sabato 11 ottobre 2008

l’Unità 11.10.08
In 500mila, per fermare la distruzione della scuola
di Maristella Iervasi

Uno striscione per tutta l’Italia: «Non è che l’inizio». E gli studenti delle superiori hanno «occupato» le città per «suonare» lo «sconcerto» alla Gelmini. Da Torino a Lentini (Siracusa) in 500mila (Uds, Rete e gli universitari dell’Udu) hanno «bocciato» i tagli all’istruzione e il voto in condotta che fa media per la bocciatura nella ricetta «Gelmini-Tremonti». Mentre alle elementari non cessa la battaglia contro il maestro unico: «Giù le mani dalla scuola pubblica» è lo slogan-bandiera di protesta che sventolerà da oggi dalle finestre delle case dei cittadini. Walter Veltroni, leader del Pd: «Dagli studenti una grande prova di maturità. Stiamo con loro e con tutti i protagonisti della scuola. La manifestazione del 25 ottobre che il Pd ha promosso, sarà una nuova occasione di lotta contro la scuola che piace a questo governo e che non piace agli italiani». Fulvio Fammoni, segretario confederale Cgil: «Un grandissimo successo». L’Associazione «Libera»: «Scuola pubblica, presidio di legalità».
Nelle metropoli i cortei più numerosi. Balli e canti a Roma (50mila) con l’«occupazione» della gradinata del ministero e dei binari del tram e la decisione di indire un Referendum. I 40mila di Napoli hanno invece scelto i veli neri per celebrare il funerale della scuola in piazza Plebiscito, proprio sotto le orecchie della Gelmini «blindata» nel Consiglio dei ministri. Una bara nera con un necrologio è sfilata di spalla in spalla tra i 15mila di Firenze: «Qui giace l’Università pubblica». Cori e slogan a Milano: «Ministro ci puoi giurare, non ci faremo privatizzare» e una promessa tra i 30mila: lunedì sit-in sotto la sede della Regione. «C’è la Gelmini... Non potrà ignorarci». Ma poco il Pirellone fa marcia-indietro. E il convegno su educazione e scuola viene rinviato proprio per non fare da «palcoscenico» ai collettivi studenteschi. Striscioni ironici e clima da festa anche nelle cittadine, come Lentini: «Maria Stella Crescente, Scuola Calante». «EntroGelmini uccide la flora studentesca». Mentre a Bergamo è di scena il falò dei grembiulini.
Giulio non va ancora all’Università ma mette in bella mostra una maglietta con la Pantera, il simbolo della protesta degli Atenei dei primi anni Novanta. Un camioncino con gli altoparlanti sotto il ministero manda musica ad alto volume. Poi il silenzio e la voce degli studenti. Uno per uno salgono sul «palco» dell’ultimo gradino della Pubblica «D»istruzione e gridano la loro rabbia: «Siamo venuti qui da te perché tu non ci chiami mai - dicono alla Gelmini assente -. Non ci chiedi che cosa pensiamo». Alice del liceo Aristotele, sembra quasi sentire la risposta del ministro: «Ha paura di noi. Ci vuole ignoranti», urla dal microfono. «Ma noi non siamo marionette», replica Luca dell’Artistico del Tuscolano. Così la decisione da studenti maturi: «Chiediamo di essere ricevuti. Se non ci ascoltano da qui non ce ne andiamo. Occupazione ad oltranza». E tocca al direttore del personale della scuola Luciano Chiappetta e al vice direttore regionale Sergio Scala ricevere una delegazione dei movimenti. Salgono nelle stanze del Palazzo, Stefano Vitale dell’Uds, Luca De Zolt della Rete degli studenti medi e Federica Musetta dell’Udu. Mentre Alessio dello sperimentale di Ariccia vede il papà, dipendente del ministero, solidarizza con i poliziotti colpiti dai Finanziaria e si avvicina: «A pà, stanno ancora parlando?». E poco dopo la delegazione fa capolino. Delusa. «Nessuna risposta politica. Ci hanno ricevuto dei tecnici. Ma noi vogliamo un incontro col ministro, se ha il coraggio. Vogliamo che la Gelmini faccia un referendum tra gli studenti, ma non verrà fatto. Lo faremo noi e girerà su Internet. Vogliamo i criteri sui voti bassi, finanziamenti per l’edilizia, una legge nazionale sul diritto allo studio e l’estensione della carta studenti agli universitari».
La manifestazione si scioglie. E sul muro resta uno striscione a mo’ di messaggio: «Decreto cazzata, riforma sbagliata».

l’Unità 11.10.08
Scuola, rompiamo il silenzio
di Marina Boscaino

Cinquecentomila ragazzi in piazza in tutta Italia. Era tempo che non si assisteva a una manifestazione così diffusa e imponente. E che ha dato una prima, concreta risposta alla domanda di Simonetta Salacone, dirigente scolastico della scuola elementare Iqbal Masih di Roma, avanguardia del movimento di resistenza attiva e costruttiva alla coppia Gelmini-Tremonti. Simonetta, oltre ad essere esperta e capace, è anche una donna realista. Davanti a una platea di insegnanti e politici, ha chiesto chi - tra politica, sindacato, enti locali, amministrazione - sarà in grado di raccogliere l’eredità della grande mobilitazione della scuola primaria messa in piedi a Roma e in altre città d’Italia, una volta che i riflettori del mondo dell’informazione si saranno fatalmente spenti. La domanda è legittima, considerando che la scuola italiana passa da momenti di sovraesposizione mediatica - spesso gestiti in maniera pedestre e approssimativa - a lunghissime fasi di oblio. Ma c’è una domanda precedente: che fine ha fatto la scuola superiore? Latitanza assoluta, a parte l’incoraggiante risposta dei ragazzi. Ma gli insegnanti? L’impressione è che da alcuni anni, più che un’idea di scuola come sistema organico che garantisce il Paese nella sua crescita culturale e nell’educazione ai diritti di cittadinanza, essa sia considerata un insieme di segmenti, quasi avulsi l’uno dall’altro, e pertanto indifferenti, o quasi, alle sorti l’uno dell’altro. Le battaglie contro la Moratti furono anni fa considerate una bega degli insegnanti delle primarie, svincolate da qualunque visione di scuola come bene comune e da qualunque rappresentazione di un sistema di welfare universale. Oggi, per il momento, chi sta facendo le spese della scellerata politica del Governo è, ancora una volta, soprattutto, la scuola primaria; e - come allora - il silenzio delle medie e delle superiori è assordante. La miopia di un simile atteggiamento è evidente da molti punti di vista. Innanzitutto dà il senso di una partecipazione e di una reazione che nasce solo dal contatto diretto con situazioni di emergenza. Questo, in molti casi, rischia di trasformare le mobilitazioni, i movimenti - anche i più efficaci e costruttivi - in una reazione all’emergenza stessa; e non nell’occasione per inaugurare una riflessione comune su un problema culturale complesso e delicato, quale quello che investe globalmente la scuola italiana e le rappresaglie dei vari governi: ancora una volta gli insegnanti italiani derogano alla propria funzione intellettuale in senso ampio. Inoltre, configura un’idea di scuola non come sistema organico, dal punto di vista didattico e della cura dello sviluppo della emancipazione degli individui che sono e saranno gli studenti, ma come sistema settoriale, scollato completamente da qualunque idea di verticalità. Marca poi una vistosa lontananza tra ordini di scuola che - attraverso dialogo, coesione, solidarietà - indicherebbero alla politica e all’amministrazione un “mondo della scuola” come interlocutore non solo nominale. Un mondo della scuola più forte, perché compatto, sinergico; capace di elaborare, comunemente, idee e resistenza. Invece le scuole elementari, oggi come qualche anno fa, stanno reagendo in totale solitudine alla strategia economicista del governo che - oltre a tagliare posti di lavoro - impoverisce in maniera irreversibile l’impianto didattico-culturale di quel segmento di scuola. Infine, in questo silenzio, hanno buon gioco le voci di chi si associa alle nostalgiche pseudostrategie culturali del governo e ai suoi inadeguati, muscolari provvedimenti, in una indefessa difesa del passato (che, si badi bene, non coincide necessariamente con serietà, rigore, competenza). Che nel vuoto di senso della nostra società esercitano un’attrattiva fatale sull’opinione pubblica. Demotivazione, disimpegno, il risultato della mancanza di quella collegialità che invece connota la scuola primaria e ne costituisce una forza innegabile: la situazione alle superiori è questa. È probabile che si avvertirà un rigurgito di reazione quando arriveranno i “piattini” che Gelmini&C stanno preparando, quando si sentiranno gli effetti dei tagli preventivati, se e quando la proposta di legge Aprea dovesse attuarsi, nel momento in cui le promesse revisioni ordinamentali dovessero concretizzarsi. Ricordiamo, comunque, che una gran parte degli insegnanti non ha ritenuto opportuno scaldarsi per il pasticcio sull’obbligo (scolastico di istruzione), e ha in molti casi reagito tiepidamente alla questione dei debiti scolastici, dimenticando per lo più che non si trattava solo di un problema di organizzazione interna alle scuole, ma dello spunto per inaugurare una seria riflessione culturale e didattica.
Sfruttando il coinvolgimento responsabile delle famiglie e degli studenti, potrebbe essere questo il momento di ribadire che, quando si deve fare i conti con il mondo della scuola - luogo della democrazia, della cultura emancipante, del dibattito critico - la coesione tra le sue componenti è obbligatoria, etica, politica e passa attraverso l’esigibilità dei diritti, l’esercizio dei doveri e l’interpretazione puntuale e intransigente dei principi della Costituzione. Attori e spettatori passivi: dura da troppo tempo. Speriamo che la manifestazione di Torino di qualche giorno fa, i 500.000 ragazzi di ieri, lo sciopero dei sindacati di base del 17 e lo sciopero del 30 dei confederali siano l’inizio di una risposta responsabile all’emergenza democratica che stiamo vivendo.

l’Unità 11.10.08
La rabbia degli studenti torna in piazza
Grande manifestazione ieri a Firenze di universitari e liceali contro la riforma del ministro
Una mobilitazione massiccia che riapre la stagione della protesta organizzata
di Silvia Casagrande

UNITI contro i tagli del governo. Ragazzi di tutte le età e sigle hanno marciato fianco a fianco nelle vie del centro per denunciare l’attacco del governo all’istruzione pubblica

«Tutti uniti senza bandiere nè partiti», recitava uno dei cori scanditi ieri mattina alla protesta contro i tagli a scuola e università. E l’appello all’unità non era retorica. C’erano manifestanti di tutte le età e di tutti i collettivi universitari. E anche se qualche bandiera di partito c’era, giovani comunisti, giovani democratici, anarchici e spezzoni autorganizzati hanno sfilato fianco a fianco nel corteo. Fra chi indossava un grembiule e chi portava la bara dell’università, i partecipanti erano quasi 5mila, e qualcuno dei più giovani commentava emozionato: «Non ho mai mai visto una manifestazione così grande», mentre un altro più deciso rassicurava i compagni di classe: «Siamo tantissimi, ora la Gelmini dovrà starci a sentire».
«Il governo taglia il nostro futuro» diceva uno degli striscioni, un altro, in ricordo alla lotta studentesca dell’anno scorso, «Gelmini rimandata a settembre». C’era un coloratissimo «Un Paese che taglia i fondi all'istruzione è una Paese alla frutta» e il più arrabbiato «Con il voto in condotta ci tappano la bocca», fino all’amara ironia di «Adotta un ricercatore». La protesta si è conclusa in piazza SS. Annunziata, con+ un microfono aperto agli interventi di tutti.
Intanto nell’aula magna del Rettorato il prorettore Sandro Rogari, chiamato a sostituire il rettore all’inaugurazione del festival Pianeta Galileo, esprimeva il suo sostegno ai «giovani che stanno giustamente protestando qui fuori». A lui si è unito il presidente del consiglio regionale Riccardo Nencini, ricordando «le eccellenze nella ricerca scientifica in Toscana, spesso opera di ricercatori precari».
Il presidente del consiglio comunale Eros Cruccolini, invece, era per la strada tra i ragazzi: «Si percepiva nell’aria un sentimento di disagio e preoccupazione, ma allo stesso tempo la ribellione e l’allegra voglia di lottare tipica dei giovani». «La buona condizione di una nazione - ha aggiunto Cruccolini - si vede anche e soprattutto per quanto si investe in formazione, saperi e ricerca. La precarietà non preclude solo il presente ma anche il futuro».
Mentre per le strade sfilava il corteo, i precari delle agenzie regionali Ars, Arpat, Irpet, Apet, Arr e Artea erano riuniti presso la Cgil per raccontare la loro condizione di «appesi a un filo», dopo anni di lavoro come «dipendenti di fatto, non collaboratori», dandosi appuntamento il 14 ottobre per un presidio sotto il consiglio regionale in via Cavour.
Tra i vari rappresentanti sindacali che hanno aderito alla manifestazione, Flc Cgil ha colto l’occasione per ricordare che la protesta continuerà lunedì sera con una fiaccolata anti-Gelmini. Appuntamento alle 21 in piazza SS. Annunziata, tutti armati di torce elettrice, visto che le fiaccole sono state vietate dal nuovo regolamento di polizia municipale, per cercare di «riconquistare uno spazio di trattativa con il governo - ha spiegato il segretario provinciale di Flc Cgil Alessandro Rapezzi -, che non ha aperto nessun tavolo di confronto con chi nella scuola ci lavora e con i genitori, mentre con arroganza ha utilizzato la decretazione d’urgenza mettendo la fiducia sui provvedimenti».
Alla fiaccolata stanno giungendo numerose adesioni di Comuni, insegnanti, genitori, cittadini e associazioni, tra cui l’Arci Firenze, che promuove anche la campagna di affissione sulle finestre la scritta: «Vietato calpestare la scuola».

l’Unità 11.10.08
Anpi: resistere, resistere, resistere
Angela, ex partigiana alla festa del Saschall a Firenze: «Tira una brutta aria per il paese»
di Sonia Renzini

ECCOLE LÌ le donne della Resistenza, sguardo deciso e volontà di ferro. Tanti piccoli volti che hanno fatto la storia di questo paese e dell’Anpi, in festa da ieri a domenica al Saschall di Firenze. Le madri della Repubblica se ne stanno lì, immortalate da una
manciata di foto in bianco e nero appese su una parete del teatro, a ricordarci che la loro parte loro l’hanno fatta. E non è stata cosa da poco. Ne sa qualcosa Liliana Benvenuti, caschetto bianco e occhi neri. Ora ha 85 anni, ma molto tempo prima, quando Angela era il nome di battaglia e se ne andava in giro per Firenze con il triciclo a portare bombe molotov e fucili ai partigiani di anni ne aveva 20. «Facevo di tutto - dice - eravamo un esercito, eravamo organizzati militarmente e se qualcuno sbagliava veniva punito». Non rimpiange di avere trascorso la sua gioventù tra le armi e il timore di morire. Per lei, che faceva parte del comando di divisione Potente, la lotta di liberazione era un sogno in grado di piegare qualsiasi desiderio. «Le donne dovevano essere caste - continua - non c’era il femminismo, allora. i miei compagni mi volevano un gran bene, ma il femminismo non c’era proprio e le ricompense dopo per le donne non sono state le stesse che per gli uomini. Eppure, io coprivo i capi quando si dovevano spostare, tenevo i rapporti con i gappisti, ho salvato tante vite e ho fatto cose che gli uomini non potevano fare». L’orgoglio della combattente è ancora vivo. Eccome. Tanto più ora che registi hollywoodiani ansiosi di vendere al botteghino cercano di riscrivere la storia. La sua storia. «Non lo voglio vedere io il film su Sant’Anna - dice - perché questo vip americano non sa niente della nostra umanità». E sulla situazione politica attuale: «Tira una brutta aria per il paese, vogliamo che la Costituzione sia rispettata». La festa dell’Anpi è anche l’occasione per conoscerla meglio. In programma tre giorni di dibattiti (ieri con il presidente Scalfaro) e proiezioni, incontri con ex combattenti e rappresentanti delle istituzioni. Non manca neanche la musica, a partire dal concerto di Bobo Rondelli di ieri sera. Stasera a salire sul palco, invece, saranno alcuni gruppi toscani, come Tenedle,Clever, The Rent, Apuamater, Scritti corsari, Banda K 100 e Malasuerte Fi Sud. Conclude la kermesse domani sera il gruppo Yo to mundi.

l’Unità 11.10.08
Napolitano: nessuna forzatura sul Parlamento
E sulla crisi: niente allarmismi, più etica nelle banche. Allerta sul diffondersi del pregiudizio razzista
di Marcella Ciarnelli

STABILIRE REGOLE di comportamento etico nelle banche. Ribadire la scelta della democrazia parlamentare. Cogliere il rischio che l’intolleranza e la xenofobia sconfinino nel razzismo. Salvare il pluralismo dell’informazione. Parla a tutto campo il presiden-
te della Repubblica nella “Giornata dell’informazione”, celebrata nel giorno in cui l’Osservatore Romano anticipa l’intervista fatta a Giorgio Napolitano dopo la visita di Benedetto XVI al Quirinale diffusa anche dalla Radio e dalla Tv Vaticana.
In un momento di crisi economica grave come quello attuale il monito del Capo dello Stato va a chi le notizie le diffonde e che «non deve alimentare un allarmismo che in questo campo può diventare fattore di aggravamento» della situazione ma, innanzitutto, a chi deve coniugare «logiche di mercato e principi solidali».
La crisi delle banche e delle Borse dimostra che «si debbano stabilire delle regole, delle regole di comportamento, anche di comportamento etico, all’interno delle istituzioni di governo dell’economia». Già una settimana fa, in occasione dell’incontro con il Papa, il Presidente aveva fatto riferimento alla «corrosiva» mancanza di etica in politica ed economia.
Ma il Capo dello Stato ha anche voluto chiarire, ancora una volta, il suo pensiero sulle possibili ipotesi di riforme istituzionali, logica conseguenza, o almeno tale sembrerebbe, di una Costituzione che negli anni è andata mutando. Nessun dubbio per Napolitano che la scelta della democrazia parlamentare va ribadita perchè senza confronto in Parlamento si rischia di lasciare la strada giusta e «finire in un vicolo cieco». Ma senza dimenticare che «va portato fino in fondo l’impegno che venne soltanto anunciato nell’Assemblea costituente: introdurre, cioè, correttivi che garantiscano la stabilità dell’esecutivo, la capacità di governo di chi ha ricevuto la maggioranza e, nello stesso tempo, però garantiscano contro ogni degenerazione parlamentaristica di vecchio stampo, un efficace, incisivo ruolo legislativo, di indirizzo e di controllo del Parlamento». La velleità della riscrittura globale della Costituzione è «appunto una velleità» come dimostra una lunga «esperienza di tentativi infruttosi» che «non portano da nessuna parte». Bisogna, invece, ripartire da indicazioni concordi «scaturite dal Parlamento anche in modo piuttosto concorde al termine della passata legislatura» e portare avanti «delle ipotesi di riforma mirata, di riforma parziale nel senso di rafforzare le autonomia regionali e locali nell’ambito di uno Stato nazionale che deve mantenere fortemente la sua unità ma superando persistenti vizi di centralismo e burocratizzazione».
Il presidente parla ai giornalisti italiani nella loro giornata, quella dedicata a tutti i vincitori di premi e a tutti quelli che quotidianamente si misurano con la professione. In prima fila ci sono i genitori di Ilaria Alpi e la moglie e il figlio di Miran Hrovatin, giornalisti Rai trucidati a Mogadisco perchè credevano nel loro lavoro. Riceveranno una medaglia d’oro in memoria del loro sacrificio. Ci sono anche i vertici delle organizzazioni di categoria, il sottosegretario all’Editoria, Paolo Bonaiuti. E tante facce note, direttori, “firme” storiche come Vittorio Zucconi e Miriam Mafai. È commosso il ricordo di Italo Moretti.
Gli argomenti si affollano. Ritorna il presidente sul rischio che il «pregiudizio razzista» dilaghi nel nostro Paese e loda la «Carta di Roma». Richiama il diritto-dovere dell’informazione ma anche il rispetto delle indagini, della privacy e della dignità delle persone.
«L’autovigilanza è la strada maestra da seguire, anche per non dover poi giustificare misure coercitive che possono mettere a rischio la libertà di informazione». Si augura che finalmente, davanti agli spiragli di questi giorni, si arrivi a firmare il contratto dei giornalisti scaduto da quasi quattro anni.
Ed infine, sulla scia della disponibilità espressa dal sottesegretario Bonaiuti, ecco l’invito «preoccupato» a «non comprimere il pluralismo» riducendo i fondi a quei giornali che parlano a nome di «chi non è rappresentato in Parlamento» pur nella consapevolezza che sacrifici vanno fatti in nome del bene comune e degli impegni presi con l’Europa.

l’Unità 11.10.08
Il sondaggio
Sale all’82% la fiducia nel Presidente
Decreti: la maggioranza li accetta solo per casi urgenti

Accade che dopo lo tsunami dell’antipolitica gli italiani sembrino diposti ad «un’apertura di credito» verso le istituzioni. Il gap rispetto al 2006 non è stato ancora colmato. E per ora solo una tendenza avverte Nando Pagnoncelli, direttore dell’Ipsos, che parla forte di recenti sondaggi riservati che indicano però che qualcosa sta cambiando. Il Paese, oggettivamente in preda a molteplici difficoltà, riscopre una fiducia nelle istituzioni che sembrava persa per sempre.
Quella che fa da traino su tutte è la Presidenza della Repubblica. Il trend è positivo dal giugno del 2007. Il 78 per cento ripone fiducia nel Quirinale. E Giorgio Napolitano arriva all’82 per cento raccogliendo anche consensi in quegli elettori di centrodestra i cui partiti di riferimento non lo avevano votato al momento dell’elezione. Un anno fa era al 70 per cento. Per quanto riguarda seconda e terza carica dello stato la situazione è cambiata dopo il voto anche grazie alla sensazione che la semplificazione del quadro politico potesse consentire ai due rami del Parlamento di lavorare meglio. Nel Senato ha fiducia il 51 per cento mentre la Camera si ferma al 49. La situazione si ribalta nei numeri legati alle persone: Gianfranco Fini viaggia sul 54 per cento mentre Renato Schifani è fermo al 36 per cento. Al di là del singolo dato sembra che ci sia «un crescente bisogno di punti di riferimento». E su questo influisce certamente la crisi economica che potrebbe indurre ad un confronto che «deve avere un perimetro ben preciso». Dal dialogo all’inciucio il passo può essere breve. «Ma la crisi potrebbe essere un’opportunità...».Verrebbe da chiedersi, a questo punto, e tenendo presente che la presidenza del Consiglio per la gente non è un’istituzione ma una persona, cioè Berlusconi, come possa accadere che proprio mentre chi governa dichiara apertamente di voler in tutte le occasioni possibili superare il confronto parlamentare puntando alla via breve dei decreti legge cresca questa voglia di istituzione.
Il sondaggio non è temporalmente coincidente con le dichiarazioni di Berlusconi. Ma resta il fatto che la maggioranza realativa del campione, il 41 per cento, si dice disponibile ad essere governata per decreto solo in casi urgenti e motivati. Il 28 per cento che giudica il Parlamento troppo lento mostra più disponibilità. Il 25 per cento dice mai. «Non credo che l’iter legislativo sia chiaro a tutti gli italianima risultato evidenti due dati: gli italiani vogliono leggi più rapide ma anche che il Parlamento sia rispettato».m. ci.

l’Unità 11.10.08
Ecco la «Carta di Roma», il protocollo sottoscritto da Ordine dei giornalisti e Fnsi in collaborazione con l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. In arrivo un Osservatorio
Migranti e rifugiati, mai più pregiudizi e informazioni scorrette

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, condividendo le preoccupazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) sull’informazione concernente rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti, richiamandosi ai dettati deontologici della Carta dei Doveri del giornalista - con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità e di non discriminare nessuno per la razza, la religione, il sesso, le condizioni fisiche e mentali e le opinioni politiche - ed ai princìpi contenuti nelle norme nazionali ed internazionali sul tema; riconfermando la particolare tutela nei confronti dei minori così come stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dai dettati deontologici della Carta di Treviso e del Vademecum aggiuntivo, invitano, in base al criterio deontologico fondamentale “del rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati”, i giornalisti italiani a osservare la massima attenzione nel trattamento delle informazioni concernenti i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti e in particolare a:
a. Adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore ed all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri;
b. Evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. Cnog e Fnsi richiamano l’attenzione di tutti i colleghi, e dei responsabili di redazione in particolare, sul danno che può essere arrecato da comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati, anche attraverso improprie associazioni di notizie, alle persone oggetto di notizia e servizio; e di riflesso alla credibilità della intera categoria dei giornalisti;
c. Tutelare i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti che scelgono di parlare con i giornalisti, adottando quelle accortezze sull’identità e l’immagine che non consentano l’identificazione della persona, onde evitare di esporla a ritorsioni tanto da parte di autorità del paese di origine, che di entità non statali o di organizzazioni criminali. Inoltre, va tenuto presente che chi proviene da contesti socioculturali diversi, nei quali il ruolo dei mezzi di informazione è limitato e circoscritto, può non conoscere le dinamiche mediatiche e non essere quindi in grado di valutare tutte le conseguenze dell’esposizione attraverso i media;
d. Interpellare, quando ciò sia possibile, esperti ed organizzazioni specializzate in materia, per poter fornire al pubblico l’informazione in un contesto chiaro e completo, che guardi anche alle cause dei fenomeni.
Impegni dei promotori
I. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Fnsi, in collaborazione con i Consigli regionali dell’Ordine, le Associazioni regionali di Stampa e tutti gli altri organismi promotori della Carta, si propongono di inserire le problematiche relative a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti tra gli argomenti trattati nelle attività di formazione dei giornalisti, dalle scuole di giornalismo ai seminari per i praticanti. Il Cnog e la Fnsi si impegnano altresì a promuovere periodicamente seminari di studio sulla rappresentazione di richiedenti asilo, rifugiati, vittime di tratta e migranti nell’informazione, sia stampata che radiofonica e televisiva.
II. Il Cnog e la Fnsi, d’intesa con l’Unhcr, promuovono l’istituzione di un Osservatorio autonomo ed indipendente che (...) monitorizzi l’evoluzione del modo di fare informazione su richiedenti asilo, rifugiati, vittime di tratta, migranti e minoranze con lo scopo di:
a) fornire analisi qualitative e quantitative dell’immagine di richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti nei mezzi d’informazione italiani ad enti di ricerca ed istituti universitari italiani ed europei nonché alle agenzie dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa che si occupano di discriminazione, xenofobia ed intolleranza;
b) offrire materiale di riflessione e di confronto ai Consigli regionali dell’Ordine dei Giornalisti, ai responsabili ed agli operatori della comunicazione e dell’informazione ed agli esperti del settore sullo stato delle cose e sulle tendenze in atto.
III. Il Cnog e la Fnsi si adopereranno per l’istituzione di premi speciali dedicati all’informazione sui richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime di tratta ed i migranti, sulla scorta della positiva esperienza rappresentata da analoghe iniziative a livello europeo ed internazionale.

l’Unità 11.10.08
Prc, Pdci, Sd, Verdi: a Roma il corteo della sinistra
L’Idv in piazza Navona raccoglierà le firme per il referendum contro il Lodo Alfano

DUE PIAZZE contro il governo. La sinistra sfilerà da piazza della Repubblica (ore 14) fino alla Bocca della verità. L’Italia dei valori sarà in piazza Navona per una no-stop dalle 10 di mattina alle 8 di sera per raccogliere firme per il referendum sul Lodo Alfano. Antonio Di Pietro interverrà verso le 17, mentre nessun leader politico di Rifondazione comunista, Pdci, Verdi o Sinistra democratica salirà sul palco alla fine del corteo contro Berlusconi e Confindustria (parleranno esponenti del mondo dei movimenti e dell’associazionismo). Non saranno invece sul palco, a piazza Navona, Sabina Guzzanti e Beppe Grillo.
A chiamare alla partecipazione ci ha pensato Pietro Ingrao: «È importante, anzi necessario ripetere il successo del 20 ottobre 2007. Oggi c’è ancora più bisogno di far sentire la voce delle masse». Il padre nobile della sinistra oggi sarà in piazza, come pure Fausto Bertinotti. Ad aprire il corteo della sinistra ci sarà uno striscione con scritto «un’altra politica, un’altra Italia». Sd ha preparato striscioni che dicono semplicemente «Per la sinistra» e un giornale, con lo stesso titolo, a sostegno della costituente con articoli di Claudio Fava, Moni Ovadia, Fabio Mussi e altri. Dalle parti del Pdci si guarda con soddisfazione al fatto che dieci anni dopo la scissione dal Prc, in diverse città militanti e simpatizzanti dei due partiti hanno organizzato pullman insieme per Roma.
Ma alla vigilia dell’appuntamento che dovrebbe segnare il rilancio di una sinistra unitaria non mancano fibrillazioni tra i diversi partiti. Dice Oliviero Diliberto conversando con i giornalisti a Montecitorio: «Sono convinto che alle europee faremo una lista con Rifondazione comunista e che ci sia lo spazio per superare ampiamente la soglia di sbarramento». Frase che arriva in tempo reale alla sede del Prc, dove è in corso la Direzione del partito. E la reazione dei vendoliani è tutt’altro che pacata. «Non so su quali basi Diliberto fondi quest’affermazione», dice Gennaro Migliore a nome del coordinamento di “Rifondazione per la sinistra”. «Noi escludiamo qualsiasi possibilità di unità dei comunisti alle europee e chiediamo formalmente alla segreteria di Rifondazione di escludere a sua volta chiaramente questa ipotesi». Paolo Ferrero non la esclude: «La sinistra ha già passato troppo tempo a discutere di come andare alle elezioni. Questo è il tempo di ricostruire l'opposizione». Il segretario del Prc aspetta di conoscere la nuova legge elettorale, e intanto incassa un risultato non da poco: la Direzione ha votato all’unanimità un documento nel quale si dice che Liberazione è «strumento indispensabile per il rilancio del progetto della Rifondazione comunista» (sottinteso, e non della costituente di sinistra sostenuta dai vendoliani). Resta invece per ora al suo posto il direttore Piero Sansonetti. Difeso da Franco Giordano con un intervento duro: «Mettere in discussione la direzione significa mettere in discussione le ragioni della nostra convivenza». I malumori tra i ferreriani sono però molti. L’assalto alla direzione del giornale forse è stato soltanto rimandato.s.c.

l’Unità 11.10.08
Gtazia Francescato. La portavoce dei Verdi: «Non firmerò per il referendum sul Lodo Alfano. Alle europee? Importante non è il nostro simbolo ma che gli eletti vadano nella famiglia ambientalista»
«C’è un’emergenza democratica, ci saremo oggi e con il Pd»
di Simone Collini

Grazia Francescato sarà alla manifestazione di oggi, ma anche a quella del Pd del 25: «Dobbiamo dare una risposta alla paura che si sta insinuando nel paese e il primo modo per farlo è essere in piazza e dire che un altro futuro è possibile». La portavoce dei Verdi non firmerà invece per il referendum sul Lodo Alfano: «Quella legge è una vergogna nazionale, ma ho delle perplessità sia sullo strumento che su certe modalità con cui Di Pietro fa opposizione». Quanto alle europee, se le si chiede qual è la condizione irrinunciabile, la risposta non è la presenza sulle schede elettorali del simbolo del Sole che ride, ma che gli eletti vadano nella famiglia dei Verdi.
Basta una manifestazione per dare una risposta alla paura che la destra cavalca?
«È un primo passo, che dobbiamo compiere mettendo insieme alla protesta le nostre proposte. Ci hanno attaccato addosso l’etichetta del “no”. Ora dobbiamo mettercene un’altra, quella dell’“invece”».
Qualche esempio concreto?
«Una lotta sul lavoro che metta insieme economia ed ecologia, un no al nucleare che si accompagni a un sì alle fonti rinnovabili, la battaglia per i beni comuni, in particolare sull’acqua, visto che le privatizzazioni portano a un aumento delle tariffe e non garantiscono la qualità dei servizi».
Come pensate di farlo, visto che non siete in Parlamento.
«Non va sottovalutata la battaglia che possiamo fare a livello locale».
I Verdi saranno in piazza con la sinistra ma anche con il Pd, però le due manifestazioni non hanno piattaforme proprio identiche...
«Noi manifesteremo oggi contro il governo perché c’è un’emergenza democratica impressionante. Basti pensare alla legge elettorale per le europee proposta dal centrodestra che impedisce ai cittadini di scegliere e colpisce la biodiversità politica con una soglia di sbarramento del 5%. Ma noi vogliamo anche ricostruire il tessuto lacerato dei rapporti nel centrosinistra. E il 25 saremo in piazza con dei gazebo sul no al nucleare e in difesa dei beni comuni. Dobbiamo riannodare un dialogo col popolo del Pd, nel quale sono convinta che ci siano persone che vogliono vedere un’opposizione molto più netta».
Firmerà anche per il referendum sul Lodo Alfano?
«No, non firmerò. Il coordinamento dei Verdi ha discusso a lungo la questione e si è deciso di lasciare libertà sui territori. Molti dei nostri stanno raccogliendo le firme ed è evidente che siamo contro una legge che è una vergogna nazionale. Però ci sono anche perplessità sullo strumento referendario, che può rivelarsi un boomerang, e su certe modalità con cui Di Pietro fa opposizione».
Pdci e Rifondazione hanno iniziato a discutere di come andare alle europee, voi?
«Stiamo valutando due opzioni: andare da soli o vedere se ci sono possibilità di alleanze».
Con gli ex alleati dell’Arcobaleno o anche con il Pd?
«Bisogna vedere il cantiere della sinistra come si svilupperà. Per ora c’è uno stallo. Col Pd sicuramente dobbiamo riannodare un dialogo. Comunque bisogna aspettare che nel partito emerga una posizione maggioritaria».
La presenza del vostro simbolo sulla scheda elettorale è un paletto irrinunciabile?
«Quello che per noi è importante è che gli eletti vadano nei Verdi europei. Stiamo facendo una battaglia comune in tutta Europa, non possiamo che andare in quella famiglia».

il Riformista 11.10.08
Il ritorno del comunismo. Oggi a Roma in piazza della Repubblica
di Alessandro De Angelis

Oggi i comunisti manifesteranno «contro il governo e contro i padroni», da piazza della Repubblica alla Bocca della verità. E chissà se la data è stata scelta a caso: proprio dieci anni fa - l'11 ottobre del 1998 - dopo la caduta del governo Prodi, Cossutta e Diliberto lasciarono Rifondazione per fondare il loro partito, il Pdci. Oggi i due partiti marceranno insieme. Certo, ci saranno quelli di Sinistra democratica, i Verdi, tutti i cocci dell'Arcobaleno che fu, e anche altre sigle e associazioni della sinistra. Ma, al quartier generale dei due partiti "comunisti", si respira un clima da riunificazione. Presente, come nelle grandi occasioni, il grande vecchio del comunismo italiano come Pietro Ingrao.La vigilia, però, è sembrata tutt'altro che un appuntamento con la storia. A via del Policlinico si è svolta una giornata (l'ennesima) da lunghi coltelli: veleni, rese dei conti, tentativi di epurazione. Alla direzione del partito, svoltasi ieri, più che della mobilitazione si è parlato del «caso Liberazione». Il giornale è pieno di debiti, e questa non è una novità. La novità, che sa di antico, è il tentativo di defenestrare il direttore, Piero Sansonetti, che comunista eretico lo è sempre stato. Lui che l'aria l'ha fiutata da tempo ieri ha alzato il tiro in nome dell'«autonomia» del giornale.
Giordano minaccia la scissione, Sansonetti si salva di Alessandro De Angelis Ferrero perde la sua guerra di Liberazione
Bastava leggere, sul giornale di ieri, il titolo dell'articolo di Ritanna Armeni: «Il cupio dissolvi di un partito che non sopporta il suo giornale». L'accusa a Ferrero è presto detta: «La maggioranza di Rifondazione - scrive la Armeni - è pronta a compiere la chiusura di Liberazione, l'allontanamento del suo direttore, la richiesta di obbedienza ai suoi redattori». Quanto basta per andare allo show down nel parlamentino comunista. Pezzi della maggioranza ferreriana - almeno una ventina di interventi - hanno chiesto la testa di Sansonetti: «L'autonomia non può essere in contrasto con la linea del partito» hanno detto gli uomini del potente responsabile organizzazione Claudio Grassi. Praticamente, un processo vecchio stampo. A salvare Sansonetti ci hanno pensato gli uomini di Bertinotti. L'ex segretario Franco Giordano ci è andato giù duro: «Difendo il giornale - ha detto Giordano - non perché siamo sulla stessa linea. Anzi con Sansonetti anche io ho avuto scontri come quando lui sosteneva che dovevamo uscire dal governo. Ma difendo la sua autonomia. E se qualcuno la mette in discussione significa che sta mettendo in discussione la nostra comunità politica». È il gelo. Uno spetto si è aggirato tra i comunisti: quello della scissione, di cui Liberazione è diventata il casus belli. Tanto che Ferrero, nelle conclusioni, ha ammorbidito la linea. Ed è stato approvato, all'unanimità, un «dispositivo» con cui il partito si impegna a ripianare il debito, e dà mandato al cda del giornale di presentare un piano di rilancio. Detta in altri termini, fino alle europee è tregua, anche sul giornale.E la politica-politica? Ferrero, in vista della manifestazione, ha lanciato l'idea di «comitati di opposizione» aperti a tutti quelli che dicono no a Berlusconi. Ma il ritrovato feeling è con Diliberto. Per passione, ma anche per necessità. Di fronte all'ipotesi di sbarramento alle europee, la riunificazione comunista potrebbe essere un modo per sopravvivere. Ferrero non lo dice apertamente, anche perché perderebbe mezzo partito. Anzi ieri ha tagliato contro sul tema: «Se passiamo il tempo a discutere di questo poi i voti non vengono» ha detto Ferrero. Diliberto sì: «Sono convinto che faremo una lista con Rifondazione comunista e che ci sia lo spazio per superare ampiamente la soglia di sbarramento». Ma i sondaggi già circolano: i comunisti uniti sono al 4,8 per cento. Sarà un caso - e non lo è - ma i militanti sono più vicini di quel che si pensi: alla manifestazione di oggi in molte regioni i due partiti hanno organizzato pullman comuni: Veneto, Basilicata, Sicilia, ma anche Firenze e Ancona.Gli organizzatori annunciano «un fiume di popolo» e parlano di 50 mila persone; garantito anche il supporto della Fiom e la presenza del suo leader Gianni Rinaldini. Dal palco niente big. Parleranno quelli che dicono "no": comitati "no Tav", "no Dal Molin", insegnanti contro la Gelmini. E, soprattutto, che dicono «no al governo e alla Confindustria», complici a detta di Rifondazione, di un disegno comune. Su tutto. Anche sullo sbarramento alle europee: «Un vero e proprio colpo di Stato» ha detto ieri Ferrero che ha partecipato, a Piazza Venezia, a uno dei tanti presidi davanti alle prefetture che Rifondazione ha organizzato in tutta Italia contro la riforma della legge elettorale.Sarà, dunque, la giornata della falce e martello. Ma sarà anche la giornata della "questione morale". Sulla giustizia i comunisti e Di Pietro marciano divisi, ma colpiscono uniti. Un filo unisce il corteo rosso a piazza Navona dove andrà in scena il "no Cav day", atto secondo: la raccolta delle firme contro il lodo Alfano. Certo, i distinguo non mancano, ma Ferrero è convinto che non si possa lasciare all'ex pm la bandiera dell'antiberlusconismo duro e puro. Di Pietro lo ha capito, ma tira dritto. E i suoi scommettono che dalla Bocca della verità più di un militante rosso farà un salto a piazza Navona. Dove il Tonino nazionale ha invitato sul palco anche cantanti e comici graditi alla sinistra, da Simone Cristicchi a Andrea Rivera. Anche se a lui le bandiere rosse non piacciono.

il Riformista 11.10.08
25 ottobre infuria il dibattito sul senso della manifestazione
«Non contro il governo», il Pd riempie la piazza di se e di ma
di Francesco Nardi

In piazza il 25 ottobre. Oppure no. Altrimenti sì, ma non contro il governo. Veltroni ha garantito che il corteo si farà, ma il Pd continua a interrogarsi sul senso e l'opportunità della manifestazione. E anche ieri polemiche, dubbi e discussioni si sono rincorsi.«Francamente non capiamo». Così Franco Monaco commenta l'intervista al Giornale con cui Enrico Morando, coordinatore del governo ombra, ha sorpreso tutti ed innescato un fitto botta e risposta. «Non sarà una manifestazione antigovernativa» ha detto Morando «anzi l'opposizione dovrà incoraggiare e sostenere il governo nel suo sforzo teso a fronteggiare l'emergenza». Quello che non capisce Monaco, ma che sono in molti a non aver capito, è come sia possibile che una manifestazione indetta mesi fa con lo slogan "Salva l'Italia" possa diventare ora una manifestazione quasi di "salva il governo".«È vero», dice Monaco, «le condizioni sono cambiate, ma in molti avevamo criticato l'iimpostazione di questa manifestazione fin dall'inizio. Siamo convinti che è possibile fare un'opposizione responsabile e non barricadera pur senza confondere i luoghi istituzionali di confronto con la piazza». Parole non morbide e che suscitano un vespaio di repliche nell'universo piddino, con il risultato di dare ulteriore volume alle parole che Monaco affida ancora ad Il Riformista: «C'è confusione. Tanto tra i militanti, quanto tra i dirigenti. Il Pd sta trasmettendo una linea ondivaga e che sconcerta gli elettori. Abbiamo urgente bisogno di una bussola».Dicevamo che Monaco non è solo, ma più che l'assenza di una bussola quella che emerge è la necessità di un piano condiviso sulla rotta. Il senatore del Pd Riccardo Villari, tra gli altri, confessa il suo stupore di fronte al polverone sollevato dalle parole di Morando. Il parlamentare napoletano ha cercato di svelenire il clima, denunciando contemporaneamente isterismi pericolosi che in questa vicenda diventerebbero «forieri di ansia e scompiglio». Freddamente ha poi annunciato: «Bisognerebbe mettere da parte per un po' di tempo tutta questa emotività che si respira nel partito». Insomma, per Villari la crisi non è grave e la manifestazione s'ha da fare, almeno finché la situazione economica resta quella attuale e non precipita veramente. «In quel caso potremmo anche non fare la manifestazione, come ha detto Veltroni».Ma Veltroni l'ha detto? A Piero Martino, capo ufficio stampa del Pd, non risulta affatto, anzi conferma che l'eventuale precipitare della situazione renderebbe la manifestazione romana ancor più necessaria, «per senso di responsabilità». Ma ci sono anche altre cose che non convincono Martino: come l'equivoco che a suo dire si trascina da mesi sul significato del termine "manifestazione antigovernativa". «Non significa», spiega, «attaccare frontalmente il premier per motivi non strettamente politici, ma per le cose che ha fatto, che sta facendo e che annuncia di voler fare. Perché sono molte e non ci convincono affatto».Bisognerà informare di questo Antonio Di Pietro, che invece al Riformista ha spiegato tutt'altra ricetta, ovvero quella composta da tutti i suoi più sperimentati cavalli di battaglia, leggi ad personam incluse. A Di Pietro si deve però l'unica concordanza interpretativa della giornata sull'opportunità della manifestazione: è infatti della stessa opinione di Martino perché «il precipitare della crisi economica non rende inopportuna la manifestazione del 25 aprile. Sarebbe, invece, un grosso motivo in più. Ma, ditemi, quando un‘opposizione dovrebbe "opporsi", se non adesso?». Stessa bussola, insomma.L'attesa della manifestazione appare scossa da un dibattito interno che oppone voci lontanissime tra loro. Si va dal "manifestare senza se e senza ma", qualunque sia il senso di questa piazza e comunque vadano le borse, alla sconfessione totale dell'iniziativa, come nel caso di Marco Follini che, semplicemente, chiede che «l'opposizione possa al più presto concentrare la sua insostituibile azione all'interno delle sedi istituzionali: il Parlamento».Quella del 25 ottobre era stata annunciata come la data che avrebbe salvato l'Italia. Ora, visto il caos interno, tocca capire chi salverà il Pd dalla sua piazza.

Repubblica 11.10.08
A Ronciglione, a 50 chilometri da Roma
Tutte le classi a messa protesta dei genitori

La funzione durante l´orario di lezione. Il preside: i ragazzi esonerati dalla religione? Una esigua minoranza

ROMA - Per festeggiare l´inizio dell´anno scolastico, tutti gli alunni a messa. Non importa se in classe c´è chi è esonerato dalle ore di religione, se ci sono bambini e ragazzi altre fedi e altre culture: la maggioranza ha deciso e i ragazzi dovranno seguire la funzione cattolica. Accade vicino a Roma, all´Istituto Comprensivo Marianna Virgili di Ronciglione, scuola che comprende elementari e medie. Nonostante le proteste di un gruppetto di genitori laici, che avevano chiesto che la messa si svolgesse al di fuori dell´orario scolastico, la preside e il collegio dei docenti hanno affermato che la richiesta di quei genitori rappresentava soltanto «un´esigua minoranza», e pertanto non poteva essere accolta.
Così Beatrice Nardi e Felice Antonelli, genitori di due ragazzi esonerati dall´ora di religione, (e lasciati nei corridoi a giocare), dopo aver protestato (invano) per la scelta degli organi dirigenti di aprire l´anno scolastico con una messa, hanno deciso di rendere pubblica, con una lettera, la vicenda dell´istituto di Ronciglione. «Abbiamo chiesto solamente quello che la legge sancisce - si legge nella lettera - cioè che la messa si svolgesse al di fuori dell´orario scolastico. Con protervia e arroganza ci è stato risposto ufficialmente che i tre organi collegiali (Preside, Collegio dei Docenti, Consiglio di Istituto) avevano deciso all´unanimità la partecipazione alla Funzione e che la nostra richiesta non poteva essere accettata "in quanto rappresentativa di una esigua minoranza"». Ma non era la scuola il luogo dove tutti, anche appunto, le «esigue minoranze» dovevano trovare voce e dignità, così come dice la Costituzione? Altrove forse, ma non all´Istituto Virgili di Ronciglione, dove si decide a maggioranza. «È questo il rispetto che una dirigenza scolastica riserva ai loro studenti? È così che i professori - si chiedono Nardi e Antonelli - difendono i ragazzi che sono stati affidati loro, approvando all´unanimità una proposta che veda discriminati gli alunni perché figli di genitori diversi per cultura o credo religioso?».

Repubblica 11.10.08
La Lega: regolarizzare le ronde dei cittadini
Proposta shock del Carroccio. "Aiutano le forze di polizia, le usino gli enti locali"
di Liana Milella

ROMA - E adesso la Lega vuole regolarizzare, ufficializzare, statalizzare pure le ronde spontanee dei cittadini per venire in aiuto alle forze di polizia. Un leghista, Roberto Maroni, siede al Viminale, e delle ronde ha sempre parlato bene, ribadendolo perfino in un´intervista poche ore dopo la sua nomina a ministro. I leghisti, al Senato, stanno utilizzando il disegno di legge sulla sicurezza, quello che introduce il reato di immigrazione clandestina, come una testa d´ariete per riproporre tutto lo scibile del Carroccio per garantire il "loro" tipo di legalità e soprattutto contro gli immigrati. È tutto da vedere se il Pdl, Forza Italia e An, saranno d´accordo.
Fatto sta che, da ieri, le ronde entrano a pieno titolo tra le ipotesi possibili per aumentare i controlli del territorio. Accanto a un´altra proposta choc del partito di Bossi, quella di trasformare il permesso di soggiorno in una sorta di tessera obliterabile in negativo, da cui si possono scalare punti, fino all´azzeramento, se l´immigrato commette reati o infrazioni. Alla fine del percorso c´è l´espulsione. Sulle ronde i leghisti ipotizzano che gli enti locali si possano avvalere stabilmente «di associazioni tra cittadini con funzioni ausiliarie di sorveglianza nei luoghi pubblici, per segnalare alla polizia eventi che possano arrecare danno o disagio alla sicurezza o cooperare nel presidio del territorio». Una polizia privata a tutti gli effetti. Pugno durissimo dei leghisti con gli immigrati. Accanto al permesso a punti, ecco l´obbligo per lo straniero di esibire subito un documento in caso di controlli, pena un anno di carcere e duemila euro di multa. Ma anche l´obbligo di ricorrere a referendum prima di costruire luoghi di culto diversi dalle chiese cattoliche.
Di ben altro tenore i 18 emendamenti presentati dai relatori del ddl sicurezza Carlo Vizzini (presidente della commissione Affari costituzionali) e Filippo Berselli (omologo alla Giustizia). Il palermitano Vizzini, che ne ha fatto un punto fermo del suo lavoro a palazzo Madama, propone la revisione del regime del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi), maggiori poteri ai prefetti per gestire i beni confiscati alle cosche, ma anche l´obbligo della custodia cautelare in carcere per chi commette delitti di terrorismo e criminalità organizzata.
Altre due proposte, nuove aggravanti di pena per chi si macchia di crimini contro persone deboli (anziani e bambini) e in zone a rischio come le scuole e per fatti commessi da minorenni, mirano a creare le cosiddette safety zone e a colpire il fenomeno delle baby gang. Dalla prossima settimana, nelle due commissioni congiunte, cominceranno le votazioni, e soprattutto la battaglia sul reato di clandestinità.

Repubblica 11.10.08
A nord di Berlino una scoperta archeologica getta luce su eventi di 1300 anni prima di Cristo
Trovate le tracce della strage in un villaggio, con donne e bambini, distrutto da un esercito di invasori
di Luigi Bignami

Clan in guerra nell´età del bronzo la battaglia più antica d´Europa
Nello scontro morirono almeno 50 persone, tante per un´ Europa poco abitata

Erano un centinaio di persone, forse ancora di più. Con sé avevano lance, asce e grossi bastoni. Cercando di fare il meno rumore possibile si introdussero nel villaggio rivale e colpirono chiunque venisse a tiro, senza risparmiare nessuno. Uccisero uomini, donne e anche bambini. Poi, così come erano venuti, gli aggressori ritornarono nella foresta e al loro villaggio. Ma di quella "guerra" sono rimaste le testimonianze fino ai nostri giorni e stando a quanto ha scoperto l´archeologo di Stato tedesco Detlef Jantzen risulta essere la battaglia più antica di cui si abbiano testimonianze mai combattuta in Europa, proprio vicino alle Alpi. Gli eventi narrati, infatti, si svolsero circa 1.300 anni prima di Cristo. Dalle ossa rimaste nel luogo della battaglia risulta che morirono almeno 50 persone, un gran numero se si pensa che a quei tempi l´Europa era per lo più disabitata. L´area ove si svolse la battaglia è presso la città di Demmin, che si trova poco a nord dell´attuale Berlino.
«Stando ad alcuni reperti è possibile affermare che lo scontro fu particolarmente cruento», ha spiegato l´archeologo. A conferma di ciò vi è un teschio che testimonia la ferocia dell´aggressione: presenta un buco grande come una moneta da un euro che venne aperto da un colpo probabilmente portato con una mazza di legno. Quel teschio apparteneva ad un giovane di 20-30 anni. Secondo le analisi, la ferita gli provocò un´agonia di diverse ore. Altre ossa testimoniano che anche le donne e i bambini furono colpiti a morte. I resti sono giunti fino a noi perché l´area del combattimento all´epoca era paludosa e il fango, che presto ricoprì i corpi dei morti, li ha preservati nei millenni. Poiché è ancora possibile estrarre il Dna di quelle persone ora si pensa di capire se tra i combattenti ci furono degli avi di tedeschi o comunque nordeuropei dei nostri giorni. Le ricerche non sono terminate, perché si vorrebbe capire quali furono le cause che portarono i due clan a scontrarsi con tanta ferocia in un ambiente per lo più disabitato.
Fu quella la prima guerra dell´umanità? Certamente sono gli indizi della battaglia più antica di cui si abbia testimonianza in Europa, ma vi sono almeno due "guerre" ancora più antiche. Una fu combattuta tra 1.500 e 2.000 anni prima di Cristo a Hamoukar, una località a nord est della Siria. In questo caso le testimonianze archeologiche dicono che la città fu sottoposta a un vero assedio che durò mesi e che fu anche "bombardata" da palle di argilla frammista a materiale incendiario. L´altra battaglia che si perde nella notte dei tempi si combatté tra le città di Umma e Lagash in Mesopotamia e risale a circa 2.700 anni prima di Cristo. Non è da escludere che combattimenti tra gruppi appartenenti ai più antichi Homo Sapiens e Neanderthal siano avvenuti anche qualche decina di migliaia di anni fa, tant´è che schegge trovate in alcuni scheletri fanno ipotizzare tali scontri. Ma al momento non si hanno certezze.

Repubblica 11.10.08
Con Darwin in pancia
L´evoluzione dei batteri. Un esperimento dell´università del Michigan
di Piergiorgio Odifreddi

Il programma è cominciato il 15 febbraio 1988 con dodici ceppi di Escherichia coli
Per vent´anni e nel corso di 45.000 generazioni si sono studiati i cambiamenti

All´insegna del motto «il presente è la chiave del passato», chiaramente espresso nel sottotitolo «Un tentativo di spiegare gli antichi cambiamenti della superficie terrestre partendo dalle cause attualmente operanti», i Princìpi di geologia di Charles Lyell introdussero nel 1830 una nuova concezione della natura: il fatto, cioè, che i fenomeni geologici globali sono il risultato di una lenta accumulazione di piccoli effetti locali su enormi scale temporali.
Il giovane Charles Darwin lesse il libro due anni dopo, durante il suo viaggio sul Beagle, e dichiarò in seguito che «il più grande merito dei Princìpi è stato di aver rivoluzionato l´intero modo di pensare». Egli adattò nel 1859 la teoria di Lyell a L´origine delle specie, ma il fatto che i fenomeni evolutivi sono il risultato di una lenta accumulazione di piccole mutazioni locali su enormi scale temporali finì per essergli ritorto contro, storpiato come affermazione della non verificabilità sperimentale dell´intera teoria dell´evoluzione per selezione naturale.
Ironicamente, sono stati i fondamentalisti cristiani ad adottare questa critica: come se le storie della Bibbia fossero invece verificabili sperimentalmente, e la stessa espressione «tempi biblici» non derivasse comunque proprio da esse! Recentemente, l´argomento è stato sposato addirittura da papa Benedetto XVI, che negli atti della conferenza su Creazione ed evoluzione (Edizioni Dehoniane, 2007) dice testualmente: «la teoria dell´evoluzione in gran parte non è dimostrabile sperimentalmente in modo tanto facile perché non possiamo introdurre in laboratorio 10.000 generazioni».
Queste parole sono state pronunciate il pomeriggio del 1 settembre 2006 a Castelgandolfo, dopo che quella stessa mattina e nello stesso luogo il papa aveva udito Peter Schuster, presidente dell´Accademia delle Scienze austriaca, riportare invece nella sua conferenza: «Richard Lenski dell´Università del Michigan a East Lansing nell´anno 1988 ha iniziato un esperimento che continua anche oggi con batteri del tipo Escherichia coli, che egli lascia evolvere in condizioni costanti. A tutt´oggi ha isolato e analizzato circa 40.000 generazioni».
Naturalmente, non c´è peggior sordo di chi non vuol sentire. Ma per chi vuole invece prestare attenzione, la ricerca in questione rappresenta una spettacolare confutazione della non dimostrabilità sperimentale del darwinismo, come dice già il suo stesso nome: Long-term evolution experiment, «Esperimento di lunga durata sull´evoluzione». Esso è iniziato il 15 febbraio 1988 con dodici ceppi di Escherichia coli, tutti derivati da uno stesso batterio iniziale e mantenuti in incubazione a 37 gradi in dodici provette: ogni mattina si aggiunge in ciascuna un po´ di glucosio (25 milligrammi per litro), che viene consumato entro il pomeriggio. Il giorno dopo si estrae da ciascuna provetta una stessa quantità di ciascun ceppo, la si rimette in un´altra provetta con un po´ di glucosio, e così via.
Ogni 75 giorni, pari a 500 generazioni di riproduzione (asessuata), si congela una parte di ciascun ceppo per creare una specie di «testimonianza fossile» dell´intero esperimento: diversamente dai fossili, però, queste testimonianze possono non solo essere studiate, ma anche scongelate per far ripartire l´esperimento da un certo punto, o per mescolare vecchie generazioni con altre più giovani e osservare come esse interagiscono e quale risulti essere meglio adattata. Per vent´anni e nel corso di 45.000 generazioni, raggiunte nel 2008, si sono costantemente monitorati e registrati i dati relativi ai cambiamenti indotti nei batteri da modifiche dell´ambiente in cui essi sono mantenuti, al loro comportamento sociale, alla loro resistenza ai parassiti e agli antibiotici, alla velocità di comparsa delle mutazioni e alla loro interazione reciproca.
A causa delle piccole dimensioni del genoma del batterio e del gran numero di generazioni succedutesi, si è calcolato che ormai ogni possibile mutazione individuale dev´essersi manifestata più volte. Alcune di queste mutazioni sono ad alta probabilità, visto che hanno prodotto gli stessi effetti in tutti i dodici ceppi: ad esempio, un aumento di volume delle cellule e una diminuzione della densità di popolazione. Altre sono a probabilità intermedia, visto che hanno prodotto gli stessi effetti in alcuni ceppi, ma non in tutti: ad esempio, in quattro si sono sviluppati difetti nella capacità di riparazione del Dna.
La cosa più interessante che è accaduta ha a che fare col fatto che, durante il trasferimento giornaliero di un ceppo da una provetta all´altra, questo può essere contaminato da batteri in grado di nutrirsi del citrato che fa parte della soluzione nella quale vengono mantenuti gli Escherichia coli (il cosiddetto brodo minimale di Davis, che è comunemente usato per studiarne i mutanti e contiene il minimo dei nutrienti necessari per la loro sopravvivenza e autoriproduzione). Poiché gli Escherichia coli non sono invece in grado di nutrirsi direttamente del citrato, i batteri invasori prendono il sopravvento su di essi e l´effetto è visibile anche a occhio nudo, in quanto la soluzione della provetta diventa opaca.
Se questo accade Lenski butta via il ceppo contaminato e riparte dalla precedente generazione, scongelandone una parte. Ma una volta, nel giorno della 33.127 generazione, si accorse che il liquido nella provetta era diventato opaco senza essere contaminato: il ceppo degli Escherichia coli aveva sviluppato da solo la capacità di nutrirsi del citrato! Scongelando le generazioni precedenti ed esaminandole, Lenski si accorse che fino alla 31.000 non c´erano mutanti in grado di digerire il citrato, alla 31.500 ne erano apparsi il cinque per mille, alla 32.500 costituivano quasi il venti per cento, alla 33.000 erano praticamente scomparsi, ma alla 33.127 essi erano improvvisamente diventati dominanti e avevano appunto reso opaco il liquido nella provetta.
Esaminando varie generazioni congelate degli altri ceppi, Lenski non vi ha mai trovato batteri in grado di mangiare il citrato: a differenza di altre mutazioni, che tendono a ripetersi più o meno uniformemente nei vari ceppi, siamo dunque di fronte a un evento di probabilità molto bassa (che esperimenti successivi hanno calcolato essere dell´ordine di uno su mille miliardi). Inoltre l´andamento delle percentuali nelle varie generazioni mostra che quella mutazione non è sufficiente, da sola, a rendere i batteri in grado di mangiare il citrato più adatti alla sopravvivenza nella lotta per vita, di quelli in grado di mangiare il glucosio: i batteri della generazione 33.127 dovevano dunque aver subìto qualche ulteriore mutazione, e come tali erano il risultato di un evento a bassissima probabilità.
Ora, questo è precisamente il genere di cose che i detrattori dell´evoluzionismo sostengono non possano accadere in natura senza l´intervento divino!
Puntualmente, tre giorni dopo che i risultati dell´esperimento erano stati pubblicati da Lenski e due suoi collaboratori il 10 giugno 2008 nei Proceedings dell´Accademia Nazionale delle Scienze statunitense, il sito Conservapedia (un nome, un programma) ha pubblicato un attacco alla loro ricerca, in cui si intimava a Lenski di rendere pubblici i protocolli e i dati dell´esperimento, e di specificare come questi supportassero le conclusioni annunciate.
Lenski ha dapprima risposto cortesemente, invitando i critici a leggere l´articolo originale e consultare il sito dell´esperimento, invece di limitarsi a citare un articolo di giornale che riportava la notizia di seconda mano. Ma quando il sito ha insistito imperterrito, egli ha smascherato la pretesa dei fondamentalisti religiosi di pretendere che ogni qualvolta i dati scientifici supportano conclusioni contrarie alle loro prevenzioni, allora si deve per forza essere di fronte a un errore o una frode.
Come ogni scienziato che si rispetti, Lenski è pronto a fornire a ogni altro scienziato che si rispetti non solo esemplari dei batteri originari che si nutrono di glucosio, ma anche di quelli mutati che si nutrono di citrato. Ai fondamentalisti, invece, consiglia di accontentarsi del miliardo di Escherichia coli che ciascuno di essi ha nel proprio intestino: oltre al fatto che bisogna lavarsi bene le mani dopo essere andati in bagno, questo significa anche che al mondo ci sono miliardi di miliardi di Escherichia coli, ciascuno dei quali si riproduce più volte al giorno. E poiché all´incirca una volta su un miliardo si verifica una mutazione, più o meno tutte le possibili mutazioni avvengono ogni giorno, comprese quelle estremamente improbabili.

Corriere della sera 11.10.08
Modelli Strategie politiche e rapporti di collaborazione tra categorie sociali nell'antichità: un sistema solo in apparenza contraddittorio
Il potere
Quando i ricchi guidano il popolo: nasce la democrazia aristocratica
La sfida (riuscita) di Pericle nell'Atene del V secolo a.C.
di Luciano Canfora

In Atene, l'estensione della cittadinanza ai non possidenti ha determinato una importante dinamica ai vertici del sistema. I gruppi dirigenti — questo non va mai dimenticato — sono e restano esponenti delle classi alte, delle due più ricche classi di censo. Sia gli strateghi che, ovviamente, gli ipparchi (cioè i magistrati militari, coloro che detengono il vero potere politico nella città), nonché gli ellenotami (i quali amministrano il tesoro della lega e controllano le finanza), provengono da quelle classi. A sorte sono eletti i «buleuti», i componenti del Consiglio (composto di 500 persone, 50 per ciascuna delle dieci tribù create da Clistene). A sorte: e dunque in modo da consentire a qualunque cittadino di entrare a far parte del consesso, e, secondo il turno, di occupare sia pure per breve tempo il ruolo equivalente alla «presidenza » della Repubblica. Anche le liste annue di circa seimila cittadini da cui trarre i giudici che avrebbero composto le varie corti erano liste composte di volontari, senza preclusioni di ceto. E tutti sanno quale importante ruolo svolgessero i tribunali nello scontro sociale quotidianamente in atto e avente come oggetto, quasi sempre, l'uso della ricchezza.
Nondimeno la prevalenza dei ceti più forti e più ricchi nella direzione politica della città era indiscutibile. In non piccola parte, i ricchi, i «signori» hanno accettato il sistema lealmente e hanno accettato di dirigerlo, o per meglio dire ne hanno naturaliter assunto la direzione. Pericle, Alcibiade, Nicia, Cleone, per fare solo i nomi più celebri, sono o ricchi o nobili, o le due cose insieme. Quale che sia il valore della furiosa caricatura di Cleone ossessivamente sbandierata da Aristofane, anche Cleone è della classe dei cavalieri, una delle due più alte classi di censo.
Guidavano o erano guidati? Gli stessi autori contemporanei su ciò si dividono. L'autore della Costituzione degli Ateniesi dichiara senza sfumature che i non popolani che accettano il sistema democratico sono essi stessi delle canaglie, dei criminali che hanno qualcosa da nascondere ( II, 20): «Ma io al popolo la democrazia gliela perdono! È comprensibile che ciascuno voglia giovare a se stesso. Ma chi pur non essendo di origine popolare accetta di fare politica in una città governata dal popolo piuttosto che in una retta dagli oligarchi, costui è pronto ad ogni mala azione e sa bene che gli sarà più facile occultare la sua natura canagliesca in una città democratica, anziché in una oligarchica».
Da queste battute si capisce qual è la sua scelta: di totale contrapposizione. Ma egli sente di appartenere ad una minoranza. Se si considera del resto un personaggio gigantesco ed emblematico come Pericle, è istruttivo osservare che per Tucidide egli è l'anti-demagogo per eccellenza, colui che guida e non si fa guidare, colui che sa andare contro corrente in contrasto con gli impulsi, o istinti, popolari (II, 65), laddove per Platone ( Gorgia) Pericle è l'incarnazione stessa della demagogia, uno dei grandi «corruttori» del popolo, da lui assecondato e appunto perciò corrotto. Per Tucidide, Pericle è talmente anti-demagogico nella conduzione della cosa pubblica da essere definibile col termine di «principe» e — quel che è più — da rendere legittimo affermare che sotto il suo governo solo nominalmente c'era ad Atene «democrazia». Peraltro quando gli dà la parola nell'importante discorso per i morti nel primo anno di guerra, Tucidide fa dire a Pericle che ad Atene governa «la legge», mentre Senofonte — un altro socratico — nei
Memorabili gli fa dire che in democrazia è in ultima analisi la volontà del popolo che conta, anche al di sopra della legge. E comunque la forza della demagogia era reputata dallo stesso Tucidide tale da indurlo ad un giudizio molto bilanciato intorno al rapporto tra Pericle e la massa dei frequentatori dell'assemblea: «Non era guidato da loro più di quanto egli stesso non li guidasse». In queste parole, dette a proposito di colui che Tucidide non esita poco dopo a definire «principe» della città, vi è un serio riconoscimento dell'inevitabilità comunque
di «essere condotto» ( àgesthai) quando si fa politica alle prese con la «massa popolare » ( plethos).
Arduo è dunque riuscire a dare un'idea corretta dell'intreccio di interessi, compromessi, reciproche concessioni, tra «signori» ( leaders,
grandi famiglie) e «popolo» nel quadro della democrazia ateniese. Non si trascurerà il fattore personale e soggettivo. L'autorità, l'abilità, il prestigio di Pericle non erano disgiunti dall'uso disinvolto e «demagogico» (secondo i suoi avversari) delle risorse economiche della città. Comunque non è errato assumere come fondato il punto di vista tucidideo e vedere in Pericle il leader capace di egemonia e perciò anche pronto all'impopolarità. Peraltro l'unico vero discorso politico che Tucidide fa pronunciare a Cleone è, anch'esso, un discorso che non arretra dinanzi ai toni impopolari. Si dovrebbe dunque dire, a giudicare da quel discorso, che anche Cleone «guidava più che essere guidato»: al punto che Demostene, nel secolo seguente, fa propri quei toni quando vuol assumere le vesti «periclee» dell'impopolare «educatore del popolo». Forse non si riuscirà mai a scavare fino in fondo nell'intreccio capi/popolo, leader/ masse: una «circolarità» in cui risiede l'essenza stessa del far politica. Quel che è qui importante rilevare è che la democrazia non determina ad Atene un «governo popolare», ma una guida del «regime popolare » da parte di quella non piccola porzione dei «ricchi» e dei «signori» che accettano il sistema.
Orbene il fenomeno dinamico e lacerante innescato dalla democrazia (dalla estensione della cittadinanza ai non possidenti) è questo: di fronte al fatto nuovo del potere dei non possidenti, i gruppi dirigenti, coloro che per elevata collocazione sociale sono anche i detentori dell'educazione politica e perciò possiedono l'arte della parola (e in virtù di queste capacità naturalmente si candidano a dirigere la città)
si dividono. Una parte — si direbbe la più rilevante, ma non abbiamo strumenti di controllo «quantitativo» — accetta di dirigere il sistema di cui i non possidenti sono ormai forza prevalente. Da questa consistente parte dei ceti alti (grandi famiglie, ricchi cavalieri eccetera) vien fuori il ceto politico che dirige la città: da Clistene a Cleone. Al loro interno si sviluppa una dialettica politica spesso fondata sullo scontro personale, di prestigio, di potere, di leadership.
Ciascuno è sorretto e guidato dal convincimento di incarnare gli interessi generali; l'idea che la propria prevalenza sulla scena politica sia anche il miglior veicolo per la miglior conduzione della comunità. Lottano gli uni contro gli altri per conquistare la guida politico- militare della città. Nessuno di loro è contro il «sistema»: sono dunque «democratici» (nel senso che, appunto, accettano il sistema, stanno al gioco e puntano a dirigerlo) tanto Pericle quanto Cimone, Nicia e Cleone, e Alcibiade.
Al contrario una minoranza di «signori»
non accetta il sistema. Organizzati in formazioni più o meno segrete («eterìe»), essi costituiscono una perenne minaccia potenziale per il «sistema», del quale spiano le possibili incrinature, soprattutto nei momenti di difficoltà militare. Sono i cosiddetti «oligarchi».
«L'epoca di Pericle», incisione colorata dell'artista tedesco Philippe von Foltz (1805-1877) Il filosofo greco Platone (427 a.C. - 347 a.C.) ritratto nella «Scuola di Atene» di Raffaello Lo storico Tucidide (460 a.C. 400 a.C.) è autore della «Guerra del Peloponneso»

Corriere della sera 11.10.08
Concita De Gregorio indaga sulle ragioni di una violenza che non passa nonostante l'emancipazione
Nel segno del dolore: le donne che sperano di cambiare gli uomini
di Daniela Monti

Ribaltare tutto, cambiare prospettiva. Mettere in discussione quello che abbiamo imparato finora: che è la subordinazione economica, culturale e sociale a fare delle donne le vittime predestinate della violenza maschile. È la mancanza di scelta e di alternativa a consegnarle, mani e piedi legati, al proprio aguzzino. Chi un'alternativa ce l'ha, chi ha uno stipendio, chi non è costretta a vivere all'ombra di nessuno è salva. Sospiro di sollievo. Eppure questi argomenti non bastano più. Ci sono nuove emergenze e nuove domande, come quelle attorno a cui ruota l'ultimo libro di Concita De Gregorio, Malamore. Esercizi di resistenza al dolore, edito da Mondadori nella collana Strade Blu: si può decidere consapevolmente di essere vittime? Come mai tante donne disinvolte, intelligenti, autonome, emancipate accettano di subire maltrattamenti gravi, a volte gravissimi? Perché potendo scegliere, scelgono il dolore?
«Violenza borghese», la chiama la De Gregorio, quattro figli (maschi), per anni inviata di la Repubblica
e ora fresca direttrice de l'Unità.
Il libro è un mosaico di storie di donne diverse — da Louise Bourgeois a Dora Maar, dalla Eva Kant dei fumetti a Lee Miller, dalla prostituta d'alto bordo Cristina, alla piccola Dalia, venduta a 12 anni dalla nonna — e anche se il sottotitolo recita «le donne, i loro uomini e la violenza », gli uomini non sono che figurine sullo sfondo, si muovono con gesti meccanici, scontati. Meschini anche quando portano nomi importanti (impietoso il ritratto di Picasso), sono la parte debole della storia. Non c'è interesse a raccontarli. Li conosciamo, in fondo. Giocando sul titolo di un altro libro della De Gregorio: una donna lo sa. Chi sono, come sono. Sa riconoscerli. Eppure li sceglie. E allora?
Non è neppure la violenza degli uomini il tema del libro. Sono le donne che accettano quella violenza, donne che sembrano tutto fuorché indifese. Potrebbero spaccare il mondo e invece si lasciano annientare nel privato. La De Gregorio cerca di renderlo pubblico, questo privato, come fosse l'unica mossa per mettere k.o. l'avversario: perché come insegna la fiaba di Barbablù (e le fiabe, dice la De Gregorio, lo sanno) — l'assassino seriale che sposa giovinette per poi ucciderle e nasconderle in cantina — alla fine, a vincere sarà quella che ordisce un piano per ingannare il mostro, quella che «resta ferma e guarda meglio, poi richiude la porta della cantina e torna su per le scale. Vince chi va all'inferno e ritorna. Vince chi vuol sapere e poi sa cosa farsene, anche, del suo sapere. Chi soffre e trova un rimedio».
Le bambine di Elena Gianini Belotti sono diventate grandi. Mettersi dalla loro parte, ora, vuol dire cercare di portare a galla meccanismi di autodistruzione che alimentano vite all'apparenza perfette: la donna ministro che si lascia umiliare in privato dall'amante subalterno, a cui ha spianato la strada per la carriera; la bella e misteriosa Marie Trintignant, che si fa uccidere dall'amante rockstar di una «bellezza cupa e maledetta, dei duri in fondo fragili, quelli che fanno svenire le adolescenti pronte a guarirli dai loro mali »; la signora alto borghese presa a botte dal marito e insultata dai figli che sulle pareti del soggiorno le dedicano una scritta con lo spray: «Mamma vattene, i deboli soccombono, i forti vincono».
E alla fine del suo viaggio fra le mille storie, sono due le risposte che l'autrice dà a quell'ossessivo perché: da una parte una specie di contrappasso, un prezzo da pagare in privato per i riconoscimenti che si sono ottenuti in pubblico. È la giustificazione lucida che la donna ministro offre a se stessa: «Credo di capire cosa mi succede quando mi faccio maltrattare così tanto da lui. È come se io stessa ne avessi bisogno, da qualche parte: è come se fosse necessario per sostenere l'altro ruolo, quello pubblico». L'altra risposta è più sconcertante. E, di nuovo, viene cercata nella parte più profonda, «dentro» le donne: è il programma segreto, l'agenda occulta, la presunzione che fa pensare alle donne di poterli cambiare, gli uomini violenti, l'idea grandiosa di sé che fa credere alla topina protagonista della favola La rateta — che apre e chiude il volume — di poter sposare il gatto e di essere capace di domarlo, convincendolo ad amarla invece di mangiarla. Che illusione. Il gatto farà della moglie presuntuosa e dei suoi supposti «superpoteri» un sol boccone. «I gatti mangiano i topi ed è inutile provare a cucinare loro carciofi — è la morale del volume —. La più grande prova di forza è affrancarsene, liberarsi di loro, imparare a evitarli, lasciarli soli. Questo sì è uno straordinario successo: non dover dimostrare più niente, non mettersi alla prova».
Pablo Picasso, «Donna che piange», 1937 (particolare)

Corriere della Sera 11.10.08
Beni culturali, il suicidio dei tagli
Salvatore Settis: «Il governo penalizza Paestum e Pompei»
di Stefano Bucci

«Un suicidio assistito»: così Salvatore Settis ha definito ieri il risultato della «lite di competenze sui beni culturali attualmente in corso tra Stato, regioni, province, comuni». In particolare, per «suicidio» dei beni artistici italiani, Settis intendeva l'effetto di quel decreto Tremonti che ha tagliato i fondi allo Stato (Soprintendenze comprese) ma non alle Regioni: «Così si penalizzerà soprattutto il Sud. A cominciare da gioielli come Paestum e Pompei» (proprio ieri il sindaco di Venezia Massimo Cacciari aveva dichiarato: «La situazione del nostro patrimonio artistico è drammatica se il governo non interviene»).
Settis, attualmente presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, ha criticato il sindaco di Roma Gianni Alemanno che, sul sito del comune, ha chiesto che la tutela dei beni culturali dell'Urbe venga assegnata alla Soprintendenza comunale (e quindi locale): «Così dicendo Alemanno contraddice l'articolo 9 della Costituzione, quello che assegna la tutela allo stato centrale e che non mi risulta sia stato ancora abrogato». E ha aggiunto: «Adesso il Comune non può pensare di occuparsi anche di Villa Borghese o del Colosseo». Settis, invece, si è schierato dalla parte di Alemanno a proposito del parcheggio al Pincio: «Sono completamente d'accordo con lui, il blocco è giusto, così è stato rimediato un errore». La politica c'entra ma non è tutto: «È stato il centrosinistra — ha spiegato — a volere la riforma del titolo V della Costituzione con l'assegnazione della fruizione dei beni culturali alle Regioni: gran bel risultato politico!». Ieri, nella Sala della Stampa estera a Roma, si è discusso della «conservazione programmata del patrimonio artistico italiano». Accanto a Settis c'erano Caterina Bon Valsassina (direttore dell'Istituto centrale del restauro), Giorgio Bonsanti (docente di Storia e tecnica del restauro a Firenze), Roberto Cecchi (direttore generale per i beni architettonici e storico-artistici del ministero dei Beni culturali), Giuseppe Proietti (segretario generale dello stesso ministero), Nicola Spinosa (soprintendente del polo museale napoletano) e Salvatore Settis (presidente del Consiglio superiore dei beni culturali). Oltre a Mirella Stampa Barracco, presidente della Fondazione Napoli Novantanove: perché la tavola rotonda (coordinata dal giornalista Paolo Conti) prendeva spunto dal ventennale di un restauro fortemente voluto dalla Fondazione, quello dell'Arco di Trionfo di Alfonso d'Aragona a Castelnuovo, a Napoli. Un vero e proprio simbolo: quando venne presentato (il 30 settembre 1988, vent'anni fa) erano i primi momenti in cui la città «andava scoprendo un patrimonio artistico troppo a lungo dimenticato». Si voleva, insomma, recuperare grazie all'impegno della Fondazione uno dei monumenti più importanti della storia napoletana «per ridare alla cultura e al patrimonio artistico un ruolo determinante di sviluppo». Un impegno che appare attualissimo ancora oggi.
Il 95% della spesa entro il 2011: questi i tagli in arrivo sui beni culturali: «Sono molto preoccupato — ha ribadito Settis — dei possibili effetti del federalismo sui beni culturali e del fatto che i tagli renderanno sempre più difficile il lavoro delle soprintendenze che oltretutto dal primo gennaio 2009 dovranno anche fare i conti con il nuovo codice del paesaggio e con la sua relativa attuazione ». Anche se Proietti ha ricordato come «il ministro Bondi abbia assicurato che, a suo avviso, lo Stato deve assolutamente mantenere il proprio compito di tutela». Un discorso a parte, poi, sul vandalismo: «Esiste un vandalismo generico contro le statue, ma anche una "sottospecie" che si accanisce contro quello che è stato appena restaurato (lo stesso Arco di Trionfo venne imbrattato con della vernice rossa ndr). Nessuno lo giustifica certo, ma bisogna analizzare quel disagio e in questo la scuola può e deve fare molto». L'unica soluzione per Settis resta la collaborazione «tra Stato, regione, soprintendenze» perché solo così «la situazione del patrimonio artistico potrà essere uguale a Reggio Calabria come a Bergamo».
Secondo Roberto Cecchi il modello dell'Arco restaurato dalla Fondazione Napoli Novantanove è ancora oggi valido (Caterina Bon Valsassina ha ricordato il lavoro di Giovanni Urbani già direttore dell'Istituto Centrale e definendolo «l'anticipatore del restauro programmato»), criticando al contrario il restauro stilistico (così è stato ricostruito il Corridoio Vasariano a Firenze) e quello analogico (le varie fabbriche del Duomo). «Si tratta di un'imitazione, per dirla con Heidegger, che non aggiunge nulla al vero ed oggi più che mai. E nessuno di noi vuole vedere falsi quadri di Picasso o Leonardo, vogliamo l'originale. Certo, diverso è il discorso nel caso di grandi disgrazie come i bombardamenti o l'incendio della Fenice di Venezia dove intervengono meccanismi psicologici». Da Cecchi è arrivata anche la proposta di «destinare per ogni grande restauro una parte di fondi alla manutenzione ordinaria» (sulla stessa linea Bonsanti che ha parlato «di una manutenzione per spezzare l'urgenza » piccioni compresi). Mentre Spinosa ha così definito la situazione di Napoli: «Restauriamo 10 per veder distrutto 100 ma tutto ha senso solo se diventa un momento di aggregazione».

Corriere della sera 11.10.08
E Don Chisciotte incontrò Paul Klee
I grandi artisti usano il potere della fantasia per capire le cose vere
di Carlo Sini

L'arte, diceva Paul Klee, non ripete le cose visibili, ma rende visibili le cose, la realtà. Se aggiungiamo a questo motto famoso un celebre aneddoto, avremo perfettamente circoscritto il tema affascinante della «serietà giocosa» dell'arte. Narra l'aneddoto che una signora, dopo aver visitato una mostra di Klee, si rivolse all'artista così apostrofandolo: «Queste cose le sa fare anche il mio bambino, che ha cinque anni!». «Certo signora — rispose Klee —. Bisognerà vedere se le farà ancora a cinquanta». Maturità e infanzia si trovano così immediatamente accostate e contrapposte: c'è qualcosa che si rende visibile al bambino che l'adulto non vede o non vede più, a meno che non sia appunto un artista. Ovviamente questo «qualcosa» ha a che fare con la fantasia e col gioco ed è ben noto che il gioco per i bambini è una cosa molto seria e anzi indispensabile. Anche l'artista vi ha a che fare, almeno nella misura in cui la sua attività è connessa all'immaginazione e alla creazione di cose che il giudizio comune tende talora a ritenere futili, gratuite e insomma poco serie. Ma come sta la cosa in realtà?
Sigmund Freud se lo chiese. «Il contrario del gioco, osservò, non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale ». Cosa fa infatti il bambino giocando? Egli crea un mondo di fantasia che prende molto sul serio, perché lo carica di profondi significati affettivi, senza per questo dimenticare che quel mondo non è quello della comune realtà. Ancora l'adolescente fa qualcosa del genere; mostra infatti una forte tendenza a fantasticare (ed è appunto nell'adolescenza che per lo più si manifestano le vocazioni artistiche). L'attività ludica e quella fantastica serbano così un tratto comune, che il linguaggio esprime efficacemente quando le definisce «sogni a occhi aperti». In altri termini, modi di gratificazione simbolica dei desideri più profondi. Il bambino, giocando, sogna di essere adulto, di essere «grande». A sua volta l'adolescente esaudisce fantasticando i suoi desideri, per lo più erotici. Su questa stessa linea si pone infine l'artista, poiché la sua indole non riesce ad adattarsi alla dura prosaicità della vita corrente. Il suo bisogno di soddisfacimento pulsionale trova nell'arte la possibilità meravigliosa di trasfigurare le sue fantasie in un una nuova specie di «cose vere» e «reali» che il mondo accoglie per lo più con favore. Questo favore mostra chiaramente che anche gli altri uomini provano la stessa insoddisfazione dell'artista nei confronti della vita e delle rinunce che essa impone. In ogni essere umano, si dice, c'è potenzialmente un poeta. Tra l'artista e il suo pubblico si stabilisce pertanto una sorta di patto segreto, una tacita connivenza: dietro lo schermo del «lavoro» artistico e delle «regole severe» del-l'arte vien dato spazio al bisogno di continuare a giocare con le proprie fantasie. L'idea che l'arte sia «disinteressata » sembrerebbe allora quanto mai ingannevole; Aristotele con la sua teoria della catarsi l'aveva compreso: c'è nell'arte un bisogno nascosto di trasgressione e di trasfigurazione delle passioni più profonde, e cioè un bisogno di purificazione e insieme di soddisfacimento simbolico dei nostri sentimenti e desideri, che la vita e la società respingono o censurano. Solo i bambini, infatti, non si vergognano di mostrarsi mentre giocano, grazie appunto alla loro «innocenza». Gli adolescenti e gli adulti, invece, nascondono le loro private fantasie, spesso inconfessabili, ma l'arte e il lavoro serissimo dell'artista giungono a risarcirli per via indiretta e traversa. In parole povere: essi possono continuare a giocare, sottraendosi, senza vergogna o sensi di colpa, agli ostacoli che la vita reale oppone ai loro se in un altro senso è forse possibile intendere la serietà del gioco dell'arte: un senso che percorre una via contraria e insieme parallela alla precedente. Qui non si tratta di frequentare la fantasia per sfuggire alla durezza del reale, ma di utilizzarla invece per ritornarvi, in parte risanati dalla comune follia dei mortali. Il gioco dell'arte appare allora come una metafora della sapienza e un'introduzione alla saggezza. Il suo mondo immaginario diviene uno specchio nel quale ravvisarsi, vedersi vivere e riconoscersi in ciò che non si sapeva, non si credeva o non si voleva ammettere di essere. Esemplare ed emblematica appare allora la figura del Chisciotte, il protagonista del romanzo di Cervantes: forse la più alta espressione della nostra modernità critica e disincantata. Tutto il cammino del libro, dalla prima alla seconda parte, è infatti un percorso attraverso il quale il cavaliere e il suo scudiero in un certo senso si scambiano insensibilmente le parti e a tratti quasi si confondono: l'uno nel mostrare quanta savia consapevolezza sta al fondo delle nostre idealizzate fantasie; l'altro quanta folle e ignorante presunzione abita le opinioni e i costumi del cosiddetto vivere civile. E così l'arte, anche per questa via, rende visibile l'oscura trama e la nascosta realtà delle nostre vite.
Carlo Sini è docente di filosofia teoretica alla Statale di Milano Affinità
A sinistra, il «Don Chisciotte» del francese Honoré Daumier (1868).
Nel tondo, il «Funambolo » (1923) di Paul Klee

venerdì 10 ottobre 2008

l’Unità 10.10.08
La scuola si ferma il 30. Oggi le piazze agli studenti
di Maristella Iervasi


Non piace a nessuno la controriforma Gelmini sulla scuola. Neppure alle Regioni, ad eccezione di Lombardia e Veneto. Il paese è in perenne mobilitazione contro i tagli all’istruzione e il maestro unico. I confederali uniti hanno finalmente deciso: sciopero generale il 30 ottobre con corteo a Roma. Oggi in oltre 80 città i cortei degli studenti (Uds e Rete degli studenti medi), mentre nelle scuole elementari crescono le assemblee pubbliche e i sit-in di genitori e insegnanti: come alla scuola «dei Cesaroni» alla Garbatella, nell’XI municipio della capitale. E il movimento spontaneo dei Genitori Uniti (Gds) scrive ai papà e alle mamme del centrodestra: «Riflettete sulle conseguenza della riforma». Eppure Gelmini maestra unica continua a stupirsi di tanto malcontento. «Non comprendo le ragioni di questo sciopero», ha detto riferendosi alla protesta unitaria di Flc-Cgil, Cisl e Uil-scuola, Snals-Confsal e Gilda, a cui si sono affiancati anche i dirigenti scolastici. «La scuola - ha precisato il ministro - ha bisogno di un grande sforzo innovatore e il coraggio di tutti per farla funzionare e non per certo per bloccarla».
Gli assessori regionali all’Istruzione non ci stanno. E puntano i piedi. Vogliono l’abrogazione dell’articolo 4 del decreto sul maestro unico. E in sede di conferenza unificata tra Stato, regioni e autonomie locali prevista per la prossima settimana, hanno intenzione di mantenere il punto. In gioco c’è l’offerta scolastica sui territori. Di conseguenza, con il maestro a 24 ore settimanali i costi dell’impoverimento dell’offerta scolastica per le famiglie ricadrebbero inevitabilmente sugli enti locali. E la maggioranza assoluta degli assessori, tranne il Nord di Formigoni e Bossi, non ci sta a fare da parafulmine. L’assessore regionale della Campania, Corrado Gabriele, ha già deciso di non partecipare al tavolo tecnico con la Gelmini. E non è escluso che altri assessori, soprattutto del Sud, non facciano lo stesso. Silvia Costa, assessore del Lazio e coordinatrice della IX Commissione per la Conferenza delle Regioni: «Sul decreto non si è verificato alcun confronto preventivo con il ministro, pur sollecitato subito dopo l’approvazione della manovra finanziaria».
Ma torniamo alle proteste. «Non è che l’inizio. Portiamo il nostro sconcerto in piazza, suoniamole alle Gelmini» sono gli slogan dei cortei cittadini di oggi. A Roma il corteo partirà alle 9.30 dalla Piramide per poi raggiungere Trastevere. Lo «sconcerto» del sindacato studentesco si manifesterà con tamburi, pentole, fischietti, cucchiai per «far sentire un’altra musica». Ci sarà al loro fianco anche la Rete degli studenti medi con le «Grembiuline». E lo stesso scenario si ripeterà in contemporanea a Torino, Firenze, Milano, Bologna, Palermo.
Di chiara connotazione anti-Gelmini è anche lo sciopero dei Cobas, appoggiato da Rifondazione Comunista e Pdci. Per Piero Bernocchi, della confederazione di base, «sarà quello del 17 ottobre il più grosso sciopero generale e la più grande manifestazione» e non quello dei Confederali. Invece è proprio il 30 ottobre che potrebbe esserci tutti: in serata l’Unicobas ha fatto sapere: «Noi ci siamo». Obiettivo: le dimissioni della Gelmini. m.ier.

l’Unità 10.10.08
Mimmo Pantaleo, Segretario della Flc-Cgil: il governo sta rompendo con una parte del paese. Brunetta si scusi con gli insegnanti
«Bloccheremo la privatizzazione del sistema-istruzione»
di ma.ier.


Con la Moratti non fu così. I confederali uniti non scesero in piazza per difendere la scuola. La Flc-Cgil fu il sindacato che per primo ha saputo capire il malcontento del paese. Mimmo Pantaleo, segretario generale: «Ecco il perchè della serrata nazionale».
La Gelmini si merita lo sciopero generale?
«Il ministro ha un metodo autoritario: nessun confronto con le organizzazioni sindacali, nessun dibattito parlamentare. Da questo governo c’è la conferma a non considerare la ricchezza di soggetti intermendi. Vogliono distruggere il sindacato, la Gelmini è l’esecutore materiale».
Non c’è nulla di buono nella controriforma Gelmini?
«Non c’è un disegno. Tutto è subordinato al risparmio: oltre 130 mila insegnanti in meno, meno classi e ore di lezione, aumento degli alunni per classe. Obiettivo: superare il sistema pubblico».
L’appello della Gelmini alle imprese: «Sponsorizzate scuole e università, non solo le squadre di calcio», va in questa direzione?
«La privatizzazione del sistema universitario produrrà un aumento delle tasse negli atenei. E anche le scuole verrebbero subordinate all’interesse delle imprese. Una logica che non ha paragoni in Europa».
Ma fare uno sciopero generale a fine mese non è tardivo? Il decreto sul maestro unico potrebbe già essere stato convertito in legge...
«La nostra battaglia va ben oltre la conversione del 137. Sono sul piatto il piano d’intervento sulle medie e le superiori, il progetto Aprea sulla scuola, il fedarilismo fiscale, l’applicazione della Finanziari... Verissimo che il governo ha dalla sua i numeri per imporre la conversione in legge del decreto. Ma noi non siamo stati con le mani in mano: abbiamo contribuito a far nascere uno straordinario movimento nel paese: sindacati, famiglie e studenti. Lo sciopero generale deve essere visto come un’ulteriore tappa: discussione sulla riforma della scuola».
Sono settimane ormai che davanti al ministero dell’Istruzione si manifesta e si protesta: precari, statali, ricercatori, insegnanti, genitori e studenti. Servirà a qualcosa lo sciopero generale?
«Possiamo fermare questo governo. Per ora incassiamo un risultato: la rottura tra il paese reale e il governo. Che deve ascoltare questo enorme movimento che è in piazza. Se non lo fa, la protesta si allargherà».
Brunetta attacca gli insegnanti: pagati troppo...
«Vorrei conoscere il reddito di Brunetta, anche come docente universitario. Il suo è un attacco sconclusionato: i salari dei docenti sono tra i più bassi d’Europa e tuttavia questo mestiere viene svolto con passione. Se ha coraggio, chieda scusa agli insegnanti».

l’Unità 10.10.08
Rivolta degli statali contro Brunetta
Tre scioperi regionali e poi lo stop nazionale. Il ministro: non capisco cosa vogliono
di Felicia Masocco


IL CALENDARIO La vertenza del pubblico impiego si inasprisce. Preso atto che settimane di mobilitazione non sono bastate per aprire un canale di dialogo con il ministro Brunetta, i sindacati passano allo sciopero. Tre giornate (una per il Nord, una per il Centro e una per il Sud), e se non dovessero bastare ci sarà lo sciopero nazionale.
Le proteste si terranno a cavallo tra ottobre e novembre, l’eventuale sciopero generale «accompagnerà» invece la discussione della legge Finanziaria. Il calendario integra lo sciopero della scuola, fissato per il 30 ottobre, e quello generale proclamato dai Cobas per il 17 ottobre.
Gli argomenti non mancano. Da mesi il pubblico impiego è sotto schiaffo, si è partiti con il battage contro i “fannulloni” e si è arrivati all’assumere provvedimenti che penalizzeranno chi fannullone non è. La lista dei «non va» stilata da Cgil, Cisl e uil funzione pubblica è corposa. Primeggiano i contratti per 2 milioni e mezzo di persone (uno in più se si calcola la scuola) che il governo vorrebbe rinnovare al ribasso. Le risorse stanziate - denunciano i sindacati - porterebbero 8 euro di aumento per quest’anno e circa 60 per l’anno prossimo. Fin qui la vertenza, seppur pesante, starebbe nell’ordinario. A renderla «speciale» è il taglio dei fondi per la contrattazione integrativa che si traduce in buste paga più leggere, e l’intenzione trasparente del ministro di cambiare le regole della contrattazione in modo unilaterale, cioè senza il confronto con i rappresentanti dei lavoratori. Si pensi agli «anticipi» degli aumenti salariali oppure alla volontà di superare il contratto nella sanità o nelle autonomie locali. Per non parlare dei precari che resteranno a spasso. Per tutto questo, Carlo Podda di Fp-Cgil, Rino Tarelli di Cisl-Fp, Carlo Fiordaliso di Uil-Fpl e Salvatore Bosco di Uil-Pa chiedono un tavolo a Palazzo Chigi con tutti i ministri interessati e gli enti locali. Chiedono un negoziato.
Il ministro però non da segnali concilianti. «Non capisco cosa vogliono», «non capisco questa attitudine conflittuale, a meno che non abbia voglia di uno sciopero psicologico», afferma. «I soldi ci sono, c’è una Finanziaria che stanzia 3 miliardi e quindi le risposte già ce l’hanno». Non sono pochi? «Dov’è la copertura con questi chiari di luna? Sta crollando un po’ di economia, di cosa stiamo parlando?».
Convinto di avere l’opinione pubblica dalla sua parte il ministro continua con la devastazione mediatica di tutto il lavoro pubblico, servendo il piatto forte della diminuzione dei dati sull’assenteismo a -45% a settembre. Poi, in nome della trasparenza ha messo online i verbali dell’incontro con i sindacati di martedì scorso sul rinnovo dei contratti per i ministeriali. «Comportamento scorretto, ai limiti della legalità», è l’accusa del leader di Fp-Cgil Carlo Podda. Non si tratta di verbali (normalmente concordati tra i presenti) ma di «resoconti di parte». «Ma poiché sulla trasparenza non prendiamo lezioni da nessuno - prosegue il leader sindacale - chiediamo al ministro di far attrezzare una sala a disposizione della stampa per la diretta della trattativa». In alternativa «riprenderemo il negoziato e lo metteremo sul nostro sito a disposizioni di tutti». Dopo aver chiesto una liberatoria ai presenti.

l’Unità 10.10.08
La Sinistra che non vede
Dalla coscienza di classe alla «coscienza di luogo»
di Aldo Bonomi


Un fantasma si aggira nella politica italiana, il fantasma della sinistra. Ma differentemente dallo spettro del comunismo marxiano questa volta porta con sé l’annuncio di un doloroso crepuscolo. Doloroso quanto prevedibile. Perché i segnali c’erano tutti: sia in campo sociale sia elettorale. Le stesse elezioni dell’aprile 2006 non solo avevano messo in luce il mancato sfondamento da parte del centro-sinistra, ma anche sul fronte della cosiddetta «sinistra radicale» avevano messo in luce come il buon risultato di allora lo si dovesse più alla crescita nelle regioni meridionali, mentre nelle cinture metropolitane del Nord e nelle tradizionali regioni rosse i voti già allora erano in calo. La «questione settentrionale» riemergeva puntualmente.Tuttavia, rimango convinto che le ragioni di una sconfitta epocale, come quella che ha espulso la sinistra dalla rappresentanza parlamentare, abbiano più a che fare con processi di lungo periodo che con i guasti dell’ultima esperienza governativa.
Il moderno. La rappresentanza sociale e politica della sinistra era espressione di una società dai fini certi. Il Sol dell?Avvenire, il Palazzo d?Inverno, l?idea di rappresentare l?avanguardia organizzata di un movimento storico incessantemente proiettato a costruire il futuro, incardinavano l?idea stessa di sinistra dentro quella di moderno. Oggi il campo su cui la sinistra, soprattutto quella radicale, si esercita è sul piano economico e sociale con l?opposizione di marca «luddista» a un moderno percepito come un campo totalmente occupato dall?impresa e dalle sue logiche. La sinistra si oppone alla mercificazione dei beni comuni ereditati dalla tradizione o dalla natura, ma non riesce a progettare nuovi beni comuni (infrastrutture, diritti ecc.) che parlino di un progetto di ordine economico e sociale alternativo. Rifugiandosi invece in una sfera dei diritti etici e civili giocata spesso come sostituto funzionale dell?incapacità di rimettere a tema la questione sociale (da qui un?infatuazione per lo «zapaterismo»). Una linea che però finisce per suscitare reazioni conservatrici proprio nella base popolare tradizionale della sinistra, in certo qual modo incrementando il circolo vizioso dello sradicamento. È questo, infatti, il secondo corno del dilemma. È venuto meno quell?elemento che garantiva la connessione con il paese profondo e la sua cultura, la capacità di esprimere e (re)inventare il , o nelle parole di Gramsci il nazional-popolare inteso come mastice tra nazione culturale e nazione politica, tra territorio e stato, tra comunità e rappresentanza. Questa capacità «popolare» era un?eredità storica peculiare della sinistra italiana. La cui identità politica profonda nasce prima nel territorio e quindi nella comunità e nel popolare.(...) La mia impressione è che questi due elementi, prima il moderno e poi il popolare, sono stati progressivamente scippati e reinventati dal ritorno della destra a partire dagli anni ottanta e dopo la grande rottura del Sessantotto. Prima con il binomio Thatcher/Reagan poi con il populismo postindustriale dei Le Pen e arrivando in Italia fino al duo Bossi-Berlusconi e all?ideologia «protettiva» di Tremonti, la destra ha occupato proprio quell?elemento territoriale da cui originariamente era partita la parabola della sinistra italiana e che, anche dopo la fine della grande fabbrica, aveva provvisoriamente garantito la sua tenuta politica. Come è potuto avvenire? Rimango convinto che per comprendere le ragioni della sconfitta e per tentare di rimettere insieme i cocci di una «nuova sinistra», l?operazione da compiere sia di rimettere la politica e la rappresentanza «sui suoi piedi», ovvero riconquistare un nuovo sapere sociale su cosa è oggi il capitalismo, e la questione materiale, senza il quale semplicemente non c?è sinistra. In questo modo e non inseguendo le chimere postideologiche, può essere possibile comprendere il rancore sociale montante che fa da base culturale all?egemonia della destra. È la discontinuità rappresentata dalla globalizzazione il punto di partenza di ogni riflessione. Che deve comprendere almeno tre passaggi chiave: il territorio, la rappresentanza dei nuovi soggetti e quella che possiamo definire come la questione neoborghese. Partiamo dal territorio. Da anni sono convinto che viviamo dentro un salto di paradigma. Oggi è necessario ragionare non più soltanto in termini di conflitto tra capitale e lavoro, con lo stato come soggetto di redistribuzione del prodotto sociale. Invece, ritengo che sia necessario riflettere su una nuova forma del conflitto tra flussi e luoghi, con il territorio come dimensione intermedia in cui situare la ricostruzione dei processi di rappresentanza. Parlare di globalizzazione significa parlare di una serie di flussi produttivi, finanziari, umani. Sono flussi le transnazionali, le internet company, i corridoi europei (la Tav), e quelli che Tremonti definisce i padroni della tecnofinanza. E sono flussi anche le migrazioni. (...) Tuttavia, è necessaria la consapevolezza che mentre nel Novecento la rappresentanza sindacale e politica cresceva in una società caratterizzata dai mezzi scarsi e fini certi oggi siamo passati a una società dai mezzi abbondantissimi ma con fini totalmente incerti. Utilizzando le categorie di Ernesto De Martino, tutto ciò ha prodotto una moderna apocalisse culturale. Che significa fondamentalmente non riconoscersi più in ciò che c?era abituale. C?era abituale il quartiere, c?era abituale la fabbrica, la comunità di uguali e il conflitto. Tutte strutture radicate nel Dna profondo della sinistra che si sono depotenziate. (...)È la metropolizzazione del territorio con le sue conseguenze in termini di figure sociali che va posta al centro. Di che cosa parliamo? Parliamo di uno spazio sociale e produttivo dove l?espansione della città si è fusa con un capitalismo molecolare di oltre cinquecentomila imprese con due milioni di addetti. Se si cerca la classe operaia si scopre che esiste ancora e vive e lavora proprio nei territori delle tante città infinite. E vota con il suo «padroncino» non solo per retaggio culturale, ma perché tende magari a condividerne ansie e speranze in rapporto a una dimensionecompetitiva ormai divenuta dimensione esistenziale diffusa. È una sorta di melting pot produttivo in cui si è prodotto un gigantesco processo di scomposizione e ricomposizione delle figure produttive.(...) Ritengo che le ideologie legate alla questione sociale siano ancora in piedi. Sul mercato delle culture politiche si possono distinguere almenoquattro ideologie o correnti di pensiero strutturate o invia di strutturazione. La prima ideologia è tutta interna al pensierodel mercato. Si presuppone che il capitalismo sia un sistema dotato della capacità di autoregolarsi. È una visione propria delle élite delle grandi transnazionali che sposta il potenziale conflitto tra (portatori di interesse) territoriali all?interno dell?impresa. Al centro vi è la figura dell?utente-cliente come del mercato, attore autonomo dall?impresa capace di vincolarne l?azione minacciando (o attuando) strategie di individuali non limitate alla valutazione della qualità dei prodotti, ma estese anche al rispetto da parte dell?impresa della sua sfera valoriale o degli interessi della società. È una visione che ha radici profonde soprattutto nelle società anglosassoni dove ha assunto anche una veste giuridica attraverso le cosiddette di consumatori che, in quanto tali, divengono titolari di diritti. Una seconda ideologia, all?esatto opposto, è quella esemplificata dalla teoria della decrescita di Serge Latouche. Anche questa è un?ideologia potentissima, perché dà riferimenti culturali ai movimenti di conflitto delle società locali contro i processi di modernizzazione promossi dai grandi attori del capitalismo globale. È un?ideologia con cui confrontarsi. E quanto il sindacato si deve confrontare? Le difficoltà del sindacato torinese rispetto alla Tav sono lì a testimoniarlo. Terza ideologia, è quella della moltitudine come nuovo soggetto della trasformazione sociale, sostituto funzionale in tempi di globalizzazione dell?operaio-massa. La figura dell?Impero ne è il corrispondente dal punto di vista dei processi costituenti della rappresentanza. Altra ideologia è la rappresentazione del conflitto tra flussi e luoghi a partire dall?emergere della coscienza di luogo come nuovo elemento identitario sul quale imperniare i processi di costruzione della rappresentanza. Più un luogo è in grado di sviluppare, oltre alla coscienza di classe per tutelare i soggetti, anche la coscienza di luogo, più esso è in grado di rapportarsi ai flussi e negoziare il proprio cambiamento. Il sindacato dovrebbe essere uno dei soggetti. È vero, per esempio, che il termine «coscienza di luogo» ovviamente sussume molti dei problemi anche della decrescita, della qualità della vita, dell?ambientalismo. Su questo fronte il discrimine politico corre tra una coscienza di luogo orientata alla chiusura e una coscienza di luogo centrata sulla relazione con la dimensione dei processi di modernizzazione. È dentro questa ideologia emergente, radicata nei processi materiali, che si è sviluppata la parabola leghista con la sua capacità di accoppiare l?elemento identitario di difesa a quello della modernizzazione delle grandi infrastrutture divenute simbolo politico (Malpensa, il disegno delle del Nord ecc.). Le ideologie dunque esistono. Esse sono diverse dalle grandi narrazioni novecentesche, ma ancora potenti e in via di strutturazione. Semmai esiste, ed esiste soprattutto a sinistra, un problema di posizionamento rispetto a queste ideologie emergenti. (...) In conclusione, credo che la scommessa sia produrre meccanismi anche di potere oltre che ideologici, che consentano un processo di riterritorializzazione delle élite economiche fondato sull?idea, per dirla con il filosofo francese Lévinas, che l?identità non stia nel soggetto (e nella sua difesa) ma nella relazione con l?altro. Quale può essere il ruolo della sinistra dentro questa nuova dinamica? Assumere i flussi come unica dimensione rilevante? Cavalcare le propensioni alla chiusura del locale, secondo il modello del «sindacalismo di territorio» leghista? Penso invece che esista una terza possibilità: mettersi in mezzo tra flussi e luoghi assumendo il territorio come nuovo spazio d?azione intermedio e accompagnare le società locali nel «metabolizzare» culturalmente i cambiamenti; per dirla con uno slogan, «mediare i flussi per accompagnare i luoghi». Il nodo è costruire una società locale capace di agganciarsi al globale e aprire l?enclave che è dentro di noi al mondo. La sfida per il tessuto della rappresentanza e per la sinistra è «fare società» accompagnando questo processo di apertura e trovando forme organizzative adatte. Questo mi pare un obiettivo di fondo su cui varrebbe la pena di ragionare.

l’Unità 10.10.08
Domani la sinistra radicale manifesterà a Roma, Di Pietro raccoglie firme
Ma oggi il segretario di Rc Ferrero farà il «processo» a Liberazione. Il partito metterà soldi per ripianare il debito. Potrebbe però chiedere la destituzione del direttore
di Simone Collini


Uniti contro il Lodo Alfano, divisi in piazza. Domani l’Italia dei valori sarà a piazza Navona per dare il via alla raccolta di firme per il referendum contro «una legge immorale e incostituzionale». Rifondazione comunista, Pdci, Verdi, Sd e diverse altre sigle e associazioni della sinistra sfileranno in corteo contro il governo e Confindustria da piazza Esedra fino alla Bocca della verità. Nei giorni scorsi, quando il leader dell’Idv Antonio Di Pietro e il segretario del Prc Paolo Ferrero (con anche altri esponenti dell’ex Arcobaleno) hanno presentato insieme a Montecitorio l’avvio della campagna referendaria, qualcuno ha ipotizzato un momento di incontro tra le due piazze. Ma non sarà così. L’ex pm si godrà la musica di Andrea Rivera, Enzo Avitabile, Simone Cristicchi e parlerà dal palco a metà pomeriggio.
Palco che sarà invece off limits per i leader politici, alla Bocca della verità: parleranno una dirigente scolastica, un extracomunitario di Castelvolturno, un esponente di No-Dal Molin, uno No-Tav, il fisico Gianni Mattioli, l’operaio della Thyssen Ciro Argentino. Si tratta di una decisione presa dagli organizzatori al termine di una serie di incontri al Rialto (un centro sociale che si trova nel centro storico di Roma) per evitare discussioni sulla scaletta tra e dentro i diversi partiti.
Il clima infatti non è dei migliori non solo tra Idv e sinistra, visto che Di Pietro sta respingendo al mittente l’offerta di Prc e compagni di allearsi alle regionali in Abruzzo. Agli esponenti di Rifondazione non è piaciuta la proposta del Pdci, lanciata per bocca di Emanuela Palermi, di prevedere domani «un gesto simbolico che unisca le due iniziative». E d’altro canto dentro lo stesso Prc non tutti condividono l’impegno nel referendum contro il Lodo Alfano. Paolo Ferrero l’ha deciso per non lasciare nelle sole mani di Di Pietro la bandiera antiberlusconiana, e sia all’inizio che alla fine del corteo ci saranno banchetti per la raccolta delle firme. Ma la sua proposta è passata all’ultima riunione della Direzione del partito con un voto contrario e diverse astensioni. Un segnale inviato al segretario dalla minoranza dei vendoliani.
Ma è niente in confronto a quello che succederà oggi, quando la Direzione tornerà a riunirsi. All’ordine del giorno c’è Liberazione. Ferrero punterà il dito sul buco di oltre quattro milioni (due dovuti ai previsti tagli della legge sull’editoria) che grava sulla testata del Prc, annuncerà che oltre ai previsti 900 mila euro il partito dirotterà sul giornale un altro milione di euro, ma dovrebbe anche dire che sarebbe bene che a gestire questa fase di rilancio non siano gli stessi che hanno operato fin qui. Il che equivarrebbe a una sfiducia nei confronti del direttore Piero Sansonetti, che giusto su Liberazione di ieri, rispondendo ad Alberto Burgio («l’autonomia ha sempre un limite», argomentava l’esponente della maggioranza contestando la «pratica di opposizione frontale» del giornale al partito), aveva sollecitato una parola chiara: «Credo che Burgio e altri farebbero bene a uscire allo scoperto e a porre formalmente la questione: “Vogliamo cambiare il direttore di Liberazione”. Altrimenti diventa una discussione finta e da paurosi». Oggi ci sarà il primo passo. Alla riunione del Cda, la prossima settimana, potrebbe esserci quello definitivo.

Corriere della Sera 10.10.08
Direttore in bilico
Sansonetti-Ferrero Resa dei conti a «Liberazione»
di Alessandro Trocino


ROMA — Il titolo del commento di Ritanna Armeni, pubblicato oggi in prima pagina da Liberazione, è piuttosto eloquente: «Il cupio dissolvi di un partito che non sopporta più il suo giornale». L'ha scritto Piero Sansonetti in persona, dopo aver ribattuto all'ennesima lettera di accuse di Alberto Burgio, corrente Grassi: «Bello il titolo, no?».
Serve per rispondere a un'offensiva che va avanti da giorni: «Se mi vogliono far giurare fedeltà al marxismo-leninismo — scherza ma non troppo — la vedo dura. Però se la questione è cambiare il direttore, è bene che si dica apertamente». Può darsi che l'accontentino già oggi, alla direzione del partito. Il segretario è cambiato, ora al timone di Rifondazione c'è Paolo Ferrero, che ha fatto capire chiaramente come Sansonetti (foto) non sia più in linea con il nuovo corso. Lui non ci gira troppo intorno: «È vero, non sono un ferreriano. Ma allora? Il partito non è in grado di sopportare un dissenso?
Se ha bisogno di un giornale che risponda direttamente alla segreteria, non conti su di me, che non sono mai stato neanche iscritto. I cervelli non sono sottoposti a voti».
Ferrero resta sul vago: «La direzione? Si parlerà della crisi del giornale». Ma più d'uno è pronto a scommettere che oggi lancerà un segnale di sfiducia al direttore.
Magari sperando nelle sue dimissioni. Proprio quello che non vorrebbe il cdr, la sostituzione del direttore: «Spero che non venga usato l'argomento economico per regolamenti di conti politici — spiega Anubi D'Avossa Lussurgiu —.
E poi è molto fastidiosa questa ignoranza delle norme: è ben strano che proprio da queste parti si ignori il contratto nazionale di lavoro».
Certo, non tutti i 35 giornalisti sono pronti a immolarsi per Sansonetti.
Anche perché la crisi c'è davvero e Ferrero parla di quattro milioni di buco. Eppure qualcosa non quadra.
Lussurgiu ha conti diversi: «I tagli all'editoria saranno inferiori alle aspettative. E lo sbilancio è aumentato del 50 per cento in due mesi: vorremmo capire perché».
Sansonetti aspetta: «Ho fatto un giornale sempre più a sinistra del partito. Ho litigato con il governo, anche quando Ferrero era ministro.
Ma certo Liberazione non si qualifica per la fedeltà alla dottrina comunista, vedi il casino su Cuba. Arrivato quasi a 60 anni non posso rassegnarmi ad accettare la legge del potere».

l’Unità 10.10.08
La Sinistra torna in piazza
di Piero Di Siena


Domani, 11 ottobre, tutta la sinistra italiana, vale a dire le forze che hanno dato vita alla sfortunata esperienza della Sinistra l’Arcobaleno, tornerà a manifestare insieme contro la politica di governo della destra italiana. Dopo mesi di divisioni anche aspre tra i partiti e dentro di essi, questo costituisce una inversione di tendenza. Le prospettive politiche restano diverse ma si è compreso che, comunque, la sinistra non poteva mancare all’appello nel momento in cui appare sempre più evidente l’urgenza di reagire a un attacco senza precedenti che da parte della destra viene condotto - su più terreni: dal lavoro alla scuola e all’università, dalla giustizia ai diritti civili e alla funzione delle autonomie locali - contro valori e conquiste che hanno segnato la vita dell’intera storia repubblicana.
Che la sinistra, fuori del Parlamento e ridotta al suo minimo storico, debba ricominciare da zero il suo cammino, riuscendo finalmente a interpretare le domande e i bisogni di un mondo totalmente cambiato, è fuori di discussione. Ma essa non farebbe alcun passo in avanti se venisse meno “qui” e “ora” al dovere di far sentire la propria voce contro la destra al governo.
Coloro che hanno promosso la manifestazione - circa duecento personalità della politica, della cultura e dei movimenti sociali della sinistra italiana -, ricevendo l’assenso di tutti i partiti, sono consapevoli di non essere i soli a condurre un’azione di contrasto contro la destra. Lo stesso Partito democratico sembra svegliarsi dall’incanto che l’ha travolto sin dalla campagna elettorale, preda come è stato dell’illusione che con Berlusconi e la sua coalizione si potesse costruire un’idea di Paese condivisa. E sarebbe augurabile che la manifestazione del 25 ottobre rappresentasse, almeno da questo punto di vista, una svolta. Di Pietro l’11 ottobre a piazza Navona inizia la raccolta di firme per il referendum sui temi della giustizia, che rimane questione cruciale. Il successo delle manifestazioni della Cgil del 27 settembre e l’esito insperato della vertenza Alitalia potrebbero rompere l’isolamento del movimento sindacale e rendere più difficili le manovre tendenti alla sua divisione, di cui si sono resi protagonisti in questi mesi congiuntamente governo e Confindustria.
E tuttavia i fatti di questi mesi hanno dimostrato che senza una sinistra in campo un’opposizione stenta a nascere. La pretesa autosufficienza del Partito democratico è stata solo causa di divisioni che non hanno risparmiato nemmeno i suoi rapporti interni. Di Pietro ha dimostrato di non riuscire a uscire fuori dal recinto giustizialista che da sempre caratterizza la sua azione politica. La manifestazione dell’11 ottobre ha, perciò, l’ambizione di mettere in campo forze la cui vocazione è invece quella di unire, a partire dai contenuti della piattaforma che sta alla base della mobilitazione. Non si tratta né di dialogare con le altre piazze né di contrapporsi ad esse, ma di parlare con spirito unitario al Paese, sperando che per questa via si realizzino le condizioni per ricostruire un’alternativa a Berlusconi e al suo governo.

l’Unità 10.10.08
I Beni Culturali e lo scippo Capitale
di Vittorio Emiliani


Con legge ordinaria, con un emendamento, il governo Berlusconi rivoluziona la strategia della tutela, chiaramente nazionale, dei beni culturali e paesaggistici togliendola allo Stato, quindi al ministero per i Beni culturali, ed assegnandola al Comune di Roma o al nuovo Ente Roma Capitale.
In tal modo, aperta una clamorosa breccia nell’articolo 9 della Costituzione, spiana la strada per l’attribuzione della tutela ai Comuni. Nemmeno alle Regioni, come da anni alcune di esse chiedevano (la Sicilia la esercita già, malissimo), ma addirittura ai Comuni. Un altro colpo di clava alla unità culturale e politica della Nazione. Una autentica follia anche dal punto di vista gestionale.
Il nostro sistema di tutela, che rimonta addirittura alla lettera-manifesto di Raffaello a papa Leone X, poi ad Antonio Canova gran consigliere di Pio VII, al ceto politico giolittiano che ne raccolse la forte trama legislativa, allo stesso Giuseppe Bottai che intelligente riutilizzatore di quelle norme nelle due leggi del 1939, alla Costituzione e alle normative più recenti (come la legge Galasso e il Codice Settis-Rutelli), era e rimane un modello invidiato e imitato all’estero. Malgrado i finanziamenti scarsi, malgrado i concorsi rinviati per anni, malgrado mille acciacchi operativi, l’idea-forza di far esercitare la tutela ad organismi tecnico-scientifici il più possibile autonomi dal potere politico (tanto più da quello locale) e dalle sue pressioni ha salvato il Paese da disastri molto maggiori rispetto a quelli, pur gravi, intervenuti. I nostri centri storici si presentano, sin qui, abbastanza preservati. La rete dei musei è nettamente migliorata, semmai bisogna crederci, investire di più in essa. Il paesaggio, certo, ha subito e subisce duri colpi dal cemento, specie dopo che ai Comuni è stato sciaguratamente consentito di usare per la spesa corrente i denari incassati con gli oneri di urbanizzazione. Ma, ripeto, il sistema è valido, i soprintendenti (nonostante stipendi da 1.500-2.000 euro) sono spesso autorevoli. Negli anni di Tangentopoli non uno di loro è stato inquisito e condannato.
Si può, si deve potenziare questa struttura voluta come Ministero da Giovanni Spadolini. Invece la si intacca e la si demolisce, facendo oggi del nuovo Ente Roma Capitale e domani degli 8.101 Comuni gli organismi che decideranno tutto sul patrimonio storico-artistico, sull’archeologia, sul paesaggio, ecc. I controllati diverranno anche i controllori diretti. Gli organismi tecnico-scientifici saranno alle dirette dipendenze dei politici municipali. Fate voi.
Certo, l’articolo 9 della Costituzione parla di tutela in capo alla Repubblica, cioè allo Stato (come hanno riaffermato le sentenze, ma quanto contano oggi?, della suprema Corte) in uno, armonicamente, con Regioni ed Enti locali. Ma l’autonomia dei presidii rappresentati dalle Soprintendenze non è mai stata messa in discussione. Mai. Oggi basta un emendamento ad una legge ordinaria. È vero, Roma ha anche una Soprintendenza Capitolina. Fu una sorta di omaggio di Corrado Ricci alla capitale d’Italia quando disegnava con altri la rete delle Soprintendenze. È stata retta da studiosi come Carlo Pietrangeli e, di recente, come Eugenio La Rocca. Non ho nulla contro Umberto Broccoli, archeologo, da poco nominato dopo lunghi anni di lavoro come intelligente divulgatore culturale in Rai. Ma la sua prima intervista televisiva mi ha lasciato di sasso: ritiene di poter fare soldi prestando in giro statue e altri reperti archeologici di magazzino. Non sembra il massimo dei programmi scientifici. Sembra anzi una porta aperta all’idea fissa di “sfruttare” commercialmente il patrimonio.
E il ministro Bondi, che fa? Ha assistito docile a tagli che - lo denuncia la Cisl - riducono le risorse da 625 a 73 milioni in quattro anni e ne fanno perciò una sorta di “commissario liquidatore” del Ministero e dei suoi beni. Nelle Soprintendenze, dopo la pubblicazione del testo per l’Ente Roma Capitale e sue prerogative c’è fermento, allarme, indignazione, come nelle maggiori associazioni per la tutela. «Una autentica rovina», commentano storici dell’arte, archeologi, architetti, paesaggisti, urbanisti, bibliotecari, musicologi. Ma anche una clamorosa fesseria dovuta a quelli che Raffaello profeticamente chiamava li profani e scelerati barbari», ma anche il suicidio di un Paese che vive sempre più di turismo e di turismo culturale. Bondi si occupa di tutt’altro: cliccate sul sito del ministero (www.mibac.it) e vedrete che il ministro-poeta occupa la prima pagina con ben tre rubriche: i suoi Appunti di viaggio (un must internazionale), la sua post@ coi cittadini e, udite udite, le sue recensioni librarie, la prima parla anche di Eros. Non di Thanatos, del suo moribondo ministero naturalmente. Ma si è accorto di fare la parte del necroforo per giunta sorridente?

Corriere della Sera 10.10.08
Germania Il fondatore della Raf accusato di incitamento all'odio razziale
Mahler, da terrorista rosso a ideologo dei neonazisti
Sotto processo per aver negato l'Olocausto
Intervistato sugli anni della Raf da un politico-giornalista ebreo, lo salutò con il braccio teso: «Heil Hitler»
di Danilo Taino


BERLINO — Una vita contro l'establishment, quella di Horst Mahler: agli estremi. Ai peggiori estremi. Nel 1970 tra i fondatori della Rote Armee Fraktion, il gruppo terrorista tedesco guidato da Andreas Baader e Ulrike Meinhof. In questi giorni, sotto processo per aver negato l'Olocausto. Una parabola tragica, quella dell'avvocato di 72 anni: ha attraversato la storia della Germania moderna per lasciare una scia di furore ideologico.
Le accuse che il tribunale di Potsdam, vicino a Berlino, gli muove sono di negazionismo e di Volksverhetzung, in sostanza incitamento all'odio razziale, in Germania ambedue punite dalla legge. Tra il 2000 e il 2004, ha sostenuto con scritti su Internet che Auschwitz è un'invenzione degli ebrei. Rischia cinque anni.
Bisogna però dire che la prigione, per lui, non è mai stata un deterrente. Anzi, forse lo esalta. Nato nel 1936, nel 1964 fonda a Berlino Ovest il suo studio di avvocato. Si avvicina ai movimenti extraparlamentari. Sono anni forti nella città da poco divisa in due dal Muro. Quando, nel 1968, il leader del movimento studentesco, Rudi Dutschke, subisce un tentativo di omicidio, Mahler è all'avanguardia della protesta violentissima contro il gruppo editoriale Springer, indicato dalla sinistra non parlamentare come mandante. Diventa amico di Baader e della sua compagna Gudrun Ensslin e, quando il primo è arrestato, nel 1970, lo aiuta a scappare di prigione. I tre, più la Meinhof, vanno in Giordania, alla scuola militare del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Fondano la Raf.
Mahler torna in Germania nell'ottobre '70, viene arrestato e, nel 1974, condannato a 14 anni. In carcere, dove intanto erano finiti anche i suoi tre compagni, scrive un manifesto, che però è criticato dai membri della Raf. Viene di fatto espulso. È solo. Nei pensieri e nelle decisioni. Nel 1975, il Movimento 2 giugno, altro gruppo terroristico di Berlino, rapisce Peter Lorenz, politico cristiano-democratico, e tra le altre cose chiede la liberazione di Mahler. Che però la rifiuta. In compenso, si procura un ottimo avvocato, certo Gerhard Schröder, socialdemocratico che farà carriera. Il futuro cancelliere riesce a farlo liberare in anticipo, nel 1980 (nel 1988 lo farà anche reintegrare nella professione).
Quelli successivi, sono anni di riflessione, probabilmente. Di sicuro, di cambiamento. Quando ritorna in pubblico, nel 1997, in occasione del 70˚ compleanno del filosofo Günter Rohrmoser, lo fa con un discorso in cui sostiene che la Germania «è occupata», che deve liberarsi dei suoi debiti morali, che deve ritrovare la sua identità nazionale. Un anno dopo, scrive un articolo in cui sostiene la fusione di populismo, spiritualismo e antisemitismo. Nel 2000 entra nell'Npd, il partito neonazista tedesco, lo difende con successo contro il governo Schröder che tenta di metterlo fuorilegge, e lo abbandona nel 2003. Intanto, manda le email negazioniste, sostiene che gli attacchi dell'11 settembre sono giustificati, fonda la Società per la riabilitazione dei perseguitati per avere confutato l'Olocausto.
Nel 2004 viene condannato per istigazione all'odio razziale, nel luglio scorso per avere fatto il saluto romano mentre entrava in carcere per il reato precedente. Nel 2006, gli viene revocato il passaporto per impedirgli di andare a Teheran alla Conferenza sulla revisione dell'Olocausto. Un anno dopo, intervistato sugli anni della Raf da un politico-giornalista ebreo, lo saluta con il braccio teso: «Heil Hitler, Herr Friedman ». Tristemente incontenibile.

Corriere della Sera 10.10.08
Un libro sull'eccidio compiuto nel 1893 contro i nostri connazionali che cercavano lavoro nelle saline francesi della Camargue
Quando erano italiani gli immigrati da linciare
La strage di Aigues-Mortes e il pregiudizio xenofobo
di Gian Antonio Stella


Precursori
Un sindaco «sceriffo» legittimò la ferocia dei suoi concittadini con parole aberranti Dalla rivista «L'Illustrazione Italiana»: qui accanto, la prima aggressione nelle saline; a sinistra, operai italiani feriti

«Acque-Morte ci addita l'orrenda / Ecatombe di vittime inulte!/ No, jamais, sì ferale tregenda / In Italia obliata sarà» tuona indignata la poesia Il grido d'Italia per le stragi di Aigues-Mortes, scritta di getto da Alessandro Pagliari, nel 1893, a ridosso del massacro. Invece è successo. L'Italia ha dimenticato quella feroce caccia all'italiano nelle saline della Camargue, alle foci del Rodano, che vide la morte di un numero ancora imprecisato di emigrati piemontesi, lombardi, liguri, toscani. Basti dire che, stando all'archivio del Corriere della Sera, le (rapide) citazioni della carneficina dal 1988 a oggi sui nostri principali quotidiani e settimanali sono state otto. Per non dire degli articoli dedicati espressamente al tema: due. Due articoli in venti anni. Contro i 57 riferimenti ad Adua, i 139 a El Alamein, i 172 a Cefalonia… Eppure, Dio sa quanto ci sarebbe bisogno, in Italia, di recuperare la memoria.
Che cosa fu, Maurice Terras, il primo cittadino del paese, se non un «sindaco-sceriffo» che cercò non di calmare gli animi ma di cavalcare le proteste xenofobe dei manovali francesi contro gli «intrusi» italiani? Rileggiamo il suo primo comunicato, affisso sui muri dopo avere ottenuto che i padroni delle saline, sotto il crescente rumoreggiare della folla, licenziassero gli immigrati: «Il sindaco della città di Aigues-Mortes ha l'onore di portare a conoscenza dei suoi amministrati che la Compagnia ha privato di lavoro le persone di nazionalità italiana e che da domani i vari cantieri saranno aperti agli operai che si presenteranno. Il sindaco invita la popolazione alla calma e al mantenimento dell'ordine. Ogni disordine deve infatti cessare, dopo la decisione della Compagnia».
Per non dire del secondo manifesto che, affisso dopo la strage, toglie il fiato: «Gli operai francesi hanno avuto piena soddisfazione. Il sindaco della città di Aigues-Mortes invita tutta la popolazione a ritrovare la calma e a riprendere il lavoro, tralasciati per un momento. (...) Raccogliamoci per curare le nostre ferite e, recandoci tranquillamente al lavoro, dimostriamo come il nostro scopo sia stato raggiunto e le nostre rivendicazioni accolte. Viva la Francia! Viva Aigues-Mortes!».
È vero, grazie al cielo da noi non sono mai divampati pogrom razzisti contro gli immigrati neppure lontanamente paragonabili a quelli scatenati contro i nostri nonni. Non solo ad Aigues-Mortes ma a Palestro, un paese fondato tra Algeri e Costantina da una cinquantina di famiglie trentine e spazzato via nel 1871 da una sanguinosa rivolta dei Cabili. A Kalgoorlie, nel deserto a 600 chilometri da Perth, dove gli australiani decisero di «festeggiare » l'Australian Day del 1934 scatenando tre giorni di incendi, devastazioni, assalti contro i nostri emigrati. (...) Ma soprattutto negli Stati Uniti dove, dal massacro di New Orleans a quello di Tallulah, siamo stati i più linciati dopo i negri. Al punto che un giornale democratico, ironizzando amaro sui ridicoli risarcimenti concessi ai parenti dei morti, arrivò a pubblicare una vignetta in cui il segretario di Stato americano porgeva una borsa all'ambasciatore d'Italia e commentava: «Costano tanto poco questi italiani che vale la pena di linciarli tutti».
È vero, da noi non sono mai state registrate esplosioni di violenza xenofoba così. È fuori discussione, però, che i germi dell'aggressività verbale che infettarono le teste e i cuori di quei francesi impazziti di odio nelle ore dell'eccidio somigliano maledettamente ai germi di aggressività verbale emersi in questi anni nel nostro Paese. Anzi, sembrano perfino più sobri.
Maurice Barrès scriveva nell'articolo Contre les étrangers su Le Figaro, che «il decremento della natalità e il processo di esaurimento della nostra energia (...) hanno portato all'invasione del nostro territorio da parte di elementi stranieri che s'adoprano per sottometterci ». Umberto Bossi è andato più in là, barrendo al congresso della Lega di qualche anno fa: «Nei prossimi dieci anni vogliono portare in Padania tredici o quindici milioni di immigrati, per tenere nella colonia romano-congolese questa maledetta razza padana, razza pura, razza eletta».
Le Mémorial d'Aix scriveva che gli italiani «presto ci tratteranno come un Paese conquistato » e «fanno concorrenza alla manodopera francese e si accaparrano i nostri soldi». Il sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini ha tuonato che «gli immigrati annacquano la nostra civiltà e rovinano la razza Piave» e occorre «liberare l'Italia da queste orde selvagge che entrano da tutte le parti senza freni» per «rifare l'Italia, l'Italia sana, in modo che non ci sia più inquinamento». (...) Per non dire del problema della criminalità. Quella dei nostri emigranti accecava i francesi che sul Memorial d'Aix denunciavano come «la presenza degli stranieri in Francia costituisce un pericolo permanente, spesso questi operai sono delle spie; generalmente sono di dubbia moralità, il tasso di criminalità è elevato: del 20%, mentre nei nostri non è che del 5». Quella degli immigrati in Italia, per quanto sia reale, fonte di legittime preoccupazioni e giusta motivazione al varo di leggi più severe, acceca certi italiani. Fino a spingere il futuro capogruppo al Senato del Popolo della Libertà, Maurizio Gasparri, a sbraitare dopo il massacro di Erba parole allucinate: «Chi ha votato l'indulto ha contribuito a questo eccidio. Complimenti. Ha fruito di quel provvedimento anche il tunisino che ha massacrato il figlio di due anni, la moglie, la suocera e la vicina a Erba». L'europarlamentare Mario Borghezio riuscì a essere perfino più volgare: «La spaventosa mattanza cui ha dato luogo a Erba un delinquente spacciatore marocchino ci prospetta quello che sarà, molte altre volte, uno scenario a cui dobbiamo abituarci. Al di là dell'“effetto indulto”, che qui come in altri casi dà la libertà a chi certo non la merita, vi è e resta in tutta la sua spaventosa pericolosità una situazione determinata da modi di agire e di reagire spazialmente lontani dalla nostra cultura e dalla nostra civiltà». Chi fossero gli assassini si è poi scoperto: Rosa Bazzi e Olindo Romano, i vicini di casa xenofobi e razzisti. Del tutto inseriti, apparentemente, nella «nostra cultura e nella nostra civiltà».
Insistiamo: nessun paragone. Ma gelano il sangue certe parole usate in questi anni. Come un volantino nella bacheca di un'azienda di Pieve di Soligo: «Si comunica l'apertura della caccia per la seguente selvaggina migratoria: rumeni, albanesi, kosovari, zingari, talebani, afghani ed extracomunitari in genere. È consentito l'uso di fucili, carabine e pistole di grosso calibro. Si consiglia l'abbattimento di capi giovani per estinguere più rapidamente le razze». (...) Per irridere amaramente a certi toni tesi a cavalcare l'odio e la paura, l'attore Antonio Albanese ha creato insieme con Michele Serra un personaggio ironicamente spaventoso: «Io sono il ministro della paura e come ben sapete senza la paura non si vive. (…) Una società senza paura è come una casa senza fondamenta. Per questo io starò sempre qua, nel mio ufficio bianco, alla mia scrivania bianca, di fronte al mio poster bianco. Con tre pulsanti, i miei attrezzi da lavoro: pulsante giallo, pulsante arancione, pulsante rosso. Rispettivamente poca paura, abbastanza paura, paurissima». C'è da ridere, e si ride. Ma anche da spaventarsi. E ci si spaventa.
Ecco, in un contesto come questo, in cui perfino un presidente del Consiglio come Silvio Berlusconi arriva a sbuffare a Porta a Porta
sulla xenofobia imputata alla sua coalizione dicendo di non capire «perché questa parola dovrebbe avere un significato così negativo », il libro di Enzo Barnabà sul massacro dei nostri emigranti ad Aigues-Mortes è una boccata di ossigeno. Perché solo ricordando che siamo stati un popolo di emigranti vittime di odio razzista, come ha fatto il vescovo di Padova Antonio Mattiazzo denunciando «segni di paura e di insicurezza che talvolta rasentano il razzismo e la xenofobia, spesso cavalcati da correnti ideologiche e falsati da un'informazione che deforma la realtà», si può evitare che oggi, domani o dopodomani si ripetano altre cacce all'uomo. Mai più Aigues- Mortes. Mai più.

il Riformista 10.10.08
Sulla nostra proposta per migliorare il sistema
Separare le carriere ma anche riformare il diritto penale
di Giuliano Pisapia


Prosegue la discussione sulla riflessione di riforma del sistema giudiziario proposta da Radiocarcere. Riflessione il cui testo è stato aggiornato alla luce di quanto suggerito, sia via mail che dopo diversi incontri, da magistrati e avvocati. Il nuovo documento si può leggere sul sito www.radiocarcere.com.

Uno dei pregi della proposta di Radiocarcere è l'aver affrontato i temi della giustizia soffermandosi sia sugli indispensabili interventi organizzativi e sulle più urgenti riforme ordinarie, sia sulle pur necessarie riforme costituzionali, in un'ottica complessiva che ha come obiettivo quello di accelerare i tempi processuali e di garantire un processo equo.
Del tutto condivisibili sono le proposte tese a «eliminare gli inutili formalismi» e a porre fine agli eccessi (e abusi) delle intercettazioni e della carcerazione preventiva: strumenti di indagine e di tutela che, da "eccezionali" sono diventati usuali (oggi, in carcere vi sono più imputati che condannati). Per non parlare della barbarie dei processi mediatici e, più in generale, della macchina giudiziaria che necessita non solo di maggiori fondi ma anche di operatori in grado di ben utilizzare le risorse e di evitare gli sprechi.
Entrando nel merito dei temi più controversi, bisogna superare l'anomalia italiana della unicità della carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti. La separazione delle carriere rafforzerebbe la terzietà del giudice, senza minare l'autonomia e l'indipendenza dell'intera magistratura (che, però, deve rispettare l'autonomia degli altri poteri dello Stato), anche in quanto chi è favorevole alla separazione è anche fermamente contrario a qualsiasi dipendenza del pm dall'esecutivo. Solo un giudice equidistante tra accusa e difesa può avere la piena fiducia dei cittadini ed essere garante di un giudizio sereno e imparziale. E a chi, per ignoranza o mala fede, fa risalire tale proposta a Licio Gelli o alla P2, non si può non ricordare che la separazione delle carriere ha avuto autorevoli sostenitori nei lavori della Costituente ed è stata condivisa, in tempi non sospetti, da illustri giuristi che hanno illuminato il cammino della democrazia, non solo nel nostro Paese.
Per quanto concerne l'obbligatorietà dell'azione penale, è incontestabile che questa oggi sia solo formale e che, di fatto, vige una discrezionalità che non raramente rasenta l'arbitrio. Ma è anche innegabile che l'articolo 112 della Costituzione è uno dei cardini del principio di eguaglianza davanti alla legge: principio, e valore, non da sopprimere ma da rendere effettivo. Il che sarà possibile solo con quel «diritto penale minimo», di cui tanto si parla nei convegni e nei dibattiti, ma che viene continuamente tradito dal legislatore: basti pensare al reato di immigrazione clandestina o alla proposta di carcere per i writer (più efficacemente contrastabili con una immediata, e adeguata, sanzione amministrativa). Solo un «diritto penale minimo», affiancato da efficaci strumenti deflativi - irrilevanza del fatto, "messa in prova" anche per adulti, aumento dei reati perseguibili a querela, eccetera - renderebbe la giustizia più "equa", celere ed efficiente e porrebbe le basi per rendere effettiva l'obbligatorietà dell'azione penale.
Positiva è, invece, la proposta di modifica della prescrizione, anche perché, a differenza di quanto spesso si crede, la gran parte delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari e non nella fase processuale. Non mi convince per nulla, invece, l'esecutività della sentenza di primo grado «in caso di fatto certo»: non credo affatto che diminuirebbero i casi di carcerazione preventiva e aumenterebbero i riti alternativi; temo, invece, un allungamento dei tempi processuali e un aumento delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari. Mi chiedo, infine, come si possano individuare, prima della sentenza definitiva, i casi di «prova evidente» e di «fatto certo».
Sarebbe in ogni caso auspicabile che qualche parlamentare, possibilmente di diverso schieramento politico, trasformasse in un disegno di legge le "riflessioni" di Radiocarcere, ponendo così a disposizione del Parlamento un importante contributo al confronto e alla ricerca di un punto di equilibrio tra posizioni differenti, ma non necessariamente inconciliabili. Nell'interesse non di una parte, ma della giustizia.

Corriere della Sera Milano 10.10.08
Appello di familiari, volontari e associazioni. «Da sei mesi nessuno ci convoca»
«Salute mentale, 35 mila firme. Ma la Regione non ci ascolta»


«Trentacinquemila firme, ma la Regione continua a ignorarci: chiediamo che si muova e che ci ascolti». Questo l'appello lanciato dagli oltre cento tra enti e associazioni aderenti alla Campagna per la salute mentale a tutela delle migliaia di famiglie lombarde alle prese col dramma della malattia psichica. L'appello viene rilanciato oggi in concomitanza con la Giornata mondiale della salute mentale e col sostegno del cardinale Dionigi Tettamanzi che invoca non solo la «sconfitta di pregiudizi e paure» ma soprattutto un impegno «della società civile, della comunità cristiana e dalle istituzioni pubbliche: sono infatti le buone leggi che governano la società — sottolinea l'arcivescovo — a poter favorire o meno l'inserimento in essa delle persone con disagio mentale, la presa in carico della loro situazione, il sostegno alle loro famiglie, la sensibilizzazione del contesto sociale».
Tra le associazioni che già in marzo avevano appunto raccolto 35 mila firme per una petizione consegnata all'assessorato regionale alla Sanità figura la Casa della Carità che si associa ora alla denuncia di questi «sei mesi di vuoto». le associazioni chiedono in particolare un «aumento delle risorse per la salute mentale portandole ad almeno il 5 per cento della spesa sanitaria regionale», un «piano per dare possibilità di lavoro alle persone con sofferenza psichiatrica», lo sviluppo di case di accoglienza per una «ospitalità leggera, che finora stenta a decollare», infine la «costituzione di un Comitato all'interno dell'assessorato con la partecipazione, a pieno titolo e con pari dignità, di rappresentanti dei famigliari e del privato sociale».

Repubblica Roma 10.10.08
Al Palazzo delle Esposizioni la grande mostra a cura di Mario Torelli e Anna Maria Moretti
Appuntamento martedì 21 ottobre con i capolavori da Veio, Cerveteri, Vulci e Tarquinia. Ricostruito il Tempio di Apollo
Le metropoli etrusche
di Carlo Alberto Bucci


Nell´ottagono di Piacentini che al palazzo delle Esposizioni evoca il Pantheon di Roma, sta prendendo forma il tempio di Portonaccio a Veio. Lo stanno realizzando gli scenografi in vista dell´apertura, il 21 ottobre, della grande mostra "Etruschi, le antiche metropoli del Lazio". Il tempio è di cartapesta. Ma non si tratta delle prove generali per il parco a tema sulla romanità (archeologia virtuale e d´intrattenimento nella città che trabocca di antichità vere). Bensì della ricostruzione filologica, uno a uno, di parte dell´edificio, del VI secolo a. C., che sintetizza al meglio la peculiarità artistica di Veio, la coroplastica. Furono infatti plasmate nell´argilla le figure di Apollo, di Eracle e di Latona, condivise dagli etruschi, dai greci e dai romani. E i tre capolavori in terracotta policroma del museo di Valle Giulia, forse realizzati dallo stesso maestro cui Tarquinio il Superbo commissionò la quadriga in cima al tempio di Giove Capitolino, saranno esposti all´ingresso della mostra. Ma per terra perché saranno le copie delle tre divinità a salire sul tetto del tempio tuscanico.
Neanche il Mediterraneo riuscì a tenere separati i popoli che vi s´affacciavano. Tantomeno il Tevere fu un limite al confronto, in pace come in guerra, tra gli Etruschi, i Latini, i Sabini e gli Umbri. Ed è un fiume ricco di contaminazioni - e carico di importanti di riflessioni intrecciate tra aspetti culturali e cultuali, economici ed estetici - il percorso espositivo ideato da Mario Torelli (autore del progetto scientifico) e da Anna Maria Moretti (fino al 6 gennaio, biglietto 12,50 euro, ma il martedì 9 per i cittadini del Lazio). Una mostra promossa dalla Regione Lazio per raccontare le grandi città dell´Etruria meridionale: Veio, Cerveteri, Vulci e Tarquinia, ma nel loro rapporto, di amore e odio, con la metropoli nascente, Roma. E sono questi gli elementi caratterizzanti l´esposizione romana rispetto a quella veneziana, altrettanto grande, del 2001 a Palazzo Grassi.
Se Veio fu la perla nell´arte della terracotta policroma, Cerveteri - scomparsa l´architettura civile - è grande per la sua città dei morti scavata nel tufo: e la mostra proporrà la ricostruzione «di una delle più singolari realizzazione di questa architettura funeraria», spiega il professor Torelli, la stanza che ha dato il nome alla tomba delle Cinque sedie. Legata a Cerveteri per l´esibizione del lusso e della cultura proveniente dalla Grecia (e lo sfarzo ellenistico è documentato in mostra da monili, gioielli, metalli preziosi per le cerimonie delle nozze e del simposio) è Vulci la cui peculiarità fu però la scultura monumentale (come la "Testa di leone ruggente" che arriva da Berlino) scavata nel duro tufo locale, il nefro.
Infine Tarquinia, il regno della pittura. Dall´area sacra di Gravisca arrivano decine di ex voto che narrano dei riti di morte e resurrezione di Adone, il giovane amato e straziato da Afrodite, poi venerato dalle prostitute. Spazio anche agli affreschi, con scene di banchetto, strappati all´inizio del �900 dalla tomba di Tarantola: sparirono dopo il disastro dell´alluvione di Firenze ed è la prima volta che vengono proposti in pubblico (né mai sono stati fotografati), per di più nella disposizione originaria. Opera fondamentale per raccontare la monarchia etrusca che regnò sui sette colli - tema finale della mostra - è la tomba François da Vulci. Gli organizzatori avevano chiesto ai proprietari il prestito del ciclo con le storie di Mastarna (così gli etruschi chiamavano Servio Tullio) e dei due Vibenna. Ma i Torlonia non hanno neanche risposto alla lettera. E così sarà la ricostruzione virtuale (schermi/pareti con immagini proiettate sul retro) a portare il pubblico tra le storie e i fasti della Roma etruschizzata.

l'Unità 10.10.08
Benedetto XVI vuol beatificare Papa Pacelli. In fretta
«Non tacque su Shoah e nazismo»: così Ratzinger l’ha ricordato alle celebrazioni per i 50 anni dopo la morte
di Roberto Monteforte


«PREGHIAMO perché prosegua felicemente la causa di beatificazione del servo di Dio papa Pio XII». Così ha concluso la sua omelia ieri Benedetto XVI. Se non è
stata la formale firma del decreto di beatificazione di papa Pacelli, ci si è andati molto vicino. È solo questione di tempo e di opportunità. Nella basilica di san Pietro, il Sinodo dei vescovi ha ricordato con una solenne celebrazione presieduta dal pontefice il 50° della morte di papa Pacelli. È stata l’occasione per riaffermare le «virtù» del pontefice romano, rispondendo a tutto campo ai dubbi, le accuse, le perplessità, l’ultima espressa dal rabbino capo di Haifa Cohen invitato al Sinodo, circolate attorno alla figura che ha guidato la Chiesa di Roma dal 1939 sino al 1958. Anni tragici, attraversati da conflitti sanguinosi e persecuzioni. Su Pio XII, soprattutto dagli anni ‘60, pesa un’accusa pesante e insidiosa: l’aver taciuto sulla Shoah, l’essere stato filotedesco e antisemita, più attento al pericolo del comunismo ateo che a quello del nazifascimo, uomo d’ordine anche all’interno della Chiesa. «Non ci fu nessun silenzio di Pio XII verso l’Olocausto e il nazismo» afferma Ratzinger. «Papa Pacelli agì spesso in modo segreto e silenzioso - puntualizza - proprio perchè, alla luce delle concrete situazioni di quel complesso momento storico, egli intuiva che solo in questo modo si poteva evitare il peggio e salvare il più gran numero possibile di ebrei». Sulla beatificazione di Pacelli sono di questi giorni le forti perplessità del mondo ebraico e di Israele. Ricorda le chiese e i conventi, le stesse porte del Vaticano aperti a migliaia di famiglie ebree e agli oppositori del regime nazifascista. E poi i «numerosi e unanimi attestati di gratitudine furono a lui rivolti alla fine della guerra, come pure al momento della morte», dalle più alte autorità del mondo ebraico. Cita le parole del Ministro degli Esteri d’Israele, Golda Meir: «Quando il martirio più spaventoso ha colpito il nostro popolo, durante i dieci anni del terrore nazista, la voce del Pontefice si è levata a favore delle vittime. Noi piangiamo la perdita di un grande servitore della pace». Troppe polemiche e un clima «non sempre sereno» hanno segnato il dibattito storico su questa figura, lamenta Benedetto XVI. Si sarebbe tralasciato di guardare a «tutti gli aspetti del suo poliedrico pontificato». È il papa tedesco a metterli in evidenza. Intanto Pio XII uomo di pace. Ricorda come Pacelli abbia collaborato con Benedetto XV al tentativo di fermare «l’inutile strage» della Grande Guerra, e «per aver colto fin dal suo sorgere il pericolo costituito dalla mostruosa ideologia nazionalsocialista con la sua perniciosa radice antisemita e anticattolica». Quindi ha citato anche i due radiomessaggi pacelliani, quello del 24 agosto del ’39 con cui tentò di scongiurare lo scoppio della guerra, e quello del Natale del ’42, come esempio di intervento contro le persecuzioni anche razziali. Un impegno che segnò la sua azione contro i «totalitarismi» «fascista», «nazista» e «comunista sovietico», Un «pastore» vicino al popolo romano colpito dai bombardamenti. Ma va oltre Ratzinger. Lo presenta come un precursore del Concilio Vaticano II: il pontefice che avvia l’internazionalizzazione della curia romana nominando vescovi africani e asiatici. Che promuove il ruolo dei laici e delle Chiese dei paesi sotto i domini coloniali. È una risposta a chi, anche nella storiografia cattolica, ha contrapposto la forza innovativa di Papa Giovanni XXIII al tradizionalista Pio XII, il Papa che nel 1950 affida l’umanità provata dal conflitto alla Vergine e proclama il dogma dell’Assunzione.