita un'armonia «culturale» che ne mascherava il difetto di fabbricazione. Finché i giudici- tutti i giudici- sedevano, gai commensali o convitati di pietra, alla mensa dei potenti, nessuno si sognava di accusarli di tentazioni golpiste. È stato il dinamismo indotto dalle trasformazioni sociali degli anni Sessanta a mettere in moto la macchina costituzionale. La liberalizzazione degli accessi ha promosso un diffuso interclassismo in carriere un tempo riservate ai gruppi dirigenti. L'ingresso delle donne in magistratura (metà anni '60) ha portato alla ribalta temi prima negletti. Parte della corporazione ha mostrato una forte ricettività verso i fermenti in atto nella società civile. Alcuni dei tradizionali sistemi interni di controllo (l'autorità dei capi, la funzione uniformatrice della Cassazione) sono stati ridimensionati, altri (promozioni e avanzamenti di carriera) pretermessi del tutto. Un complesso di fattori ha dunque reso i giudici, non tutti, ma buona parte di essi- non più malleabili, non più governabili come un tempo: in una parola, culturalmente distonici, e, dunque, antropologicamente diversi.
Per certi strati della società siamo dei «traditori di classe»; per altri resteremo sempre, qualunque sia la nostra evoluzione, il braccio secolare della repressione, i tradizionali alleati del Potere. Della forte dialettica interna che attraversa la Magistratura filtra, all'esterno, poco o niente. Alcuni vorrebbero proprio fare a meno di noi; altri si rifugiano nel rimpianto di una figura idealizzata, e non so quanto autentica, di alto, nobile, ieratico magistrato d'antan. Il custode della proprietà privata e della rispettabilità borghese. Da vent'anni a questa parte si fanno, o si annunciano, riforme che si basano tutte su due cardini: da un lato, rimodellare la Costituzione, in modo da dirimere, una volta per tutte, l'endemico conflitto tra i poteri; dall'altro, ridefinire il ruolo e la figura «sociali» del magistrato. Il sistema ne risulta squilibrato, stressato da un continuo «stop-and-go» nel quale si inseriscono furberie, espedienti, regolamenti di conti, improvvise «illuminazioni» che mutano accaniti «giustizialisti» in angelici garantisti (prassi molto diffusa, di recente, a sinistra). Ma poiché, per un'elementare legge fisica, nessun sistema può sopravvivere a lungo in condizione di crisi, presto si dovrà raggiungere il sospirato punto di equilibrio. Separazione delle carriere; controllo del PM da parte dell'Esecutivo; azione penale discrezionale; mutazione genetica del CSM; ripristino della funzione «nomofilattica» della Cassazione; modifica dei meccanismi di selezione professionale; reclutamento degli avvocati anziani; recupero dell'autorità dei capi; meritocrazia reddituale: queste le ulteriori riforme che si rendono necessaria al completamento dell'opera. Tutte sono già da tempo nell'agenda politica, e prima o poi, in tutto o in parte, verranno varate.
Intendiamoci: in una democrazia rappresentativa, sono gli elettori, in ultima analisi, a scegliersi il proprio modello di magistrato. Ma sarebbe quanto meno corretto informare i cittadini delle conseguenze. Alcuni dei modelli proposti sono già stati sperimentati altrove, e con esiti ben noti: il giudice eletto dal popolo, per esempio, piuttosto che all'osservanza delle leggi punterà- fatto umanamente comprensibile e politicamente previsto dagli architetti del sistema- alla sua rielezione. O a fare comunque carriera in politica. Il primato della legge sarà inesorabilmente sostituito da quello del sondaggio. Qualcuno, magari un ricco imprenditore, sovvenzionerà generosamente la sua campagna elettorale. Il giudice eletto gliene sarà grato. Idem per quanto riguarda il Pubblico Ministero, legato alla maggioranza di governo, sia esso regionale, federale o nazionale, nonché esecutore incaricato di un «programma di politica criminale» che poi, alla scadenza del mandato, viene sottoposto al giudizio degli elettori. Facile, in una siffatta strutturazione, un cursus honorum all'insegna della piena osmosi fra politica e giustizia: chiamatelo, se vi piace, do ut des istituzionale. Potrebbero persino, in una simile prospettiva, essere riesumate antiche leggi nazionali, come la nr. 2300 del 24.12.1925, norma grazie alla quale Mussolini dispose la dispensa dal servizio dei magistrati che «per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori ufficio non dessero piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o si ponessero in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo». Eletto o nominato dal Governatore, e non più vincitore di concorso; soggetto alle leggi, ma previa autorizzazione governativa; dipendente dalla maggioranza all'esterno e pesantemente responsabile verso gli anziani capi negli interna corporis, il nuovo giudice sarà laborioso, fedele, silenzioso, felicemente ignorante. Potrà lavorare in santa pace, finalmente, questo nuovo giudice, così simile, per tanti versi, al modello tradizionale impresso nel DNA della collettività? In altri termini: cambiare la Costituzione e modificare i giudici servirà a far tornare la pace nel mondo della giustizia? Quando penso alle tensioni che in tutti i Paesi a noi più vicini, dalla Spagna, alla Francia, al Belgio agli stessi USA, attraversano il rapporto tra politica e giustizia; quando penso che in tre quarti del globo i diritti umani sono sistematicamente ignorati; quando penso che in Sudafrica, per superare la guerra civile, hanno semplicemente fatto a meno dei processi contro i torturatori, non posso fare a meno di chiedermi se anche la rivoluzione che stiamo vivendo non sia che una tappa di avvicinamento a qualcosa di ancora più radicale, di quasi definitivo. In fondo, mentre l'idea di giustizia, nella sua astratta formulazione, è immanente nell'uomo, i sistemi concreti per la sua attuazione sono storicamente dati, e dunque transeunti. Qualcuno dovrà pur sempre giudicare, s'intende: ma perché un giudice? In fondo, un funzionario dotato di un bagaglio di competenze tecniche è facilmente fungibile: con un amministratore pubblico, un giornalista, un esperto di mass-media, un hacker, quisque de populo estratto a sorte da un sofisticato grande fratello oppure, perché no, un'intelligenza artificiale opportunamente programmata. E i giudici? Quelli che "non ci stanno" tutti a Siena: a contemplare, mescolati a milioni di altri esseri umani antropologicamente consonanti, le Allegorie del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti (XIV secolo). La prima opera civile dell'arte italiana, secondo Argan. Dove per Buon Governo s'intende nient'altro che la separazione dei poteri, e cattivo è il governo nel quale il Tiranno cerchi di attrarre nella propria sfera di controllo, dominandola, la Giustizia. A contemplare, con nostalgia quell'antica saggezza in via di liquidazione. Chiedendosi per quale scherzo del destino siano nati nel tempo, e forse nel paese, sbagliati.

Liberazione 10.1.09
L'eredità di Sergio Piro
«Per prima cosa slegate i pazienti»
di Luigi Attenasio, Angelo Di Gennaro, Gian Piero Fiorillo*

La sera di mercoledì 7 gennaio è morto Sergio Piro. Era nato a Palma, in Campania, il 9 settembre del 1927. Trascorse l'infanzia a Cagliari, dove tornò, dopo aver conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia a Napoli, per specializzarsi in Neuropsichiatria con una tesi sulla Semantica del linguaggio schizofrenico, argomento difficile e affascinante che lo impegnò per tutta la vita, e di cui resta importantissima documentazione in Il linguaggio schizofrenico (Feltrinelli, Milano 1967). Fu libero docente in Psichiatria e in Clinica delle malattie Nervose e Mentali a Napoli, e direttore dell'Ospedale Psichiatrico Materdomini di Nocera Superiore (Salerno), dove iniziò un esperimento di psichiatria alternativa che divenne la seconda "comunità terapeutica" in Italia dopo quella di Basaglia a Gorizia. Quindi fu direttore dell'Ospedale Psichiatrico Frullone e del L. Bianchi di Napoli, impegnandosi nella loro dismissione secondo i dettami della Legge 180 del 1978, di cui era stato uno dei più importanti anticipatori.
Membro della Segreteria Nazionale e poi del Coordinamento Nazionale di Psichiatria Democratica, recentemente fra i promotori del Forum Salute Mentale, non ha mai smesso di lavorare per la trasformazione della psichiatria, inserendo il discorso terapeutico in una visione complessiva del mondo, in cui le dimensioni spaziali, storiche e umane si compenetravano in una sola unità, con lo sguardo di chi andava senza sforzo oltre le miserie e le ristrettezze del tempo che gli era toccato in sorte.
Sapeva concentrare l'attenzione sul microevento per coglierne l'apertura epocale, ed è questa attitudine una delle eredità più cospicue che lascia a chi lo ha conosciuto o anche soltanto ascoltato in uno dei numerosissimi interventi pubblici, sempre densi di temi e prospettive inusuali, oltre che di una carica umana sorprendente.
Di Basaglia, altro grande realista visionario ed eretico, fu da sempre amico e compagno in un rapporto di confronto aperto e costante.
Alla didattica ha dedicato anni importanti della sua vita, fondando nel 1980 il Centro Ricerche sulla psichiatria e le scienze umane, e successivamente la Scuola di Antropologia Trasformazionale, che, contro ogni deriva sclerotizzante, ebbe il coraggio di chiudere quando ne ritenne concluso il momento creativo.
Fra i suoi ultimi lavori, il fondamentale Trattato della ricerca diadromico-trasformazionale , in cui unisce teoria e storia del movimento di riforma, con una capacità di sintesi di pensiero (fenomenologia, psicanalisi, costruttivismo, epidemiologia ecc.) e realtà assolutamente rara. Così come nella vita coniugava pratica, teoria e impegno progettuale, anche nella pagina scritta la teoria e la realtà si attraversavano senza mostrare confini, intrecciandosi e includendosi reciprocamente nell'opera che risultava così, insieme, testimonianza e riflessione.
Ma al di là dei suoi meriti scientifici, Sergio Piro fu persona di grandissima, ineguagliabile umanità e di un'antica correttezza nei rapporti umani, priva di qualsiasi condiscendenza, una persona vera, diretta, sincera e tuttavia sempre dolce e amabile. E così lo abbiamo conosciuto, noi del Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma C nell'aprile del 2003, durante un incontro sulla "Cura della sofferenza detta psichiatrica come prassi polivalente". Una lectio magistralis in cui cucì, davanti a un auditorio ipnotizzato, passato e futuro, astrazione e concretezza, riforma istituzionale e trasformazione delle prassi operative, arricchendo la riflessione di ricordi puntuali, mai aneddotici o fini a se stessi.
In quell'occasione ebbe a dire, del suo rapporto con Basaglia: «Il fatto che la mia cultura alternativa venisse dalla semantica, dalla linguistica e dall'antropologia marxiana e la sua dalla filosofia della prassi di Sartre e dalla sociologia delle istituzioni non aveva nessuna importanza: entrambi, come diversi nostri coetanei, avevamo un sogno ed era lo stesso sogno. Quando negli anni precedenti avevo tanto lavorato con il linguaggio dei matti, ero giunto alla conclusione che il linguaggio schizofrenico non era uno scombinato ed inutile guazzabuglio, ma costituiva, anche nelle sue forme più contorte e incomprensibili, un autentico linguaggio ed un'autentica creazione: ne trassi perciò già dal 1961 la seguente conclusione: "Se quello che è lì davanti a te non è un produttore di sintomi inutili e privi di senso, ma uno che parla un linguaggio, allora tu lo sleghi immediatamente"; negli stessi anni, quasi con le stesse parole, a chi gli chiedeva che cosa fare di fronte a un paziente legato Franco Basaglia rispose: "Per prima cosa, slegalo subito".
E ancora, ecco solo un esempio del suo sguardo comprendente l'intero orizzonte storico. «La psichiatria anti-istituzionale italiana ha una storia lunga. Il movimento nasce infatti sia dalla complicata crisi interna del paradigma professionale psichiatrico, sia, poco dopo, dall'avanzarsi dei movimenti di liberazione nel periodo della guerra del Vietnam fino alla costituzione del movimento studentesco che fa suoi e diffonde i temi antipsichiatrici. (Ma) benchè profondi e importanti, questi momenti culturali, ideologici e sovrastrutturali non sarebbero stati sufficienti a determinare il passaggio dalle prime esperienze antimanicomiali all'idea di una riforma organica di tutta l'assistenza psichiatrica. Questo si fece possibile perché negli anni Sessanta-Settanta era in atto in Italia, unico fra tutti i paesi occidentali, il tentativo forte e sostenuto di realizzare una democrazia sociale avanzata in un paese capitalistico: è la grande stagione della sinistra politica e della Triplice sindacale, delle riforme sociali e sanitarie».
A seguire, parlò della malattia mentale come «inizio della guarigione», contro ogni concezione riduttiva che ne fa una menomazione o perdita; elencò una serie di condizioni ineludibili delle "buone pratiche" in salute mentale, al cui centro mise ancora una volta il rispetto dei diritti della persona e il rifiuto di tutte le pratiche coattive ereditate dall'era manicomiale; delineò gli impegni prioritari per la continuazione dell'azione riformatrice di fronte all'affermarsi di un revisionismo storico-psichiatrico di stampo biologistico.
Fra i suoi numerosi testi, oltre al già citato Il linguaggio schizofrenico, ricordiamo Le Tecniche della Liberazione, Una dialettica del disagio umano (Feltrinelli, Milano, 1971), I mille talenti. Manuale della Scuola sperimentale antropologico-trasformazionale (Franco Angeli, Milano, 1995), Introduzione alle antropologie trasformazionali (La Citta' del Sole, Napoli, 1997), L'io mancante (Loggia de' Lanzi, Firenze, 1997), Trattato di antropologia diadromico-trasformazionale , (Idelson Gnocchi, Napoli, 2005).
* Direzione e Centro di Documentazione "Vieri Marzi". Dipartimento di Salute Mentale AslRmC

il Riformista 10.1.09
Salomè, Lolita divisa tra Nietzsche e l'ardente Croce
di Agnese Palumbo

Fuoco di fila dalla famiglia Croce e dai crociani, critiche aspre per un romanzo che mette a nudo uno dei filosofi più austeri e autorevoli del pensiero contemporaneo: «Lou, luce della mia vita, ardore dei miei fianchi, certe volte ritorno con prepotenza ai nostri primi incontri, al nostro vicendevole rivelarsi, in una Napoli ancora sotto lo choc della guerra». Lou Andreas Salomé scrive in tedesco, Benedetto Croce le risponde in italiano, sono loro i protagonisti de Il filosofo e la birichina (Marlin Editore), scandaloso e inedito carteggio ritrovato a Göttingen da Sergio Lambiase. Sullo sfondo una città perduta nella guerra, e nella passione travolgente dei due amanti: «Nel mio libro Croce è curioso e umorale, come avrebbe potuto essere se non si fosse irrigidito nel monumento di se stesso - racconta Lambiase - eppure c'è stato un Croce imprevedibile, quello che convive per anni (cosa scandalosa cento anni fa) con la giovane e conturbante Angelina Zampanelli, al punto da rivolgersi a uno scultore perché la immortalasse con le mammelle nude».
In punta di penna (quasi a non volerlo riportare) siamo obbligati a svelare che il carteggio è fittizio, che tutto nasce dalla mente del suo autore, affascinato e sedotto dai due protagonisti, attratto dalla curiosità di combinare due chimiche improbabili e vedere cosa ne venisse fuori: «Mi hanno accusato di stupidità: sense of humour da parte di nessuno. Ma il mio gioco è così palese che nella prima lettera di Croce c'è l'incipit di Lolita di Nabokov! Mi sono inventato tutto, Croce e la Salomé non si sono mai conosciuti, la Salomé non è stata mai a Napoli né a Capri. Insomma, la rivolta dei crociani e di chi non può ammettere che la letteratura possa essere gioco, paradosso, ironia». Il rapporto tra Lou Salomé e Croce, aggiunge, mette in moto una dialettica dei sentimenti. La Salomé è stata una donna straordinaria: protofemminista, ispiratrice di anime elette (Nietzsche, Rilke), studiosa di psicoanalisi apprezzata da Freud che si affretta a pubblicare sulla rivista Imago un suo serissimo scritto sull'erotismo anale. Solo Lou era capace di sommuovere dal profondo l'io di Croce, infrangendo la dura scorza di studioso insensibile al gioco variegato dell'esistenza». È un omaggio quello che Lambiase riserva in apertura alla musa della letteratura erotica, Lolita; è a lei che chiede ispirazione per la sua scrittura. Con un sottile gioco di parole, un intrigo che si celebra nell'assonanza dei loro stessi nomi Lou-Lo sarà la donna fatale che metterà Croce nei panni di Benedetto-Humbert. Le lettere sono uno svelarsi reciproco, un passaggio intrigante di confessioni (dai sogni alla scoperta della sessualità) nel quale cedono tutte le educate ragioni del vivere per un confronto-scontro vis-à-vis. L'erotismo decritto è una suggestione matura: «Ho voluto raccontare il richiamo irresistibile dell'Eros anche quando si sono lasciati alle spalle, da moltissimo, i confini dorati della gioventù. Nel 1918, quando si conoscono, e la passione esplode, lei ha cinquantasette anni e lui cinquantadue… ».
A ben vedere il carteggio d'amore, l'infuocato racconto di passioni intime, si presta come espediente (bello e coinvolgente) per raccontare quanto animava lo spirito di quegli anni: la nascita della psicoanalisi, la filosofia, la letteratura, e giocare con i ruoli nei quali i grandi personaggi vengono solitamente cristallizzati: «Ho fatto innamorare Croce di Lou. Lei fu l'ispiratrice di Nietzsche e lui ne fu, filosoficamente parlando, il nemico, l'anti-Nietzsche per eccellenza. E con un po' di perfidia ho immaginato che Croce, filosofo che guardò sempre con sospetto alla psicoanalisi, nel romanzo si abbandonasse lentamente al suo richiamo, fino all'idea di scrivere un libro, mai portato a termine, dal titolo: "Perché non possiamo non dirci freudiani"».

venerdì 9 gennaio 2009

il Riformista 9.1.09
«Ferrero vuole l'Emilio Fede di turno»
intervista a Vladimir Luxuria
di A.D.A.

«Non voglio più essere abbinata a Rifondazione»: Vladimir Luxuria parla della defenestrazione di Piero Sansonetti.
Dicono che Sansonetti ha dato più spazio a lei che ai precari.
Accuse strumentali. L'ultimo articolo l'ho scritto il 6 gennaio dopo un viaggio ad Auschwitz per ricordare la tragedia di polacchi, degli ebrei, degli omosessuali sterminati dai tedeschi.
Però?
Però nessuno ne parla. La verità è che l'Isola è solo un pretesto di chi ha scelto di defenestrare Piero.
Ovvero Ferrero.
Sì. Lui come Berlusconi vuole l'Emilio Fede di turno.
Si riferisce a Dino Greco?
Nemmeno lo conosco. Comunque la mia collaborazione col giornale la considero esaurita.
E Rifondazione?
Non ho mai avuto la tessera. Ma la mia idea è una sinistra libertaria, dinamica, capace di alleanze.
Ci sarà la scissione.
Non partecipo anche se sono più vicina a Vendola. In questi mesi ho visto un gioco al massacro in cui una parte del partito ha fatto di tutto per sedersi sul trono di un regno di macerie.
Ce l'ha con Ferrero?
Ferrero e i suoi guardano al passato e rimpiangono il muro di Berlino.
Lei dimenticò la data del suo crollo.
Non ricordo nemmeno la data dei compleanni dei miei parenti. Se io le chiedo la data del primo gay pride, lei lo sa?
Torniamo al comunismo.
Non mi piace il comunismo autoritario, visto come un qualcosa di virile. Vedo che dentro Rifondazione è tornato di moda. Io sono per il "gaiocomunismo" di Mario Mieli.
Cioè?
La lotta per l'uguaglianza va allargata a chi, nel mondo, non si sente uguale agli altri.
Niente bandiera rossa?
Guardi, la più bella definizione di comunismo l'ha data Giorgio Gaber in una canzone: «Essere comunisti significa non riuscire a godere di una cosa se non ne godono pure gli altri».
Passiamo a Fagioli.
Oh Dio, no…Spero che nessun gay incappi in questa psichiatria imbalsamata. Ho visto che ha criticato Liberazione perché si è occupata dell'Isola. Per me è più trash dire, come fa Fagioli, che gli omossesuali sono distruttivi e hanno bisogno di cure.
Bertinotti lo sdoganò.
Una della tante contraddizioni della sinistra.
Dia un consiglio a Ferrero.
Mangi pesce perché contiene fosforo. Così ricorda che al governo Prodi che tanto critica è stato ministro.
E a Bertinotti che dice?
Di non sparire. E di psicanalizzare Fagioli.
A.D.A.

il Riformista 9.1.09
Il gran ritorno del subcomandante Fausto (Bertinotti)
di Antonello Piroso

Le destve, i vifovmisti, i tvotzkisti e i menscevichi spevano di essevsi libevati definitivamente di me: hanno pveso un clamovoso abbaglio

Un fantasma si aggiva pev l'Euvopa. Il mio. Ma non l'io-in-me, come condizione dello sfvuttato nel vappovto dialettico con lo sfvuttatove. No: l'io-in-sé, come metafova tout couvt della condizione umana. In una pavola, un tvombato. È una nemesi stovica: pvopvio quando è vicompavso in pubblico il subcomandante Mavcos, io sono uscito di scena. E Vifondazione si vitvova con un leadev che non è zapatista e nemmeno Zapatevo. Piuttosto, un tviste epigono del mevoliano 'O Zappatove. Ma se le destve, i cosiddetti vifovmisti di sinistva, i tvotzkisti e i menscevichi spevano di essevsi libevati definitivamente di me, ebbene: stanno pvendendo un clamovoso abbaglio, come quando si vimane accecati dal viflesso di un maglioncino di cachemive abbinato con una sciavpa sbagliata.
Pevché la cvisi odievna dimostva un assunto già fovmulato da me in epoca non sospetta: l'economicismo non si pvesenta infatti più come un atteggiamento povevo di antagonismo veale, ma si tvova costvetto a sceglieve dvasticamente tva la subaltevnità compatibilistica e l'uvlo compavativo. Una tesi avdita, cevto. Che nessuno è in gvado di spiegave esattamente. Neppuve io. Pevò suona bene, come i canti delle mondine duvante le pvoteste pev la vifovma agvavia.
Ma oggi tocca occupavsi di quello che sta succedendo intovno a Libevazione e al suo divettove Pievo Sansonetti, l'uomo con i capelli miopi (infatti, ci povta sempve sopva gli occhiali, invece di povtavli al collo, che so?, in una piccola custodia di Bulgavi). Lui e Nichi Vendola sono stati pvesi di petto e attaccati da un intellettuale un tempo mio amico, ma che ova, con la sua pvotevvia, mi sta solo fvantumando i cotiledoni: Massimo Fagioli.
Fagioli pave non capive la complessità della società contempovanea, in cui tesi e antitesi si fondono in inedite e vivoluzionavie sintesi: la catena di montaggio e il salotto di Guya Sospisio, Kavl Mavx e Mavio D'Uvso, le lotte di Giuseppe Di Vittovio e la vittovia all'"Isola dei famosi" di Vladimiv Luxuvia, gli smandolinatovi pugliesi della notte della Tavanta e i covi d'incitamento delle Bvigate Vossoneve all'indivizzo dei calciatovi del Milan, la mia squadva del cuove.
È vevo, sono stato attaccato pevfino dal nuovo segvetavio di Vifondazione, che ha accusato me e la mia adovata Lella di fvequentave le magioni dei capitalisti. Ova, a pavte il fatto che a casa dell'Ingegnev De Benedetti, nella pvimaveva del 2007, c'eva puve lui, vovvei solo vicovdavgli che se la vivoluzione non è un pvanzo di gala, non è neanche una scatola di cioccolatini, cavo il mio Fevvevo. Smettiamola con questa stovia dei Bevty-nights o dei Pavtynotti, pevché Lella se la lega al dito, come quando cevcò di entvave nel mausoleo di Lenin a Mosca con uno zibellino in testa. Vivo. Come le aveva suggevito quella maestva di eleganza che è Valevia Mavini. A favla vetvocedeve dall'intento ci pvovò, all'epoca, Avmando Cossutta, che da vevo cosacco di colbacchi se ne intende. Tutto inutile. Anzi: fu allova che Lella mi convinse a pvendeve il pavtito pev alleavmi con Vomano Pvodi nel 1996 e batteve le destve. Bei tempi, quelli, in cui se minacciavo di toglieve la fiducia al govevno, Sabvina Fevilli andava al TgTve e con il suo eloquio soave mi pvegava: «'A Fausto, vipensace!». Quando poi il govevno lo feci cadeve davvevo, la Fevilli mi mandò un affettuoso telegvamma, un'accovata attestazione di gvadimento in pevfetto stile Hevmès: «'A Fausto, movtacci tua, vattela a pija 'n saccoccia tu e tutti quelli del condominio tuo!». Pev fovtuna, Pvodi non sevbò vancove e otto anni dopo mi offvì la pvesidenza della Cameva. Qualche tempo dopo, io mi sdebitai con lui citando il giudizio di Ennio Flaiano su Cavdavelli: il più gvande poeta movente. Quella seva Lella mi vimpvovevò di esseve un ivviconoscente, e mi fevì pavlando dei miei completi di velluto, quelli che facevano dive a sua nonna: «Tuo mavito si veste come un pecovaio». Al confvonto, il dolove pev la sconfitta alle elezioni dello scovso apvile non fu nulla. L'ho metabolizzato con lunghe passeggiate sul bagnasciuga di Ladispoli in compagnia di Citto Maselli (avete notato? Ho infilato tanti vocaboli senza nemmeno una evve…). Citto, l'allegvia fatta pevsona, voleva convincevmi a intevpvetave la pavte del pvotagonista nel vemake di una sua celebve pellicola: "Gli sbandati". Ho pvefevito chiedeve ospitalità ai monaci del monte Athos, in quell'evemo scopevto da Alessandvo Dumas. Lì, nella quiete dei chiostvi, ho vipveso in mano i testi che mi evano stati di confovto duvante l'ultima campagna elettovale: "Le venti domande più fvequenti sugli Amish e i Mennoniti", "Stovia sociale della falce e del mavtello", "Il comunismo, l'ipnotismo e i Beatles" e da ultimo quello consigliatomi da Vina Gagliavdi, "Penetvave l'anello di Wagnev". L'ho pveso come un buon auspicio. Pev un vitovno sull'onda de "La cavalcata delle Valkivie". Eseguita - ça va sans dive - dagli Inti Illimani. Hasta la vista, companevos!
(Estratto dal prossimo editoriale di Fausto Bertinotti per il bimestrale "Alternative per il socialismo")

Liberazione 9.1.09
Caro Franco, nel partito si resta anche quando si ha un dissenso
di Claudio Grassi

C'è una cosa che il compagno Giordano, nella sua intervista a Repubblica di ieri, non prende in considerazione: la democrazia.
Capisco che non si condivida la linea emersa dal recente congresso di Chianciano, ma è quella che è stata scelta dalla maggioranza. Perché non la si rispetta?
Mi è capitato negli ultimi due congressi prima di Chianciano di non condividere la linea che era stata scelta, ma mai ho pensato di non riconoscerla o di fare una scissione!
Perché non si vuol dare la possibilità - magari operando criticamente, ma lealmente - a questo gruppo dirigente e a questa linea politica di sviluppare la propria iniziativa? Di misurarne l'efficacia e il consenso? Si pensa di essere i depositari della verità? Non c'è un po' troppa presunzione in questo atteggiamento? Ma veramente qualcuno pensa di essere ancora credibile e poter dispensare lezioni, dopo essere stato protagonista del disastro del 13 e 14 aprile?
Oltre a ciò penso che il compagno Giordano, annunciando la scissione da Rifondazione Comunista, stia commettendo anche un grave errore politico.
In nome dell'unità a sinistra si propone l'ennesima scissione, la costruzione del quinto micro partito e il conseguente indebolimento del soggetto politico più forte a sinistra del Pd che è, appunto, Rifondazione Comunista.
Prevedo che sarà un ennesimo fallimento, come lo sono state dal 1991 ad oggi, tutte le scissioni da Rifondazione Comunista. La strada è un'altra e se fosse stata rispettata da tutti in questi anni non saremmo in questa situazione: si resta nel partito anche quando, temporaneamente, si ha un dissenso. Non si può fare un Partito tutte le volte che non si condivide una linea politica!
Caro Franco, nel Partito si dà il proprio contributo e ci si sta quando si è in maggioranza, ma anche quando si è in minoranza.

Liberazione 9.1.09
Ma i vendoliani si spaccano, antiscissionisti allo scoperto
Prc Europee, Giordano: «Non voglio scissione ma serve lista a sinistra»
di Castalda Musacchio

Non voglio la scissione di Rifondazione, ma serve una lista unitaria della sinistra alle Europee. Franco Giordano, ex segretario del Prc, ha precisato così ieri il contenuto della sua intervista pubblicata da "Repubblica". «Quel che occorre in questo momento di grandi stravolgimenti - dice - è una discussione tra tutte le forze di sinistra per una piattaforma comune, una lista unitaria. Evitiamo di presentarci alle europee con 7 liste. In questo modo rischieremmo solo di alimentare la tendenza a un "voto utile" verso il Pd, neo-centrista, o per l'Idv, che non è certo di sinistra», aggiunge l'ex segretario. Una chiarificazione urgente in vista del fatto che proprio ieri intorno al partito e a Liberazione sono circolate voci convulse. E dire che la stessa intervista di Giordano era altresì netta. «Non ci sono più le condizioni per rimanere in questo partito, così come è diretto e gestito» aveva annunciato. «Se non si ferma questo degrado e non nasce una lista unitaria della sinistra alle europee, per bloccare la frantumazione in atto, non rimane altra strada». Sulla stessa linea si è altresì mossa Vladimir Luxuria: «A mio parere - precisa - c'è la certezza che il Prc subirà una scissione con Ferrero che si alleerà con il Pdci e l'ala che fa riferimento a Vendola che si alleerà con la Sinistra democratica e strategicamente con il Pd e con i Verdi». Sta di fatto che l'intervista di Giordano non ha mancato di sortire altri effetti, facendo "uscire allo scoperto" chi aveva già mostrato di prendere le distanze dalla volontà scissionista mostrata dalla corrente vendoliana. Ufficialmente, comunque, gli anti-sciossinisti vendoliani si presenteranno domani, con un documento politico dal titolo: "Continuare il cammino per la Rifondazione della sinistra". Tra i firmatari annunciati l'ex vicepresidente del Senato, Milziade Caprili; l'europarlamentare Giusto Catania; gli ex parlamentari Augusto Rocchi e Luigi Cogodi; l'ex sottosegretario al Lavoro, Rosa Rinaldi; Raffaele Tecce, responsabile enti locali e Tommaso Sodano, responsabile ambiente; Sandro Valentini della direzione Prc; i segretari delle federazioni di Cagliari e Palermo; i segretari della Sardegna, della Calabria e del Lazio e i quadri provenienti dalle file del movimento operaio di Torino, Milano e Brescia, tra cui l'ex deputata, Marilde Provera, e alcuni amministratori. Mentre smentisce di averlo firmato Sergio Boccadutri, attuale tesoriere nazionale del Prc e amministratore di Liberazione, proprio perché impegnato in ben altri compiti. L'ulteriore precisazione di Franco Giordano non ha comunque calmato le acque già agitate di Rifondazione.
E' lo stesso esecutivo dei Giovani comunisti a dichiarare di non condividere affatto «la modalità con cui da mesi si svolge il dibattito per la costruzione di una nuova soggettività politica della sinistra italiana». E proprio nel comunicato si chiede di «lasciarsi alle spalle vecchi metodi» e si afferma l'urgenza che «senza cancellare ogni rendita di posizione, la discussione sulle scadenze elettorali, sui giornali, sulle nostre scelte future è solo una parte del problema invece che una soluzione». «Questo progetto - avvertono i giovani - non può vivere nemmeno di interviste e annunci che non provengono da percorsi collettivi e democratici: annunci che abitano solo in una dimensione mediatica, escludente, esclusiva». Così Grassi ancora annota: «Penso che Giordano, parlando ancora di scissione, stia commettendo un grave errore politico. In nome dell'unità a sinistra si propone la costruzione del quinto micropartito e il conseguente indebolimento del soggetto politico più forte a sinistra del Pd che è, appunto, Rifondazione».

Liberazione 9.1.09
Assemblea con Ferrero. I lavoratori: «Il Prc tenga la maggioranza delle azioni e lavori col sindacato». Greco indicato direttore
"Liberazione", 15 giorni di tempo
per sapere se sarà venduta. E a chi

Il futuro di Liberazione verrà deciso «nei prossimi 15 giorni». E' il margine di tempo comunicato all'assemblea dei giornalisti dal segretario del Prc Paolo Ferrero. Un'assemblea tesa, per via dell'annuncio da parte del partito editore di vendere quote azionarie della società editrice (Mrc). Tesa, comunque, anche per l'altro annuncio fatto dalla nuova maggioranza del Prc: il cambio di direzione al giornale. La sfiducia a Piero Sansonetti dovrebbe essere votata lunedì prossimo dalla direzione nazionale convocata per discutere della vicenda Liberazione . Al suo posto potrebbe arrivare Dino Greco, sindacalista di lungo corso che si è riservato 48 ore di tempo per decidere sull'offerta comunicatagli ieri dalla segreteria nazionale di Rifondazione. Greco, ex segretario della Camera del Lavoro di Brescia, «non è un giornalista - chiarisce Ferrero - dunque, sarà affiancato da un direttore responsabile». Il cui nome non è ancora noto. «Come ho detto a Sansonetti, io avrei evitato un cambio alla direzione del giornale - spiega il segretario - avevo sperato in una gestione più attenta, ma questo non è avvenuto. Il problema non è la fedeltà al segretario o l'autonomia dei giornalisti. Il problema è quale progetto politico viene portato avanti dal giornale: se quello del Prc o quello della distruzione del Prc. E' stato il secondo, per questo lunedì la direzione deciderà il cambio». Da parte sua, Greco: «Chi mi conosce sa che l'indipendenza è la cifra della mia carriera sindacale e che per questo ho anche pagato un prezzo. Ci voglio riflettere attentamente esaminando con cura le ragioni politiche e personali. Se dovessi accettare di fare il direttore non farò un bollettino di partito».
La questione della sostituzione del direttore non è slegata dai propositi di vendita. La cosa non sfugge ai rappresentanti sindacali - Paolo Butturini di Stampa romana e Elena Polidori della Fnsi - presenti all'assemblea di ieri. «Noi siamo fermi a un piano di rilancio bocciato dalla direzione del partito (a dicembre, ndr.) senza che al sindacato siano state spiegate le ragioni: vi invito a farlo - esordisce Butturini - posso capire le ragioni dell'editore sul cambio del direttore, ma penso sia intempestiva perchè avviene nel momento in cui non è chiaro il futuro del giornale: va chiarito se il Prc intende mantenere le quote di maggioranza in Mrc. Notiamo dunque una contraddizione e le contraddizioni si possono sanare...». La richiesta del sindacato a Ferrero è di «lavorare insieme per verificare la solidità delle offerte d'acquisto». Richiesta accolta dal segretario, che sul piano bocciato chiarisce: «Non rispettava il mandato della direzione sul pareggio di bilancio nel 2009». Restano comunque del tutto fumosi e incerti i contenuti e i contorni della trattativa - comunque in corso - che dovrebbe portare alla cessione della Mrc Spa.Quanto ai possibili acquirenti, due le proposte sul tavolo per il momento. Resta in piedi quella di Luca Bonaccorsi, editore di Left che si è fatto avanti con una lettera di interesse a Ferrero prima di Natale, e c'è quella di un consorzio di imprenditori che proprio ieri ha lanciato pubblicamente la sua offerta sulle pagine di Liberazione , lamentando di essere stati ignorati finora dal partito. Ferrero: «Ne ho appreso solo ora». E promette che «tutte le offerte in campo verranno valutate a pari condizioni», ma una di questa è la «direzione a Dino Greco». Uno dei punti cruciali, e non chiariti nell'assemblea di ieri, è la quota di azioni che rimarrebbe in mano al Prc. A specifica richiesta da parte dei sindacalisti presenti di mantenere sotto il cappello del Prc almeno il 50% più una delle azioni, requisito indispensabile ad oggi per continuare a accedere al finanziamento statale (e dunque la sopravvivenza), Ferrero ha messo agli atti che «la preoccupazione mia è quella di mantenere ovviamente il finanziamento. Ma non è quella di conservare la maggioranza delle azioni. Anzi, fosse per me terrei lo 0,1%». Un punto decisivo di dissenso con il sindacato e l'assemblea dei giornalisti. Così come preoccupa l'ammissione di Ferrero che «non esiste ancora un piano su cui discutere la vendita». Ossia, nei 15 giorni di tempo chiesti ieri, il segretario del Prc e l'acquirente dovranno presentare al sindacato un piano editoriale, un piano industriale e la verifica della garanzia economica dell'acquirente. Non solo, resta nel limbo anche la portata del cambio di direzione. Se Greco scioglierà la riserva, e se verrà affiancato da un direttore responsabile, saranno loro a dirigere il giornale anche se dovesse cambiare l'assetto proprietario? La risposta di Ferrero è stata «sì», una risposta che fa a cazzotti con l'apertura alla seconda cordata (quella di Loop che prevederebbe la direzione Sansonetti) e che suona strana se letta nelle dinamiche contrattuali fra editore (che potrebbe, appunto, cambiare) e direzione del giornale.
Capitolo livelli occupazionali: basta la garanzia scritta nella manifestazione di interesse di Bonaccorsi a mantenere inalterati i livelli occupazionali, «compatibilmente con il rilancio del giornale»? Ai lavoratori non basta, Ferrero risponde che sarà tutto oggetto di verifica. Una verifica urgente, rimandata già troppe volte, finalmente promessa ma che dovrà essere puntuale e dettagliata in tutti i suoi aspetti. Questa la risposta del sindacato a Paolo Ferrero.

Liberazione 9.1.09
Prc, troviamo una soluzione condivisa.
Altrimenti nessuno è più credibile
di Ovidio Della Croce

Sono colpito e addolorato per i compagni che lasciano o si autosospendono dal partito con motivazioni che condivido e non condivido. A volte penso di farlo anch'io, ma poi prevalgono le ragioni di profondo legame con la nostra comunità politica. Questi legami li ritengo forti e sopra ogni altra cosa. Non sono reclutabile in nessuna delle mozioni congressuali, considero la scissione una iattura e, per quel che può valere, resto impegnato per l'unità del partito. In ogni caso faccio appello a tutti e tutte perché ci sia il massimo rispetto delle posizioni altrui: non mi sognerei mai di dire a nessuno di noi né stronzo, né zombie né spettro. Mai.
Mi sono iscritto alla Rifondazione di Bertinotti. Leggo "Liberazione" dal tempo di Curzi e continuo a leggerla e sostenerla con Sansonetti. Della redazione mai mi sognerei di dire ignoranti, superficiali, venduti. Mai.
Conosco Paolo Ferrero dai tempi di Democrazia Proletaria e apprezzo il suo ancoraggio (da ex operaio) ai temi sociali e la caparbietà che mette nel tentativo di rilanciare una forza comunista e originale come Rifondazione, nonostante che la sua proposta politica sia finora poco definita nella concretezza dell'azione.
Ho criticato a suo tempo la scelta di Rifondazione Comunista di entrare in maggioranza in Toscana. Ma riconosco ai nostri consiglieri regionali, all'assessore Baronti una grande capacità politica e un notevole lavoro istituzionale. Ho aspramente criticato, in una riunione nel mio Circolo, lo scivolone dell'attuale segretario regionale toscano contro Bertinotti. Non mi sono mai scagliato contro Nichi Vendola, né contro Roberta Fantozzi. Mai.
Mi sono letteralmente spellato le mani per gli applausi a Vladimir Luxuria quando è venuta nel teatro del mio paese con il suo spettacolo "Omaggio a Tondelli". Non seguo la tv, ma sono stato contento quando mia madre e "Liberazione" la difendevano all'isola dei famosi e sono sicuro che Vladimir sa sempre stare a testa alta.
La vita di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e del suo giornale "Liberazione" sono in pericolo. Dalle ceneri di Rifondazione e "Liberazione" non potrà nascere niente di buono per nessuno. Per favore, smettiamola. Ci vuole una grande dose di intelligenza delle ragioni di tutti, poiché grande è l'energia dell'errore. Smettiamola. Lo dico come compagno, semplicemente. E come lettore appassionato di "Liberazione" penso che non è giusto che un'esperienza di ricerca originale come fa questo giornale debba correre rischi e subire danni perché nel partito si litiga come due che stanno per divorziare sopra la testa della loro figlia. Si deve trovare una soluzione condivisa, altrimenti nessuno è più credibile.
Sono nelle istituzioni di un comune della provincia di Pisa: quattro anni in maggioranza, ora all'opposizione. Non certo per colpa del libro su Salò, ma perché abbiamo provato e riprovato a scardinare certi rapporti di potere e condotto battaglie per nulla identitarie, ma legate ai temi dei movimenti come quello sull'acqua pubblica ricevendo anche l'apprezzamento di padre Zanotelli. Il nostro intenso lavoro è stato difficile, sia prima che dopo la nostra uscita di maggioranza. Prima di come presentarci alle elezioni qui si discute su come si ricostruisce un partito dai territori e dai bisogni delle persone. Questa è la dura realtà con cui misurarci. Per chi si dice comunista e per persone di sinistra come io sono, insieme. Cartelli elettorali, costituenti e unità dei comunisti mi sembrano scorciatoie da questo durissimo e lungo cammino. Queste scorciatoie penso che siano senza sbocco. Su questa strada, in un viaggio che ci auguriamo "fertile in avventure e in esperienze" si fa l'unità. E a partire da qui la stiamo costruendo con i Comunisti Italiani e altri/e compagni/e di sinistra. Non mi piace far prediche. Dico soltanto, con molta modestia, che Rifondazione (r)esiste in questo cammino accidentato, e deve continuare sulla "cattiva strada", guardando le stelle cadute in basso a sinistra. Affrettandosi piano e avendo sempre in mente Itaca, che ci ha dato la spinta per intraprendere questo bel viaggio. Chiedo scusa per il mio momento di "degna rabbia" e buona avventura.

Liberazione lettere 9.1.09
L'importanza del progetto del Prc e del convivere
di Mario Navari, Cristian Rossi

Caro direttore, notiamo che negli ultimi giorni viene dato parecchio spazio su "Liberazione" (e non solo nelle lettere) a compagni o ex, che non condividendo più la linea del partito annunciano la loro fuoriuscita. Non vogliamo commentare le ragioni che hanno portato a queste scelte che non condividiamo. Tuttavia ci permettiamo di evidenziare che notiamo sicuramente un partito in sofferenza per diverse ragioni (ragioni ereditate anche dagli ex dirigenti che quasi si esaltano a notare le attuali difficoltà di un partito oramai fuori dal Parlamento) ma che vuole fuoriuscire da questo chiacchiericcio aggrovigliato intorno a possibili scissioni per ricreare quelle condizioni che ci permettano di rialzare la testa. Dobbiamo essere in grado di convivere in un partito dove si possa essere anche in minoranza ma mai per questo abbandonare il progetto che ci ha guidato in tutti questi anni di partito. Tutto ad un tratto ci rendiamo conto che anche per i dirigenti nazionali diventano indigeribili e pesanti termini come "rifondazione" e "comunista", elementi che da diversi anni risultano nel nostro simbolo ci pare, che hanno permesso a diversi compagni di ricoprire diversi ruoli sia istituzionali che dirigenziali. Siamo, purtroppo, in una fase della società dove in ogni campo si evidenziano coloro che si ritirano o annullano i loro impegni mentre vengono dati per scontati e quasi derisi coloro che continuano, come i semplici militanti, a dedicare le proprie forze e il proprio tempo libero a idee e valori. Oltre a quelli di partito pensiamo ad esempio ai militanti del sindacato Cgil, agli innumerevoli rappresentanti aziendali, che nonostante si trovino spesso in contraddizione con le scelte della Cgil nazionale, non smettono di lottare nei luoghi di lavoro e nel contempo contro le scelte concertative che alcuni sindacati portano avanti. Arrivando a far crescere dal basso quel malessere dei lavoratori che è poi sfociato nell'ultimo sciopero del 12 dicembre. Ci rendiamo, quindi, disponibili a continuare il nostro lavoro in Rifondazione, anche se non fa notizia, e a tutti gli altri iscritti del 2008 rivolgiamo un invito dal basso a rinnovare (e perché no anche ad iscriversi per chi non avesse ancora provato) la tessera di questa organizzazione che continuiamo a chiamare partito non di una sinistra generica ma comunista. In onore di tutti i lavoratori che hanno lottato, anche se a volte in minoranza, per ottenere tutti i miglioramenti che fino a un secolo fa sembravano solo utopia.
consiglieri provinciali Prc Lucca

Liberazione lettere 9.1.09
Uniti per sconfiggere la destra

Compagno Sansonetti, sono molto preoccupato per quello che sta succedendo per la conduzione di "Liberazione". Per me stai facendo un ottimo lavoro e condividi come tanti che la sinistra si debba unire per poter portare le proprie istanze per la gente che non ha più (almeno nel Parlamento Italiano) rappresentanza. Porti avanti i tuoi ideali (per me esistono ancora anche se molti mi scoraggiano) e le tue proposte che tutti dovremo condividere per avere una sinistra forte. Bisogna che tutta la sinistra si unisca per poter affrontare le elezioni europee e amministrative, è quello che vogliono molti compagni e questo si è visto anche all'assemblea che si è tenuta a Roma il 13 dicembre. Una critica al segretario e a Rifondazione: non si può cambiare un direttore perché non ha le tue idee, questo non è molto democratico e va a discapito di tutta la sinistra. Spero che il compagno Vendola decida di "unirsi" a noi e incominci a combattere per avere un Partito di Sinistra unito, solo così ce la possiamo fare a sconfiggere questa terribile destra che sta rovinando il Paese.
Davide Nardi Rimini

Liberazione lettere 9.1.09
"Finalmente liberi"... Buona fortuna!

Signor direttore, sono iscritto al Partito fin da quando era il Movimento per la Rifondazione Comunista e sono uno dei 6mila e passa compratori abituali del giornale (per onor di partito). Faccio quindi parte di quella che il CdR chiama nei suoi comunicati, la "Controparte" e molto spesso, soprattutto in questi ultimi tempi, mi è venuto voglia di scrivere per manifestare il mio dissenso sulla gestione del giornale, e ne avrei da dire, ma sarei stato uno dei tanti. Voglio invece "esternare" il mio pensiero sull'ultima uscita dell'ex segretario nazionale Giordano, il quale, dopo aver detto a suo tempo che erano "Finalmente liberi", oggi 8 gennaio (ieri, ndr) all'agenzia Asca annuncia che vi sarà la scissione. Ognuno prende le strade che vuole, ma l'annuncio mi ha fatto rivivere un flash parlamentare del 1998: quella stretta di mano fra Cossutta e Diliberto sulla testa di Bertinotti. Ed a quel fatto paragono l'annuncio. Siamo comunque andati avanti, andremo avanti anche senza di loro. Buona fortuna.
William Pedrini Persiceto (Bo)

Aprile on line 8.1.09
Il Prc verso la scissione
di Aldo Garzia, collaboratore di left

Il Prc verso la scissione Politica La vicenda del quotidiano del Prc ha fatto precipitare la crisi del gruppo dirigente del partito. Ormai il problema di Giordano e di altri esponenti della minoranza è come abbandonare la casa comune. Alla fine di gennaio ci sarà un'assemblea nazionale della minoranza del Prc per prendere le decisioni del caso

L'annuncio l'ha dato l'ex segretario Franco Giordano, con una intervista su la Repubblica: se la Direzione del partito lunedì prossimo cambierà il direttore di 'Liberazione', lui e altri dirigenti si riterranno liberi di abbandonare Rifondazione.
Giordano conferma questa intenzione nel pomeriggio, quando fa una rapida apparizione nel Transatlantico di Montecitorio: "La convivenza è diventata difficile con chi ha nostalgia del muro di Berlino". E cosa avete intenzione di fare? "Io continuo a proporre una lista unitaria di tutta la sinistra per le prossime elezioni europee. Non serve rinchiudersi in un fortino identitario", è la replica.
Ma anche questa proposta non convince affatto il segretario Paolo Ferrero, che sta lavorando per la presentazione del simbolo del suo partito alle elezioni europee della prossima primavera (salvo imprevisti dettati dalla riforma della legge elettorale proporzionale attualmente in vigore).
L'allontanamento di Piero Sansonetti dalla direzione di 'Liberazione' è intanto dato ormai per sicuro, dopo che la segreteria del Prc ha diffuso la notizia di aver chiesto a Dino Greco, ex segretario della Camera del lavoro di Brescia, uno dei militanti più stimati della sinistra della Cgil, di dirigere il quotidiano.
Greco ha fatto sapere di aver ringraziato Paolo Ferrero per la proposta e la stima manifestatagli, ma di non aver sciolto tutte le sue riserve. Secondo alcune indiscrezioni, l'accettazione della direzione del quotidiano da parte di Greco verrebbe ufficializzata entro la fine della settimana.
Prende così corpo l'idea che 'Liberazione' possa avere due direttori, uno politico e uno giornalistico, come richiesto dall'editore Luca Bonaccorsi intenzionato a intervenire rilevando la testata con un accordo editoriale e finanziario da siglare con il Prc.
Se con Greco è sciolto l'identikit del direttore politico, resta da decidere quello del direttore giornalistico che il segretario Ferrero preferirebbe fosse una donna. Una richiesta in questo senso è stata rivolta a Giuliana Sgrena, inviata de 'il manifesto', che però smentisce la sua candidatura.
Una soluzione, almeno temporaneamente, potrebbe essere trovata all'interno della redazione. Si fa il nome di Guido Caldiron, redattore della cultura, che per due anni aveva lasciato 'Liberazione' per fare l'addetto stampa di Ferrero quando quest'ultimo era ministro del welfare. Ma Caldiron smentisce che gli sia stata fatta alcuna proposta dall'editore della testata per assumere la direzione di 'Liberazione'.
Fin qui la vicenda del quotidiano del Prc, quella che ha fatto precipitare la crisi del gruppo dirigente del partito.
Ma ormai il problema di Giordano e di altri esponenti della minoranza è come abbandonare la casa comune. "Lunedì mattina è prevista la riunione della Direzione del Prc che dovrebbe formalizzare l'allontanamento di Sansonetti. Se l'intenzione rimarrà questa, io mi dimetterò da quell'organismo", dice l'ex sottosegretario Alfonso Gianni.
Lo stesso farebbero gli altri esponenti della minoranza.
Ma alla domanda se questo equivale a formalizzare una scissione, lo stesso Gianni precisa che alla fine di gennaio ci sarà un'assemblea nazionale della minoranza del Prc per prendere le decisioni del caso. Quanto all'annuncio fatto da Giordano su 'la Repubblica', l'ex sottosegretario se la cava con una battuta: "Quando si divorzia, bisogna comunicare questa decisione al proprio consorte".
Che la prospettiva sia la scissione, lo conferma l'iniziativa che stanno prendendo in queste ore esponenti della minoranza che non vorrebbero seguire Giordano. Milziade Caprili, ex vicepresidente del Senato, gli ex senatori Raffaele Tecce e Matilde Provera, Sandro Valentini, della Direzione del Prc, insieme ad alcuni dirigenti locali del partito, sono decisi a presentare lunedì prossimo un proprio documento politico che pur criticando la segreteria di Ferrero non si spinge fino al limite della rottura.
Contro la scissione potrebbero schierarsi anche Sergio Boccadutri, l'amministratore del partito che sta curando gli aspetti finanziari che riguardano 'Liberazione', e Salvatore Bonadonna, presidente del collegio nazionale di garanzia del partito (entrambi avevano votato la mozione di Nichi Vendola all'ultimo congresso di Rifondazione).
No comment da parte di Fausto Bertinotti. L'ex presidente della Camera, convinto che il lavoro di ricostruzione della sinistra abbia bisogno di tempi lunghi, si sta dedicando al lavoro di preparazione dell'uscita di un suo nuovo libro.

Aprile on line 8.1.09
L'attualità dell'orgoglio comunista
di Umberto Franchi

La riflessione Recentemente il coordinatore di Sd Fava ha dichiarato che nella costituente della sinistra non ci sarà spazio per il comunismo. Un'affermazione sbagliata perchè confrontarsi col passato, anche fallimentare, non significa abiurarlo. Per le istanze comuniste, in particolare quelle relative alla lotta verso un capitalismo oggi in grande crisi, c'è invece ancora spazio e possibilità di senso

In un'intervista recente rilasciata a L'Unità dal coordinatore nazionale della Sinistra Democratica Claudio Fava, il medesimo affermava che nella prospettiva della costituente della sinistra non ci sarà spazio per l'orgoglio comunista.
Credo che a chi proviene dall'esperienza e militanza prima nel Partito Comunista Italiano, dopo nei Democratici di Sinistra ed, infine, ha scelto, come il sottoscritto, di non entrare nel PD ma di aderire al movimento della Sinistra Democratica, non faccia piacere l'affermazione di Fava, ma anzi la ritengo politicamente sbagliata.
Cerco di spiegare il perché non sono d'accordo con Fava.
Il sostenere che siccome il comunismo è crollato, quindi non esiste più l'orgoglio comunista, è un modo liberatorio, ma non è onesto sul piano intellettuale, perché i comunisti non vivono fuori dal tempo, fuori dalla realtà, "consegnati" a vecchi miti e trascorse utopie.
Chi ha fatto la mia stessa esperienza e magari oggi, anziché essere nella Sinistra Democratica, ha scelto di militare in Rifondazione Comunista , nel PdCI o nei Verdi, ha fatto certamente i conti con la storia di cui siamo stati protagonisti non vivendo di residui ideologici. Per questo confrontarsi con il passato non può significare abiurare per opportunismo, sconfessando le proprie idee.
E' troppo semplice sostenere che se il "comunismo reale" costruito in Russia con la rivoluzione bolscevica è fallito, ciò è dovuto al fatto che era un "socialismo totalitario" dogmatico, statalista, e che quindi va abbandonata ogni sua idea solo per abbracciare il socialismo democratico occidentale.
La realtà è molto più complessa, non basta voltare le spalle al proprio passato di politici comunisti o di intellettuali "organici". Occorre invece cercare di capire che, anche se il comunismo che abbiamo conosciuto (e come comunisti italiani, contestato) è stata una perdita di grave credibilità, la sinistra ha comunque la possibilità di ricostruire, di rifondare un'idea, un progetto, capace di tenere alto l'orgoglio dei comunisti di ieri e di oggi.
Ciò è possibile utilizzando le "armi della critica", cioè a partire dalle analisi e dal riconoscimento delle debolezze teoriche e dei presupposti ideologici su cui per molto tempo abbiamo basato le nostre convinzioni ed azioni. Ma ciò sarebbe del tutto sterile se (contemporaneamente) non riusciamo a capire che è l'attuale realtà italiana e mondiale, al di là di ogni utopia, che merita uno sforzo collettivo di tutta la sinistra ufficiale e diffusa, presente nel nostro Paese, per elaborare un nuovo progetto politico, culturale, civile, sociale, economico, che combatta e sconfigga il sistema liberista capitalista.
La storia che viviamo nel presente non è solo quella del crollo del comunismo, ma anche e soprattutto quella di una grave crisi finanziaria, economica, culturale, sociale, civile, che riguarda e investe il sistema capitalistico. Come non vedere che oggi, anche se il sistema capitalista liberista ha fallito, viene però riproposto dalle classi dominanti economiche e di governo, (nonché da pseudo intellettuali subalterni) che in modo sempre più coercitivo ed autoritario mettono a repentaglio la dignità, oltre alla vita delle classi lavoratrici, creando disuguaglianze, danni alla salute ed all'ambiente, discriminazione razziali, povertà, egoismi ed ingiustizie immense?
Occorre essere consapevoli che con il passare del tempo si consuma l'ordine delle cose certe e prevedibili, mentre sorge sempre la necessità del "nuovo ordine" dell'imprevedibile, quindi la necessità di costruire un'alternativa possibile allo stato delle cose che conosciamo.
Cosa sarà del movimento degli Studenti se non riuscirà a fare dei passi in avanti nella battaglia per modificare la scuola della Gelmini?
Ma soprattutto cosa sarà di quel movimento se non riusciamo a dargli uno sbocco politico in grado di impegnare i medesimi nei valori ed anche nell'utopia di un mondo diverso da quello che conosciamo?
Credo che dopo l'assemblea del 13 dicembre svolta a Roma sia necessario impegnarsi unitariamente come sinistra presente nei partiti, diffusa nei movimenti e senza tessere, includendo tutti. Il rischio infatti è quello, se si imbocca una strada contraria, di costruire un nuovo partitino.
E' necessario dare un senso al futuro che ci attende, non per bruciare una nuova tappa ma come una finalità da conquistare!
E' a partire da queste considerazioni, credo, che essere comunisti susciti ancora un sentimento di orgoglio .
*Dirigente CGIL Provincia di Lucca

Repubblica 9.1.09
"Preti gay, per i fedeli non è più tabù"
Reazioni positive all´articolo di Avvenire su clero e omosessualità. "Giusto discuterne"
di m. pol.

Aprire la discussione su omosessualità e preti gay sulle pagine dell´Avvenire è stato come una scossa culturale, che sta attraversando l´opinione pubblica cattolica. Il giorno dopo il direttore Dino Boffo commenta sereno: «Ci è parso normale parlarne nei termini civili e documentati come ha fatto il professore Andreoli. Ho condiviso la sua intenzione di toccare anche situazioni dolorose e casi estremi». Però, precisa Boffo, l´articolo va inquadrato in un reportage di quarantotto puntate che sta affrontando tutti gli aspetti del sacerdozio: dai problemi in seminario ai rapporti tra clero e politica, dai preti operai ai sacerdoti presenti nei mass media.
Di fatto lo psichiatra - ponendo la questione del rapporto tra vocazione ed omosessualità - ha sfiorato la punta di un iceberg, che rimanda ad una realtà molto più sviluppata di quanto siano pronte ad ammettere le autorità ecclesiastiche. «Tranne casi di disperazione e di grande tormento interiore - commenta un prete omosessuale romano - una parte consistente del clero gay non si considera minimamente malata e c´è una giovane generazione che vive la propria vita senza paura di rappresaglie». Può anche accadere, spiega a Repubblica un sacerdote gay del settentrione, che un prete lo dica al proprio vescovo e non accada nulla, perché le autorità hanno soprattutto paura dello scandalo. «Io l´ho fatto e poi ho lasciato il mio ministero - racconta - ma ho rifiutato di firmare una lettera di richiesta di riduzione allo stato laicale. E non è stato aperto nessun procedimento canonico contro di me. Ufficialmente sono ancora prete».
Don Domenico Pezzini, professore emerito di Letteratura inglese medievale, fondatore e animatore di gruppi cattolici omosessuali, ritiene che vi siano parecchi preti gay che «vivono ormai serenamente la loro condizione e per i quali non ha più nemmeno importanza come si pronuncia l´istituzione ecclesiastica. Chi rimane nel ministero, che sia etero oppure omosessuale, ha la stessa fatica nel gestire il celibato e se incontra difficoltà le affronta a misura della sua saggezza e percezione di sé». Quanto ai credenti gay, afferma, c´è chi fa il sagrestano, l´organista, il cerimoniere o il membro del consiglio parrocchiale e il parroco lo sa e non obietta. Nelle parrocchie, peraltro, l´atteggiamento dei fedeli è diventato in genere molto più aperto. Toccherebbe all´episcopato, semmai, mandare finalmente un messaggio più «inclusivo» invece di ripetere tanti no.
Anche per padre Bartolomeo Sorge, gesuita, direttore della rivista Aggiornamenti Sociali, non bisogna avere nessuna paura di sviluppare una ricerca seria su temi che pongono anche interrogativi nuovi. Resta la domanda, soggiunge, se la massa dei fedeli sia pronta a recepire tutto. Perciò «ci vuole prudenza nella divulgazione».

Repubblica 9.1.09
Su Nature l'annuncio di un biologo britannico Sentimenti reciproci più facili grazie a un ormone
Addio Cupido arriva la pillola dell´amore
Annusare una spruzzata di ossitocina accresce fiducia e empatia
di Enrico Franceschini

LONDRA. «Come sai che sono innamorato?», chiede un personaggio di Shakespeare nel dramma "I due gentiluomini di Verona". E l´altro risponde: «Avete imparato a bearvi d´un canto d´amore come un pettirosso; a passeggiare da solo come un appestato; a sospirare come uno scolaretto; a piangere come una pischerletta; a digiunare come uno a dieta; a vegliare come chi ha paura dei ladri». Niente di nuovo, per chi viene trafitto dalle frecce di Cupido. Ma sta avvicinandosi il giorno in cui sensazioni analoghe potrebbero essere provocate artificialmente, a comando, ingurgitando una capsula con un bicchier d´acqua. «Medicinali che manipolano i sistemi del cervello per aumentare o per diminuire i sentimenti per un´altra persona potrebbero non essere lontani», annuncia il professor Larry Young, biologo della Emory University, in un articolo sulla rivista scientifica Nature. Se fino ad ora ci siamo accontentati della pillola dell´amore inteso come sesso, vedi il Viagra e altri prodotti simili, dietro l´angolo sembra dunque intravedersi la prospettiva della pillola dell´amore sentimentale. L´amore di cui scrive Shakespeare, l´amore totale, il vero amore.
Di esperimenti del genere si parla già da qualche tempo, con test condotti su topolini e altri roditori in cui i dongiovanni della specie si tramutano all´istante in coniugi votati alla monogamia. Ma gli studi cui si riferisce il professor Young sono rivolti agli esseri umani. È per esempio già stato dimostrato, afferma lo scienziato, che annusare una spruzzata dell´ormone ossitocina accresce la fiducia e fa sentire una comunanza di emozioni con il prossimo. L´ossitocina, spiega nell´articolo, produce una sensazione di soddisfazione e contentezza in modo simile alla nicotina e a droghe come cocaina ed eroina, con un´azione chimica sul cervello praticamente identica a quella registrata in madri che guardano fotografie dei loro bambini o in persone che guardano fotografie dei propri innamorati. Studi attualmente compiuti in Australia, secondo la rivista Nature, stanno cercando di determinare se uno spray all´ossitocina potrebbe aiutare a ottenere migliori risultati nelle terapie dei consulenti matrimoniali per rimettere insieme coppie in crisi.
Qualche prodotto che si vanta di realizzare risultati simili è già apparso sul mercato. Recentemente alcuni siti Internet hanno cominciato a reclamizzare un´acqua di colonia chiamata Enhanced Liquid Trust (Rafforzamento della Fiducia Liquido), contenente una miscela di ossitocina e ferormoni che garantirebbe "progressi nel campo delle relazioni sociali e sentimentali". Il professor Young è scettico al riguardo, osservando che difficilmente prodotti di tal tipo aumentano qualcosa, tranne la fiducia in se stessi, alla stregua di un placebo. Ma lo studioso crede che sia solo questione di tempo, e nemmeno molto, prima che un medicinale possa fare innamorare, o disinnamorare, anche questa una prospettiva interessante, chi ci sta davanti. Va´ dove ti porta il cuore, o al limite dove ti porta una pillolina.

l'Unità 9.1.09
Proposta del Pdl. Uguali reduci fascisti e partigiani
Una pattuglia di deputati per l’istituzione dell’Ordine del Tricolore: una croce e 200 euro per ogni iscritto
Insorge l’Anpi. Vassalli: iniziativa incostituzionale

Duecento euro l’anno, e un nuovo ordine «cavalleresco», l’«Ordine del Tricolore», che tiene assieme, con rinnovato intento «pacificatorio», tutti i partecipanti alla Seconda guerra mondiale. Sotto l’effige di una medesima croce di bronzo con coccarda, lo Stato terrà assieme soldati delle forze armate italiane del ‘40-’45, partigiani, gappisti, inquadrati nel Corpo volontari della libertà, invalidi e mutilati, ex prigionieri, internati nei campi di concentramento e anche appartenenti a «formazioni che facevano riferimento alla Repubblica Sociale Italiana».
Sono tutti assieme, vittime e carnefici, nella proposta di legge 1360 presentata da Lucio Barani, esponente del Pdl di provenienza Nuovo Psi (come sindaco di Aulla fece posizionare una statua in marmo di Carrara di Bettino Craxi in piazza omonima, statua da poco messa all’asta per far cassa dal nuovo sindaco Udc), e firmata da una nutrita pattuglia di esponenti del Pdl.
Lo schema, proposto già due volte nel corso delle precedenti legislature, prende forma sulla falsa riga dell’«Ordine di Vittorio Veneto», creato per i combattenti della Prima guerra mondiale.
Questo secondo ordine, si legge nella nota che accompagna i nove articoli della proposta, «deve essere considerato un atto dovuto, da parte del nostro Paese, verso tutti coloro che, oltre sessanta anni fa, impugnarono le armi e operarono una scelta di schieramento convinti della bontà della loro lotta per la rinascita della Patria». Per la copertura il ministero della Difesa ha trovato ben 200 milioni di euro l’anno.
Insorge l’Anpi, che il 13 gennaio alla Sala del Cenacolo della Camera, assieme a Giuliano Vassalli, Claudio Pavone, Marina Sereni, Raimondo Ricci e Armando Cossutta, metterà il luce il «disordine» nella storia patria apportato da questa proposta. Non esiste nessun Paese in Europa dove i collaborazionisti del nazismo siano stati premiati dice Vassalli, presidente emerito della Corte Costituzionale, spiegando come il principio esposto nella proposta di legge sia incostituzionale.
Medesime remore sono esposte da gli esponenti del Pd Roberta Pinotti, ministro ombra alla Difesa, e Roberto Zaccaria, vicepresidente della commissione Affari costituzionali della Camera. La prima espone «profonda indignazione», spiegando: «La rivalutazione dei combattenti della Repubblica sociale viene proposta non solo sotto forma di legittimazione politica, ma anche dal punto di vista economico, con l’assegnazione seppur simbolica di un vitalizio annuo. Come a dire che lo Stato italiano debba oggi trovarsi a remunerare i principali responsabili delle macerie dalle quali è risorto sessant’anni fa».
Per Zaccaria questa nuova proposta «capovolge l’ordine dei valori costituzionali equiparando indistintamente chi combattè in difesa della libertà e chi combattè per mantenere la dittatura con tutte le sue aberrazioni. È un ennesimo tentativo di revisionismo storico - conclude - con il quale il centrodestra vorrebbe accreditare i repubblichini nella storia d’Italia e sconvolgere le radici stesse della repubblica».

Corriere della Sera 9.1.09
La proposta di legge
«Onorificenza ai repubblichini» Insorgono i partigiani

ROMA — L'idea appare semplice e, in tempi di riscoperta patriottica, tale da mettere d'accordo tutti: la proposta di legge numero 1360 che sarà esaminata a giorni dalla commissione Difesa della Camera e che è stata presentata da parlamentari del Pdl tra i quali Cristaldi e De Corato di An, chiede che venga istituito un «Ordine del Tricolore», come «atto dovuto verso tutti coloro che impugnarono le armi e operarono una scelta di schieramento convinti della "bontà" della loro lotta per la rinascita della Patria». Dell'Ordine, dovrebbero far parte tutti coloro che abbiano «prestato servizio militare per almeno sei mesi in zona di operazioni delle forze armate italiane durante la guerra 1940-45», mutilati e invalidi, ex prigionieri o internati, partigiani gappisti e no ma anche «combattenti nelle formazioni dell'esercito nazionale repubblicano durante il biennio 1943-45».
Arriva dunque per proposta di legge l'approdo di un cammino che negli ultimi anni in molti hanno portato avanti: quello della «pacificazione nazionale» tra vincitori e vinti, dell'equiparazione di fatto dei partigiani ai ragazzi di Salò, i repubblichini che seguirono Mussolini nell'ultima disperata avventura. Equiparazione che peraltro i proponenti della legge vorrebbero non solo negli onori, ma anche nei vantaggi materiali che ne derivano: nel testo infatti si prevede una erogazione annua a partire dal 2009 di 200 milioni di euro come «adeguamento pensionistico» ai reduci della guerra o eventualmente alle loro vedove, un vitalizio insomma. E siccome la legge Finanziaria non prevede tale stanziamento, si dà mandato al ministro dell'Economia di reperire altrove e in fretta le risorse.
I primi ad insorgere sono stati i partigiani dell'Anpi, che terranno martedì prossimo sul tema una conferenza pubblica alla Sala del Cenacolo (parleranno tra gli altri Giuliano Vassalli, Claudio Pavone, Armando Cossutta) e che denunciano «l'ennesimo tentativo da parte della destra di sovvertire la storia d'Italia e le radici stesse della nostra Repubblica con un ddl che equipara partigiani, deportati e militari ai repubblichini di Salò», tentativo peraltro fallito nella scorsa legislatura con un pdl analogo. Ma anche dal Pd (che pure aveva visto un suo esponente, Paolo Corsini, sottoscrivere il testo e in seguito ritirare la firma) ieri si sono levate le voci scandalizzate del ministro ombra della Difesa Roberta Pinotti e di Roberto Zaccaria, che parlano di «gesto di gravità inaudita che suscita profonda indignazione », di «palese e goffo tentativo di stravolgere la storia», insomma del «peggior revisionismo possibile » non estraneo a «un pezzo riconoscibile dell'attuale maggioranza di governo», come si deduce dalle dichiarazioni passate di «Alemanno e La Russa».
«Non c'è niente di scandaloso nè di immorale - ribattono i consiglieri romani del Pdl Cassone e Gramazio - : è un atto dovuto, la sinistra vuole solo riportare alla luce antichi rancori». Anche il presidente della Commissione Difesa, Edmondo Cirielli, ribatte al Pd, e accusa gli avversari di non «aver fatto alcuna opposizione» all'inserimento del pdl tra quelli da esaminare. E il fatto che lui, da presidente, sia anche relatore del provvedimento è dovuto solo «alla delicatezza del tema trattato».
Lo scontro
Il Pdl: istituire l'Ordine del Tricolore è un atto dovuto verso chi impugnò le armi L'Anpi: la destra vuole sovvertire la storia d'Italia Salò Le brigate nere della Repubblica di Salò
Paola Di Caro

Corriere della Sera 9.1.09
Il governatore In un'intervista all'«Espresso» chiede che il Pd esalti «l'esperienza dell'Ulivo»
La sfida di Soru: se io vinco ripeto quel che riuscì a Prodi
«In Sardegna si può tornare al successo e a battere Berlusconi»
di Alessandro Trocino

Parisi applaude
«Soru ha ragione, l'illusione della solitudine ha provocato un disastro Bisogna tornare all'Ulivo»

ROMA — «La sconfitta non è per sempre». Adagio che dovrebbe suonare rassicurante per i vertici del Pd. E, certo, l'intento era quello, anche se il resto della frase, e l'autore, autorizza a una lettura più maliziosa: «Se vinciamo in Sardegna, si può tornare a vincere e a battere Silvio Berlusconi, come ha fatto Prodi due volte». Renato Soru, governatore della Sardegna, con un'intervista all'Espresso si accredita come l'uomo che può ridare fiducia al centrosinistra. E, sempre volendo trarne una lettura maliziosa, si erge contemporaneamente a futuro leader del centrosinistra per sconfiggere il Cavaliere. Dando qualche sostanza alle voci che da settimane lo vedono come il possibile uomo nuovo del Pd, pronto a uscire allo scoperto anche sul piano nazionale.
Il governatore uscente della Sardegna, dimissionario dopo una scontro interno nel Pd, attacca frontalmente Berlusconi, ignorando il suo sfidante, Ugo Cappellacci, considerato poco credibile: «Sarà uno scontro Soru-Berlusconi per interposta persona». Lo scontro comincia con un parallelo con Mussolini: «"Faccio sapere ai sardi che noi ci occupiamo amorevolmente dei problemi della loro isola". Sa di chi è questa frase? Di Benito Mussolini. Berlusconi dice la stessa cosa».
Ma sono i passaggi interni sul centrosinistra che fanno riflettere. Soru chiede al Pd «un forte segno di discontinuità », ovvero la non canditura di chi ha più di due legislature e di chi «non si riconosce nel programma». Bene il Pd, se non altro perché ha «cominciato una traversata nel deserto, strada senza ritorno ». Ma servirebbe una correzione di rotta: «Bisognerebbe mettere più in risalto la continuità con l'esperienza di Romano Prodi e dell'Ulivo. Quella è la radice più autentica del Pd». Quanto basta per entusiasmare Arturo Parisi, pronto a criticare chi, ovvero Veltroni, «ha provocato un disastro con l'illusione della solitudine: bisogna tornare all'Ulivo ». «Parole sante quelle di Soru», conferma un altro prodiano, Franco Monaco. E a giungere alle estreme conseguenze ci pensa «Il Regno», mensile dei padri dehoniani di Bologna, vicini alle posizioni prodiane, per il quale «il Pd di Veltroni e D'Alema, con corredo di ex popolari, è avviato al declino». Veltroni non commenta, anche se in largo del Nazareno si ricorda come nell'ultima Direzione sia stato lo stesso segretario a ricordare positivamente l'esperienza dell'Ulivo. Quanto a Soru, smentisce quanto scritto ieri da un quotidiano locale, secondo il quale avrebbe scoraggiato la partecipazione di Veltroni alla campagna elettorale sarda. Smentita alla quale si associa il commissario del Pd in Sardegna Achille Passoni. E infatti, Veltroni in Sardegna ci sarà, «regolarmente invitato» dal candidato ufficiale del Partito democratico.

il Riformista 9.1.09
Il Movimento è in vacanza
La riforma Gelmini passa
e dell'Onda non c'è traccia
di Alessandro Da Rold

UNIVERSITÀ. Fino a pochi mesi fa si promettevano «cortei a oltranza» e «lotta senza fine». Ieri il via libera definitivo al testo contestato, e nulla si è mosso. C'è chi punta l'indice dentro la contestazione: «Più di qualcuno ha approfittato delle proteste per farsi solo pubblicità politica».
«Ma perché ci siamo fermati e non protestiamo più?». Il folto gruppo (quasi duemila adesioni) contro la cosiddetta riforma Gelmini, nato sul social network di Facebook lo scorso ottobre, è fermo ormai da alcune settimane. Tina, nel giorno in cui la Camera dà il via libera al rinnovamento del sistema universitario, prova a scuoterlo proprio con questa domanda: «Ma perché ci siamo fermati e non protestiamo più?». Frase che rimbomba nel web, ma che di risposte non ne ottiene alcuna: nessuno sembra interessato alla discussione. A tre mesi di distanza dalle occupazioni di scuole e Università, dalle manifestazioni di piazza, dall'assalto ai binari delle stazioni ferroviarie e dagli scontri a volte anche accesi con la polizia, dell'onda Anomala anti-Gelmini, (o anti-legge 133 per i più tecnici), è rimasto ben poco. Continuano in maniera frammentata occupazioni in poche università della penisola, tra cui spicca La Sapienza di Roma, ma dell'Onda Anomala che doveva ricalcare le gesta della storica Pantera degli anni '90 non si avverte più neppure la presenza.
Da segnalare nelle ultime 48 ore due note di cronaca: ieri due striscioni di protesta che pendevano dal tetto del Museo Correr in piazza San Marco a Venezia, mercoledì sera la manifestazione dei 300 della Sapienza di Roma fuori da Montecitorio. Sulla laguna erano una decina, capitanati da Tommaso Cacciari, nipote del sindaco Massimo, da tempo protagonista indiscusso di qualsivoglia protesta avvenga sul territorio del capoluogo veneto. In sostanza, davvero poco rispetto alle promesse degli scorsi mesi, quando tra i leader del movimento studentesco si parlava di «cortei a oltranza» o «di lotta senza fine contro la Gelmini e il governo di centrodestra». A Milano, all'Università Statale, tra i primi Atenei a movimentarsi lo scorso autunno, è il caos. Fuori dalle aule di via Festa Perdono, tra i bar di Porta Ticinese e le Colonne di San Lorenzo, i pochi militanti rimasti non sanno quali decisioni prendere né cosa accadrà in futuro. Ci si interroga sul da farsi. Molti sono ancora in vacanza. Altri iniziano a pensare all'imminente sessione d'esame. C'è chi se la prende con il governo per il modo in cui è passata la legge: «Con il voto di fiducia e il sette gennaio, mentre l'attenzione è tutta spostata su Gaza: uno scandalol!!» tuona Luigi, ma c'è pure chi ricorda che era scontato che la protesta andasse a finire in questo modo: «C'è stato più di qualcuno che ha approfittato delle protesta per farsi solo pubblicità politica e non per portare avanti veramente la contestazione».
Il riferimento è ai leader della Statale, a quelli provenienti da centro sociale Cantiere, sempre più divisi al suo interno, con schegge impazzite che fanno più o meno quello che vogliono. E su questo bisogna raccontare un antefatto. Lo scorso 12 dicembre, durante un tentativo di occupazione, è nata una rissa tra i manifestanti. Questioni di protagonismo forse, «semplici questioni di piazza» narrano i ben informati, forse l'irruenza di alcuni ha sorpreso altri. La versione ufficiale del direttivo sarà questa: «Erano ragazzi di fuori, nemmeno di Milano». In realtà chi vive da dentro la protesta ha scoperto che «quelli venuti a menar le mani» sono amici di uno dei leader che non è riuscito ad arginare lo scontro: da qui la scissione e la possibile decisione nei prossimi giorni di organizzare iniziative differenti, sparse, senza una voce unica.
Il silenzio assordante della protesta anti-Gelmini lo si avverte pure su Indymedia, piattaforma che riunisce i movimenti di contestazione in tutto il mondo. I pochi post sull'argomento scuola vengono snobbati dai naviganti. Solo in uno la risposta a un anonimo è il segno più eloquente: «Con una bella campagna di mobilitazione c'era possibilità concreta di far saltare il numero legale della seduta. Ma l'epifania tutti i movimenti se li porta via...». Gli Studenti di Sinistra sono pronti a continuare la lotta, ma intanto il ministro festeggia: «Con questa riforma si valorizza il merito, si premiano i giovani e si favorisce il ricambio generazionale». Con buona pace dell'Onda Anomala.

Repubblica 9.1.09
Gli attacchi
Allevi. Tutti contro il piccolo divo "Ma io sto dalla parte di Mozart"
di Giuseppe Videtti

Una valanga di critiche negative: il suo concerto di Natale al Senato ha scatenato le ire degli esperti di classica, da Ughi a Mazzonis
Non sono pop. È un genere semplificato diverso dal mio. Non so dirigere? Nel 700 l´autore dirigeva la sua musica. Chi mi accusa mi dà solo visibilità

Prima della bufera Giovanni Allevi era un riccioluto pianista diplomato a pieni voti al Conservatorio e laureato in filosofia, che audacemente aveva scalato le classifiche di vendita, stabilendo primati da far invidia anche a un artista pop. Oltre cinquecentomila copie vendute di sei album incisi, più di centomila copie vendute dei due libri pubblicati, concerti sold out (e già un impegno per il prossimo luglio all´Arena di Verona). L´accademia, che l´ha formato, tace. Lui dice: «La mia è musica classica contemporanea». I detrattori attaccano: «E´ poco più di Stephen Schlaks e Richard Clayderman». I jazzofili nicchiano: «E´ un Keith Jarrett zuccheroso». Ma i fan lo adorano, lui non si risparmia, la comunicazione tra le due parti diventa fenomenale. E senza confini di età, dai cinque a novant´anni. Il 21 dicembre lo invitano ad esibirsi con I Virtuosi Italiani al tradizionale concerto di Natale al Senato. Allevi, 39 anni, suona e dirige. Il presidente Napolitano e le più alte cariche dello Stato applaudono a lungo. Sembrerebbe un Natale coi fiocchi, invece per Allevi è una Quaresima. Il violinista Uto Ughi, furioso, boccia la scelta: «Quel concerto mi ha offeso come musicista». Alla protesta si aggregano l´arpista Cecilia Chailly e Cesare Mazzonis, direttore artistico dell´Orchestra Nazionale Rai. Allevi ribatte: «Vengo dal Conservatorio, sto dalla parte di Mozart». La polemica investe anche Internet, la blogosfera si spacca tra sostenitori e detrattori. Il pianista trascorre con la famiglia, ad Ascoli Piceno, le festività più tormentate della sua carriera.
Ma lei, Allevi, si merita tanto accanimento?
«Il mio concerto ha rotto una tradizione. Le critiche che ho ricevuto sfociano nell´offesa personale, non sono misurate né contestualizzate. Sono abituato ad avere a che fare con i detrattori, ho capito che chi aggredisce criticando in questo modo mette in piazza solo i propri fantasmi e le proprie paure. C´è anche da dire che attaccarmi in modo così violento, oggi, garantisce un siparietto di visibilità, quei famosi 15 minuti profetizzati da Andy Warhol».
Insiste a definirsi "compositore di musica classica contemporanea", pura presunzione per chi riconosce nelle sue partiture una valenza decisamente pop.
«Sono diplomato in composizione e questo fa di me un compositore. Quanto alla musica classica: è musica colta, musica d´arte che ha una caratteristica incontrovertibile, è scritta, e come tale può svilupparsi in forme complesse. Essendo la mia musica scritta secondo le tradizioni della musica classica europea, è anch´essa classica, ed essendo scritta oggi è contemporanea. Non la rappresento in toto, propongo una possibilità che chiunque è libero di prendere in considerazione o ricusare».
Ecco, questo è il punto, qui scatta l´accusa di presunzione.
«Sono solo una persona convinta e innamorata di ciò che fa. Quel che penso di me l´ho scritto nel libro In viaggio con la strega: sono un simpatico megalomane, perché pensare in grande è il dovere dell´artista. Confrontarsi con i geni del passato è forse un peccato?».
Si fa fatica a riconoscere la stessa dignità di una sinfonia alla cantabilità pop di certe sue composizioni.
«In questo mi viene in soccorso Mozart. La musica deve essere promotrice di una semplicità che è complessità risolta, da tutti riconoscibile, che non inficia la propria origine colta. Siccome il Novecento ha perseguito l´ideale della complessità fine a se stessa, oggi siamo portati a credere che ciò che è complesso e incomprensibile ha maggior valore rispetto a ciò che è semplice».
Le sarebbe sembrato riduttivo definirsi artista pop tout-court?
«C´è un problema di terminologia. Il pop è un genere che utilizza la tradizione orale e una scrittura semplificata diverse rispetto alla mia formazione. Voglio ricordare che Mozart è il musicista che ha venduto di più nella storia. Dobbiamo per questo considerarlo pop?».
Qualcuno potrebbe trovare il paragone irritante.
«Ma è da lì che io vengo, quello è stato il mio percorso di studio. Per me l´importante è scrivere, i giudizi, anche ai limiti dell´offesa, non smuovono le note. Per fortuna».
Come se non bastasse, lei si è messo anche a dirigere: Mazzonis sostiene che lei palesemente non è in grado.
«Non nasco direttore d´orchestra, è vero. Ma voglio ricordare che fino alla metà del Settecento è sempre stato il compositore a dirigere la sua musica».
Molti considerano quella proverbiale naïveté un´astuzia da intrattenitore leggero�
«Nei libri espongo solo le linee guida della poetica della mia musica, una sorta di manifesto artistico, come hanno fatto tanti compositori prima di me. Il critico Piero Rattalino ha scritto che la mia estetica è vicina a quella del compositore Ferruccio Busoni (1866-1924). Ogni artista ha pieno diritto di esprimere le proprie idee. Non pretendo che siano condivise da tutti».
Non si sarà mica montato la testa?
«So di essere un sognatore e un visionario. Sono animato da una profonda umiltà e nutro un rispetto religioso nei confronti del pubblico e della musica. Il vero problema sta nell´immobilismo, nella paura di fare, di cambiare, di esporsi».
Cosa l´ha ferita di più?
«La mistificazione della realtà, di certe mie affermazioni mai pronunciate, per farmi apparire arrogante e presuntuoso. Mi ripaga l´affetto delle persone che mi hanno scritto manifestando la loro solidarietà. Di questo non finirò mai di ringraziarle».