sabato 29 settembre 2012

l’Unità 29.9.12
Migliaia in piazza a Roma
Lo sciopero della Pubblica amministrazione indetto da Cgil e Uil riempie le vie del centro
La richiesta al governo di una svolta di politica economica
Camusso: con i licenziamenti non si crea occupazione


Repubblica 29.9.12
Vescovi e industriali, sì al Monti bis Marchionne: “Un passo avanti”
Centrodestra freddo. Bersani: fuori dalle contese
di Silvio Buzzanca


ROMA — È un sì unanime quello della Chiesa – che ieri si è espressa attraverso la Conferenza dei vescovi – e degli industriali all’ipotesi di un Monti bis. L’amministratore delegato di Fiat Marchionne ieri ha definito la disponibilità del premier a rinnovare il mandato “un passo avanti per il Paese”. Resta la freddezza del Pdl mentre Bersani avverte: lasciamo il professore fuori dalle contese dei partiti. Il segretario Cgil Camusso è netta nel dire no: sarebbe un messaggio di rassegnazione.
«Sarebbe un passo avanti per il Paese. Darebbe credibilità e toglierebbe molta incertezza ». Sergio Marchionne si schiera a favore del Monti-bis. Considera la permanenza del Professore a Palazzo Chigi «un grande valore in termini di credibilità internazionale». Io, spiega, «giro il mondo come una trottola e vedo la reazione degli altri capi di Stato: la reputazione che il Paese ha grazie a Monti è anche maggiore di quella che si merita ». Secondo l’ad della Fiat, «la continuità di gestione è importante. La scelta è ovviamente sua, ma aiuterebbe moltissimo tutti quelli che fanno industria». Un via libera che in buona parte condivide anche Sergio Squinzi. «Abbiamo bisogno di ritrovare credibilità e avere una visione per il futuro. Il Monti bis è una delle possibilità, ma al di la dei nomi quel che serve è un governo stabile che possa operare per l'intera legislatura», dice il presidente di Confindustria. Che però aggiunge: «In Italia abbiamo bisogno di un governo stabile, credibile e capace di operare. E quindi deve avere una base politica».
Quella base politica che continua ad invocare Pier Luigi Bersani. Il segretario del Pd, anche a Bruxelles deve fare i conti con la disponibilità del premier a tornare a Palazzo Chigi per un bis. Il leader del Pd ha già detto no nell’intervista a Repubblica.
Ieri prova un po’ a frenare, spiega, precisa. «Consiglierei a tutti di tenere fuori Monti da queste contese. Non credo che il destino di Monti sia nella mia disponibi-lità, o di Casini, o di Berlusconi, o di chiunque altro», spiega, Bersani ribadisce però che l’obiettivo del suo partito, cercata anche attraverso la nuova legge elettorale è di arrivare a «maggioranze coerenti in grado di fare non meno riforme di Monti, ma più riforme di quelle di Monti ». Dunque meglio lasciare perdere l’ipotesi del nuovo governo tecnico, meglio il ritorno della politica.
Il tentativo democratico di sopire, di spegnere, il dibattito sul Monti bis però non va a buon fine. Perché ormai si schierano tutti, Si dividono dentro i partiti, dentro i sindacati. Il centrodestra rimane però freddo. Fabrizio Cicchitto dice che «Monti rimane fermo sulla riva del fiume». La Lega invece è nettamente contro il bis.
Interviene anche la Cei: «Siamo preoccupati per la situazione e quindi siamo vicini a qualsiasi soluzione possa favorire un adeguato e rapido superamento della crisi», dice monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza dei vescovi italiani. Crociata non vuole indicare la personalità che deve fare uscire il paese dalle secche: «Noi - dice - non ci occupiamo di nomi ma auspichiamo una coesione accresciuta tra chi ha a cuore il bene del Paese. Tutto ciò che serve a questo scopo, in questi mesi e oltre la scadenza naturale della legislatura, è benvenuto».
Un ritratto che assomiglia molto ad un nuovo governo di larghe intese, guidato sempre dal Professore. L’esecutivo che auspica il leader della Cisl Raffaele Bonanni. Ma che Susanna Camusso boccia in toto. «Sarebbe un messaggio di rassegnazione e non di cambiamento. E noi abbiamo bisogno di cambiamento», dice il segretario della Cgil. Ma una parte del Pd, - Ceccanti, Fioroni - vorrebbero che Monti guidasse il prossimo governo. Alleato con il centrosinistra. Stefano Fassina no. E mentre Passera dice che «saranno gli italiani a decidere chi dovrà avere la maggioranza nel prossimo Parlamento», Gianfranco Fini auspica «che una Lista Italia abbia il consenso sufficiente per rendere possibile la prosecuzione di un esecutivo guidato da Monti».

La Stampa 29.9.12
“Liste per Renzi” se saltano le primarie
Il sindaco: “Bersani sarà di parola, altrimenti tutto diventa possibile”
Per EMG Matteo in testa Per il Pd Bersani in vantaggio di due punti
di Federico Geremicca


ROMA Mario Monti e la sua disponibilità ad un secondo mandato, non lo preoccupano granchè. Nemmeno l’ormai lanciata campagna di Bersani gli toglie più il sonno. Al punto in cui si è - e confortato da sondaggi in crescita da settimane - l’unico vero timore di Matteo Renzi resta quello che aveva segnato l’avvio della sua discesa in campo: e cioè che le primarie, alla fine, si facciano davvero. Con una novità, però, un interrogativo inedito, consolidatosi in queste due prime settimane di tour in camper: che fare dello straripante entusiasmo raccolto in giro per l’Italia se le primarie dovessero saltare? Come reagire, visto il sorprendente consenso trasversale registrato? Si può dire al crescente “popolo dei rottamatori” amici abbiamo scherzato, si torna tutti a casa?
Nonostante ripeta tutti i giorni «le primarie si faranno, di Bersani mi fido», Matteo Renzi ha elevato il livello di allarme e chiesto ai suoi sostenitori in Parlamento (aumentano di giorno in giorno...) di concentrare l’attenzione sul lavorìo in corso intorno alla legge elettorale. Infatti, essendo sicuro che al punto cui si è giunti Bersani ha un interesse almeno pari al suo a che le primarie si tengano davvero, Renzi è convinto che i pericoli arrivino solo da un’ipotesi di riforma del Porcellum che, nella sostanza, non preveda più l’indicazione più o meno diretta del premier. Con una riforma così, le primarie diventano inutili. E che fare, in quel caso? Si torna tutti a Firenze a occuparsi dei ponti e dei tombini?
E’ di fronte a interrogativi così che nello staff e tra i consiglieri di Renzi si sta tornando a valutare una ipotesi che è stata assai in auge in avvio di questa avventura, quando pareva che Bersani e il suo stato maggiore non volessero permettere (in ragione di quanto previsto dallo Statuto del Pd) la partecipazione del sindaco di Firenze alle primarie: sbattere la porta e andare ugualmente alle elezioni con una inedita “Lista per Renzi” presente in tutt’Italia e innervata da sindaci e assessori mobilitatisi in gran quantità a sostegno della campagna del “collega” fiorentino.
Matteo Renzi preferisce - in verità - non parlare di questa ipotesi, avendone chiaro il potenziale distruttivo. Ma non si nasconde dietro un dito: «Le primarie si faranno - dice dal suo camper in viaggio nelle Marche - ne sono sicuro. Se non si facessero, del resto, il colpo per il Pd sarebbe micidiale. Milioni di persone stanno aspettando di vedere come finisce: perfino Berlusconi vuole capire che fine fa quel “ragazzino” di Renzi. Dopodichè, è del tutto evidente che se si fanno saltare le primarie si aprono scenari completamente nuovi. E a quel punto tutto diventa realmente possibile... ».
Il più convinto sostenitore delle “Liste per Renzi” è Giorgio Gori (“consigliere mediatico” del sindaco di Firenze) sicuro del fatto che - libero da simboli e appartenenze - Renzi possa sviluppare tutta la sua potenziale attrattiva trasversale; il più prudente - se non contrario - è Roberto Reggi (coordinatore della campagna di Renzi) convinto che non si possa prescindere dal Pd. In mezzo, per ora, ci sono il sindaco e i sondaggisti, incerti sull’opportunità di una sfida apparentemente terribile. In più, c’è un precedente che pesa e preoccupa lo staff di Renzi: e riguarda proprio le ultime elezioni comunali di Firenze. Visto già nelle primarie che le precedettero Renzi rivelò grandi capacità di attrarre consenso nelle file del centrodestra, oltre a quella del Pd fu messa in campo - appunto - una “lista per Renzi”: ottenne il 5,4% e tre consiglieri, contro i 22 (e il 35%) del Partito democratico...
Fabrizio Masia, dell’istituto EMG (lavora solitamente per La7) continua a sfornare sondaggi entusiasmanti per Renzi, dato già in testa nella corsa per Bersani. In più, gli uomini del sindaco di Firenze fanno sapere che il migliore dei sondaggi commissionati dalla segreteria pd, vedrebbe Bersani in vantaggio di soli due punti. Nemmeno questi, però, bastano a convincere il sindaco di Firenze a lanciarsi nell’avventura. E qualche perplessità anima anche il ragionamento di un analista-sondaggista attento e stimato come Nando Pagnoncelli (Swg)...
«Per scendere in campo con proprie liste - spiega - Renzi ha bisogno di una motivazione fortissima, come la cancellazione delle primarie: in caso contrario, sarebbe accusato di incoerenza rispetto alle cose fin qui dette. E’ chiaro che, una volta in campo, raccoglierebbe voti in maniera trasversale: ma a preoccuparsi, più che il Pd, dovrebbero essere Casini e il centrodestra. In ogni caso, senza sapere con che legge elettorale si voterà, quali saranno le alleanze e che ruolo giocherà il presidente Monti, ogni previsione è scritta sull’acqua... ». Meglio attendere, dunque. Ma alla ipotesi principale (vincere le primarie) Renzi sembra pronto ad aggiungere una subordinata: liste autonome e caccia al voto trasversale. «Ma tanto - assicura vedrete che Bersani le primarie non le cancellerà... ».

Repubblica 29.9.12
Schierati o non allineati sindaci scettici sulle primarie “Il Paese vero è altrove”
Viaggio tra gli amministratori del Pd
di Concita De Gregorio


LA ROGNA di questa baldoria finirà per ricadere su tutti, dice Salvatore Adduce sindaco di Matera, 57 anni, politico di professione e dalemiano di lungo corso in una regione, la Basilicata, dove tutti nel Pd a domanda oggi rispondono: Bersani.

«IO SONO pronto a ritirarmi, se serve: non c’è nulla di male nell’andare in pensione. A
un certo punto, anzi, si deve».
È un giro d’orizzonte fra sindaci e amministratori locali del centrosinistra, questo, che riserva qualche sorpresa. Tra chi fa politica misurandosi coi fatti trovi sindaci dell’ortodossia Pci pronti a farsi da parte, sindaci usciti dalle primarie che chiedono un Monti bis, amministratori del sud desolati dallo scontro di potere interno al partito. Nello scontro vacilla l’Emilia, roccaforte del segretario: è sempre più lunga la lista di quelli che guardano a Renzi. Nella città di Bersani il sindaco è Paolo Dosi, che ha sconfitto alle primarie il candidato proposto da Migliavacca, l’ex Ds Francesco Cacciatore. Dosi, area cattolica, è delfino di Roberto Reggi, ex sindaco di Piacenza e oggi capo dello staff di Matteo Renzi. A Renzi hanno dato sostegno esplicito il sindaco di Finale Emilia, comune terremotato, Fernando Ferioli; il capogruppo Pd in consiglio comunale a Parma Nicola Dall’Olio; il modenese Matteo Richetti presidente del consiglio regionale emiliano; il sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci Graziano Del Rio. Un certo smottamento si avverte a Ravenna (il sindaco Fabrizio Matteucci sente forte “la richiesta di rinnovamento”), a Cesena e a Forlì. Roberto Balzani, attuale sindaco di Forlì, è un docente universitario eletto dopo aver sconfitto da outsider alle primarie la candidata sostenuta dal partito, Nadia Masini. Ha appena pubblicato col Mulino un libro, “Cinque anni di solitudine. Memorie inutili di un sindaco”. Non ha sciolto la riserva su Renzi, «al momento voterei scheda bianca, spero in un Monti bis. Conosco l’ancien regime di partito: c’è un blocco di ricambio da rompere ». Racconta a titolo d’esempio l’istruttiva vicenda dell’aeroporto di Forlì. Costruito negli anni ’30 da Mussolini «quando voleva trasformare i romagnoli in aviatori». La società che lo gestisce in concessione dall’Enac, la Seaf, è partecipata al 49 per cento dal comune. «Ci sono nel raggio di mezz’ora altri due aeroporti: Bologna e Rimini. Per mantenere aperto quello di Forlì si è fatto un accordo con la Wind Jet di Pulvirenti. Un certo numero di biglietti prepagati in cambio del mantenimento dello scalo. Così abbiamo comprato una montagna di biglietti per la Polonia e per la Russia, voli naturalmente vuoti. Poi Wind Jet è fallita. Il comune ha avuto perdite mostruose, 5 milioni di euro nel 2010. Seaf è un centro di potere che serve anche a ricollocare la vecchia classe dirigente. L’ultimo presidente è l’ex sindaco della città». Un andazzo, commenta Graziano Delrio sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci, destinato a finire. «Si è militarizzato il primo livello ma non il secondo. Un quarto dei sindaci italiani hanno meno di 35 anni, moltissimi sono stati eletti nelle liste civiche anche a centrosinistra. Si sentono liberi». Delrio respinge come “velina di apparato” la notizia che lo vorrebbe sostenitore di una legge in favore di Renzi: l’abolizione della norma secondo cui sei mesi prima delle elezioni chi si presenta deve dimettersi da sindaco. «Una proposta presentata più volte da chi mi ha preceduto. Non riguarda Renzi, tra l’altro: non si sta candidando in Parlamento».
Sta con Bersani Salvatore Adduce, sindaco di Matera. A 17 anni segretario della Fgci, migliorista quando Ranieri era segretario della federazione regionale della Basilicata, poi dalemiano. Per 15 anni presidente della lega Coop. «La più grande corrente del Pd è quella che non esiste: quella di D’Alema», ride. Poi ricorda che quando il suo leader era al governo «facemmo l’accordo sul petrolio, i fondi sarebbero andati a finanziare il piano di mobilità per collegare Matera alla rete ferroviaria nazionale. E’ arrivato Berlusconi e si è fermato tutto, anche il treno». Ad agosto Adduce ha sciolto la sua giunta «fatta a regola d’arte con manuale Cencelli» fra Pd, Idv, lista civica, Sel, Udc e socialisti. «Era paralizzata dalla litigiosità interna. Ho messo dentro tre tecnici. Ho voluto dare un segno. Non si può più andare avanti se ciascuno usa il governo per costruire il consenso. La mia generazione, lo so, è l’ultima di un ciclo».
E’ donna di partito anche Ilda Curti, 48 anni, assessore a Urbanistica Integrazione e Periferie del comune di Torino. «Una donna del Novecento», dice di sè, cresciuta nell’ultima leva del Pci. Fa parte della rete di Pippo Civati “Prossima Italia”, guarda con interesse alla candidatura di Laura Puppato. «Ma non mi metto nelle tifoserie senza sapere qual è il gioco. Dei leaderismi diffido. Queste sono, per ora, primarie in supplenza di congresso. C’è una distanza siderale dalle cose. Qui abbiamo bisogno di risposte concrete: possiamo o no dare la cittadinanza ai ragazzi nati in Italia da genitori stranieri? Questo serve, non fare la conta».
Una conta oltretutto inutile a governare, dice Guglielmo Minervini. Assessore Pd nella giunta Vendola, cattolico con don Tonino Bello, dirigente di Pax Christi, fondatore delle edizioni la Meridiana. Tra i più votati nel Pd nel 2010. Siede in piazza, a Bari, tutti si fermano. «Viviamo uno scorcio di presente che fatica a morire. La riforma in senso proporzionale segnerà un ulteriore indebolimento della politica. La sera delle elezioni scopriremo di non avere un governo. La riforma conviene all’Udc e a quella parte del Pd che ha in mente l’alleanza con l’Udc, il governo di unità nazionale, qualche scambio con la presidenza della Repubblica. Quelle cose che si scoprono dopo. Dopo Monti vedo solo un altro Monti. La disperata domanda di alternativa e il bisogno di futuro del Paese non sono l’oggetto del confronto». Saranno primarie, dice, «utili solo a definire i nuovi rapporti di forza dentro il partito. Ciascuno parla al suo esercito. Ho già vissuto due volte, con le primarie di Vendola, lo scontro fra apparato ed energia vitale. Ma ogni volta
è più difficile, ogni volta la gente è più stanca». Gli piacerebbe, dice, che «si ascoltasse chi fa politica affondando le mani ogni giorno nelle piccole cose della vita. E’ nelle piccole cose il seme della grande speranza. Ma lo dico perché sono ottimista patologico.
Perché devo continuare a crederci se voglio alzarmi da questo bar, fra cinque minuti, e tornare a guardare negli occhi la gente».
(10. Continua)

Repubblica 29.9.12
Nichi Vendola chiude al ritorno dei tecnici. “Ma tra i democratici qualcuno ci punta”
“Banchieri e conservatori gli sponsor del professore Primarie? Chissà se servono”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Sostiene Nichi Vendola che il Monti bis sarebbe «una polizza di assicurazione per il mondo dei banchieri». Che il Pd non ha contrastato abbastanza le politiche «liberiste» del governo attuale: «Solo un rumore di fondo». Che lui - il primo a chiederle - non sa ancora, o non sa più, se le primarie siano davvero «una possibilità di ridare speranza all’Italia».
Monti è disponibile a un nuovo mandato. Questo cambia le cose nel centrosinistra?
«Non mi ha stupito questa disponibilità. Lo slittamento verso sistemi politici subordinati ai voleri dei mercati finanziari è un fenomeno esplicito e perfino baldanzoso. Il Monti bis è molto più di un’ipotesi accademica, e la ragione è evidente: guai se si consente a François Hollande di uscire dalla sua splendida solitudine. Guai se si determinasse un’aggregazione di governi capaci di abbattere la gabbia del liberismo».
A questo schema lavora anche una parte del Pd?
«Non c’è alcun dubbio che al suo interno ci siano espliciti filoni culturali neoliberisti. Io invece sono contro il Monti bis perché sono contro il Monti attuale, e penso che sia fallito il generoso tentativo di Bersani di provare a condizionare da sinistra l’agenda dei professori. Anzi, c’è stato un sostegno acritico a provvedimenti socialmente iniqui come le due controriforme Fornero».
Bersani ha contrastato le parti più inique.
«Più che un dissenso è stato un rumore di fondo che non ha impedito la vergogna degli esodati e lo scempio dell’articolo 18. Dal punto di
vista di che cosa è accaduto realmente i comportamenti concreti di Sergio Marchionne hanno il potere di una narrazione elementare».
Chiede una virata a sinistra?
«Chiedo al Pd se esista la possibilità di una spending review che riguardi i poteri forti, le grandi corporazioni, banche e compagnie di assicurazione. Che riguardi i manager che si aumentano i benefit milionari nel pieno del tracollo economico. Esiste anche a questo livello un problema di sobrietà o un banchiere va tolto da questa rubrica perché il ministro Passera potrebbe averne un dispiacere? Possibile che di questo non si possa parlare mai?».
Chi glielo impedisce?
«Il Monti bis è una polizza di assicurazione per questo mondo. Quando si ritiene che sia tecnicamente difficile una drastica tassazione sui grandi patrimoni mentre è
tecnicamente facile estrarre ricchezza dalla povertà, e taglieggiare il lavoro dipendente, quel “tecnicamente” è un avverbio loffio e bugiardo».
Lo firmerà il patto dei progressisti con Bersani?
«Per un uomo di sinistra un patto tra progressisti è un’ambizione naturale, ma la natura di questo patto non può che essere in contraddizione con il patto dei conservatori. Il Monti bis non può essere una delle ipotesi in campo. Altrimenti dovrei essere convocato a un altro tavolo. Quello di chi, magari con tanto giovanilismo e effervescenza, vuole un’Italia e un’Europa ancora più liberiste».
Dopo Torino oggi sarà in Emilia, domani a Marzabotto. È cominciata la sua campagna per le primarie?
«Non posso governare la Puglia se non capisco cosa accade alla Fiat, se non attraverso i luoghi del dolore dell’Emilia Romagna o se non torno in quei luoghi della memoria costruiti dai partigiani dell’Anpi. Ma sulle primarie sto molto pensando. Nei prossimi giorni deciderò. Non so se siano una possibilità per ridare speranza all’Italia».
(a.cuz.)

Repubblica 29.9.12
Rossi, governatore della Toscana: da Grilli intervento sacrosanto, ma non mettiamo tutti nello stesso sacco
“Stipendi di manager e politici bisogna dire basta agli abusi”
di Massimo Vanni


FIRENZE — Ribassiamo gli stipendi per decreto e azzeriamo i benefit. Poi parliamo di come cambiare lo Stato. Visto dal governatore Enrico Rossi e dalla Toscana, che domina la bassa classifica dei costi della politica, il ciclone che si è abbattuto sulle Regioni si affronta così.
Presidente Rossi, inchieste e scandali stanno portando le Regioni sul banco degli imputati, che sta accadendo?
«Sarebbe sbagliato mettere tutto nello stesso sacco, ci sono situazioni diverse. Ci sono Regioni che hanno portato la sanità a posto, che hanno i conti in regola. Per queste il regionalismo è stato proficuo. Per altre invece non si può dire la stessa cosa. In alcuni casi l’autonomia statutaria è stata eccessiva».
Stipendi dei consiglieri regionali, benefit, rimborsi.
«Sì, sui costi delle indennità, i costi della politica. Su questo c’è stato un chiaro abuso».
E come si rimette tutto a posto?
«Come Toscana siamo ai livelli più bassi. La mia indennità è meno di 7mila euro, altri presidenti prendono più del doppio. E’ chiaro che così non va. Abbiamo fatto una proposta al governo chiedendo un decreto per mettere in linea questi costi».
Il bello è che quando nacquero, nel 1970, le Regioni furono una speranza di rinnovamento per il Paese.
«Abbiamo alle spalle dieci anni di federalismo leghista, quello anti-nazionale, che pensava che la Regione potesse fare tutto da sola. Un federalismo che si è accompagnato ad un venire meno dello Stato, della sua capacità di indirizzo».
Buttiamo a mare il federalismo?
«Ne serve uno più equilibrato. Non puoi costruire un federalismo
se non hai una Camera dedicata alle Regioni e alle autonomie locali. Senza è difficile tenere un quadro d’insieme».
Lei cosa farebbe?
«Aprirei una discussione con le Regioni. Sono pronto a rimettere in discussione il perimetro delle Regioni: 6 hanno meno di 2 milioni di abitanti, 4 addirittura meno di 1 milione».
Dopo le Province, riduciamo anche le Regioni?
«La riduzione delle Province può essere considerata un primo passo in vista del superamento. Poi però ci sono gli 8mila Comuni. Voglio dire, è una riforma generale delle istituzioni quella di cui abbiamo bisogno. Parlamento compreso».
Dopo la bufera di questi giorni però da dove si riparte?
«Togliamo i benefit, togliamola diaria, allineiamo gli stipendi ai livelli più bassi. Al governo chiediamo un decreto d’urgenza per uscire dal pantano. Ma poi serve anche una riflessione sul federalismo, una riforma delle regioni e del parlamento. Sarà questo un tema della prossima legislatura».
Che le fa pensare quello che è accaduto nel Lazio?
«Che non basta il rinnovamento generazionale. Si devono fare i conti con il decennio berlusconiano, l’arricchimento personale, la difesa dei privilegi. C’è bisogno di un rinnovamento morale. Non condivido molte cose di Monti ma almeno è riuscito a dare l’idea di una politica come servizio. Questo governo, che si può criticare ha impresso una svolta morale».
Il ministro Grilli dice ‘fuori i corrotti dalle società pubbliche’.
«Giusto. Serve anche una legge che regoli la vita dei partiti. Basta il web per fare un partito? E’ poi giusto che le banche salvate dallo Stato non pongano limiti ai benefit dei manager? E che dire delle vacanze pagate da altri?».
Sta parlando di Formigoni?
«Di lui come di altri, a me è stato insegnato che nell’ospitalità deve valere il principio di reciprocità».

Repubblica 29.9.12
Bersani vuole un bonus più alto, ma nel partito c’è chi pensa a tenere in vita il Porcellum
Legge elettorale, il Pd teme i sondaggi “Con il premio del 10% è la paralisi”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Le hanno provate tutte, a via del Nazareno. Tutte le possibili combinazioni con cui il Pd potrebbe tentare di vincere le elezioni con una legge elettorale proporzionale e un premio di maggioranza del 10% (compromesso possibile tra l’8 offerto dal Pdl e il 15 richiesto da Bersani). Il risultato è che non se ne esce: considerate le percentuali che i sondaggi danno ai partiti, in nessun caso — con un premio del 10 — si raggiungerebbe una maggioranza in grado di governare il Paese.
Sulle scrivanie del segretario e del coordinatore organizzativo Maurizio Migliavacca ci sono tabelle che mettono paura. Proiezioni della legge di cui si sta discutendo in queste ore sui sondaggi. Disastrose. Perché con il Pd che viaggia tra il 25 e il 29%, l’Udc al 6-7, e Sel e Idv strette nella forbice tra 5 e 7, le prospettive del centrosinistra non sono rosee. Sia una coalizione che metta insieme i democratici con Vendola e Casini che un ritorno della già stracciata foto di Vasto (Pd-Idv-Sel), con il 10% di premio non porterebbero da nessuna parte. E lo stesso vale per il centrodestra. Pdl-Lega-Udc — se mai potessero tornare insieme — non andrebbero lontano. Nei sondaggi in mano ai democratici il partito di Silvio Berlusconi non va mai oltre il 20-21%, e la Lega è ferma al 5. Mentre l’“incubo” del Movimento 5 Stelle prende le forme di un 16-17%, benché la settimana scorsa fosse sceso al 13,5.
La conseguenza di tutto questo è che con una legge elettorale di compromesso, la situazione che verrebbe fuori sarebbe di ingovernabilità. Servirebbero una grande coalizione, e un altro salvatore della patria. Quindi, un Monti bis. Ancora una volta con una maggioranza composita e litigiosa. Non il migliore dei mondi possibili, per il segretario Bersani. Ma il minore dei mali possibili per altri esponenti pd che starebbero lavorando a questo schema. Certo, nessuno se lo intesta, anche se più di un deputato racconta che Massimo D’Alema avrebbe detto — in semplici chiacchiere da Transatlantico — che il 10% di premio è più che sufficiente.
Quanto al centrodestra, «è quello che vuole per essere ancora della partita», dice Luigi Zanda.
Il senatore pd ieri non vedeva alcun passo avanti sulla legge elettorale, a parte il compromesso tirato fuori dal cilindro di Roberto Calderoli, con un doppio premio di maggioranza (del 15% in caso la coalizione superi il 40, oppure del 5 al primo partito) e liste corte, di 4 o 5 candidati. Difficile che l’autore della “porcata” possa venire ascoltato, ma — avverte chi ci sta lavorando — il redde rationem è inevitabile. Il presidente del Senato Renato Schifani ha garantito al Capo dello Stato che entro due settimane la legge arriverà in aula. L’ultimo appello di Napolitano è stato più duro del solito, e ce ne saranno ancora. Se la commissione non sarà capace di scegliere tra le proposte base, quindi, lo farà l’assemblea dei senatori. Col rischio che ne esca un pastrocchio, certo. Ma con la certezza di venire fuori dal porcellum.
Che invece, farebbe molto comodo ai democratici: «Bersani sta tenendo duro sul premio di maggioranza perché può permetterselo — dice un esponente della segreteria — il Pdl ha un margine di ricatto minimo visto che il punto di partenza, la legge attuale, per noi sarebbe più che conveniente». Per questo, anche chi nel Pd è favorevole a cedere sulle preferenze, spalleggia il segretario: «La battaglia per il premio è sacrosanta. Incassato quello, con un compromesso che lo porti almeno al 12%, potremmo cedere sul resto».
E però, è un dato di fatto, la voglia di porcellum tra i democratici cresce man mano che si avvicina il voto. Paolo Gentiloni avverte: «È una posizione miope, un’ipotetica coalizione con Sel e Udc avrebbe una maggioranza certa alla Camera, ma instabile al Senato per via dei premi regionali. Torneremmo da capo a dodici». Altrettanto contrario il vicesegretario Enrico Letta: «Insieme al rigore, alla riduzione dei costi e alla gara aperta delle primarie, il cambio della legge elettorale è l’unico modo che abbiamo per combattere l’antipolitica». E quindi sì, il Pd è di certo confuso, ma anche nel Pdl le posizioni cambiano da un giorno all’altro. Ora Berlusconi, in contrapposizione con Alfano e altri dirigenti, starebbe pensando di tenersi il porcellum. E di garantirsi, per lo meno, la scelta diretta di chi porterà in Parlamento.

il Fatto 29.9.12
Pd e Idv contrari all’amnistia
Orlando: “Ultima ratio per svuotare le carceri. Belisario: “Immorale”

di C. Pe.

Il Partito democratico considera l’amnistia l’ultima ratio per risolvere l’emergenza carceraria. E così l’indulto. Nemmeno l’Italia dei valori voterebbe un provvedimento di clemenza, che definisce “immorale”.
Dopo l’appello del capo dello Stato ad accelerare i tempi per risolvere il sovraffollamento delle galere italiane, anche ricorrendo a leggi svuotacarceri, si è aperto il dibattito sulla strada da percorrere. Ma il tempo stringe: nelle 206 prigioni sul territorio ci sono 66.632 detenuti contro l’effettiva capienza di 45.742 posti complessivi. Lo spazio vitale è ridotto in media a 3 metri quadri, molto al di sotto di quella soglia che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ritiene “una tortura”.
“Preferiamo continuare a lavorare su ipotesi che affrontino le cause strutturali del sovraffollamento carcerario e non su ipotesi eccezionali”, ha spiegato Andrea Orlando, il responsabile Giustizia del Pd. “Ci sono leggi che se approvate rapidamente possono diminuire la popolazione delle carceri in tempi ragionevoli”. Le ipotesi che i democratici indicano sono molteplici e prevedono tutte un percorso di reinserimento. Il primo è la “messa alla prova”. Come dice la parola stessa (dopo una sospensione della pena) prevede una “prova” per i condannati che, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali, svolgono attività rieducative. Poi c’è la depenalizzazione dei reati minori. Che non significa che un reato non sia più tale, bensì che passi dalla giustizia penale a quella amministrativa. Si tratta di illeciti del livello dell’ingiuria, gli schiamazzi notturni o le infrazioni penali del codice della strada. Questi reati non prevedono il carcere, ma se commessi in successione con un crimine principale creano una recidiva che condanna quindi alla pena detentiva. Tra le proposte del Pd anche l’abolizione della ex Cirielli e un ricorso più frequente ai domiciliari.
“L’EMERGENZA è strutturale e va affrontata in maniera complessiva” spiega la vice presidente dell’Anm, Anna Canepa. “L’amnistia o l’indulto sono ‘cerotti’ che creano ulteriori problemi e non risolvono la situazione”. Quali sono allora le alternative? “Un diritto penale mite – dice ancora Canepa – che permetta di svuotare le carceri che oggi sono disumane e non rieducano come dovrebbe succedere in un paese moderno e democratico”. A favore dell’amnistia la Cei, che lo considera strumento per un “possibile riscatto”, il Popolo della libertà e anche il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, secondo il quale il provvedimento è ormai “necessario”. Il governo invece si pone a cavallo delle due posizioni: “Il mio pensiero non è molto lontano da quello del presidente della Repubblica” ha detto il ministro della Giustizia, Paola Severino, anche se “il governo sta mettendo in piedi tutta una serie di interventi strutturali che non sono solo quelli del salva carceri di gennaio ma anche misure alternative alla detenzione che dovrebbero incidere stabilmente sul numero dei detenuti”.

il Fatto 29.9.12
La religione o le religioni?
risponde Furio Colombo


Il ministro dell’Istruzione Profumo ha detto che, in un Paese ormai multiculturale, l’ora di religione non può riguardare una sola religione cattolica. Mi sembra ovvio, ma ne è nato un putiferio
Fabio

DEVO DIRE che sono stupito delle veementi reazioni di esponenti cattolici, specialmente nel mondo politico. È vero, il mondo politico sta attento alle avversità che potrebbe incontrare se e quando dispiacesse al Vaticano. E allora dirò che sono anche stupito di posizioni di rigetto di una frase semplice e (come giustamente dice il lettore) ovvia, da parte di personaggi della Chiesa che invocano le prescrizioni del Concordato. Secondo loro il cattolicesimo romano gode di un’esclusiva. Mettiamo che stia in piedi l'argomento che vincola le scuole pubbliche italiane a impartire un'unica educazione religiosa (ovvero insegnamento del catechismo, non della religione), insegnamento valido, dunque anche per i bambini islamici e delle altre culture e religioni che si contano ormai a decine nel nostro Paese. A parte la pretesa, espressa con una implicita persuasione di ragione (non religione) superiore dell'uomo bianco di avere un diritto di prelazione sui bambini degli altri, a parte il linguaggio possessorio di gran parte delle sgridate dedicate all'incauto ministro Profumo, come se si fosse permesso l'invasione di un campo che non gli compete, mancano diversi pezzi a questo discorso (parlo delle obiezioni e delle sgridate) e c'è una certa rozzezza nella visione della società italiana, ritenuta sotto tutela di vescovi e parrocchie. È vero, viviamo tuttora fra le rovine lasciate, sia nella legge, sia nel comportamento e nella percezione, dalla mala politica della Lega Nord, che ha diretto, attraverso il potere del peggior ministro dell'Interno della Repubblica, tutta la forza della sicurezza, della polizia e della burocrazia italiana, contro l'immigrazione e gli immigrati. E ciò ha impedito il riconoscimento esplicito di gruppi e culture e dunque anche di religioni, riti e forme di culto. Ha impedito che si formasse nelle scuole un mondo di accoglienza, benevolenza, attenzione e rispetto (atteggiamenti tanto più doverosi, ma anche naturali, si direbbe, per i credenti) invece di un permanere di estraneità, quando non di rigetto e di isolamento. Bravi insegnanti e intelligenti genitori hanno creato molte civili eccezioni, ma l'Italia resta, dal punto di vista delle leggi, della burocrazia e della scuola, un Paese di estraneità e di rigetto. Il ministro Profumo ha detto, sia pure quasi per caso, la cosa giusta. Speriamo che non cada nel vuoto e che il sostegno diventi impegno politico del partito che non c'è. Un partito laico e sempre dalla parte dei più deboli.
Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano

Repubblica 29.9.12
Patti Lateranensi
Quel “baco” nella Costituzione
risponde Corrado Augias


Caro Augias, il professor Adriano Prosperi, su Repubblica
di alcuni giorni fa, ha denunciato con rara chiarezza il “baco” che rende fragile la nostra Costituzione scrivendo “di fatto i principi di uguaglianza e di pari dignità degli italiani espressi nella Costituzione furono invalidati col semplice inserimento dei Patti Lateranensi: da quella porta come da un cavallo di Troia entrarono nella vita del paese continue e sistematiche lesioni di quei diritti”. Questa sarebbe la vera “grande riforma” costituzionale cui porre mano, la cancellazione del secondo comma dell’articolo 7. Abrogandolo si collocherebbero al loro giusto posto i Patti lateranensi, fuori cioè dalla Costituzione. Accade invece che proprio quel comma sia il collante che tiene unite le forze politiche. Per cui al momento non c’è alcuna possibilità concreta che il principio di pari dignità degli italiani venga ristabilito.
Vittorio Melandri

Dell’articolo 7 della Costituzione ormai si parla poco. Invece, fin dal momento della sua formulazione e per molti anni a seguire, è stato oggetto di accanite discussioni. Il primo comma riprende a suo modo il principio già formulato da Cavour: “Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Il “baco” come l’ha giustamente definito il professor Prosperi si trova nel secondo comma: “I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi”. Fu Palmiro Togliatti, in base ad un calcolo politico, a determinare il voto favorevole dei comunisti a questa formulazione. Il segretario del Pci pensava di favorire in questo modo la permanenza dei comunisti al governo. Di lì a poco invece vennero allontanati dato il superiore ordine mondiale che voleva l’Italia collocata nella sfera d’influenza americana. Ci sarebbe per la verità anche un terzo comma in quell’articolo, secondo il quale “le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Ma sarebbero necessari governi ben più solidi di quelli che abbiamo per metterlo in pratica. Anche per questo il ministro della Pubblica istruzione Francesco Profumo ha dovuto fare rapida marcia indietro dopo aver incautamente annunciato di voler modificare l’assetto esistente. Indipendentemente dal modo in cui si può interpretare l’insegnamento di una materia così anomala, è proprio l’esistenza di questo meccanismo a viziare in partenza la disciplina. Basta pensare che i prof di religione sono pagati dallo Stato ma scelti dai vescovi e che, nonostante l’articolo 33 della Costituzione, dica “l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”, questi insegnanti sono tenuti a seguire nelle loro lezioni il canone dettato dalla curia a pena di licenziamento.

Repubblica 29.9.12
Il risveglio degli onesti
di Carlo Galli

PUÒ apparire strano che il Ministro dell’Economia reputi necessario sancire ora una prassi di attenzione e di vigilanza che avrebbe dovuto essere ovvia da sempre, affermando che se ci sono notizie penalmente rilevanti «su amministratori o altri componenti importanti delle società di cui il Tesoro è azionista, deve essere fatta la massima chiarezza in modo trasparente sui fatti e sulle implicazioni sul funzionamento delle società».
Lo stesso potrebbe valere per le decisioni prese dalla Conferenza delle Regioni e presentate al governo; riduzioni del numero dei consiglieri regionali, delle spese dei gruppi consigliari, pubblicità dei bilanci, aumenti dei controlli della Corte dei conti. Tutte iniziative che ora, nel convulso susseguirsi degli scandali, possono sembrare dettate più dal panico che non invece – come sicuramente sono – da ottime intenzioni. Il che dimostra che le riforme non solo devono andare nella direzione corretta, ma devono anche essere tempestive. La politica ha molto a che fare con il senso dell’opportunità, del momento giusto, dei segni colti per tempo.
Segni che invece le élites non hanno ben messo a fuoco, se non in ritardo: alcuni politici sono presi con le mani nel sacco, smascherati nelle loro pratiche di sperpero del pubblico denaro divenute ormai costume diffuso, e introiettate come normalità, come privilegi di una casta irresponsabile; altri mettono il turbo ad iniziative lodevoli ma che fino a ieri procedevano con tranquillità; mentre la magistratura prende a indagare in tutta fretta, dando rapido inizio a controlli certamente benvenuti e da tempo attesi, o accelera con energia inchieste aperte da tempo.
La verità è che l’Italia, oggi, si sta forse svegliando, e che il risveglio ha colto molti di sorpresa. La dura crisi economica nella quale il Paese si dibatte, i severi tagli alla spesa pubblica – che hanno colpito la società, le famiglie, i ceti più deboli – stanno rendendo i cittadini più attenti alle spese del sistema politico, meno rassegnati a sopportare come un destino, come una inevitabile maledizione, l’essere governati da ceti politici spesso inadeguati. L’Italia costretta a guardarsi nello specchio della recessione, obbligata a una dura dieta dimagrante, a una nuova austerità, non si limita più a sogghignare della politica: chiede i rendiconti, reclama giustizia, esige rigore anche e proprio dai politici che glielo impongono. I quali, appunto, reagiscono come se fossero presi in contropiede, anche quando non sono sorpresi in flagrante. E mancano di lucidità. Basta vedere la reazione assolutamente controproducente della destra, ferma alla posizione che fu già di Craxi, e che lo rovinò – “siamo tutti ugualmente colpevoli” –, e che enumera gli inquisiti di sinistra come se questa fosse una risposta adeguata a chi l’accusa del malaffare del Lazio o della Lombardia; una destra goffamente collocata di traverso rispetto al disegno di legge anticorruzione, necessario sotto il profilo economico e ancora più sotto il profilo etico, che pure è bloccata dalla resistenza di un partito che pare non curarsi di essere finito nell’angolo, a combattere la battaglia sbagliata nel tempo sbagliato. La battaglia contro le tasse, contro l’euro, contro la magistratura, che negli anni passati tante volte fu vinta da Berlusconi; e che invece oggi sta prendendo un’altra piega.
Ciò che sta facendo pendere i piatti della bilancia nella direzione opposta è appunto il ddl anticorruzione, divenuto il punto di coagulo di un nuovo protagonismo dei cittadini, i
quali con le loro firme – ormai più di centomila – chiedono che sia approvato al più presto. E si sottraggono così tanto all’inerzia e alla rassegnazione davanti al malcostume politico, quanto alla deriva qualunqui-stica, alla protesta generalizzata, alle tentazioni anti-sistema, consegnando al governo – all’istanza centrale, uscita dalla pesante cappa di compromissione del recente passato – anche questo nuovo compito: riportare alla decenza e alla legge i territori degradati, le autonomie dissipate, le regioni che aprono voragini nei loro conti e nello spirito pubblico degli italiani (non sarà facile, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione; e molto difficile per le regioni a statuto
speciale).
Un compito da svolgere con risolutezza, con pochi proclami e con molte iniziative concrete. Un compito, tuttavia che non deve essere interpretato come la lotta del governo e dei cittadini contro i partiti e contro le regioni – sarebbe troppo facile, e anche ingiusto: non tutte le regioni sono uguali, non tutte possono esibire le stesse realizzazioni, non tutte sono segnate dal malaffare – ma come un cammino che un intero Paese e un intero sistema politico, per fuggire il rischio di una crisi sistemica, devono intraprendere verso nuovi costumi pubblici, verso un nuovo incivilimento. Che potrà consistere solo nel risincronizzare i tempi del Paese e i tempi della politica, nel nuovo incontro fra il bisogno di serietà degli italiani con una politica liberata da personaggi inqualificabili e pratiche scandalose, e riportata alla sua dimensione di potere trasparente e di severa responsabilità.

l’Unità 29.9.12
I partigiani e il veliero amico dei palestinesi
di Marco Rovelli


UNA COLTRE DI SILENZIO È CADUTA SULLA PALESTINA, DOPO LE PRIMAVERE ARABE E LA CRISI SIRIANA. Eppure lì le cose continuano ad andare male come sempre: la West Bank colonializzata e frantumata come un arcipelago di tante isolette non comunicanti fra loro, Gaza assediata da un blocco che priva i suoi abitanti dei più elementari diritti umani, oltre che distruggendo l’economia del Paese. Ecco dunque l’importanza, anche solo simbolica e comunicativa, di imprese come quella della Freedom Flotilla. Nel 2010 una nave turca venne attaccata dagli israeliani, che fecero nove morti, mentre l’anno scorso le navi vennero bloccate in porto in Grecia. Stavolta è stato un gruppo di svedesi ad acquistare un vecchio veliero finlandese, Estelle, che adesso si sta dirigendo verso Gaza. In questo viaggio la nave ha fatto tappa in diversi porti, e adesso è attraccata nel porto di La Spezia, dove stamani, al molo, ci sarà un corteo marino dove vecchi partigiani accoglieranno l’equipaggio, nel pomeriggio visite guidate alla nave, e in serata un concerto. Poi sarà la volta di Napoli, dove il Comune ha patrocinato l’evento (tutti i programmi su freedomflotilla.it). A bordo, nell’equipaggio, c’è Dror Feiler, un ex paracadutista israeliano che nel 1970 si rifiutò di prestare servizio nei Territori occupati, uno dei primi refusniks. Feiler, che oggi è un artista, e portavoce dell’organizzazione European Jews for a Just Peace, era presente sulla nave turca assaltata dai militari israeliani, e anche lo scorso anno era sull’unica nave che riuscì a salpare dalla Grecia. È necessario sostenere queste imprese, fatte di tante singole testimonianze come quella di Feiler: laddove la politica internazionale non è in grado di risolvere la questione, è solo l’impegno dal basso che può sbrogliare il tragico intrico della matassa israeliano-palestinese.

il Fatto 29.9.12
La “pistola fumante” di Netanyahu è un fumetto “atomico”
di Stefano Citati


È la nuova smoking gun, la “pistola fumante” per una guerra in Medio Oriente. Il disegno, volutamente infantile, nelle mani del premier israeliano Netanyahu che lo illustra dalla tribuna dell’Assemblea generale dell’Onu dove ha da qualche ora finito di parlare il presidente iraniano Ahmadinejad, è una bomba da fumetto con la miccia accesa e rappresenta lo stato della capacità atomica dell’Iran. Un segno rosso indica che gli scienziati di Teheran sono sempre più vicini all’ottenere - “entro la prossima estate”, dice Netanyahu - la Bomba, l’ordigno nucleare che minaccerebbe Israele e buona parte dell’Asia minore.
A differenza delle prove, anche fotografiche, che gli americani portarono a supporto delle loro ragioni per attaccare il regime iracheno di Saddam quasi 10 anni fa - e che si rivelarono poi false e montate, anche grossolanamente, il primo ministro di Gerusalemme usa l’illustrazione come una prova che ‘capirebbe anche un bambino’. E i bambini che siedono nel-l’Assemblea generale Onu rappresentando le nazioni del mondo dovrebbero convincersi che non c’è più tempo da spettare, che “Israele non permetterà che quella linea rossa venga varca” e il regime della teocrazia islamica raggiunga l’obbiettivo.
PER QUESTO il premier “falco”, rappresentate di quella destra oltranzista che ha una seppur debole maggioranza in Israele, si sta schierando, anche con la sceneggiata al Palazzo di Vetro, con il candidato repubblicano Mitt Romney, le cui posizioni sul Medio Oriente sono più belligeranti di quelle del presidente Obama. Forse per questo l’attuale inquilino della Casa Bianca ha, martedì, nel suo intervento d’apertura dell’Assemblea onusiana, usato parole minacciose nei confronti dell’Iran, per non farsi sorpassare a destra su un tema di politica internazionale comunque piuttosto sentito negli Usa. Al punto che in un colloquio telefonico ieri i due leader si sono detti “totalmente d’accordo” nell’impedire l’ordigno iraniano. La deterrenza della “sponda” repubblicana di Netanyahu sembra aver funzionato.

Corriere 29.9.12
Boom di caricature in Rete per Netanyahu
di V. Ma.


«Volete sapere quanto è vicino l'Iran alla bomba? Guardate questo diagramma...». Il disegno mostrato all'Assemblea generale dal premier israeliano Benjamin «Bibi» Netanyahu doveva far cogliere appieno ai leader mondiali i rischi insiti nel programma nucleare di Teheran. Questa almeno era l'idea degli «stretti consulenti» che per giorni gli avevano sottoposto «diagrammi» diversi. L'attenzione, in effetti, non è mancata. Decine di migliaia di commenti in pochi minuti hanno inondato Twitter. Su questo tono: «Se Wile Coyote mette le mani su quei piani, Bip Bip è fritto», ha scritto il New Yorker. E dopo i tweet, decine di caricature in Rete. I sostenitori di Bibi insistono che il «diagramma» è stato un successo: l'obiettivo era proprio questo, attirare l'attenzione. Ma Jeffrey Goldberg dell'Atlantic Monthly suggerisce che «proprio perché il programma iraniano è una tale minaccia per Israele, quella vignetta è una pessima idea». Una nota della Casa Bianca ieri riferiva che Netanyahu e Obama si sono parlati per telefono, sottolineando il loro «pieno accordo» e «l'obiettivo comune di impedire all'Iran di ottenere un'arma nucleare». Ma sul web si continuava a parlare della «Bomba di Bibi». «Se l'atomica iraniana è come quella di Wile Coyote non abbiamo nulla da temere», twittava un utente.

il Fatto 29.9.12
La cacciata del “principino maoista”
Bo Xilai, il leader che si ispirava al “Grande Timoniere” espulso dal partito comunista cinese
di Simone Pieranni


Pechino Crimini, tangenti, donne: è l’inferno di Bo Xilai tratteggiato dal comunicato stampa della Xinhua, l'agenzia ufficiale cinese, con cui viene decretata l'espulsione dal Partito del “nuovo Mao”, l'ex leader di Chongqing caduto in disgrazia a causa del più grande scandalo politico dell'ultimo ventennio cinese. Subito dopo l'annuncio del prossimo processo per Bo Xilai, un'altra comunicazione ufficiale: il 18° congresso del Partito, che sancirà il passaggio dalla 4a alla 5a generazione dei leader nazionali, comincerà a Pechino l'8 novembre, chiudendo così il sipario sulle tante voci di posticipi del summit. Un pomeriggio di fuoco, a squarciare la carriera politica del leader che più di tutti aveva saputo catturare l'attenzione mediatica e popolare, grazie a un carisma e un'intraprendenza che ha finito per pagare caro: la Xinhua ha decretato con un comunicato l'espulsione dal Pcc di Bo Xilai, ex leader del modello “Chongqing”, le cui mire politiche hanno trovato lo sbarramento di quella gestione collegiale del Partito che mai ha digerito l'esuberanza del “principino” che aveva riesumato Mao e dichiarato guerra alle triadi.
Invischiato e intrappolato dall'ex braccio destro, quel poliziotto la cui fuga nel consolato Usa di Chengdu ha dato il via al turbine di eventi che hanno consacrato la sconfitta politica di Bo Xilai: la moglie accusata e poi condannata all'ergastolo per l'omicidio dell'uomo d'affari britannico Neil Heywood (anche se un medico legale ha sollevato dubbi riguardo la sua reale colpevolezza) e ora le imputazioni per gravi violazioni disciplinari che preannunciano un processo ricco di colpi bassi e particolari. Secondo l'accusa Bo Xilai avrebbe commesso dei reati fin dai tempi dei suoi incarichi precedenti a Chongqing, ovvero a Dalian e Lianoning.
La Cina, però, nella sua consueta ritualità nasconde dietro alle accuse di crimini, uno scontro politico di cui Bo Xilai è innegabilmente lo sconfitto. A Chongqing aveva creato un modello fatto di intervento statale nell'economia e controllo ideologico con l'ausilio del ricordo della Rivoluzione Culturale. “Canta il rosso e picchia il nero”, lo slogan: insieme alle canzoni rosse, ai messaggi con frasi del Grande Timoniere, Bo Xilai aveva avviato una campagna contro la mafia locale: migliaia di arresti, condanne, e critiche di metodi poco ortodossi. Secondo i detrattori di Bo, tutta la campagna contro le triadi di Chongqing sarebbe stato solo un metodo per eliminare i propri avversari politici, che hanno avuto l’occasione irripetibile della vendetta.

Corriere 29.9.12
La cacciata di Bo il principe rosso con troppe amanti
Via dal partito l'uomo degli scandali
di Marco Del Corona


PECHINO – Ottantadue milioni meno uno. Da ieri il Partito comunista cinese non conta più Bo Xilai tra i suoi membri. Il «principino rosso» figlio di un vicepremier, ex sindaco di Dalian, ex ministro del Commercio, ex segretario del Partito della megalopoli di Chongqing, caduto politicamente in disgrazia e indagato, è stato espulso ieri. Il Politburo ha annunciato anche la data del 18° congresso, rimandata e taciuta con un accanimento tale da moltiplicare le voci di disaccordi profondi. Per scegliere i nuovi vertici, i 2.270 delegati del Partito si daranno appuntamento l'8 novembre, data significativa sia in termini numerologici (l'8 è cifra fausta) sia strategici (due giorni dopo le presidenziali Usa). L'assise sarà, per l'agenzia Xinhua, «un meeting molto importante in una fase critica in cui la Cina sta costruendo una società moderatamente prospera». Il doppio annuncio conferma l'intreccio tra la parabola discendente del paladino della sinistra «neomaoista» e la faticosa gestazione della successione, che porterà Xi Jinping alla guida del Partito. E con la sua dettagliata lista di crimini, il comunicato che inchioda Bo suggerisce che entro novembre possa esserci spazio per un'incriminazione formale se non un processo.
Le accuse sono ferocemente esplicite. Si parla delle «serie violazioni della disciplina del Partito» per le quali Bo aveva già perso il posto di leader di Chongqing, il seggio al Politburo ed era stato messo sotto indagine interna. Ma si dice anche di come abbia «abusato del potere e accumulato pesanti responsabilità» sia nel caso di Wang Lijun (il suo ex capo della polizia, fuggito in febbraio in un consolato Usa e condannato a 15 anni per corruzione e altro) sia nel caso della moglie, condannata a morte con la condizionale per l'assassinio del britannico Neil Heywood. Bo «ha sfruttato il suo ruolo pubblico per cercare profitti per altri e ricevuto cospicue tangenti». Ha poi «avuto o mantenuto relazioni sessuali inappropriate con un gran numero di donne» (volenterosi esegeti del web le hanno subito calcolate tra le plausibili centinaia e il migliaio), «violato regole organizzative e fatto scelte sbagliate nelle promozioni di altri». È citato anche «il coinvolgimento in altri delitti», benché l'impatto del caso Bo sia esplicitamente politico: «I comportamenti di Bo — scrive infatti la Xinhua — hanno minato gravemente la reputazione del Partito e del Paese, con un impatto molto negativo in patria e all'estero».
I simpatizzanti di Bo hanno già fatto sapere il loro malumore. Perché di Bo viene demolito anche il modello politico, sociale ed economico, all'opposto di quello elaborato a Pechino e spinto dagli uscenti Hu Jintao e Wen Jiabao, numero uno e premier. Tra populismo nostalgico e campagne antimafia che sfociavano in purghe degli oppositori, tra culto della personalità (la propria) e attrazione di investimenti, Bo dal 2007 ha reso Chongqing, municipalità da 33 milioni di abitanti, uno dei due avamposti — con Chengdu — della «spinta a Ovest»: un motore di sviluppo che ha richiamato investitori dall'estero (è qui che l'Italia aprirà nei prossimi mesi un nuovo consolato). La decisione su Bo mostra così una leadership almeno in parte ricompattata, ansiosa di mostrarsi solida dopo la sparizione per due settimane del numero uno designato Xi Jinping e le relative voci. E se le grandi manovre continuano, Pechino intanto si riempie di addobbi floreali. Cioè: siamo (quasi) pronti. Dirlo con un'espulsione dal Partito funziona, ma dirlo con i fiori fa più «soft power».

La Stampa TuttoLibri 29.9.12
Koonchung. Il nostro finto paradiso
Sull’oblio di Tiananmen
di Ilaria Maria Sala

qui

l’Unità 29.9.12
Biografia di un pacifista
Einstein pensatore e militante politico raccontato da Greco
Una scelta radicale Già sensibile in giovane età, sognò l’unione europea nel ’14 e cercò di fermare la bomba atomica
di Gaspare Polizzi


C’È UN ALTRO EINSTEIN OLTRE ALLO SCIENZIATO UNIVERSALMENTE NOTO: il pensatore e il militante politico che intervenne da protagonista per quarant’anni, dalla prima guerra mondiale allo scontro bipolare tra Usa e Urss, nelle drammatiche vicende del Novecento. Pietro Greco offre per la prima volta, in Einstein aveva ragione. Mezzo secolo di impegno per la pace, un quadro completo dell’Einstein politico, per «dimostrare che l’uomo è stato un pacifista militante», ricostruendo il suo impegno in stretta connessione con la sua attività di scienziato e rintracciandone con efficacia le prime motivazioni nella formazione giovanile.
L’orizzonte ideale in cui si muove l’Einstein politico è segnato, in progressione di importanza, dal socialismo, dalla democrazia e dal pacifismo. Fu un pacifismo «militante e intellettuale, intuitivo e analitico», che viene seguito da Greco nell’intreccio tra la biografia di Einstein e la storia del Novecento, con aggettivi diversi che scandiscono storicamente i capitoli del libro: pacifismo «istintivo» quello del giovane Albert, «radicale» nella tragedia annunciata dall’avvento del nazismo in Germania, «autosospeso» dinanzi allo spettro della guerra mondiale e alla scelta del governo Usa di costruire la bomba atomica, infine nuovamente impegnato, dopo la guerra, per il disarmo nucleare. I fantasmi contro i quali Einstein combatté nei suoi ultimi anni sono ancora dinanzi a noi: «quello della guerra atomica, che non accetta di scomparire. E quello della guerra classica, che è diventato ancora più aggressivo». A ragione Greco conclude: «Non solo la fisica, ma anche la pace aspetta un nuovo Albert Einstein».
L’ultima battaglia dello scienziato produsse il Manifesto Einstein-Russell, firmato poco prima di morire per contrastare l’escalation nucleare, nel quale si legge: «esortiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a riconoscere pubblicamente, che i loro scopi non possono essere favoriti da una guerra mondiale, e, di conseguenza, li esortiamo a trovare mezzi pacifici per la sistemazione di tutti gli argomenti di contesa tra loro». Sulle basi di questo manifesto è sorta la «Conferenza di Pugwash per la scienza e gli interessi del mondo», che otterrà nel 1995 il Nobel per la Pace.
LA SUA LUNGIMIRANZA
Il primo documento politico firmato da Einstein fu il Manifesto agli Europei, scritto allo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1914 Einstein mostrò ancor più coraggio che nel 1955. Era già uno tra i più noti fisici europei e il grande Max Planck, «il fisico più influente di Germania, il più noto fisico teorico del mondo», lo aveva appena accolto a Berlino e con l’entrata in guerra della Germania aveva firmato un patriottico e militarista Appello alla cultura mondiale. Einstein, coraggiosamente, gli contrappone il suo manifesto dove si legge «Noi dichiariamo qui pubblicamente la nostra fede nell’unità europea... Il primo passo in questa direzione è l’unione delle forse di tutti coloro che hanno sinceramente a cuore la cultura dell’Europa». Un sogno che prenderà forma 27 anni dopo con il Manifesto di Ventotene del 1941.
Nel 1914 il trentacinquenne Einstein esprime per la prima volta pubblicamente il suo spirito pacifista, anti-militarista e anti-autoritario. E il suo «sentire» ha radici profonde: nelle felici esperienze formative vissute soprattutto a Zurigo, terra di grande vivacità intellettuale, dalla quale transitarono tra ‘800 e primo ‘900 pensatori socialisti e anarchici come Marx, Bakunin, Proudhon, Lenin, Luxemburg, Trockij, esponenti della cultura e della politica ebraica come Weizmann, il futuro primo Presidente dello Stato di Israele, psicoanalisti del rango di Jung.
Il carattere antiautoritario di Einstein si esprime già a cinque anni, quando scaglia una sedia contro la sua insegnante «privata» che dovrebbe trasmettergli un’istruzione più formale. Esso si unisce presto a una vocazione alla conoscenza che lo conduce a leggere già a tredici anni non per interesse «puramente personale», ma per comprendere il mondo, libri come la Critica della ragion pura di Kant o un manuale di geometria euclidea grazie il quale coltiva da sé il calcolo differenziale e integrale, e poi opere di Hume, Darwin, Mach. Si costruisce così in modo del tutto personale una vasta cultura scientifica, accompagnata sempre da un atteggiamento ironico e anti-autoritario. Sarà questa sua solitaria rivolta contro ogni condizionamento culturale e religioso a portarlo a decidere a sedici anni di concorrere per l’iscrizione al Politecnico di Zurigo, rinunciando alla cittadinanza tedesca ed evitando il servizio militare. A Zurigo si consolidano e arricchiscono quegli orizzonti intellettuali che faranno di Einstein uno tra i maggiori scienziati di ogni tempo, ma anche un virtuoso musicista (violino e pianoforte) e un libero pensatore intrigato dalla filosofia della natura e dalla cultura politica socialista.
C’è una nota obiezione dinanzi a questa immagine «pacifista» di Einstein: quella legata al «mito» che lo fece «padre della bomba atomica». Si tratta di un mito che Greco smonta con grande efficacia. Einstein inviò tre lettere a Franklin Delano Roosevelt. La prima, notissima, del 2 agosto 1939, invita pressantemente il presidente Usa a sviluppare un progetto per la costruzione e l’impiego della bomba atomica per sconfiggere il nazismo. Sappiamo quale potenza ed efficacia ebbe il Progetto Manhattan, al quale tuttavia Einstein mai parteciperà per il «veto dei servizi di sicurezza e dei militari», che sanno del suo impegno pacifista e delle sue simpatie socialiste e democratiche, e lo controllano in ogni movimento. Lo scienziato non è a conoscenza dello sviluppo del progetto atomico e delle decisioni politiche e militari, ma, sollecitato dal fisico Szilard, che era stato «il più lucido e il più determinato nel volere la bomba», ma che nel 1944 diventa «il più lucido e il più determinato nel volerla bloccare», scrive ancora a Roosevelt nel marzo 1945 per impedire che la bomba venga lanciata: la morte di Roosevelt e il passaggio all’amministrazione Truman bloccheranno il tentativo.
Pietro Greco ci dimostra con questo libro bello e utile (anche perché chi lo acquista devolve un euro a Emergency) che le utopie e i sogni, anche se non si avverano del tutto, possono dirigere la nostra azione per «salvare» il mondo.

l’Unità 29.9.12
Antonioni
Il regista dell’«incomunicabilità» avrebbe compiuto oggi cento anni
Andrebbero rivalutati i primissimi film: «Cronaca di un amore» e «La signora senza camelie»
Era nato il 29 settembre del 1912 ed è arrivato quasi a 95 anni.
Chi lo ha conosciuto dice di lui che fosse simpatico, ma mancano testimonianze dirette, libri, che raccontino «l’uomo»
di Alberto Crespi


SE DOVESSIMO CITARE LA PRIMA SCENA DI UN FILM DI ANTONIONI CHE CI VIENE IN MENTE, SAREBBE UN MOMENTO DI «ZABRISKIE POINT». Mark Frechette, il giovane protagonista, viene fermato durante una manifestazione e i poliziotti gli chiedono le generalità. Lui, alla domanda «come ti chiami?», risponde «Karl Marx». Quelli, ignoranti!, non fanno una piega.
Ora, non è certo una battuta da cinepanettone, e nemmeno da commedia all’italiana, però ricordiamo benissimo che quando vedemmo Zabriskie Point per la prima volta, nei lontanissimi anni 70, ci fece ridere. Direte: vi accontentavate di poco. Vero, ma forse la risata veniva dalla sorpresa. Andando a vedere i film di Antonioni, tutto ci si aspettava meno che il divertimento. Scoprire che in un’opera di siffatto regista si annidava un grammo di ironia era cosa del tutto inaspettato.
Oggi Michelangelo Antonioni compirebbe cent’anni, come un Manoel de Oliveira qualsiasi. In realtà il grande portoghese, il prossimo 11 dicembre, di anni ne farà 104: è del 1908, e nell’ambiente circola una leggenda metropolitana secondo la quale se ne toglierebbe due, per civetteria. Ne avrebbe, quindi, 106! Antonioni è arrivato quasi a 95: nato a Ferrara il 29 settembre 1912, è morto a Roma il 30 luglio 2007, lo stesso giorno di Ingmar Bergman. Tornando per un attimo a Oliveira, noi speriamo sinceramente che l’affettuosa malignità (passateci l’ossimoro) sulla sua età sia vera: trasformerebbe il Maestro in un uomo, ed è la stessa cosa che ci piacerebbe fare con Antonioni. Spinti, in questo, da un vecchio amico che è arrivato, anche lui, ai 95: Mario Monicelli. Come tutti ricorderete, Antonioni e Monicelli a un certo punto si «passarono» la Musa: Monica Vitti, che aveva incarnato le eroine dei famosi film sull’incomunicabilità (L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso), saltò il fosso, fece La ragazza con la pistola e diventò una star comica. La ragazza con la pistola (che per metà si svolge in Inghilterra) è quasi coevo di Blow Up, ed è davvero curioso che due cineasti italiani, nel mezzo degli anni 60, siano andati a raccontare la Swingin’ London sia pure con stili e toni così diversi. Ma quando facevamo notare a Monicelli questa coincidenza, lui ci guardava come fossimo gli scopritori dell’ombrello: «Beh, erano gli anni 60, le novità venivano da lì, non eravamo mica scemi!». Dietro la battuta, in realtà, si nascondeva una fortissima stima reciproca: Antonioni e Monicelli erano amici, si frequentavano spesso, e fu nel corso di lunghe chiacchierate che Mario scoprì quanto Monica fosse buffa. «Li vedevo spesso e pensavo: ma guarda questa quanto è simpatica, potrebbe essere una grande attrice comica e Michelangelo le fa fare solo quei ruoli tristi...». Da lì venne l’idea, che naturalmente gli allora compagni di vita, Vitti & Antonioni, abbracciarono.
È molto bello rivedere certi film di Antonioni (non tutti). Occorrerebbe, ad esempio, rivalutare i primissimi film, Cronaca di un amore, La signora senza camelie: bellissimi. E sono sempre godibili i film del periodo «anglofono»: i citati Blow Up e Zabriskie Point, e il successivo Professione: reporter. Dire Antonioni significa normalmente evocare i suddetti film «dell’incomunicabilità», in realtà i lavori meno datati del regista sembrano, oggi, quelli della prima e della penultima fase della carriera (lasciamo perdere l’ultima, da Identificazione di una donna in poi). Ma la verità è un’altra: la perfezione formale e la ricchezza strutturale dell’opera hanno messo in secondo piano gli aspetti più curiosi dell’uomo. A noi piacerebbe molto leggere una biografia (anche «non autorizzata») che rimettesse in primo piano l’uomo, perché gli scarni racconti che, a spizzichi e bocconi, vanno oltre l’apparenza del Grande Artista sono spesso illuminanti. Secondo Monicelli, appunto, Antonioni era simpatico: e ammetterete che, vedendo i film, non si direbbe. Anche altri grandi della commedia, come Scola e Risi, confermano: ma nei loro film l’hanno qua e là preso in giro. Scola in C’eravamo tanto amati, dove Elide la meravigliosa Giovanna Ralli -, moglie ignorante e coatta di Gassman, appende quadri vuoti alle pareti dopo aver visto L’eclisse ed esserne rimasta «stranita»; Risi nel Sorpasso, dove Bruno Cortona/Gassman confessa di aver visto... L’eclisse, sempre quello!, e di averci dormito sopra. «Bel regista, Antonioni prosegue Gassman c’ha un Flaminia Zagato che una volta sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto allungà er collo».
Ecco: mancano, ad esempio, testimonianze dirette (o comunque noi non ne abbiamo mai incontrate) su come Antonioni reagisse a queste punzecchiature, amabili ma anche feroci, della commedia all’italiana. Avrà riso? Si sarà arrabbiato? Difficile indovinarlo. Perché un’altra caratteristica dell’Antonioni privato è una lieve permalosità. Stavolta la fonte è diretta: Francesco Maselli, suo storico aiuto-regista (ed è confermata nell’autobiografia di un’attrice americana che ha lavorato con entrambi, nel Grido e nei Delfini: Betsy Blair). Quando Maselli esordisce nella regia con Gli sbandati, nel 1955, comincia naturalmente a concedere svariate interviste in cui gli viene immancabilmente chiesto quali siano i suoi maestri, i suoi registi di riferimento. E invece di citare Antonioni, cita spesso e volentieri Kenji Mizoguchi, il grande giapponese di O-Haru e L’intendente Sansho (per altro, un sommo cineasta che spesso, nelle storie del cinema, viene accostato ad Antonioni). Qualche tempo dopo, Antonioni e Maselli si ritrovano ad una tavolata al ristorante (c’è anche, appunto, Betsy Blair). Arriva il momento del conto. Maselli si fruga le tasche e scopre di aver dimenticato il portafogli. A quel punto, chiede ad Antonioni se può prestargli 10.000 lire. La risposta di Michelangelo è raggelante: «Fattele prestare da Mizoguchi».
Ecco, a noi piacerebbe leggere un libro pieno di storie così. L’Antonioni che si incazza (anche giustamente, suvvia!) perché il discepolo non l’ha omaggiato nei modi dovuti è, appunto, umano. Antonioni ripeteva sempre, in ogni intervista, che per lui fare cinema era un modo di vivere, non era «un’altra cosa» da fare mentre si viveva. Ci piacerebbe andare a fondo su questa identità fra arte e vita, partendo però dalla vita, che è stata lunga ed emozionante. Perché non bisognerebbe mai dimenticare che, essendo nato nel ’12, Antonioni ha vissuto due guerre mondiali, ha scritto sulla rivista Cinema già durante il fascismo (è rimasta famosa e controversa una sua recensione positiva del film nazista e antisemita Suss l’ebreo), è stato uno dei creatori teorici del neorealismo per poi abbandonarlo e superarlo, ne ha insomma combinate in senso buono di tutti i colori. Prima o poi accadrà. Nel frattempo tanti auguri, Michelangelo. 100 anni sono una bella età. Ci risentiamo quando ne farai 106, come Oliveira.

La Stampa TuttoLibri 29.9.12
I Mottetti Il «romanzetto autobiografico» del Nobel nella lettura sentimentale di Ficara
Montale, l’amore e l’arduo nulla
di Mario Baudino

qui

Corriere 29.9.12
Buonumore ma senza esagerare. Così ridevano Socrate e Platone
di Eva Cantarella


Oggi diciamo che il riso fa buon sangue. Capita anche di sentir dire (e si spera sia vero) che ridere fa bene alla salute. Ma gli antichi la pensavano diversamente: del riso, infatti, fondamentalmente diffidavano. Socrate ad esempio (nella Repubblica di Platone) afferma che non bisogna «essere in ogni caso amanti del riso: generalmente, infatti, quando ci si abbandona a grandi risate, questo comporta anche un mutamento interiore». Aristotele (De virtutibus et vitiis) scrive che «è proprio dell'intemperanza essere amanti del ridicolo, del motteggio e della battuta facile, e l'essere faciloni nel parlare e nell'agire». Risus abundat in ore stultorum, dicevano i romani, il riso abbonda sulla bocca degli stolti. Ma questo non impediva agli antichi di amare le barzellette. E a farci sapere quali fossero le situazioni che suscitavano il riso a quei tempi sta il Phylogelos, «l'amante del riso». Una raccolta di barzellette — l'unica a noi giunta dell'epoca classica — che contiene 265 storielle all'incirca (i dubbi sul numero esatto dipendono dalle numerose ripetizioni), divise in sezioni che indicano la tipologia dei personaggi alle cui spalle ci si divertiva: gli avari, i pavidi, gli invidiosi, gli abitanti di alcune città. E poi le donne, specie se vecchie (età nella quale, secondo un topos caro ai greci, le rappresentanti del genere femminile erano perennemente assetate di sesso). Un esempio? Un giovane, dice una di queste barzellette, dà ordine ai servi di mandare a chiamare due vecchie: «A una di loro, dice, date da bere. Con l'altra fate l'amore». E le due vecchie, in coro: «Ma noi non abbiamo sete!».

Corriere 29.9.12
L'utopia degli scrittori figlia di Don Chisciotte
Perché la sconfitta aiuta a capire il mondo
di Claudio Magris


Don Chisciotte è un perdente. In questa sconfitta c'è una rivelazione sulla verità; una rivelazione che è in qualche modo pure una vittoria, perché arricchisce la vita di un elemento fondamentale. Non è un caso che in un mio libro dal titolo Utopia e disincanto io prenda lo spunto da Don Chisciotte.
L'utopia viene sconfitta nella sua pretesa di possedere la ricetta per salvare il mondo o addirittura di averlo già salvato e di aver già creato il paradiso in terra, così come hanno creduto o voluto far credere tante utopie cadute.
Eppure la sconfitta dell'utopia, di ogni utopia — poco importa se da noi condivisa o no — aiuta a capire che il mondo ha bisogno di essere migliorato e che è indispensabile continuare a migliorarlo; innanzitutto correggendo la strada che si è intrapresa quando ci si accorge che è sbagliata, e poi immaginando altre strade. Nella sua necessaria fantasia la letteratura ha una grande funzione, anche rispetto alla società; non certo perché ha il compito di proporre programmi politici o ideologici, ma piuttosto di far sentire, toccare con mano, questa necessità avventurosa di creare ogni volta un nuovo mondo.
Un'altra cosa che accomuna me e Vargas Llosa è la riflessione sul rapporto tra la scrittura che inventa (la fiction che finge, potremmo anche dire che «mente») e l'impegno per la verità, ineludibile nel nostro confronto col mondo e con la necessità di mutarlo.
In una raccolta di saggi che ho citato, Vargas Llosa denuncia la caduta dell'impegno nella letteratura contemporanea, dato che nell'epoca attuale parrebbe che molti autori abbiano rinunciato a quello che una volta si chiamava l'engagement.
Egli dice inoltre che in America Latina uno scrittore non è soltanto scrittore ma, inevitabilmente, qualcosa d'altro. E aggiunge che talvolta si è lacerati tra i propri demoni e i propri doveri verso la causa pubblica e che, in tal caso, bisogna essere fedeli in primo luogo ai propri demoni.
È questo, ritengo, un problema fondamentale per la letteratura, spesso una vera contraddizione.
C'è l'intellettuale che si vota essenzialmente ed esplicitamente alla causa pubblica e c'è lo scrittore che è essenzialmente preso dal combattimento con i propri demoni. Cosa succede quando uno scrittore è entrambe le cose, come certamente è lui e come sono anch'io? Quando cioè si sente che queste due facce sono le facce di una stessa medaglia, una cosa sola e contemporaneamente due cose diverse, e soprattutto quando ci si rende conto che dall'una nasce una scrittura molto diversa da quella che nasce dall'altra?
Leggere La casa verde o Conversazione nella “catedral” o tanti altri libri di Vargas Llosa è un'esperienza simile ma anche molto diversa dal leggere Sables y utopías.
Lo stile, la lingua sono radicalmente diversi, perché in un caso si tratta di un linguaggio che vuole esplicitamente definire, giudicare, difendere o combattere, mentre nell'altro si tratta di un linguaggio che vuole essenzialmente narrare, far vivere le contraddizioni piuttosto che risolverle o giudicarle.
In un caso non si può, nell'altro si può e talora si deve deformare la realtà per capirne il senso e la verità più profonda.
Non credo, soprattutto per quel che riguarda lo stile, che si tratti di una scelta deliberata, perché uno scrittore non sceglie bensì fa quello che può ossia quello che deve; è la vicenda, l'oggetto che gli dettano per così dire lo stile, l'incalzare paratattico delle chiare e nette definizioni oppure la struttura ipotattica che cerca di afferrare contemporaneamente la complessità contraddittoria delle cose.

Repubblica 29.9.12
L’ultimo libro della sociologa criticato da tanti è diventato un caso Ma è uno specchio dell’America
Lezioni di piacere
“Vagina”, lo scandaloso pragmatismo del libro di Naomi Wolf
di Elena Stancanelli


Non saprei. Mi è sembrato un libro utile quando spiega al centimetro l’organo in questione e il suo funzionamento e molto buffo quando si ostina nella teoria.
Nel tentativo di convalidare la tesi che una vita sessuale scalmanata e allegra si accompagna sempre a un picco di creatività, Wolf cita Edith Wharton, Christina Rossetti, George Eliot e il rifulgere della loro scrittura in corrispondenza di incontri fortunati. La grandezza letteraria de L’età dell’innocenza sarebbe collegata alla soddisfazione del sesso tra Wharton e Morton Fueller, suo amante, giornalista bisessuale e assai più vispo del marito. Non saprei.
Vagina è un libro ingenuo, che racconta l’America, un certo tipo di America. Un paese dove una donna, nel constatare che i suoi orgasmi non sono più stupefacenti come quelli a cui era abituata, decide di andar dal medico per scoprire cosa le succede. Lo ridico, perché capisco che può essere sfuggente come concetto: quella donna non ha smesso di provare piacere facendo sesso, o ha iniziato a provare dolore. Quella donna, Naomi Wolf, da qualche tempo ha questo problema: non vede più il mondo luccicare, non sente più il suo cervello galoppare e il suo corpo librarsi leggero nelle circa dieci ore successive all’orgasmo. Motivo per cui si risolve ad andare da un dottore. Mi sono chiesta cosa accadrebbe se una catastrofe di tale portata piombasse nella vita di una qualsiasi di noi, donne del vecchio mondo. A quale tipo di medico ci potremmo rivolgere, che cosa esattamente gli potremmo dire, nell’eventualità che ne scovassimo uno plausibile, per spiegargli il nostro dramma senza essere messe alla porta nei primi tre minuti. Sia chiaro, non sto dicendo che il nostro mondo è migliore, più serio, che il nostro modo di pensare alla salute è più intelligente... niente di tutto questo. Dico solo che è diverso. Semplificando: sul tema una francese avrebbe costruito un problema culturale, una tedesca una questione metafisica. L’americana, questo tipo di americana, punta alla pratica.
Cosa sia l’Europa non è chiaro, quali i nostri valori e le nostre radici culturali fatichiamo a deciderlo, ma Vagina mi ha chiarito cosa non siamo. Non siamo pragmatici, non siamo capaci di pensare che un problema, qualunque esso sia, possa essere risolto facendosene carico, non siamo mai stati sicuri che il piacere fisico sia un dono prezioso, la cui manutenzione ci spetti.
Vagina è un saggio sul femminile che si sviluppa a partire dal nervo pelvico, con buona pace di chi sostiene che noi europei produciamo letteratura ombelicale e loro epica e avventura. Nervo al quale, scopriamo leggendo Vagina, dobbiamo essere tutti, uomini e donne, immensamente grati. Perché attraverso infinite diramazioni, qualche centimetro sotto il famigerato ombelico, garantisce felicità e sollazzo. Fin tanto che non venga schiacciato dalle vertebre, come era accaduto alla sfortunata autrice. Che, reduce dall’operazione e finalmente tornata agli standard rimpianti, decide di scrivere un saggio a metà tra l’opuscolo informativo per una sessualità consapevole, e un excursus storico sull’organo.
Celebrata come divinità in epoca pre-cristiana, la vagina e la sua gloria soccombono in epoca romana. È Galeno, il celebre medico, a condannarla, retrocedendola a rovescio del pene, sorta di introflessione parzialmente riuscita dell’assai più fiammeggiante corrispettivo maschile. Tenuta ben nascosta in tutto il periodo vittoriano, la vagina prende l’ulgevole. tima potente batosta nel 1905, con la pubblicazione dei Tre saggi sulla teoria sessuale, di Freud. Metonimia dell’orrorifica immagine della donna castrante, assurge a madre di tutti gli edipi. Ma il secolo scorso fa in tempo a redimerla, celebrarla, adorarla. Fino al trionfo della pornografia a portata di tutti che, secondo la sociologa americana, ha innescato nel maschio un disastroso effetto emulazione. Sostiene, basandosi sulle testimonianze da lei raccolte, che la già zoppicante educazione sessuale degli uomini, sia regredita allo stadio dei primati, nell’ossessivo confronto con atti compiuti secondo un rituale sempre identico e sempre sprecato.
Il sesso, secondo Wolf, non è certo quella cosa simile a un motore a scoppio, per cui pistoni e cilindri stantuffano senza pietà. Piuttosto una danza, un incontro, uno scambio di attenzioni. Candele, guardarsi negli occhi, ascoltarsi, tutta quella roba lì. Ma soprattutto sapersi toccare, e con un minimo di competenza.
L’uomo che sa, la chiave di volta dell’intero saggio è il maschio che ogni donna vorrebbe incontrare almeno una volta nella vita, si chiama Mike Lousada. Vive e lavora a Londra (sembra che l’energico pragmatismo americano si rivolga alla vecchia e claudicante Europa, in cerca dell’ultima parola...) a un indirizzo che consiglio di memorizzare. È uno psicoterapista sessuale, e sarebbe specializzato nel curare le donne che hanno subito violenza. Attraverso il massaggio yoni, è in grado di restituire loro fiducia nell’uomo e quindi la possibilità di abbandonarsi al piacere. La prima volta che Wolf lo contatta, via Skype, è appunto per parlare di stupro. Vuole conferma del fatto che una aggressione di quel genere, danneggia non solo la sfera sessuale ma la capacità di esistere come individuo, di posizionarsi nel mondo. Basandosi su quanto i neuroscienziati adesso sanno sulla chimica del cervello, Wolf sostiene che l’attività sessuale determina felicità e consapevolezza. In breve: ormai sappiamo che il desiderio e il piacere aumentano il rilascio di dopamina nel nucleo accumbens, esattamente come la cocaina, il gioco d’azzardo, persino lo shopping compulsivo. Ed essendo la dopamina l’ormone della contentezza, della fiducia in se stessi, della disinibizione, il buon sesso favorirebbe lucidità e comprensione.
Con una piccola differenza tra uomini e donne: nei maschi l’effetto di extra rilascio finisce esattamente con la fine dell’amplesso, le donne invece, se sono fortunate e non hanno il nervo pelvico schiacciato, vanno avanti a produrre dopamina per un bel po’, dopo il piacere.
Questo, dice Wolf, spiega perché gli uomini dopo il sesso si addormentino lasciando le donne senza nessuno con cui sfogare il loro picco di creatività. Le donne che hanno subito uno stupro, conferma a Wolf il dottor Lousada, sono maggiormente soggette a depressione. La violenza perpetrata in quella parte del corpo, è annichilente, psichicamente e biochimicamente. Confortata, Wolf procede nelle sue ricerche nella scrittura, ma un tarlo la consuma. Cosa accadrà davvero in quello studio di Londra, c’è qualcosa che non so e dovrei sapere (lo stesso tarlo che insinua nel nostro cervello di lettrici)? Decide quindi di andare da lui di persona e, con la scusa del libro, mettere alla prova le doti taumaturgiche del dottore mago. La scena che segue è un capolavoro di elusività. Fingiamo di crederle quando dice che alla fine, da brava ragazza ebrea monogama, decide per un generico massaggio alla schiena. Ma ci dispiace un po’. Rimarremo con la curiosità di sapere cosa si prova a fare un vero massaggio yoni (Ah: yoni, per chi non lo sapesse, significa vagina). Nel frattempo ci consoliamo coi consigli finali. Uomini, scrive Wolf, se volete che una donna sia felice, rilassata e ben disposta, ditele che è bella, bellissima: funziona sempre. Chi l’avrebbe mai detto...

venerdì 28 settembre 2012

l’Unità 28.9.12
Oggi in piazza chi crede nel pubblico
Il corteo da piazza Esedra a Santi Apostoli, con Susanna Camusso
Statali, Cgil e Uil in sciopero: «Basta tagli»
Sciopero generale di Cgil e Uil contro i tagli della spending review
di Laura Matteucci


Sciopero generale degli statali di Cgil e Uil, oggi, per protestare contro i tagli e gli esuberi previsti dalla spending review: «Una manovra pesante che riduce drasticamente il perimetro dell’intervento statale sul territorio, e che l’ultimo incontro con il ministro Patroni Griffi non è affatto servito a ridimensionare», sintetizza Rossana Dettori, segretaria generale della Fp-Cgil. È prevista anche una manifestazione nazionale a Roma che partirà intorno alle 9,30 da piazza Esedra per arrivare in piazza Santi Apostoli, dove a fine mattinata saliranno sul palco, insieme a sindacalisti greci e spagnoli, i leader di Cgil e Uil, Susanna Camusso e Luigi Angeletti. Per i leader della Cgil, della Fp e della Flc lo sciopero «è il naturale sbocco di un lungo percorso di mobilitazione che il sindacato ha messo in campo in opposizione alle scelte del governo Monti sul lavoro pubblico», oltre ad essere «un’occasione per rilanciare un’idea di riorganizzazione e valorizzazione del lavoro pubblico in risposta agli effetti devastanti della crisi in atto». Per Alberto Civica, segretario generale della Uil Rua, «lo sciopero rimane l’unica possibilità per dichiarare il nostro dissenso».
La Cisl, che aveva condiviso la prima fase della protesta, resta invece contraria allo sciopero. Con l’inevitabile scia di polemiche, suscitate dalle parole del segretario confederale Cisl Gianni Baratta che, a commento dello sciopero, ha detto di Cgil e Uil «tradiscono i lavoratori per interessi di bottega». Gli risponde secco il segretario confederale della Cgil, Nicola Nicolosi: «In un Paese dove vive il pluralismo sindacale, è buona regola per i sindacalisti non interferire nell’azione sociale delle altre organizzazioni».
Nella giornata di sciopero è coinvolto l’intero settore pubblico, eccezion fatta per la scuola, che invece scenderà in piazza il 12 ottobre. Della lunga mobilitazione contro l’azione di governo in tempo di crisi fa parte anche l’annunciato «grande appuntamento» organizzato dalla Cgil per il 20 ottobre, centrato sul lavoro e sulle tante solitudini create dalla crisi economica. Oggi, intanto, è previsto lo stop per i servizi dei Comuni (ma non il trasporto pubblico), della sanità, dell’Inps, di prefetture e università: garantiti comunque i servizi pubblici essenziali. Incrociano le braccia anche i lavoratori aderenti alla Confsal, mentre l’Ugl ha sospeso lo sciopero dopo l’incontro di tre giorni fa con il governo, mantenendo comunque inalterato «lo stato di agitazione di tutte le categorie del pubblico impiego». Nel complesso si tratta di circa 3 milioni di lavoratori coinvolti.
CAMBIARE ROTTA
I numeri che motivano la protesta fanno impressione: le stime fatte finora dal governo (le proposte vere e proprie verranno dichiarate il 31 ottobre) parlano di 60 miliardi in meno per gli Enti locali, 21 in meno per il Servizio sanitario nazionale, e di qualcosa come 24mila esuberi, di cui 13mila negli Enti locali (ma senza considerare i dipendenti delle Province da abrogare), e 11mila che oggi lavorano in ministeri ed enti pubblici non economici. Mancano ancora all’appello gli eventuali esuberi della Sanità, per non parlare dell’indotto, mentre resta aperto anche il problema dei 100mila precari statali. «Il problema, ancora una volta, sono i tagli lineari che penalizzano lavoratori, servizi e cittadini riprende Dettori Il governo deve cambiare linea. Non può passare l’idea di ridurre il perimetro del welfare pubblico allo stadio minimale, e favorire in questo modo associazioni ed enti privati. L’obiettivo non sembra quello di razionalizzazione e miglioramento dell’azione pubblica, ma, al contrario, di ridimensionamento e destrutturazione delle pubbliche amministrazioni, dei servizi pubblici in generale».

l’Unità 28.9.12
Basta cieca austerità
Il pubblico può essere leva di cambiamento
Sbagliate le scelte del governo: la spending review altro non è che una serie di tagli, in linea con quanto ha fatto il precedente esecutivo
di Guglielmo Epifani


Scendono oggi in sciopero i dipendenti delle Pubbliche amministrazioni di Cgil e Uil. Quello che colpisce, oltre all’assenza della Cisl, è l’oggetto della protesta.
Si chiede di farla finita con il considerare il lavoro pubblico, e i servizi pubblici, come una zavorra per il Paese e per i suoi conti, e l’apertura di una fase nuova in cui come leva di cambiamento, di sviluppo, di difesa dei diritti fondamentali di cittadinanza, sia proprio la centralità di questi settori.
La scelta di abbandonare la trincea della difesa di interessi corporativi e di ripartire dal valore civile e generale delle attività pubbliche rappresenta il terreno in grado di rovesciare il primo paradosso politico e morale della crisi in atto: originata dalla speculazione e dal malgoverno dei mercati privati della finanza e arrivata a colpire settori e condizioni del tutto incolpevoli, e a ridurre pesantemente investimenti, servizi e occupazione nel settore pubblico, oltre che in quello privato. E insieme di riproporre la insostenibilità anche logica di una linea di totale e cieca austerità che finisce per aggravare la crisi, ridurre i consumi, tagliare occupazione e nel contempo aggravare i deficit degli Stati. Per questo non convincono le ultime scelte del governo. La spending review è sostanzialmente una pratica di tagli lineari, che continua la linea del precedente governo; in materia di sanità, come hanno lamentato le Regioni proprio l'altro ieri, si rischia di interrompere l'equilibrio faticosamente avviato di un risanamento socialmente sostenibile; i tagli agli investimenti ed il ritardo non risolto dei pagamenti delle forniture mettono fuori dal mercato tante aziende private, comprese molte cooperative e tante piccole e piccolissime aziende.
Il continuo blocco della contrattazione di ogni livello colpisce innanzitutto qualsiasi processo di ammodernamento e di incremento della produttività. Il blocco delle assunzioni ritarda contro ogni criterio di buona gestione l’entrata dei giovani nel lavoro, e crea la categoria dei precari ex giovani che si trovano ad entrare in contraddizione con la esigenza del rinnovamento senza che si sia mai puntato sulla loro formazione e la forza della loro condizione giovanile di partenza.
Significativo di questa assenza di logica, che non sia solo quella dei tagli a prescindere, è il tema della produttività del lavoro. Nei settori privati da molte parti si richiede la fuoriuscita dai contratti nazionali per portare ogni scambio salario produttività in azienda, scelta che per la composizione della nostra tipologia aziendale avrebbe come conseguenza un ulteriore abbassamento dei valori delle nostre retribuzioni. Nei settori pubblici, dove esiste un problema di qualità dei servizi, e in tante parti, anche se non in tutte, di incremento della produttività il tema viene sostanzialmente ignorato, e risolto con una progressiva riduzione degli organici che da sola non garantisce più efficienza ma solo meno qualità e universalità delle prestazioni. Il grado di civiltà del nostro Paese, il rispetto dei diritti delle persone e delle aziende, la funzione di sviluppo e di crescita, la certezza dei doveri comuni, il livello della cittadinanza, sono questi i valori in gioco in questa partita. La sfera del privato e quella del pubblico non vanno contrapposte come ideologie ancora presenti ritengono di dover fare. Ma devono anche da noi tornare a svolgere ruoli e funzioni distinti e complementari secondo un criterio trasparente che assegna all'uno funzioni e ruoli che l'altro non può fare, o farebbe in misura insufficiente, e che non mette in contrapposizione l’obbiettivo dell' universalità con quello della maggiore efficienza.
E resta poi la vera domanda di questa stagione. Si può, si deve, aspettare che passi la tempesta dei mercati subendo per spirito di necessità e realismo tutto quello che arriva, o ci si prova a misurare, dentro la crisi, con scelte che abbiano un contenuto e una prospettiva di segno diverso? Nel bene e nel male, il governo ha seguito la prima strada, il futuro ci consegna il bisogno di una risposta più matura per quanto difficile.
Il festival dei diritti che si è appena aperto ha quest'anno per tema «Conflitto e solidarietà». Il primo è tipico nelle democrazie per segnare istanze e richieste di cambiamento e protesta. La seconda appartiene al novero delle parole che il pensiero unico ha tentato di nascondere me che puntualmente ritorna con la forza dei fatti, e soprattutto in Europa con la constatazione che i Paesi che affrontano meglio la crisi sono proprio quelli che hanno mercati più efficienti e trasparenti, e società più coese e giuste.

La Stampa 28.9.12
Monti apre a un bis
Dai vescovi un sostegno al Monti bis
Pesa la buona gestione del dossier Imu sugli immobili ecclesiastici
di Andrea Tornielli


CITTA’ DEL VATICANO La competizione resta aperta, e sarà bene che la politica non bruci alcun ponte dietro a sé…». Le parole, all’apparenza un po’ criptiche, pronunciate dal cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione di lunedì scorso, possono essere tradotte così: non date per liquidata l’esperienza dell’attuale governo. I vertici della Cei, dopo Monti, vedono ancora Monti. L’annunciata disponibilità che il presidente del Consiglio ha manifestato ieri per la prima volta così esplicitamente, va dunque nella direzione auspicata anche dalla Chiesa.

Nell’area moderata cresce il numero dei sostenitori del professore, soprattutto in campo cattolico. Il premier, che non fa mistero di essere credente, non è mai stato considerato «organico» al mondo ecclesiastico, e nonostante la stima di cui era circondato, al momento della nomina un anno fa venne accolto con qualche riserva da alcuni ambienti cattolici, preoccupati per l’accresciuta influenza della finanza europea in casa nostra.

In pochi mesi, Monti ha sbaragliato queste riserve. Un passaggio cruciale di questo processo di avvicinamento è stato l’emendamento del governo riguardante l’Imu per gli immobili ecclesiastici e degli enti no profit. La partita che si è giocata dietro le quinte all’inizio 2012 non è stata semplice: l’Europa era pronta a sanzionare l’Italia con multe salatissime richiedendo anche il pagamento degli arretrati. Monti ha giocato tutto il suo peso in sede europea, ed è riuscito a risolvere il problema. La Chiesa italiana e il Vaticano non l’hanno dimenticato.
CITTA’ DEL VATICANO La competizione resta aperta, e sarà bene che la politica non bruci alcun ponte dietro a sé…». Le parole, all’apparenza un po’ criptiche, pronunciate dal cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione di lunedì scorso, possono essere tradotte così: non date per liquidata l’esperienza dell’attuale governo. I vertici della Cei, dopo Monti, vedono ancora Monti. L’annunciata disponibilità che il presidente del Consiglio ha manifestato ieri per la prima volta così esplicitamente, va dunque nella direzione auspicata anche dalla Chiesa.
Nell’area moderata cresce il numero dei sostenitori del professore, soprattutto in campo cattolico. Il premier, che non fa mistero di essere credente, non è mai stato considerato «organico» al mondo ecclesiastico, e nonostante la stima di cui era circondato, al momento della nomina un anno fa venne accolto con qualche riserva da alcuni ambienti cattolici, preoccupati per l’accresciuta influenza della finanza europea in casa nostra.
In pochi mesi, Monti ha sbaragliato queste riserve. Un passaggio cruciale di questo processo di avvicinamento è stato l’emendamento del governo riguardante l’Imu per gli immobili ecclesiastici e degli enti no profit. La partita che si è giocata dietro le quinte all’inizio 2012 non è stata semplice: l’Europa era pronta a sanzionare l’Italia con multe salatissime richiedendo anche il pagamento degli arretrati. Monti ha giocato tutto il suo peso in sede europea, ed è riuscito a risolvere il problema. La Chiesa italiana e il Vaticano non l’hanno dimenticato.
Ormai al giro di boa del primo anno di governo, i rapporti del premier con Benedetto XVI sono costanti e molto cordiali. Monti li gestisce in prima persona, attraverso l’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede o il suo rappresentante ufficioso nei palazzi ecclesiali, Federico Toniato. Anche i vertici della Conferenza episcopale, pur senza esporsi con inopportuni endorsement, hanno coltivato ottime relazioni con Palazzo Chigi. Al punto che il cardinale Bagnasco, di fronte al pessimo spettacolo che la politica italiana ha continuato a dare negli ultimi mesi, avrebbe deciso di puntare proprio su Monti, apprezzandone la sobrietà e la serietà.
Nella prolusione di lunedì il presidente della Cei è stato duro con i cattolici in politica. Ha parlato di «mediocrità» e di «relativa significanza» provocate da «una vita spirituale modesta». Ha spronato a una testimonianza più coraggiosa.
Le Acli di Andrea Olivero, insieme il ministro Andrea Riccardi e al presidente della Provincia di Trento Lorenzo Dellai, dialogano con l’Udc di Casini e spingono per un’alleanza a sinistra, con il Pd.
Un’operazione che la possibile ricandidatura di Silvio Berlusconi ha finito per accelerare. Mentre altre associazioni che un anno fa avevano promosso il «conclave» di Todi, come l’Mcl guidato da Carlo Costalli, vogliono dar vita a un’iniziativa politica che rimanga ancorata nell’area moderata e al Ppe.
Sembra destinata a crescere, in questo ambito, la figura del ministro Lorenzo Ornaghi, dimessosi da rettore della Cattolica. La candidatura di Monti, da non dichiarare troppo presto per non creare problemi all’attuale esecutivo, potrebbe riunire anime diverse del cattolicesimo politico, spezzoni del mondo laico liberale e del mondo imprenditoriale delusi dal berlusconismo e in cerca di nuovi approdi. Per diversi partiti che oggi sostengono il governo non sarebbe facile dire di no o proporre alternative altrettanto valide in grado di rappresentare il Paese in Europa come ha fatto nell’ultimo anno l’ex rettore della Bocconi.
Ormai al giro di boa del primo anno di governo, i rapporti del premier con Benedetto XVI sono costanti e molto cordiali. Monti li gestisce in prima persona, attraverso l’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede o il suo rappresentante ufficioso nei palazzi ecclesiali, Federico Toniato. Anche i vertici della Conferenza episcopale, pur senza esporsi con inopportuni endorsement, hanno coltivato ottime relazioni con Palazzo Chigi. Al punto che il cardinale Bagnasco, di fronte al pessimo spettacolo che la politica italiana ha continuato a dare negli ultimi mesi, avrebbe deciso di puntare proprio su Monti, apprezzandone la sobrietà e la serietà.
Nella prolusione di lunedì il presidente della Cei è stato duro con i cattolici in politica. Ha parlato di «mediocrità» e di «relativa significanza» provocate da «una vita spirituale modesta». Ha spronato a una testimonianza più coraggiosa.
Le Acli di Andrea Olivero, insieme il ministro Andrea Riccardi e al presidente della Provincia di Trento Lorenzo Dellai, dialogano con l’Udc di Casini e spingono per un’alleanza a sinistra, con il Pd.
Un’operazione che la possibile ricandidatura di Silvio Berlusconi ha finito per accelerare. Mentre altre associazioni che un anno fa avevano promosso il «conclave» di Todi, come l’Mcl guidato da Carlo Costalli, vogliono dar vita a un’iniziativa politica che rimanga ancorata nell’area moderata e al Ppe.
Sembra destinata a crescere, in questo ambito, la figura del ministro Lorenzo Ornaghi, dimessosi da rettore della Cattolica. La candidatura di Monti, da non dichiarare troppo presto per non creare problemi all’attuale esecutivo, potrebbe riunire anime diverse del cattolicesimo politico, spezzoni del mondo laico liberale e del mondo imprenditoriale delusi dal berlusconismo e in cerca di nuovi approdi. Per diversi partiti che oggi sostengono il governo non sarebbe facile dire di no o proporre alternative altrettanto valide in grado di rappresentare il Paese in Europa come ha fatto nell’ultimo anno l’ex rettore della Bocconi.

Repubblica 28.9.12
Casa Bianca e Wall Street fanno il tifo per Mario “È lui il vero anti-Silvio”
di Federico Rampini


NEW YORK È QUELLO che l’America voleva sentirsi dire. Non solo l’America dei mercati ma anche l’Amministrazione Obama, e alcuni grandi gruppi industriali che potrebbero (oppure no) tornare a investire in Italia. Monti rassicura su tutti i fronti, nel parlare a New York invia messaggi alla Casa Bianca e all’Europa. Fa un passo più avanti del solito nell’evocare un Monti bis. Si conferma nel ruolo di anello di congiunzione tra Germania e Stati Uniti; tra Germania e periferia Sud dell’eurozona. Si lancia in una puntigliosa difesa dell’euro, nelle stesse ore in cui in Italia Silvio Berlusconi attacca la moneta unica. Il contesto è importante, il luogo dove avviene l’annuncio è al centro di un triangolo di relazioni internazionali. Il presidente del Consiglio è qui per l’assemblea generale dell’Onu, vetrina di statisti globali. Ma il raduno del Palazzo di Vetro serve anche per tessere altre relazioni, contatti, verifiche su più livelli. Il Council of Foreign Relations, il più importante think-tank bipartisan di politica estera, ha preparato per Monti un “parterre” speciale. Il moderatore che lo tempesta di domande, David Rubenstein, è uno dei capi del Carlyle Group, una potenza d’investimento nel private equity. E’ anche un grande mecenate progressista, ha legami storici col partito democratico, fu consigliere del presidente Jimmy Carter. Nell’audience molti sono come lui: grandi investitori e insieme personaggi dell’establishment politico. In prima fila sono rappresentati tutti i colossi di Wall Street (Bank of America, Morgan Stanley, Citigroup, Prudential, Paulson, Blackstone, Hsbc), le agenzie di rating S&P e Moody’s, i media più autorevoli dal New York Times al Wall Street Journal, diversi colossi industriali (Boeing, Lockheed, FedEx, Chevron), infine esperti di politica estera che fanno riferimento a Barack Obama o a Mitt Romney. L’establishment americano è rappresentato al massimo livello. Il giorno stesso il Wall Street Journal ha “introdotto” questa conferenza con un titolone sui guai della Spagna seguito da: «È svanito l’effetto-Draghi». Mancano solo cinque giorni al primo duello televisivo Obama-Romney, l’ultima cosa che la Casa Bianca vuole in questo momento è un riesplodere della crisi europea. Monti sente questa pressione legittima dell’establishment americano.
Lo confermerà anche nella successiva intervista a Bloomberg Tv, precisando che la sua dichiarazione di disponibilità a continuare si rivolge in tre direzioni: «Alle forze politiche italiane dopo le elezioni, alla comunità internazionale, ai mercati».
Davanti al Council, il premier tiene a precisare che lui non ha piani, tantomeno vuole schierarsi oggi con questa o quella parte: «Visto che ho tre partiti nella mia maggioranza, due dei quali non si parlano, sarebbe destabilizzante se io lasciassi intravedere che propendo verso l’uno». Subito dopo, però: «Se le circostanze li porteranno a credere che io dovrò continuare a servire il mio paese, non mi tirerò indietro». Gli interlocutori premono: «Può assicurarci che non tornerà Silvio Berlusconi?» Monti risponde che no, questa garanzia non può certo darla. Subito dopo però il presidente del Consiglio si esibisce in un’appassionata difesa dell’euro, che in quel preciso momento Berlusconi sta attaccando in Italia. «Senza l’euro – dice Monti – non solo noi ma tutta l’Europa starebbe molto peggio. Ci ha dato regole di equilibrio nelle finanze pubbliche, una banca centrale indipendente, una cultura del mercato. Sono regole talvolta sgradevoli ma ci costringono a una modernizzazione indispensabile».
La triangolazione di New York (leader mondiali, governo Usa, mercati finanziari). consente a Monti di esplicitare qual è il suo ruolo oggi; e quindi cosa potrebbe renderlo indispensabile. Obama glielo ha riconosciuto più volte, individuando in lui un «traduttore del pensiero tedesco». A Obama del resto Monti rende omaggio per il suo «ruolo utile nella crisi europea » (leggi: le costanti pressioni della Casa Bianca in favore di politiche a sostegno della crescita). Monti ammette di essere «uno strano italiano, per via del mio attaccamento alla disciplina germanica ». Tra i suoi compiti vede quello di «impedire che le altre nazioni d’Europa diventino anti-tedesche », e d’altra parte di «spiegare ad Angela Merkel le conseguenze di politiche economiche tradizionali (leggi: austerity) applicate nei paesi più deboli». Il suo cruccio è che «i politici non dedicano attenzione sufficiente ai pericoli dei risentimenti nazionalisti, ai danni che possono nascere se le nazioni si mettono l’una contro l’altra».
Ha un messaggio specifico da rivolgere ai mercati, nella piazza finanziaria più importante del mondo: «Sono troppo lenti nel riconoscere i progressi che abbiamo fatto, mentre il Fondo monetario e la Bce ce ne danno atto». Riconosce a se stesso un vantaggio sugli altri capi di governo che sono dei politici: «In una fase in cui l’unione politica dell’eurozona sta avanzando di fatto, molti leader sono frustrati perché il loro potere decisionale si rimpicciolisce. Ma io m’intendo poco delle manovre di politica interna, mentre sono a mio agio nella dimensione europea».

La Stampa 28.9.12
Gelo del Pd: cambia tutto
Bersani:se qualcuno vuole rendere le elezioni inutili, mi riposo. Renzi d’accordo con il segretario
di Carlo Bertini


ROMA Spesso il silenzio è più eloquente di tante chiacchiere: per tutto il giorno dallo stato maggiore del Pd non esce una parola sul fantasma di un Monti bis e già è un segnale del colpo incassato dai democratici, a cominciare dal leader Bersani e dal suo sfidante Renzi. D’ora in poi cambia tutto è il tam tam nel Pd, dove gli unici a definire questa disponibilità «una splendida notizia» sono i «supermontiani» come Gentiloni. Nessun altro dice nulla fino a quando a sera il segretario non se ne esce contro le larghe intese, svelando così tutta la sua irritazione verso Casini: perché «se qualcuno pensa di prenotare le elezioni, di rendere il voto inutile e che io mi ritrovo il giorno dopo a dover fare una maggioranza con Berlusconi o Grillo, allora mi riposo». E viceversa, «l’immagine di rigore e credibilità che Monti ha offerto al mondo è un punto di non ritorno, ma noi ci metteremo dentro più lavoro più equità, più diritti». Con una postilla consegnata non a caso all’agenzia tedesca Dpa, sul fatto che dopo Monti deve tornare la politica altrimenti l’Italia resterebbe in condizione di emergenza. E a far capire meglio come la pensi la pancia del Pd e il suo leader ci pensa Stefano Fassina che sul sito Huffington si scaglia contro «chi fa di tutto per promuovere una democrazia degli ottimati». E su twitter si rivolge all’amico Pier, chiedendogli «perché votare? La spending review taglia anche la democrazia e Monti rimane a vita a Palazzo Chigi... ».
Fino a sera, sulle agenzie compare solo Fioroni: che apprezza il primo passo, ma chiede a Monti di proporsi al paese prima delle elezioni e non dopo. «Certo è che Monti in campo è un dato politico di grandissima rilevanza», taglia corto l’ex Ppi, che mal digerisce le primarie con Vendola e Renzi. E non è un mistero che alcuni coltivino la speranza che si realizzi una grande lista dei moderati che investa Monti di una candidatura ufficiale alle elezioni.
Ma le implicazioni di quella che molti definiscono un’irruzione «a gamba tesa» investono in pieno la campagna per le primarie e le trame per cambiare il porcellum. Perché se tornasse un sistema proporzionale, quale che sia, si aprirebbe un’autostrada al Monti bis, ma il Pd non può restare col cerino in mano e deve mediare con gli altri. Dovendosela vedere con Casini, ancora più scatenato dopo l’uscita del premier. «Le nostre liste saranno per un Monti bis», gongola il leader Udc, che torna a chiedere «un documento di impegni vincolanti siglato dalla maggioranza che rassicuri la comunità internazionale che l’Italia continuerà sulla strada intrapresa».
Ma è la reazione di Renzi a far capire la minaccia che incombe sulle primarie, che di colpo assumono la veste di un esercizio quasi superfluo, se si desse per scontata una reinvestitura del professore a Palazzo Chigi. Dopo aver detto da giorni che vedrebbe bene Monti al Quirinale, Renzi va da Formigli a Piazzapulita e si mostra in sintonia con Bersani. «Non so se questo sia un messaggio ai mercati o ai partiti. Penso più ai mercati, dopodiché il premier lo devono decidere i cittadini alle elezioni che non sono “Scherzi a parte”. Insomma, non è pensabile che i partiti fingano di combattersi magari con una legge elettorale peggio del porcellum e poi tutti insieme richiamino Monti: sarebbe un’umiliazione per la politica». Ma lei accetterebbe di farsi da parte se vincesse le primarie? «La politica deve tornare a fare il suo mestiere e Monti ha restituito prestigio all’Italia ma, a parte alcune cose giuste fatte, su altre vedo il governo molto timido. E chi lo vota Monti? Di nuovo una grande coalizione? Ho rispetto per il centrodestra, ma io non voglio stare al governo con loro».

La Stampa 28.9.12
Ora di religione
La riforma cominci dai docenti
di Gian Enrico Rusconi


Ciclicamente sorge il problema dell’insegnamento della religione nella scuola pubblica. Tutti gli argomenti sono stati usati e spesi, con risultati modesti, salvo la possibilità dell’esenzione dall’ora di religione. Sino a qualche anno fa il problema veniva sollevato soprattutto in nome del principio della laicità dell’educazione pubblica. Le richieste che ne seguivano erano molto articolate – dalla soppressione pura e semplice dell’ora di religione alla istituzione sostitutiva di una lezione di etica, all’introduzione della storia delle religioni, Tutte le proposte sono sempre state contestate e respinte dai rappresentanti (quelli che contano) del mondo cattolico. Nel frattempo si sono aggiunte altre problematiche: l’enfasi sulle «radici cristiane» della nostra cultura (argomento poi vergognosamente politicizzato), la presenza crescente di allievi di altre religioni ( con riferimento costante se non esclusivo a quella islamica) e i discorsi sempre più frequenti sul ritorno e «il ruolo pubblico delle religioni».
Il tutto si è accompagnato con crescente deferenza pubblica verso la Chiesa la cui posizione dottrinale poco alla volta ha acquistato la funzione surrogatoria di una «religione civile». Si è creato l’equivoco di misurare i criteri dell’etica pubblica sulle indicazioni della dottrina della Chiesa - senza preoccuparsi della effettiva adesione ad essa dei comportamenti dei cittadini che dicono di essere credenti. Il tasso di trasgressione delle indicazioni ecclesiastiche da parte dei cittadini italiani non è affatto minore di quella generale dei Paesi considerati più secolarizzati.
In questo contesto il monopolio della Chiesa nell’insegnamento religioso nelle scuole – comunque definito - è solo un tassello, cui non intende minimamente rinunciare. D’altra parte oggi né l’istituzione statale né la cosiddetta società civile sono in grado di offrire alternative.
E’ possibile superare questo circolo vizioso? Non già contro la Chiesa – come subito si accuserà – ma per rinnovare profondamente o semplicemente dare concretezza alla libertà religiosa.
Nel nostro Paese cresce paurosamente l’incultura religiosa, che non ha nulla a che vedere con la laicità. Anche se gli uomini di Chiesa ne danno volentieri la colpa al laicismo, al relativismo, al nichilismo ecc. Solo i più sensibili si interrogano sul paradosso della crescente incultura religiosa in un Paese dove la Chiesa è accreditata di un’enorme autorità morale. Solo i più sensibili si chiedono se non c’è qualcosa che non va in un magistero e in una strategia comunicativa che rischia di impoverirsi teologicamente, perché tutta assorbita dalla preoccupazione per quelli che sono chiamati perentoriamente «i valori», a loro volta monopolizzati dai temi della «vita» e della «famiglia naturale», sostenuti e trattati con fragili argomentazioni teologiche. Una particolare (discutibile) antropologia morale ha preso il posto della riflessione teologica. So che è un discorso impegnativo e complicato, da rimandare ad altra sede. Ma c’entra con il nostro tema.
La stragrande maggioranza delle famiglie italiane – loro stesse caratterizzate da basso tasso di cultura religiosa – mandano i figli all’ora di religione perché «fa loro bene». Lo considerano un surrogato di insegnamento morale, senza troppo preoccuparsi dei contenuti. Anzi sono ben contenti che i ragazzi non fanno «lezione di catechismo» - come assicurano molti degli insegnanti cattolici. Ma qui nasce un altro brutto paradosso. Certamente è giusto che non si faccia catechismo. Ma la lezione di religione deve comunque fornire contenuti di conoscenza su che cosa significa avere una fede. La sua origine, la sua storia, la sua evoluzione, i suoi conflitti interni, le differenze rispetto alle altre religioni ma anche il loro confronto positivo. Tutto questo per noi è «storia delle religioni», anche a partire dalla centralità del cristianesimo, che – sia detto per inciso - teologicamente parlando non coincide con il cattolicesimo.
Suppongo che il cattolico che leggesse queste righe, direbbe con cipiglio severo che è esattamente quello che fanno (o dovrebbero fare) gli insegnanti ufficiali di religione, quelli autorizzati dal vescovo, per intenderci. Non dubito che ci sono molti insegnanti di religione «ufficiali» ottimi nel senso delle cose che sto dicendo. Ma qui si apre un altro problema, forse il più delicato e decisivo. Non ci si può fidare o affidare alla maturità soggettiva dei singoli insegnanti o all’assicurazione dell’autorità ecclesiastica, se vogliamo che la lezione di religione o di storia delle religioni si configuri come vero servizio della scuola pubblica. Si obietterà che le norme attualmente vigenti sono concepite diversamente e vanno rispettate. Bene. Ma è tempo di cambiarle, senza aspettare l’esternazione del prossimo ministro dell’Istruzione o la prossima congiuntura politica.
Il vero problema è che l’Italia ha urgenza di formare laicamente un ceto di insegnanti di religione o delle religioni – non già contro la Chiesa ma sperabilmente con la sua collaborazione – che risponda seriamente alla nuova problematica del pluralismo religioso. In molte università italiane ci sono buoni centri di ricerca sui fenomeni religiosi, con opportuni collegamenti interdisciplinari con le scienze antropologiche e di storia delle civiltà. Si tratta di valorizzare tali centri, di metterli in collegamento e renderli funzionali per la formazione di nuovi docenti per la scuola. E’ un lavoro impegnativo, ma necessario e urgente. E’ un vero peccato invece che molti influenti cattolici del nostro Paese si chiudano a riccio con argomenti davvero molto modesti.

l’Unità 28.9.12
Sondaggio sulle primarie: no ai voti del centrodestra
«Primarie, non voti la destra»
I primi risultati del sondaggio su www.unita.it: il 78 per cento chiede che la consultazione sia aperta agli elettori di centrosinistra e a chi si impegna moralmente a votare il vincitore alle politiche
di Virgina Lori


Ma alle primarie del centrosinistra può votare la destra? E si può far appello al voto trasversale? L’Unità ha fatto un sondaggio tra i suoi lettori e i visitatori del sito web (www.unita.it) chiedendo direttamente a loro cosa ne pensano. In due giorni sono già migliaia le risposte cliccate. Alla domanda «a chi aprire le primarie del centrosinistra» il 78% (4.478 utenti) risponde senza dubbio: soltanto a coloro che si impegnano moralmente a votare il vincitore delle primarie anche alle elezioni politiche. Soltanto per il 12% dovrebbero essere aperte a chiunque voglia partecipare, dunque anche ad elettori che non si sentono impegnati con il centrosinistra, mentre il restante 11% ritiene che possano votare alle primarie sia gli elettori di centrosinistra sia i «non schierati». Si continua a votare, basta un click su www.unita.it
«Se lo scopo delle primarie è allargare quanto più possibile la nostra base di consenso ha scritto Ivan Scalfarotto (che appoggia Matteo Renzi) in questo particolare momento storico e vincere, allora bisogna favorire la più ampia partecipazione». Di parere opposto Tommaso Giuntella, del comitato pro-Bersani: «Non è una questione normativa, è una questione etica, ma ancora prima una questione di buon senso. Viviamo un tempo di estrema confusione nel quale siamo arrivati a immaginare un controsenso logico quale la contrapposizione tra società civile e società politica».
Sempre su queste pagine Michele Prospero descrive quanto sta accadendo nel centrodestra: «A destra ora c’è chi reclama il diritto (sic!) di votare alle primarie con l’avvertenza che però, se Renzi non dovesse spuntarla nei gazebo, alle urne del 2013 tornerà all’ovile e quindi non sosterrà mai Bersani. Parrebbe uno stralunato episodio della commedia all’italiana e invece è una tragedia che rivela la corruzione ideale di oggi».
Stefano Ceccanti la vede da un altro punto di vista: «La scelta delle primarie chiuse concentra il massimo delle controindicazioni: priva il partito o la coalizione dell'apertura di massa delle primarie dirette, allontanando le caratteristiche dell'elettorato delle primarie da quello delle secondarie, e lo priva anche dell'apertura mentale delle leadership interessate a vincere. Mette invece la scelta per intero nelle mani di minoranze ideologizzate, più interessate a confermare la propria identità che a conquistare consensi nuovi».
Ma intanto, in vista dell’Assemblea del sei ottobre, che dovrà stabilire le norme di “ingresso” e cambiare quella dello Statuto che individua nel segretario il candidato alle primarie di coalizione, gli sherpa di Pd, Sel e Psi (Migliavacca, Ferrara e Di Lello), che stanno lavorando all'organizzazione dei gazebo, provano a fissare dei punti fermi: se nessun candidato raggiungerà il 50 più uno dei consensi al primo turno si andrà al ballottaggio tra i primi due.
Le possibili date: il primo turno si terrebbe domenica 25 novembre, l'eventuale secondo turno domenica 2 dicembre. Chi parteciperà alle primarie, inoltre, dovrà iscriversi in un apposito elenco. Si presume pubblico, come è accaduto per quelle per il sindaco di Firenze.
E proprio il sindaco fiorentino ieri mattina è tornato sulla questione delle regole. Vuole «le stesse usate per Prodi, Veltroni e Bersani». E a tal fine, assicura di fidarsi di quelle «che sceglie il segretario del mio partito. Penso sia bene mantenere le consultazioni aperte». Quanto all’ipotesi di candidarsi come segretario del Pd, in caso di sconfitta per la premiership, la risposta in dialetto napoletano, con accento fiorentino, sgombra il campo da dubbi: «Manco pa’ capa!». Quello che gli passa per la testa, invece, è un timore: che sulle primarie scatti l’«effetto Napoli», riferendosi a quanto accaduto con Cozzolino. «So bene cosa è accaduto qui: un'esperienza utile... Nel senso che non deve più succedere, occorre fare il contrario». Spiega: «Mio figlio ha 11 anni e si dichiara bersaniano perché non vorrebbe il padre in giro per tre mesi. Temo che cambino le regole in corsa ma non credo che faranno votare pure i bambini». Pier Luigi Bersani, a cui viene chiesto di replicare a Renzi, risponde: «Devo dire, sinceramente, che sto utilizzando più tempo sulla vicenda esodati che sulle primarie».

il Fatto 28.9.12
Primarie del Pd a doppio turno per fermare Renzi
Le nuove regole stabilite dal partito che teme l’esodo verso il rottamatore
di Caterina Perniconi


Le carte in regola per vincere le primarie ora Pier Luigi Bersani le ha tutte. Anche le agognate regole su misura redatte dal fedelissimo Maurizio Miglia-vacca: doppio turno se uno dei candidati non raggiunge il 50,1% alla prima votazione.
Il camper di Matteo Renzi che gironzola per l’Italia non dovrebbe costituire più un problema. Ma portare i cittadini a votare due volte non può non apparire come un segnale di debolezza del segretario democratico in cerca di legittimazione come leader. I gazebo sono fissati per domenica 25 novembre. Se ce ne sarà bisogno, gli elettori del centrosinistra potranno tornare a pronunciarsi il 2 dicembre ma non è ancora chiaro se ci sarà un albo degli iscritti, se al secondo turno potrà votare solo chi l’ha fatto al primo e, soprattutto, se due votazioni significano anche due pagamenti (la crisi la sente pure il Pd e ogni votante dovrà scucire 3 o 4 euro). L’escamotage del secondo turno è stato necessario dopo la proliferazione delle candidature. Bersani potrà così contare, in caso di medio successo, sui consensi dei candidati “amici” Gozi, Tabacci e, naturalmente, Vendola.
LO STAFF del segretario si dice tranquillo, il partito tiene, non ci saranno problemi. Ma ci sono da fare i conti con le prime defaillance. “Qualche passaggio? A me sembra piuttosto un esodo biblico” commenta soddisfatto il regista della campagna renziana, Roberto Reggi. Negli ultimi giorni la corrente dei lettiani sul territorio è “franata” verso il campo del sindaco di Firenze, che li ha accolti a braccia aperte. Enrico Letta manterrà una posizione di “responsabilità” ma i suoi uomini sono già mobilitati: capofila il piemontese Davide Gariglio (già sfidante di Piero Fassino alle primarie) e il lombardo Alessandro Alfieri. Ci sono anche molti sindaci con un piede sul camper oltre a un nutrito gruppo di parlamentari destinato a crescere nei prossimi giorni. Tra i “transfughi” i Liberal Enrico Morando, Giorgio Tonini, Umberto Ranieri ma anche Stefano Ceccanti, Pietro Ichino e Salvatore Vassallo, poi gli ex Margherita Paolo Gentiloni, Roberto Giachetti e Andrea Sarubbi, gli Ecodem Ermete Realacci e Roberto Della Seta, fino al vicepresidente dei deputati del Pd Alessandro Maran, che tende a definirsi “montiano” ma non disdegna le posizioni della sinistra liberale portate avanti dal giovane candidato con il quale non ha ancora mai parlato personalmente.
Siete contenti? “Di certo non ce lo aspettavamo così in fretta – spiega Reggi – erano smottamenti attesi per fine ottobre”. Non avete il timore che qualcuno cerchi l’ultima spiaggia rimasta libera? “Come no, infatti la nostra strategia non cambia, chi ci vuole appoggiare ben venga ma questo non significa niente”. Gli assi nella manica di Renzi sono altri, non vengono dal partito “ma dall’esterno”.
DI CERTO non si potevano aspettare le dichiarazioni di guerra di Arturo Parisi che ha sparato a zero contro Bersani accusandolo di essere “responsabile del disastro cui è stata portata la nostra democrazia” in riferimento alla legge elettorale. Parisi, che all’ultima assemblea aveva cercato di distogliere anche Renzi dalla candidatura, ieri ha annunciato che non darà il suo voto al segretario e che vigilerà sulla regolarità della riunione del 6 ottobre – quella che cambierà lo Statuto (oggi prevede il segretario naturale candidato premier) e le regole per le primarie – per avere la certezza che ci sia il numero legale per farlo.
Ad oggi Bersani ancora rincorre. Dopo la tappa napoletana del camper renziano, il segretario ha scelto uno sponsor per la Campania che potrebbe essere un boomerang: ieri la prima iniziativa “ufficiale” delle primarie era a Salerno a fianco di Vincenzo De Luca, sindaco con due rinvii a giudizio sulle spalle. Uno di quelli che Renzi rottamerebbe senza pensarci un momento. E forse anche molti elettori del suo partito.

l’Unità 28.9.12
Anticorruzione
Carlo Federico Grosso: «Non c’è più tempo. L’Europa aspetta da dieci anni»
Il giurista, ex vicepresidente del Csm: «Il testo della legge anti-corruzione è il migliore possibile nell’attuale contesto»
intervista di Andrea Carugati


ROMA «La legge anticorruzione? È assolutamente urgente che si arrivi rapidamente all’approvazione da parte del Parlamento. Quel testo risponde a degli impegni che l’Italia si è assunta firmando dei trattati internazionali. Sono dieci anni che quegli impegni attendono di essere onorati, ma il Parlamento non è mai riuscito a trovare una sintesi», spiega Carlo Federico Grosso, ordinario di Diritto penale all’Università di Torino, tra i più noti penalisti italiani.
Qual è il suo giudizio sul testo all’esame del Senato?
«Non è il testo migliore possibile in assoluto, ma certamente il migliore nell’attuale contesto italiano. Le differenti posizioni tra Pdl e Pd hanno reso difficile la ricerca di una sintesi, ma questa sintesi tutto sommato è stata trovata».
Quali sono gli aspetti più efficaci di questa norma e quelli più deboli?
«Ci sono una serie di interventi di tipo amministrativo e di controllo, di cui si parla poco, ma che ritengo assai utili per prevenire e disincentivare a monte i fenomeni corruttivi. Parlo ad esempio delle norme per rendere più trasparenti gli appalti e le offerte della Pubblica amministrazione, le liste dei fornitori, l’obbligo di inserire in Internet tutte le notizie relative agli appalti e i risultati degli stessi, le verifiche più stringenti sui possibili collegamenti mafiosi delle imprese».
Parliamo dell’aspetto penale...
«Su questo fronte c’è ancora un grosso nodo che non è stato risolto in modo adeguato, e che è stato al centro di roventi polemiche in Parlamento. Con la legge Cirielli la prescrizione per corruzione era stata drasticamente abbreviata, da 15 anni ai 7,5, che sono veramente pochi, visto che spesso le corruzioni vengono scoperte alcuni anni dopo. Sarebbe stato opportuno tornare a 15 anni, ma questo non è stato possibile per la durissima opposizione del Pdl. Si è dunque trovata una soluzione di compromesso, e cioè elevare il massimo delle pene previste dal codice. Ma questo ha determinato un impatto molto limitato, allungando i termini solo di qualche mese».
Insomma, anche in queste nuove norme c’è ancora un riflesso “ad personam” per Berlusconi?
«Evidentemente sì, ma questi tempi di prescrizione sono scandalosi. La rigidità del Pdl ha impedito qualsiasi ipotesi di ripristino di tempi adeguati».
E le nuove figure di reato introdotte?
«Le ritengo molto utili, a partire dalla “corruzione tra privati”. Così si potrà colpire i dipendenti delle aziende che, ad esempio, chiedono tangenti ad alcuni fornitori per favorirli rispetto ad altri. Un meccanismo che interferisce sulla concorrenza, creando un costo di produzione aggiuntivo e danneggiando la competitività delle nostre imprese, anche sul mercato internazionale. C’è poi la fattispecie del “traffico di influenze”, che punirà in modo specifico il pubblico funzionario che non compie un atto d’ufficio in cambio della tangente, ma che si mette a disposizione per agevolare gli interessi di una impresa nel rapporto con la PA».
Alcuni commentatori argomentano che le nuove norme non servirebbero ad evitare casi come quelli della Regione Lazio e dunque sarebbero sostanzialmente inutili...
«È ovvio che non riguardino le vicende del Lazio, perché in questo caso non si tratta di corruzione in senso tecnico, ma di ipotesi di malversazione per chi, muovendosi nelle pieghe della legislazione regionale, si appropria di denaro pubblico per utilità private. Si tratta di forme di peculato e di abuso d’ufficio, reati già previsti e puniti dal codice penale. Tutti questi sono fenomeni gravissimi e da combattere. Ma per punire le malversazioni e i peculati gli strumenti efficaci ci sono già, e non vedo perché confondere i due piani».
Ieri il Pdl ha presentato un emendamento cosiddetto “anti-Batman” per colpire chi utilizza in modo privato soldi pubblici.
«Mi pare più che altro una operazione d’immagine, per tentare di mostrarsi più realisti del re e recuperare sul terreno della credibilità. A mio parere le norme già in vigore sono sufficientemente efficaci per combattere quel tipo di malversazione. E tuttavia è vero che introdurre una forma specifica di reato eliminerebbe ogni dubbio sulla rilevanza penale di alcuni comportamenti che potrebbero essere giustificati in base alle leggi regionali. Renderebbe dunque più facile l’azione repressiva».
Colpisce lo scarto tra gli appelli del Capo dello Stato e del premier Monti e il tentativo di alcuni partiti di ostacolare l’approvazione della legge.
«Un ampio sistema di corruzione come quello che c’è in Italia penalizza fortemente la competitività delle nostre imprese: è un tarlo che corrode il sistema produttivo. Per questo non mi stupisce la tenacia con cui il presidente Monti batte su questo tasto».
Ritiene che il voto di fiducia sia una soluzione idonea per uscire dall’impasse? «Potrebbe essere uno strumento efficace per arrivare al risultato: ogni forza della maggioranza si troverebbe davanti alle proprie responsabilità...».

«I gruppi consiliari presenti in Regione non hanno fatto una grande figura nell’accettare fondi di migliaia di euro senza fiatare.
Gli unici a denunciare la gran messe di soldi che affluivano ai gruppi politici sono stati i due radicali, Rossodivita e Berardo.
A loro però viene imputata un’ulteriore colpa: se erano troppi, perché li avete presi?
Abbiamo girato le critiche a Rossodivita e al capogruppo di Sel in Regione, Luigi Nieri»
il Fatto 28.9.12
Rossodivita (radicali)
“Con i fondi ai gruppi regionali abbiamo fatto il congresso
di Andrea Managò


La prima denuncia sui fondi ai gruppi in Consiglio è partita dai Radicali. Cosa sapevate di quei soldi?
Prima di entrare in Consiglio, nulla. Immaginavamo solo ci fosse un contributo che ricalcava quello erogato in Parlamento ai singoli gruppi. Una volta insediati, ci hanno chiesto di aprire un conto corrente intestato al gruppo e abbiamo ricevuto i primi versamenti.
La Lista Bonino Pannella ha ricevuto 160.667 euro nel 2010 e 422.147 nel 2011.
Non proprio spiccioli.
Non facendo parte dell’ufficio di presidenza non conoscevamo l’entità complessiva del finanziamento che ci spettava. Le somme venivano accreditate una tantum, con scadenze non regolari: solo al momento di fare il nostro bilancio abbiamo capito quanti soldi erano. Nel 2011 poi ci siamo resi conto che aumentavano fino a salire vertiginosamente.
Perché non avete denunciato subito la cosa?
Sarebbe stato sciocco urlare, dopo un singolo versamento, “oggi ci hanno dato 50 mila euro”, volevamo aspettare di capire il totale.
Ma la spesa più alta (208.000 euro) l’avete fatta per finanziare il Congresso del Partito Radicale Transnazionale. Che c’entra con la Pisana?
Abbiamo finanziato una parte delle spese di quel Congresso perché una sessione era dedicata alla tutela dei diritti umani negli enti locali, con la presenza di consiglieri di autonomie locali provenienti da molti Paesi.
Perché i versamenti sono due?
Perché il Congresso del Partito Radicale Transnazionale, come da tradizione, si divide in due sessioni differenti: nel 2011 una si è svolta a Chianciano e l’altra a Roma. Per la seconda è stata scelta la Capitale anche perché sede del Consiglio regionale.
Certo, finanziare un Congresso a Chianciano, con politici di tante altre nazioni, con fondi della Regione Lazio...
Le norme non pongono un limite di utilizzo nel territorio laziale dei fondi ai gruppi. Molti consiglieri ne fanno un’interpretazione di questo tipo scatenando appetiti clientelari. Noi abbiamo sostenuto un’attività inerente alla politica del gruppo, dandogli seguito con la costituzione di un’intergruppo consiliare sui diritti umani.
Magari retribuito anche quello con un gettone?
No, totalmente gratuito.
Come è stata possibile la lievitazione dei fondi?
Perché qui non c’è trasparenza. Quando si riunisce l’ufficio di presidenza e delibera, ai consiglieri che non ne fanno parte arriva solo una mail con i titoli delle decisioni. Abbiamo chiesto il testo di varie determine, non lo abbiamo mai ottenuto.

il Fatto 28.9.12
Luigi Nieri (Sel)
“Non ci siamo posti il problema, ma non abbiano rubato niente”


“Come gruppo Sel abbiamo speso tutti i soldi che ci ha destinato il Consiglio nei limiti previsti dalla legge. Non mi nascondo dietro ai cavilli, chiunque li abbia usati per fini diversi dalle attività istituzionali ha sbagliato”. Luigi Nieri, capogruppo di Sel al Consiglio regionale del Lazio ed assessore al Bilancio durante la giunta Marrazzo è uno che i conti della Regione dovrebbe conoscerli bene.
È in Regione da molti anni, come avete fatto a non accorgervi di quello che stava succedendo nel Pdl?
Puoi denunciare quello che conosci, non quello che non sai. I bilanci, sia della giunta che del Consiglio, durante la presidenza Polverini non sono stati all’insegna dell’accessibilità e la trasparenza. I partiti che non facevano parte dell’ufficio di presidenza non ne conoscevano le de-libere, tantomeno l’aumento dei fondi ai gruppi rispetto a quelli previsti nel bilancio.
Potevate fare di più?
Chiaro, l’opposizione dovrebbe sempre fare di più. Ma senza trasparenza è difficile.
Mai nemmeno un sospetto?
Onestamente non ci siamo posti il problema di sapere quanti fondi ricevessero gli altri gruppi, abbiamo pensato piuttosto ad usare al meglio i nostri.
Sel ha ricevuto 160.665 euro nel 2010 e 356.610 per l’anno successivo. Non male.
È comunque meno di quanto hanno percepito altri gruppi con due consiglieri come il nostro.
Voi avete speso soprattutto in manifesti, 173.054 euro solo nel 2011. Tanti soldi.
Abbiamo fatto diverse campagne di informazione sul nostro lavoro in aula: contro la legge Tarzia, la chiusura degli ospedali, il piano casa. In qualche caso stampato anche degli opuscoli. In futuro questa voce potrà essere ridotta, ormai ci sono nuove forme di comunicazione che rendono i manifesti sempre più datati.
Allora siete pentiti di averli fatti?
La nostra è una forza politica con un leader affermato ma senza parlamentari, con una presenza sugli organi di stampa a corrente alternata: i manifesti servono anche a bilanciare queste cose.
Da assessore al Bilancio quanti fondi destinavate ai gruppi?
Premetto: in cinque anni la giunta Marrazzo ha trasferito in totale al Consiglio 265 milioni di euro, loro 188 milioni in due anni. Per i gruppi siamo partiti da 3,3 e abbiamo terminato a 4,5 milioni, prima che arrivassi io al Bilancio la trasparenza degli atti su internet era una cosa sconosciuta. Questa è una battaglia che rivendico.
a. m.

Repubblica 28.9.12
In Italia per adesso nessuna manifestazione anti-austerity come a Madrid e ad Atene
Roma non rischia il contagio della piazza
di Roberto Mania


ROMA — L’anomalia italiana si chiama “governo tecnico” sostenuto da una grande coalizione. Se le piazze nostrane restano vuote mentre si riempiono quelle madrilene e quelle di Atene e Salonicco per protestare contro le politiche di austerity è soprattutto perché da noi manca un’opposizione di sinistra che faccia da sponda ai movimenti sociali. La tesi emerge da un’indagine in progress (“La politica sotterranea”) che sta realizzando un gruppo di ricercatori, guidati da Donatella Della Porta, professoressa di sociologia presso l’Istituto universitario europeo di Firenze, con il coordinamento della London School of Economics. C’è il contagio della speculazione, non quello della protesta. La moneta unica non ha unificato le piazze, un po’ come con lo spread.
Certo, ci sono le proteste dei lavoratori dell’Alcoa, degli operai dell’Ilva, dei minatori del Carbosulcis, dei cassintegrati della Fiat di Termini Imerese. Addirittura gli scioperi sono aumentati nell’ultimo anno del 25 per cento. Qua e là affiorano pure proteste dei precari. Ma ciascun gruppo protesta per sé, spesso scegliendo forme estreme: la discesa a quattrocento metri di profondità, le notti sui tralicci o sulle torri a sessanta metri di altezza. Qualche anno fa la salita sui tetti dei ricercatori. Nessuno, però, unifica le proteste. Non c’è un collettore. Nemmeno i sindacati lo sono, nonostante siano quasi sempre parti della protesta. Ma pesano le loro divisioni e lo scarso appeal tra i movimenti sociali di base.
Dice Della Porta: «Le politiche che gli economisti definiscono liberiste non hanno risentito del passaggio da Berlusconi a Monti, al netto della delegittimazione e dell’inaffidabilità del primo. Ma quanto c’era il governo di centro-destra tutta una serie di organizzazioni più o meno vicine al Pd andava in piazza, offriva le risorse logistiche, mentre ora frena».
Perché, al di là dello spontaneismo dei movimenti modello indignados od occupy, una protesta richiede uno sbocco politico. Chi va in piazza deve anche pensare che le proprie ragioni troveranno ascolto in Parlamento, quella che i ricercatori chiamano «opportunità politica». Altrimenti muta la natura della protesta che diventa testimonianza. Nel Parlamento italiano — sostiene Della Porta — «c’è una grande coalizione, anche se non si può dire dopo lo scontro nella stagione del berlusconismo». Questa è l’anomalia. Perché nella stagione dell’emergenza finanziaria, non c’è spazio per la formula antica dei “partiti di lotta e di governo”.

Repubblica 28.9.12
Le ultime ore del cardinal Martini
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, sono un medico che da circa 20 anni lavora nell’accompagnamento dei pazienti a fine vita, tumorali e non. Ho letto la lettera di Mancuso e la risposta di Scalfari. Mi permetto alcune precisazioni. 1- Un lungo dibattito ha contribuito a costruire un “luogo comune” per cui la sedazione palliativa in fase terminale è spesso considerata erroneamente come “un intervento medico che pone la fine alle sofferenze accelerando la morte”. 2 – Non è così. La sedazione profonda terminale è una misura terapeutica di scelta estrema in casi di sofferenza intollerabile e viene praticata con un farmaco ipnotico. 3 - Il costo della sedazione palliativa profonda è la soppressione della coscienza cioè la morte relazionale. 4 -Viene eseguita negli ultimissimi istanti di vita (24-36 ore). 5 - Il consenso del paziente è irrinunciabile. 6 – La sedazione terminale ovviamente non è eutanasia. 7 – Il paziente sedato deve poter contare sulla presenza costante di uno dei curanti sino al momento della morte. 8 – Si tratta quindi di lasciare che la morte arrivi normalmente ma dormendo. L’argomento è vasto, mi scuso di averlo (forse) troppo sintetizzato.
Prof. Giorgio Tubere
Ringrazio il prof . Tubere per le sue utili precisazioni. Anche se non mi pare che cambino nella sostanza quanto è stato scritto sulla fine del cardinale Martini, il doloroso evento dal quale ha preso avvio questa discussione. Dalla testimonianza della nipote del presule, avvocato Giulia Facchini, sappiamo che Martini “quando non ce l’ha fatta più ha chiesto di essere addormentato”. Inizialmente alcune agenzie avevano battuto che il malato era stato “staccato dalle macchine” e su questa prima versione s’era basato anche il primo commento di Eugenio Scalfari. In realtà non c’era alcuna macchina, Martini era solo arrivato al limite di sopportazione della sofferenza fisica e intellettuale; liberamente, con lucida coscienza ha chiesto di essere sedato. Riprendo le parole di Scalfari: «Quando si è nello stato di salute in cui era lui, la sedazione è un eufemismo che significa darsi la morte». Il professor Tubere obietta che la sedazione profonda causa solo la “morte relazionale”, sopprime cioè la coscienza, ma aggiunge anche che quell’azione fa arrivare “normalmente” la morte mentre si dorme. A me pare, giudicando da profano, che tra queste informazioni diciamo tecniche e quanto scritto da Vito Mancuso ed Eugenio Scalfari non ci siano diversità di sostanza a parte forse il punto che la sedazione venga eseguita “nelle ultime ore di vita”. Non sappiamo se, quando il cardinale è stato sedato, fossero già cominciate le ultime ore a lui date dalla natura. Sappiamo solo che così ha chiesto che fosse. Ed è stato. È ciò che ognuno di noi si augura, se fosse necessario, se ce lo permetteranno.

Agi 27.9.12
Onu: Abu Mazen, Israele uccide speranze di soluzione 2 Stati

New York, 27 set. - Israele, con i suoi insediamenti nei territori occupati, sta uccidendo le speranze della soluzione dei due stati nel conflitto mediorientale. Lo ha affermato il presidente palestinese Abu Mazen nel suo intervento all'Onu che ha definito "razzista" la colonizzazione di Israele. Il presidente palestinese ha quindi chiesto una risoluzione del Consiglio di sicurezza che ponga fine al conflitto e ha ribadito la richiesta di stato "non membro" per la Palestina .

Corriere on line 28.9.12
Il presidente palestinese Abu Mazen ha accusato Israele di condurre una colonizzazione «razzista» dei territori palestinesi, spingendoli verso una «nuova catastrofe», ha denunciato  le violenze nei Territori e in Gerusalemme Est. «Non c’è altra patria per noi che la Palestina» ha detto tra gli applausi «e non c’è altra terra per noi che la Palestina». Israele, con i suoi insediamenti nei territori occupati, sta uccidendo le speranze della soluzione dei due stati nel conflitto mediorientale, ha affermato Abu Mazen nel suo intervento all'Onu chiedendo una risoluzione del Consiglio di sicurezza che ponga fine al conflitto. E, affermando che esiste ancora una possibilità, «forse l'ultima», di salvare la soluzione dei due Stati, ha detto di aver avviato le consultazioni per ottenere dall'Assemblea generale dell'Onu il riconoscimento dello status di Stato non membro per la Palestina.

La Stampa 28.9.12
Colloquio
Il dissidente Chen “Anche la Cina diventerà democratica”
L’avvocato cieco ora vive con la famiglia a New York “Non avrei voluto partire, essere qui è una sconfitta”
di Ilaria Maria Sala


NEW YORK Chen Guangcheng, l’avvocato autodidatta non vedente, attivista cinese per i diritti umani fra i più noti, dopo la rocambolesca fuga dal suo villaggio nella regione costiera dello Shandong, la scorsa primavera è arrivato a New York, grazie a un compromesso dell’ultima ora raggiunto fra le autorità cinesi e la diplomazia statunitense, che l’aveva accolto nell’Ambasciata americana a Pechino.
Ora Chen, insieme alla moglie Yuan Weijing e ai due figli, abita al Village, in un appartamento approntato per loro dalla Facoltà di Giurisprudenza della New York University non lontano da Washington Square. Il contrasto con il piccolo villaggio in cui è stato tenuto agli arresti domiciliari per anni, con scagnozzi appostati davanti a casa pronti a picchiare lui e sua moglie o chiunque cercasse di andarlo a trovare, non potrebbe essere più grande. «Essere qui è un po’ una sconfitta», dice, seduto in un piccolo ristorante giapponese poco lontano da casa, con la moglie di fianco, sua eterna accompagnatrice e colonna. «Ma stiamo bene. Stiamo bene», ripete. Le giornate ora non trascorrono più nel chiedersi quando avrà fine l’incubo in cui l’aveva precipitato il mettersi contro le autorità locali, ma nel cercare di imparare l’inglese e inserire i figli nella nuova vita. Poi ci sono gli incontri con accademici americani e adesso anche il progetto di un libro autobiografico.
«Se mi guardo indietro… l’esperienza è stata tremenda. Ma questi anni non sono riusciti a terrorizzarmi. A farmi infuriare, sì, invece», dice, muovendo la testa in modo incerto, come se cercasse nell’aria il modo di sbarazzarsi dei terribili ricordi. A chiedergli se rifarebbe quello che ha fatto – aiutare i contadini del suo villaggio a denunciare le autorità locali per tasse inique ai disabili, battersi contro l’esproprio illegittimo di terre, i casi di inquinamento doloso, gli abusi alla politica del figlio unico – non si fa in tempo a sentire la sua risposta, che interviene Yuan Weijing, solitamente un po’ schiva: «No! Assolutamente no: non dovremmo rifarlo, non rifarei nulla di quello che abbiamo fatto! È stato troppo pericoloso», dice, nascondendo dietro una risata spontanea l’angoscia passata. Poi Chen riprende la parola: «Non si può cambiare la storia. Lai mi chiede se, tornando indietro, mi rimetterei a lavorare per la difesa dei diritti umani? Non è una scelta. È così e basta”, dice. Yuan lo osserva, riempiendogli il piatto delle cose migliori, spiegandogli che cosa gli sta servendo e incoraggiandolo a mangiare di più, perché da quando è negli Stati Uniti ha perso peso.
Pensando ai tanti dissidenti che si sono ritrovati in esilio incapaci di esercitare un’influenza in patria, Chen dice: «Partire non era il mio desiderio. Consideriamo però che quando ero a casa, nella provincia dello Shandong, durante i sette anni di arresti domiciliari e di prigione, non mi era concesso di fare nemmeno una telefonata. Non avevo nessun contatto con l’esterno: ora sono fuori dal Paese, ma almeno posso comunicare con molte persone, anche in Cina. Non con tutti: di mio nipote Chen Kegui, accusato di tentato omicidio per essersi difeso da un’incursione notturna della polizia dopo la mia fuga, non ho notizie. E sì che avevano promesso di lasciarlo in pace, di aprire un’inchiesta sugli abusi che abbiamo subito! » .
Il ristorante si è riempito e un gruppo di studenti cinesi venuti a pranzare qui, nel vedere Chen Guangcheng al tavolo d’angolo, comincia a fargli fotografie con il cellulare, un po’ in sordina. Contrariamente ad altri dissidenti divenuti noti per i loro scritti, Chen rappresenta la gente comune, i disabili, i contadini e gli espropriati, e ha molti sostenitori in Cina che lo conoscono e rispettano.
«Credo che sia molto importante che il mondo continui a fare pressione sulla Cina per il rispetto dei diritti umani, in tutto il Paese - continua, ignaro di essere al centro dell’attenzione -. La Cina non è solo Shanghai e Pechino. E quello che avviene nelle campagne è ancora molto duro». Da quando è in America si è impegnato affinché questa pressione sia fatta, senza preoccuparsi della polarizzazione della politica Usa e della possibilità di essere strumentalizzato da una parte o dall’altra. «Non m’intendo di politica americana, francamente mi interessa poco. Il mio lavoro riguarda la Cina e il suo futuro, e voglio di restare fedele a me stesso», dice.
Tra i programmi per l’anno prossimo c’è una visita a Taiwan: Chen ha accettato l’invito, anche se questo viaggio può complicare il suo sogno di tornare in Cina appena possibile. «Non ho dubbio alcuno - dice - che la Cina diventerà democratica. E credo che ciò avverrà presto,. Se tutti lavoriamo per questo obiettivo, il nostro domani sarà di certo molto migliore. Sono convinto che quello che Taiwan è oggi, la Cina potrà esserlo domani: una democrazia, dove la legge e i diritti umani sono rispettati». E ripete, con solare ottimismo: «No, non ho nessun dubbio al riguardo».

Repubblica 28.9.12
Cina
La compagna Liu prima donna al potere nella fortezza rossa
di Giampaolo Visetti


PECHINO Una “principessa rossa” bussa alla porta del potere nella Città Proibita. Per la prima volta, a 62 anni dalla Rivoluzione maoista, una donna si appresta a entrare nel club esclusivo dei nove uomini che comandano la Cina. Il suo nome è Liu Yandong e i pochi che hanno accesso alle camere con vista su piazza Tienanmen, dove in queste ore si decide il destino della seconda economia del mondo, assicurano che la “dama di ferro” della Gioventù comunista, iscritta al partito a 19 anni, sarà la grande sorpresa del 18° Congresso, previsto a metà ottobre.
I 2270 delegati, in un clima di mistero che allarma anche le Borse, saranno chiamati a rinnovare la leadership nazionale per i prossimi dieci anni. E proprio Liu Yandong, 66 anni, attuale ministro di Sanità, Istruzione, Cultura e Sport, compare in tutte le liste di indiscrezioni sui prossimi membri del Comitato permanente del Politburo. Per la Cina, abituata al potere di un gruppo di anziani tecnocrati dai movimenti a scatti e con i capelli tinti d’inchiostro, sarebbe un’altra rivoluzione e Liu Yandong balzerebbe in testa alla classifica delle donne più potenti dell’Asia.
A Pechino si dice anche qualcosa di più. L’irresistibile ascesa della figlia di Liu Ruilong, viceministro dell’Agricoltura all’alba della Repubblica Popolare, coronerebbe l’anno memorabile del Drago, che passerà alla storia del regime come quello “delle tre regine” che hanno deciso la sorte del nuovo Impero. L’ex compagna universitaria del presidente Hu Jintao alla Tsinghua, dove ha studiato anche il successore Xi Jinping, incarna infatti l’antitesi di Gu Kailai, moglie dell’ex leader neomaoista Bo Xilai, epurato a un passo del potere. L’avvocatessa in carriera, condannata a morte (pena sospesa) per l’omicidio Heywood, era il simbolo dell’occidentalizzazione della politica cinese, minata da corruzione e protagonismo personale. Liu Yandong andrebbe così a occupare la poltrona che sembrava predestinata a suo marito, a sottolineare come “costruire consenso tacendo e abbassando la testa” resti lo stile prediletto dalla nomenclatura rossa. La ter-
za “regina” del 2012 cinese è invece Peng Liyuan, 48 anni, stella del pop convertita al folk, generale dell’Armata del popolo, ma soprattutto moglie di Xi Jinping e futura First Lady di Pechino. Anche per l’ex ospite d’onore del gran galà di Capodanno della tivù di Stato,ora oscurata per ragioni d’etichetta, sarà un debutto assoluto. I leader cinesi sono, per definizione, politicamente single.
Nemmeno Jiang Qing, quarta e ultima moglie di Mao Zedong, ha mai assunto ufficialmente il ruolo di compagna del Grande Timoniere. Immagine che promette invece di acquisire la disinvolta Peng Liyuan, decisa a donare ai cinesi la prima “moglie in carica” di un presidente. Un’irreprensibile “principessa rossa” nel Comitato permanente e una popolarissima stella del varietà al fianco del leader, al posto di una spregiudicata
business woman che avrebbe tradito l’uomo che prometteva alle masse escluse dal successo la riscoperta della Rivoluzione culturale. Sarebbe questa la mossa della prima generazione di funzionari nati dopo la morte di Mao che si contendono i posti che contano, indecisi se ridurre a sette le “poltrone d’oro” e spaventati dall’addio di nonno Wen Jiabao, il premier più amato dei cinesi da oltre vent’anni.
La necessità di svecchiare il profilo di una dirigenza imbalsamata, superata da un Paese reale che naviga in Rete e detta la moda agli europei, non è però la sola ragione che per la prima volta spinge in alto l’“altra metà del cielo”. «La Cina — dice Pu Xingzu, docente all’Università Fudan di Shanghai — contende ormai agli Usa la leadership globale del secolo. Per parlare al mondo deve dotarsi di un’immagine che non ricordi quella della Corea del Nord. Ai vertici internazionali si incontrano sempre più donne, presidentesse, premier o segretarie di Stato, e le First Lady rubano la scena ai mariti». L’irreprensibile funzionaria Liu Yandong, oltre che arginare la compagna Peng, compatterebbe poi un partito scosso come mai da guerre intestine, corruzione e indecisioni tra riformisti e conservatori. È una “principessa” figlia del potere ma ha guidato la Lega della Gioventù, sostiene Hu Jintao ma è amica di Xi Jinping, è cresciuta a Pechino ma è intima dell’ex presidente Jiang Zemin, sponsor di Shanghai. Conserva un guardaroba da Deng Xiaoping, ma invita a fare jogging indossando una tuta americana. Un concentrato di profilo basso e contatti alti, regola numero uno nella scuola del partito: l’inconfessabile segreto di Liu Yandong, astro nascente di una Cina che per la prima volta spedirà una donna anche sulla luna.

Corriere 28.9.12
Il lungo silenzio di Stalin dopo l’invasione tedesca
risponde Sergio Romano


Il 21 giugno 1941 le truppe tedesche attaccano e invadono l'Urss. È solo ai primi di luglio che Stalin prende la parola per denunziare al popolo sovietico l'invasione e per esortare il popolo alla resistenza. Qual è il motivo per quel lungo periodo di silenzio?
Pietro Imperia

Caro Imperia,
Secondo molti studiosi, Stalin sapeva che Hitler avrebbe attaccato l'Unione Sovietica. Ma era convinto che l'aggressione sarebbe avvenuta soltanto nel 1942, dopo la sconfitta della Gran Bretagna. Gli sembrava impossibile che la Germania volesse ripetere l'errore della Grande Guerra, quando il suo esercito aveva combattuto su due fronti, e pensava di potere rinviare di qualche mese il programma per la riorganizzazione delle forze armate sovietiche. Più in là, non appena fosse giunto il momento di agire, l'Urss avrebbe preceduto i tedeschi e colpito per prima. Fu questa la ragione per cui il generalissimo, come amava essere chiamato durante il conflitto, rifiutò ostinatamente di dare retta ai numerosi segnali che provenivano dai confini occidentali del Paese. Fra il maggio e il giugno non passò giorno senza che qualche sconfinamento tedesco in territorio sovietico lasciasse trapelare le intenzioni ostili della Germania, e non passò settimana senza che gli agenti dei servizi sovietici confermassero i piani militari del Reich.
Ma a Stalin quelle notizie non piacevano. In un libro pubblicato nel 2007 da Corbaccio (Il silenzio di Stalin) Costantine Pleshakov racconta la tempestosa conversazione del leader sovietico, alla vigilia dell'attacco tedesco, con due generali, Semën Timošenko, commissario del popolo per la Difesa, e Georgij Žukov, capo di Stato maggiore. I generali gli proponevano un piano per la massiccia dislocazione di forze sovietiche verso Occidente e Stalin ribatteva bruscamente che non intendeva offrire a Hitler il pretesto di una provocazione. Dietro quell'atteggiamento vi era la coscienza dell'estrema debolezza di cui soffriva l'Armata Rossa dopo le purghe che ne avevano decimato i quadri superiori. Non voleva credere all'attacco tedesco perché sapeva che le forze armate dell'Urss, in quel momento, non erano in condizione di resistere.
I risultati dell'imprevidenza di Stalin furono catastrofici. Pleshakov scrive che l'Armata Rossa, nelle prime tre settimane del conflitto, perdette 28 divisioni e quasi un milione di uomini, di cui 600.000 uccisi (il numero dei morti italiani nella Grande Guerra) e 328.898 prigionieri. Il 1° luglio, otto giorni dopo l'inizio delle operazioni, 20 milioni di cittadini sovietici vivevano ormai in territori occupati dal nemico. Stalin, intanto, cadde in una sorta di cupa prostrazione. Questo non gli impedì di dare ordini importanti come quello per il trasferimento verso l'estremo Oriente sovietico dell'apparato industriale del Paese, ma temeva di avere perduto la sua autorevolezza ed era probabilmente preoccupato dalla possibilità di una congiura di palazzo contro la sua persona. Una guerra all'interno del partito dovette sembrargli più pericolosa della guerra contro Hitler. Quando capì che non vi erano concorrenti pronti a succedergli, uscì dalla prostrazione, riprese il controllo della situazione e parlò al Paese.

Corriere 28.9.12
«Avanti!», un secolo tra Mussolini e Nenni
di Paolo Franchi


Ci vogliono non solo molta passione, ma anche molto coraggio e molta pazienza per ricostruire un secolo quasi di storia italiana, europea e mondiale così come li ha raccontati, sofferti, interpretati un quotidiano tutto particolare come l'«Avanti!». A Ugo Intini, che ha cominciato a lavorarci da ragazzo e ne è stato direttore, la passione, a dispetto di tante sconfitte, non è mai venuta meno; il coraggio e la pazienza nemmeno. Da un lavoro intelligente e certosino, che immagino immane, è venuto fuori questo suo «Avanti!» Un giornale, un'epoca, appena uscito dall'editore Ponte Sisto (pp. 750, 30). Sono 750 pagine, tantissime, ma molte di queste si fanno leggere davvero, affollate come sono di grande storia politica e assieme delle vicende umane di tanti personaggi, grandi e minuti che, dalle parti dell'«Avanti!», questa storia l'hanno vissuta, e in molti casi fatta.
Dovendo scegliere, è forse il caso di consigliare, specie ai lettori più giovani, un passaggio terribile, e in parte inedito, della vita di Pietro Nenni e dei suoi rapporti con Benito Mussolini. Hanno fatto la galera insieme, Mussolini socialista rivoluzionario, Nenni repubblicano, nel 1911. Tutti e due sono stati dei grandi giornalisti, tutti e due hanno diretto l'«Avanti!». Mussolini l'interventista lo ha lasciato nel 1914, per fondare il «Popolo d'Italia» (per inciso, anche «L'Ordine Nuovo» di Gramsci nasce da una costola del quotidiano socialista). Nenni, nel dopoguerra, sosterrà che per guidare il Psi gli sarebbero bastati una segretaria, un telefono e, naturalmente, il suo «Avanti!». Ma nel 1941, clandestino nei Pirenei dove è sfollato con la famiglia, ne dirige un'edizione tutta particolare: un foglietto che si scrive e si stampa da solo («la bandiera è la bandiera», annota Intini), unico aiuto la figlia Giuliana. Da pochi mesi un'altra figlia, Vittoria, l'adorata Viva, è stata catturata dai tedeschi assieme al marito Henri Dabeuf. Lui viene fucilato quasi subito, lei deportata ad Auschwitz. Nenni sa dell'arresto, e questa angoscia se la porta addosso quando, l'8 febbraio del 1943, viene arrestato a sua volta dalla Gestapo. È convinto che lo uccideranno, in Francia o in Germania. Invece lo trasferiscono in Italia, via Brennero, destinazione prima Regina Coeli, poi Ponza. Dalla finestra, sull'isola, guarda con il binocolo il suo vecchio compagno diventato Duce del fascismo e adesso «ristretto» come tanti «suoi» confinati nell'isola: non avrà mai prove che sia stato Mussolini a salvargli la vita, ma lo sospetta sin dall'inizio.
Della morte di Vittoria, Nenni saprà solo a guerra conclusa, il 29 maggio del 1945. Ora l'angoscia si fa nera: non c'è solo il dolore terribile per la perdita della figlia, c'è anche il dubbio lancinante che, se avesse chiesto a Mussolini di salvarla, forse Vittoria sarebbe ancora viva. Il dolore resterà per tutta la vita, il terribile dubbio in parte, ma solo in parte, no: nel 1946, in un drammatico incontro all'ambasciata italiana a Parigi, Nenni apprende da una compagna di sventura che Viva ha voluto condividere il destino delle militanti del maquis arrestate con lei, e si è rifiutata di far valere la sua nazionalità italiana. C'è, in materia, un appunto vergato in fretta quella notte stessa da Nenni: le frasi sono tronche, la sintassi approssimativa. È nelle carte della Fondazione Nenni da quando lo ha ripescato, in fondo a un cassettone, il suo biografo e amico Giuseppe Tamburrano. Intini lo pubblica nel suo libro.
È una testimonianza drammatica. Eccola. «Il rifiuto di Viva di far valere la sua nazionalità italiana. Il mio pensiero primo in Germania: "Quando arrivo in Italia telegrafo a Mussolini che faccia di me quello che vuole ma salvi mia figlia". Sono arrivato al Brennero il 5 aprile. Viva è caduta malata una settimana dopo. Se avessi telegrafato a Mussolini sono sicuro che l'avrei salvata. Ho avuto la tentazione due o tre volte al cappellano (sic) del carcere di Bressanone. Ma non potevo, non riuscivo. Mi pareva di compiere un atto di viltà. Mi sono detto lo farò a Roma. Ma a Regina Coeli sono stato preso dall'atmosfera eroica della Resistenza e allora ogni idea del genere è caduta. Non oso chiedermi se ho avuto ragione o torto. Ma sento che non mi libererò mai più da questo pensiero terribile: "Forse, o quasi certamente, avresti potuto salvare tua figlia dall'orrore di Auschwitz. Ed è l'orgoglio che te lo ha impedito". Per fortuna mia oggi so che Viva avrebbe potuto salvarsi da sola e non lo volle per dignità di carattere». Almeno in questo caso, dirlo non è retorica. Ogni commento sarebbe davvero inutile. Specie di questi tempi».

Repubblica 28.9.12
Un libro di Ugo Intini racconta la storia del giornale del partito fondato alla fine dell’Ottocento
Dalle battaglie politiche agli anni di Mani Pulite
C’era una volta L’Avanti!
Da Turati a Craxi, un secolo di socialismo quotidiano
di Nello Ajello


L’Avanti! è stato, per quasi un secolo, un pezzo d’Italia. Quanto a memoria storica ne ha avuta da vendere. Basta (bastava) guardarne la testata, graficamente “datata” ma proprio per questo suggestiva. Quel ricciolo sulla “A” maiuscola sembrava un lascito liberty. Quel suo celebre punto eclamativo rifletteva l’ingenuità dei socialisti d’antan. Ma non sono solo questi i motivi per i quali ci si sente attratti dal volume di Ugo Intini,
Avanti!, un giornale, un’epoca (sta per uscire nelle edizioni Ponte Sisto, pagg. 750, euro 30). L’autore, oggi settantunenne, è un socialista di un’“autenticità” inconfutabile. Al quotidiano di cui parla ha lavorato per ventisette anni, cioè da ragazzo, appena uscito dal liceo, e per sette anni l’ha firmato come direttore. È stato parlamentare del Psi in due riprese, dal 1983 al 1994 e dal 2001 al 2006, sottosegretario agli Esteri con Amato e vice-ministro con Prodi. Uno, dunque, che sa di cosa parla. Lo sa perfino troppo, al punto di associare il lettore alle vicende anche minime che riguardano il suo argomento, e riuscirebbe a infastidirlo se non fosse per un equivoco che figura nell’introduzione. Questo libro, vi si legge, «cerca il più possibile di evitare le riflessioni politiche legate al momento in cui è stato scritto». Esso vuol essere «non un saggio ma una ricostruzione fedele della realtà, anno dopo anno». Si tratta di una “bugia d’autore”, e sia la benvenuta. Di fatto, tra i saggi politici che ci capita di leggere, pochi traboccano di altrettanta passione personale .(«È un libro fotografico», mi ha ripetuto a voce Intini, ma ammettendo che «anche i fotografi possono essere parziali, non fosse altro per la scelta di ambienti e soggetti»).
Lui, l’autore-fotografo, è sempre presente, sia che arda di entusiasmo o frema d’indignazione. Fra le pagine dedicate a episodi e personaggi antichi e quelle che trattano temi tuttora scottanti c’è una circolazione ininterrotta. Dietro Pietro Nenni – una specie di mito, il “sacerdote del socialismo” che invade le pagine – s’intravede la figura di Filippo Turati, così come la sagoma di Nenni s’indovinerà dietro le gesta di Bettino Craxi presidente del Consiglio: è, quest’ultima, una sorte a lui segnata fin dal tempo in cui veniva confidenzialmente chiamano “Nennino Craxi”.
Alcuni personaggi ricorrenti fungono, in tutto il libro, da bersagli abituali. Scavalcando le stagioni, si ripresentano in situazioni apparentemente fra loro lontanissime: i massimalisti, “dissacranti e rabbiosi”, che negli anni Dieci del ’900 congiuravano contro le “vecchie barbe” insediate ai vertici del partito, si sarebbero ripresentati mezzo secolo più tardi: nel ’68 con la contestazione studentesca e poi, nel ’92, con mani pulite. Altro ospite abituale del vecchio Avanti!, è l’emigrante: egli era allora “in partenza” dall’Italia, ma la sua sagoma richiama quei poveracci che da noi sbarcano oggi, e molto
analoghe sono le pulsioni razzistiche che talvolta suscitano all’arrivo. La centralità del’Avanti! nella vita italiana viene ribadita ad ogni passo: non a caso, nota l’autore, hanno avuto origine nelle sue stanze sia il fascismo che il comunismo, ad opera di Mussolini e di Gramsci. L’uno e l’altro, in epoca diversa, avevano diretto o scritto su quel giornale, prima di “tradire” o traslocare.
Ma continuiamo a sfogliare l’Avanti!, alla ricerca di coincidenze. Un “quasi centro-sinistra” fece la sua comparsa all’inizio del Novecento, con il governo Zanardelli prima, e poo più tardi con la lunga era giolittiana. Se a qualcuno, per ardita ipotesi, capitasse di pensare che le ruberie di singoli o di “caste” ai danni dello Stato rappresentino una penosa novità, gli andrebbe consigliato di soffermarsi sulle colonne del giornale socialista, piene, un secolo fa, d’invettive contro i “succhioni”, i responsabili di “mangerie”, i «divoratori di milioni» sottratti alla comunità. Ritratti eterni, ma istruttivi. Come di solito accade con la collezione d’un giornale, questo Avanti! di Ugo Intini si presta male a una lettura ininterrotta, che potrebbe ingolfare chi vi si dedica. Si
consiglia, invece, una consumazione a “sorseggio”.
Man mano che il racconto si accosta ai nostri tempi, la favola della “fotografia” si dilegua del tutto. Ecco adesso l’Intini che conosciamo: l’uomo di partito, il craxiano immarcescibile, l’assiduo polemista. Non sta più lì a sfogliare antiche collezioni,
parla d’un Avanti! che abbiamo letto in molti. È proprio ciò che si pensava di trovare in un libro a sua firma. La stagione craxiana viene rivissuta con un impeto a tratti velato di nostalgia. Si giudica irripetibile il tempo – gli anni Ottanta – quando il Psi governava sotto l’imperio di quel “Nennino Craxi” che duecento pagine fa veniva considerato un infante (ci si soffermi, in proposito, su una scenetta che mostra, sulla metà gli anni Trenta, Lelio Basso che, in casa del papà Vittorio Craxi, stringe fra le braccia un tenero infante: si tratta di Bettino. È mai possibile – ci si domanda – che un Craxi faccia tenerezza?).
Dai fatti d’Ungheria in poi, il testimone diventa attore. La polemica craxiana contro i comunisti, i “carristi” – cioè la sinistra interna al Psi – poi le benemerenze del governo a direzione socialista, le sferzate contro giornali e giornalisti, la rude contesa con la magistratura, il vittimismo di partito – rifulgono in piena luce. Fino al termine dell’avventura, per l’Avanti! (anno novantasettesimo) e per il partito. Siamo al 1993. Come fosse oggi.
Se lo si interroga sull’oggi in quanto tale, si scopre che Intini – bilioso per definizione o per pregiudizio – è a suo modo, un ottimista. «Adesso», dichiara, «c’è in Italia, una sinistra senza anima e senza identità. Per darsele, non può fare altro che legarsi alla socialdemocratica e al partito socialista europeo, seguendo le posizioni assunte da Giorgio Napolitano nel suo ultimo periodo di politica attiva prima di arrivare al Quirinale».
Pensa che ci riusciranno? «Alcuni passi li hanno già fatti. Adesso hanno un’opportunità in più». Quale? «È presto detto: dopo la disfatta del comunismo, è fallito, o sta per fallire, anche il liberismo», conclude Intini.
Parola di socialista doc.