martedì 31 dicembre 2013

l’Unità 31.12.13
Tutti i numeri del rapporto Istat
L’Italia è più povera e con i salari bloccati
Quasi due milioni di famiglie indigenti, giovani più precari, buste paga aumentate
di soli quattro euro
di Andrea Bonzi


l’Unità 31.12.13
La beffa del bonus infanzia «Impossibile ottenerlo»
di Adriana Comaschi


Repubblica 31.12.13
Rapporto sulla coesione: una pensione su 2 non arriva a 1.000 euro. Giovani, un miraggio il posto fisso
La povertà è ai massimi dal ’97 stipendi fermi, disoccupati boom
di Riccardo Rimondi


ROMA — Povertà in aumento, stipendi bloccati e una pensione su due sotto i mille euro. Il Rapporto sulla coesione sociale, pubblicato ieri dall’Istat, fotografa gli effetti della crisi a cinque anni dal suo inizio, con un numero di poveri mai registrato dal 1997, anno a cui risale l’inizio della serie storica. I dati si riferiscono al 2012: l’anno scorso, la povertà relativa colpiva una famiglia su otto, in aumento rispetto al 2011. Gli individui in condizioni di povertà assoluta sono raddoppiati dal 2005, e nel 2012 rappresentavano l’8 per cento della popolazione. L’aumento è particolarmente evidente al Nord, dove sono passati al 6,4% del 2012 dal 2,5% di otto anni fa. Un minorenne su cinque vive in famiglie che versano in condizioni di povertà relativa, uno su dieci in nuclei familiari poveri in senso assoluto. I trasferimenti sociali riescono a fare poco per contenere l’aumento, dato che abbassano la percentuale di poveri solo del 5%, contro il 10% a cui si avvicinano Francia e Germania e che viene superato dai Paesi scandinavi. Intanto, gli stipendi sono rimasti sostanzialmente bloccati: da un anno all’altro, l’aumento sui salari netti mensili è stato di 4 euro per i lavoratori italiani, mentre nelle buste paga degli stranieri si è registrato un calo di 18 euro almese. In media, nel 2012 la retribuzione mensile netta era di 1.304 euro per i lavoratori italiani e di 968 euro per quelli stranieri. E mentre i salari sono rimasti immobili, la disoccupazione è cresciuta a ritmi vertiginosi: nel 2012 ha raggiunto il 10,7%, con un incremento di oltre due punti percentuali rispetto al 2011 e di 4 rispetto al 2008. Quest’anno, secondo gli ultimi dati Istat, ha superato il 12 per cento. Colpiti soprattutto i giovani, tra i quali oltre uno su tre, l’anno scorso, era disoccupato. Nel 2013 la disoccupazione giovanile è aumentata ulteriormente e, tra quelli che trovano lavoro, il contratto a tempo indeterminato è sempre più un miraggio: rispetto all’anno scorso, infatti, è calato del 9,4% il numero di under 30 che riesce a ottenerne uno. In gene-rale, i giovani pesano solo per il 14% sul totale dei contratti a tempo indeterminato. E se il mercato del lavoro è in difficoltà, anche per i pensionati la situazione non è rosea: da un lato, l’importo medio annuo delle pensioni è aumentato del 5,4% in due anni; dall’altro, però, solo quindici pensionati su cento percepiscono più di duemila euro al mese, mentre quasi la metà (il 46,3%) ha redditi da pensione inferiori ai mille euro mensili. E’ l’immagine di uno «tra i paesi più colpiti dalla crisi», come ammette il ministro del Lavoro Enrico Giovannini, nell’introduzione al Rapporto. «L’Italia ha registrato nel 2012 un progressivo peggioramento dei principali indicatori macroeconomici e sociali — sottolinea il ministro — ciononostante il sistema di coesione sociale ha tenuto, consentendo al Paese di sopportare sacrifici finalizzati al recupero della stabilità finanziaria e varare importanti riforme».

Repubblica 31.12.13
Borsa, anno record grazie al lusso. Vale il 28% del Pil
I marchi del lusso rilanciano Piazza Affari
La nostra Borsa su del 17% in un anno
Finale sprint con la quotazione Moncler
di Sara Bennewitz e Raffaele Ricciardi


MILANO — Un 2013 da ricordare per i principali mercati finanziari mondiali. Da cui non fa difetto Piazza Affari anche se resta lontana dai record di Wall Street (+27% il Dow Jones) e della Borsa Tedesca (+25% il Dax). Borsa Italiana ha infatti chiuso l’anno con il Ftse Mib in crescita del 16,5% a 18.967,71 punti, dopo aver toccato il 22 ottobre un massimo a 19.372 e il 25 giugno un minimo a 15.057 punti.
La capitalizzazione complessiva delle società di Piazza Affari sale a 438,2 miliardi (+19,9% rispetto al 2012) e vale il 28,1% del Pil, contro il 22,5% di una anno fa. Da segnalare che maggiori performance fanno il paio con maggiori scambi: nel 2013 la media giornaliera del controvalore scambiato è passata da 2 a 2,2 miliardi pari a un totale di 540,7 miliardi (dai 503,2 miliardi del 2012 ma ancora lontani dai 706,7 miliardi del 2011). Se per volumi Unicredit (95,2 miliardi trattati) è stato il titolo migliore, le regine quanto a performance sono state invece Yoox (+173%), Fonsai (+147%) e Mediaset (122%) che hanno più che raddoppiato il loro valore. La maglia nera spetta a Saipem (-47% circa) che ha dimezzato la sua capitalizzazione nonostante l’anno positivo dei mercati. Ma il 2013 passerà alla storia anche per il ritorno delle matricole: 18 nuove aziende sono sbarcate sul listino, il triplo rispetto al 2012. Con una domanda superiore a 20 miliardi, su un’offerta di 680 milioni, Moncler è stata la quotazione maggiore per controvalore richiesto dal 2000. E il ritorno delle matricole a Piazza Affari segna un punto di svolta. «Il 2013 è stato un anno molto importante grazie ai nuovi progetti e alla ripresa delle nuove quotazioni - spiega Raffaele Jerusalmi, ad di Borsa Spa - il ritorno delle Ipo rappresenta un nuovo punto di partenza importante non solo per il mercato finanziario, ma per tutta l’economia italiana ». Le società quotate a Piazza Affari, considerando sia quelle di nuova ammissione (1,35 miliardi) che quelle già presenti sul listino (0,94 miliardi), hanno raccolto complessivamente 2,3 miliardi di capitali sul mercato. «L’utilizzo del mercato dei capitali per finanziare la crescita da parte delle aziende - precisa Jerusalmi - può rappresentare un motore di sviluppo importante per il nostro Paese». Infine oltre ai collocamenti, lo scorso anno sono statelanciate 7 offerte pubbliche di acquisto, per un controvalore di 1,3 miliardi. E così complessivamente sono state ammesse al mercato venti nuove società (tenendo conto anche di Cnh e World Duty Free) e 17 sono state revocate, per un totale di 326 aziende quotate (dalle 323 del 2012), di cui 290 sul mercato principale Mta, 68 sul segmento Star e 36 sull’Aim Italia.
Infine, il 2013 è stato l’anno dei record anche per le contrattazioni dei titoli obbligazionari. Con 1.199 strumenti quotati (erano 1.177 a fine 2012) di cui 108 Titolidi Stato, 690 Obbligazioni e 401 Eurobonds e ABS, il mercato dedicato ai bond Mot ha registrato il nuovo massimo storico per controvalore scambiato: sono stati trattati 328,6 miliardi di controvalore, il +2,2% rispetto al 2012. Il collocamento del Btp Italia dello scorso 5 novembre, ha stabilito il nuovo record assoluto per scambi sulla Borsa Italiana delle obbligazioni. In una singola seduta sono passati di mano 252.688 contratti (controvalore di 18,3 miliardi).

Repubblica 31.12.13
L’amaca
di Michele Serra


La Borsa chiude un anno d’oro, gli italiani definibili “poveri” sono raddoppiati in sette anni. La ricchezza, invece di allargarsi osmoticamente come il capitalismo promette di saper fare (e spesso ha fatto) si polarizza, si ammucchia, restringe la propria area di influenza. Si divarica — e sono ormai anni — la forbice della disuguaglianza. In una situazione come questa, complicata ma a suo modo assai eloquente, è del tutto logico che il segretario del Pd — il grosso della sinistra italiana — sia irrequieto. Che incalzi il governo. Che senta incombere la febbre sociale. Si legge in questi giorni di una imprevista empatia tra Matteo Renzi e la sinistra-sinistra. Vedi le cordialità tra lui e Landini, capo della Fiom. Certo, colpisce che Renzi provenga dall’area cattolica (qualcuno precisa: democristiana) e non da quella ex comunista. Una fama (anche pregiudiziale) di “persona estranea alla sinistra” lo ha avversato fin qui. Ma la vera anomalia che i suoi primi passi da segretario del Pd stanno mettendo in luce è quanto poco, prima di lui, sono stati capaci di fare e di dire, mentre l’iniquità sociale galoppava, gran parte degli ex comunisti.

il Fatto 31.12.13
L’Unitola
di Marco Travaglio


Lo sbarco di Maria Claudia Ioannucci, ex senatrice di Forza Italia nonché amica e collaboratrice di Valter Lavitola, nell’azionariato dell’Unità, a fronte del comprensibile allarme della redazione che minaccia cinque giorni di sciopero, sta suscitando altrettanto comprensibili entusiasmi nel mondo della sinistra italiana, ma anche europea. Al momento non si registrano commenti ufficiali, a parte le minacce di denuncia dell’amministratore delegato del quotidiano del Pd (che però farebbe bene a denunciare la stessa Ioannucci per aver messo a verbale davanti ai pm di Napoli: “Lavitola, oltre che mio cliente, è divenuto uno dei miei più cari amici e tali rapporti di amicizia, nel tempo, si sono estesi all’intera famiglia”). Ma è solo perché i vari leader stanno ancora cercando le parole più adatte per salutare l’evento con la dovuta solennità. Dopo un secolo di vite separate infatti si prospetta una possibile fusione fra le due storiche testate della sinistra italiana: l’Avanti!, fondato nel 1896 e passato da Bissolati a Mussolini a Craxi giù giù fino ai prestigiosi Cicchitto & Brunetta e agli autorevoli De Gregorio & Lavitola; e l’Unità, creata nel 1924 da Antonio Gramsci e ora appunto appartenente per il 14% a lady Ioannucci. Già c’è chi immagina, per celebrare degnamente la storica saldatura 92 anni dopo la scissione del Congresso di Livorno, la nuova testata: “AvantiUnità! - Giornale fondato da Antonio Gramsci, ma solo da Lavitola in su”. Vivo apprezzamento starebbe per esprimere il presidente Giorgio Napolitano, infaticabile ricucitore della lacerante frattura social-comunista fin dall’elogio dell’invasione sovietica in Ungheria all’insegna del riformismo più sfrenato. Pare che un passaggio del suo ottavo, storico discorso di fine anno sarà dedicato alla ritrovata unità a sinistra: “Cari sudditi, Lavitola politica del sottoscritto volge quasi al termine, nel senso che me ne andrò dal Quirinale nel 2020, ma vorrei lanciare un accorato monito alle masse progressiste tutte: o comprate la nuova Unità, o mi dimetto”.
Lo storico togliattiano Michele Prospero ha già pronto un editoriale dei suoi: “Studiando approfonditamente gli scritti del Migliore, sono giunto alla conclusione che, già durante il pacifico sterminio degli anarchici in Spagna, il grande Palmiro avesse preconizzato l’avvento nella grande famiglia comunista dell’amica di famiglia di Lavitola”. Lo psico-guru Massimo Fagioli, méntore dell’azionista Matteo Fago, è parecchio su di giri, ma non siamo in grado di riportare il suo commento perché non si capisce niente. In compenso il suo nome ha ispirato a Francesca Pascale un messaggio di congratulazioni scritto col rossetto viola: “Silvio dice che Claudia è quel che fa per voi. Così – aggiungo io – risolverete come me il tragico problema dei fagiolini”. Dal canto suo il cane Gunther, intestatario dell’italianissima società del socio-immobiliarista Maurizio Mian “Gunther Reform Holding Spa”, a mezzadria fra Pisa e le Bahamas, ha dato la sua approvazione abbaiando tre volte al sol dell’avvenire. Ora è allo studio un ampliamento redazionale con l’apertura di un nuovo ufficio di corrispondenza a Panama con vista sul Canale, dove Lavitola & Ioannucci vantano robuste entrature presso il presidente Martinelli, sempreché riesca almeno lui a restare a piede libero. In attesa della scarcerazione di Valterino, s’è offerto come caporedattore un vecchio cronista di razza: Sergio De Gregorio. Luca Landò, neodirettore e ottimo velista, potrebbe raggiungerlo di tanto in tanto in barca a vela, o in alternativa su uno dei pescherecci messi a disposizione da Lavitola. Dev’essere per questo che Piero Fassino, per un riflesso condizionato rimastogli dai tempi della segreteria Ds, continua a telefonare in redazione a ogni ora del giorno e della notte. Le segretarie, stremate, non gli rispondono più. Ma lui insiste e lascia sempre detto nella segreteria telefonica: “Allora, abbiamo una barca?”.

il Fatto 31.12.13
L’Unità verso lo sciopero contro l’amica di Lavitola
La nuova socia del quotidiano nascosta ai giornalisti
Che ora chiedono all’editore di cacciare lei e l’amministratore delegato
di Marco Lillo


Dopo il nostro articolo che svelava l'ingresso (attraverso la PEI Srl) della professoressa Maria Claudia Ioannucci, ex senatrice di Forza Italia e amica di Valter Lavitola, nel capitale della NIE Spa che edita L'Unità, è scoppiato un finimondo. I giornalisti della testata (ai quali va la nostra sincera solidarietà in un momento così difficile) hanno avuto il coraggio di affidare al comitato di redazione un pacchetto di cinque giorni di sciopero. Se l'editore Matteo Fago non troverà il modo per risolvere il problema, favorendo l'uscita della Ioannucci dal capitale e la sostituzione dell'amministratore della società NIE, Fabrizio Meli, lo sciopero potrebbe partire il 3 gennaio. Ieri sono usciti ben quattro comunicati sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci: uno del Cdr, uno dell'amministratore della NIE (e anche della PEI della Ioannucci) FabrizioMeli, uno dell'editore Matteo Fago e uno della NIE. Tutti lanciano accuse al Fatto e annunciano azioni legali. La sostanza è che l'amministratore dell'Unità, Fabrizio Meli, ha nascosto alla redazione che la professoressa Ioannucci era diventata socia della NIE. Nonostante fosse stato proprio lui a cederle le sue quote nella PEI Srl, che partecipa alla stessa NIE.
L'editore Matteo Fago nel comunicato tiene a precisare le quote attuali del capitale della NIE Spa: Matteo Fago 51,06 per cento; Gunther Reform Holding (Maurizio Mian, ndr) 18,18 per cento; PEI Srl (Claudia Ioannucci, ndr) 13,98 per cento; Monteverdi Srl (gruppo Soru, ndr) 12,36 per cento; Soped 1,75 per cento; RenatoSoru 1,56 per cento; Chiara Srl 1,1 per cento ed Eventi italiani Srl 0,01 per cento”. Poi aggiunge che Il Fatto ha pubblicato “percentuali di partecipazioni degli azionisti della NIE Spa che sono tutte sballate”. Quelle percentuali (Matteo Fago 30,2 per cento; Gunther 25,9 per cento; Pei 19,94 per cento; ecc…) non sono state inventate dal Fatto ma copiate da un atto del Cerved, la maggiore banca dati in materia camerale, sulla base dell'ultimo elenco soci della NIE depositato in camera di commercio il 24 settembre, prima dell'acquisto a ottobre da parte di Ioannucci della PEI. Solo dopo, come risulta da un successivo elenco soci del Cerved depositato il 19 novembre del 2013, la quota di PEI (Ioannucci) scende al 13,98 per cento e quella di Fago sale al 51 per cento, probabilmente a seguito dell'aumento di capitale. La sostanza non cambia: una senatrice di Forza Italia amica di Lavitola è il terzo socio del quotidiano fondato da Gramsci, con il 13,98 (non con il 19,94 per cento). Nessun intento da parte nostra di sminuire il ruolo di Fago, che ha ragione a rivendicare la sua quota del 51 perché l'ha pagata, come dimostra il fatto che già in un precedente articolo e in prima pagina abbiamo dato conto della situazione aggiornata.
Comunque il Cdr ritiene “inconciliabile con la storia e le battaglie della testata la presenza nell'azionariato di Claudia Ioannucci ex senatrice di FI la cui vicinanza personale e professionale con Lavitola ha provocato danni al giornale”. Il Cdr bolla come “gravemente diffamatorio il titolo del Fatto che accosta il nostro giornale e il suo fondatore Antonio Gramsci a Lavitola”. Mentre l'amministratore Fabrizio Meli annuncia querele della Ioannucci al Fatto “e a quanti hanno accostato e accosteranno il suo nome a quello di Lavitola”. Possiamo dare un suggerimento a Meli su una persona che accosta un po’ troppo i due nomi: è Maria Claudia Ioannucci. Ai pm di Napoli il 19 settembre 2011 ha dichiarato “Lavitola è divenuto, oltre che mio cliente, uno dei miei più cari amici”.

l’Unità 31.12.13
Gianni Cuperlo
«Se non c’è una svolta meglio tornare a votare»
di Maria Zegarelli


Corriere 31.12.13
«Senza svolta perché andare avanti?»
I dubbi si allargano alla minoranza Cuperlo chiede «qualcosa di concreto»
I timori di D’Alema, Barca e Orfini
di Maria Teresa Meli


ROMA — Matteo Renzi lo ripete spesso ai fedelissimi, ogni volta che si preoccupano per le sue sortite sul governo Letta-Alfano: «Guardate che nel partito non sono l’unico a pensarla così, anzi non siamo gli unici». Ed effettivamente pare che il sindaco di Firenze abbia ragione. Tant’è vero che ieri persino il solitamente misurato Gianni Cuperlo si è lasciato andare e in un’intervista che uscirà oggi sull’Unità pronuncia parole assai simili a quelle del segretario.
Anche per il presidente del Pd è giunta l’ora che il governo Letta «recuperi la fiducia dei cittadini» e cominci a fare «qualcosa di concreto, imprimendo una svolta alle sue politiche e alle sue azioni». Altrimenti che senso ha «andare avanti comunque, soltanto per andare avanti?». Nasce da questi ragionamenti fatti con i collaboratori la decisione di Cuperlo di rompere gli indugi, abbandonare la sua proverbiale cautela e chiedere conto all’esecutivo Letta di quello che sta facendo dalle colonne del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. E a proposito dell’Unità . Il giornale di ieri era più che significativo in questo senso. L’editoriale di prima pagina, affidato all’ex direttore Claudio Sardo, era così intitolato: «Missione 2014 non a tutti i costi». L’autore del commento, vicino alle posizioni di Bersani e D’Alema, lascia capire che non è affatto detto che il governo Letta riesca ad arrivare indenne al semestre europeo e sottolinea che nella legislatura in corso le riforme sono assai difficili da realizzare. Perciò — è il succo del ragionamento — una volta varata la nuova legge elettorale, se si vede che non si riesce a fare più niente, forse non ha più senso continuare ad andare avanti. Sempre sullo stesso numero dell’Unità anche Fabrizio Barca, che non si può certo sospettare di simpatie renziane, si schiera dalla parte del segretario: fa bene a sollecitare l’esecutivo, a spingerlo a fare di più e meglio, perché questo è «il mandato» con cui è stato eletto alle primarie.
Le sorprese, però, non finiscono qui. Persino l’arcinemico del sindaco di Firenze, il governatore della Toscana Enrico Rossi, si schiera con il segretario. E afferma: «Renzi incalza il governo Letta e fa bene. Bisogna evitare di fare la stessa fine fatta con il governo Monti, né ci possiamo accontentare di questo galleggiamento». Quindi il presidente della Toscana avanza la sua proposta: il Pd deve trasformarsi in «un partito di lotta e di governo». Scalpita pure il leader dei «giovani turchi», Matteo Orfini, protagonista di una recente polemica con il segretario a proposito del «Job act». Ma anche per lui dopo la vicenda del decreto salva Roma «è evidente che non si può più andare avanti così, bisogna cambiare passo: è necessario un salto di qualità dell’azione del governo». Massimo D’Alema, da tempo, continua a ripetere di non volere più occuparsi delle beghe del Pd. Ma anche l’ex presidente del Consiglio quando conversa con i ministri o i parlamentari amici fatica a nascondere il suo disappunto per quello che sta avvenendo. «Il governo deve cambiare registro, sennò qui si va a sbattere», è solito ripetere l’ex premier.
Insomma, il malcontento nei confronti dell’esecutivo e del suo premier dilaga nel Partito democratico. Tant’è che ha ripreso a suonare il tam-tam delle elezioni a maggio. E c’è chi dice che a staccare la spina potrebbe essere Scelta civica. Molti infatti nel Pd sono stufi e iniziano a temere che la sfiducia nei confronti del governo Letta-Alfano alla fine si riversi contro il partito. Sono rimasti pochissimi ultras bersaniani a difendere l’esecutivo e a sparare contro il segretario. Come l’ex responsabile Giustizia Danilo Leva che, in un’intervista all’Huffington Post , accusa il sindaco di Firenze di «parlare come Grillo e Berlusconi» e di volere «il voto».
Ma per il resto la preoccupazione nel Pd si fa tangibile. Nessun altro, neppure in odio a Renzi, vuole prendere una batosta alle Europee o, come dice un amico del sindaco, «piegarsi all’immobilismo per consentire a una piccola forza come il Ncd di andare avanti, fortificarsi e potersi presentare alle elezioni solo quando sarà pronta, cioè, probabilmente, mai». Però questo sembra un pericolo che Renzi intende scongiurare in tutti i modi. Come ha spiegato bene ai fedelissimi: «Letta mi aveva chiesto di rinviare a gennaio il patto 2014 per lasciargli varare i provvedimenti necessari prima della fine dell’anno. Avete visto che cosa hanno fatto? Questi sono matti. Non so se sono più incompetenti o pericolosi...». Perciò il leader del Pd ha alzato il tiro e ha messo nel mirino il governo, il premier e il vicepremier. Il tono con cui Letta sembra «fare concessioni al Pd» non è piaciuto al sindaco. Che non si fida: «Quelli vogliono fare melina. Ma io non consentirò che slittino i tempi. Per le riforme restano quelli già fissati».
Dopodiché, se rispetteranno i patti, spiega il segretario, «posso anche fare l’accordo con Letta e Alfano, ma mai diventare come loro, questo sia chiaro». Se invece non rispetteranno i patti, «allora — confida ai fedelissimi — che senso ha andare ancora avanti?».

Corriere 31.12.13
L’impazienza di un leader
di Antonio Polito


Ai tempi della Dc, quando cambiava il segretario del partito di maggioranza, l’equilibrio si ristabiliva o con una crisi di governo o con un rimpasto. Ai tempi del Pd il nuovo segretario non può chiedere né l’una né l’altro. Non il rimpasto, perché sa troppo di prima Repubblica, anche se la sua corrente (che non sembra affatto essersi sciolta) ha già l’acquolina in bocca.
Non la crisi, perché più che al buio sarebbe una notte della Repubblica, priva perfino dell’opzione estrema del ricorso alle urne, reso impossibile dalla sentenza della Consulta sulla legge elettorale; e per giunta costretta al trauma dell’elezione di un nuovo capo dello Stato, visto che quello attuale considererebbe tradito il patto per le riforme sulla base del quale fu eletto. In più, a differenza di un segretario della Dc, Renzi deve rendere conto a due milioni e rotti di elettori che lo hanno plebiscitato sulla base delle sue promesse, non poche. Come se ne esce, allora? Se si dovesse giudicare dalla fine del 2013, l’anno nuovo non promette niente di buono. Renzi prova ad evitare il rischio di stallo, dopo tanto volare, alzando ogni giorno il tiro sul governo di cui è l’azionista di maggioranza. E Letta si trincera invece nel governo, acuendo così il rischio di stallo, anche a costo di subire umiliazioni come l’assalto alla diligenza del salva Roma, sempre aspettando un Godot che oggi è il «contratto di governo», domani il semestre di presidenza europea. Al momento, insomma, i due Dioscuri del Pd sembrano voler usare il 2014 per vedere se il potere logora chi ce l’ha (Letta) o chi non ce l’ha ancora (Renzi). La fraternità è così scarsa che il giovane sindaco ha rivendicato addirittura una diversità antropologica rispetto al duo Letta-Alfano (a dire il vero non del tutto giustificata perché anche lui, come i due al governo, mangia pane e politica in famiglia da quando aveva i pantaloni corti). Mentre da Palazzo Chigi si replica battezzando Renzi come «il nuovo Brunetta», uno che passerebbe le giornate a dare ultimatum al governo, e gli si ricorda che lui avrà pure rottamato D’Alema, ma Letta e Alfano hanno rottamato Berlusconi.
Di questo passo, e con questi toni, il pericolo è il nichilismo politico, molte reazioni ma poche azioni, una crisi perenne e una sconfitta comune alle Europee. Per il Pd non esiste infatti alcuna possibilità di stare contemporaneamente al governo e all’opposizione. Perfino il leader che s’inventò l’ossimoro del partito di lotta e di governo fallì: e si chiamava Enrico Berlinguer.
Un nuovo equilibrio politico può fondarsi solo su una solida performance di governo di entrambi i protagonisti. Renzi dice che è in grado di fare la legge elettorale in un mese: si applichi dunque a questa sfida con tutta la determinazione e l’astuzia di cui è capace; Letta dice che sta salendo il Pil e stanno scendendo le tasse, provi a convincerne gli italiani che non ne sono così sicuri. Entrambi tengano a mente due cose: la prima è che se ciascuno tenterà di intestarsi tutto il merito delle riforme non ne farà nemmeno una perché l’altro le impedirà; la seconda è che tutti e due appartengono a un partito che non è la Dc, non ne ha né la forza elettorale né il radicamento, e dunque senza alleati falliranno.

Corriere 31.12.13
Nei partiti ora serve trasparenza
Le rivelazioni di Maria Teresa Meli sul Corriere a proposito dei conti del Partito democratico e di certe voci del suo ultimo bilancio
Buone regole sui bilanci per sgretolare i costosi apparati
di Sergio Rizzo


Non basta certo un decreto legge sul finanziamento pubblico per restituire credibilità al nostro sistema dei partiti. I problemi da affrontare e risolvere sono ancora più profondi, e le rivelazioni di Maria Teresa Meli sul Corriere a proposito dei conti del Partito democratico e di certe voci del suo ultimo bilancio ne sono un segnale inequivocabile. Diciamo subito che al Pd va riconosciuto un merito, da ascrivere innanzitutto al suo ex segretario Walter Veltroni e all’ex tesoriere Mauro Agostini, ma da riconoscere anche ai loro successori.
Il merito è quello di aver assoggettato volontariamente il bilancio a certificazione esterna, principio poi introdotto come obbligo di legge, imboccando così per primi la strada della trasparenza e del controllo effettivo dei conti.
Purtroppo però a quella scelta non ha fatto seguito la necessaria svolta culturale verso una politica finalmente «normale». Né il taglio dei rimborsi elettorali, cui i partiti sono stati costretti nel luglio 2012 (è bene ricordare) solo dopo gli scandali micidiali dell’uso dei fondi della Margherita e della Lega Nord, ha fatto aprire gli occhi tanto a sinistra quanto a destra. A dispetto della dieta imposta loro a furor di popolo i partiti sono rimaste macchine ipertrofiche e autoreferenziali: dove la preoccupazione principale è rimasta, talvolta, quella di garantire occupazione quando non comodi paracadute ai fedeli del capo o del segretario di turno. Soltanto così si spiegano certi numeri, come quello dei 207 dipendenti del Pd nazionale, e chissà quanti in periferia. Ma anche certi episodi quale l’assunzione (giusto alla vigilia delle elezioni e in piena cura dimagrante) di ben otto quadri o dirigenti di partito poi candidati alle politiche: precostituendo loro in questo modo una via d’uscita in caso di insuccesso.
E dice tutto il fatto che il decreto legge del governo Letta, in previsione del gradualissimo esaurimento dei rimborsi elettorali, si sia preoccupato di estendere la possibilità di accedere alla cassa integrazione ai dipendenti dei partiti già a partire dal primo gennaio del 2014. Spesa prevista: 15 milioni.
Un finanziamento pubblico abnorme e incontrollato, arrivato nel 2010 a rappresentare per il Pd e per il Pdl rispettivamente l’89 e il 70 per cento delle risorse, ha fatto proliferare negli anni apparati ingordi e costosi, che hanno finito per mortificare l’essenza stessa di organizzazioni politiche. Allagando pure il Parlamento, come dimostra il numero crescente di funzionari di partito paracadutati nelle Camere. E questo con l’aiuto di una orrenda legge elettorale, che il centrodestra ha copiato dalla rossa Regione Toscana e che nessuno ha davvero voluto finora cambiare.
Il fatto è che la sopravvivenza degli apparati è diventata la reale e inconfessabile finalità di una certa politica. Ragione per cui oggi il nostro ceto politico, secondo il professor Antonio Merlo, affonda nella mediocrità. «Nella mediocracy», ha detto il direttore del dipartimento di economia della Pennsylvania university al Fatto quotidiano , «si punta a candidare non chi assicura le migliori performance all’elettore ma all’organizzazione che li ha nominati. Non conta quanto sei bravo ma quanto sei disposto a tenere in vita il sistema».
Ma a lungo andare con una pesantissima controindicazione. Ossia, la perdita irrecuperabile del bene più prezioso in politico: la credibilità, appunto. Come potrebbe un elettore continuare a fidarsi di un partito che usa le proprie risorse per assicurare posti di lavoro inutili a uso e consumo dei fedelissimi, per giunta candidati alle elezioni?
Ecco perché se si volesse davvero cambiare registro sarebbe necessario svuotare gli apparati. Non è sufficiente agire sulle fonti di finanziamento, ma soprattutto su come quei finanziamenti, pubblici o privati, vengono spesi. Servirebbero però misure ben più coraggiose di quelle previste dal decreto del governo. È forse troppo chiedere che gli statuti dei partiti e delle fondazioni di emanazione politica contengano nero su bianco disposizioni precise sull’uso delle loro risorse economiche e del patrimonio?

Corriere 31.12.13
Tutto quello che non ha fatto la politica del «Noi Faremo»
di Milena Gabbanelli


Il peso delle tasse, la giustizia lenta, le difficoltà di imprese e lavoratori, i tagli alla Rai A fine anno, nella vita come in tv, si replica. Il capo dello Stato fa il suo discorso, quello del governo ricicla le dichiarazioni di sei mesi fa in occasione del decreto del fare, con l’enfasi di un brindisi: «Faremo». Vorremmo un governo che a fine anno dica «abbiamo fatto» senza dover essere smentito. Il ministro Lupi fa l’elenco della spesa: 10 miliardi per i cantieri, «saranno realizzate cose come piazze, tutto ciò di cui c’è un bisogno primario». C’è un bisogno primario di piazze e di rotatorie? «Trecentoventi milioni per la Salerno-Reggio Calabria». Ancora fondi per la Salerno Reggio-Calabria? Fondi per l’allacciamento wi-fi. Ma non erano già nel piano dell’Agenda digitale? E poi la notizia numero uno: «Le tasse sono diminuite». Vorrei sapere dal premier Letta per chi sono diminuite, perché le mie sono aumentate, e anche quelle di tutte le persone che conosco o che a me si rivolgono. È aumentata la bolletta elettrica, l’Iva, l’Irpef, la Tares. L’acconto da versare a fine anno è arrivato al 102% delle imposte pagate nel 2012, quando nel 2013 tutti hanno guadagnato meno rispetto all’anno prima. Certo l’anno prossimo si andrà a credito, ma intanto magari chiudi o licenzi. E tu Stato, quando questi soldi li dovrai restituire dove li troverai? Farai una manovra che andrà a penalizzare qualcuno.
I debiti della pubblica amministrazione con le imprese ammontano a 91 miliardi. A giugno il governo dichiara: «Stanziati 16 miliardi». È un falso, perché quei 16 miliardi sono un prestito fatto da Cassa depositi e prestiti agli enti locali. E per rimborsare questo mutuo, i Comuni, le Province e Regioni hanno aumentato le imposte. L’assessore al Bilancio della Regione Piemonte in un’intervista a Report ha detto: «Per non caricare il pagamento dei debiti sui cittadini, si doveva tagliare sul corpo centrale delle spese del governo, e se non si raggiungeva la cifra… non so... vendo la Rai!».
Privatizzare la Rai è un tema ricorrente. Nessun Paese europeo pensa di vendersi il servizio pubblico perché è un cardine della democrazia non sacrificabile. In nessun Paese europeo però ci sono 25 sedi locali: Potenza, Perugia, Catanzaro, Ancona. In Sicilia ce ne sono addirittura due, a Palermo e a Catania, ma anche in Veneto c’è una sede a Venezia e una a Verona, in Trentino Alto Adige una a Trento e una a Bolzano. La Rai di Genova sta dentro a un grattacielo di 12 piani… ma ne occupano a malapena 3. A Cagliari invece l’edificio è fatiscente con problemi di incolumità per i dipendenti. Poi ci sono i centri di produzione che non producono nulla, come quelli di Palermo e Firenze. A cosa servono 25 sedi? A produrre tre tg regionali al giorno, con prevalenza di servizi sulle sagre, assessori che inaugurano mostre, qualche fatto di cronaca. L’edizione di mezzanotte, che è una ribattuta, costa 4 milioni l’anno solo di personale. Perché non cominciare a razionalizzare? Se informazione locale deve essere, facciamola sul serio, con piccoli nuclei, utilizzando agili collaboratori sul posto in caso di eventi o calamità, e in sinergia con Rai news 24. Non si farà fatica, con tutte le scuole di giornalismo che sfornano ogni anno qualche centinaio di giornalisti! Vogliamo cominciare da lì nel 2014? O ci dobbiamo attendere presidenti di Regione che si imbavagliano davanti a viale Mazzini per chiedere la testa del direttore di turno che ha avuto la malaugurata idea di fare il suo mestiere? È probabile, visto che la maggior parte di quelle 25 sedi serve a garantire un microfono aperto ai politici locali.
Le Regioni moltiplicano per 21 le attività che possono essere fatte da un unico organismo. Prendiamo un esempio cruciale: il turismo. Ogni regione ha il suo ente, la sua sede, il suo organico, il suo budget, le sue consulenze, e ognuno si fa la sua campagna pubblicitaria. La Basilicata si fa il suo stand per sponsorizzare Metaponto a Shanghai. Ognuno pensa a sé, alla sua clientela (non turistica, sia chiaro) da foraggiare. E alla fine l’Italia, all’estero, come offerta turistica, non esiste.
Dal mio modesto osservatorio che da 16 anni verifica e approfondisce le ricadute di leggi approvate e decreti mai emanati che mettono in difficoltà cittadini e imprese, mi permetto di fare un elenco di fatti che mi auguro, a fine 2014, vengano definitivamente risolti.
Punto 1. La ridefinizione del concetto di flessibilità. Chi legifera dentro al palazzo forse non conosce il muro contro cui va a sbattere chi vorrebbe dare lavoro, e chi lo cerca. Un datore di lavoro (che sia impresa o libero professionista) se utilizza un collaboratore per più di un mese l’anno, lo deve assumere. Essendo troppo oneroso preferisce cambiare spesso collaboratore. Il precario, a sua volta, se offre una prestazione che supera i 5.000 euro per lo stesso datore di lavoro, non può fare la prestazione occasionale, ma deve aprire la partita Iva, che pur essendo nel regime dei minimi lo costringe comunque al versamento degli acconti; inoltre deve rivolgersi a un commercialista per la dichiarazione dei redditi, perché la norma è di tre righe, ma per dirti come interpretare quelle tre righe, ci sono delle circolari ministeriali di 30 pagine, che cambiano continuamente. Il principio di spingere le persone a mettersi in proprio è buono, ma poi le regole vengono rimpinzate di lacci e alla fine la partita Iva diventa poco utilizzabile. Perché non alzare il tetto della «prestazione occasionale» fino a quando il precario non ha definito il proprio percorso professionale? Il mondo del lavoro non è fatto solo da imprese che sfruttano, ma da migliaia di micropossibilità che vengono annientate da una visione che conosce solo la logica del posto fisso. Si dirà: «Ma se non metti dei paletti ci troveremo un mondo di precari a cui nessuno versa i contributi». Allora cominci lo Stato a interrompere il blocco delle assunzioni e smetta di esternalizzare! Oggi alle scuole servono 11 mila bidelli che costerebbero 300 milioni l’anno. Lo Stato invece preferisce dare questi 300 milioni ad alcune imprese, che ricavano i loro margini abbassando gli stipendi (600 euro al mese) e di conseguenza i contributi. Che pensione avranno questi bidelli? In compenso lo Stato non ha risparmiato nulla… però obbliga un libero professionista o una piccola impresa ad assumere un collaboratore che gli serve solo qualche mese l’anno. Il risultato è un incremento della piaga che si voleva combattere: il lavoro nero.
Punto 2 . Giustizia. Mentre aspettiamo di vedere l’annunciata legge che archivia i reati minori (chi falsifica il biglietto dell’autobus si prenderà una multa senza fare 3 gradi di giudizio), occorrerebbe cancellare i processi agli irreperibili. Oggi chi è beccato a vendere borse false per strada viene denunciato; però l’immigrato spesso non ha fissa dimora, e diventa impossibile notificare gli atti, ma il processo va avanti lo stesso, con l’avvocato d’ufficio, pagato dallo Stato, il quale ha tutto l’interesse a ricorrere in caso di condanna. Una macchina costosissima che riguarda circa il 30% delle sentenze dei tribunali monocratici, per condannare un soggetto che «non c’è». Se poi un giorno lo trovi, poiché la legge europea prevede il suo diritto a difendersi, si ricomincia da capo. Perché non fare come fan tutti, ovvero sospendere il processo fino a quando non trovi l’irreperibile? Siamo anche l’unico Paese al mondo ad aver introdotto il reato di clandestinità: una volta accertato che tizio è clandestino, anziché imbarcarlo subito su una nave verso il suo Paese, prima gli facciamo il processo e poi lo espelliamo. Una presa in giro utile a far credere alla popolazione, che paga il conto, che «noi ce l’abbiamo duro».
Punto 3 . L’autorità che vigila sui mercati e sul risparmio. Dal 15 dicembre, scaduto il mandato del commissario Pezzinga, la Consob è composta da soli due componenti. La nomina del terzo commissario compete al presidente del Consiglio sentito il ministro dell’Economia e avviene con decreto del presidente della Repubblica. Nella migliore delle ipotesi ci vorranno un paio di mesi di burocrazia una volta che si saranno messi d’accordo sul nome. Ad oggi l’iter non è ancora stato avviato e l’Autorità non assolve il suo ruolo indipendente proprio quando si deve occupare di dossier strategici per il futuro economico-finanziario del Paese come Mps, Unipol-Fonsai e Telecom. Di fatto Vegas può decidere come vigilare sui mercati finanziari e sul risparmio, direttamente da casa, magari dopo essersi consultato con Tremonti (che lo aveva a suo tempo indicato), visto che il voto del presidente vale doppio in caso di parità, e i commissari hanno facoltà di astensione. Perché il Governo non si è posto il problema qualche mese fa, e perché non si è ancora fatto carico di una nomina autorevole, indipendente e in grado di riportare al rispetto delle regole?
Punto 4 . Ilva. È alla firma del capo dello Stato il decreto «terra dei fuochi», dentro ci hanno messo un articolo che autorizza l’ottantenne Commissario Bondi a farsi dare i circa 2 miliardi dei Riva sequestrati dalla Procura di Milano. Ottimo! Peccato che non sia specificato che quei soldi devono essere investiti nella bonifica. Inoltre Bondi è inadempiente, ma il decreto gli dà una proroga di altri 3 anni, e se poi non sarà riuscito a risanare, non è prevista nessuna sanzione. Nel frattempo che ne è del diritto non prorogabile della popolazione a non respirare diossina? Ovunque, di fronte a un disastro ambientale, si sequestra, si bonifica e i responsabili pagano. Per il nostro governo si può morire ancora un po’.
Come contribuente e come cittadina non mi interessa un governo di giovani quarantenni. Pretendo di essere governata da persone competenti e responsabili, che blaterino meno e ci tirino fuori dai guai. Pretendo che l’età della pensione valga per tutti, che il rinnovo degli incarichi operativi non sia più uno orrendo scambio di poltrone fra la solita compagnia di giro. Pretendo di essere governata da una classe politica che non insegni ai nostri figli che impegnarsi a dare il meglio è inutile.

l’Unità 31.12.13
Vincenzo Visco
«Mps è tecnicamente fallita nazionalizzarla è l’unica strada»
di Bianca Di Giovanni


il Fatto 31.12.13
Città nel baratro
Cartoline dal teatro dell’assurdo. Capitale nuda, tra fachiri e maiali
di Elisabetta Ambrosi


L’ultima cartolina dell’assurdo è stata quella del turista di Novara minacciato per non aver lasciato un’offerta dopo l’occhiata lanciata al fachiro vivente in via Fori imperiali. La penultima, quella del corteo funebre del ladro di monetine Roberto Cercelletta, in arte D’Artagnan, il cui feretro è stato portato lo scorso 28 dicembre fin sotto la Fontana di Trevi sotto gli occhi allibiti dei residenti. “Hanno fatto i funerali di Stato per amministratori pubblici e politici ladri, perché non per lui?”, scherzava qualcuno.
E proprio questa è la verità di Roma, la Capitale della resistenza umana.
DOVE l’allegro folklore – i centurioni e la pizza con le cozze, le carrozzelle coi cavalli e i pullman a due piani che fanno tremare palazzi millenari – non è che l’altra faccia di un’apocalittica deregulation. Che però, non ha nulla di casuale, ma nasce dritta e intenzionale, da chi Roma l’ha amministrata in questi ultimi anni dimenticandosi di essere romano, e mutandosi in barbaro pronto al saccheggio. Dove c’è un fenomeno, quello che il turista, o il cittadino inconsapevole, fotografo o vede ignaro, c’è sempre un noumeno, cioè una causa, e assai poco metafisica: cattiva gestione, corruzione, conflitto di interessi.
Prendi un caffè in uno dei tanti dehors nelle piazze storiche? Di sicuro sei seduto su un tavolino selvaggio, del tutto abusivo (e tanto di cappello all’assessora Marta Leonori che sta sfidando interessi milionari). Preferisci un panino di uno dei camion bar accanto ai monumenti o un cartoccetto di caldarroste? Soldi dritti nelle tasche della famiglia Tredicine, vicina ad Alemanno, arrivata, come per magia, ad avere il monopolio di licenze che valgono oro. Ma il peggio arriva quando non si è turisti. Provate voi a giocare alla lotteria metropolitana, col rischio che la metro si guasti e dobbiate fare il trenino tra i binari per arrivare alla banchina. Oppure, peggio, aspettare un torpedone pubblico lumaca, con rispetto degli animaletti, sotto la pioggia (“pensilina” non è parola romana), nei giorni alterni in cui non c’è lo sciopero, scrutando l’orizzonte in attesa della sagoma amata che non rechi la scritta “deposito” o le cui porte possano aprirsi senza schiacciare i malcapitati.
Ovvio che Roma sia invasa ogni giorno da oltre cinquecentomila scooter, sopra i quali puoi vedere di tutto, dagli animali e gli armadi alla nonnetta decrepita o l’infante neonato. Anche se il vento ideologico soffia a favore dell’orgoglio ciclista (quelle private, perché quelle pubbliche le hanno rubate tutte), e bikers e motobikers si odiano, entrambe le categorie finiscono per condividere le barelle delle ambulanze (insieme ai pedoni, visto che ormai per capire se quelle chiazze biancastre siano strisce pedonali c’è bisogno di un esegeta). Le buche? Quelle sono preistoria. A Roma oggi siamo nell’era delle voragini.
IMBOTTIGLIATI nelle macchine, dove si invecchia, nascono bambini, talvolta si muore, stretti tra torpedoni e manifestanti (ormai la maggioranza della popolazione romana), anche i più garantisti tra i romani si chiedono, pensando all’azienda modello Atac, se qualche volta saranno loro, gli ex manager, a pagare, invece di ricevere buonuscite milionarie. O se i raccomandati di Parentopoli, in pratica gli abitanti di una piccola città, un giorno verranno cortesemente invitati alla porta. Oppure, anche, se ci saranno condanne per l’allegra e criminale spartizione dei fondi della metro C.
Un simile pensiero balena nella mente dei romani – sempre più incattiviti e soprattutto più poveri, tanto che ormai i cartelli delle vetrine sono scritti in giapponese e russo – anche quando vanno a buttare la spazzatura in cassonetti semirotti, dove tutto è indifferenziato. E che vuoi che sia se incontri un maiale tra i bidoni, a pensare a come è stata gestita l’Ama in questi anni, mentre molti dirigenti dell’era Panzironi sono ancora al loro posto. La risposta è sempre quella: a pagare il buco, e la demagogia non c’entra, qui siamo alla lettera, non è mai chi la fossa l’ha scavata.
Ma non è neanche questo il peggio: perché se l’amministrazione illuminista di Ignazio Marino fallirà il suo compito, Roma sarà per sempre insalvabile. E allora i romani pagheranno di buon grado l’aumento del biglietto e delle strisce blu, quello Irpef, il più alto d’Italia, pagheranno l’Imu e la Tasi, una Tares stellare per i tanti (dis)servizi. Solo una cosa chiedono: che almeno non li si prenda per i fondelli, cinguettando su Twitter, come ha fatto il premier Letta, che le tasse sono finalmente scese.

il Fatto 31.12.13
Roma
Caos in corsia “Ho partorito in bagno”


Una donna italiana di circa 30 anni, K. S., ha denunciato alla Procura di Roma di aver perso il suo neonato dopo essere stata abbandonata dai medici fuori dalla sala operatoria al momento del parto. Un’attesa – secondo la denuncia – durata oltre un’ora, dalle 19:39 alle 20:53. Poi la resa e la richiesta di essere trasferita all’ospedale più vicino, il Grassi di Ostia. Lì la donna è stata portata in sala parto per l’intervento. Troppo tardi: il bambino è nato morto. Il procuratore aggiunto Leonardo Frisani ha aperto un’inchiesta con l’ipotesi di omicidio colposo. I vertici dell’ospedale smentiscono questa ricostruzione dei fatti. La direttrice sanitaria Piera Spada racconta una versione diversa: “L’unica K.S. di cui risulta l’accesso in questa struttura nell’ultimo periodo è una donna che aveva chiesto il ricovero dopo un aborto spontaneo, che non è avvenuto al Sant’Eugenio. In questo ospedale non c’è nessuna emergenza: se arriva una donna che deve partorire, viene assistita subito”. Anche dall’ospedale Pertini – come scrive Repubblica – arriva una storia raccapricciante. Un giovane padre racconta il salvataggio “miracoloso” del figlio appena nato, nella notte tra sabato e domenica: lo ha raccolto direttamente dal grembo materno, prima che battesse la testa sul pavimento del bagno dell’ospedale, dove la moglie – trascurata da medici e infermiere – si era rifugiata in preda ai dolori del travaglio. Dalla direzione del Pertini è arrivato uno scarno comunicato: “È in corso un’indagine interna”.

il Fatto 31.12.13
Nuovi barbari. Gli squadristi della Rete
I social sono sempre più ring senza regole
Ultimo caso quello di Caterina Simonsen attaccata dagli animalisti
di Elisabetta Ambrosi


Il tweet più paradossale l’ha mandato Roberto Formigoni. Che criticando il web, mentre lo utilizzava, e usando un linguaggio d’antan, ha però azzeccato la sostanza: “Nella rete sono attivi autentici farabutti, come chi ha minacciato di morte Caterina”. Perché la vicenda in cui è finita Caterina Simonsen, la ragazza affetta da una combinazione di quattro malattie rare che ha ricevuto 30 minacce di morte e 500 insulti sulla sua pagina Facebook per aver postato la sua foto e una frase (“Sono viva grazie anche alla sperimentazione sugli animali, altrimenti sarei morta a nove anni”) racconta moltissimo di come Facebook sia diventato una piazza pubblica - altro che bacheca privata - in cui l’esposizione è massima. E dove, come ha scritto qualcuno su Twitter, è molto difficile, se non impossibile, “discutere decentemente e razionalmente di qualcosa”.
Certo che fanno impressione gli insulti ricevuti da Caterina. I primi, molto violenti (“Magari fossi morta a nove anni”), cui è seguita una coda velenosa tra i commenti dei vari articoli usciti sulla sua storia, tra cui questo: “Siamo troppi a questo mondo, se muore qualche umano e poi se è pure gravemente malato non fa niente, meglio preservare gli animali che l’uomo che non è in pericolo di estinzione”.
E DUNQUE È NORMALE che si scateni la gara di solidarietà, con Renzi che lancia l’hashtag #iostocon-Caterina, i cattolici come Giovanardi pronti a sfruttare l’occasione per ribadire il loro antropocentrismo conservatore, oppure il regista Muccino che manda un tweet dall’effetto quasi comico (“Dante morì di malaria. Il mondo va avanti”).
Solo che il rischio paradossale di tante reazioni indignate è un aumento della confusione. Perché il problema della vicenda di Caterina non è tanto sapere chi ha la verità: se quelli che difendono le ragioni di chi fa ricerca, e l’uso delle cavie animali, o le associazioni animaliste come l’Aidaa (che si è dissociata dagli insulti), le quali fanno pure la loro legittima battaglia, come avviene in democrazia. Il punto è capire che chi decide di mostrare il suo corpo malato su Facebook, proprio come nella tradizione dei radicali, ma trasferita sui social media, fa un atto pubblico, quasi politico. Che serve moltissimo, contrariamente a quanto ha sostenuto la biologa animalista Susanna Penco, che suggerisce fotografie col sorriso e senza flebo; ma rischia di produrre un’esposizione enorme e a volte insostenibile (come i tanti suicidi degli adolescenti hanno dimostrato in questi ultimi mesi). Specie quando poi, di rimbalzo, gli altri media riprendono la vicenda, magari in tono compassionevole: foto enormi sui quotidiani di lei con la mascherina del respiratore, il Tg1 che parla di “coraggio che fa commuovere e riflettere”, poi sbaglia e dice che “è debole e non può parlare”, scatenando un’altra ondata di panico (social)mediatico.
CATERINA ha chiesto riservatezza e silenzio, dopo gli attacchi sua mamma ha dichiarato che “questa vicenda non facilita le cose in un momento difficile”. Come darle torto, vista soprattutto la facilità dell’insulto codardo nascosto da nickname. Ma forse è tempo di decidere che uso fare dei social media, proprio come degli altri mezzi di comunicazione. Possono essere strumenti di attivismo civile, come ha dimostrato il caso Welby e tanti altri. Il costo, però, può essere altissimo e la forza richiesta maggiore di quanto immaginato. Una verità che bisognerebbe cominciare ad assimilare.

La Stampa 31.12.13
“Basta accuse, dietro di me nessuna lobby farmaceutica”
Caterina, la 25enne malata che difende i farmaci testati su animali
intervista di Antonio Pitoni

qui

Corriere 31.12.13
La Scienza, gli animali e i diavoli in bottiglia
di Gian Arturo Ferrari


La questione sollevata da Caterina Simonsen è una bottiglia che contiene molti diavoli. Siamo passati dal considerare gli animali come cose e da un’idea di legittimità dello sfruttamento, al riconoscerli come soggetti, con dignità e diritti oltre che con affetti.
A ttorno alla metà del Settecento Carl von Linné, universalmente noto come Linneo, riassunse la sua visione della natura rappresentandola come un misto tra un teatro e una piramide. Alla base le forme di vita più semplici che sostenevano (e sostentavano) gradino dopo gradino quelle via via più complesse fino ad arrivare sulla cima all’uomo. In funzione del quale tutto il macchinario era stato allestito, perché vedendolo e contemplandolo (ecco il teatro) potesse riconoscere la mano divina del suo creatore e rendergli grazie. Poco più di due secoli dopo, l’ecologismo più estremo auspica la catastrofe nucleare totale e la conseguente estinzione della specie umana, in modo da restituire il pianeta a una sua mitica, e inumana, condizione originaria, a una sua assoluta e primigenia verginità. Chi pensa che il posto dell’uomo nella natura sia una questione accademica, chi in generale non crede che la filosofia sia — com’è — la più concreta e materiale e pratica delle cose, si sbaglia di grosso.
La questione sollevata da Caterina Simonsen, con il candido coraggio di chi invece di esprimere un’opinione mette sul tavolo la propria vita, è una bottiglia che contiene molti diavoli. E molto complicati, perché mentre in alcuni casi i termini della questione sono chiari e netti, in altri sono più sfumati, ricchi di ombre e di angoli nascosti. È questo il caso del rapporto che intratteniamo con gli animali, dove siamo passati dal considerarli come cose e quindi da un’idea di legittimità dello sfruttamento in ogni sua forma, al riconoscerli come soggetti, con dignità e diritti oltre che con affetti (dati e ricevuti). Per arrivare infine a postularne una sorta di parità, in nome della comune appartenenza alla categoria, per la verità assai vasta e nebulosa, del vivente. Con effetti paradossali, dato che nell’affermazione «Noi siamo contrari all’uccisione di qualsiasi essere vivente», mentre si coglie con una certa facilità l’esuberanza emotiva, resta un po’ più difficile capire dove, quando, come e nei confronti di chi il precetto concretamente si applichi. Anche alle zanzare? Anche agli acari? Anche ai batteri? O il divieto vale da un certo livello in su? E da quale, di preciso? Viene in mente la terrorista convertita al giainismo di Pastorale americana di Philip Roth, con il suo velo davanti alla bocca per evitare il rischio di inghiottire, per sbaglio, un moscerino. Quella degli animali, del regno animale, è un’idea astratta e totalitaria quanto il teatro di Linneo. In concreto esistono animali definiti, o perlomeno categorie, non totalità. Quelli prossimi a noi, con i quali molti di noi vivono, che in generale campano assai meglio dei loro antenati. Poi quelli che vediamo, di cui siamo a conoscenza, e anche qui non si può dire in generale che le cose siano peggiorate. Infine c’è la grande maggioranza, gli animali che non vediamo, ma che — per dirla crudamente — mangiamo. Qui è avvenuta la vera trasformazione. Non è vero che li abbiamo sempre mangiati, non al ritmo di oggi. Gli uomini per millenni hanno usato gli animali primariamente come fonte energetica — per tirare, per spostare, per portare — e solo secondariamente come risorsa alimentare. Si mangiava il pollame, non certo i bovini.
Oggi, esaurita la prima funzione è restata solo la seconda. Ed ha assunto dimensioni esorbitanti e aspetti sinistri, che solo con qualche sforzo si può fingere di non vedere. Eliminarla o, forse, ridurla è un problema per un verso di igiene e di salute nostra, per un altro, e principalmente, di cultura. Non c’è dubbio che la progressiva e tendenziale eliminazione della dieta carnivora sia un bene per tutti noi e si traduca in migliori e più allungate condizioni di vita. Ma a condurre la campagna contro l’alimentazione carnea e quindi contro il quotidiano massacro di animali è quell’entità chiamata scienza. Sia attraverso il suo lavoro di documentazione e di ricerca, sia attraverso l’impegno personale di alcuni suoi esponenti illustri, tra i quali in Italia primeggia Umberto Veronesi. Questo è appunto il (diabolico) paradosso, che proprio coloro i quali più possono in concreto operare per far diminuire o cessare il massacro di animali, cioè gli scienziati, sono messi sotto accusa dagli animalisti, che li eleggono a loro principali nemici. A causa, come è noto e come Caterina Simonsen ha senza tanti complimenti rivendicato, della sperimentazione clinica e farmacologica condotta su animali. La comune ragionevolezza proprio perché ragionevole e perché comune non conta, non arriva a toccare strati profondi, convinzioni inconsapevoli, reazioni immediate e istintive. Da una parte c’è uno strato arcaico, premoderno, costituito ancor più che da diffidenza, da radicale incomprensione di che cosa sia il sapere scientifico. Invece di vedere la scienza come la frontiera mobile della conoscenza, di quel che davvero sappiamo, si trae pretesto dal suo stesso mutamento per degradarla a opinione tra tutte le altre o, peggio, ad arrogante strumento di potere. Tra i Paesi avanzati noi siamo quello in cui la scienza è tenuta in minor conto, non tanto nell’ossequio formale, quanto nella reale attribuzione di fiducia, nella reale confidenza. Non crediamo che la scienza dica la verità. Certo parziale, forse provvisoria, sempre superabile, ma verità. In uno strato ancor più profondo, preculturale, c’è qualcosa di oscuro, di sguaiato, persino di torbido. Un istinto plebeo di dissacrazione preso per desiderio di autenticità. Un agitarsi rabbioso in cerca di qualcosa su cui appuntarsi, da mordere. Un accanimento cieco, esaltato dalla solitudine collettiva della rete. Si disegna un’immagine perturbante, per certi versi terribile, di violenza macerata in segreto, nel proprio intimo, fino a un urlo liberatorio. La notoria aggressività di Homo sapiens, la nostra specie, superiore in questo a tutte le altre, non è solo quella che si esercita sugli animali da laboratorio.

Repubblica 31.12.13
La speranza di trovare un rimedio alla sofferenza
di Michela Marzano


Nella nozione di “male minore” non c’è già una sorta di promessa e di consolazione, come un adattarsi progressivo alla vulnerabilità della vita?». È con queste parole che il filosofo francese Vladimir Jankélévitch riassume il senso dell’etica, opponendosi alla radicalità di chi crede che, per occuparsi di morale, si debba sempre e comunque teorizzare il Bene. Il “bene” di chi, d’altronde? Il “bene” in base a quale concezione dell’umanità e più in generale degli esseri viventi?
La vicenda di Caterina Simonsen — dei suoi post in favore della ricerca e delle reazioni violente, talvolta anche irriverenti e oscene, che ne sono scaturite — costringe a interrogarsi ancora una volta sulla possibilità di trovare o meno un punto di equilibrio tra posizioni opposte e radicali, ossia tra tutti coloro che, in nome della ricerca e delle cure mediche, non vogliono nemmeno porsi il problema del rispetto degli animali, e quanti, animalisti convinti, rivendicano invece la necessità di mettere fine a ogni sorta di sperimentazione animale.
Come accade spesso quando si affronta un tema eticamente sensibile, siamo di fronte a un dilemma. Che fare di fronte alla sofferenza? Affermare che il ricorso alla sperimentazione sugli animali sia l’unico modo per far progredire la conoscenza, migliorare le tecniche di diagnosi e di cura delle malattie e preservare la salute, oppure non utilizzare più gli animali e rifiutare il progresso o condurre le sperimentazioni direttamente sugli umani, tirando magari a sorte per scegliere chi trasformare in cavia? Come in ogni dilemma morale, tutti sembrano avere ragione. Hanno ragione gli scienziati, i medici e i pazienti. Perché rassegnarsi all’ineluttabilità della malattia oppure sperimentare direttamente sui pazienti le nuove terapie significherebbe rinunciare alla ricerca di nuovi farmaci oppure far prendere rischi eccessivi ai malati. Il che equivarrebbe non solo a tradire la vocazione della medicina — il cui scopo è sempre e comunque il benessere dei pazienti, di ogni essere umano che cerca un sollievo al proprio dolore e ai propri disagi — ma anche a violare il principio kantiano di dignità degli esseri umani in base al quale, alla differenza delle “cose”, le “persone” hanno per definizione, in quanto persone, un valore “superiore a qualunque prezzo” e mai “quantificabile”.
Ma hanno ragione anche gli animalisti che ritengono inammissibile la sofferenza degli animali e accusano medici e pazienti di “specismo”, ossia di credere che esista una superiorità degli umani su tutti gli altri esseri viventi. Come scriveva già alla fine del Settecento Bentham, il benessere degli animali dovrebbe essere preso in considerazione allo stesso titolo di quello degli umani: «La questione non è: possono ragionare?, né: possono parlare?, bensì: possono soffrire?
». Concludendo che se un essere vivente soffre, non può esistere nessuna giustificazione morale per rifiutarsi di tener conto di questa sofferenza. Posizione ribadita recentemente dal filosofo utilitarista Peter Singer secondo il quale lo “specismo” consisterebbe nel commettere, a proposito delle specie, lo stesso genere di errore che si commette rispetto alle razze (razzismo) o al genere sessuale (sessismo).
Come uscire allora dall’impasse che pone questo evidente dilemma morale? Se ci si accontenta di contrapporre queste due concezioni del “bene”, nessuna soluzione sembra possibile. Se si ricorre invece alla nozione di “male minore”, i termini della questione cambiano e l’etica sembra suggerire una via d’uscita. Perché allora non si tratta più di contrapporre “persone” e “cose”, ma di riconoscere il fatto che gli animali, anche se non umani, sono degli esseri sensibili, dotati di capacità cognitive e emotive. Quindi possono soffrire. Anzi, sicuramente soffrono quando viene meno la consapevolezza della responsabilità che si ha nei loro confronti nel momento in cui vengono utilizzati per fini scientifici. Il rispetto non è dovuto solo agli esseri umani, ma anche agli animali, perché anche loro possiedo un “valore intrinseco”. È per questo che in molti paesi sono stati creati dei comitati etici sulla sperimentazione animale: volta per volta si identificano quelli che in gergo si chiamano gli “indicatori di sofferenza” e il “punto limite”; volta per volta si valuta, sulla base di protocolli condivisi, la “necessità” o la “futilità” delle ricerche proposte. La vita è sempre una questione di opportunità: si sceglie di fare o non fare, di andare avanti o fermarsi, di far vivere o lasciar morire. Nessuno di noi può pretendere di sapere esattamente cosa sia il “bene”, ma ognuno è portato a fare delle scelte e, spesso, anche dei sacrifici. Con la consapevolezza che, forse, l’unico sacrificio inammissibile è quello della speranza di trovare un rimedio alla sofferenza. Che si tratti degli esseri umani o degli animali.

Repubblica 31.12.13
I sonnambuli d’Europa
di Barbara Spinelli


«VERRÀ il momento in cui sbanderemo, come i sonnambuli d’Europa nell’estate 1914»: lo ha detto Angela Merkel, nell’ultimo vertice europeo, citando un libro dello storico Christopher Clark sull’inizio della Grande Guerra,tradotto in Italia da Laterza.
Isonnambuli descritti da Clark sono i governi che scivolarono nella guerra presentendo il cataclisma, simulando allarmi, ma senza far nulla per scongiurarla. Da allora sono passati quasi cent’anni, e molte cose sono cambiate. L’Europa ha istituzioni comuni, l’imperialismo territoriale è svanito (resta solo l’Ungheria di Orbàn, residuo perturbante del mondo di ieri, a proclamare compatrioti a tutti gli effetti gli ungheresi di Slovacchia, Romania, Serbia, Austria, Ucraina). Non si combatte più per spostare confini ma l’Unione non è in pace come si dice, e la crisi che traversa la sta squarciando come già nel 1913-14.
È simile lo stato d’animo dei governi: allo stesso tempo deboli e pieni di sé. Impotenti sempre, anche quando mostrano arroganza o risentimento. Gli anniversari sono un omaggio che si rende al passato per accantonarlo. Meglio sarebbe celebrarli con parsimonia. Ma sul significato di questa ricorrenza vale la pena soffermarsi, e chiedersi come mai Berlino evochi il 1914 per dire che l’euro può sfracellarsi, che se non faremo qualcosa saremo di nuovo sorpresi dal colpo di fucile che distrusse il continente. Come mai torni questo nome — iSonnambuli — che Hermann Broch scelse come titolo per una trilogia che narra lapigrizia dei sentimenti, l’indolenza vegetativa, che pervasero il primo anteguerra.
Quel che il Cancelliere non dice, ma che Clark mette in risalto, è l’inanità di simili moniti catastrofisti, l’enorme discordanza fra l’eloquio sinistro dei governanti e il loro agire ignavo, incapace di trarre le conseguenze da quel che apparentemente presagiscono.
Si comportarono da sbandati gli Stati europei, quando il 28 giugno 1914 Gavrilo Princip tirò i suoi due colpi di pistola a Sarajevo: quasi camminassero dormendo. A parole sembrava sapessero quel che stava per succedere, e però erano come incoscienti. Il dire era completamente sconnesso dai fatti, dal fare. Allo stesso modo gli Stati odierni davanti alla crisi, quando recitano la giaculatoria sul baratro che perennemente sta aprendosi, e non fanno il necessario per allontanare l’Unione da quell’orlo ma anzi l’inchiodano sul bordo, sbrindellata e tremante com’è, senza governo né comune scopo, come se questa fosse l’ideale terapia per tenere vigili gli Stati, per dilatare le angosce dei cittadini, per non provocare la rilassatezza (il «rischio morale», lo chiamano i custodi dell’Austerità) che affligge chi, troppo rassicurato, smette il rigore dei conti.
Proprio come fa la Merkel, quando vaticina l’»esplosione dell’euro» e incrimina l’indolenza dell’Europa dormiente. L’accenno ai baratri, sempre miracolosamente sventati, è divenuto un trucco di governanti impotenti, inetti, che usano il linguaggio apocalittico e le paure dei popoli immiseriti «al solo scopo di restare titolari della gestione della crisi». Lo dice l’ultimo rapporto del Censis: non è «con continue chiamate all’affanno», né con la «coazione alla stabilità», che si ricostruirà una classe dirigente. Impossibile ridivenire padroni del proprio destino se gli Stati fingono sovranità già perdute e si consolano facilmente, come in Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori».
Terribilmente simili all’oggi che viviamo furono i prodromi della Grande Guerra. Verso la fine del luglio ‘14, poco dopo Sarajevo, il premier inglese Asquith preannuncia l’»Armageddon»: il luogo dell’Apocalisse dove tre spiriti immondi radunano i re della terra. Gli fa eco Edward Grey, ministro degli Esteri: «La luce si sta spegnendo su tutta Europa: non la vedremo più riaccendersi nel corso della nostra vita». In realtà gli inglesi avevano altri tormenti in quelle ore — non l’Europa ma l’autonomia dell’Irlanda — e poco si curavano del disastro continentale che profetizzavano.
Anche Churchill utilizzerà più tardi la metafora millenaristica del buio che irrompe: «Una strana luce cominciò a cadere sulla carta d’Europa». Quanto ai generali russi e francesi, le parole ricorrenti quell’estate erano «guerra di sterminio», «estinzione della civiltà». Sapevano dunque — conclude Clark — ma la sapienza scandalosamente girava a vuoto: «Questa la cultura politica comune a tutti i protagonisti». Il ‘14-18 non è un giallo di Agatha Christie, col colpevole scovato nell’ultimo capitolo: la primaria colpa tedesca, fissata nell’articolo 231 del Trattato di Versailles, è invenzione dei vincitori. Il ‘14-18 fu una tragedia «multipolare e autenticamente interattiva ».
All’origine di questo voluto e fatale divaricarsi tra parole e presa di coscienza: l’ignoranza che ogni Stato mostrava per i patemi storici dell’altro. Ignoranza inglese dell’ossessione russa, ostile con i serbi all’impero austroungarico e ottomano. Ignoranza della Germania in ascesa. E accanto all’ignoranza: la flemma, l’abissale disinteresse per quello che la Serbia significava agli occhi d’un impero asburgico dato anzitempo per morto. Infine il fatalismo: la guerra era forse invisa, ma ritenuta inevitabile. Così l’Europa sbandò verso l’inutile strage denunciata da Benedetto XV.
Ricordando la leggerezza disinvolta narrata da Clark, la Merkel commette gli stessi errori, quasi credesse e non credesse in quel che dice. Anche nel ‘14 mancò l’immaginazione: quella vera, non parolaia. Gli europei erano immersi in una prima globalizzazione. Come poteva sgorgare sangue dal dolce commercio? Poteva invece, perché il mito delle sovranità assolute scatenò i nazionalismi e produsse non uno ma due conflitti: una lunga guerra di trent’anni. Solo dopo il ‘45 capirono, creando la Comunità europea.
Ora siamo di nuovo in piena discrepanza tra parole e azioni, e tutti partecipano alla regressione: compresi gli sfiduciati, i delusi pronti a disfarsi di un’Europa che non è all’altezza della crisi. È diffuso l’anelito a sovranità comunque inesistenti, e il sonnambulismo riappare con il suo corteo di irresponsabilità, ignoranza, patriottismi chiamati difensivi. Come allora, a trascinarci in basso sono i governi ma anche una cultura politica comune. Ecco la modernità brutale del 1914, scrive Clark. Anche i popoli — spogliati di diritti, disinformati — barcollano sperduti fantasticando recinti nazionali eretti contro l’economia-mondo. Credono di contestare i governi. Sono in realtà complici, quando non esigono un’altra Europa: forte e solidale anziché serva dei mercati. Il pericolo, tutti lo sentono per finta. Dice ancora Broch: «Solo chi ha uno scopo teme il pericolo, perché teme per lo scopo».
Da anni siamo abituati a dire che l’Europa federale ha perso senso, col finire delle guerre tra europei. Ne siamo sicuri? La povertà patita da tanti paesi dell’Unione sveglia risentimenti bellicosi. E la mondializzazione non garantisce pace, come ammoniva già nel 1910 Norman Angell, nel libro La grande illusione.L’internazionalizzazione dell’economia rendeva «futili le guerre territoriali», questo sì. Ma intanto ciascuno correva al riarmo.
Oggi la Grande Illusione è pensare che il ritorno dell’equilibrio fra potenze assicuri nell’Unione il dominio del più forte, più stabile. Ma Darwin è inservibile in politica, e mortifera per tutti è la lotta europea per la sopravvivenza. Nel rapporto tra Usa e Israele, o tra Cina e Nord Corea, sono decisivi i piccoli, i più dipendenti: esattamente come cent’anni fa fu decisiva la Serbia panslavista, rovinosamente sostenuta dalla Russia. La forza fisica che Angell giudicava futile, e però letale, è quella dello Stato-nazione che s’illude di fare da sé, piccolo o grande che sia. La lezione del ‘14 non è stata ancora imparata.

il Fatto 31.12.13
Il rabbino Abraham Skorka
“A maggio porterò Bergoglio a Gerusalemme”
di Marco Politi


RETTORE del seminario rabbinico latino-americano e guida della sinagoga Benei Tikva, la più celebre di Buenos Aires, Abraham Skorka è grande amico di Papa Francesco. “Abbiamo un rapporto costante”

Buenos Aires. L’anno prossimo a Gerusalemme! ”, suona il tradizionale augurio ebraico. Il 2014 sarà la seconda volta che un papa cattolico si troverà nella Capitale delle tre religioni in compagnia del suo amico ebreo. Se Karol Wojtyla era il primo pontefice ad avere un grande amico d’infanzia ebreo – Jerzy Kluger – e altri erano finiti nei campi di concentramento nazisti o emigrati in Israele, Jorge Mario Bergoglio ha nella sua biografia l’amicizia stretta con un rabbino ebraico: Abraham Skorka, rettore del Seminario rabbinico latino–americano e guida della sinagoga Benei Tikva, la più celebre di Buenos Aires. Insieme si stanno preparando al viaggio di papa Francesco a Gerusalemme, che probabilmente si svolgerà a maggio e per il pontefice argentino sarà il più importante del 2014. L’amicizia fra i due è qualcosa di molto speciale, che va molto al di là dei “rapporti interreligiosi”, e vale la pena di raccontarla.
Rabbino Abraham Skorka, allora è deciso: a maggio sarete insieme a Gerusalemme con Francesco?
Sì, a Gerusalemme. Adesso i rispettivi responsabili degli affari esteri di Vaticano e Israele stanno definendo la data precisa e i dettagli di protocollo per dare l’annuncio ufficiale. Papa Francesco è portatore di una grande esperienza spirituale e penso che in questa occasione possa trasmettere un profondo messaggio di pace.
Ha sentito il Papa in questi giorni?
Siamo in contatto costante. Sogniamo che questo viaggio si possa concretizzare.
Lei è stato uno dei primi che Francesco ha chiamato dopo l’elezione.
Squilla il telefono e sento: “Ola, come va? Parla Bergoglio. Qui a Roma mi hanno acchiappato e non mi lasciano tornare”.
Come è nata l’amicizia tra di voi?
Ci siamo incontrati in cattedrale in occasione del Te Deum nel “Giorno della Patria”.
In un tempio cristiano? Da noi e in altri Paesi ho visto che le delegazioni religiose ebraiche non entrano in edifici dove c’è il crocifisso.
Sì, so che c’è questa discussione sulle immagini. Ma da noi in Argentina è tradizione assistere al Te Deum per la festa nazionale e comunque ci sono varie analisi in proposito. Molti autorevoli rabbini, a partire dal XX secolo, ritengono che queste immagini non siano espressioni pagane e dunque si può presenziare.
Era un’occasione ufficiale, ma il rapporto è cresciuto.
Abbiamo partecipato ad alcune iniziative insieme e penso che l’amicizia sia nata perché non ci mettevamo soltanto l’elemento intellettuale, ma un fuoco da cui traspariva la passione del fattore religioso.
Un rabbino ebreo e un arcivescovo cattolico: cosa avevano in comune da dire?
Per noi due il dialogo interreligioso non significava sedersi a un tavolo e analizzare cerebralmente differenze e similitudini delle due religioni. Ha rappresentato lo sforzo di cercare insieme appassionatamente, all’interno delle nostre tradizioni, un messaggio a più sfaccettature, che servisse da base per un cammino di concordia per la nostra gente. Così, dalla passione è nato l’affetto.
Dovesse descrivere la personalità di Bergoglio?
Ha la dote della sincerità. Ha una maniera diretta di dire le cose. E se dice, fa.
Qual è la visione che il Papa ha del popolo ebraico?
Lui è un fedele seguace del Concilio Vaticano II, che con il documento Nostra Aetate ha chiarito molto bene cosa significhi il popolo ebraico per il cristianesimo. Bergoglio vede nel popolo ebraico la radice del cristianesimo e crede che il popolo ebraico di quel tempo continuiamo a essere noi.
E lei come vede la storia?
Rispetto al giudaismo rabbinico dell’epoca appare che Gesù nasce da lì. Da lì nasce un ramo nuovo del giudaismo, ma il tronco è il popolo ebreo.
Bergoglio è stato nella vostra sinagoga di Benei Tikva.
Due volte. Ha parlato dal pulpito. In un’occasione ha portato un messaggio di saluto per il Nuovo Anno ebraico.
E il rabbino Skorka?
Ho tenuto, su suo invito, una lezione sul tema della profezia agli studenti del seminario maggiore. Alla fine mi disse: “È stata molto importante questa lezione”. Perché non possiamo ignorare le barriere, che per molto tempo ci sono state tra ebrei e cattolici. In Argentina c’è una pratica di convivenza tra ebrei e cattolici nella società, ma quando si arriva al tema religioso vi sono ostacoli teologici e rifletterci dal vivo per questi seminaristi era importante.
Pensavate di avere valori comuni da annunciare?
Abbiamo lavorato per trasmettere insieme un messaggio di rispetto, fratellanza e dialogo in una società che da un lato prova fastidio e indifferenza per Dio e dall’altro ha drammaticamente necessità di Dio.
Un vostro lungo colloquio è stato anche trascritto in un libro, “Il Cielo e la Terra” tradotto anche in italiano. Colpisce la vostra attenzione verso gli atei.
Ci siamo sempre confrontati con tutte le posizioni, senza demonizzazioni. Tenevamo sempre presenti i valori degli umanisti, che in essenza sono molto somiglianti ai nostri. Bisogna cercare di capire l’altro, ognuno va rispettato per quello che è.
Esiste una metodologia del dialogo?
Dialogare mantenendo la propria identità e apprendere insieme dall’esperienza esistenziale. In questo modo, partendo dalla prospettiva della Bibbia, potevamo parlare alla società. Di tutto: la famiglia, le relazioni, i problemi economici, l’Argentina, il mondo.
A Gerusalemme sarà di nuovo a fianco del Papa. Cosa spera da questo viaggio?
Vorrei che fosse il momento conclusivo di tante cose fatte insieme. Vorrei che arrivando insieme davanti al Muro del Pianto, potessimo abbracciarci lì come momento culminante del lungo cammino percorso insieme. E che molti vedano che si chiude la stagione di duemila anni di incontro mancato tra ebrei e cristiani.
Papa Wojtyla sognava che un giorno gli esponenti delle tre religioni abramitiche – ebrei, cristiani, musulmani – si potessero incontrare sul Monte Sinai per pregare insieme.
Più che sul Sinai mi piacerebbe a Gerusalemme. Il mio sogno è che Francesco convochi i rappresentanti delle tre religioni per pregare insieme per la pace nella regione e nel mondo. Sarebbe importante che fosse lui a riunirli e che i leader delle religioni mostrassero il cammino all’umanità. La figura di Francesco trascende la Chiesa cattolica.
In questi mesi sono in corso i negoziati riservati tra israeliani e palestinesi.
È un processo. Ci sono molti problemi politici, che non credo si possano risolvere immediatamente. Ma bisogna agire in base alla decisione profonda che non ci deve essere più guerra e odio tra i due popoli. Ed è necessario che ognuno cerchi di considerare le richieste dell’altro.

l’Unità 31.12.13
Si spacca il governo in Israele su annessione del Giordano
di Ro. Ar.


il Fatto 31.12.13
Reportage dalla Striscia
Gaza: tra fango, guerra e barbiturici
di Fabio Bucciarelli


Gaza. Hasan Al Malalha è avvolto nella sua kefiah rossa e con i sandali immersi nella melma; ci mostra il suo oro, la sua vera fortuna e speranza, il suo piccolo allevamento di animali, quasi tutti dromedari e quasi tutti deturpati da un’alluvione che ha messo in ginocchio la Striscia di Gaza. Il bramito degli animali viene trasportato da una furia eolica lungo il Wadi, la valle beduina nei pressi di Gaza City dove più di mille persone vivono da giorni isolate e immerse in un fango acquitrinoso dove anche i muri delle case piangono umidità.
Gli impianti di scarico idrico sono collassati, l’acqua ha invaso le diverse città e obbligato i numerosi gazawi a scappare dalle proprie abitazioni e a muoversi in barca lungo le strade dove il livello dell’acqua è arrivato fino a tre metri.
Anche gli Dei sembrano avere voltato le spalle a Gaza, e oramai da troppo tempo. Ciò non basta ad Hasan per smettere di credere, di sognare che il suo dio possa ancora cambiare il destino dei suoi figli. Anzi, crede sempre di più e sempre in modo più incondizionato. Non è lo spirito natalizio, ma la speranza che Allah possa risollevarli e ridargli la loro terra.
Paradosso: durante i conflitti arrivano più risorse
Non amo i pregiudizi, nemmeno quello del cattivo israeliano, quindi dopo avere girovagato per più di due anni in lungo e in largo per i Paesi arabi, decido di andare a Gaza per cercare di capire qualcosa di più sulla secolare condizione palestinese. Nella Striscia non c’è la disperazione degli esuli tunisini, non ci sono i bombardamenti incontrati ad Aleppo e nemmeno la neve che assidera i profughi siriani. Non c’è la povertà egiziana e non ci sono le diatribe curde. Negli occhi di Hasan si incontra la dignità e la rassegnazione di un milioneseicentomila abitanti – una delle aree più popolate del pianeta – che vivono in una prigione affacciata sul Mediterraneo. I gazawi vivono da più di 60 anni senza la possibilità di uscire dai propri confini, all’interno di un lembo di terra dove il deterioramento delle condizioni di vita aumenta giorno dopo giorno; vivono con la paura e con speranza di un conflitto, nell’attesa che Israele decida di attaccare per ridare per qualche tempo una nuova speranza a Gaza.
Anche il giovane Ahmed, il nostro fixer, il riferimento in loco per i reporter, mi dice e ripete “quando c’è la guerra, se non muori vivi meglio. Arriva petrolio torna la luce e i viveri”. Sembra un paradosso vivere nell’attesa di un conflitto per stare meglio, ma è quello che succede qui a Gaza, dove il costo della benzina negli ultimi mesi è raddoppiato, le ore di luce variano da 6 a 8 al giorno e ora l’alluvione ha rovinato le poche coltivazioni e impregnato le speranze palestinesi di acqua fognaria.
Il Tramadol: “Mi rilassa e fa sentire meglio”
Dopo la caduta di Morsi e dei Fratelli Musulmani, il nuovo Egitto, un paese che dovrà sperare nel magnanimo Allah per evitare una prossima guerra, ha deciso di chiudere il confine di Rafah con la Palestina e quindi togliere loro anche l’ultima finestra sul mondo. Il frutto della chiusura del valico ha avuto un effetto a catena sui prezzi dei prodotti e soprattutto su quello del petrolio. Contemporaneamente, anche diversi tunnel clandestini che univano la Striscia con l’Egitto sono stati chiusi e lo stesso Hamas, controllato dai sistemi satellitari israeliani, fatica a farne di nuovi. Sfortunatamente i problemi non finiscono qui: all’embargo dei paesi confinanti si aggiunge quello delle risorse idriche e la scarsità di acqua. Un ulteriore paradosso che affligge lo sfortunato limbo di terra bagnato dal mare: dai lavandini esce acqua salata di un colore ocra sporco, non esiste un vero impianto di dissalazione funzionante e le quantità di nitrati e di cloruro presenti, componenti principali dei fertilizzanti, sono circa dieci volte superiori ai limiti imposti dall’Organizzazione mondiale della Sanità. È previsto che, a meno di un rinnovamento delle rete idrica, per il 2016 Gaza rimarrà senza acqua, quindi senza vita. Nonostante i diversi quartieri siano sepolti dalle alluvioni, l’acqua continua a mancare mentre l’embargo israeliano sta lentamente logorando il paese e sgretolando la mente delle persone.
“Con la chiusura di Rafah è difficile anche trovare il Tramadol, ma forse oggi ho incontrato un ragazzo che riesce a farmi avere delle pillole” mi confida Ahmed con lo sguardo lucente dopo avermi descritto la situazione di dipendenza che una grande fetta della popolazione ha verso i barbiturici. “Mi rilassa e fa sentire meglio”.

l’Unità 31.12.13
La Francia approva la «tassa sui ricchi»
di M. Mon.


l’Unità 31.12.13
Volgograd, stavolta salta un autobus: 14 vittime
di Umberto De Giovannangeli


l’Unità 31.12.13
Il vicolo cieco del terrorismo contro la dittatura
di Luigi Bonante


il Fatto 31.12.13
Russia, l’incubo attentati sulle “putiniadi” di Sochi
Due attentati kamikaze in due giorni a Volgograd mostrano che le misure di sicurezza sono state concentrate solo nell’area dei giochi olimpici
di Leonardo Coen


Mancano meno di sei settimane alle “Putiniadi”, i faraonici Giochi Invernali di Sochi. E già si profila il “Grande Incubo”: quello del terrorismo. Una raffica di attentati ha insanguinato in queste ultime ore la Russia. Putin ha promesso sicurezza e pace, proprio per celebrare nel migliore dei modi il trionfo del Cremlino, o meglio, il suo personale trionfo. Ma ha blindato soltanto la regione olimpica, investendo risorse e tecnologie per sigillare i Giochi e tenerli sotto controllo assoluto. Così i terroristi colpiscono dove le misure di sicurezza sono meno capillari. In ogni caso, l’ondata terroristica darà al Cremlino il pretesto per varare nuove forme di prevenzione, colpendo in particolare il mondo del dissenso e chi ha svelato i retroscena degli appalti e della corruzione che hanno fatto lievitare i costi dei Giochi a cifre iperboliche, 37 miliardi e mezzo di Euro, quattro volte Londra 2012 (ma c’è chi aggiunge altri 12 miliardi...). La cronaca infatti, lascia pochi spazi alle analisi. Ieri mattina, poco dopo l’alba, un kamikaze si è fatto saltare all’interno di un filobus della città di Volgograd, nel sud della Russia orientale: ha ucciso quattordici persone e ne ha ferite altre quaranta, compreso tre bimbi, uno dei quali di sette mesi. Nemmeno dodici ore prima un commando (due uomini e una donna imbottita di esplosivo) aveva compiuto una strage alla stazione ferroviaria, provocando almeno sedici vittime e il ferimento di un’altra cinquantina, utilizzando un ordigno di altissimo potenziale, pari a 10 chili di tritolo, confezionato con centinaia di schegge metalliche per rendere la bomba ancora più micidiale.
I DUE ATTENTATI, secondo gli investigatori russi, mostrerebbero “elementi identici”, ossia una stessa matrice islamica, riconducibile ai guerriglieri di Doku Umanov, autoproclamatosi Emiro del Caucaso, capo della ribellione islamica nel Nord del Caucaso. L’uomo che cinque mesi fa aveva sfidato Putin e la Russia postando un video sul sito Internet Kavkazij Uzel in cui invitava tutti i “mujahiddin russi” ad attaccare i Giochi Olimpici di Sochi, previsti dal 7 al 23 febbraio 2014. Pochi minuti di terribile intensità: alle spalle di Umarov una grande bandiera nera, dispiegata nel sottobosco, e il Bin Laden ceceno che lanciava un appello, “dobbiamo fare il massimo per sabotare lo svolgimento di queste danze sataniche sulle nostre terre e sulle ossa dei nostri avi”.
Inafferrabile e spietato, Umarov ha rivendicato il doppio attentato suicida nella metropolitana di Mosca del marzo 2010 e l’attacco all’aeroporto moscovita di Domodedovo, nel gennaio del 2011. L’anno dopo aveva proclamato unilateralmente una sorta di tregua per dimostrare “la nostra bontà”, salvo poi rinnegarla perché, secondo lui, era stata fraintesa come un segno di debolezza. E tuttavia, sinora, Umarov non ha invece rivendicato né l’attentato del 21 ottobre (sempre a Volgograd), tantomeno quelli di domenica e di lunedì. Ma per il Cremlino non cambia nulla: Umarov è lo stesso responsabile, poiché questi due attacchi sono il “risultato diretto” (lo ha spiegato Ekaterina Sokirianskaja, responsabile del progetto Nord-Caucaso dell’International Crisis Group) del suo appello di luglio.
MA LE COSE in Russia non sono mai come appaiono, soprattutto con Putin al potere. Intanto, la scelta di Volgograd è simbolica. Perché è la città che un tempo si chiamava Stalingrado, teatro della più grande battaglia della Seconda Guerra Mondiale, quella che oppose i sovietici alle armate nazifasciste, respingendole e mutando il corso del conflitto. Da allora, Stalingrado/Volgograd è rimasta, nell’immaginario popolare, il baluardo della Grande Madre Russia, dove il martirio di centinaia di migliaia di soldati consentì a Mosca di non capitolare. Inoltre Volgograd significa il controllo della regione strategica tra il Don e il Volga. Dunque, un obiettivo importante. E facile, sapendo che tutti gli sforzi della sicurezza russa in questi mesi sono concentrati nell’area critica di Sochi.
Scacco al Cremlino? Solo in apparenza. Il Cremlino ha subito cercato di rassicurare più che l’opinione pubblica internazionale, quella interna, scatenando la macchina poliziesca. I media russi hanno dato spazio alle contromosse ordinate da Putin, il quale ha ordinato immediatamente di “indurire” i controlli della sicurezza e di innalzare il già elevato livello di allerta. Si sa come la pensa, a proposito dei guerriglieri ceceni: “Inseguirli e stanarli sin dentro le tazze del cesso”. Repressione senza quartiere, per evitare “la cecenizzazione di tutta la Russia”, il babau con cui il Cremlino vuole spaventare i russi e ottenere il pieno consenso per limitare libertà e mettere la museruola alla società civile.
UNO “STATO DI POLIZIA” necessario, per contrastare efficacemente il terrorismo islamico. Ricorda molto, i tempi degli attentati che colpirono Mosca alla fine degli anni Novanta e all’inizio del nuovo millennio. Quei mesi coincisero con la folgorante ascesa di Putin, capo dei servizi federali di sicurezza, primo ministro dai metodi spicci, presidente che fa della sicurezza e della “democratura” - una democrazia controllata - i suoi atout.
I giornali russi non hanno mancato di enfatizzare l’escalation della violenza terroristica, d’altra parte la cronologia più recente dice che venerdì 27 dicembre, a Pyatigorsk, capoluogo del distretto del Caucaso del Nord, un’autobomba è esplosa a 270 metri dalla stazione della polizia stradale, uccidendo tre passanti. E che il giorno dopo, nel Daghestan, ci sono stati un paio di attentati, portando a quota 92 la statistica annuale: per fortuna, questi due sono stati senza vittime. E, in un crescendo allucinante, domenica e lunedì il massacro di Volgograd. Con la presenza, data per certa, di una nota “vedova nera”, la ventiseienne Oksana Aslenova, che ha visto uccidere dai soldati di Mosca i suoi due mariti, i “compagni martiri”. La quarantasettesima “vedova” finita così, in vent’anni di attacchi suicidi.
E PERÒ, già si comincia a vedere come il Cremlino intende combattere il terrorismo. Proprio ieri, a Volgograd, duecento persone che intendevano onorare la memoria delle vittime con una manifestazione di cordoglio - volevano lasciare sui luoghi degli attenti delle candeline accese - sono state fermate ed una cinquantina arrestate dalla polizia. Con la scusa che la manifestazione non era autorizzata. Tre ore dopo sono stati rilasciati. L’iniziativa era germogliata nelle reti sociali del web russo, in particolare su Vkontakte.ru: 25mila internauti avevano firmato la partecipazione, e gli organizzatori avevano anticipato di voler chiedere le dimissioni del sindaco e del governatore di Volgograd. Il sito Lifenews.ru sostiene addirittura che la polizia di Volgograd ha il permesso di sparare in casi di disobbedienza agli ordini degli agenti. Facebook russa ha dedicato una pagina: “Volgograd. Piangere”, per esprimere cordoglio e sostegno agli abitanti della città”. Amaro il commento di Grigori Yavlisnkij, fondatore e leader del partito d’opposizione Yabloko (La mela): “Da noi tutto è imitazione, solo il terrorismo è per davvero”.

il Fatto 31.12.13
Scade la moratoria
Gran Bretagna snob d’Europa: ora ha paura dell’invasione rom
di Caterina Soffici


Alla vigilia dell’apertura delle frontiere, in Gran Bretagna i conservatori continuano ad agitare lo spauracchio dell’invasione romena o bulgara. Il Daily Telegraph, giornale vicino al partito del premier David Cameron, scriveva ieri che sarebbero 300 mila i nuovi immigrati pronti a varcare la manica e ad approdare sul suolo britannico dal prossimo 1 gennaio, quando cadrà la moratoria di 7 anni richiesta da alcuni paesi verso Bulgaria e Romania, membri dell’Unione europea dal 2007, ma con alcune restrizioni (tra le quali la libera circolazione nei paesi di Schengen).
C’era una volta la paure dell’idraulico polacco, c’è oggi la paura dei rom, rappresentati nei giornali e nei siti di destra mentre trasportano le proprie masserizie su carretti di legno o si muovono in carovane, come gli zingari nelle immagini del primo Novecento. Ovviamente è una rappresentazione ridicola. La verità è quella che racconta Roxana S., rumena di 38 anni, da sette a Londra, che dice: “Chi doveva arrivare è già arrivato. Gli immigrati qualificati hanno già lasciato la Romania dopo il 2007, gli altri non si muoveranno senza avere prima un lavoro o una chance di trovarlo in breve tempo, grazie a parenti e amici. La fuga dei cervelli è già avvenuta, quella dei professionisti e dei medici anche. Chi è rimasto non ha i soldi per tentare un viaggio così costoso alla cieca. E poi l’idea che i romeni siano i rom fa ridere. La campagna del governo inglese per disincentivare gli arrivi non servirà a nulla perché non ci sarà l’esodo che si teme”. Roxana, ex atleta della Nazionale di nuoto, ha iniziato come baby sitter, poi è diventata insegnante di Educazione fisica. Parla di altre decine di romeni, come lei, che si sono sistemati in Inghilterra da tempo, pagano le tasse in Gran Bretagna, vivono del proprio lavoro. Né più né meno come le centinaia di migliaia di stranieri immigrati nell’isola. Dello stesso parere molti altri rumeni e bulgari interpellati da un’inchiesta delle Bbc, che è andata a intervistarli a casa loro: dicono che non ci sarà un esodo, chi poteva emigrare l’ha già fatto, gli studenti sono già partiti, gli altri resteranno nel loro paese.
EPPURE BULGARIA e Romania, i due paesi più poveri della Ue, sono le Cenerentole della zoppicante Unione e come tali catalizzano le paure e il malcontento verso l’Europa che serpeggia in Gran Bretagna (e non solo). Proprio ieri la base dei Tory, il partito conservatore, chiedeva al proprio leader di estendere la moratoria e mantenere chiuse le frontiere fino al 2018.
E proprio ieri è stata decisa una misura drastica, per scoraggiare i cosiddetti “viaggi delle salute”: gli immigrati dovranno pagare un ticket variabile da 20 a 100 sterline (a seconda delle prestazione e degli esami eseguiti) se andranno al Pronto soccorso. Le cure mediche per gli stranieri, secondo le stime del governo, pesano sul Servizio Sanitario Nazionale inglese (Nhs) per 2 miliardi di sterline l’anno. Così si pensa di recuperare almeno 500 milioni. Non sono ancora chiare le modalità con cui verrà applicata la nuova legge. Da quanto si capisce, uno straniero immigrato in fin di vita non verrà respinto all’accettazione, ma se non sarà poi in grado di pagare il governo britannico si rifarà su quello d’origine. Si parla anche di una tassa iniziale di 200 sterline, quando uno straniero arriva sul suolo britannico, una sorta di assicurazione se dovrà usare in seguito i servizi del Nhs.
Le regole saranno pubblicate a marzo, ma quello che è chiaro fin da ora è che la Gran Bretagna, dove le previsioni economiche per i prossimi anni sono più che floride e si parla di boom nel 2014, non ha alcuna intenzione di abbandonare le sue tradizionali tendenze isolazioniste. Rimarrà in Europa, certamente. Ma sempre da signora snob, che guarda gli altri dall’alto in basso.

Repubblica 31.12.13
Francesco e il Peccato
di Eugenio Scalfari


Padre Lombardi ha rilasciato ieri alla Radio Vaticana una lunga dichiarazione sul mio articolo uscito l’altroieri su Repubblica e ne segnala l’importanza come l’espressione da parte del mondo laico non credente su come Papa Francesco sta modificando la struttura stessa della Chiesa. Lo ringrazio per l’attenzione che pone al mio lavoro e al mio pensiero. C’è però nella sua dichiarazione alla Radio Vaticana una netta smentita all’ipotesi da me formulata che il Papa abbia abolito il peccato. Questa ipotesi è ovviamente una mia interpretazione la quale tuttavia è da me accompagnata da una constatazione che qui trascrivo: “L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il sottinteso di questa affermazione? Se l’uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la scelta del Bene sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro scelta del Bene sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l’uomo è libero, la sua anima è libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla, ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono una costante eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia pure nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia. Ma se non l’accetta? Se ha scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui? Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre”.
Da questa citazione di quanto ho scritto risulta evidente che il Papa non abolisce il peccato se la persona umana, sia pure in punto di morte, non si pente e la mia conclusione, come già citato sopra, è appunto quella che “un Papa cattolico non può andare oltre”. Da questo punto di vista Padre Lombardi ed io la pensiamo allo stesso modo. Perché tuttavia io penso che Papa Francesco abbia abolito di fatto il peccato? Ho cercato di spiegarlo subito dopo sottolineando che nel momento stesso in cui il Papa pone come condizione alla conquista della grazia il pentimento, riafferma tuttavia la libertà di coscienza e cioè il libero arbitrio che Dio riconosce all’uomo. Se, a differenza di tutte le altre creature viventi, la nostra specie è consapevole della propria libertà, è il Creatore che gliel’ha consentita. La libertà di coscienza fa dunque parte integrante del disegno divino. Il Dio mosaico punisce chi esercita la sua libertà. punisce Adamo ed Eva cacciandoli dal Paradiso terrestre, punisce Caino e i suoi discendenti, punisce l’umanità intera con il diluvio universale. Quanto a Gesù (che sia figlio di Dio o figlio dell’uomo) è comunque incarnato e sente dentro di sé le virtù, i dolori e le tentazioni della carne, altrimenti non si misurerebbe col demonio nei quaranta giorni che passa nel deserto per respingerle. Ma soprattutto non accetterebbe il martirio e la crocifissione assumendosi tutte le colpe degli uomini per ripristinare l’alleanza con Dio. Il Papa cattolico ha come limite tradizionale la punizione di chi non si pente ma a mio avviso la supera nel momento in cui l’uomo esercita la sua libertà di coscienza. La libertà di coscienza fa parte dunque del disegno divino. Sua Santità ha rivendicato come suo autore preferito il Dostoevskij dei Fratelli Karamazov.
Padre Lombardi certamente ben conosce le pagine sul Grande Inquisitore e certamente le conosce Papa Francesco. Il rapporto tra il Bene e il Male è dunque molto aperto in chi discute con i non credenti. Mi permetto tuttavia di segnalare a Padre Lombardi la chiusura del mio articolo di domenica che qui desidero riportare testualmente: “La predicazione di Gesù ci riguarda, l’amore per il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa rivoluzionario ci riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda. Questa è la nostra vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito”.

Corriere 31.12.13
Le emozioni non sono (tutte) nel cuore
Invidia in volto e rabbia sui pugni. Le emozioni non sono nel cuore
Ecco in quali parti del corpo proviamo i sentimenti
di Edoardo Boncinelli


Un gruppo di ricercatori finlandesi ha mappato le principali emozioni collocandole nelle diverse parti del corpo, dimostrando che esiste un codice corporeo universalmente valido. L’invidia traspare in volto, la rabbia sul petto e nei pugni. E l’amore non solo nel cuore ma un po’ dappertutto.
Le emozioni colorano e commentano sontuosamente i giorni della nostra vita.
Noi siamo così gelosi e innamorati delle nostre emozioni che ci rifiutiamo di studiarle e di sentirle studiare, ma ci siamo recentemente dovuti sentir dire da molti, e soprattutto da Antonio Damasio, che le emozioni sono un fatto naturale e che hanno un loro ruolo biologico. Esprimono la coloritura emotiva degli eventi che abbiamo vissuto e ci avvertono fedelmente se una cosa ci piacerà o non ci piacerà, se ovviamente le sapremo ascoltare. Insomma, le emozioni servono e hanno un ruolo fondamentale nell’aiutarci a vivere. Proprio per questo sono universali, come sanno bene i poeti, anche se cercano di darci a intendere che ogni emozione di ogni individuo è diversa da ogni altra. In particolare ciascuno pensa che le sue pene d’amore non le ha mai vissute nessuno, e mai le vivrà. Va detto che senza questa convinzione non ci sarebbe gusto a provarle e in definitiva a vivere. Perciò il nostro corpo ci concede sempre l’esclusiva, e la sensazione che tutto sia squisitamente nuovo, e mai più provato. Grazioso e potente inganno che la natura — leggi il nostro corpo — ci perpetra in continuazione per il nostro bene.
Un tempo si diceva che le emozioni vengono dal cuore, essenzialmente perché molte di esse le proviamo con i vasi sanguigni che circondano il cuore e che ci segnalano ogni palpito, cioè ogni accelerazione del battito e ogni sfarfallio degli stati d’animo. Il cuore ovviamente non c’entra niente, ma sono le diverse parti del cervello, e in particolare del sistema limbico, che ci elargiscono i palpiti, forti o deboli, della nostra emotività. Questo lo sappiamo noi che studiamo la materia, ma non lo sa l’uomo della strada che sente le sue emozioni nel corpo e che attribuisce al corpo la loro origine.
È il cervello che fa risuonare una data regione del nostro corpo e poi noi ne prendiamo coscienza in un secondo momento, affermando che sentiamo questo o sentiamo quello. Il cervello cosciente, cioè la corteccia cerebrale, insomma, distingue e filtra le emozioni, ma queste si sono mosse da parti profonde del nostro cervello e sono rimbalzate alla corteccia passando per il corpo. Sembra tutto un po’ macchinoso, ma in realtà è semplicissimo: gestione ghiandolare e limbica degli eventi, loro valutazione, proiezione su varie parti del corpo e infine presa di coscienza, quando c’è, del tutto da parte della corteccia e del cosiddetto nostro io.
È molto interessante quindi che qualcuno abbia tentato di «mappare» le nostre emozioni in regioni specifiche del nostro corpo, dandoci così la cartografia dell’inganno o, meglio, dell’incanto del nostro sentire più profondo. Invidia in volto, rabbia su petto pugni e viso, amore un po’ dappertutto e nostalgia che ai naviganti intenerisce il core. Si potrebbe dire che noi siamo il supporto delle nostre emozioni, oppure il telaio dove quelle si tessono. Nessuno dopo queste notizie smetterà di provare emozioni; anzi le sentirà con più consapevolezza, quindi con più pienezza, come si addice a tutte le scoperte scientifiche.
La scienza non spoetizza il mondo; piuttosto lo rende sempre più interessante e sempre più nostro. Perché noi siamo qui a fare il commento del mondo. Con i racconti mitologici, con le poesie, con l’arte e la musica, ma anche, soprattutto oggi, con la scienza. Nel mondo noi viviamo e quello vive in noi, con concetti, parole e leggeri palpiti. A volte i palpiti non sono troppo leggeri, e noi soffriamo; ma sempre commentiamo e rappresentiamo.
Anche con il nostro corpo, come Quiqueg, l’indigeno dell’inizio di Moby Dick.

Corriere 31.12.13
Calano i lettori: un solo libro in 12 mesi per il 43 per cento
di Cristina Taglietti


Nel 2013 l’Italia ha perso altri lettori. Il nuovo rapporto dell’Istat conferma il segno meno su tutto il comparto editoriale come già le recenti indagini Nielsen e Aie avevano evidenziato. Nel 2013 ha letto almeno un libro soltanto il 43 % della popolazione, nel 2012 la percentuale era del 46.
Significative le differenze tra i generi: ha letto almeno un libro il 49,3% della popolazione femminile e solo il 36,4% di quella maschile. Una diversità che si manifesta a partire dagli 11 anni. I «lettori forti», cioè le persone che leggono in media almeno un libro al mese, sono il 13,9%. Una famiglia su dieci (10,3%) non possiede nemmeno un libro; il 64% ne ha al massimo 100. Nel complesso dati sconfortanti che ci ricacciano ancora più in basso nella classifica delle lettura. Il 2012, d’altro canto, conferma la flessione della produzione del settore editoriale (soprattutto per i piccoli editori): i titoli pubblicati si sono ridotti del 7,3% e le tirature del 7,6%. La crisi ha picchiato duro: 336 editori, pari al 14,9% del campione, pur non avendo cessato l’attività editoriale, hanno dichiarato di non aver pubblicato libri nel corso del 2012. Ora tutte le speranze degli editori (soprattutto grandi) sono nell’ebook. Almeno per portare in pareggio i bilanci. Anche se, forse, per rialzare gli indici di lettura non basteranno.

Repubblica 31.12.13
Istat, calano i lettori in Italia
Le donne leggono più degli uomini

Ma solo il 13 per cento sfoglia almeno un titolo al mese

ROMA — La quota di lettori di libri in Italia è scesa dal 46 per cento del 2012 al 43 per cento del 2013. Lo dichiara un’indagine dell’Istat. Nel 2013, si legge nello studio, oltre 24 milioni di italiani con un’età superiore a 6 anni hanno letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali. Ma, di questi, il 46,6 per cento ha letto al massimo tre libri in dodici mesi. I “lettori forti”, invece (cioè le persone che leggono almeno un libro al mese), sono solo il 13,9 per cento del totale. Una famiglia su dieci, inoltre, non possiede nemmeno un libro in casa. La fascia di età in cui si legge di più è quella tra gli 11 e i 14 anni (57,2 per cento).
Netta la differenza tra i due sessi: secondo l’Istat, in Italia ha letto almeno un libro il 49,3 per cento della popolazione femminile e solo il 36,4 di quella maschile. La propensione alla lettura, spiega il rapporto, dipende dalla scuola ma anche dall’ambiente familiare: leggono libri il 75 per cento dei ragazzi tra i 6 e i 14 anni con entrambi i genitori lettori, contro il 35,4 per cento di quelli con genitori che non leggono. Permangono, infine, le differenze territoriali: al Nord legge oltre la metà della popolazione (il 50,7 per cento), al Centro il 46,8 per cento, mentre al Sud e nelle isole la quota di lettori è pari solo al 30,7 per cento.

Corriere 31.12.13
Eremiti e monaci
La saggezza dei Padri sgorga dal deserto
di Pietro Citati


Nell’Egitto del IV e del V secolo, i monaci del deserto conducevano una vita semieremitica: una forma di eremitismo temperato, che prevedeva una misura di vita comune. Avevano le celle a una certa distanza: nessuno poteva riconoscerli da lontano, o vederli facilmente, o udire la loro voce. Vivevano in una quiete profonda. Ognuno passava il tempo nascosto tra i muri della sua cella: seduto su uno sgabello, teneva le mani occupate con un lavoro manuale, come quello di intessere corde, o ceste. La sua vita era interiore: meditava versetti dei Salmi, e sopratutto recitava brevi preghiere, come «Signore, abbi pietà di me» o «Signore, aiutami». Queste preghiere avevano un doppio scopo: fare il vuoto nella loro mente e combattere contro i pensieri e le tentazioni demoniache, che li minacciavano. Quando il vuoto perfetto era raggiunto, il pensiero di Dio scendeva dentro di loro e li occupava.
Con i monaci vicini, intrattenevano rapporti: come con i giovani monaci, che li venivano a trovare, chiedendo loro il segreto della sapienza. Solo durante il sabato e la domenica essi si riunivano nella chiesa. Le risposte alle domande dei giovani vennero riunite in raccolte orali; e poi, via via, in raccolte scritte sempre più vaste, che culminano nella grande collezione sistematica, che comprende 1197 detti, e viene ora tradotta e commentata in modo eccellente da Luigi D’Ajala Valva (I padri del deserto, Detti , Qiqajon, Monastero di Bose, pagine 754, € 50).
Oggi trascorriamo con attenzione questi detti, nei quali si concentra una sapienza secolare, non solo cristiana, e cerchiamo sopratutto una traccia dell’insegnamento dei Vangeli. La prima traccia è il ricordo della violenza, contenuta nei Vangeli. Mentre Gesù predicava, la sua voce creava contrasto. «Non crediate — egli disse ai discepoli — che io sia venuto a portare pace sulla terra. Sono venuto a portare non la pace, ma la spada». Portava il fuoco: la violenza: la violenza contro il mondo e contro sé stessi, che i padri del deserto rivelavano nelle loro parole. «Se qualcuno — diceva Gesù — vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso e mi segua! Chi infatti vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita, per amore di Dio e dei Vangeli, la salverà». Chi voleva venire dietro al Cristo, doveva rinunciare a tutto: la famiglia, i parenti, i legami, tutto ciò che si chiamava mondo, specialmente il padre, perché come unico padre aveva Dio.
L’amore per Gesù doveva essere assoluto, esclusivo, illimitato. O si era per lui o si era contro di lui. L’amore per Gesù trovava inciampi in lui e si scandalizzava di lui. Non era semplice e confidenziale, come quello insegnato dai maestri comuni: era difficile comprenderlo e farlo proprio. Il cristianesimo, sopratutto quello dei monaci, non era in nessun caso la religione del buon senso e del senso comune: ma era fondata sulla contraddizione e sul paradosso. Solo alla fine dei tempi, tutto ciò che in Gesù era spada, violenza, tensione, paradosso, contraddizione, si sarebbe sciolto in un’onda di purissimo amore.
Gesù aveva detto: «Non giudicate affinché non siate giudicati. Infatti col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate vi sarà misurato». Gesù condannava l’atto stesso di giudicare. Qualsiasi valutazione compiamo è già una condanna. Non basta giudicare con misericordia: bisogna evitare in qualsiasi modo l’atto stesso di valutare, considerare, prendere in esame, analizzare, comprendere gli altri, qualsiasi cosa essi facciano. Con straordinaria coerenza, i monaci ereditarono l’insegnamento di Gesù. Non giudicavano mai gli altri. Evitavano qualsiasi psicologia. Con un salto, si rifugiavano nella quiete della mente, nella quale esisteva soltanto il puro, l’indiviso, l’amore di Dio.

Repubblica 31.12.13
Tyler Cowen. Poveri ma connessi
Intervista all’economista americano: “La Rete rafforza solo i grandi successi e contribuisce alla disuguaglianza”
L’invecchiamento della popolazione rende la società più conservatrice
Ci aspetta un futuro stabile. Troppo stabile
di Riccardo Staglianò


Il lusso supremo è potersi sdraiare in una Med-Bay.
Pensate a una Tac che però guarisce ogni malattia. I fortunati abitanti di un satellite artificiale della Terra possono farlo quando vogliono. I poveri, che vivono in quel sottomondo che nel frattempo è diventato il nostro pianeta, come disperati in fuga verso una Lampedusa intergalattica sono disposti a tutto per potercisi curare.
Elysium, ovvero la diseguaglianza nel 2154, secondo Hollywood. C’è più di un punto in comune con Average Is Over, “La media è finita”, il nuovo libro di Tyler Cowen, economista eclettico della George Mason University che preconizza una polarizzazione sempre più feroce della società. Ma, rispetto alla finzione cinematografica, puntualizza che a livello globale la disparità economica si è ridotta: «È cresciuta all’interno di certi Paesi, mentre miliardi di persone uscivano dalla povertà. E poi, tornando al film, se quella sarà la vita dei ricchi, è di una noia mortale. Con la paura perenne che qualcuno tolga loro i privilegi. Quale che sia il nostro conto in banca stiamo meglio che su Elysium».
Lei però profetizza un futuro prossimo diviso in due classi: i rimpiazzati dalla tecnologia e quelli che le sopravviveranno. Dove mette il confine?
«Ognuno si faccia una domanda semplice: computer e software intelligente aumentano il valore del mio lavoro o gli fanno concorrenza? Se la risposta è la seconda, è solo questione di tempo prima che vi battano. Ma non caratterizzerei la divisione col termine “classe”, almeno non nell’accezione europea. Buona parte della classe medio-bassa del futuro sarà formata da bohemians bene istruiti la cui vita non assomiglierà a quella dei poveri urbani di oggi. Ci saranno anche molte opportunità, compresa tanta buona istruzione disponibile online, gratis o quasi. Quanti vorranno lavorare duro per avere salari più alti? Direi tra il 10-20 per cento, mentre gli altri si accontenteranno».
Nello scenario che lei descrive vige una iper-meritocrazia. Dovremo festeggiare o preoccuparci dei suoi eccessi?
«La premessa è che ogni cosa fatta con un computer è facile da misurare e valutare. I risultati quindi saranno agrodolci. Di recente sulNew York Times c’era la storia di un ragazzino mongolo che ha seguito un corso online di fisica al Mit, rivelandosi bravissimo. Di colpo si è aperto per lui un futuro radioso. Ma così, chi viene valutato negativamente da piccolo, rischia di non avere una seconda possibilità. La meritocrazia è psicologicamente pesante perché ci ricorda costantemente i nostri fallimenti. Di ogni giornalista oggi, a differenza di prima, si sa esattamente quante persone leggono i suoi articoli sul web. E sarà così in sempre più settori».
Stiracchiando il suo titolo, si può dire che anche la classe media sparirà. Sei lavori persi su dieci vengono dai suoi ranghi. Dichi è la colpa?
«Di cosa, piuttosto. Sia negli Stati Uniti che in Europa, al di là della crisi della domanda, ci sono tre forze all’opera contro la partecipazione al lavoro: 1) l’automazione grazie a software sempre più intelligenti; 2) la globalizzazione, intesa soprattutto come la competizione della Cina; 3) modi migliori per valutare il valore di un lavoratore. Con i quali si scopre che molti non valgono il proprio salario. Non sorprende quindi che vengano licenziati, non trovino nuovi posti o finiscano con i sussidi. Tendenze che non spariranno. Anzi».
Jaron Lanier, tecno-entusiasta pentito, ha scritto che è statoInternet a distruggere la classe media. A riprova mette a confronto gli organici di giganti della new economy rispetto a quelli della old economy. Ha ragione?
«Anch’io usai un esempio analogo nel libro The Age of the Infovore.
General Motors impiegava centinaia di migliaia di persone, Facebook e Twitter solo migliaia.
L’automazione oggi sostituisce più lavoro di quanto ne crei, dal momento che lavorare coi pc necessita più addestramento e preparazione. Freelance e part-time conosceranno un’esistenza finanziaria più precaria che in passato. Questo mentre il numero di posti manifatturieri decresce. Peraltro l’automazione entra oggi in comparti che le si credevano immuni, come la professione legale, l’insegnamento universitario, il trasporto su gomma e i fast food».
Un recente articolo di Newsweek spiegava come, da una parte, le reti esaltino e diano accesso teorico al meglio di ogni professione, creando star. Mentre dall’altra, l’automazione cancelli le professioni a basso valore aggiunto. C’è una via d’uscita da questa morsa?
«Credo che il timore riguardo alle reti sia un po’ esagerato. In realtà la rete aiuta anche gli sconosciuti a trovare un pubblico. Rafforza i grandi successi, ma valorizza anche le piccole nicchie. Resta fuori, anche qui, la parte media. Complessivamente, tuttavia, non abbiamo mai avuto tanta scelta, e ciò è buono».
A chi mette in guardia dalla sempre più forte concorrenza intellettuale delle macchine c’è chi ribatte «basta che gli umani imparino a fare cose più sofisticate ». Lei crede che sia facile, che tutti possano diventare più creativi?
«Mi spiace dirlo, ma credo proprio di no».
E allora non c’è niente che si possa fare per difenderci? Prima sono stati gli operai cinesi, ora i robot...
«È una gran cosa vedere che gli operai cinesi oggi guadagnino meglio. Se un Paese introducesse forme protezioniste, l’effetto sarebbe di far fuggire altrove il capitale e i lavoratori starebbero comunque peggio. Il protezionismo non ha mai funzionato nel lungo periodo. Né è pensabile bandire i robot: pensate ai vantaggi per un anziano che presto potrà andare in giro su auto senza pilota. E lei ci starebbe a rinunciare al suo smartphone? Più fattibile invece è ridurre il costo di adattamento a questi cambiamenti inarrestabili. Ad esempio rendere più abbordabili gli affitti liberalizzando le costruzioni e consentendo una maggiore densità urbana. O, quanto all’Italia, tra le altre cose, aprire il settore dei servizi a una maggiore concorrenza e riformare i governi locali ».
L’esito finale che immagina è una società con una disuguaglianza economica ancora maggiore. Ma, come ci ricorda Robert Reich, il 70 per cento del Pil deriva dai consumi della classe media. Che conseguenze sociali può avere il suo progressivo immiserimento?
«I redditi sono sempre più diseguali, ma il trend più importante è l’invecchiamento della popolazione. E ciò rende la società non meno, ma più stabile. Non dimenticate che la diseguaglianza è in aumento dagli anni 80 eppure i tassi di criminalità si sono abbassati. New York, la città più disuguale, è anche la più sicura. Il nostro periodo di turbolenze, gli anni 60, sono stati il momento d’oro per la classe media. Perciò mi aspetto un futuro socialmente stabile, sin troppo. Mai sottostimare l’attrattiva del disimpegno o il potere degli anziani di imporre il proprio volere su una società. E i vecchi aumentano anno dopo anno».

La Stampa 31.12.13
Benvenuti nella fisica degli spaccapentole
Newton era anche un alchimista, Herschel credeva abitato il sole
Un saggio sulla folta schiera degli scienziati svitati, tra genio e follia
di Piero Bianucci

qui

Repubblica 31.12.13
Eutanasia, laicità e diritti civili
I principali temi del nuovo numero di “MicroMega”, da oggi in edicola


EUTANASIA, laicità e diritti civili: sono questi i principali argomenti del nuovo numero di
MicroMega da oggi in edicola. Qual è la differenza morale tra l’eutanasia e la sospensione di idratazione e nutrizione artificiale? A questa e altre domande risponde il pediatra olandese Eduard Verhagen, autore del primo protocollo al mondo per l’eutanasia neonatale che spiega perché far morire un bambino nato con gravi anomalie è a volte la scelta più umana. Umberto Veronesi ricorda nel suo saggioEutanasia, un’azione di amore e di pietas come sia in gioco l’autodeterminazione di ciascuno. Mentre il filosofo Giovanni Reale riflette sulla distinzione tra eutanasia, sospensione delle terapie e cure palliative, ribadendo la centralità della libertà del paziente. Mentre in Italia si parla di moratorie sui temi etici, nel resto del mondo laicità e diritti civili avanzano: come dimostra la “Carta della laicità” (pubblicata in apertura di sezione) affissa nelle scuole francesi e come emerge dalla “mappa” ragionata della giornalista Cinzia Sciuto. Infine Chiara Lalli spiega perché l’obiezione di coscienza sull’aborto andrebbe abolita e Michele Martelli si interroga sui motivi dell’infatuazione di molti laici per il pontefice Bergoglio: «In ginocchio da papa Francesco: laici, credenti e creduloni».