Bertinotti avverte Fassino:
quando saremo al governo no a spinte neocentriste
«La destra sconfitta proporrà una grossa coalizione
Dino Martirano
ATENE - «Pensiamo piuttosto alle assemblee regionali dell’Unione che dovranno offrire a Prodi gli ingredienti per confezionare il programma. Guardo in questa direzione. E se mi domandate che cosa è successo a Bologna, rispondo citando un vecchio film di Maselli: "Sono un militante del Partito comunista italiano, non ho altro da aggiungere" diceva il protagonista davanti alla polizia fascista».
Ecco, quando sale sull’Airbus che lo porta ad Atene per il congresso della Sinistra europea di cui è presidente, Fausto Bertinotti si sente un po’ come Gian Maria Volontè nel Sospetto di Citto Maselli, in cui il comunista Emilio rientra nel ’32 a Torino per ordine del partito clandestino ma poi cade nella rete dell’Ovra con i suoi compagni perché, probabilmente, qualcuno ha tradito.
Ma non c’è solo la disputa con Cofferati che preoccupa Bertinotti. Lui pensa già alla probabile vittoria dell’Unione e al dopo elezioni. Stavolta ha puntato tutto sulla lealtà a Prodi, non pensa certo a fare cadere il suo governo come nel ’98 ma vede uno scenario fosco, con il Prc emarginato in un angolo della scena politica se «il partito democratico includerà i Ds» e quindi altissime saranno «le tentazioni neocentriste». Parla infatti di uno spettro già visto in Germania, il segretario del Prc, che qui ad Atene vedrà anche Oskar Lafontaine e Lotar Biski della Linke-Pds. Senza di loro i socialdemocratici di Schröder non ce l’hanno fatta a vincere le elezioni ma, non avendo neanche perso clamorosamente l’Spd, ora in Germania governa la grande coalizione di Angela Merkel che suona come un cattivo auspicio: «È la tentazione neocentrista. Anche in Italia la destra sconfitta farà, nel corso della prossima legislatura, la sua proposta di grande coalizione. Chissà se Fassino imparerà a galleggiare più dalla nostra parte piuttosto che nelle acque del centro. L’ipotesi di un partito democratico allargato ai Ds, in Italia manderebbe definitivamente in soffitta la categoria della sinistra».
Ma, in attesa del dopo elezioni, oggi la parola d’ordine è archiviare definitivamente il caso Bologna. «Su Cofferati non dico una parola di più perché la personalizzazione è fuorviante rispetto al tema e non intendo prestarmi ad operazioni strumentali». Bertinotti è gentile ma categorico. È chiaro che gli scotta la frase pronunciata da Cofferati dopo gli scontri di lunedì sotto Palazzo D’Accursio («Bertinotti lo aveva detto, ecco il risultato») e quindi deciso a non giocare a rimpiattino: Constato che ora Prodi ha risolto definitivamente la vicenda. Ecco, leggete!», insiste sventolando l’intervista al Messaggero in cui il professore ammonisce che per risolvere i problemi della legalità più che il pugno di ferro servono «risorse e dialogo».
Ma, prendendo spunto dalla stessa intervista, Bertinotti, allarga il discorso al programma dell’Unione: «Dopo le primarie, Prodi è stato chiaro. Sarà lui a fare la sintesi, però...». Però il professore dovrà tenere conto delle assemblee regionali dell’Unione «affollate di rappresentanti degli enti locali e delle associazioni, che dovranno essere rispettate». Il programma, è il passa parola nel Prc, «è come una torta e piazza SS. Apostoli, sede dell’Unione, è un forno dove ognuno porta gli ingredienti». È c’è da giurarci che ci si sporcheranno le mani perché, usa ripetere Bertinotti, «fare il programma non è come andare a un pranzo a di gala». E se le lungaggini delle assemblee regionali offrissero un altro vantaggio al centrodestra? Risponde il segretario: «Non si illudano, l’accordo sul programma si farà perché con le primarie si è creato un doppio vincolo di fedeltà tra l’Unione e il popolo: il vincolo va mantenuto a tutti i costi altrimenti si rompe tutto».
Corriere della Sera 28.10.05
Rizzo (Pdci): è Fausto che deve guidare la sinistra
Fabrizio Roncone
ROMA - «I tempi sono maturi perché Fausto Bertinotti unisca la vera sinistra del nostro Paese». Marco Rizzo parla al telefono da Strasburgo, dove guida la delegazione dei Comunisti italiani. Ed è ovviamente piuttosto sorprendente che quest’idea sia venuta proprio a lui, a Rizzo, che insieme ad Armando Cossutta fu tra i più determinati, nell’ottobre del 1998, a decidere, a scegliere la strada della scissione dal partito della Rifondazione comunista. Onorevole Rizzo, quando Bertinotti leggerà queste sue dichiarazioni resterà quantomeno sbalordito...
«È vero, non ho mai fatto sconti a Fausto. Sia per quanto riguarda il suo stile sia per certe sue abiure. Ma in politica occorre saper valutare e oggi credo di poter dire che solo lui può compiere il passo necessario per evitare alla sinistra di morire».
Quando le è venuta questa idea?
«Nonostante i miei impegni al Parlamento europeo, cerco di mantenere un rapporto con le piazze e i cortei ed è stato lì, osservando migliaia di persone di sinistra che continuano a sfilare...».
È stato lì che...
«Beh, lì ho capito che, se dovesse davvero nascere quella cosa che potrebbe chiamarsi Ulivo o, come dicono, partito democratico, ecco dentro quella cosa non ci sarebbe comunque più alcun grande partito in grado di rappresentarle: i Ds, ad esempio, sparirebbero di colpo e con loro la storia che si portano dietro...».
Perché ritiene che Bertinotti debba accettare una simile proposta? E perché, poi, proprio ora?
«Con il successo di popolo delle Primarie e con il plebiscito ottenuto da Romano Prodi, Bertinotti è stato di fatto ridimensionato».
Sta dicendo che quel 14,7%...
«Sto dicendo che è impensabile che il mondo dei lavoratori, la larga parte del popolo della sinistra, in una competizione come quella delle Primarie possa aver avuto, sia pur sommando ai voti di Fausto quelli di Pecoraro Scanio e della compagna "Senza Volto", un risultato così modesto».
Rizzo: pensa a un nuovo partito o, piuttosto, a una Federazione che tenga dentro...
«Rifondazione e Comunisti italiani, i Verdi e i movimenti e magari, perché no? anche qualche pezzo di Correntone diessino... Beh, sì, penso a un punto di partenza molto simile a questo. Che, tra l’altro, e questo Fausto non può non intuirlo, farebbe comodo anche a Prodi».
A Prodi?
«Sì, assolutamente. Prodi, per bilanciare un centro a cui, diciamolo, non sta neppure tanto simpatico, non ha bisogno di una sinistra con tanti leader che si fanno tante piccole guerre... Ha invece bisogno di un punto di riferimento unitario».
Ecco, Rizzo: ma di questo suo potenziale riferimento unitario, di questo Bertinotti che guida la sinistra, ne ha parlato anche con Cossutta?
«È Cossutta che ci ha insegnato come in politica l’interesse collettivo debba prevalere sulle questioni e i rancori personali...».
Quanto invece al suo segretario, Oliviero Diliberto?
«Veramente, proprio lui, qualche mese fa, quando pure non c’era la certezza di un cambiamento della legge elettorale, avanzò una proposta analoga. Che poi, ecco, a fare qualche conto dentro questa nostra proposta...».
Cosa si scopre?
«Beh, se facciamo i conti, dentro la nuova aggregazione a cui penso, tra i comunisti di Rifondazione e quelli del Pdci, la Falce e il Martello avrebbe la maggioranza delle idee e degli uomini. E io credo che la questione comunista saprebbe attrarre anche uomini come Giulietto Chiesa, Asor Rosa e, se non avesse deciso di tornare a fare il giornalista, Santoro».
Onorevole Rizzo, come crede che le risponderà Bertinotti?
«Certi treni passano una sola volta. Questa è una grande occasione. Spero che Fausto lo capisca e batta un colpo. Ma è intelligente. Lo farà».
Corriere della Sera 28.10.05
Asor Rosa: Sergio ci ha illusi tutti, in realtà è un moderato Lo storico: «Sta già pensando al ruolo che avrà nel futuro partito democratico»
ROMA - «Ecco, in realtà Sergio Cofferati è un moderato... credo di poterlo dire a posteriori. Ora è un politico totalmente inserito nella linea del futuro partito democratico post-socialista. Lì potrà riprendere un ruolo politico nazionale dopo la vicenda di Bologna». La frase di Alberto Asor Rosa, uomo di sinistra e antimoderato per eccellenza, gronda amara delusione. Dopo i tre milioni in piazza San Giovanni del 23 marzo 2002 sotto il palco di un Cofferati ancora segretario della Cgil, il professore entrò nella squadra dell’uomo che parve il nuovo leader della sinistra (e mai lo diventò). Cofferati gli affidò la sezione cultura della sua Fondazione Di Vittorio. Disse Asor Rosa: «Cofferati più di altri ha sbarrato la strada al disegno conservatore e reazionario». Quello che Asor Rosa oggi vede a Bologna è un altro Cofferati.
Scontro sul concetto di legalità? «No. Per quanto mi riguarda, è difficile che un uomo delle istituzioni di qualsiasi livello si dichiari contrario alla legalità, base del vivere comune».
E allora?
«Ma la sinistra tradizionalmente intreccia alla difesa della legalità, che nell’era berlusconiana assume un particolare valore, la pratica della solidarietà e della giustizia. Nella giunta Cofferati, dalla quale tanto ci si attendeva, pare emersa con prepotenza esclusiva la parola d’ordine della legalità. Isolata dal contesto della giustizia e della solidarietà diventa uno slogan che qualifica tradizionalmente le posizioni della destra».
È un po’ la posizione di Fabio Mussi...
«Già. Il pericolo è che i fenomeni di disordine sociale, espressione che in bocca a me non ha un valore solo negativo, diventino sinonimo di illegalità. Ma c’è una società contemporanea, e Cofferati sembrava saperlo, in cui la legalità applicata con i metodi e lo spirito di un questurino a una larga fascia di fenomeni diventa sinonimo di ingiustizia».
Vuole dire che abbattere i campi irregolari sia roba da questurini? «C’è da chiedersi se alcune azioni del Comune di Bologna davvero non siano più di competenza dello Stato, delle forze dell’ordine. La politica, soprattutto oggi, è un fatto di immagine. Se si spinge l’acceleratore su certe azioni piuttosto che su altre, inevitabilmente ci si caratterizza. Anche in modo clamoroso»
Rosy Bindi si è lamentata: Sergio, perché hai cominciato dai lavavetri? «Ha ragione. Mesi fa sono stato ospite di un circolo bolognese di periferia... un sacco di gente. Molti elettori di Cofferati lamentavano ritardi sulla caratterizzazione sociale della giunta. Forse, dicevano, prende tempo per risolvere i problemi. Sono passati i mesi e la giunta Cofferati è arrivata sulle prime pagine. Ma non perché abbia aperto altri venti asili nido o risolto i problemi dei più disagiati. Ma per un problema di per sé stupido come gli sgomberi o i lavavetri».
Tanto stupido non deve essere se gli stessi elettori di sinistra si sentivano assediati dai clandestini...
«A Roma è accaduto lo stesso fenomeno che inevitabilmente ha colpito le fasce della popolazione meno ricche, lontane dal centro. Ma i metodi di intervento e la predisposizione di un apparato di sostegno agli sgomberati hanno svelato una politica ben più accorta».
Cosa pensa riguardando la sua agenda del 2002, riflettendo sul suo sostegno a Cofferati?
«Ci ho pensato a lungo. C’è stato un momento in cui diventò il riferimento della sinistra che non si riconosce nel riformismo moderato. Poi l’esperienza finì nel nulla: lui si ritrasse senza spiegazioni logiche. Ecco la mia. Il vero Cofferati è un moderato. Ha lasciato intendere che poteva diventare qualcosa di diverso. Poi...».
Qui il professore sorride:
«...Poi si è accorto che si sarebbe ritrovato accanto a pericolosi estremisti come Asor Rosa, Rossana Rossanda, persino Luciano Gallino... Allora ha capito che la sua naturale vocazione era un’altra».
Scelta strumentale?
«No. Nessuna manovra machiavellica. Semplicemente non era la sua vocazione».
Ma c’è chi avverte, per esempio Il Riformista : senza legalità la sinistra perde.
«Ma la sinistra non è il centrosinistra. La sinistra non è il partito democratico. La sinistra modernamente cerca l’equilibrio tra legalità, giustizia, solidarietà. Non esiste cioè solo una società "illuminata" ma moderata che vuole spazzare via i lavavetri e lo vede come compito fondamentale di un governo progressista. C’è insomma un’altra fetta della società italiana. E la pensa come dico io...».
Corriere della Sera 28.10.05
Il Festival della scienza a Genova con il patrocinio dell’Unesco
Nasce la Città della parola
Ogni anno scompaiono dal mondo 235 idiomi
Giovanni Caprara
GENOVA - Sarà un museo singolare, mai creato finora in alcun continente, forse per l’arditezza dell’idea e la vastità dell’operazione. Ma ora nella fucina del Festival della scienza, aperto ieri a Genova e che con un fuoco d’artificio di 250 iniziative tra conferenze, incontri, mostre, spettacoli trasformerà per due settimane il capoluogo ligure in una capitale scientifica, la grande ambizione inseguita da tempo sta prendendo forma e si chiamerà «Città della parola».
Il progetto, già dettagliato nei contenuti, verrà formalmente presentato a Parigi, all’Unesco, ente patrocinatore, nel febbraio prossimo durante la giornata della lingua. «Come ci preoccupiamo giustamente della protezione delle specie biologiche - spiega Vittorio Bo, direttore del Festival e «padre» della nuova iniziativa - è giunto anche il momento di preservare pure la molteplicità linguistica alla quale è legata l’identità delle popolazioni e la straordinaria storia dell’avventura umana».
Oggi sulla Terra si parlano 5.500 idiomi diversi, senza contare i dialetti, i gerghi o le lingue sacre. Ma tale inestimabile patrimonio di cultura si impoverisce progressivamente perché ogni anno 235 lingue scompaiono irrimediabilmente (tra cui quelle parlate dai boscimani, dai pigmei e da alcuni indios dell’Amazzonia). Che ciò accada è conseguenza del fatto che oggi l’80 per cento dei linguaggi non riesce a «comunicare»; cioè i gruppi di persone che li esprimono non interagiscono con il mondo esterno e finiscono col dissolversi.
Ma la «Città della parola» non si propone soltanto la protezione delle lingue in via di estinzione, e punta invece, proprio nell’epoca dei segni e delle parole globali, a recuperare il senso dell’origine e della ricchezza dei linguaggi nelle loro variazioni e distinzioni.
Per questo il museo sarà organizzato in tre parti distinte. Una, permanente, che raccoglierà in modo stabile codici di ogni genere, presenterà le migrazioni e le trasformazioni, ne analizzerà le relazioni con gli strumenti (dal papiro al computer) arrivando anche a considerare le espressioni specialistiche in cui la parola si articola comprendendo dal gergo scientifico a quello giuridico.
Una seconda parte avrà una caratteristica temporanea ospitando mostre capaci di presentare forme diverse di linguaggio, comprendendo dall’arte al giochi enigmistici. E sempre in questo ambito sorgerà una sorta di «università della parola» per formare specialisti e indagare i rapporti fra le lingue.
La terza parte, infine, della «Città» sarà costituita da un archivio che costituirà la base per ogni tipo di ricerca. Proprio per dare corpo all’iniziativa, il Festival della scienza genovese quest’anno ospita due incontri dedicati all’argomento con illustri linguisti europei, americani e russi. Tra questi c’è Luisa Maffi esperta canadese di origine italiana che a Washington dirige il centro per la conoscenza delle lingue e che sarà coinvolta nella realizzazione del progetto genovese.
La «Città della parola» è, ovviamente, un’impresa internazionale e alla sua gestazione collaborano già oggi cervelli di grande fama come il francese Claude Hagège.
La sede del suo insediamento non è ancora definita e potrà essere da Venaria Reale (vicino a Torino), a Genova, a Milano.
Il raggio d’azione delle attività comprenderà l’Italia estendendosi poi all’Europa e ad altri continenti.
La Stampa 28.10.05
Recensione dell’autobiografia di Susanna Kaysen
La linea sottile tra salute mentale e pazzia
Il malessere di essere «interrotti» quando si hanno 18 anni
Gaia Berruto
«La ragazza interrotta» è un testo autobiografico.
L'autrice racconta i ventiquattro mesi della sua adolescenza trascorsi all'interno di una clinica psichiatrica.
La narrazione della Kaysen risulta spontanea e priva di un ordine cronologico.
Il testo è suddiviso in capitoli slegati fra loro, che descrivono fatti, trascrivono cartelle cliniche, esprimono opinioni circa le cure somministrate e riflettono con lucidità a proposito del significato del termine «pazzia».
La gente ti chiede: come ci sei finita?
«In realtà, quello che vogliono sapere è se c'è qualche probabilità che capiti anche a loro. Non posso rispondere alla domanda sottintesa. Posso solo dire che è facile». (pagina 7).
La Kaysen racconta la sua storia cercando di essere obiettiva e scientificamente precisa, per poi abbandonarsi a lunghe provocazioni di natura filosofica.
Le sue parole investono il lettore che più di una volta dovrà fare i conti con la sua personale idea di sanità mentale e metterla in discussione.
Cos'è in fondo la normalità? E cosa la pazzia?
In un periodo di agitazioni sociali come la fine degli anni '60 per internare una diciottenne in una clinica psichiatrica basta la frase: «incertezza su diversi aspetti della vita, come ad esempio: immagine di sé, identità sessuale, obiettivi a lungo termine o scelte professionali…»?
Sconvolge la puntigliosità con cui l'autrice tratta il tema della sua presunta anormalità.
Richiede con l'aiuto di avvocati la sua cartella clinica e la studia, valutando ogni scritto, ogni commento clinico, quasi a volersi impossessare del sapere per dominare la sua malattia, o meglio valutare se realmente fu vera malattia.
Quasi a voler sedare l'angoscioso timore di essere pazza con l'aiuto della consapevolezza.
Si legge: «C'è chi dice che avere un'idea chiara sull'argomento è segno di salute mentale (pagina 149).
Nella scelta del titolo la Kaysen si collega alla celebre tela di Veemer «Ragazza interrotta mentre suona».
L'autrice denuncia il malessere dell'esser stata «interrotta» nel periodo di crescita, come se i medici avessero bloccato il flusso dei suoi diciotto anni in quella clinica allo stesso modo del pittore, che fissa su tela un momento preciso nella vita della giovane pianista.
Il libro ha avuto gran fortuna negli Stati Uniti d'America grazie soprattutto alla trasposizione cinematografica voluta da Winona Ryder, protagonista della pellicola insieme ad Angelina Jolie, la quale vinse l'Oscar come attrice non protagonista per l'interpretazione di una paziente della clinica.
La Stampa 28.10.05
Un dato allarmante sulla diffusione della malattia
Ottocentomila piemontesi nella morsa della depressione
In Piemonte 800 mila persone soffrono di depressione: praticamente una città dalle dimensioni di Torino. Ma la sofferenza non colpisce solo loro: 2 milioni, fra uomini e donne, amici o parenti dei depressi, vivono indirettamente nella nostra regione le conseguenze di questa malattia.
Numeri allarmanti, forniti dall’Associazione per la ricerca sulla depressione, che faranno da sfondo domani al convegno «Depressione e informazione» organizzato dalle 9,30 alle 12,30 (ingresso libero), all’Unione Industriale di via Fanti 17.
I numeri dicono che il problema è più esteso di quanto s’immagini, e dicono anche che per il 65 per cento di chi vive nella morsa, «l’informazione sulla malattia è scarsa», che il 93 per cento di chi entra in farmacia «confonde termini come ansiolitici, antidepressivi e antipsicotici», e che una persona su due che chiede un ansiolitico «lo fa su consiglio di amici o parenti che hanno provato quel farmaco».
La depressione è una mina in agguato in ogni cambiamento significativo della nostra vita: l’adolescenza, l'età della pensione, una malattia improvvisa. «Molti - spiega il presidente dell’associazione, Salvatore di Salvo - sono ancora i pregiudizi su questa malattia». Innanzitutto: «Per guarire basta uno sforzo di volontà». Oppure: «Prendere farmaci fa male, meglio aspettare che tutto passi». «Convinzioni errate, che producono una pericolosa sottovalutazione del disturbo, e che alimentano un altro rischio: l’insofferenza verso chi soffre».
Solo una persona su quattro, infatti - lancia l’allarme il dottor Di Salvo - accede alle terapie corrette, proprio perché le barriere del pregiudizio s’interpongono fra chi soffre di questi disturbi e chi dovrebbe curarli.
il manifesto 28.10.05
La madre dopo il patriarcato
di Ida Dominijanni
«L'ordine simbolico della madre» quindici anni dopo, il femminismo come terapia politica dell'isteria, l'ombra del negativo nei rapporti fra donne, la differenza nel pensiero politico. Intervista con Luisa Muraro, che oggi si congeda dall'università con una lezione a VeronaLuisa Muraro lascia l'università e pronuncia oggi nella Facoltà di filosofia dell'ateneo di Verona quella che in gergo accademico si chiama lectio magistralis, ma che la pratica di Diotima, la comunità filosofica femminile da lei e altre fondata in quello stesso ateneo nell'84, renderà un'occasione di discussione politica. Non per caso la lezione si tiene all'interno del «grande seminario» di Diotima di quest'anno, un ciclo intitolato «L'ombra della madre», e non per caso consisterà in una retractatio, una ri-trattazione, de L'ordine simbolico della madre, un notissimo libro pubblicato da Muraro nel `91 che è stato e resta cruciale per il pensiero della differenza sessuale. «Più che nella mia opera - ha scritto di sé una volta Luisa - ho sempre confidato nel contributo di chi la legge. Più dell'argomento, per me ha sempre contato l'ordine simbolico che è e che fa la scrittura». Ne L'ordine simbolico della madre di questo precisamente si trattava: dell'ordine simbolico che la lingua materna - ovvero la capacità di tenere insieme corpo e parole, esperienza e linguaggio che impariamo nella relazione primaria con la madre - sa fare. Un ordine rivoluzionario, giacché la relazione figlia-madre è cancellata nell'ordine patriarcale; e imparare a praticarla nella vita adulta, sostituendo all'avversione la gratitudine per la madre e per le altre donne che ne continuano l'opera, apre lo spazio per la dicibilità dell'esperienza femminile, altrimenti sottoposta all'adeguamento alla norma e al potere maschile. Questo in estrema sintesi il nocciolo del libro, che dunque metteva al centro del discorso non il materno inteso come qualità etica o psicologica, ma la relazione con la madre come forma simbolica, generatrice di forme sociali improntate alla mediazione linguistica più che alla legge.
L'ordine simbolico della madre è stato un libro importante ma controverso. Molte controversie, io penso, derivano dal fatto che questo nocciolo formale è stato invece scambiato per un nocciolo sostanziale; come se la proposta del libro consistesse nella riproposizione del modello materno e delle sue qualità, invece che nella costruzione di una genealogia femminile che è forte proprio in quanto sa contrattare con la madre e le altre donne in presenza di disparità e conflitti...
Il libro tenta di far interagire con i discorsi filosofici un vissuto di donna, quello della sua relazione con la madre, non previsto nella tradizione filosofica, anzi tacitato ed escluso. Francesca Solari (la regista di Addio Lugano bella) parlerà di un'opera «terapeutica», in quanto mette in comunicazione quello che la nostra cultura separa. Come dici tu, ad alcune è piaciuto molto e ad altre è dispiaciuto molto. C'entra sicuramente l'equivoco che segnali, a valle, ma a monte c'entra un'altra cosa, io credo, che il libro fa una scommessa, senza vincerla, e chiede a chi lo legge di entrare nel gioco. Quello che ha contato dal primo momento, per me, era la società femminile che si stava formando: questo libro era rivolto specialmente alle donne perché prendessero su di sé il mio tentativo nel suo insieme, compresa la parte non riuscita, compresa la parte a me stessa oscura. Molte lo hanno fatto e continuano a farlo (il libro si legge ancora, si traduce e circola), ma altre, specialmente fra le pensatrici di professione, no. Io ne ho dedotto che non volessero partecipare al gioco, forse perché non ci vedevano il loro guadagno, forse perché non avevano capito (come supponi tu), forse perché avevano capito e non erano d'accordo... Ci sono tante ragioni per cui la moglie di Lot volge la testa indietro.
Altre sostengono che il libro propone un ordine della madre simmetrico, parallelo e perfino mimetico, nella sua verticalità, rispetto a quello del padre. Personalmente sono convinta di no: leggendo L'ordine simbolico della madre in sequenza con Maglia o uncinetto, penso che si tratti piuttosto, per dirlo con una formula, di un ordine della metonimia, cioè della contiguità fra corpo e linguaggio, esperienza e dicibilità, che taglia, non imita, l'ordine metaforico dell'astrazione proprio della legge del padre. Ma se è così, perché l'interpretazione "simmetrica" ha avuto tanto spazio?
Hai messo il dito nella piaga, la questione della asimmetria tra i sessi. Definita con le parole di una psicanalista che ha scritto poco e che ammiro molto, Sigrid Günzel, la asimmetria la dà il fatto che per la bambina il primo oggetto d'amore è dello stesso sesso, non così per il bambino. Nelle culture in cui la relazione gerarchica e complementare tra donna e uomo è diventata insostenibile, nella nostra cultura dunque, la tendenza dominante è di cancellare quella asimmetria. Si è arrivati a farne un sinonimo di disuguaglianza e discriminazione antifemminile. Verso questo esito di concellazione convergono il diritto, la scienza, il femminismo di stato e anche una parte del femminismo autonomo. Quando ho scritto L'ordine simbolico della madre avevo un senso molto marcato della asimmetria tra i sessi, ma non l'ha tematizzata. Oggi, ovviamente, lo farei. Ma non cambierei la posizione che traspare nel libro: io continuo ad associare strettamente quella che sono al privilegio di essere nata dello stesso sesso della madre.
Nel libro il padre quasi non c'è, e qui per me comincia qualche problema. Perché non c'è? Per ragioni biografiche, per tua scelta o per tua rimozione? Oppure il libro rispecchia una rimozione collettiva, una certa onnipotenza della relazione fra donne che pure abbiamo attraversato? Secondo me, però, un ordine simbolico della madre in cui non c'è posto per il padre, e per l'amore per il padre che è anch'esso un dato dell'esperienza femminile, è un ordine simbolico mancante, un ordine che non ordina la relazione con l'altro e con la legge dell'altro.
Il padre quasi non c'è perché io non ho trovato in me una figura paterna alla pari con quella materna, per forza simbolica: credo di appartenere a quella categoria di donne e uomini che sviluppano una certa creatività ignorando la figura paterna, e mi piace pensare che Einstein, che faceva le boccacce a sessant'anni passati, sia uno di questi. Quando nel libro compare, il padre è l'uomo che si affianca a una donna e alla sua maternità, e che lei indica ai suoi figli: questo è vostro padre. È troppo poco? Sì, riconosco che manca tutta la parte di rapporto diretto tra quell'uomo e i figli e della donna, che grazie a lei sono diventati anche i figli di lui, con tutte le differenze che entrano in gioco, in primis quella sessuale che tu richiami: è vero, c'è un amore femminile del padre. Ma tutto quello che si può dire oltre a questo, per me, rientra nell'ordine patriarcale. In altre parole, io non trovo nessuna ragione per difendere la necessità di padre, dell alegge del padre, pur ammettendo che un uomo, gli uomini possano invece avere questa necessità. Sono d'accordo con te che un simbolico materno che esclude ogni altro amore, ogni amore dell'altro, sarebbe gravemente difettoso, ma non penso che questo «altro» debba essere il padre. Non dimentichiamo che, sotto la legge del padre, le donne non avevano senso per sé stesse, ma solo in funzione di dare figli a lui, come dice bene sant'Agostino e come si è continuato a dire con i cognomi patrilineari. Fuori da questa funzione, le donne o perdevano valore o perdevano la loro differenza per essere assimilate a uomini.
Tuttavia, io non sono contro la paternità, anzi. Sono contro le teorie della sua necessità, ma sono favorevole per più motivi alla possibilità della figura paterna. Ai motivi già detti (essere di aiuto alla donna che diventa madre), aggiungo quello che porti tu, l'amore femminile del padre (ma noi sappiamo che, se una donna si gioca l'amore del padre contro la madre, è perduta), e quello, per me principale, che la paternità responsabilizza e gratifica gli uomini che si affiancano alle donne nella cura della vita, dà loro modo di risignificare la propria differenza dalla madre e di confermare la loro virilità in termini meno distanti dal materno.
Ne L'ordine simbolico della madre, come in altri tuoi lavori, è cruciale la figura dell'isterica. L'isterica, tu scrivi, «interpreta la differenza sessuale»: l'isteria è il sintomo di un attaccamento alla matrice della vita che nell'ordine patriarcale non trova modo di esprimersi e si traduce in rivolta contro la madre, ma che invece può e deve tradursi in gratitudine. Il lavoro sull'isteria è stato importantissimo per il femminismo. Potremmo dire che le nostre pratiche, e in particolare il lavoro che abbiamo fatto sulla relazione con la madre e quindi sulla relazione di disparità fra donne, ha funzionato come terapia sociale dell'isteria femminile? Gli psicoanalisti dicono che oggi il sintomo isterico è in via di sparizione, mentre si diffonde quello anoressico...
Sì, forse il sintomo isterico è sparito perché la cultura lo ha recepito. Mi viene in mente che, nel Seminario sul «rovescio» della psicanalisi, Lacan attribuisce all'isterica il merito di aver inventato un nuovo tipo di legame sociale, quello tra analista e analizzante, che rompe con la logica del dominio (sono parole mie). Dell'isteria parlo in un librino, La posizione isterica e la necessità della mediazione (Palermo 1993) che cito per ricordare colei che lo ha curato, Mimma Ferrante, un'architetta che morirà uccisa da un rapinatore (o chi per esso) nel suo cantiere vicino alla Zisa di Palermo. Quanto alla tua prima domanda, io direi che il femminismo è stato per l'isteria femminile come un teatro che dava senso ai sintomi senza la presenza congelante di uno sguardo medico, sostituito invece da un ascolto e da un'interlocuzione femminile plurale. Possiamo chiamarla terapia sociale? No, è semplicemente la politica: le terapie cambiano le persone in funzione della realtà, la politica fa il viceversa. E a chi mi correggesse: tu ti riferisci alla politica delle donne, risponderei che la politica è la politica delle donne. Possiamo dire allora che, nell'ordine simbolico della madre, ogni patologia mentale abbia un suo risvolto politico risolutivo? Mi piacerebbe pensarlo, ma non so, molto dipende da quello che sarà della figura della madre da qui in avanti, in una cultura non più patriarcale.
Che cosa sarà? L'ordine simbolico della madre si può considerare, da questo punto di vista, un testo di passaggio: il discorso muoveva ancora da una critica del patriarcato, ma indicava nella relazione con la madre un altro inizio, logico e politico: il principio di un altro ordine del discorso e l'apertura di un altro ordine sociale. Pochi anni dopo (nel 1996, con il «Sottosopra» intitolato E' accaduto non per caso) abbiamo cominciato a ragionare in termini di fine del patriarcato. Che cosa comporta la fine del patriarcato nel modo di pensare la madre?
Non lo so. Un giorno, sul treno, silenziosa al mio posto, ho seguito una giovane madre, che parlando al telefonino dirigeva le operazioni di un marito-padre a proposito di una loro bambina rimasta a casa dall'asilo perché malata. Sono rimasta impressionata dalla durezza imperiosa di lei, un generale sul campo di battaglia non avrebbe retto il confronto. D'altra parte, le mie amiche pedagogiste mi parlano di donne che stanno perdendo ogni competenza materna per mettersi nelle mani di pediatri e psicologi. La figura della madre mi appare come schiacciata tra questi due mostri, la negazione di ogni possibilità di padre, da una parte, lo specialismo che elimina ogni competenza simbolica delle persone in carne ed ossa, dall'altra. Entrambi i mostri sono già all'opera, pensiamo alla povertà simbolica delle associazioni dei padri, pensiamo a tutta la vicenda della legge 40. Eppure, da qualche parte, la strada è già aperta, da sempre. Mi spiego: il passaggio di cui tu parli, non dobbiamo immaginarlo dal passato al futuro, ma dal presente morto, quello dei mostri, al presente vivo, quello che rende possibile il guadagno di essere. Per usare una formula che tu conosci, la rivoluzione è simbolica.
L'ultimo libro di Diotima si intitola La magica forza del negativo e a mio avviso è un libro importante. Alcuni contributi, penso a quello di Diana Sartori, mettano in luce i limiti di un approccio tutto positivo all'ordine della madre, che espunge o rimuove il negativo che pure vi opera. In altri termini: la pratica della relazione fra donne e dell'autorità femminile ci ha emancipate dalla politica della rivendicazione e del risentimento, ci ha insegnato a fare leva sul positivo di origine femminile che la madre significa, ci ha dato autorità. Ma sia la relazione con la madre reale, sia le relazioni fra donne restano contrassegnate anche da un limite di negatività che non si elimina, non va in pareggio, e che se non viene a sua volta «trattato» minaccia di andare a male. In verità, a me che vengo dal femminismo dell'autocoscienza pare che il negativo del rapporto con la madre e con l'altra donna non abbia mai cessato di esserci presente - ma forse è vero che la proposta dell'ordine della madre l'aveva per una certa fase messo in ombra, o dato per risolto.
Chi viene dalla pratica dell'autocoscienza, come te, sa che il negativo è sempre stato presente e parlante-parlato nel nostro percorso. L'impressione che ad un certo punto esso sia stato messo tra parentesi o dato per risolto, proviene, secondo me, dalla tendenza ad illuderci, ogni volta che sia possibile. Lo stesso titolo del libro di Diotima che tu citi, obbedisce a questa tendenza, tant'è che qualcuna in Diotima ha protestato per quella «magica forza». Aveva ragione, suppongo, ma possiamo noi sottrarci al bisogno di illuderci? Leopardi, per me un pensatore di riferimento, risponde che no. Io aggiungo che in quella parola, illusione, c'è la radice del latino ludus, gioco, e che possiamo tentare di fare come le bambine e i bambini che giocano senza ingannarsi. L'idealizzazione è un inganno, questo va detto. Quando una madre prende in braccio la sua creatura sofferente e le dice: va tutto bene, va tutto bene, questa è illusione senza essere inganno. Anche l'ultimo film di Benigni, La tigre e la neve, ha le caratteristiche di un'illusione che non inganna... Questo che vado dicendo domanda un orizzonte di pensiero che non è quello del pensiero critico dominante nella filosofia dei nostri giorni.
I tuoi scritti sono sempre anche un corpo a corpo con la filosofia. Fare filosofia a partire dalla differenza sessuale è stata per molte di noi, anche grazie a te, la via per reimpostare il rapporto con una disciplina che prima ci metteva in scacco. Il tuo rapporto con la filosofia oggi lo senti risolto? E quello con l'accademia? Fa ridere - o piangere, dipende - che una filosofa come te così importante per l'opinione pubblica femminista italiana e internazionale concluda la sua carriera da ricercatrice...
Non ho un rapporto speciale con la filosofia, alla filosofia mi hanno portato le circostanze, il mio rapporto speciale è con la scrittura, ma non ho mai pensato a scrivere poesie o romanzi. La difficoltà della filosofia sarebbe che si comincia da niente, il suo vantaggio è che usa la lingua comune, non ha un linguaggio specialistico. Se ci pensi bene, le due cose si completano magnificamente. Il meglio del mio lavoro filosofico, poco o tanto che valga, viene da questo niente che si popola di parole comuni. A me piace portare parole comuni in luoghi che queste non hanno mai frequentato. Quanto alla carriera, dopo qualche tentativo penoso, ho scoperto che ci sono parecchie donne che rinunciano a farla. Così ci ho rinunciato anch'io, che credevo di doverla fare. Per il resto, intendo le soddisfazioni e gli incoraggiamenti, la carriera l'ho fatta nel movimento delle donne.
Secondo te il pensiero della differenza sessuale ha segnato e in che modo il pensiero politico di oggi? O si ripresenta, aggiornato, il rischio che tu segnalavi nell'Ordine simbolico della madre, che i filosofi si ispirino all'opera della madre, ma presentandola come una copia della propria?
Il pensiero corre per il mondo su strade che sono molte, poco controllabili e a volte inimmaginabili, Internet non ha fatto che imitarlo, alla sua maniera. Oggi il pensiero politico delle donne (che il c. d. pensiero della differenza ha cercato di imparare ed insegnare, fondamentalmente) sta permeando quello maschile con idee come il partire da sé, la differenza, la relazione, il conflitto relazionale, il dono e la riconoscenza, la fiducia e l'affidarsi, l'autorità invece del potere, la rivoluzione simbolica, la possibilità di altro... Cito le idee che riconosco, ma altre ci sono, per esempio nel filone dell'ecofemminismo e in quello della teologia femminista. Nessuna è padrona di queste idee, perché le idee non hanno padroni, sono di coloro che le condividono, lo dico in polemica con l'ordine (o disordine) capitalistico che oggi più che mai pretende di farne delle proprietà private, ma anche con la tendenza che abbiamo noi «intellettuali» a credere di avere inventato quello che invece ci è stato comunicato. Il pericolo che tu segnali è un'altra faccenda, nasce da un certo rapporto cannibalico dell'uomo con la donna-madre, mi riferisco agli uomini che si dedicano all'arte, alla scienza... Le biografie di simili personaggi sono piene di esempi di questo cannibalismo, che può estendersi alle figlie e ai figli. I filosofi non fanno eccezione. Secondo me il punto non è che ci siano dei riconoscimenti (io ne ricevo, devo dire) ma che si stabiliscano relazioni di scambio tra donne e uomini, e che si dissolva anche per questa via la pseudomistica della creatività personale. Il lavoro del pensiero è duro e selettivo, non c'è dubbio, e comprende anche una parte che possiamo chiamare ispirazione o disposizione innata, ma proprio questa parte è più direttamente riconducibile alla relazione materna e, come tale, traducibile in riconoscenza verso il mondo delle donne.
Infine. Luisa Muraro è propriamente una maestra - talvolta perfino con i modi sgradevoli di una maestra. Non ti mancherà l'insegnamento? Secondo me continuerai a praticarlo, in qualche forma. O no?
Hai indovinato, a me piace insegnare ed è vero che, insieme a qualche qualità, ho parecchi lati sgradevoli della maestra, all'università le/gli studenti li sopportavano ma ora dovrò correggerli, perché Lorenzo, un mio carissimo amico di otto anni al quale vorrei insegnare un sacco di cose, non sopporta i lati sgradevoli delle maestre. Vorrei anche insegnare a scrivere, non a Lorenzo che ha le sue brave maestre, ma a persone adulte; la base del mio insegnamento sarà la sintassi, «tagliata» dalla retorica.
il manifesto 28.10.05
Le Streghe e le Mistiche
«La mia vita di studiosa è stata laboriosa quanto caotica, i miei rapporti con il mondo accademico non sono mai stati buoni e non sempre per colpa del mondo accademico», scrive di sé Luisa Muraro in una breve autobiografia destinata al sito di Diotima. Nata nel 1940, studia filosofia della scienza e filosofia della religione, linguistica, ma il primo libro importante, La signora del gioco ('76) è una ricerca di storia sulla caccia alle streghe. Dell''81 Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sull'inimicizia fra metafora e metonimia, dell'85 Guglielma e Maifreda. Storia di un'eresia femminista, che inaugura gli studi sulla mistica femminile (Lingua materna, scienza divina, '95; Le amiche di Dio, 2001, Il Dio delle donne, 2003) . Tappe biografiche fondamentali, il Sessantotto, «che mi salvò dalla depressione», la collaborazione con Elvio Fachinelli nella rivista L'Erba voglio, e più di tutto l'incontro con il femminismo nei primi anni 70 e la relazione, mai interrotta, con Lia Cigarini. Con quello che ne è nato: la Libreria delle donne di Milano (e il libro a più mani Non credere di avere dei diritti), la rivista Via Dogana. Diotima nasce invece nell'83 e da allora ha pubblicato sette libri quasi tutti con contributi di Muraro, dal primo, Il pensiero della differenza sessuale, all'ultimo, La magica forza del negativo.