sabato 26 settembre 2009

l’Unità 26.9.09
L’invito ai neoeletti «Strasburgo non sia cassa di risonanza dei conflitti nei singoli Paesi»
Lavorare insieme per superare i ritardi dell’Europa in materia di immigrazione
Diritto d’asilo e ruolo nell’Ue: l’affondo di Napolitano
di Marcella Ciarnelli


I neoletti eurodeputati ricevuti al Quirinale da un «vecchio collega». Il capo dello Stato li ha invitati a lavorare oltre le contrapposizioni nazionali e ad impegnarsi su temi come il diritto d’asilo che è «inalienabile».

Sono parole da «vecchio collega» quelle che il presidente della Repubblica ha rivolto ai parlamentari europei appena eletti e ricevuti al Quirinale. Il convinto europeista Napolitano, eletto «a Strasburgo per la prima volta venti anni fa» parla di un impegno da portare avanti con «assiduità e competenza» credendoci davvero e senza «risparmiarsi nell’andare su e giù dall’Italia» non pensando «ad altri obbiettivi e luoghi per il proprio futuro politico». E, nei limiti del possibile, impegnarsi a non far pesare nelle possibili azioni a vantaggio di tutti le «diverse appartenenze politiche» e «contrapposizioni precostituite e rigide».
CASSA DI RISONANZA
Per il Capo dello Stato «il parlamento europeo non può essere una cassa di risonanza dei conflitti e delle polemiche politiche che si svolgono nei singoli paesi e per essi nei singoli parlamenti nazionali». Nè quella sede può essere considerata «una sorta di istanza d’appello nei confronti di decisioni dei parlamenti nazionali e di comportamenti di governi nazionali». Per questo «ci sono sedi appropriate in cui possono essere contestate le violazioni delle norme dei Trattati, quelle dei diritti umani, quelli dei valori dell’Unione». E quei luoghi Napolitano li ha elencati: «La Corte di giustizia del Lussemburgo, la Corte di Strasburgo, il Consiglio europeo». Sedi in cui il dibattito può svolgersi liberamente senza che nessuno abbia mai potuto fin qui affermare che non gli sia stato consentito.
L’impegno quotidiano deve essere quello di lavorare sui grandi tempi che, una volta affrontati e risolti, faranno fare passi avanti a quel progetto di un’Europa unita, per cui Altiero Spinelli si spese, e che ora in una fase di «fragilizzazione» del consenso e condizionata ancora dalle vicende dell’approvazione del Trattato di Lisbona, e che non consenti di fare «decisi passi avanti sulla via dell’integrazione». Lavorare, dunque, secondo «un’azione comune» superando «la soglia di persistenti chiusure nazionali e spinte centrifughe». L’esempio «particolarmente scottante» citato dal presidente è quello dei «limiti che ancora incontra un impegno comune europeo in materia di immigrazione e, su un piano necessariamente distinto, in materia di asilo, garantendo l’inalienabile diritto a chi sia costretto a chiederlo».
LE POLEMICHE
Le parole di Napolitano, «sagge» per il presidente del Senato, Schifani, segnano il parlamento europeo come «uno straordinario unicum e un possibile modello nuovo nella storia della democrazia rappresentativa», quindi, un luogo di confronto al di là delle diverse provenienze, hanno suscitato reazioni diverse. L’invito al dialogo nell’interesse comune e a non esportare le contrapposizioni nazionali, se sono stati apprezzati dai parlamentari Pd che hanno sollecitato a «non strumentalizzare» le parole di Napolitano, e per Casini sono «regole di civiltà», hanno suscitato la reazione dell’Italia dei Valori. Il partito di Di Pietro comprò in luglio pagine di giornali stranieri per «segnalare che la democrazia italiana è in pericolo». Ora il neonorevole De Magistris, sorvolando sull’elenco delle sedi adeguate in cui discutere pur citate dal presidente, ha affermato che «appelli del genere servono ad addormentare le coscienze». Misiti, dello stesso partito: «Parla a titolo personale». Ai rappresentanti del Popolo della libertà, il partito di Berlusconi, notoriamente poco sensibile all’Europa e protagonista della recente minaccia alla Ue di «bloccare» i lavori solo perché lì erano state espresse perplessità proprio sulla questione dei respingimenti e dell’asilo, ha fornito l’inevitabile interpreatzione di parte... ❖

l’Unità 26.9.09
Tre modifiche nell’arco di un anno, rimaste finora «nascoste» nei comunicati interni
Da luglio saltano le fasce di reperibilità in malattia. Ma il ministro nega: non è dietrofront
Fannulloni, la retromarcia della «rivoluzione-Brunetta»
di Bianca Di Giovanni


Dipendenti pubblici in malattia costretti in casa per i controlli dell’Inps? Non è più vero: il decreto di luglio «corregge» Brunetta. Ma il ministro non ci sta: non è una retromarcia, è una decisione.

È finita un’epoca: anche Renato Brunetta finisce nel tritacarne mediatico. Finora lo aveva usato lui, contro dipendenti pubblici, sindacalisti, piloti dell’Alitalia, e anche opposizione, salotti, banche. Ieri, invece, un paio di «notizie», relative a decisioni di mesi fa o addirittura dell’anno scorso sulle malattie e le indennità, vengono rilanciate in primo piano. «Brunetta fa marcia indietro sui fannulloni» ripetono in un tam-tam agenzie e siti internet, come Repubblica.it.
MINISTERO
Al ministero non si danno pace. «Che notizia è? Era già deciso da tempo, in circolari e nei decreti». In verità, nessuno lo sapeva. Deciso, ma tenuto accuratamente nell’ombra. Lontano dai microfoni e dalle Tv. Il ministro, dal canto suo, la butta in politica. «Non leggete troppo Repubblica», replica a chi gli chiede chiarimenti, riecheggiando i diktata del premier. Nel frattempo il portavoce di palazzo Vidoni diffonde comunicati: l’articolo di Repubblica.it è un falso, perché non esiste alcuna «restaurazione seguita alla rivoluzione Brunetta». Salvo poi am-
Nella bufera Il ministro Renato Brunetta mettere che modifiche ce ne sono sta-
te, eccome.
MODIFICHE
Eccole. I lavoratori in malattia non dovranno più risultare reperibili nell’intera giornata (le norme introdotte l’anno scorso prevedevano l’intera giornata dalle 8 alle 20, con l’esclusione della fascia dalle 13 alle 14, chiamata «ora d’aria»), ma secondo le fasce in vigore per i privati (10-12/17-19). Lo prevede il decreto anticrisi varato in luglio. Un’altra disposizione dello stesso decreto prevede che la certificazione delle malattie può essere rilasciata anche da un medico convenzionato con il servizio sanitario, e non solo dalla struttura pubblica come volevano le «norme Brunetta». Su questa retromarcia il ministero replica che la decisione era già stata presa in una circolare del 5 settembre dell’anno scorso, e che è stata confermata in un decreto per maggiore chiarezza legislativa. Sta di fatto che la retromarcia c’è stata, non a luglio a ma addirittura un anno fa. Stessa cosa vale per l’altra modifica, quella concernenete alcuni casi di assenza che nella «rivoluzione Brunetta» venivano equiparate alle malattie, ma che tali non erano. È il caso dei donatori di sangue o di chi assiste un portatore di handicap. Anche per loro la legge originaria prevedeva la decurtazione dell’indennità accessoria sul salario. Il ministro ci ha ripensato nel dicembre del 2008, ed ha corretto. «Invece di dire bravo Brunetta, oggi lo accusano di aver fatto marcia indietro», continuano dal ministero. Se solo il ministro ammettesse che si è corretto da solo (come gli manda a dire Paolo Nerozzi dal Pd), magari in molti gli direbbero bravo. Ultima novità, il mantenimento del trattamento economico per le forze di polizia anche in malattia.
Sulla reperibilità il segretario generale della Fp-Cgil, Carlo Podda, parla di «un atto dovuto». «Con la normativa Brunetta spiega c'era un'evidente disparità tra lavoratori». Stesso commento dalla Uil.Pa. «La modifica è frutto del dialogo», aggiungono in casa Cisl. Intanto il ministro se la prende con gli studenti assenteisti. «Manderemo sms alle famiglie dice accanto alla Gelmini è finita un’epoca». Sì, la sua. ❖

il Riformista 26.9.09
Dopo il comunismo il Papa a Praga lotta con il relativismo
di Benedetto Ippolito


La Repubblica Ceca è un Paese dalle indubbie radici cristiane che finita la dittatura ha smarrito i valori religiosi

È iniziato oggi, con la partenza dall'aeroporto di Ciampino, il breve e molto delicato viaggio di Papa Benedetto XVI nella Repubblica Ceca. La visita apostolica s'inserisce all'interno di una sequenza ininterrotta d'incontri pastorali, inaugurati da Giovanni Paolo II all'inizio del suo Pontificato e proseguiti negli anni 90. Il cardinale Ratzinger, da prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, è stato per suo conto a Praga nel 1992, quando ancora non si era definita la separazione istituzionale tra la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Ad attenderlo adesso troverà un Paese indipendente e molto diverso da allora. La neonata Repubblica, d'altra parte, è tra tutte le nazioni dell'Europa centrale quella che più intensamente ha subito il processo di secolarizzazione. Secondo una recente indagine del 2004, il 63 per cento della popolazione ammette di non riconoscersi in nessuna religione, mentre più del 50 per cento crede confusamente in qualche forma indecifrabile e generica di spiritualismo, quasi un riverbero delle originarie credenze pre cristiane.
La particolarità della Repubblica Ceca è, però, costituita dalle profonde e antiche radici cristiane. Quando nel IX secolo si formò la Grande Moravia, uno spazio politico che includeva i territori cechi dei Boemi e dei Sudeti, lo Stato assunse subito un preciso volto religioso. A differenza, ad esempio, dei cittadini romani che hanno scoperto il cristianesimo quando la loro appartenenza culturale e politica si era già formata da tempo, il caso della Repubblica Ceca è proprio quello rappresentativo di un Paese nato attorno alla Chiesa e unificato dalla fede cristiana. Un processo d'evangelizzazione nazionale, analogo a quello sperimentato dal popolo franco con il battesimo di Clodoveo, ha condotto nell'anno 845 i 14 rappresentanti della nobiltà morava a ricevere il battesimo. In seguito si è spianata la strada che ha condotto alla maturazione di un forte sentimento religioso popolare, la cui massima espressione fu il padre indiscusso della cristianità ceca, san Venceslao. Benedetto XVI lunedì mattina celebrerà una Messa in suo onore nell'omonima chiesa nella Spianata di Melnik a Starà Boleslav. È impossibile non vedere, in questo incontro con la comunità cattolica, un invito diretto al recupero graduale delle origini cristiane sepolte dall'imperante relativismo, un richiamo, d'altronde, valido allo stesso modo per quasi tutti i popoli dell'Est. È presumibile, inoltre, che Benedetto XVI toccherà il tema dell'intimo legame tra l'identità nazionale e il cristianesimo pure in occasione dell'incontro che avrà domani sera con il mondo accademico nel Salone di Vladislav al Castello di Praga. Per il Papa, la riacquisita indipendenza dopo la dittatura comunista non può cedere il passo a un processo di radicale smarrimento dei valori religiosi, culturali e spirituali del Paese, proprio perché vi è una sostanziale relazione tra la crescita della libertà e la maturazione della consapevolezza etica, democratica e nazionale di un popolo.
Un altro grande tema sul tappeto è costituito, invece, dalla conciliazione materiale e politica dello Stato con la Chiesa dopo i lunghi decenni d'oppressione. Se, infatti, la Repubblica Ceca adesso è una democrazia parlamentare perfettamente inserita nell'Unione europea, tanto da aver ricoperto fino al giugno scorso perfino la Presidenza di turno, molti problemi lasciati in eredità dal regime totalitario non sono stati ancora risolti. Primo fra tutti, l'annosa disputa sui beni ecclesiastici indebitamente sottratti alla Chiesa e nazionalizzati dopo il 1948. In programma, negli incontri previsti che Benedetto XVI e il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone avranno con le più alte cariche politiche del Paese, vi è la volontà di dare una svolta positiva al contenzioso lasciato aperto dal comunismo o mediante una restituzione perlomeno parziale dei beni sottratti o attraverso un risarcimento congruo o una sufficiente compensazione. Questo sottile aspetto diplomatico, già da tempo in discussione nel Parlamento ceco senza l'ottenimento di un auspicato accordo definitivo tra le parti, si collega alla soggiacente persuasione del ruolo nazionale insostituibile che la Chiesa possiede come garanzia spirituale per la libertà effettiva dei cittadini.
Dopo vent'anni dalla caduta del sistema sovietico, molte delle conseguenze di quella brutale soppressione della democrazia continuano a lasciare tanta sofferenza nelle persone e non poche ferite aperte nella società. Nemmeno le lacerazioni dello spirito sembrano, infatti, sparire senza cicatrici. Un Paese che ha visto morire nel 1968, schiacciato sotto i carri armati stranieri, il tentativo di Dubcek e la "primavera di Praga", è comprensibile che abbia difficoltà a ritrovare gli stimoli ideali e la coscienza spirituale di ieri.
La speranza di Benedetto XVI, in definitiva, è che possa prodursi presto nel popolo ceco un risveglio consapevole delle forti motivazioni cristiane tradizionali che permisero a Bratislava nel novembre del 1989 l'avvio di quella "Rivoluzione di velluto" che in breve tempo ha portato al rapido declino del regime comunista cecoslovacco. La lotta contro il relativismo, però, è una battaglia anche più dura rispetto a quella contro i sistemi totalitari, perché richiede un impegno personale e silenzioso per rendere possibile, senza costrizioni e quotidianamente, una vita autenticamente umana.

l’Unità 26.9.09
Per il Pontefice i giovani hanno bisogno di riferimenti precisi
Le famiglie allargate non possono non creare conflitti e confusioni
Il Papa contro il divorzio: le convivenze rovinano i bambini
di Maurizio Nencioni


Il divorzio, la convivenza e le famiglie allargate rovinano la vita di molti bambini, spesso «privati dell’appoggio dei genitori, vittime del malessere e dell’abbandono». Lo ha detto ieri il Papa.

ROMA. Orfani con troppi genitori, tristi, smarriti, spesso abbandonati a se stessi: sono, secondo Benedetto XVI, i figli delle famiglie allargate, vittime di un «assedio» alla famiglia cristiana che è anche attacco al «tessuto della società» al quale la Chiesa cattolica «non può assistere indifferente». Papa Ratzinger passa al contrattacco rilanciando con forza i valori della famiglia tradizionale, e affermando la «solidità della famiglia cristiana» opposta alla «fragilità» delle coppie di fatto e delle famiglie allargate frutto dei divorzi. Lo fa rispondendo alle preoccupazioni espresse dai vescovi del Brasile, in questi giorni in visita “ad limina”, ma anche alla vigilia della sua partenza per la Repubblica ceca, dove il 66% della popolazione si dichiara agnostica pur vivendo nel cuore di un'Europa di cui molti rivendicano le radici cristiane.
I giovani, «per essere istruiti ed educati ha ammonito il pontefice hanno bisogno di riferimenti precisi e concreti, di genitori determinati e certi che in modo diverso concorrano alla loro educazione. Ora ha aggiunto è proprio questo principio che la pratica del divorzio sta minando e compromettendo con la cosiddetta famiglia allargata e mobile, che moltiplica i “'padri” e le “madri” e fanno in modo che la maggioranza di quelli che si sentono “orfani” non siano i figli senza genitori, ma i figli che ne hanno troppi». «Questa situazione, come l'inevitabile interferenza e intreccio di relazioni ha proseguito non può non generare conflitti e confusioni interne, contribuendo a crescere e imprimere nei figli una tipologie alterata di famiglia, assimilabile in qualche modo proprio alla convivenza, a causa della sua precarietà».
CULLA NATURALE DELLA VITA
Una dissoluzione del tessuto sociale, secondo papa Ratzinger, che non è frutto del caso, ma il risultato di «forze e voci che sembrano volte a demolire la culla naturale della vita umana». Sotto accusa finiscono, fra gli altri, «le società occidentali che hanno legalizzato il divorzio», ma anche cinema, televisione e mass media che hanno contribuito a promuovere «stili di vita relativisti» che «illudono e seducono». Sta quindi ai sacerdoti, ma anche alle famiglie rimaste fedeli ai valori cristiani, non solo difendere i propri fedeli o i propri figli, ma riaffermare modelli in grado di ricostruire il tessuto della stessa società. E Benedetto XVI ne elenca gli obiettivi: grazie alle famiglie «che traggono le loro energie dal sacramento del matrimonio», «tornerà possibile superare la prova della vita, saper perdonare un'offesa, accogliere un figlio che soffre, illuminare la vita dell'altro, anche quando sia debole o limitato, mediante la bellezza dell' amore».
«Ha perfettamente ragione», ha commentato il leghista Roberto Castelli, viceministro delle Infrastrutture, con alle spalle un divorzio, due matrimoni e due famiglie allargate, a suo dire «tutta colpa del '68». «Che il divorzio non sia propriamente una festa per i figli è ovvio ha detto Marco di Lello, coordinatore del Ps ed esponente di Sinistra e Libertà, «ma non lo è neppure la situazione dei “separati in casa” forse meno visibile all'esterno, ma sovente assai più violenta e drammatica».❖

Repubblica 26.9.09
Aumentano i casi. La sociologa: tenore di vita più basso per le donne che restano sole
In Italia sono quasi un milione "È la formula preferita dai figli"
di Vera Schiavazzi


ROMA - Il "terzo genitore"? Confonde le idee ai bambini, dice Benedetto XVI bocciando quelle famiglie allargate che la Francia vorrebbe legalizzare e che anche in Italia continuano a crescere, sfiorando ormai il milione. La colpa? Secondo il Papa, è del divorzio, che ha reso possibile il nascere di seconde e terze famiglie e la "condivisione" dei figli nati nei matrimoni precedenti. E non importa se gli esempi sono ormai illustri, se Carla Bruni si fa fotografare alle Nazioni Unite accanto a Louis, il figlioletto del marito Nicolas Sarkozy e della moglie di lui Cecilia mentre, con sguardo ugualmente ammirato, ascoltano il Presidente. Né se, alla fine, perfino William e Harry, hanno finito con l´accettare l´odiata Camilla Parker-Bowles, seconda moglie del principe Carlo e "usurpatrice", nel cuore di molti inglesi, delle prerogative della bionda e sfortunata prima moglie.
Anche un viaggio nella realtà italiana, del resto, consente di verificare come i modelli "incerti" bocciati dal Vaticano siano ormai realtà per moltissimi ragazzi, se è vero che almeno 800.000 italiane si sono già sposate una o più volte. Carmen Belloni, sociologa, docente all´università di Torino, guida una ricerca che ha già portato con sé centinaia di interviste a bambini e ragazzi raccolte nelle scuole. E commenta le parole del Papa : «Il divorzio in sé non è né buono né cattivo, può essere doloroso proprio come lo è vivere in una famiglia dove si resta insieme soltanto per obbligo e le tensioni continuano a crescere». Ma la famiglia allargata, secondo la sociologa, è invece una realtà protettiva per i più piccoli: «Non solo - spiega Belloni - il fenomeno è in crescita, ma i bambini intervistati parlano con estrema disinvoltura della loro vita "mobile", del fatto che ci si sposta da una casa all´altra, da una realtà all´altra… Intorno a loro ci sono moltissimi esempi, specie nelle grandi realtà urbane, che consentono di non sentirsi isolati. Così, nei loro diari narrano in modo estremamente naturale sia il loro dividersi tra i due genitori biologici sia i nuovi soggetti, sia adulti sia bambini come loro, che sono entrati a far parte delle loro vite». La mappa delle "nuove famiglie" è fatta di nomignoli inventati sui due piedi e già entrati nel lessico familiare degli italiani: c´è il "papigno", la "mammastra", ma anche il "nipotino" o il "cugipote", per indicare quei ragazzi di età non lontana che si trovano a essere nipoti e cugini, come del resto avveniva un tempo per i fratellastri delle grandi famiglie patriarcali, soprattutto al Sud, dove i maschi che restavano vedovi "dovevano" risposarsi e avere altri figli. Ma c´è anche una nuova e prosaica realtà che suggerisce nuove alleanze e ricomposizioni familiari quanto più possibile creative. Si chiama crisi economica: «I dati ci dicono che le madri rimaste sole cadono più facilmente in situazione di povertà - dice ancora Belloni - e che le stesse donne e i loro figli sono più protetti da questo stato se la madre trova un nuovo compagno. In questo senso, la presenza di nuovi adulti e nuovi minori nell´ambito della mutata realtà familiare che interviene dopo un divorzio mette al riparo i più piccoli dal rischio di veder precipitare il proprio tenore di vita, ma anche dallo svantaggio educativo che può derivare dalla povertà e da un unico genitore spesso assente perché troppo impegnato a far fronte alle esigenze quotidiane». Repliche arrivano anche dal mondo laico e dalla società civile che in questi anni si è impegnata per dare dignità alle nuove mamme e ai nuovi papà chiamati a occuparsi quotidianamente di bambini biologicamente estranei: «Nella famiglia ricomposta c´è amore per tutti, e anche responsabilità», dice Simona Izzo, mentre per Rossella Calabrò, fondatrice del "Club della matrigne" italiano, «è la formula preferita dai figli, spesso sono loro stessi a indicare la strade dell´allargamento, anche quando gli adulti non ne sono capaci».

l’Unità 26.9.09
Oskar Lafontaine e Gregor Gysi hanno chiuso la campagna elettorale della sinistra radicale
Nel programma il ritiro da Kabul e la crisi. Rudy: noi studenti siamo stufi dei vecchi partiti
Nella piazza rossa della Linke tra i giovani nati dopo il Muro
di Gherardo Ugolini


Così tanto rosso in Alexanderplatz, a Berlino non si vedeva da parecchio tempo. È la vigilia delle elezioni. Ovunque bandiere, stendardi e palloncini, tutti color rosso e il logo «Die Linke» scritto sopra.

BERLINO. Sono venuti in tanti all’appuntamento di chiusura della campagna elettorale della sinistra antagonista tedesca, il partito nato due anni fa dalla fusione della Pds di Gregor Gysi e del movimento di Oskar Lafontaine. Molti sono giovani attorno ai vent’anni, look metropolitano trasgressivo, tanta voglia di farsi vedere e di contare. Sono la generazione del dopo Muro, quelli nati dopo il 1989, quelli che la Ddr e la guerra fredda l’hanno sentita raccontare dai genitori.
AL VOTO PER LA PRIMA VOLTA
Ragazzi che votano per la prima volta e che sono stufi dei vecchi partiti. Perfino i Verdi sono troppo «vecchi» per loro, mentre tra Spd e Cdu «non c’è praticamente nessuna differenza», dice Rudi, studente universitario, cappellino rosso in testa, e Che Guevara d’ordinanza sulla maglietta. Questi ragazzi vogliono sognare e la Linke è l’unico partito che promette loro qualche sogno.
Sul palco ci sono i due leader Lafontaine e Gysi, Oskar & Gregor, che si esibiscono in un comizio vecchio stile. Nell’epoca dei talk show televisivi e di Internet i partiti tedeschi non disdegnano, almeno nella fase conclusiva della maratona elettorale, di affidarsi ai discorsi nelle piazze. A poche centinaia di metri di distanza, in prossimità della Porta di Brandeburgo, si svolge la manifestazione della Spd con Müntefering e Steinmeier. Solo Frau Merkel non fa comizi in piazza; lei la campagna la chiude a Pittsburgh partecipando al G20.
Oskar Lafontaine, leader della Linke Oskar e Gregor invece sudano sul
palco. I dioscuri della sinistra antagonista sono molto uguali e diversi al tempo stesso. Entrambi di bassa statura, dotati di un’oratoria brillante, con lunga esperienza nell’apparato di partito, il gusto della battuta sarcastica. E soprattutto molto egocentrici. Gregor ha vissuto nella Ddr, era iscritto al partito comunista, ma da avvocato difendeva i dissidenti. Caduto il Muro ha traghettato gli ex comunisti fino alla nascita della Linke. Lafontaine è stato un leader amatissimo della socialdemocrazia tedesca, candidato (perdente) contro Kohl nella corsa alla cancelleria del 1990, poi fautore della vittoria di Schröder nel 1998. Ma da Ministro delle Finanze si dimise per-
ché in disaccordo con la linea troppo riformista della Spd e da allora ha lavorato al progetto di una nuovo partito di sinistra.
LA CRISI ECONOMICA
«Non possiamo farci governare da chi ha causato la crisi economico-finanziaria predicando liberismo, deregulation e flessibilità» ha esclamato Lafontaine che spera di portare la Linke oltre l’8,7% di quattro anni fa, magari al 12% o anche di più, come prevedono i sondaggi. Quanto all’Afghanistan il rosso Oskar non ha dubbi: «Siamo orgogliosi di essere l’unico partito contrario alla guerra e chiediamo il ritiro delle truppe». Gysi parla di problematiche sociali, accusa la Merkel di «non aver fatto nul-
Foto di Wolfgang Rattay/Reuters
la per colmare le discrepanze tra est e ovest», chiede il salario minimo per tutte le categorie di lavoratori, il ritorno della pensione a 65 anni. E
Il comizio
Tanti hanno venti anni, l’89 lo conoscono dai racconti dei genitori
non importa se la Linke non governerà, perché la sua presenza in parlamento condizionerà comunque le scelte degli altri. «Quanto più sarà forte la Linke, tanto più sarà sociale la Germania», conclude il comizio Gregor in un turbinio di applausi, ma senza pugni chiusi.❖

il Riformista 26.9.09
Tra Alexanderplatz e la porta di Brandeburgo, con il popolo di Spd e Linke
La sinistra sogna un futuro improbabile
di Paolo Petrillo



Porta di Brandeburgo ed Alexanderplatz, forse i due luoghi più noti di Berlino. Su queste due piazze si sono chiuse ieri pomeriggio le campagne elettorali dei principali partiti della sinistra tedesca, Spd e die Linke. I neo-comunisti della Linke ad Alexanderplatz, sotto la Torre della televisione, al centro del centro della vecchia Berlino Est. E i socialdemocratici a neanche un chilometro in linea d'aria, sotto la porta nelle cui vicinanze correva il Muro. Le aree destinate ai comizi non sono enormi: basterebbero poche migliaia di persone per riempirle, ma così non è. A scapito dell' entusiasmo mostrato dai palchi i vuoti non mancano, soprattutto al raduno Spd. E a fare qualche domanda in giro, non di rado ci si imbatte in risposte sorprendenti.
«Perdoni, Lei si trova qui perchè è un sostenitore del partito?» «Veramente io non voto dal 1986 - risponde con molta compitezza il dr. Heitz, 62 anni, etnologo - vede, io non penso si viva in una vera democrazia. Piuttosto in una sorta di teatro, dove i politici eletti sono gli attori chiamati ad interpretare il parlamentarismo. Diciamo che mi trovo qui soprattutto per interesse professionale, ecco». «E, professionalmente, come le sembra qui?» «Beh, se dovessi dire che vi vedo entusiasmo, determinazione e creatività, mentirei».
Intanto dal palco s'annuncia il prossimo arrivo dei big del partito: il candidato alla Cancelleria Frank Walter Steinmeier, ministro degli Esteri del governo di Grande Coalizione; Franz Muentefering, presidente del partito, e Klaus Wowereit, il sindaco della città, a capo di una giunta rosso-rosso a cui molti guardano - e da tempo - come ad un interessante esperimento. Entrano in piazza insieme ad altri quadri, completi blu e cravatte spesso rosse: parte l'applauso, qualcuno lo riprende ma non lo si può definire corale. Non tutti comunque, per fortuna, rispondono come il dr. Heitz.
Il militante più convinto è un 25enne, che il viso privo di barba e ancora con qualche efelide rende molto più giovane, Michael: «Sono fiducioso, penso che otterremo un buon risultato». «Veramente i sondaggi...» «I sondaggi non contano niente - reagisce Michael - I voti si vedono quando si aprono le urne. E domenica vedremo». Vero. Le ultime rilevazioni, comunque, non sono unanimi: in media, si da la Cdu vincente al 36 per cento, poi l'Spd intorno al 25 - quasi dieci punti in meno rispetto al 2005, quando ottenne, perdendo di misura, il 34,2 - l'Fdp al 13, la Linke all'11, i Verdi al 10. Uno scenario che pare concedere due sole opportunità: o un secondo mandato di grande coalizione o, se ci sono i numeri, un'alleanza fra cristiano-democratici e liberali (Fdp). Oppure ci sarebbe già ora, la possibilità d'immaginare un accordo rosso-rosso anche a livello federale? «Escluso - taglia corto Michael - Le posizioni della Linke sono irrealistiche. Cosa vuol dire uno slogan come: "Ricchezza per tutti"? La Linke è inaffidabile, e con un partito inaffidabile non si può governare».
E in effetti un'alleanza fra Spd e Linke - che matematicamente risolverebbe i giochi, consentendo una coalizione di "sinistra" da completarsi insieme ai Verdi - pare difficile anche a coloro che si trovano ad Alexanderplatz. Ma con una sostanziale differenza: quello che non è possibile oggi - rispondono in molti - potrebbe essere possibile domani. «Al momento, una coalizione con l'Spd la escludo - risponde un signore sulla cinquantina, iscritto alla Linke - L'Spd è per la prosecuzione della guerra in Afghanistan, è responsabile della pensione a 67 anni e dei tagli sociali contenuti in Hartz IV . Noi vogliamo esattamente l'opposto, e per quanto ci riguarda non sono condizioni negoziabili». Inoltre l'Spd ha escluso la possibilità di un accordo con la Linke a livello federale: ma, onestamente, Lei ci crede? «Onestamente, non molto. Vuole le mie previsioni sull'esito del voto? Dunque: Cdu e Fdp non ce la fanno e quindi si deve tornare alla Grande Coalizione. Ma un secondo mandato rosso-nero creerebbe sconcerto nel paese e soprattutto nell'Spd, al cui interno si aprirebbe una resa dei conti che attende da tempo. E a quel punto sì, a quel punto l'Spd potrebbe esser pronto ad una nuova coalizione. Con noi».
«E quando, tutto ciò?» «Fra un paio d'anni, direi - conclude - Certo a patto di far fuori gran parte dell'attuale classe dirigente Spd. I Muentefering e gli Steinmeier, cioè i responsabili dell'attuale linea del partito, non li vogliamo. Ma con persone come Andrea Nahles o Klaus Wowereit potremmo lavorare». Muentefering, Steinmeier, Wowereit: i tre big saliti sul palco della Porta di Brandeburgo. Non sappiamo cosa sia passato per la loro testa in quel momento. Ma non è escluso che almeno uno di essi intravedesse, oltre il voto di domenica, un non immediato ma promettente futuro.


l’Unità 26.9.09
La vita per forza
La medicina prolunga l’esistenza ma ingigantisce il regno dei malati Se ne parla oggi a Torino
di Iona Heath, medico


Il poeta americano Henry Wadworth Longfellow terminò la sua poesia The Rainy Day con questi versi: «La pioggia cade nel corso di ogni vita, e vi sono giorni bui e tristi». Quasi un secolo più tardi, negli anni 1940, Doris Fischer e Allan Roberts adattarono questi versi ad un brano destinato ad Ella Fitzgerald e gli Ink Spots: «La pioggia cade nel corso di ogni vita, ma nella mia ne sta cadendo troppa». Tuttavia, nonostante questi ripetuti ammonimenti, nella nostra società contemporanea sembra sia radicata in noi l’illusione che la pioggia possa essere evitata, che in qualche modo si possa attraversare la vita e addirittura negoziare la morte evitando il dolore e la perdita. Quando poi qualcuno ne rimane accidentalmente colpito, si va immediatamente alla ricerca della causa evitabile, di qualcosa o qualcuno da incolpare, rifiutando l’evidenza che la sofferenza costituisce parte ineludibile della condizione umana.
Bombardati da immagini di giovinezza e salute e nonostante l’altrettanto cospicua valanga di immagini di una realtà molto diversa provenienti dalle regioni meno fortunate del mondo, sembra che ci siamo indotti a credere che la fragilità intrinseca della condizione umana non riguardi più i paesi più ricchi del mondo. Tuttavia, la pioggia continua a cadere nelle nostre vite e questo inganno pervasivo non fa
che rendere ancora maggiore la sofferenza di chi viene arbitrariamente e imprevedibilmente colpito da prematura malattia. Come scrisse il grande antropologo e psichiatra americano Arthur Kleinmann: «Il cancro è il destabilizzante richiamo all’ostinata persistenza di componenti di imprevedibilità, incertezza e ingiustizia, tutte questioni di valore, che appartengono alla condizione umana». A meno che la morte non sopraggiunga all’improvviso o in modo catastrofico, noi tutti, prima o poi, dovremo compiere questo viaggio e affrontare lo shock, la rabbia, la solitudine e la terribile tristezza lo accompagnano.
AMMALATI MA NON MORTI
Gli straordinari progressi della scienza medica hanno prodotto un rapido aumento dell’aspettativa di vita che, effettivamente, è diventata il principale parametro di salute nelle statistiche globali, anche se questo tende a celare il fatto che la medicina ha avuto molto più successo a posporre la morte, e di conseguenza a prolungare la vita, piuttosto che a curare la malattia. L’aumento dell’aspettativa di vita è stato ottenuto al prezzo paradossale di una crescita costante della fetta di popolazione che entra a far parte del regno degli ammalati. Sentiamo parlare dell’epidemia delle malattie croniche come se si trattasse di un disastro piuttosto che di un trionfo, apparentemente dimenticando che per moltissimi sopravvissuti a condizioni patologiche letali come il cancro, le patologie renali croniche e l’infezione da Hiv, il fardello costante dei sintomi da sopportare, delle cure quotidiane e delle visite mediche cui si devono sottoporre è ben ricompensato dal prolungamento della loro vita. Nel contempo tuttavia, il sistema dell’industria biomedica mondiale cerca di rimpinguare ulteriormente la popolazione del regno degli ammalati diffondendo e promuovendo attivamente la paura della malattia. È evidente che alla stragrande maggioranza della popolazione sana possono essere attribuiti fattori di rischio di patologie future quali ad esempio un moderato aumento della pressione sanguigna o dei livelli di colesterolo. Nella misura in cui questi fattori di rischio vengono assunti essi stessi come malattia, come sta accadendo in tutto il mondo, il regno degli ammalati si fa sempre più affollato. Gli effetti perversi di questo meccanismo culminano nella constatazione che le popolazioni caratterizzate dalla più alta aspettativa di vita sono anche quelle con il tasso più elevato di malattie autodichiarate dai singoli. Certo, questo si può parzialmente ricondurre al maggior numero di sopravvissuti a patologie croniche ma, dalla mia esperienza di medico di famiglia, posso dire che una fetta ancora maggiore va attribuita ai sintomi generati dall’ansia della possibilità futura di malattia e di sofferenza causata dall’ingiustizia e dalla crudeltà insita nella struttura e nel sistema che regola la nostra società.(...)
Con tutto ciò, per quanto cerchiamo di nascondercelo, la vita termina inesorabilmente nella morte e, a ragione, molti di noi cercano di prolungare il più possibile la propria vita e mantenere buone condizioni di salute. Se da un lato è innegabile che la diminuzione dei tassi di mortalità fra i giovani rappresenti un chiaro progresso per l’umanità, dall’altro la condizione penosa di chi ha superato l’aspettativa media di vita nei paesi ricchi e che sopravvive in una fascia d’età avanzata in condizioni di crescente fragilità è molto meno positiva.
L’OSTACOLO ALLA FINE
Si arriva ad un punto in cui la medicina ostacola attivamente l’inevitabile processo del morire e dove il prolungare forzosamente la vita diventa crudele. La natura offre delle strategie di uscita al corpo malato. Mano a mano che avanza la vecchiaia e la debolezza si riduce la resistenza alle infezioni e non a caso la polmonite viene tradizionalmente considerata l’amica dei vecchi. Ma noi ora stiamo cercando di immunizzare tutta la popolazione anziana contro le forme più comuni di polmonite e influenza. Mentre cala il numero di persone che muore per attacchi cardiaci e cancro, molte vivran-
no abbastanza a lungo per soccombere alla demenza. Con il progredire della demenza, si compromette il coordinamento della deglutizione cosicché diventa sempre più difficile mangiare e si arriva alla morte per questa via. Noi però ora alimentiamo artificialmente con la sonda prolungando ulteriormente la sopravvivenza. La pioggia cade nella vita di ogni essere umano e cade sin troppo copiosa nella vita di alcuni. La consolazione palliativa di Longfellow è che «dietro le nuvole brilla comunque il sole» ma Shakespeare, nel Timone d’Atene, offre la genuina consolazione della morte: «La lunga malattia della mia vita è molto prossima alla guarigione, e il nulla sta per arrecarmi il tutto».●

l’Unità 26.9.09
Ciarlatani e allocchi
di Moni Ovadia


Molti politici nel mondo godono fama di ciarlatani e demagoghi. Un gran numero di quelli italiani in questi talenti sono dei veri recordman. Il ministro Brunetta per esempio nella sua filippica contro i teatranti parassiti ha dato un saggio eccelso di queste doti al punto da fare impallidire noi saltimbanchi che della ciarlataneria facciamo strumento del mestiere. Ma nella sua foga, il ministro, mosso da una vibrante passione la passione è signora dell’animo umano non si è accorto di aver usato argomenti retorici che potrebbero essere applicati anche alla categoria dei politici come lui. Se, per esempio, un capopopolo senza scrupoli apparisse in televisione, nella fascia oraria di massimo ascolto e facesse un discorso contro il parassitismo dei politici, la loro improduttività e persino contro la loro nocività, i sondaggi di opinione darebbero la sua popolarità al 3000%. L’on. Brunetta del resto è un brillante epigono del maestro ineguagliato in queste arti: colui che ci governa, l’«effabile» cavaliere. Lui, il miglior amico dell’ex presidente Usa Bush, lui teocon, ultraliberista, nello spazio di un mattino, senza avere dato il minimo segno di un qualche pentimento o di accenno autocritico è diventato il miglior mentore di Obama, il liberal roosveltiano che dell’era Bush è il demolitore. Lui che parlava di Mussolini come di un tour operator, nell’omelia al funerale di Mike Bongiorno è diventato il cantore commosso della Resistenza. Il premier si comporta come il più sgangherato e goffo imbonitore di piazza ma sa che può contraddirsi senza paura perché conta su un pubblico di allocchi pronti a bersi qualsiasi balla, ergo il problema non è l’imbonitore, sono gli allocchi e... gli altri ambulanti nella piazza la cui merce, se tanto mi dà tanto, deve essere davvero poco allettante.❖

l’Unità Firenze 26.9.09
Nessuna alternativa all’ora di religione


Uno degli effetti del taglio degli insegnanti operato dal tandem Gelmini Tremonti saltato agli occhi di numerose famiglie, è la mancanza di organico per la materia alternativa alla religione. Fino all’anno scorso, lo studente che sceglieva di non frequentare le due ore settimanali di religione cattolica, aveva tre possibilità: dedicarsi allo studio individuale sotto la vigilanza del personale non docente, uscire prima (o entrare dopo) da scuola, nel caso in cui l’ora si trovasse all’inizio o alla fine della giornata di studio, oppure frequentare una materia alternativa in gruppo con altri alunni nella medesima situazione.
Da quest’anno la terza opzione non sarà più contemplata. «È gravissimo che un diritto finora garantito venga improvvisamente a mancare e senza nessuna spiegazione - ha commentato il segretario provinciale di Flc Cgil Alessandro Rapezzi - nella sola provincia di Firenze la questione riguarda dai 10mila ai 15mila alunni». Si calcola infatti che una media di quattro alunni per classe scelga di non seguire l’insegnamento di religione. Un numero elevato e in crescita, perché non più composto solamente dai bambini atei o di genitori atei, ma anche dai tanti studenti stranieri e di diversa religione iscritti alle scuole toscane.

Repubblica 26.9.09
Convergenze tra Casini, D'Alema e Pisanu nel convegno di Liberal
"Si fa strada in Italia il partito del buonsenso"
L’ex premier: con l´Udc un´evidente intesa, votiamo quasi sempre allo stesso modo
di Mauro Favale


ROMA - Il "partito del buonsenso", ovvero prove tecniche di alternativa. Un ex presidente della Camera, un ex ministro dell´Interno e un ex ministro degli Esteri, tre partiti diversi, d´accordo su immigrazione, politica estera ed economia. La sintesi dell´incontro di ieri tra Pier Ferdinando Casini, Beppe Pisanu e Massimo D´Alema (a Siena per un convegno della fondazione Liberal) la offre il leader dell´Udc: «Mi sembra che il partito del buonsenso stia facendo strada in Italia. Vediamo se sarà in grado di determinare svolte storiche. Ci sono le basi di una visione comune che unisce molti al di là delle appartenenze: c´è il governo del buonsenso e poi c´è chi si attarda a visioni propagandistiche e populistiche che non servono al futuro dell´Italia».
Una frecciata alla Lega, convitato di pietra a Siena, che liquida così l´incontro in Toscana: «Non saremo della partita per una nuova maggioranza. L´intesa tra lui, D´Alema e Pisanu è un papocchio che non fa paura. E poi, questo nuovo partito non ha truppe dietro». «Nessuno ha il monopolio del buonsenso - attacca il capogruppo Pdl al Senato Maurizio Gasparri - così si riportano in auge trasformismi, consociativismi e tentativi di vanificare un sano e trasparente bipolarismo». E Sandro Bondi mette in guardia Casini: «Sono certo che l´amico Pier abbia compreso l´insidia e l´arretratezza culturale delle parole di Massimo D´Alema che sulla laicità, nei giorni scorsi, ha chiamato in causa la Dc per avallare le attuali posizioni laiciste del Pd».
Ma l´eco delle polemiche non arriva fino a Siena. Per tutta la mattinata i tre hanno dato vita ad un dialogo che, partendo dalla guerra in Afghanistan, li ha visti d´accordo sulla necessità di cambiare rotta in politica estera. «Basta bombardamenti - ha detto D´Alema - evitiamo la duplicazione delle missioni, quella dell´Onu e quella americana. Enduring Freedom, a mio giudizio, da tempo doveva cessare». Pisanu arriva fino ad auspicare una «risoluzione parlamentare con Casini e D´Alema sul multilateralismo solidale di Obama».
Poi spazio alla discussione sulla proposta di legge bipartisan (firmatari il finiano Granata e Sarubbi del Pd) sulla cittadinanza agli immigrati: «Un Paese civile non si costruisce sulle paure. Su quella proposta c´è una grande maggioranza, mi spiace per la Lega», dice Casini. «Non si fanno spot sulla vita delle persone», aggiunge D´Alema che, al termine del convegno ha confessato: «Col partito di Casini c´è un´evidente intesa: in Parlamento votiamo quasi sempre allo stesso modo». Poi, ragionando sul Pd, l´ex ministro ha confermato: «Una grande forza riformista non può vivere di antiberlusconismo, deve mettere in campo una proposta per il futuro del Paese che sia forte autorevole e convincente». Pisanu allude senza fare nomi: «La politica di questa brutta stagione deve liberarsi di molte scorie». Sorridente Casini: «Noi non abbiamo fretta, siamo sereni. Mi sembra già tutto in movimento».

Repubblica 26.9.09
L’intervento di Vito Mancuso a “Torino spiritualità"
Quando si dice un uomo vero
Breve guida alla vita autentica
di Vito Mancuso


È una dimensione dell´esistenza, uno dei rari concetti che può definire una persona
Ci si consegna a qualcosa più grande di sé acquisendo una peculiarità personale

Anticipiamo parte dell´intervento che pronuncerà domenica, giornata di chiusura di «Torino spiritualità», la rassegna iniziata mercoledì e intitolata «Dis-inganno. Dietro ciò che appare ciò che è».

Già con le opere d´arte l´autenticità è una questione complessa: quel crocifisso sarà veramente di Michelangelo? quei due brani saranno davvero inediti mozartiani? Spesso si accendono discussioni infuocate, ma quasi mai si riesce a stabilire chi ha ragione. Un´eccezione abbastanza spassosa si ebbe a metà degli anni Ottanta a proposito di alcune sculture a forma di teste umane ritrovate a Livorno e presto attribuite a Modigliani dai maggiori critici, e che invece poi si scoprì essere una burla ottimamente congegnata.
Ma se è complessa per gli oggetti, tanto più la questione dell´autenticità lo è per la vita, notoriamente ben poco oggettivabile. A questo proposito io mi chiedo se esista, e quale sia, il criterio dell´autenticità di una vita, e spiego ciò che intendo con una celebre pagina di Shakespeare. La battaglia di Filippi si è conclusa, i capi dei congiurati sono morti, l´assassinio di Cesare è finalmente vendicato. Nel vedere il cadavere di Bruto però, Antonio dichiara: «Gli elementi erano così composti in lui che la natura potrebbe levarsi e proclamare a tutto il mondo: Questo era un uomo!" (Giulio Cesare, 5, 5). Antonio aveva mosso guerra a Bruto fin dal primo istante, ma ora di fronte al suo cadavere sente salire dentro di sé un irresistibile senso di rispetto: «Questo era un uomo!». Io mi chiedo quale sia quella qualità che, persino di fronte a un nemico mortale, ci fa sentire in presenza di "un uomo", mentre in assenza della quale, anche con un amico o un alleato, avvertiamo di essere in presenza di uno spirito servile. Mi chiedo che cosa fa di un uomo "un vero uomo". È questo che intendo con "autenticità della vita", ed è questo l´oggetto che vado a indagare (…).
L´autenticità è una dimensione sintetica dell´esistenza, uno di quei rari concetti che può servire da sigla complessiva per definire un uomo per quello che veramente è, al di là di quello che possiede, di quello che sa, e anche al di là di quello che compie. Che un uomo non sia autentico grazie alle sue ricchezze o alla sua erudizione, penso non ci sia bisogno di rimarcare. Ma io aggiungo che non bastano neppure le azioni, perché persino dietro atti eroici e gesti sublimi di carità ci può essere solo narcisismo. Lo sottolineava già san Paolo: «Se anche dessi in cibo tutti i miei beni ma non avessi l´amore, a nulla mi servirebbe».
Io ritengo che nella pienezza del concetto di autenticità siano presenti due dimensioni, una soggettiva e una oggettiva. La prima riguarda il rapporto del soggetto con se stesso e si traduce in genuinità, spontaneità, schiettezza. La seconda riguarda il rapporto del soggetto con gli altri e si traduce in sincerità, onestà, fedeltà, giustizia. Mi soffermo anzitutto sul livello soggettivo dell´autenticità. Dato che ogni essere umano è in se stesso interiorità ed esteriorità, la situazione di autenticità soggettiva si ha quando tra l´esteriorità (le parole che uno dice, le azioni che uno compie) e l´interiorità (le intenzioni che lo animano, i sentimenti che prova davvero) c´è armonia. Un uomo così dice quello che pensa, compie quello che crede, sente davvero quello che manifesta. Ognuno di noi infatti è abitato da una duplice melodia: una melodia interiore che risuona da sé quasi in modo necessario («per l´uomo il carattere è il suo destino», diceva Eraclito) e una melodia esteriore che eseguiamo consapevolmente in relazione agli altri con le parole, le azioni, i sorrisi, i silenzi e le altre consuete cerimonie quotidiane. Ognuno contiene una sorta di polifonia: da un lato il canto fermo o basso continuo rappresentato dalla musica che scaturisce dal temperamento personale indipendentemente dalla volontà, e dall´altro il motivo dominante, più acuto, più elaborato, dato dalle azioni e dalle parole volontarie, che si sovrappone al basso continuo del temperamento. Quando tra i due motivi c´è armonia, siamo in presenza di una persona soggettivamente autentica, e questo è ciò che io definisco il primo livello dell´autenticità umana.
Esso però non basta perché esiste una seconda dimensione della vita autentica, che concerne la qualità oggettiva della prospettiva per la quale si vive. Un uomo infatti al proprio interno può essere del tutto autentico, ma tuttavia vivere per un ideale sbagliato. Il caso esemplare è il fanatismo, politico o religioso. Abbiamo a che fare con veri e propri asceti, nessun dubbio al riguardo, ma asceti dell´idiozia, talora persino del crimine. È probabile che Osama Bin Laden (una specie di Bruto alla potenza) sia soggettivamente del tutto autentico, così fedele al suo ideale da rischiare ogni giorno la vita, per di più senza festini, né ville, né escort, solo un mitra e una copia del Corano. Forse anche Hitler era così soggettivamente irreprensibile, forse anche Lenin e Stalin, forse anche i brigatisti rossi e neri. Forse anche Torquemada, il fondatore dell´Inquisizione spagnola, era soggettivamente autentico, e forse lo era anche san Roberto Bellarmino, cardinale e dottore della Chiesa, che fece bruciare vivo Giordano Bruno perché non aveva abiurato e anni dopo risparmiò l´anziano Galileo perché invece aveva abiurato, e forse lo è anche l´attuale vescovo di Recife in Brasile che ha scomunicato la madre di una bambina di 9 anni per aver autorizzato l´aborto sulla figlia in pericolo di vita perché incinta (di due gemelli) in seguito alle violenze del patrigno. Tutti uomini soggettivamente autentici. Ma l´ideale a cui un uomo è fedele può essere distruttivo per gli altri e una prigione per lui. Occorre quindi un secondo livello per una vita realmente autentica, il livello che concerne la qualità dell´ideale che attrae e modella l´energia vitale. A questo riguardo annotava Marco Aurelio: «Ognuno vale tanto quanto le cose a cui si interessa». Parole corrispondenti a quelle del suo quasi contemporaneo Gesù di Nazaret: «Dov´è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore».
A questo secondo livello il concetto di autenticità rimanda a una specie di permanente tensione di tutto noi stessi verso la verità o (che è lo stesso alla luce del concetto relazionale di verità) verso la giustizia. Si tratta di una tensione che conduce il soggetto a uscire da sé superando i suoi interessi immediati, compresi quelli del partito o movimento o chiesa in cui milita, a cui non sacrificherà mai la sua onestà intellettuale, a cui non venderà mai la sua anima. La fedeltà alla verità e alla giustizia è per lui l´unica stella polare. In questa uscita da sé il soggetto però non si perde, ma si ritrova a un livello più profondo, e si compie divenendo un vero uomo. È la vita autentica. Il vero uomo è colui che ha trovato qualcosa più grande di sé per cui vivere, ma che proprio per questo acquisisce un timbro personale inconfondibile. Si consegna a qualcosa più grande, ma lungi dall´alienarsi diviene veramente se stesso, acquisendo una peculiarità personale per descrivere la quale ricorro ancora una volta a Shakespeare: «Dammi quell´uomo che non è schiavo della passione, ed io lo porterò nell´intimo del mio cuore, sì, nel cuore del mio cuore» (Amleto, 3,2).

Repubblica 26.9.09
Accadde nel 1938, la Santa Sede chiese aiuto al Pci
E il vaticano disse "cercate Stalin”
di Agostino Giovagnoli


Nel 1937 papa Pio XI condannò solennemente il comunismo ateo con l´enciclica Divini Redemptoris. Malgrado tale condanna, però, all´interno delle mura vaticane è sempre rimasto aperto un dibattito sul comunismo e su come affrontarlo. È quanto sta mettendo in luce, dopo l´apertura degli archivi vaticani per il pontificato di Pio XI, il lavoro di vari studiosi (Chenaux, Fattorini, Casula) e lo conferma anche l´episodio dell´incontro del 1938 tra il Sottosegretario della Congregazione dei Seminari e due importanti esponenti del Partito comunista italiano, su cui ieri L´Osservatore Romano ha richiamato l´attenzione.
L´autore dell´articolo, Roberto Pertici, ha appena pubblicato un impegnativo lavoro su Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande guerra al nuovo Concordato (1914-1984) (Il Mulino, pagg. 891, euro 55), in cui ricorda che nell´estate del 1938, mons. Mariano Rampolla Del Tindaro incontrò in Svizzera Ambrogio Donini ed Emilio Sereni, allora in esilio in Francia. L´iniziativa fu soprattutto di Donini, discepolo - insieme ad Arturo Carlo Jemolo – di Ernesto Buonaiuti e studioso di storia del cristianesimo, convinto della vicinanza tra ideale evangelico e impegno comunista. Nel colloquio si parlò della sorte dei Patti Lateranensi dopo la caduta del fascismo: i comunisti italiani avrebbero rispettato l´accordo tra la S. Sede e governo fascista nel 1929? È la questione che poi Togliatti ha risolto votando a favore dell´art. 7 della Costituzione. Alla fine dell´incontro, raccontato da Donini nelle sue memorie pubblicate nel 1988, Rampolla Del Tindaro chiese a questi e a Sereni di sondare se Mosca fosse disponibile a contatti con il Vaticano, ma l´iniziativa si fermò subito, malgrado i tentativi di Donini.
Dopo la rivoluzione bolscevica, la S. Sede aveva lungamente tentato di stabilire relazioni diplomatiche con l´Urss: Roma e Mosca costituivano due mondi molto lontani, come ha osservato Andrea Riccardi, ma Pio XI non intendeva rassegnarsi a tale lontananza. Egli però si scontrò contro un muro e nel 1927 i suoi tentativi si arenarono. Le distanze si accrebbero sempre di più, mentre aumentava in Vaticano l´influenza di mons. d´Herbigny, protagonista anche di spericolate iniziative in territorio sovietico. Nel 1932, il Segretario di Stato card. Pacelli – futuro Pio XII - avviò una vastissima inchiesta sul comunismo in tutti i paesi del mondo, i cui risultati costituiscono una radiografia dettagliata e praticamente unica sulla diffusione di questo movimento politico in tutto il mondo. Mentre d´Herbigny cadeva in disgrazia, l´iniziativa fu presa dal Superiore generale dei gesuiti, padre Ledochowki, che si attivò per la creazione di un Segretariato per l´ateismo e per la pubblicazione dell´enciclica. Ma la condanna dottrinale non esaurì il "problema comunismo" nelle sue molteplici articolazioni – politiche, sociali, culturali -, non solo per quanto riguarda l´Unione Sovietica, ma anche gli altri paesi, come ad esempio in Francia, dove nel 1936 i comunisti avevano avviato la politica della "mano tesa" nei confronti dei cattolici.
Non stupisce perciò, che a Roma si cercasse ogni occasione per riprendere un dialogo che non si era mai veramente avviato. Il comunismo, infatti, veniva considerato qui il più grave pericolo mondiale per le religioni e, in particolare, per la Chiesa cattolica, ma, proprio per questo si avvertiva anche l´esigenza di tentare tutte le strade possibili per affrontarlo.

Repubblica 26.9.09
A Procida il festival di Enrico Ghezzi
Cinema e filosofia nel segno di Gilles Deleuze
di Dario Pappalardo


Come tante manifestazioni in questo periodo, anche Il Vento del cinema di Enrico Ghezzi, che dal 2001 sposa la filosofia alle rarità cinematografiche, è alle prese con difficoltà di finanziamenti, tagli al budget, imprevisti. Ma, alla fine, nonostante tutto, decolla. La nuova edizione, in programma a Procida fino a lunedì, sembra sottolineare ironicamente sin dal tema scelto - "l´incompiuto cinema" - il clima del momento: «Ogni anno è come se inscenassimo i nostri stessi contrattempi - racconta Ghezzi - i programmi ridefiniti all´ultimo momento... ma non è una cosa voluta. I nostri ormai, più che incontri, sono happening, improvvisazioni. Chiudiamo un´edizione sempre incerti sulla partenza della prossima».
Tra un´annata e l´altra, Il Vento del cinema ha aperto gratuitamente il Procida Hall, l´unica sala dell´isola, offrendo dibattiti con filosofi come Giorgio Agamben, Remo Bodei, Manlio Sgalambro. Ha mostrato filmati rari di Lévi-Strauss e ospitato registi di culto: da Werner Herzog a Manoel de Oliveira. Il cileno Raúl Ruiz e lo spagnolo Victor Erice (oggi alle 16 interviene con Marino Niola), insieme ai loro film, sono i protagonisti di quest´anno. Domani alle 11, il documentario Facs of Life di Silvia Maglioni e Graeme Thompson ripercorrerà il pensiero di Gilles Deleuze, ponendosi sulle tracce di quell´esperienza unica che fu l´università sperimentale di Vincennes-Parigi 8, attiva dal 1969 e rasa al suolo nel 1980. «È un lavoro di ricerca su chi c´era a Vincennes in quegli anni», spiega Ghezzi. «Ma non si tratta di un semplice censimento: il film si interroga anche su quello che rimane di Deleuze e di quello spazio oggi». Ancora domani, alcune scene de L´Enfer, la pellicola incompiuta di Henri-Georges Clouzot sottolineeranno gli interventi dello scrittore Alessandro Piperno e dei cineasti Graziano Staino e Luigi Di Gianni. Sulle edizioni future l´autore di Fuori Orario non coltiva certezze, ma sogni sì: «Mi piacerebbe montare il Don Chisciotte di Orson Welles e trovare Ventriloquio, un mediometraggio perduto di Carmelo Bene».

Corriere della Sera 26.9.09
I costosi asciugamani di Palazzo Madama
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


108,9 i milioni di euro depositati in banca presso la filiale interna della Bnl sul conto del Senato: si tratta di somme che, negli anni, si sono accumulate come avanzo di bilancio
380 i milioni di euro che costituiscono il «tesoretto» bancario della Camera dei deputati: il Parlamento dispone di liquidi depositati per 490 milioni di euro

4.400 gli euro spesi per 50 asciugamani deluxe a Palazzo Madama: il prezzo è di 88 euro ciascuno. Sono in lino, ricamati. Su e-bay.it si possono comprare a cinque euro l’uno
325 mila euro: la pensione media lorda annua per un funzionario del Senato: i commessi di Palazzo Madama percepiscono invece una pensione di 122 mila euro

260 mila euro: la cifra spesa per le agendine 2009 di Nazareno Gabrielli.
50 milioni di euro è la cifra resa dall’Antitrust (guidato all’epoca da Giuseppe Tesauro) al Tesoro alla fine degli anni Novanta: erano gli avanzi delle dotazioni annuali

Il dossier I costi della politica e le richieste degli organi costituzionali al Tesoro 
Il Senato chiede un aumento della dotazione pari all’1,5 per cento



Il Cavaliere invita gli italiani a consumare di più? Detto fatto, al Senato consumano. Per le stanze della presidenza a Palazzo Giustiniani, ad esempio, hanno appena comprato 50 asciugamani deluxe.
A 88 euro l’uno. Pari a tre giorni di cassa integrazione di un operaio metalmeccanico.
Totale: 4.400 euro.
Giorgio Napolitano, che giovedì aveva spronato tutti dicendo che «le istituzioni devono dare l’esempio» ha avuto la sua risposta.
Vi chiederete: ma di che materiale so­no mai fatte, queste salviette per le ma­ni, per costare una cifra che all’italiano medio appare spropositata? Sono di li­no. E ricamate. Direte allora che sul sito e-bay.it si possono comprare asciuga­mani di lino e ricamati al prezzo di 29,99 per una confezione da sei e cioè a cinque euro l’uno, venti volte di meno. Per non parlare di quelle di spugna. Co­nosciamo l’obiezione: il decoro delle toilette di palazzo Giustiniani esige ben altro. Esattamente come le cucine presi­denziali: non meritano forse una quali­tà adeguata al livello dell’istituzione per essere all’altezza delle raffinate pa­pille gustative di Renato Schifani e dei suoi ospiti? Ecco allora una spesa asso­lutamente in-dis-pen-sa-bi-le: un co­stoso corso di perfezionamento fatto se­guire presso la scuola culinaria del Gambero Rosso ai 9 (nove) cuochi in­terni. Così che possano poi scodellare sui prestigiosi deschi quei piatti griffati che, con innata modestia, vengono defi­niti «divine creazioni»: bauletti con ri­cotta e pistacchi con bottarga di tonno e sedano, intrighi con stracotto d’oca e burro al ginepro, quadrelli di cacao con scorzette d’arancia ai due ori… Per carità, negare che nella scia delle polemiche sui costi della politica, qual­che taglio sia stato fatto pure a Palazzo Madama sarebbe ingiusto. Le famose agendine 2009 di Nazareno Gabrielli co­state la bellezza di 260 mila euro (più de­gli stipendi annuali dei governatori del Colorado, dell’Arkansas, del Tennessee e del Maine messi insieme) sono state ad esempio sforbiciate, per il 2010, del 20%. Un sacrificio doloroso ma necessa­rio. Come ancora più dolorosi e necessa­ri sono stati il blocco delle indennità, il giro di vite ai contributi dei gruppi par­lamentari e altro ancora...
Eppure, pare impossibile, nonostan­te i tagli palazzo Madama si appreste­rebbe a battere ancora cassa. Ancora po­chi giorni e il 30 settembre scade il ter­mine entro il quale gli organi costituzio­nali devono presentare al Tesoro le ri­chieste per la dotazione finanziaria del 2010. Una data importante, tanto più dopo gli ultimi appelli lanciati, alla vigi­lia di un autunno che potrebbe essere critico, non solo del capo dello Stato ma anche del cardinale Angelo Bagna­sco: misura e sobrietà.
Fino a due o tre anni fa gli stanzia­menti degli organi costituzionali veni­vano adeguati con il giochetto del co­siddetto «pil nominale». Si prendeva cioè a riferimento la crescita economi­ca prevista, che di norma era più o me­no il doppio dell’inflazione, e ogni an­no la dotazione cresceva di quel tot. In seguito, sull’onda delle polemiche, le pretese si ridimensionarono al «sempli­ce » recupero dell’inflazione program­mata. Come è stato fatto l’ultima volta. Poi la crisi economica ha cominciato a mordere davvero, al punto che se si fos­se applicato stavolta il vecchio criterio del «pil nominale», gli stanziamenti sa­rebbero crollati del 5%. Una batosta in­sopportabile. Ma mentre Quirinale e Ca­mera decidevano di rinunciare per i prossimi tre anni al recupero dell’infla­zione programmata, dal Senato non è arrivato alcun segnale. Evidentemente palazzo Madama considera ancora vali­da la richiesta relativa al 2009, con un aumento della dotazione pari all’1,5% sia per il 2010 sia per i due anni succes­sivi.
Il Tesoro dovrebbe così versare nel­le casse della camera alta 527 milioni di euro contro i 519 del 2009. Per salire poi a 535 e 543 milioni nel 2011 e nel 2012. Qualche goccia nel mare immen­so del bilancio statale. Ma talvolta ba­sta qualche goccia a far traboccare il va­so. Soprattutto considerando che l’infla­zione programmata è almeno il doppio di quella reale.
Come si giustifica allora l’esigenza di maggiori risorse per otto milioni l’an­no? Forse con il progetto di realizzare un nuovo canale televisivo digitale ter­restre (oltre a quello satellitare già esi­stente) affidato a un comitato istituito il 29 luglio e coordinato dal questore Benedetto Adragna? O con l’idea, ben più fumosa, di impiantare una struttu­ra medica interna con tanto di sala di rianimazione pur essendo palazzo Ma­dama a un chilometro dall’ospedale Santo Spirito?
La verità è che l’andazzo seguito per anni è stato tale (nella legislatura 2001-2006 le spese correnti s’impenna­rono del 39% oltre l’inflazione) che la «macchina» lanciata verso costi sem­pre più folli va avanti per inerzia, a pre­scindere perfino dalla volontà di Schifa­ni e dei questori. Tanto è vero che, non essendo mai stati cambiati sul serio cer­ti automatismi del contratto interno, le retribuzioni e le pensioni dei dipenden­ti (che in molti casi possono ancora an­darsene a 50 anni: tre lustri dopo la ri­forma Dini!) seguitano a crescere pe­sando immensamente di più che gli asciugamani. Dati alla mano: le pensio­ni medie variano dai 122 mila euro lor­di l’anno per i commessi ai 325 mila eu­ro per i funzionari.
Una domanda, tuttavia, meriterebbe risposte convincenti. Perché il Senato continua a chiedere soldi se ha deposi­tati presso la filiale interna della Bnl, li­quidi, 108,9 milioni di euro? Avete capi­to bene: 108,9 milioni. Da dove arriva­no tutti quei quattrini è presto detto: palazzo Madama non spende, nella real­tà pratica, tutti i soldi che ogni anno il Tesoro gli dà. Il bilancio si chiude infat­ti regolarmente con avanzi di cassa che non vengono restituiti all’Erario, ma si accumulano in banca. Lo stesso avvie­ne, e in misura addirittura maggiore, per la Camera dei deputati, che ha già da parte qualcosa come 380 milioni di euro. Il «tesoretto del Parlamento», per usare la definizione data dal Sole24ore lo scorso maggio, avrebbe quindi rag­giunto, secondo gli ultimissimi calcoli, circa 490 milioni. Il doppio dei fondi oc­correnti per rimettere in piedi le strut­ture universitarie dell’Aquila e pagare le rette di tutti gli studenti.
La Camera si tiene stretti quei soldi con la giustificazione che alla scadenza degli onerosi contratti d’affitto degli uf­fici per i deputati nei «Palazzi Marini» (una quarantina di milioni l’anno) do­vrà acquistare nuovi immobili. Ma il Se­nato, che gli edifici li ha già comprati e ha avuto dal Cipe anche i soldi per ri­strutturarli? Ci si dirà che, con le proce­dure e le macchinosità attuali, è diffici­le restituirli, i soldi. Sarà… Eppure c’è un illustre precedente. Alla fine degli an­ni Novanta l’Antitrust, all’epoca presie­duta da Giuseppe Tesauro, rese al Teso­ro l’equivalente di una cinquantina di milioni di euro: erano gli avanzi delle dotazioni annuali che l’autorità non ave­va speso. E che tornarono così nelle cas­se dello Stato. Certo, bisogna volerlo...

Corriere della Sera 26.9.09
Saviano: la mafia si spartirà gli appalti per Expo e Abruzzo
di Paola D’Amico



MILANO — Attacca sul­­l’Expo, manda un messaggio a Maroni, racconta la Camorra tre anni dopo il best seller «Go­morra ». Svela se stesso, la vita infernale di chi vive sotto scor­ta. Ammette, per la prima vol­ta, davanti alle telecamere di «Era Glaciale», di aver sentito lui stesso un pentito confidar­gli: «La condanna ce l’hai». Lo scrittore Roberto Saviano av­verte: «’Ndrangheta e camorra si spartiranno i due grandi ap­palti se non ci saranno com­missioni rigide a controllare: la ricostruzione dell’Abruzzo alla camorra, l’Expo di Milano al­l’ndrangheta». E a Daria Bignardi, la conduttrice del programma in on­da ieri sera su Rai 2, che lo incalza, risponde: «È sta­ta sciolta un’im­presa casalese che stava ristrut­turando alcune strade in Abruz­zo.
Mentre ci sono moltissime informative sui tentativi della camorra di entrare nei subap­palti dell’Expo. Vincono per­ché hanno imprese che funzio­nano a prezzi competitivi e un’assoluta capacità di intro­dursi nella burocrazia».
Il suo libro dal 2006 ha fatto il giro del mondo, pubblicato in 52 Paesi. E lui oggi ripete: «Ho un peccato mortale, l’am­bizione di cercare di cambiare le cose con le mie parole». Sul­lo schermo scorrono le intervi­ste ai giovani del suo paese, Ca­sal di Principe, che lo giudica­no senza pietà: «Ha copiato i processi, ha voluto guadagna­re sulle nostre spalle rovinan­doci, ha infangato il paese, non è vero che lo vogliono uc­cidere ». Lui è amareggiato. Ma contrattacca: «Se Maroni man­tiene la promessa di arrestare» Antonio Iovine e Michele Zaga­ria, «i due latitanti che sono a capo del clan dei Casalesi» allo­ra «forse qualcosa lì può vera­mente cambiare». La camorra, dicono i ragazzi, «c’è ma non si vede». La «camorra — ribat­te Saviano —, in quelle terre, vuol dire imprenditoria, econo­mia, cemento e non furti o pro­stituzione ». È un Saviano a tutto campo, che affronta tutti i colori della camorra, dalla cronaca nera al gossip, alla cronaca rosa. Sulla vicenda D’Addario: «Una vicen­da privata ma essendoci un pri­mo ministro diventa un fatto pubblico. Una vicenda doloro­sa per l’Italia». Su Noemi: «Per questa ragazza è come aver vin­to al superenalotto. Mi ha fatto quasi tenerezza, ma non sa co­sa l’aspetta».
Conversando con la Bignar­di c’è spazio anche per l’ama­rezza. Saviano spiega cosa si­gnifica essere oggetto di calun­nia e diffamazione. E ricorda cosa gli disse Enzo Biagi, a pranzo, durante un’intervista: «Questo è un Paese che non permette cose del genere. Pre­parati, è solo l’inizio». Ma rifa­rebbe tutto daccapo: «Questi meccanismi perdono il loro po­tere quando vengono svelati». Di sé dice: «Sono peggiore ri­spetto a prima, perché non mi fido più di niente e di nessuno, sono costretto a tenere tutto sotto una cappa di clandestini­tà. Perché le persone non pos­sono capire come si viva così». Saviano confessa come da tre anni, dopo «Gomorra», sia «spesso costretto a spostarmi continuamente, sempre sotto costante pressione, nervoso, preoccupato, spesso scuro. Di­venti una persona difficile». In­fine, svela di non aver provato paura quando un pentito in fac­cia gli ha detto: «La condanna ce l’hai. Ho pensato che fosse giusto dirlo oggi al mio pubbli­co perché se sono qui a parlare la forza è lui a darmela». 


Corriere della Sera 26.9.09
In «Non smetteremo di danzare» il giornalista Giulio Meotti racconta le biografie dei civili assassinati negli attentati
Volti, gesti e parole: gli ebrei uccisi dal terrore quotidiano
Da Klinghoffer e Pearl ai cittadini in autobus
di Pierluigi Battista



Eccoli, i protagonisti e i testimo­ni di un libro di Giulio Meotti, Non smetteremo di danzare, pubblicato da Lindau. Sono i pa­renti di «civili innocenti, vecchi, donne e bambini ebrei assiepati nei bus che van­no a scuola, avventori di ristoranti e pizze­rie, gente ignara seduta al caffè in attesa della prossima fermata, nei centri e nelle città dove la società vive la sua quotidiani­tà ». Vittime. Bersagli del terrorismo. Col­pevoli semplicemente di vivere in Israele e di essere casualmente passati nel posto sbagliato nel momento sbagliato: quello scelto dai terroristi per esplodere e colpi­re quanti più civili israeliani sia possibile. Ecco i loro nomi, i loro volti, le loro vite. Non un numero freddo e astratto (per quanto i numeri non siano insignificanti: 1.723 morti e 10.000 feriti in dieci anni. Se si fa la proporzione, è come se negli Stati Uniti le vittime del terrorismo fossero sta­te 74.000, un’enormità). Ma un mosaico di vite spezzate. Le vite annientate di quelli che Meotti, parafrasando Primo Le­vi, definisce «i sommersi di Israele».
Ecco come si chiamano: Dickstein e Ga­vish, Ben-Shalom e Nehmed, Roth e Zer-Aviv, Avichail e Hatuel e tanti altri. Di­cono niente questi nomi? «Quando a En­tebbe nel 1976», scrive Meotti, «i terrori­sti dirottarono un aereo pieno di israelia­ni, selezionarono gli ostaggi a seconda del nome: trattennero i 105 ebrei a bordo dopo avergli fatto pronunciare il loro no­me, c’erano alcuni sopravvissuti ai campi di sterminio che avevano giù vissuto quel­la selezione trent’anni prima». I dirottato­ri dell’«Achille Lauro» sapevano bene la colpa di Leon Klinghoffer, costretto sulla sedia a rotelle, prima di trucidarlo: era ebreo. E Daniel Pearl in Pakistan? Prima di sgozzarlo, i suoi assassini lo costrinse­ro a scandire il proprio nome e anche: «Mio padre è ebreo, mia madre è ebrea, io sono ebreo». Non c’entrava la guerra tra israeliani e palestinesi e nemmeno il diritto dei palestinesi a uno Stato. C’entra­va il fatto che le vite da annichilire appar­tenessero a degli ebrei. Ai ragazzini adde­strati alla guerra santa insegnano che i «maiali ebrei» sono l’incarnazione di ogni male, meritevoli di essere soppressi in quanto tali. Ecco gli esiti tragici di que­sto insegnamento omicida, con il volto delle vittime narrate con infinita pietas in questo libro. Nessun risarcimento sto­rico. Nessuna giustificazione per una guerra di indipendenza nazionale. Nes­sun attacco al nemico in armi. L’attacco è a chi porta quei nomi, allo scopo di elimi­narli dalla faccia della terra. L’attacco non è a una trincea o a un comando mili­tare: è diretto contro una pizzeria, una di­scoteca, un autobus scolastico, un risto­rante, un albergo, una stazione ferrovia­ria. Dovunque ci siano civili da stermina­re. Civili, non militari.
Civili come Rachel Teller, una bambi­na di cui la madre ha deciso di donare cuore e reni come «risposta a quelle jene». Civili come Ron, «il cui nonno sfuggì ai nazisti e la cui figlia è stata ucci­sa su un autobus». O Tzipi, cui hanno pu­gnalato il padre rabbino. O Menashe che «ha perso il padre, la madre, il fratello e il nonno in una notte di terrore». Miriam «si è vista portare via il marito musicista, dopo che erano arrivati dall’Unione Sovie­tica ». Dror «ha perso gran parte della fa­miglia nell’Olocausto e ha sepolto il figlio con l’inseparabile Talmud babilonese». Il dottor Picard, che aveva «lasciato la Fran­cia, dove i suoi nonni sfuggirono ai carri piombati di Vichy, per perdere un figlio in un seminario ebraico». Sono storie e personaggi che rivelano, anche sul piano del «vissuto», come usa dire, la continui­tà tra due momenti della storia: una conti­nuità che, tra l’altro, spiega molto bene l’ossessione negazionista di chi, convin­cendosi dell’inesistenza dello sterminio di ieri, rende legittima la volontà di ster­minio di oggi.
L’impresa di Meotti, il suo ricercare l’umanità al posto dell’astrazione numeri­ca, il dramma reale al posto delle conside­razioni geopolitiche, rende ancora più atroce a assurdo, non giustificabile in nessuna logica bellica, l’assassinio siste­matico degli inermi. Uccidere quanti più ebrei possibile non ha nessuna relazione con la possibilità di risarcire i palestinesi dalle loro privazioni. È un orrore in sé, a prescindere dalle motivazioni di cui si ammanta.
Scrive Roger Scruton nella prefazione al libro che Meotti «racconta la storia in dettaglio»: il dettaglio delle vite stronca­te che generalmente svaniscono nella di­menticanza collettiva. Aggiunge Robert Redeker, nella sua lettera all’autore scrit­ta dal «luogo segreto» in cui è confinato dopo le minacce dei fondamentalisti, che «di fronte all’orrore della Shoah e dello sterminio degli ebrei europei si poteva pensare che non si sarebbe mai più trova­to un solo uomo in tutto il pianeta che si richiamasse all’antisemitismo». Quella speranza si è rivelata fallace. E il libro di Meotti lascia misurare i costi spaventosi che la rinascita dell’antisemitismo, nutri­to di un odio assoluto e inestinguibile per Israele in quanto tale e per i suoi citta­dini, sta imponendo a tutto il pianeta, e non solo a Tel Aviv o Gerusalemme.

Corriere della Sera 26.9.09
Confucio spiegato da una donna
«La società vuole leggi morali, non soltanto regole pratiche»
di Marco Del Corona




Incontri Yu Dan, docente universitaria, offre una lettura familiare. E ha successo anche all’estero

PECHINO — Anche il pensiero ha una sua tem­peratura. Confucio è tiepido. «Non amo ciò che si scalda subito e poi si raffredda». Casomai calda era lei, Yu Dan, quando tre anni fa dagli schermi della Cctv, la tv di Stato cinese, spiegava Confucio al popo­lo di Confucio. Sette lezioni, un successo cui ha da­to la forma di un libro. La professoressa universita­ria, la studiosa di letteratura classica cinese (ma con un dottorato di ricerca in media e comunicazione, ora la sua materia di insegnamento), era diventata un personaggio. Un medium così efficace da sostitu­irsi quasi al messaggio, almeno secondo i critici. E invece lei difende il suo Confucio familiare e vicino, liberato dall’accademia. «Le interpretazioni scolasti­che — avverte — presentano un confucianesimo fatto di formule rituali, non di sottigliezza nei com­portamenti individuali. Quest’anno ricorre il 2560˚ anniversario della nascita di Confucio, gran parte della sua filosofia è superata. Il mio metodo viene dal cuore e questo lo rende comprensibile a tutti, anche fuori dalla Cina».
Il metodo ha funzionato. Quindici milioni di co­pie vendute in patria, traduzioni in una ventina di lingue e l’uscita in 23 Paesi (Italia compresa: il pri­mo ottobre per Longanesi con il titolo La vita felice secondo Confucio , pp. 176, e 15, traduzione di Valen­tina Potì). Alla Buchmesse di Francoforte, Yu Dan sarà nella pattuglia di autori cinesi ospiti d’onore.
Anche l’Occidente è pronto per il suo Confucio sem­plificato e dialogante. La sobrietà, il senso del dove­re, delle scelte morali. «Ma non è una filosofia prati­ca. Confucio non insegna come trovare un lavoro.
Ciò che voglio trasmettere — spiega al 'Corriere' Yu Dan — è un’attitudine interiore, guardarsi den­tro, progredire, crescere». In Cina il terreno è ferti­le, nonostante gli anni in cui il filosofo era stato ban­dito da Mao Zedong. «Resta un pensiero familiare.
Vai in campagna e anche le vecchie analfabete san­no di Confucio e insegnano ai nipoti a essere rispet­tosi con i genitori, a Capodanno la prima tazza di ravioli la si regala ai vicini. Il confucianesimo è nel sangue». E nella Cina trasformata e modernizzata, «la vita sempre più prospera, che tuttavia causa di­seguaglianze economiche, porta all’evaporazione dei valori. La filosofia tradizionale ha qualcosa da dire».
Accanto a milioni di fan, Yu Dan ha coagulato il fastidio di critici che non le perdonano nulla. Come Tian Qizhuang, che rivede in lei la tendenza a fare dei cinesi «tartarughe con la testa nel guscio», sen­za vere «responsabilità verso la società». O come Li Yue, che scorge nell’autrice un intento consolatorio che induce a «fuggire il peso della vita». Yu Dan non se ne cura: «Forse il senso del mio libro non è la conclusione, ma il punto di vista. E la trasmissio­ne di un pensiero non dipende da chi la attua, ma da chi ascolta. Io non voglio imporre il mio Confu­cio. Se noi cinesi abbiamo imparato ad amare il caf­fè e gli occidentali il tè, confido che si possano con­dividere anche filosofie diverse. Né il mio è un me­todo scientifico universale. È un’esperienza persona­le della quale, magari, anche altri possono approfit­tare. Alla fin fine è solo un modo di leggere, un mo­do di essere felici».
I filosofi dialogano, dialogano Confucio e Plato­ne. «Il pensatore greco aveva concepito uno Stato ideale governato dalla morale, l’utopia implica l’au­todisciplina. Riflessioni analoghe ci sono anche in Confucio. Il cui pensiero non poté essere messo in pratica perché da sola la morale non bastava. Invece occorre che la società abbia una regola morale oltre alle leggi pratiche, come oggi. Confucio intanto dila­ga, a lui sono intitolati gli istituti di cultura che la Cina promuove nel mondo, si girano film su di lui, i discendenti o presunti tali si contano, dalla Corea ogni tanto qualcuno reclama natali coreani per il più cinese dei filosofi: il boom di Confucio è buono, vuol dire che, dopo gli attacchi del secolo scorso, è tornato a sollecitare attenzione. Non vorrei che pe­rò diventasse una specie di superstar da brandire come un’insegna o uno slogan».
Persino il principio cardine promosso dal leader Hu Jintao, quello della «società armoniosa», rie­cheggia un concetto confuciano. Quasi un ritorno all’antico per gestire la tendenza al caos della mo­dernità, l’entropia sociale. Yu Dan replica citando la versione cinese della massima latina «primum vive­re, deinde philosophari», prima si vive e solo dopo ci si può abbandonare alla filosofia: «In Cina si dice che serve che si siano riempiti i granai per imparare poi le formule rituali». Ecco, negli anni Sessanta e Settanta il tenore di vita era molto basso, nonostan­te il welfare socialista: impossibile pensare a costrui­re una «società armoniosa. Ora, dopo 30 anni di ri­forme, la gente comincia a interessarsi anche a una dimensione spirituale, dunque a costruire una socie­tà armoniosa». Non che il mondo, adesso che i gra­nai sono pieni, si sia fatto meno tumultuoso. «E in­fatti la massima di Confucio che preferisco è che il signore deve sapere guardare dentro di sé, solo con la forza interiore ci si difende dai clamori del mon­do esterno». Sembra buon senso, ma è Confucio. E forse — Yu Dan o meno — sono la stessa cosa. 


Corriere della Sera 26.9.09
Viaggio del terapeuta Andreoli fra i sacerdoti
I preti consacrati alla solitudine
di Alberto Melloni


I preti sono un nucleo attor­no al quale danza tutto nel­la Chiesa cattolica: diagno­si e soluzioni, denunce e strepiti, speranze e paure. Pochi rispetto a qualche decennio fa— quando si diceva lo stesso. Fragi­li, come dimostrano non gli ab­bandoni, ma l’affanno con cui i più spaventati cercano nel guar­daroba del passato qualcosa che li protegga da una condizione «oggettiva» alla quale sono im­preparati, fuori e dentro. La più ambigua delle parole — crisi — è stata cosparsa su di loro ininter­rottamente, da secoli: usata co­me un piccone per demolire un modello che si reggeva sull’idea di una società cristiana, agitata come l’aspersorio dell’esorcista dai gruppettuscoli lefebvriani che vedono nella curva delle ordi­nazioni la riprova dei loro anate­mi scismatici.
In realtà quello dei preti è il problema dei problemi — nono­stante il debole tentativo del Vati­cano II di ripensare una figura non monastica di ministro e per poi arenarsi prima del più falso dei falsi problemi che riguarda i preti — cioè quello del celibato. Lì non finisce, ma se mai inizia la riflessione su che cos’è il prete.
Al lettore italiano, Vittorino Andreoli, psichiatra che scruta con acuta delicatezza mondi al­tri, offre ora Preti . Viaggio fra gli uomini del sacro (Piemme, pp. 331, e 18). Il suo libro impressiona, in questa Italia sguaiata e cialtrona, per l’infinito rispetto col quale un uomo che si dichiara non credente usa di colloqui personali e terapeutici per ricostruire la geografia e la tipizzazione del prete (il prete del tempio, di strada, di campagna, del dolore, del carcere, di scuola e via dicendo, incluse due violente catilinarie sul prete intellettuale e il prete televisivo). Colpisce la precisione con cui in varie pagine Andre­oli spiega che le sconcezze da preti sono o fragilità o crimini, non conseguenze di una decisio­ne difficile come ogni altra condi­zione scelta consapevolmente. Ma in questo viaggio nel mondo del prete, Andreoli, classe 1940, mostra di aver interiorizzato alla perfezione sia il bello e il gramo che il prete italiano del secondo Novecento sa di sé, sia ciò che a questo tipo preciso di pastore sfugge.
Andreoli esalta il prete oran­te, santo, dedito al tempio e al sa­cro: ma anche il prete che si spende per le anime, formatore esemplare, estirpatore del cleri­calismo. Descrive un ideale inte­riorizzato nel quale il prete è so­lo — senza comunità e senza ve­scovo: solo e preparato ad una so­la cosa, il celibato, attorno a quel­lo costruisce la propria identità spirituale e le proprie nevrosi, il proprio desiderio di santità e la propria voglia di «divorziare» da quella moglie petulante che è la purezza di cuore.
Proprio perché rispecchia con rispettosa acribia condizioni e aspirazioni del prete italiano del secondo Novecento, Andreoli mette a nudo la contraddizione profonda di questa figura. Se la Chiesa non vuol ridursi ad un pic­colo esercito mobilitato da even­ti mediatici, di aderenti a forme di fede pronunciate solo con l’in­flessione interiore del fondatore, sanate da un amore al Papa vago e interessato — se essa vuol rima­nere comunità aperta a tutti, de­ve contare sui suoi preti, trovarli, formarli. Cosa che i colloqui di Andreoli dicono che non accade, non per una questione riguardan­te la modernità, ma per un nodo riguardante la fede.
Erede di un sistema di forma­zione che selezionava pochissi­mi su una vasta platea, il semina­rio continua a sfornare chierici in una età della vita che, per loro e i loro coetanei, ribolle di provvi­sorietà: l’aiuto degli psicologi, che giustamente Andreoli loda, pur raccomandando di sceglierli per competenza più che per ap­partenenza, potrà servire a risol­vere i problemi psicologici. Ma l’impianto spirituale e intellettua­le del prete è quello che Andreoli coglie, ricapitolando con un to­no elogiativo la loro tragedia: un celibato come consacrazione del proprio fragile amore al Cristo (cosa che riguarda tutti i cristia­ni, sacerdoti, re e profeti per il battesimo) e non come assunzio­ne della grazia di rappresentare l’amore fedele del Cristo ai pecca­tori; una formazione intellettua­le scadente e arrogante (che lo psichiatra bastona duramente), e non la disciplina necessaria a conquistare linguaggi di comuni­cazione indispensabili ad ogni guida; la infinita distanza da ve­scovi rapiti da carte o campi non loro e non la comunione gerar­chica che sa accompagnare le età della vita.
Su questa tragedia di lunghis­simo periodo Andreoli posa lo sguardo del terapeuta che libera dal senso di colpa e legittima con la sua autorità le fragilità che imprigionano le persone. Per questo il volume si indirizza spes­so ai preti in modo diretto ed esplicito, contando che questa fi­gura possa tornare ad essere il parafulmine di una società sfilac­ciata: che non ha bisogno di tona­che tagliate con la nostalgia, ma di un ministero di interiorità for­mate nella esperienza della de­lectatio victrix che, come inse­gnava De Lubac, non vince la vo­lontà, ma il peccato.

Corriere della Sera 26.9.09
Tra storia e società. Al Museo di Antichità 350 reperti raccontano l’arte del «buon vivere» che caratterizzò l’età imperiale
Per gli antichi piaceri
La lezione dei Romani. Così tra i sensi e la mente si inventò il «life style»
di Benedetta de Micheli


«A qualsiasi età è bene occuparsi del benes­sere dell’animo», scrive Epicuro nella sua lettera sulla felicità indirizzata a Meneceo. Ed è lui, il filosofo greco immortalato in un busto di marmo, a fare gli onori di casa con le sue pa­role al Museo di Antichità di Torino per introdurre i visitatori a «Luxus, il piacere della vita nella Roma Imperia­le » .
La mostra è un racconto sull’anti­ca cultura del piacere e del bello. La gioia di vivere e di godere delle picco­le e grandi cose ai tempi della pax au­gustea , ossia dalla fine del primo se­colo avanti Cristo alla metà del secon­do secolo dopo Cristo. Come dice Ric­cardo Bertollini, presidente della Fon­dazione DNArt, che ha progettato l’iniziativa: «Luxus è un progetto che fa riflettere su come si siano costrui­te tutte le reti che caratterizzano il no­stro vivere quotidiano, per esempio l’enogastronomia, i profumi, il mo­do di vestire, gli ori e i gioielli nel cor­so dei secoli».
Tutto è spiegato, illustrato e analiz­zato con 350 pezzi provenienti dai principali musei italiani: sculture, ar­genti, reperti preziosi, ma anche af­freschi, vasi, cristallerie. Otto sezio­ni, valore assicurativo complessivo 80 milioni di euro. «La lettera di Epi­curo messa sotto il busto è un mani­festo sul modo in cui dovrebbe esse­re visitata la mostra», spiega Elena Fontanella che ha curato l’esposizio­ne.
Il lusso della mente e quello del vi­vere sono i due aspetti che scandisco­no il ritmo della rassegna. Appartie­ne al primo la statua dell’«Ermafrodi­to addormentato», copia di un origi­nale ellenistico del I sec d. C. che rap­presenta la bellezza senza tempo, sen­za sesso e senza età (valore 6 milioni di euro). Basta poi osservare gli og­getti esposti per capire quanto peso avesse già all’epoca l’amore per il col­lezionismo, soprattutto di antichità che provenivano dall’Egitto, dalla Grecia: «Questo permise ai romani di costruirsi un gusto del bello», os­serva Fontanella.
In mostra si può ammirare anche una copia dell’«Amazzone di Fidia» in marmo verde, che riprende le ca­ratteristiche del bronzo originale con i famosi panneggi bagnati. E nella se­zione dedicata all’arte delle muse al­tre testimonianze di quanto i romani amassero andare a teatro («un’espe­rienza sociale che diventava anche un’occasione di festa, dove si vende­vano vino, acqua, cuscini per seder­si »): grandi maschere e un «Affresco con attore» pompeiano proveniente dal Museo Archeologico di Napoli che rappresenta un attore a volto sco­perto, senza la tipica maschera teatra­le della tragedia e della commedia greche, un attore che recitava alla ma­niera dei romani.
Un capitolo intero è riservato ai «sensi» ed è questo il momento del banchetto e dell’arredo delle sale. Si nota il «letto tricliniare di Amiter­no », completamente intarsiato d’ar­gento con rifini­ture in oro e in bronzo. Quindi gli sgabelli, i sa­movar usati per scaldare le vivan­de, l’argenteria con le posate e le conchiglie do­ve ci si lavava le mani, i vetri de­corati a mille fio­ri o intarsiati. C’è anche il «va­so in sardonica» imperiale che viene dalla colle­zione di Lorenzo de’ Medici. Il viaggio con­tinua fra remini­scenze lettera­rie, citazioni e nuove testimo­nianze preziose. Non manca il ca­pitolo sugli «aro­mata » dove si possono toccare e annusare spezie, profumi e odori per conoscere il gu­sto olfattivo nell’antichità.
Per non parlare della sezione dedi­cata al fascino e alla seduzione: ecco il busto della «dama Flavia» di Fonse­ca, uno dei reperti più belli dei Mu­sei Capitolini, la serie di statue che ri­producono i vari tipi di acconciartu­re femminili e, nella parte riservata alla cura del corpo maschile, il «torso di atleta» in marmo pentelico di deri­vazione policletea. In quanto ai gioielli, se ne posso­no ammirare un centinaio, tra brac­ciali in oro, collane, pendenti ed è in­teressante vedere anche gli oggetti di bronzo placcati in oro con vetri verdi al posto delle pietre preziose che confermano quanto già a quei tempi fosse popolare l’uso della bi­giotteria. Infine, la sezione dedicata al lusso nell’al di là, a dimostrazione di come il gusto del bello si estendes­se anche ai corredi funerari.
Non a caso alla fine di questo viag­gio i visitatori vengono salutati dalla frase di Orazio: «Carpe diem».



Corriere della Sera 26.9.09
Il corpo. Specialisti in amore, cibo, cura estetica
Sesso libero. E le donne pazze per i gladiatori
di Eva Cantarella



Al corpo e ai piaceri che da questo poteva­no trarre, i romani dedicavano tempo e atten­zione. I primi secoli della lo­ro storia li avevano visti im­pegnati a celebrare valori come l’austerità, la frugali­tà e la pudicizia, ma con il tempo la vita era cambiata, e con essa anche il loro at­teggiamento verso le piace­volezze della vita. Quasi a compensarsi della passata austerità, ora si guardavano bene dal farsele sfuggire. «Il vizio dilaga», dicevano i moralisti. Certamente esa­geravano, ma i costumi era­no indiscutibilmente cam­biati. Le terme, per comin­ciare, erano diventare una frequentazione quotidiana: bagni caldi, tiepidi e freddi, massaggi con olii preziosi, depilazione (persino il gran­de Cesare si depilava). Tra un trattamento e l’altro, ol­tre a concludere affari e ac­cordi politici, ci si poteva in­trattenere con qualche si­gnora compiacente o con un bel ragazzo. Ai romani non bastavano mogli, aman­ti, prostitute e schiave di ca­sa, ovviamente a disposizio­ne. Potevano concedersi senza problemi qualche rap­porto con un prostituto; e se volevano potevano sce­gliersi, tra gli schiavetti di casa, un concubinus, che co­me dice il nome dormiva con loro: beninteso sino al momento in cui non si spo­savano.
Non si negavano i piaceri del sesso, insomma, i roma­ni. Né si accontentavano di questi. Un altro momento di grande godimento erano i banchetti: vino e cibo a vo­lontà, ingurgitati in quanti­tà tali da costringere, per continuare, a mettersi due dita in gola. Ma la quantità non andava a scapito della qualità. I romani erano dei gourmet: vino buono, che veniva dalla Grecia, in parti­colare quello di Cos; caviale importato dal Mar Nero; tra i prodotti locali, pesci, cro­stacei e ostriche, di cui era­no abilissimi allevatori. Un imprenditore campano, di nome Sergio Orata, arrivò a escogitare un ingegnoso si­stema per allevarle (succes­sivamente utilizzato per ri­scaldare le terme), che con­sisteva nel far scorrere ac­qua calda nelle intercapedi­ni pavimentali e parietali della vasche.
Per chi ne aveva voglia, poi, i banchetti consentiva­no l’esperienza del cross-dressing. A provarlo, una singolare questione sot­toposta al giurista Quinto Mucio: un senatore aveva stabilito nel testamento che le sue «vesti muliebri» an­dassero a una certa perso­na.
Visto che il senatore usa­va cenare vestito da donna, bisognava pensare che allu­desse alle vesti che indossa­va a cena? No, rispose il giu­rista, senza dare il minimo segno di sorpresa di fronte al caso. I banchetti consenti­vano di soddisfare molti de­sideri, insomma. Per non parlare degli spettacoli gla­diatorii. Si è detto, spesso, che in questo tipo di spetta­coli si manifestava quello che sarebbe stato un tratto del carattere romano, vale a dire il sadismo. Impossibi­le, qui, affrontare una que­stione come questa: basterà ricordare che la mancanza di prospettiva storica può giocare brutti tiri. Il che non toglie che i giochi fosse­ro molto amati: ma, quanto­meno dalle donne, per ra­gioni molto diverse. «Il tra­ce Celado fa sospirare le ra­gazze », leggiamo nella ca­serma dei gladiatori di Pom­pei, dove un altro graffito informa «Crescente (un al­tro gladiatore) è il medico notturno delle ragazze».
Tutte vittime dei muscoli e della celebrità, tutte pazze per i gladiatori. Secondo Giovenale, le matrone arri­vavano ad abbandonare ca­sa e famiglia per seguirli. Proclama un graffito di età augustea: «Balnea, vinum, Venus corrumpunt corpora nostra, sed vitam faciunt»: i bagni, il vino e l’amore dan­neggiano il nostro corpo, ma rendono bella la vita. Più chiaro di così. 



Corriere della Sera 26.9.09
Era consentito il «cross-dressing»: alcuni senatori amavano cenare vestiti da donna
Lo spirito Discussioni filosofiche e interesse per i libri
Parlare e leggere il greco faceva la differenza
di Luciano Canfora




L’insegnamento di Epicuro si diffuse a Roma e in Italia con una impressionante, e per alcuni allarmante, rapidità raggiungendo anche ceti non propriamente di eleva­tissima cultura. Era la sua te­oria del piacere la principa­le causa di successo.
I molto colti leggevano il greco o addirittura scriveva­no in greco, come Lucullo, Silla, Cicerone: per costoro attingere direttamente alle fonti del pensiero greco non era certo un problema. Per loro era ovvio conosce­re l’insegnamento dei filoso­fi greci e soppesare il pro e il contro disquisendo sulla teoria epicurea del piacere. Cicerone nei suoi dialoghi filosofici, in particolare nel De finibus bonorum et ma­lorum, mette in scena per l’appunto alcuni esponenti dell’élite intellettuale roma­na impegnati in siffatte di­scussioni, in particolare in­torno alla teoria epicurea del piacere come assenza di dolore. Una teoria che pote­va essere, con intento pole­mico e denigratorio, bana­lizzata e resa grossolana, mentre in realtà racchiude­va uno dei più sofisticati di­stillati di saggezza che il pensiero greco avesse realiz­zato.
Il piacere come assenza di dolore veniva ad identifi­carsi con la nozione di vera libertà: in opposizione alla pseudo-libertà del linguag­gio politico, che nella visio­ne lucreziana dell’epicurei­smo, è unicamente fonte di inutile ed esasperante dolo­re (il politico è, da Lucre­zio, assimilato a Sisifo).
Nelle Tusculane Cicerone si dice molto preoccupato per il diffondersi dell’epicu­reismo «in tutta l’Italia». E denuncia le traduzioni lati­ne che stanno diffondendo il pericoloso verbo. Fa an­che dei nomi di tali tradut­tori (Cazio e Amafinio), le cui opere non ci sono giun­te, diversamente dalla «tra­duzione », se così possiamo chiamarla, di Lucrezio, che — ironia della storia — fu poi pubblicata postuma pro­prio da Cicerone! (Prova non trascurabile dell’attra­zione, anche rispetto ai non adepti, di quella idea asceti­ca del piacere). Ufficialmen­te Cicerone mostrava allar­me. E ciò si spiega. Se molti si fossero convinti che il pia­cere è assenza di dolore, e che fonte di dolore è la fero­ce lotta politica, un vulnus non lieve ne sarebbe venu­to allo stile di vita e al fun­zionamento stesso della Re­pubblica, ma anche delle in­numerevoli realtà munici­pali.
Il piacere del libro era fre­quentato dalle classi alte. Come si ricava da Ovidio, ma anche dalla pittura pompeiana, anche le don­ne leggevano. E un tale pia­cere poteva conseguirsi non soltanto individual­mente, in solitario raccogli­mento, ma anche nel rito collettivo della pubblica let­tura, della declamatio. Pli­nio il giovane racconta che un giorno l’imperatore Claudio passeggiando nel proprio palazzo udì un gran rumore. Chiestane la causa, apprese che lo stori­co Noniano stava dando let­tura pubblica della sua ope­ra. Lasciò ogni occupazio­ne e si affrettò ad andar lì anche lui, «cogliendo piace­volmente di sorpresa l’as­semblea con la sua presen­za ». Oggi però — seguita Plinio — la scena è cambia­ta. Gli ascoltatori si raccol­gono a chiacchierare nelle pubbliche piazze, mentre invece dovrebbero stare in sala ad ascoltare. Ma han­no ormai una loro tecnica: mandano uno schiavetto a sbirciare a che punto è l’oratore, e si regolano per farsi vedere al momento giusto. Il grande diletto mentale della lettura stava ormai cambiando natura. Ma Adriano lo rimise in au­ge, e destinò un intero edi­ficio a tal fine: l’Ateneo, che era un piccolo teatro, da lui creato a sue spese, per rilanciare, come infatti per qualche tempo accad­de, la pubblica lettura.

Liberazione 25.9.09
Bodo Ramelow Capolista della "Linke" in Turingia e candidato governatore
«Basta guardarsi allo specchio! Il compito della sinistra è unire»
intervista di Matteo Alviti



Erfurt. «Sì, non è stato affatto facile fare quello che ho fatto». Bodo Ramelow, capolista candidato governatore della Turingia è finito in un mare di critiche, la scorsa settimana, dopo aver annunciato di voler fare un passo indietro per permettere la formazione del primo governo rosso-rosso-verde della storia tedesca. Soprattutto Gregor Gysi, capogruppo della Linke in parlamento, ha risposto molto duramente. Bodo Ramelow. Alcuni lo definirebbero un Realo, un realista moderato, «cosa che ritengo assurda», dice: «Mi considero un uomo che sta in mezzo alla vita e nonostante ciò crede nei suoi sogni radicali». 

Lunedì c'è stato il primo incontro con Verdi e Spd, ieri ancora si è parlato di contenuti. Ma subito Spd e Verdi hanno posto la questione simbolica della condanna della Ddr e hanno imposto come condizione per una discussione l'allontanamento di Ina Leukefeld, della Linke, per il suo passato di collaboratrice informale della Stasi. Come vanno le trattative?

La questione Leukefeld è simbolica, non riguarda la persona, che è stata eletta per due volte, direttamente. Ora, un democratico dovrebbe anche accettare che sia la popolazione a decidere, e non la dirigenza di un partito. La cosa si può risolvere. Ci sono alcune questioni che devono assolutamente essere discusse, coma la Ddr, la dittatura del proletariato, e ciò che in nome di questa dittatura è stato fatto: cancellazione dei diritti umani, giustizia politica, che non doveva mai essere indipendente dal comitato centrale, pena di morte. Non c'è idea in nome della quale si possa distruggere lo stato di diritto. Ci sono delle cose su cui ogni essere umano deve poter contare: l'indipendenza della giustizia, il diritto a spostarsi. Questo è il tema generale da affrontare e su cui si può trovare un accordo, a venti anni dalla caduta del muro, dalla rivoluzione morbida. Ma c'è poi un altro problema, e cioè che la Spd non ci vuole concedere i suoi stessi diritti. In Germania avremo una nuova politica solo quando ai tre partiti della sinistra saranno concessi gli stessi diritti.


Kurt Korschewsky, capo della Linke in Turingia ha detto che la questione del suo ritiro non era stata discussa nel partito. Come è arrivato a quella decisione e perché non ne ha parlato prima?

Il partito mi ha candidato come capolista e governatore. Ma il governatore non viene eletto direttamente: abbiamo un sistema parlamentare. Ho vinto le elezioni, ma non abbiamo la maggioranza assoluta. Devo tenere in considerazione il fatto che Verdi e Spd prima delle elezioni hanno detto che non mi avrebbero mai votato. Se vogliamo governare insieme bisogna quindi trovare un candidato che possiamo sostenere tutti e tre. E io non volevo mettermi di traverso. Ho detto chiaramente che voglio diventare ministro e vicegovernatore. E voglio avere nelle commissioni anche il voto decisivo del mio partito. Voglio avere influenza sulla politica, non ridurla alla mia persona. Il partito di cui faccio parte non è un'associazione per la mia elezione.


Gysi dice che fare un passo indietro da parte sua farebbe perdere credibilità alle prossime candidature: perché votarli se tanto poi non diventano governatori?

Non mi diverte il fatto che lo pensi. Ma ho parlato a lungo con Gysi di questa eventualità, senza lasciare dubbi su come mi sarei comportato e sul perché avrei proposto una terza persona. Lui non lo accetta. E la questione è spinosa, perché lui non è il presidente del partito. E' capogruppo in parlamento. Possiamo discutere, ma non mi lascio comandare. E' anche una questione di principio: sono le regioni a decidere. Abbiamo deciso per un cambio di politica, che per noi è importantissimo, più importante dell'identificazione di un partito in una persona. Poi c'è una ragione storica: io sono stato il primo candidato governatore in assoluto nel nostro partito nel 2004, e poi ancora nel 2009. So come si vincono le elezioni. Accusarmi di rovinare la credibilità del partito non ha senso.


Ha parlato di una "nuova politica": cosa vuol dire?

Osare più democrazia. Dare più responsabilità alla popolazione stessa. Avere più coraggio. E cioè che certe decisioni fondamentali non vengano prese dal comitato centrale o in parlamento, ma direttamente dalla popolazione. Non pensare che la casta politica possa fare tutto meglio. Osare più democrazia e più politica, una frase che Willy Brandt pronunciò in parlamento il 28 ottobre di 40 anni fa. 

Ho avuto l'impressione che le critiche ricevute abbiano più a che fare con la politica nazionale.

Sul piano locale alcuni nostri elettori e funzionari di partito "classici" sono scioccati: si aspettavano che io diventassi governatore. Ma non ho alcun diritto costituzionale al posto. Nemmeno il discorso del partito più forte è appropriato, perché la Cdu ha avuto più voti di noi e toccherebbe allo sconfitto Dieter Althaus governare. Noi vogliamo mettere la Cdu in minoranza e per questo bisogna avere il coraggio di un'alleanza a tre, che non può funzionare se il più forte dice solamente: io sono il più forte. Questo è il dilemma cruciale: quale ruolo devono avere i partiti in futuro, quali devono essere le loro direttive e cos'è la sinistra in Europa. Dobbiamo discuterne perché il panorama è disastrato: sindacati di sinistra non più in grado di agire, partiti che si dividono. E il neoliberalismo, che ideologicamente ha perso, è in piena fioritura sui mercati finanziari. Bisogna capire come creare le maggioranze per mettere un vero punto al capitalismo finanziario, per rafforzare lo stato sociale.


In che modo il primo governo rosso-rosso-verde in Turingia potrebbe influenzare la politica nazionale?

In Turingia abbiamo tre temi della massima importanza. Il primo è l'educazione, in senso ampio, per cui vorremmo confrontarci con la tradizione degli ultimi 100 anni per arrivare a una riforma senza precedenti dell'istruzione statale, che offra vere chance, gratuita, contro la logica finanziaria per cui tutto deve avere un costo. Il secondo punto è una riforma dell'amministrazione, troppo pesante e costosa per un Land come il nostro. Ma per la riforma serve l'aiuto dei dipendenti, perché loro sanno meglio di chiunque altro dove le cose non funzionano. Il terzo punto è l'energia: siamo il Land che importa più energia e vogliamo colmare la differenza tra produzione e importazionesfruttando le fonti rinnovabili. La Turingia produce più moduli solari di tutte le altre regioni tedesche ma sui tetti di proprietà pubblica quasi non ci sono impianti. Vogliamo sviluppare il tema della mobilità elettrica insieme con la fabbrica Opel di Eisenach. Verdi e Spd hanno detto cose simili. Su questi tre temi e sulla questione di osare più democrazia si potrebbe lavorare insieme. Sul piano nazionale dobbiamo raggiungere prima una chiara maggioranza al Bundesrat, la camera delle regioni, ora controllata dal centrodestra. Regione per regione dobbiamo conquistare il consenso necessario per cambiare maggioranza e aprire una nuova stagione politica orientata alla giustizia sociale.


Cosa impedisce alla Linke di cercare già ora un dialogo con l'Spd?

L'incapacità dei socialdemocratici di riconoscere quello che di sbagliato è stato fatto con Schröder, e di assumersene la responsabilità politica. Perché decine di migliaia di persone hanno abbandonato il partito e sono ora membri della Linke? Ma chi oggi rappresenta la Spd non ha intenzione di riconoscere che per esempio l'introduzione del sussidio di disoccupazione Hartz IV conteneva anche errori ideologici, che l'intervento in Afghanistan è stato un errore.


Tutta colpa della Spd o anche la Linke ha qualche responsabilità?

Una parte del partito dice di non voler governare mai e dunque spinge le rivendicazioni sempre più in alto, invece di cercare di migliorare la vita delle persone. Con simili rivendicazioni si può anche fare una gran figura, ma il "vicino di casa" non ne guadagna niente. Qui nel palazzo della regione, dove ci siamo incontrati oggi, il guardiano guadagna tra 4,70 e 5,40 euro all'ora. Per lui 10 euro di salario minimo sono utopici, non ci prende sul serio, dice: «Mi piacerebbe arrivare ai 7,50 che chiede il sindacato». Allora iniziamo con 7,50 e poi cerchiamo di migliorare la situazione. E' un processo, non una cosa che si può decidere con una votazione del comitato politico. Qui sta l'ostacolo della sinistra, che spesso è troppo innamorata di sé: analizza la società, vede che fa schifo, e propone dei cambiamenti che la trasformerebbero nel paradiso. Non funziona. Riusciamo a spostare la Spd sul piano sociale dove siamo visibili quotidianamente, dove la gente ci prende sul serio. Dove abbiamo il 5% dei voti possiamo chiedere pure 15 euro di salario minimo. Qui in Turingia siamo forti, quasi come la Cdu, e l'Spd è un piccolo partito. Dobbiamo fare una politica che arrivi fino agli elettori conservatori, che stia dentro i problemi quotidiani della gente, parlare dei 5,40 euro del portiere o dei 3,80 che guadagna la parrucchiera, invece dei 10 o 15. Comunque il segreto della forza del nostro partito è che al suo interno possiamo convivere io e Sahra Wagenknecht (della corrente comunista, ndr): lei può ispirarsi a Marx e Engels, io alla Bibbia e arriviamo però alla stessa conclusione, cioè che questo paese deve essere più sociale. Del resto l'aveva detto Adolf Grimme, famoso socialdemocratico della Repubblica di Weimar: "Un socialista non deve essere cristiano, ma un cristiano deve essere socialista". Dobbiamo tornare alle radici della nostra tradizione, del movimento dei lavoratori, quando socialismo, marxismo e cristianesimo avanzavano insieme.


Lei nel 2005 è stato responsabile della campagna elettorale nazionale. Qual è la differenza principale nelle vostre campagne a est e ovest?

A ovest abbiamo molti meno soldi e persone. Nel sud della Baviera cattolica ci sono più more che elettori della Linke. Bisogna dunque pensare a come organizzare eventi nelle grandi città e piazzare cartelloni sulle strade statali. Non abbiamo le risorse degli altri e dobbiamo scegliere. Siamo anche contenti che la Siemens o la Bosch, o il mondo finanziario non ci finanzino come fanno con gli altri quattro partiti. In Turingia invece siamo un partito popolare, il che vuol dire che dobbiamo essere presenti dappertutto, fin nei più piccoli paesi. Dobbiamo tenere in equilibrio i due poli, a est, dove siamo molti forti, sopra il 20%, e a ovest, dove abbiamo magari l'8%: un partito popolare che può governare, da una parte, e d'opposizione dall'altra. La Linke vive di questo equilibrio tra riformismo e radicalismo, tra est e ovest. Prima, nella Pds, il 90% dei candidati veniva dall'est, oggi abbiamo cercato di equilibrare artificialmente la situazione riducendo al 60% i delegati dell'est, perché la maggioranza della popolazione vive all'ovest. Con lo Schleswig-Holstein, domenica prossima, saremo in 12 parlamenti regionali su 16. Se a livello nazionale cresceremo dall'8,7% al 9, 10 o 11% allora il paese potrà diventare più sociale. Nonostante la stampa faccia campagna elettorale con l'unico cretino tra le nostre fila che dice di aver visto un ufo o che parla della libera sessualità con i minori.


Una bella scommessa. Si può partire dalla Turingia?

Non ho fatto quel che ho fatto per fare arrabbiare qualcuno, ma per rendere possibile una diversa forma politica. Ci vuole un nuovo segnale per la Germania, per lo sviluppo di una nuova politica che superi lo schema amico-nemico e il pensiero a compartimenti stagni. Il problema principale è "unire", non dividere. Il contrario, mi dispiace dirlo, di ciò che fanno i nostri amici in Italia.

Liberazione 25.9.09
Franceschini si riscopre "laico" ma solo per risalire la china nelle primarie
Ru486, testamento: Pd e destra si dividono ma per altri fini

di s.b.


Le agenzie di stampa raggruppano le dichiarazioni in un'unica voce: bioetica. Mettono insieme temi drammatici, laceranti, che dividono le coscienze. Ma se poi si vanno a leggere quelle dichiarazioni, ci si accorge che lì, di tutto si parla, meno che di quei temi. Il testamento biologico, la ricerca sulle staminali e addirittura un'indagine sulla pillola del giorno dopo: tutto diventa strumento per battaglie intestine ai due principali partiti. Popolo delle libertà e democratici. Uguali, esattamente uguali nei loro comportamenti.
Quel che avviene in casa piddì, magari, è più clamoroso. I fatti sono noti: una delle senatrici teodem, Dorina Bianchi, ha votato sì alla proposta della destra di istituire una commissione d'indagine sulla "Ru486". Indagine che ha lo scopo dichiarato di boicottare l'uso della pillola. Ha detto di sì e ha accettato di fare da relatrice in commissione. Un incarico che però non porterà a termine. Appena si è sparsa la notizia, il segretario Franceschini ha spiegato che una "commissione d'inchiesta" non rientra nei casi in cui ci si può appellare alla libertà di coscienza. Per cui il gruppo piddì di palazzo Madama avrebbe dovuto discutere e prendere una decisione. Anche a maggioranza, decisione alla quale avrebbero dovuto attenersi tutti i senatori. Una sorta di recupero del centralismo democratico di antico conio.
Il voto nel gruppo, alla fine però è stato evitato. Perché, messa alle strette, la senatrice s'è dimessa. Ma il clima di scontro non s'è placato. E i battibecchi sono proseguiti, appunto, a colpi di dichiarazioni. S'è così saputo che la capogruppo dei democratici, Anna Finocchiaro, in realtà era arrabbiata con la destra. Con la quale aveva un patto in base al quale il voto per istituire la commissione sarebbe dovuto slittare di un mese. Il tempo che il piddì concludesse il suo congresso. Anche lei, insomma, voleva prima capire come si mettevano le cose in casa sua e poi avrebbe deciso cosa fare della "Ru486".
E ancora. Molti sono rimasti sorpresi dalla reazione laica di uno come Franceschini. Ma poi, anche qui, si è saputo che non è tutto oro quel che luccica. Nelle affermazioni del segretario, insomma, hanno pesato quasi solo le valutazioni sulle primarie. Perché gli ultimi dati raccontano che Bersani è molto al di sopra del 50 per cento, Franceschini lo insegue distaccatissimo. Così lo staff del "perdente" avrebbe pensato di recuperare qualcosa strizzando l'occhio alla base elettorale di Marino, la più "laica". In vista soprattutto dell'ultima domenica di ottobre, quando saranno chiamati a votare gli elettori piddini e non più solo gli iscritti. Manovra che comunque non appare indolore, tant'è che ieri Marino ha rilanciato: «Occorre rivedere le rigidità della legge sulla morte cerebrale».
Del resto, che le cose non siano state risolte con le dimissioni della Bianchi, lo rivelano anche i commenti di ieri. La stessa protagonista della vicenda dice che «ha accettato di fare quel passo» per carità di patria ma che ormai «quello non è più il partito che immaginava». E tutto fa capire che con Rutelli ed altri stanno pensando ad una exit strategy.
Ma se il piddì è sull'orlo di una crisi di nervi, le cose non vanno meglio nella maggioranza. Stavolta la tensione non è provocata da una delle dichiarazioni di Fini. Che per ora «incassa» il successo bipartisan sulla proposta di abbreviare i tempi per la cittadinanza e annuncia che lavorerà per garantire libertà di coscienza sui temi del testamento biologico. Il problema, in queste ore non è lui. La tensione viene, invece, dal «fronte» della Lega. Pure qui, le vicende sono note e si possono riassumere in due parole: un mese fa, nei giorni della strage dei migranti, fra Bossi e la Chiesa - che denunciava l'atteggiamento inumano del governo italiano - sembrava maturata una spaccatura irricomponibile. Invece Bossi sta lavorando a ricomporla. Come? In un incontro riservatissimo col cardinal Bertone, il leader del Carroccio avrebbe preso l'impegno a «non modificare» il testo sul testamento biologico che sta per arrivare alla Camera. Bossi, insomma, avrebbe garantito che qualsiasi idea - fosse anche "sponsorizzata" dal Presidente della Camera - di introdurre un emendamento che garantisca l'"autodeterminazione" del paziente, sarà stoppata dalla Lega. Sarà il Carroccio, dunque, a fare da portavoce alle istanze del Vaticano. Ma così facendo la Lega si mette in diretta concorrenza con altri pezzi della maggioranza. E mette in difficoltà lo stesso premier che pare, abbia preso l'impegno con Fini a trovare una mediazione sullo spinoso argomento. Ma questo nuovo atteggiamento del Carroccio probabilmente è il "prezzo" che Bossi deve pagare per non avere problemi in campagna elettorale. Le questioni legate alla bioetica, però, c'entrano davvero poco.