venerdì 28 ottobre 2005

Corriere della Sera 28.10.05
Bertinotti avverte Fassino:
quando saremo al governo no a spinte neocentriste
«La destra sconfitta proporrà una grossa coalizione
Dino Martirano


ATENE - «Pensiamo piuttosto alle assemblee regionali dell’Unione che dovranno offrire a Prodi gli ingredienti per confezionare il programma. Guardo in questa direzione. E se mi domandate che cosa è successo a Bologna, rispondo citando un vecchio film di Maselli: "Sono un militante del Partito comunista italiano, non ho altro da aggiungere" diceva il protagonista davanti alla polizia fascista».
Ecco, quando sale sull’Airbus che lo porta ad Atene per il congresso della Sinistra europea di cui è presidente, Fausto Bertinotti si sente un po’ come Gian Maria Volontè nel Sospetto di Citto Maselli, in cui il comunista Emilio rientra nel ’32 a Torino per ordine del partito clandestino ma poi cade nella rete dell’Ovra con i suoi compagni perché, probabilmente, qualcuno ha tradito.
Ma non c’è solo la disputa con Cofferati che preoccupa Bertinotti. Lui pensa già alla probabile vittoria dell’Unione e al dopo elezioni. Stavolta ha puntato tutto sulla lealtà a Prodi, non pensa certo a fare cadere il suo governo come nel ’98 ma vede uno scenario fosco, con il Prc emarginato in un angolo della scena politica se «il partito democratico includerà i Ds» e quindi altissime saranno «le tentazioni neocentriste». Parla infatti di uno spettro già visto in Germania, il segretario del Prc, che qui ad Atene vedrà anche Oskar Lafontaine e Lotar Biski della Linke-Pds. Senza di loro i socialdemocratici di Schröder non ce l’hanno fatta a vincere le elezioni ma, non avendo neanche perso clamorosamente l’Spd, ora in Germania governa la grande coalizione di Angela Merkel che suona come un cattivo auspicio: «È la tentazione neocentrista. Anche in Italia la destra sconfitta farà, nel corso della prossima legislatura, la sua proposta di grande coalizione. Chissà se Fassino imparerà a galleggiare più dalla nostra parte piuttosto che nelle acque del centro. L’ipotesi di un partito democratico allargato ai Ds, in Italia manderebbe definitivamente in soffitta la categoria della sinistra».
Ma, in attesa del dopo elezioni, oggi la parola d’ordine è archiviare definitivamente il caso Bologna. «Su Cofferati non dico una parola di più perché la personalizzazione è fuorviante rispetto al tema e non intendo prestarmi ad operazioni strumentali». Bertinotti è gentile ma categorico. È chiaro che gli scotta la frase pronunciata da Cofferati dopo gli scontri di lunedì sotto Palazzo D’Accursio («Bertinotti lo aveva detto, ecco il risultato») e quindi deciso a non giocare a rimpiattino: Constato che ora Prodi ha risolto definitivamente la vicenda. Ecco, leggete!», insiste sventolando l’intervista al Messaggero in cui il professore ammonisce che per risolvere i problemi della legalità più che il pugno di ferro servono «risorse e dialogo».
Ma, prendendo spunto dalla stessa intervista, Bertinotti, allarga il discorso al programma dell’Unione: «Dopo le primarie, Prodi è stato chiaro. Sarà lui a fare la sintesi, però...». Però il professore dovrà tenere conto delle assemblee regionali dell’Unione «affollate di rappresentanti degli enti locali e delle associazioni, che dovranno essere rispettate». Il programma, è il passa parola nel Prc, «è come una torta e piazza SS. Apostoli, sede dell’Unione, è un forno dove ognuno porta gli ingredienti». È c’è da giurarci che ci si sporcheranno le mani perché, usa ripetere Bertinotti, «fare il programma non è come andare a un pranzo a di gala». E se le lungaggini delle assemblee regionali offrissero un altro vantaggio al centrodestra? Risponde il segretario: «Non si illudano, l’accordo sul programma si farà perché con le primarie si è creato un doppio vincolo di fedeltà tra l’Unione e il popolo: il vincolo va mantenuto a tutti i costi altrimenti si rompe tutto».

Corriere della Sera 28.10.05
Rizzo (Pdci): è Fausto che deve guidare la sinistra
Fabrizio Roncone


ROMA - «I tempi sono maturi perché Fausto Bertinotti unisca la vera sinistra del nostro Paese». Marco Rizzo parla al telefono da Strasburgo, dove guida la delegazione dei Comunisti italiani. Ed è ovviamente piuttosto sorprendente che quest’idea sia venuta proprio a lui, a Rizzo, che insieme ad Armando Cossutta fu tra i più determinati, nell’ottobre del 1998, a decidere, a scegliere la strada della scissione dal partito della Rifondazione comunista. Onorevole Rizzo, quando Bertinotti leggerà queste sue dichiarazioni resterà quantomeno sbalordito...
«È vero, non ho mai fatto sconti a Fausto. Sia per quanto riguarda il suo stile sia per certe sue abiure. Ma in politica occorre saper valutare e oggi credo di poter dire che solo lui può compiere il passo necessario per evitare alla sinistra di morire».
Quando le è venuta questa idea?
«Nonostante i miei impegni al Parlamento europeo, cerco di mantenere un rapporto con le piazze e i cortei ed è stato lì, osservando migliaia di persone di sinistra che continuano a sfilare...».
È stato lì che...
«Beh, lì ho capito che, se dovesse davvero nascere quella cosa che potrebbe chiamarsi Ulivo o, come dicono, partito democratico, ecco dentro quella cosa non ci sarebbe comunque più alcun grande partito in grado di rappresentarle: i Ds, ad esempio, sparirebbero di colpo e con loro la storia che si portano dietro...».
Perché ritiene che Bertinotti debba accettare una simile proposta? E perché, poi, proprio ora?
«Con il successo di popolo delle Primarie e con il plebiscito ottenuto da Romano Prodi, Bertinotti è stato di fatto ridimensionato».
Sta dicendo che quel 14,7%...
«Sto dicendo che è impensabile che il mondo dei lavoratori, la larga parte del popolo della sinistra, in una competizione come quella delle Primarie possa aver avuto, sia pur sommando ai voti di Fausto quelli di Pecoraro Scanio e della compagna "Senza Volto", un risultato così modesto».
Rizzo: pensa a un nuovo partito o, piuttosto, a una Federazione che tenga dentro...
«Rifondazione e Comunisti italiani, i Verdi e i movimenti e magari, perché no? anche qualche pezzo di Correntone diessino... Beh, sì, penso a un punto di partenza molto simile a questo. Che, tra l’altro, e questo Fausto non può non intuirlo, farebbe comodo anche a Prodi».
A Prodi?
«Sì, assolutamente. Prodi, per bilanciare un centro a cui, diciamolo, non sta neppure tanto simpatico, non ha bisogno di una sinistra con tanti leader che si fanno tante piccole guerre... Ha invece bisogno di un punto di riferimento unitario».
Ecco, Rizzo: ma di questo suo potenziale riferimento unitario, di questo Bertinotti che guida la sinistra, ne ha parlato anche con Cossutta?
«È Cossutta che ci ha insegnato come in politica l’interesse collettivo debba prevalere sulle questioni e i rancori personali...».
Quanto invece al suo segretario, Oliviero Diliberto?
«Veramente, proprio lui, qualche mese fa, quando pure non c’era la certezza di un cambiamento della legge elettorale, avanzò una proposta analoga. Che poi, ecco, a fare qualche conto dentro questa nostra proposta...».
Cosa si scopre?
«Beh, se facciamo i conti, dentro la nuova aggregazione a cui penso, tra i comunisti di Rifondazione e quelli del Pdci, la Falce e il Martello avrebbe la maggioranza delle idee e degli uomini. E io credo che la questione comunista saprebbe attrarre anche uomini come Giulietto Chiesa, Asor Rosa e, se non avesse deciso di tornare a fare il giornalista, Santoro».
Onorevole Rizzo, come crede che le risponderà Bertinotti?
«Certi treni passano una sola volta. Questa è una grande occasione. Spero che Fausto lo capisca e batta un colpo. Ma è intelligente. Lo farà».

Corriere della Sera 28.10.05
Asor Rosa: Sergio ci ha illusi tutti, in realtà è un moderato Lo storico: «Sta già pensando al ruolo che avrà nel futuro partito democratico»

ROMA - «Ecco, in realtà Sergio Cofferati è un moderato... credo di poterlo dire a posteriori. Ora è un politico totalmente inserito nella linea del futuro partito democratico post-socialista. Lì potrà riprendere un ruolo politico nazionale dopo la vicenda di Bologna». La frase di Alberto Asor Rosa, uomo di sinistra e antimoderato per eccellenza, gronda amara delusione. Dopo i tre milioni in piazza San Giovanni del 23 marzo 2002 sotto il palco di un Cofferati ancora segretario della Cgil, il professore entrò nella squadra dell’uomo che parve il nuovo leader della sinistra (e mai lo diventò). Cofferati gli affidò la sezione cultura della sua Fondazione Di Vittorio. Disse Asor Rosa: «Cofferati più di altri ha sbarrato la strada al disegno conservatore e reazionario». Quello che Asor Rosa oggi vede a Bologna è un altro Cofferati.
Scontro sul concetto di legalità? «No. Per quanto mi riguarda, è difficile che un uomo delle istituzioni di qualsiasi livello si dichiari contrario alla legalità, base del vivere comune».
E allora?
«Ma la sinistra tradizionalmente intreccia alla difesa della legalità, che nell’era berlusconiana assume un particolare valore, la pratica della solidarietà e della giustizia. Nella giunta Cofferati, dalla quale tanto ci si attendeva, pare emersa con prepotenza esclusiva la parola d’ordine della legalità. Isolata dal contesto della giustizia e della solidarietà diventa uno slogan che qualifica tradizionalmente le posizioni della destra».
È un po’ la posizione di Fabio Mussi...
«Già. Il pericolo è che i fenomeni di disordine sociale, espressione che in bocca a me non ha un valore solo negativo, diventino sinonimo di illegalità. Ma c’è una società contemporanea, e Cofferati sembrava saperlo, in cui la legalità applicata con i metodi e lo spirito di un questurino a una larga fascia di fenomeni diventa sinonimo di ingiustizia».
Vuole dire che abbattere i campi irregolari sia roba da questurini? «C’è da chiedersi se alcune azioni del Comune di Bologna davvero non siano più di competenza dello Stato, delle forze dell’ordine. La politica, soprattutto oggi, è un fatto di immagine. Se si spinge l’acceleratore su certe azioni piuttosto che su altre, inevitabilmente ci si caratterizza. Anche in modo clamoroso»
Rosy Bindi si è lamentata: Sergio, perché hai cominciato dai lavavetri? «Ha ragione. Mesi fa sono stato ospite di un circolo bolognese di periferia... un sacco di gente. Molti elettori di Cofferati lamentavano ritardi sulla caratterizzazione sociale della giunta. Forse, dicevano, prende tempo per risolvere i problemi. Sono passati i mesi e la giunta Cofferati è arrivata sulle prime pagine. Ma non perché abbia aperto altri venti asili nido o risolto i problemi dei più disagiati. Ma per un problema di per sé stupido come gli sgomberi o i lavavetri».
Tanto stupido non deve essere se gli stessi elettori di sinistra si sentivano assediati dai clandestini...
«A Roma è accaduto lo stesso fenomeno che inevitabilmente ha colpito le fasce della popolazione meno ricche, lontane dal centro. Ma i metodi di intervento e la predisposizione di un apparato di sostegno agli sgomberati hanno svelato una politica ben più accorta».
Cosa pensa riguardando la sua agenda del 2002, riflettendo sul suo sostegno a Cofferati?
«Ci ho pensato a lungo. C’è stato un momento in cui diventò il riferimento della sinistra che non si riconosce nel riformismo moderato. Poi l’esperienza finì nel nulla: lui si ritrasse senza spiegazioni logiche. Ecco la mia. Il vero Cofferati è un moderato. Ha lasciato intendere che poteva diventare qualcosa di diverso. Poi...».
Qui il professore sorride:
«...Poi si è accorto che si sarebbe ritrovato accanto a pericolosi estremisti come Asor Rosa, Rossana Rossanda, persino Luciano Gallino... Allora ha capito che la sua naturale vocazione era un’altra».
Scelta strumentale?
«No. Nessuna manovra machiavellica. Semplicemente non era la sua vocazione».
Ma c’è chi avverte, per esempio Il Riformista : senza legalità la sinistra perde.
«Ma la sinistra non è il centrosinistra. La sinistra non è il partito democratico. La sinistra modernamente cerca l’equilibrio tra legalità, giustizia, solidarietà. Non esiste cioè solo una società "illuminata" ma moderata che vuole spazzare via i lavavetri e lo vede come compito fondamentale di un governo progressista. C’è insomma un’altra fetta della società italiana. E la pensa come dico io...».

Corriere della Sera 28.10.05
Il Festival della scienza a Genova con il patrocinio dell’Unesco
Nasce la Città della parola
Ogni anno scompaiono dal mondo 235 idiomi
Giovanni Caprara


GENOVA - Sarà un museo singolare, mai creato finora in alcun continente, forse per l’arditezza dell’idea e la vastità dell’operazione. Ma ora nella fucina del Festival della scienza, aperto ieri a Genova e che con un fuoco d’artificio di 250 iniziative tra conferenze, incontri, mostre, spettacoli trasformerà per due settimane il capoluogo ligure in una capitale scientifica, la grande ambizione inseguita da tempo sta prendendo forma e si chiamerà «Città della parola».
Il progetto, già dettagliato nei contenuti, verrà formalmente presentato a Parigi, all’Unesco, ente patrocinatore, nel febbraio prossimo durante la giornata della lingua. «Come ci preoccupiamo giustamente della protezione delle specie biologiche - spiega Vittorio Bo, direttore del Festival e «padre» della nuova iniziativa - è giunto anche il momento di preservare pure la molteplicità linguistica alla quale è legata l’identità delle popolazioni e la straordinaria storia dell’avventura umana».
Oggi sulla Terra si parlano 5.500 idiomi diversi, senza contare i dialetti, i gerghi o le lingue sacre. Ma tale inestimabile patrimonio di cultura si impoverisce progressivamente perché ogni anno 235 lingue scompaiono irrimediabilmente (tra cui quelle parlate dai boscimani, dai pigmei e da alcuni indios dell’Amazzonia). Che ciò accada è conseguenza del fatto che oggi l’80 per cento dei linguaggi non riesce a «comunicare»; cioè i gruppi di persone che li esprimono non interagiscono con il mondo esterno e finiscono col dissolversi.
Ma la «Città della parola» non si propone soltanto la protezione delle lingue in via di estinzione, e punta invece, proprio nell’epoca dei segni e delle parole globali, a recuperare il senso dell’origine e della ricchezza dei linguaggi nelle loro variazioni e distinzioni.
Per questo il museo sarà organizzato in tre parti distinte. Una, permanente, che raccoglierà in modo stabile codici di ogni genere, presenterà le migrazioni e le trasformazioni, ne analizzerà le relazioni con gli strumenti (dal papiro al computer) arrivando anche a considerare le espressioni specialistiche in cui la parola si articola comprendendo dal gergo scientifico a quello giuridico.
Una seconda parte avrà una caratteristica temporanea ospitando mostre capaci di presentare forme diverse di linguaggio, comprendendo dall’arte al giochi enigmistici. E sempre in questo ambito sorgerà una sorta di «università della parola» per formare specialisti e indagare i rapporti fra le lingue.
La terza parte, infine, della «Città» sarà costituita da un archivio che costituirà la base per ogni tipo di ricerca. Proprio per dare corpo all’iniziativa, il Festival della scienza genovese quest’anno ospita due incontri dedicati all’argomento con illustri linguisti europei, americani e russi. Tra questi c’è Luisa Maffi esperta canadese di origine italiana che a Washington dirige il centro per la conoscenza delle lingue e che sarà coinvolta nella realizzazione del progetto genovese.
La «Città della parola» è, ovviamente, un’impresa internazionale e alla sua gestazione collaborano già oggi cervelli di grande fama come il francese Claude Hagège.
La sede del suo insediamento non è ancora definita e potrà essere da Venaria Reale (vicino a Torino), a Genova, a Milano.
Il raggio d’azione delle attività comprenderà l’Italia estendendosi poi all’Europa e ad altri continenti.

La Stampa 28.10.05
Recensione dell’autobiografia di Susanna Kaysen
La linea sottile tra salute mentale e pazzia
Il malessere di essere «interrotti» quando si hanno 18 anni
Gaia Berruto

«La ragazza interrotta» è un testo autobiografico.
L'autrice racconta i ventiquattro mesi della sua adolescenza trascorsi all'interno di una clinica psichiatrica.
La narrazione della Kaysen risulta spontanea e priva di un ordine cronologico.
Il testo è suddiviso in capitoli slegati fra loro, che descrivono fatti, trascrivono cartelle cliniche, esprimono opinioni circa le cure somministrate e riflettono con lucidità a proposito del significato del termine «pazzia».
La gente ti chiede: come ci sei finita?
«In realtà, quello che vogliono sapere è se c'è qualche probabilità che capiti anche a loro. Non posso rispondere alla domanda sottintesa. Posso solo dire che è facile». (pagina 7).
La Kaysen racconta la sua storia cercando di essere obiettiva e scientificamente precisa, per poi abbandonarsi a lunghe provocazioni di natura filosofica.
Le sue parole investono il lettore che più di una volta dovrà fare i conti con la sua personale idea di sanità mentale e metterla in discussione.
Cos'è in fondo la normalità? E cosa la pazzia?
In un periodo di agitazioni sociali come la fine degli anni '60 per internare una diciottenne in una clinica psichiatrica basta la frase: «incertezza su diversi aspetti della vita, come ad esempio: immagine di sé, identità sessuale, obiettivi a lungo termine o scelte professionali…»?
Sconvolge la puntigliosità con cui l'autrice tratta il tema della sua presunta anormalità.
Richiede con l'aiuto di avvocati la sua cartella clinica e la studia, valutando ogni scritto, ogni commento clinico, quasi a volersi impossessare del sapere per dominare la sua malattia, o meglio valutare se realmente fu vera malattia.
Quasi a voler sedare l'angoscioso timore di essere pazza con l'aiuto della consapevolezza.
Si legge: «C'è chi dice che avere un'idea chiara sull'argomento è segno di salute mentale (pagina 149).
Nella scelta del titolo la Kaysen si collega alla celebre tela di Veemer «Ragazza interrotta mentre suona».
L'autrice denuncia il malessere dell'esser stata «interrotta» nel periodo di crescita, come se i medici avessero bloccato il flusso dei suoi diciotto anni in quella clinica allo stesso modo del pittore, che fissa su tela un momento preciso nella vita della giovane pianista.
Il libro ha avuto gran fortuna negli Stati Uniti d'America grazie soprattutto alla trasposizione cinematografica voluta da Winona Ryder, protagonista della pellicola insieme ad Angelina Jolie, la quale vinse l'Oscar come attrice non protagonista per l'interpretazione di una paziente della clinica.

La Stampa 28.10.05
Un dato allarmante sulla diffusione della malattia
Ottocentomila piemontesi nella morsa della depressione

In Piemonte 800 mila persone soffrono di depressione: praticamente una città dalle dimensioni di Torino. Ma la sofferenza non colpisce solo loro: 2 milioni, fra uomini e donne, amici o parenti dei depressi, vivono indirettamente nella nostra regione le conseguenze di questa malattia.
Numeri allarmanti, forniti dall’Associazione per la ricerca sulla depressione, che faranno da sfondo domani al convegno «Depressione e informazione» organizzato dalle 9,30 alle 12,30 (ingresso libero), all’Unione Industriale di via Fanti 17.
I numeri dicono che il problema è più esteso di quanto s’immagini, e dicono anche che per il 65 per cento di chi vive nella morsa, «l’informazione sulla malattia è scarsa», che il 93 per cento di chi entra in farmacia «confonde termini come ansiolitici, antidepressivi e antipsicotici», e che una persona su due che chiede un ansiolitico «lo fa su consiglio di amici o parenti che hanno provato quel farmaco».
La depressione è una mina in agguato in ogni cambiamento significativo della nostra vita: l’adolescenza, l'età della pensione, una malattia improvvisa. «Molti - spiega il presidente dell’associazione, Salvatore di Salvo - sono ancora i pregiudizi su questa malattia». Innanzitutto: «Per guarire basta uno sforzo di volontà». Oppure: «Prendere farmaci fa male, meglio aspettare che tutto passi». «Convinzioni errate, che producono una pericolosa sottovalutazione del disturbo, e che alimentano un altro rischio: l’insofferenza verso chi soffre».
Solo una persona su quattro, infatti - lancia l’allarme il dottor Di Salvo - accede alle terapie corrette, proprio perché le barriere del pregiudizio s’interpongono fra chi soffre di questi disturbi e chi dovrebbe curarli.

il manifesto 28.10.05
La madre dopo il patriarcato
di Ida Dominijanni
«L'ordine simbolico della madre» quindici anni dopo, il femminismo come terapia politica dell'isteria, l'ombra del negativo nei rapporti fra donne, la differenza nel pensiero politico. Intervista con Luisa Muraro, che oggi si congeda dall'università con una lezione a Verona
Luisa Muraro lascia l'università e pronuncia oggi nella Facoltà di filosofia dell'ateneo di Verona quella che in gergo accademico si chiama lectio magistralis, ma che la pratica di Diotima, la comunità filosofica femminile da lei e altre fondata in quello stesso ateneo nell'84, renderà un'occasione di discussione politica. Non per caso la lezione si tiene all'interno del «grande seminario» di Diotima di quest'anno, un ciclo intitolato «L'ombra della madre», e non per caso consisterà in una retractatio, una ri-trattazione, de L'ordine simbolico della madre, un notissimo libro pubblicato da Muraro nel `91 che è stato e resta cruciale per il pensiero della differenza sessuale. «Più che nella mia opera - ha scritto di sé una volta Luisa - ho sempre confidato nel contributo di chi la legge. Più dell'argomento, per me ha sempre contato l'ordine simbolico che è e che fa la scrittura». Ne L'ordine simbolico della madre di questo precisamente si trattava: dell'ordine simbolico che la lingua materna - ovvero la capacità di tenere insieme corpo e parole, esperienza e linguaggio che impariamo nella relazione primaria con la madre - sa fare. Un ordine rivoluzionario, giacché la relazione figlia-madre è cancellata nell'ordine patriarcale; e imparare a praticarla nella vita adulta, sostituendo all'avversione la gratitudine per la madre e per le altre donne che ne continuano l'opera, apre lo spazio per la dicibilità dell'esperienza femminile, altrimenti sottoposta all'adeguamento alla norma e al potere maschile. Questo in estrema sintesi il nocciolo del libro, che dunque metteva al centro del discorso non il materno inteso come qualità etica o psicologica, ma la relazione con la madre come forma simbolica, generatrice di forme sociali improntate alla mediazione linguistica più che alla legge.

L'ordine simbolico della madre è stato un libro importante ma controverso. Molte controversie, io penso, derivano dal fatto che questo nocciolo formale è stato invece scambiato per un nocciolo sostanziale; come se la proposta del libro consistesse nella riproposizione del modello materno e delle sue qualità, invece che nella costruzione di una genealogia femminile che è forte proprio in quanto sa contrattare con la madre e le altre donne in presenza di disparità e conflitti...

Il libro tenta di far interagire con i discorsi filosofici un vissuto di donna, quello della sua relazione con la madre, non previsto nella tradizione filosofica, anzi tacitato ed escluso. Francesca Solari (la regista di Addio Lugano bella) parlerà di un'opera «terapeutica», in quanto mette in comunicazione quello che la nostra cultura separa. Come dici tu, ad alcune è piaciuto molto e ad altre è dispiaciuto molto. C'entra sicuramente l'equivoco che segnali, a valle, ma a monte c'entra un'altra cosa, io credo, che il libro fa una scommessa, senza vincerla, e chiede a chi lo legge di entrare nel gioco. Quello che ha contato dal primo momento, per me, era la società femminile che si stava formando: questo libro era rivolto specialmente alle donne perché prendessero su di sé il mio tentativo nel suo insieme, compresa la parte non riuscita, compresa la parte a me stessa oscura. Molte lo hanno fatto e continuano a farlo (il libro si legge ancora, si traduce e circola), ma altre, specialmente fra le pensatrici di professione, no. Io ne ho dedotto che non volessero partecipare al gioco, forse perché non ci vedevano il loro guadagno, forse perché non avevano capito (come supponi tu), forse perché avevano capito e non erano d'accordo... Ci sono tante ragioni per cui la moglie di Lot volge la testa indietro.

Altre sostengono che il libro propone un ordine della madre simmetrico, parallelo e perfino mimetico, nella sua verticalità, rispetto a quello del padre. Personalmente sono convinta di no: leggendo L'ordine simbolico della madre in sequenza con Maglia o uncinetto, penso che si tratti piuttosto, per dirlo con una formula, di un ordine della metonimia, cioè della contiguità fra corpo e linguaggio, esperienza e dicibilità, che taglia, non imita, l'ordine metaforico dell'astrazione proprio della legge del padre. Ma se è così, perché l'interpretazione "simmetrica" ha avuto tanto spazio?

Hai messo il dito nella piaga, la questione della asimmetria tra i sessi. Definita con le parole di una psicanalista che ha scritto poco e che ammiro molto, Sigrid Günzel, la asimmetria la dà il fatto che per la bambina il primo oggetto d'amore è dello stesso sesso, non così per il bambino. Nelle culture in cui la relazione gerarchica e complementare tra donna e uomo è diventata insostenibile, nella nostra cultura dunque, la tendenza dominante è di cancellare quella asimmetria. Si è arrivati a farne un sinonimo di disuguaglianza e discriminazione antifemminile. Verso questo esito di concellazione convergono il diritto, la scienza, il femminismo di stato e anche una parte del femminismo autonomo. Quando ho scritto L'ordine simbolico della madre avevo un senso molto marcato della asimmetria tra i sessi, ma non l'ha tematizzata. Oggi, ovviamente, lo farei. Ma non cambierei la posizione che traspare nel libro: io continuo ad associare strettamente quella che sono al privilegio di essere nata dello stesso sesso della madre.

Nel libro il padre quasi non c'è, e qui per me comincia qualche problema. Perché non c'è? Per ragioni biografiche, per tua scelta o per tua rimozione? Oppure il libro rispecchia una rimozione collettiva, una certa onnipotenza della relazione fra donne che pure abbiamo attraversato? Secondo me, però, un ordine simbolico della madre in cui non c'è posto per il padre, e per l'amore per il padre che è anch'esso un dato dell'esperienza femminile, è un ordine simbolico mancante, un ordine che non ordina la relazione con l'altro e con la legge dell'altro.

Il padre quasi non c'è perché io non ho trovato in me una figura paterna alla pari con quella materna, per forza simbolica: credo di appartenere a quella categoria di donne e uomini che sviluppano una certa creatività ignorando la figura paterna, e mi piace pensare che Einstein, che faceva le boccacce a sessant'anni passati, sia uno di questi. Quando nel libro compare, il padre è l'uomo che si affianca a una donna e alla sua maternità, e che lei indica ai suoi figli: questo è vostro padre. È troppo poco? Sì, riconosco che manca tutta la parte di rapporto diretto tra quell'uomo e i figli e della donna, che grazie a lei sono diventati anche i figli di lui, con tutte le differenze che entrano in gioco, in primis quella sessuale che tu richiami: è vero, c'è un amore femminile del padre. Ma tutto quello che si può dire oltre a questo, per me, rientra nell'ordine patriarcale. In altre parole, io non trovo nessuna ragione per difendere la necessità di padre, dell alegge del padre, pur ammettendo che un uomo, gli uomini possano invece avere questa necessità. Sono d'accordo con te che un simbolico materno che esclude ogni altro amore, ogni amore dell'altro, sarebbe gravemente difettoso, ma non penso che questo «altro» debba essere il padre. Non dimentichiamo che, sotto la legge del padre, le donne non avevano senso per sé stesse, ma solo in funzione di dare figli a lui, come dice bene sant'Agostino e come si è continuato a dire con i cognomi patrilineari. Fuori da questa funzione, le donne o perdevano valore o perdevano la loro differenza per essere assimilate a uomini.

Tuttavia, io non sono contro la paternità, anzi. Sono contro le teorie della sua necessità, ma sono favorevole per più motivi alla possibilità della figura paterna. Ai motivi già detti (essere di aiuto alla donna che diventa madre), aggiungo quello che porti tu, l'amore femminile del padre (ma noi sappiamo che, se una donna si gioca l'amore del padre contro la madre, è perduta), e quello, per me principale, che la paternità responsabilizza e gratifica gli uomini che si affiancano alle donne nella cura della vita, dà loro modo di risignificare la propria differenza dalla madre e di confermare la loro virilità in termini meno distanti dal materno.

Ne L'ordine simbolico della madre, come in altri tuoi lavori, è cruciale la figura dell'isterica. L'isterica, tu scrivi, «interpreta la differenza sessuale»: l'isteria è il sintomo di un attaccamento alla matrice della vita che nell'ordine patriarcale non trova modo di esprimersi e si traduce in rivolta contro la madre, ma che invece può e deve tradursi in gratitudine. Il lavoro sull'isteria è stato importantissimo per il femminismo. Potremmo dire che le nostre pratiche, e in particolare il lavoro che abbiamo fatto sulla relazione con la madre e quindi sulla relazione di disparità fra donne, ha funzionato come terapia sociale dell'isteria femminile? Gli psicoanalisti dicono che oggi il sintomo isterico è in via di sparizione, mentre si diffonde quello anoressico...

Sì, forse il sintomo isterico è sparito perché la cultura lo ha recepito. Mi viene in mente che, nel Seminario sul «rovescio» della psicanalisi, Lacan attribuisce all'isterica il merito di aver inventato un nuovo tipo di legame sociale, quello tra analista e analizzante, che rompe con la logica del dominio (sono parole mie). Dell'isteria parlo in un librino, La posizione isterica e la necessità della mediazione (Palermo 1993) che cito per ricordare colei che lo ha curato, Mimma Ferrante, un'architetta che morirà uccisa da un rapinatore (o chi per esso) nel suo cantiere vicino alla Zisa di Palermo. Quanto alla tua prima domanda, io direi che il femminismo è stato per l'isteria femminile come un teatro che dava senso ai sintomi senza la presenza congelante di uno sguardo medico, sostituito invece da un ascolto e da un'interlocuzione femminile plurale. Possiamo chiamarla terapia sociale? No, è semplicemente la politica: le terapie cambiano le persone in funzione della realtà, la politica fa il viceversa. E a chi mi correggesse: tu ti riferisci alla politica delle donne, risponderei che la politica è la politica delle donne. Possiamo dire allora che, nell'ordine simbolico della madre, ogni patologia mentale abbia un suo risvolto politico risolutivo? Mi piacerebbe pensarlo, ma non so, molto dipende da quello che sarà della figura della madre da qui in avanti, in una cultura non più patriarcale.

Che cosa sarà? L'ordine simbolico della madre si può considerare, da questo punto di vista, un testo di passaggio: il discorso muoveva ancora da una critica del patriarcato, ma indicava nella relazione con la madre un altro inizio, logico e politico: il principio di un altro ordine del discorso e l'apertura di un altro ordine sociale. Pochi anni dopo (nel 1996, con il «Sottosopra» intitolato E' accaduto non per caso) abbiamo cominciato a ragionare in termini di fine del patriarcato. Che cosa comporta la fine del patriarcato nel modo di pensare la madre?

Non lo so. Un giorno, sul treno, silenziosa al mio posto, ho seguito una giovane madre, che parlando al telefonino dirigeva le operazioni di un marito-padre a proposito di una loro bambina rimasta a casa dall'asilo perché malata. Sono rimasta impressionata dalla durezza imperiosa di lei, un generale sul campo di battaglia non avrebbe retto il confronto. D'altra parte, le mie amiche pedagogiste mi parlano di donne che stanno perdendo ogni competenza materna per mettersi nelle mani di pediatri e psicologi. La figura della madre mi appare come schiacciata tra questi due mostri, la negazione di ogni possibilità di padre, da una parte, lo specialismo che elimina ogni competenza simbolica delle persone in carne ed ossa, dall'altra. Entrambi i mostri sono già all'opera, pensiamo alla povertà simbolica delle associazioni dei padri, pensiamo a tutta la vicenda della legge 40. Eppure, da qualche parte, la strada è già aperta, da sempre. Mi spiego: il passaggio di cui tu parli, non dobbiamo immaginarlo dal passato al futuro, ma dal presente morto, quello dei mostri, al presente vivo, quello che rende possibile il guadagno di essere. Per usare una formula che tu conosci, la rivoluzione è simbolica.

L'ultimo libro di Diotima si intitola La magica forza del negativo e a mio avviso è un libro importante. Alcuni contributi, penso a quello di Diana Sartori, mettano in luce i limiti di un approccio tutto positivo all'ordine della madre, che espunge o rimuove il negativo che pure vi opera. In altri termini: la pratica della relazione fra donne e dell'autorità femminile ci ha emancipate dalla politica della rivendicazione e del risentimento, ci ha insegnato a fare leva sul positivo di origine femminile che la madre significa, ci ha dato autorità. Ma sia la relazione con la madre reale, sia le relazioni fra donne restano contrassegnate anche da un limite di negatività che non si elimina, non va in pareggio, e che se non viene a sua volta «trattato» minaccia di andare a male. In verità, a me che vengo dal femminismo dell'autocoscienza pare che il negativo del rapporto con la madre e con l'altra donna non abbia mai cessato di esserci presente - ma forse è vero che la proposta dell'ordine della madre l'aveva per una certa fase messo in ombra, o dato per risolto.

Chi viene dalla pratica dell'autocoscienza, come te, sa che il negativo è sempre stato presente e parlante-parlato nel nostro percorso. L'impressione che ad un certo punto esso sia stato messo tra parentesi o dato per risolto, proviene, secondo me, dalla tendenza ad illuderci, ogni volta che sia possibile. Lo stesso titolo del libro di Diotima che tu citi, obbedisce a questa tendenza, tant'è che qualcuna in Diotima ha protestato per quella «magica forza». Aveva ragione, suppongo, ma possiamo noi sottrarci al bisogno di illuderci? Leopardi, per me un pensatore di riferimento, risponde che no. Io aggiungo che in quella parola, illusione, c'è la radice del latino ludus, gioco, e che possiamo tentare di fare come le bambine e i bambini che giocano senza ingannarsi. L'idealizzazione è un inganno, questo va detto. Quando una madre prende in braccio la sua creatura sofferente e le dice: va tutto bene, va tutto bene, questa è illusione senza essere inganno. Anche l'ultimo film di Benigni, La tigre e la neve, ha le caratteristiche di un'illusione che non inganna... Questo che vado dicendo domanda un orizzonte di pensiero che non è quello del pensiero critico dominante nella filosofia dei nostri giorni.

I tuoi scritti sono sempre anche un corpo a corpo con la filosofia. Fare filosofia a partire dalla differenza sessuale è stata per molte di noi, anche grazie a te, la via per reimpostare il rapporto con una disciplina che prima ci metteva in scacco. Il tuo rapporto con la filosofia oggi lo senti risolto? E quello con l'accademia? Fa ridere - o piangere, dipende - che una filosofa come te così importante per l'opinione pubblica femminista italiana e internazionale concluda la sua carriera da ricercatrice...

Non ho un rapporto speciale con la filosofia, alla filosofia mi hanno portato le circostanze, il mio rapporto speciale è con la scrittura, ma non ho mai pensato a scrivere poesie o romanzi. La difficoltà della filosofia sarebbe che si comincia da niente, il suo vantaggio è che usa la lingua comune, non ha un linguaggio specialistico. Se ci pensi bene, le due cose si completano magnificamente. Il meglio del mio lavoro filosofico, poco o tanto che valga, viene da questo niente che si popola di parole comuni. A me piace portare parole comuni in luoghi che queste non hanno mai frequentato. Quanto alla carriera, dopo qualche tentativo penoso, ho scoperto che ci sono parecchie donne che rinunciano a farla. Così ci ho rinunciato anch'io, che credevo di doverla fare. Per il resto, intendo le soddisfazioni e gli incoraggiamenti, la carriera l'ho fatta nel movimento delle donne.

Secondo te il pensiero della differenza sessuale ha segnato e in che modo il pensiero politico di oggi? O si ripresenta, aggiornato, il rischio che tu segnalavi nell'Ordine simbolico della madre, che i filosofi si ispirino all'opera della madre, ma presentandola come una copia della propria?

Il pensiero corre per il mondo su strade che sono molte, poco controllabili e a volte inimmaginabili, Internet non ha fatto che imitarlo, alla sua maniera. Oggi il pensiero politico delle donne (che il c. d. pensiero della differenza ha cercato di imparare ed insegnare, fondamentalmente) sta permeando quello maschile con idee come il partire da sé, la differenza, la relazione, il conflitto relazionale, il dono e la riconoscenza, la fiducia e l'affidarsi, l'autorità invece del potere, la rivoluzione simbolica, la possibilità di altro... Cito le idee che riconosco, ma altre ci sono, per esempio nel filone dell'ecofemminismo e in quello della teologia femminista. Nessuna è padrona di queste idee, perché le idee non hanno padroni, sono di coloro che le condividono, lo dico in polemica con l'ordine (o disordine) capitalistico che oggi più che mai pretende di farne delle proprietà private, ma anche con la tendenza che abbiamo noi «intellettuali» a credere di avere inventato quello che invece ci è stato comunicato. Il pericolo che tu segnali è un'altra faccenda, nasce da un certo rapporto cannibalico dell'uomo con la donna-madre, mi riferisco agli uomini che si dedicano all'arte, alla scienza... Le biografie di simili personaggi sono piene di esempi di questo cannibalismo, che può estendersi alle figlie e ai figli. I filosofi non fanno eccezione. Secondo me il punto non è che ci siano dei riconoscimenti (io ne ricevo, devo dire) ma che si stabiliscano relazioni di scambio tra donne e uomini, e che si dissolva anche per questa via la pseudomistica della creatività personale. Il lavoro del pensiero è duro e selettivo, non c'è dubbio, e comprende anche una parte che possiamo chiamare ispirazione o disposizione innata, ma proprio questa parte è più direttamente riconducibile alla relazione materna e, come tale, traducibile in riconoscenza verso il mondo delle donne.

Infine. Luisa Muraro è propriamente una maestra - talvolta perfino con i modi sgradevoli di una maestra. Non ti mancherà l'insegnamento? Secondo me continuerai a praticarlo, in qualche forma. O no?

Hai indovinato, a me piace insegnare ed è vero che, insieme a qualche qualità, ho parecchi lati sgradevoli della maestra, all'università le/gli studenti li sopportavano ma ora dovrò correggerli, perché Lorenzo, un mio carissimo amico di otto anni al quale vorrei insegnare un sacco di cose, non sopporta i lati sgradevoli delle maestre. Vorrei anche insegnare a scrivere, non a Lorenzo che ha le sue brave maestre, ma a persone adulte; la base del mio insegnamento sarà la sintassi, «tagliata» dalla retorica.

il manifesto 28.10.05
Le Streghe e le Mistiche

«La mia vita di studiosa è stata laboriosa quanto caotica, i miei rapporti con il mondo accademico non sono mai stati buoni e non sempre per colpa del mondo accademico», scrive di sé Luisa Muraro in una breve autobiografia destinata al sito di Diotima. Nata nel 1940, studia filosofia della scienza e filosofia della religione, linguistica, ma il primo libro importante, La signora del gioco ('76) è una ricerca di storia sulla caccia alle streghe. Dell''81 Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sull'inimicizia fra metafora e metonimia, dell'85 Guglielma e Maifreda. Storia di un'eresia femminista, che inaugura gli studi sulla mistica femminile (Lingua materna, scienza divina, '95; Le amiche di Dio, 2001, Il Dio delle donne, 2003) . Tappe biografiche fondamentali, il Sessantotto, «che mi salvò dalla depressione», la collaborazione con Elvio Fachinelli nella rivista L'Erba voglio, e più di tutto l'incontro con il femminismo nei primi anni 70 e la relazione, mai interrotta, con Lia Cigarini. Con quello che ne è nato: la Libreria delle donne di Milano (e il libro a più mani Non credere di avere dei diritti), la rivista Via Dogana. Diotima nasce invece nell'83 e da allora ha pubblicato sette libri quasi tutti con contributi di Muraro, dal primo, Il pensiero della differenza sessuale, all'ultimo, La magica forza del negativo.

giovedì 27 ottobre 2005

Corriere della Sera 27.10.05
Dopo trent’anni. Nell’università del Papa elogia Ratzinger e critica il laicismo
Severino torna in un ateneo cattolico
P.Pan.

Attacca il laicismo, che «è diventato una forma di fede», confessa che Papa Ratzinger «gli piace molto», sostiene la legittimità dell’intervento della Chiesa «nella vita pubblica per difendere i suoi valori» e, anzi, la invita a non sottovalutare «la potenza distruttiva della filosofia contemporanea che spesso non si manifesta in superficie e che non è semplice relativismo o scetticismo, ma ha la capacità di togliere di mezzo niente di meno che la tradizione». Con questi moniti il filosofo Emanuele Severino ha «battezzato» ieri il suo ritorno in una università cattolica dopo oltre trent’anni. Nel 1970, infatti, lo studioso di Heidegger era stato allontanato per «incompatibilità con il pensiero cristiano» dalla cattedra di Teologia morale dell’università Cattolica di Milano, fondata da padre Gemelli. L’occasione odierna è stata offerta invece dal dibattito «Il cristianesimo: la risposta alla domanda di senso?», ospitato da monsignor Rino Fisichella alla Pontificia Università Lateranense di Roma.
«Oggi tradizione e contemporaneità sono in contrasto», ha detto Severino, ora docente all’università Vita e Salute San Raffaele di Milano. Un rilievo, questo, accompagnato da una provocazione: «C’è il rischio - ha osservato - di un cristianesimo inteso come essenziale alleato del proprio antagonista: l’ateismo».
Il suo intervento si è mosso nella ricerca di un nuovo dialogo tra Fede e Ragione, tra filosofia e teologia: «La ricerca di risposte vere è il tratto che ci accomuna» e per questo «il cristianesimo è uno dei massimi e possibili interlocutori oggi». Diversi, però, restano i metodi di Fede e Ragione. «Se per la Fede la verità è una risposta e non una ricerca, questa impostazione è fallimentare. Se siamo alla ricerca della verità, standone fuori, allora la verità è una porta della quale non si potrà mai ottenere l’apertura». Solo se riteniamo la Ragione lo strumento per la ricerca della verità ci poniamo di fronte alla heideggeriana «verità come disvelamento», alla quale Severino sembra continuare a guardare. Tanto che, non molto tempo fa, Severino aveva dichiarato che «è la tecnica oggi a mettere in gioco il pensiero e che la tecnica è la forma in cui oggi si dà l’esistenza dell’ontologia. Un’ontologia che oscilla tra l’essere e il nulla, in un campo di crisi». Tesi lontane, queste, da quelle cattoliche di «verità rivelata», ma spesso accompagnate da Severino dal rimprovero alla cultura laica di «non saper scendere nel sottosuolo», come fatto da Leopardi e Nietzsche.
L’apertura alla Chiesa come interlocutore forte non va confusa con l’intenzione di assecondare il principio di «verità rivelata». Tanto che il rettore della Lateranense, Rino Fisichella, ha poi sottolineato che esiste un’irriducibile «differenza epistemica tra teologi e filosofi: il teologo deve partire dal presupposto scientifico che la rivelazione è carica di senso, è una verità consegnata», il filosofo è, invece, «alla ricerca». Da qui l’invito a considerare «la Fede come una forma di conoscenza» e la ricerca della verità non un passaggio da una assenza a una presenza di senso, «poiché il creato è una verità che progressivamente si pone in attesa di un evento. Il mio - ha concluso - non è un cammino nella non verità verso la verità. Siamo già dentro la verità».

aprileonline.info 27.10
Il partito della discordia
Centrosinistra. La storia del sogno democratico italiano dal '45 fino alle primarie del 16 ottobre, tra fusioni e spaccature. E che succederà da qui alle prossime politiche?
Leo Sansone

Un passo avanti e due indietro. La storia del partito democratico in Italia ha l’andatura del gambero. Compare, scompare, riemerge, affonda. E’ evocato ed è affossato. Prende vita due volte una formazione con questo nome. Nel 1945, subito dopo la liberazione dal nazifascismo, Francesco Saverio Nitti, Benedetto Croce, Ivanoe Bonomi e Vittorio Emanuele Orlando diedero vita all’Unione democratica nazionale. Tre ex presidenti del Consiglio e il maggiore filosofo italiano del Novecento puntarono a far nascere un grande partito liberaldemocratico. Fu un fallimento. La spuntò la Dc di Alcide De Gasperi, nelle elezioni del 1946 per l’assemblea costituente. Poi nelle elezioni del 1948 la borghesia e i ceti popolari moderati decretarono un vero trionfo per il partito unico dei cattolici. Addio al Partito democratico.
Romano Prodi, nelle elezioni europee del 1999 ci riprova, con il motto “competition is competition” rivolto ai Ds, in particolare. Imputa a Massimo D’Alema la fine del suo governo dell’Ulivo nel 1998. Così lancia in campo, assieme a Francesco Rutelli, i Democratici che ottengono oltre l’8% dei voti, il Ppi è quasi azzerato. Ma i Democratici, simbolo l’Asinello come il Partito democratico americano, ha vita breve. Nel 2001 Democratici, Ppi, Rinnovamento italiano di Dini e l’Udeur di Mastella si fondono, dando vita alla Margherita. Il nuovo partito, immaginato come la forza liberaldemocratica mancante nella politica italiana, si afferma alle elezioni politiche ma, sempre di più, si trasforma in una forza centrista attenta alle richieste dei vescovi cattolici e del Vaticano (fecondazione assistita e scuola privata gli ultimi esempi). Nuovo addio al partito democratico.
Ma “il sogno” del partito democratico germoglia anche nella sinistra. Achille Occhetto, dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989, propone “la svolta” per sciogliere il Pci e dare vita alla “cosa”, ma salta il problema della nuova identità politica. Meglio ancora: boccia la metamorfosi in chiave socialista per inseguire quella di una “variopinta carovana”: nel 1991 fonda il Partito democratico della sinistra, in sigla Pds, il simbolo è la Quercia. La sonora sconfitta elettorale della “gioiosa macchina da guerra” alle politiche e alle europee del 1994, con la vittoria di Silvio Berlusconi che occupa lo spazio lasciato libero dalla cancellazione della Dc, del Psi e dei partiti laici per il terremoto di Tangentopoli, fa non una ma due vittime: Occhetto e il suo Pds in versione “carovana americana”.
“Il sogno” del partito democratico diviene più concreto nel 1995, si chiama Ulivo. Romano Prodi, Francesco Rutelli e Walter Veltroni (soprattutto quest’ultimo) lo sognano come un partito kennediano, una grande forza liberaldemocratica in grado di modernizzare il paese. Massimo D’Alema, segretario del Pds, lo vede come il cartello elettorale del centrosinistra. Si fa la coalizione elettorale, l’Ulivo fa presa e vince le elezioni politiche del 1996. Di nuovo sorge l’interrogativo: partito democratico o partito socialdemocratico? Nel Pds Veltroni spinge per il primo, D’Alema per il secondo. Vince il segretario. L’Ulivo resta un cartello elettorale, mentre il Pds fa rotta verso “la cosa due”, una nuova forza di matrice socialista. Negli Stati generali della sinistra del 1998 nascono i Ds con l’ingresso di socialisti come Giorgio Benvenuto, Valdo Spini e Giorgio Ruffolo, esponenti del disciolto Psi. Ma i Ds, anche nel nome, Democratici di sinistra, operano una scelta a metà. Non c’è un progetto e un programma socialdemocratico né uno liberaldemocratico per avere “un Paese normale”. Il partito resta post comunista. Nelle elezioni politiche del 2001 crolla al 16,6% dei voti. Un passo avanti e due indietro.
Piero Fassino, nuovo segretario, pedala e fatica senza sosta. Dal 2002 ad oggi vince tutte le elezioni (amministrative parziali, europee, regionali) contro il centrodestra e sceglie la rotta socialista nella versione riformista. Porta i Ds ad oltre il 20% dei voti, ne fa il primo partito italiano sorpassando Forza Italia. Realizza due congressi, Pesaro e Roma, vinti con una maggioranza sempre più ampia. Assorbe e, in parte, incorpora le proteste ecopacifiste e dei girotondi. Accanto al simbolo della Quercia compare quello della rosa socialista e la scritta per esteso di “Partito socialista europeo”. Non c’è la piena svolta socialista ma qualcosa si vede. Fa passare la Fed, la federazione dell’Ulivo fra Ds-Margherita-Sdi-Repubblicani europei, la indica come “il timone riformista del centrosinistra”, parla della meta di “un grande partito riformista e socialista” sul modello europeo. Prodi, sull’aggettivo socialista, non ci vuol sentire, come del resto la Margherita. Ma a febbraio c’è l’intesa e la Fed parte. Sembra fatta quando Rutelli, a fine maggio, fa saltare la Fed e la lista unitaria alle politiche rivendicando “il ruolo del centro” e contestando “l’egemonismo” dei Ds. Prodi si limita a ribattere: “L’Ulivo è il grande disegno politico della mia vita”. Il Partito riformista scompare, s’inabissa anche il partito democratico. Un passo avanti e due indietro.
Poi la sorpresa. Il trionfo di Prodi alle elezioni primarie del centrosinistra tenute il 16 ottobre e il progetto di riforma elettorale proporzionale con premio di maggioranza, mettono alle corde Rutelli. Il presidente della Margherita fa dietrofront e dice sì a liste comuni con i Ds alla Camera ma pone la condizione di realizzare “il sogno del Partito democratico”. Ricompare il dilemma irrisolto dell’identità. Partito kennediano o partito socialista, partito democratico o partito riformista? Nei Ds Veltroni e Bassolino sono per il partito democratico, D’Alema e la sinistra della Quercia per il partito socialista, Fassino si dice kennediano e socialista. Ad innescare la miccia, questa volta, è Paolo Franchi sul “Corriere della Sera”. Un fatto è certo. Alle politiche ci sarà la lista Ds-Margherita-Repubblicani europei-Di Pietro alla Camera, mentre lo Sdi di Enrico Boselli tenterà un’intesa con Bobo Craxi e i radicali di Marco Pannella. Pdci e Verdi varerebbero una lista Arcobaleno mentre Rifondazione comunista andrebbe per proprio conto. Idem farebbe l’Udeur di Clemente Mastella che sui manifesti per la sua candidatura alle primarie invitava gli elettori: “Fai centro. Dai un segnale”. Come finirà? “Il vento va e poi torna”, diceva Charles Bukowski. E’ vero, a patto che non si tramuti in tempesta.

Corriere della Sera 27.10.05
Passato e Presente
Ds, via alle «nuove Frattocchie»: torna la scuola politica Anche moda e tv tra le materie dei corsi di formazione sull’esempio dell’istituto creato da Togliatti
Maurizio Caprara


ROMA - Informa la Dire, agenzia di stampa attenta a quanto accade nell’Unione, che a tenere alcune delle lezioni saranno «nomi di richiamo». Per esempio lo stilista Piero Guidi, il quale «spiegherà come si può uscire dalla marginalità e approdare alla Fifth avenue», e l’attore Renato Carpentieri, il vicequestore Cafasso nella serie televisiva La Squadra . Con accenti da cartellone, ritornano nel partito erede del grosso del Pci, quello dei Democratici di sinistra, i corsi per la formazione politica di dirigenti e amministratori locali. C’è un certo pudore nell’evitare di chiamarli corsi per «quadri», come una volta, e nel programma annunciato ieri da Piero Fassino c’è molto di un’Italia diversa dal tempo che fu, dall’era della scuola delle «Frattocchie», versione comune del nome ufficiale «Istituto di studi comunisti Palmiro Togliatti». Sabato prossimo la prima giornata degli appuntamenti, aperti a non iscritti ai Ds, sarà in tre alberghi: l’hotel Metropole a Roma, l’Executive a Milano, il Terminus a Napoli. L’asetticità delle sedi alberghiere e il titolo dato alla serie di lezioni, «Amare l’Italia. Specchiarsi nel futuro», fanno presente che Berlusconi, fondatore di Forza Italia, in quanto a egemonia culturale ha lasciato segni molto oltre i confini del centro-destra. Ma nel mare magnum di ciò che è stata la sinistra del nostro Paese non sarebbe difficile trovare precedenti alle scelte didattiche fassiniane. Se fosse vivo oggi, probabilmente Antonio Gramsci scriverebbe note critiche sull’Isola dei famosi. E lo spazio che l'Unità del dopoguerra dedicava ad argomenti extrapolitici come lo sport o la moda, lo ricorda il libro 1946-1956 Le passioni di un decennio di Paolo Spriano, derivava dalla volontà di spingere l’influenza della stampa comunista al di là del pubblico dei soli militanti.
Certo, le Frattocchie erano un’altra cosa, rispetto agli alberghi. Ventidue chilometri dal centro di Roma, vista sulla residenza del Papa a Castelgandolfo, giardino con vigne lungo l’Appia, le Frattocchie furono al principio tempio di ortodossia stalinista, poi centro studi aperto ai filoni marxisti meno ingessati, infine sede di corsi su materie, come la politica fiscale, care ai cooperatori emiliani. Prima della vendita dovuta ai debiti del Pci, se si girasse un film, in dissolvenza sarebbe utile a descriverla l’inquadratura di uno degli ultimi visitatori: Michail Gorbaciov, non più segretario del Pcus. Ci arrivò su una macchina foderata di pubblicità delle aziende che sponsorizzavano un suo viaggio in Italia.
Nella villa comprata per il partito da Edoardo D’Onofrio, c’era posto per un centinaio di allievi. Un’aula con La battaglia del ponte dell’Ammiraglio di Guttuso, una biblioteca con 20mila libri, una mensa. Prima colazione alle 8, colazione alle 13, pranzo alle 19.30. Un ciclo di lezioni per funzionario, quattro mesi.
Maria Antonietta Macciocchi, che negli anni Cinquanta frequentò il quinto corso «Andrei Zdanov», fu scelta per la kista, nome russo di un’autocritica pubblica che prevedeva tra l’altro risposte a domande del tipo: «Hai avuto amanti?». Sabato i Ds non lo chiederanno. Quella, oggi, è una domanda più adatta all’Isola dei famosi.

il manifesto 27.10.05
Nel segno di Einstein

Come già nelle prime due edizioni, il terzo Festival della scienza di Genova, in corso da oggi all'8 novembre, punta su una ben dosata miscela di incontri incentrati su temi fortemente attuali, come la ricerca sulle staminali, le nuove scoperte in materia di alimentazione o lo tsunami. Ma nell'anno internazionale della fisica, che segna anche il centenario della prima formulazione della teoria della relatività, uno degli assi centrali della manifestazione ruota, né potrebbe essere altrimenti, intorno al nome di Albert Einstein. Così, proprio oggi il premio Nobel Robert Laughlin propone Un Einstein diverso, mentre da tutt'altra angolazione il 30 ottobre Gabriele Veneziano parlerà della Teoria delle stringhe come possibile realizzazione del sogno di Einstein (su questo tema parlerà anche, sempre il 30, Brian Greene). Chi desidera conoscere meglio l'opera del grande fisico, potrà poi seguire L'eredità di Einstein con Martin Rees (5 novembre) e Einstein creatore e ribelle con John Stachel (6 novembre). Fra gli appuntamenti del festival (il cui programma si trova sul sito www.festival.infm.it), oltre ai frattali di Mandelbrot, il 3 novembre, vanno inoltre segnalati gli incontri con Craig Venter (1 novembre), con Roger Penrose (5 novembre) e con Steve Jones (ancora il 5).

il manifesto 27.10.05
Tutte le scienze ruotano su Genova
di Paolo Marocco
Si inaugura oggi a Genova la terza edizione del Festival della scienza. Circa duecentocinquanta gli appuntamenti, che contano conferenze, mostre e spettacoli, tra cui la prima mondiale dei Figli dell'Uranio di Peter Greenaway. Moltissimi gli scienziati di fama mondiale: tra questi, Craig Venter, fondatore della società che per prima ha decodificato il genoma umano e i fisici Brian Greene e Robert Laughlin
Il Festival della scienza, che inaugura oggi a Genova la sua terza edizione per terminare l'8 novembre, è forse la manifestazione più riuscita di quella inversione di tendenza che riguarda la divulgazione scientifica nel nostro paese, inaugurata nel 1989 da Spoletoscienza e sostenuta negli anni recenti da un mercato editoriale più attento di quanto la tradizione non lasciasse sperare. È curioso, infatti, come alcuni ottimi presupposti per quella che avrebbe potuto essere una seria divulgazione scientifica siano caduti, in passato, rapidamente nel vuoto. Fin dai primi del '900, per esempio, nelle librerie di qualsivoglia casa borghese non potevano mancare i volumi di Louis Figuier, il maggior divulgatore tecnico-scientifico francese del secolo precedente, la cui notorietà era equivalente a quella di Jules Verne. Tradotti in Italia da Treves, portavano nelle case splendide illustrazioni a corredo di monografie dedicate agli animali, alle macchine industriali o alle grandi invenzioni, arricchite da spiegazioni scritte in una prosa avvincente e immaginativa. Figueir era il classico esempio dello spartiacque tra la divulgazione didattica italiana e quella d'oltralpe e d'oltremanica: la prima, centrata su argomenti di carattere religioso e morale, le altre che ammiccavano alla modernità e al suo bagaglio tecnoscientifico. Anche in Italia non mancavano riviste divulgative di carattere scientifico, ma spesso queste pubblicazioni privilegiavano il frammento aneddotico piuttosto che l'articolo di ampio respiro. Del resto, le figure più significative del neonato Regno d'Italia, come Michele Lessona, che diffuse le idee darwiniane al grande pubblico, e Paolo Mantegazza, erano zoologi e antropologi, quindi appartenevano a un altro universo scientifico rispetto a quello delle scienze fisico-matematiche, più vicino alle nuove tecnologie. In generale, la situazione italiana è sempre stata connotata da una separazione molto profonda tra scienza alta e divulgata. E i motivi storici sono molteplici: innanzitutto una retorica dell'educazione di massa, fitta di pressioni clericali, tendente a trascurare la cultura scientifica, poi una persistente carenza di analisi del pubblico a cui rivolgersi, e la latitanza di uomini di scienza che si concedessero a affrontare il loro sapere a livelli meno elitari.
Ideato dalla società Codice e dall'Istituto nazionale per la fisica della materia, il Festival della scienza conta, quest'anno, circa duecentocinquanta appuntamenti tra conferenze, incontri, mostre e spettacoli, promettendo di fare lievitare ancora i circa centosessantamila visitatori dell'edizione precedente. Naturalmente, la formula del successo è consistita nell'unione del rigore scientifico delle conferenze con la didattica di alcuni itinerari studiati per attrarre anche i ragazzi e con allestimenti artistici multimediali, tra cui la prima mondiale dei Figli dell'Uranio di Peter Greenaway, coadiuvato dalla regista Saskia Boddeke e dal compositore Andrea Liberovici, e lo spettacolo Cosmica Luna, liberamente tratto dalle Cosmicomiche di Italo Calvino.
La prima sezione del programma, che è dedicata all'anno internazionale della fisica e al centenario della teoria della relatività ristretta, propone conferenze di astronomi e fisici di fama internazionale, tra cui Martin Rees, astrofisico che a Genova parlerà dell'eredità di Einstein così come è stata raccolta dalla scienza e dalla politica del XXI secolo. A Einstein si dedicherà anche John Stachel che ne illustrerà la giovinezza di impegato in un ufficio brevetti, rendendo conto di una stagione ancora lontana da quella a noi tutti più nota. Alla trama del cosmo verrà dedicata la conferenza del fisico Brian Greene, autore di un best-seller titolato L'universo elegante, uscito l'anno scorso da Einaudi, che spiegherà al pubblico la teoria delle stringhe.
La seconda sezione è centrata sulle scienze della vita, e affronta molti tra i problemi al cuore dei recenti dibattiti sulla genetica, sulle cellule staminali, sulla clonazione, sulla teoria dell'evoluzione. Alle frontiere della mente e alle interpretazioni dei meccanismi neurali di attivazione del pensiero e della comprensione del mondo è dedicata la terza sezione del Festival, nella quale troverà posto, fra l'altro, una esposizione della attività svolta dai cosiddetti neuroni-mirror. L'ultima sezione, tra esplorazione fotografica e osservazione naturalistica, ha per tema il nostro pianeta dal punto di vista archeologico e geologico, con le sue oscillazioni climatiche e le risorse rappresentate dalle nuove fonti di energia. Infine una sezione trasversale, divisa in una parte di carattere metascientifico, che affronterà le ricadute filosofiche e sociali della scienza, e in una parte ludica, dedicata a performance, installazioni e spettacoli multimediali. Il calendario è saturo di appuntamenti con nomi di grande risonanza internazionale, tra cui cui Craig Venter, lo scienziato-imprenditore fondatore della Celera, la società che per prima ha realizzato la decodifica del genoma umano, e Robert Laughlin, nobel per la fisica nel 1998 e autore, tra l'altro, di un libro provocatorio titolato Un universo diverso (Codice edizioni, 2005) che presenterà in queste giornate.
Proprio il binomio costituito dalla illustrazione di una novità editoriale unita a una conferenza è tra le formule più adottate dalla rassegna genovese: tra gli scienziati che interverranno a commentare i temi dei loro lavori più recenti c'è il matematico Benoit Mandelbrot, che presenterà Il disordine dei mercati appena uscito da Einaudi, e il fisico-matematico Roger Penrose, autore della Strada che porta alla realtà, un testo molto ponderoso che scava nelle radici matematiche di tutta la fisica e uscirà da Rizzoli in contemporanea con il Festival.
L'augurio è che le giornate genovesi aiutino, se non altro, a mettere a fuoco problemi legati a tecniche - come la clonazione e la fecondazione - che hanno destato polemiche non sempre sostenute da una puntuale informazione, e siano capaci di sollecitare un orientamento razionale e meno sprovveduto su questioni come quelle legate, per esempio, alle epidemie e ai cambiamenti climatici, non rassegnandosi a oscillare tra il polo dello specialismo incomunicabile e quello della spettacolarizzazione fine a se stessa.

La Stampa 27.10.05
Einstein, addio
«E’ un marchio, un simbolo
la fisica deve andare oltre»
Francesca Paci

QUANDO dice che vuole reinventare la fisica dalle fondamenta, il professor Robert Laughlin fa sul serio. Nobel per la fisica nel 1998, docente all'università californiana di Stanford e direttore del Kaist di Seul, uno degli atenei più avanzati nello studio ingegneristico, Laughlin è una stella nel firmamento della fisica. Infatti, stamane, a Genova, tocca a lui inaugurare la terza edizione del Festival della Scienza. Eppure, questo robusto cinquantacinquenne con una crespa chioma di capelli bianchi, più simile ad un giocatore di rugby che a un topo di laboratorio, sostiene che non c'è nessuno d'intoccabile nell'empireo scientifico. Semplicemente perchè «un empireo scientifico sarebbe una contraddizione in termini». All'Istituto per gli studi Filosofici e di Fisica della Materia di Napoli, dove ha tenuto una conferenza ieri, Laughlin aveva proposto un titolo provocatorio: «In quest'anno della fisica, centenario della nascita della relatività, ricordiamo che Einstein è morto da molto tempo». Era un po' lungo, e ci si è accordati su Un universo differente, il titolo del suo libro che uscirà a giorni per le edizioni Codice. Lui però, resta fermo nella sua idea. Proprio così: neppure l'icona più rappresentativa della scienza moderna resiste alla prova del tempo.
Professor Laughlin, dobbiamo mandare in pensione la fotografia di Einstein che mostra sfrontato la lingua?
«Niente affatto. Quella foto è la prova di quanto Einstein fosse dissacrante: sarebbe stato fiero d'essere rimesso in discussione. Il problema è che la relatività è diventata un brand, un simbolo. Gli esperimenti dicono invece che quella formula, una volta testata, non funziona su piccolissime distanze. Cosa dobbiamo fare? Archiviare la ricerca perché altera la credenza comune? Folle. La fisica, per sua natura, non si accontenta mai di un'idea, va sempre oltre».
Perché reinventare la fisica?
«Nella fisica è in corso una battaglia ideologica. Da una parte ci sono i teorici sostenitori d'un approccio quasi religioso ai problemi, quelli che prima viene l'idea e poi la dimostro. Dall'altra gli scienziati come me, convinti che qualsiasi intuizione vada prima sperimentata. Lo racconto anche in una delle mie vignette: l'effetto della gravità studiata da Newton su una mela sarebbe diversa se le mele in caduta fossero centinaia...».
Da come la racconta, la fisica assomiglia molto alla politica.
«E' vero. E nel mondo contemporaneo è in corso la medesima battaglia tra fanatici dell'ideologica e pragmatisti. Basta pensare alla teoria della guerra preventiva che ha portato il mio paese in Iraq... Ma che la società sia pregna d'ideologia non mi sorprende: è stato il virus del Novecento. Il problema è se questa malattia contagia la fisica e la rende divina, indiscutibile».
In Europa, come negli Stati Uniti, si discute dei limiti della scienza e del peso dell'etica. Qual è la sua posizione?
«Pratica, anche in questo caso. Al Kaist di Seul, dove trascorro molto tempo, ho conosciuto Hwang Woo Seok, lo studioso che ha clonato la prima cellula umana. Sono un suo grande sostenitore, quel tipo di ricerca può dare risultati importantissimi nella cura di molte malattie. Credo che la vita non inizi con il concepimento, ma che l'individuo si formi gradualmente attraverso un'organizzazione gerarchica di cellule. L'uomo è la totalità che riconosciamo guardandolo a distanza, come un quadro di Monet: se lo osservassimo da vicino noteremmo solo pennellate senza senso».
Perché la scienza lascia la gente comune diffidente?
«In parte è colpa dell'atteggiamento ideologico di alcuni di noi, lo dicevo. Poi c'è una corrente antimodernista che attraversa la società occidentale, quasi scavalcando all'indietro l'illuminismo. Credo che sia tipico delle democrazie, dove le persone sono libere di sbagliare e devono sbagliare prima di capire. Un giorno scopriremo che i nostri malati vanno a curarsi in Corea e riconosceremo l'errore».
Il virus dell'ideologia, come lo chiama, ha contagiato anche la scuola dove si discute se mantere l'insegnamento del darwinismo o introdurre il creazionismo. Cosa ne pensa?
«Il darwinismo è una teoria altamente plausibile. Detto questo però, la controffensiva dei creazionisti non mi preoccupa. L'indottrinamento smaccatamente ideologico funziona meglio sugli adulti che sui ragazzi: i giovani sono troppo svegli. Ho molti amici cresciuti nell'ex Urss e nessuno di loro ha mai preso sul serio la teologia marxista-leninista».
Lei sostiene di poter spiegare le leggi della fisica con esempi semplici, quotidiani. Ci provi.
«Il fatto che parliamo e nulla si frappone nella trasmissione del suono è una legge fisica. E non ha bisogno di lauree per essere intuita. Lo spiego sempre ai miei studenti quando ci riuniamo per suonare...»
Suonare, ha detto?
«Sì, stiamo mettendo su un gruppo musicale. Io compongo con il computer e loro sono bravissimi con la batteria e la chitarra elettrica. Dovreste vedere le ragazze, sembrano già rockstar».
Che rapporto c'è tra la scienza e la tecnologia?
«Un rapporto patologico. La tecnologia produce macchinari incomprensibili e ne tiene i meccanismi celati per venderli bene sul mercato. La scienza dovrebbe fare l'opposto, svelare i segreti. Per questo sono un nemico giurato di Microsoft e dei brevetti intellettuali, per il computer utilizzo solo programmi open source. Gli scienziati dovrebbero fare altro per guadagnarsi da vivere e lasciare la mente lontana dalle logiche di mercato».
Lei lo fa?
«Bè, non proprio. O meglio, non ancora. Tengo una rubrica su un quotidiano di Seul, il Closun Ilbo. Magari potrei fare il giornalista, o il compositore...»


e infine:
Depressione, disturbo bipolare, ansia
Tutto quello che avreste sempre voluto sapere e non avete mai osato chiedere lo trovate al seguente indirizzo

http://www.depressioneansia.it/depressione.htm

una segnalazione di Francesco Baldini

mercoledì 26 ottobre 2005

aprileonline.info 26.10.05
Collisione tra Cofferati e Prc. Cronaca di un braccio di ferro
Bologna. Il sindaco insiste su legalità e sicurezza come bussole del buongoverno. La sinistra radicale e i collettivi studenteschi lo contestano, mentre la polizia manganella
di Sabrina Magnani

Un gran brutto pomeriggio, quello di lunedì 24 ottobre, in piazza Maggiore davanti a Palazzo d’Accursio, sede del Consiglio comunale di Bologna, nel giorno della seduta consigliare decisiva per capire le reali intenzioni del sindaco Sergio Cofferati circa lo sgombero dei rumeni accampati nei pressi del fiume Reno e il suo concetto di legalità con cui governare i complessi problemi dell’immigrazione clandestina a Bologna.
Mentre in aula si svolgeva la discussione, in piazza si radunavano un centinaio di studenti universitari e di rappresentanti dei collettivi giovanili per chiedere un incontro con il sindaco. Un paio di ore prima, una parte di loro si era recata dall’assessore alla casa Amorosi, esponente fino al suo ruolo in giunta, del movimento no global cittadino nonché proveniente dai gruppi studenteschi universitari, per chiedere informazioni sull’assegnazione delle case in edilizia residenziale pubblica, sulle cui modalità aveva espresso molte critiche lo stesso Amorosi nei mesi scorsi. L’incontro non era finito per il meglio, essendo gli interlocutori in disaccordo circa il metodo delle occupazioni, attuate da una parte dei collettivi in questi mesi. "Con il peso di 42 mila studenti che ogni giorno pesano sull’affitto della città, il problema da risolvere è quello del 'nero' – ha dichiarato l’assessore – ma occupare non permette di consegnare le case a chi ne ha bisogno. E' un metodo di lotta sbagliato". Dall’altra parte del tavolo i componenti della delegazione si irrigidivano, chiedendo una rettifica. Il confronto finiva con Amorosi che abbandonavano la sala.
Gli studenti lasciavano Palazzo d’Accursio e tornavano in Piazza Verdi, cuore della cittadella universitaria in pieno centro cittadino, a due passi dalla sede del comune, si univano ad altri collettivi e insieme intonavano lo slogan: “La casa è un diritto, l’affitto è una rapina”. Poi tornavano in piazza Maggiore, questa volta per chiedere di partecipare alla seduta consigliare comunale che di solito è pubblica. Erano all’incirca le 17.00. La strada era sbarrata da un cordone di vigili urbani e una decina di carabinieri. Solo a dieci di loro è dato il permesso di salire ma loro non ci stanno: o tutti, poiché la seduta pubblica, o nessuno. C’è anche Bifo, tra i protagonisti delle giornate del febbraio del ‘77 bolognese, oggi "mediativvista" e tra i fondatore delle tv di strada, che il giorno prima su un blog del sito del Centro ricerche di studi Don Milani aveva espresso il suo dissenso sul concetto di legalità. "Colui che i bolognesi votarono credendo che fosse il difensore dei diritti, si sta distinguendo per una campagna contro i più deboli", ha scritto Bifo in un articolo intitolato “La svolta di Cofferati”. Prosegue in quell'articolo: "Giovedì ha mandato le ruspe a distruggere le baracche di 300 rumeni… Ma davvero Bologna deve convivere con un sindaco così? A Bologna naturalmente votano quasi solo gli «stanziali». Quelli che studiano e fanno ricerca sono in gran parte fuori sede. Quelli che lavorano sono in misura crescente migranti, regolari o clandestini (comunque non votanti). I nomadi non votano, si sa. Gli stanziali votano: quelli che hanno atteso baffone per quarant'anni, i funzionari del partito di baffone, abitanti di ville con piscina asserragliati sui colli, commercianti che lamentano il degrado, e proprietari di casa che affittano qualche metro quadrato per 300 euro al mese. Perciò Bologna produce innovazione culturale, ma esprime un potere autoritario. E' la stessa frattura che Bologna conobbe nel `77. Ma da che parte sta il sindaco che abbiamo votato perché credevamo che fosse il difensore dei diritti?".
Tornando alla cronaca, dopo il primo rifiuto degli studenti a far entrare solo un piccolo gruppo, la situazione precipitava. In un’ora si alternavano alcuni esponenti del Consiglio comunale a creare una mediazione per impedire scontri più gravi. Ci provava Valerio Monteventi, storico esponente della sinistra radicale bolognese, oggi esponente di Prc in Consiglio comunale e presidente della Commissione sulle politiche sociali. Poi ci provavano Gianni Sofri presidente del Consiglio, poi Roberto Sconciaforni, capogruppo del Prc e il diessino Sergio Lo Giudice. Ma i numeri dei posti resi disponibili per seguire i lavori consiliari non erano accettati dai collettivi. Qualcuno dava addirittura del "fascista" a Cofferati, altri inveivano contro una Bologna rossa ma rossa di vergogna.
Partiva una seconda e più violenta repressione da parte delle forze dell’ordine: questa volta le manganellate colpivano anche Tiziano Lo reti, segretario provinciale del Prc, portato subito in ospedale. Solo intorno alle 18.00 l’uragano si placava con, oltre a Lo reti, sei contusi, tre ragazzi e tre carabinieri.
"Per me è finita, è finita davvero", mormorava Valerio Monteventi che già nei mesi corsi si era più volte trovato a criticare interventi del Comune sul tema scottante dell’immigrazione clandestina (dopo lo sgombero del Ferrhotel, la struttura delle Ferrovie dello Stato dove per mesi hanno trovato alloggio una cinquantina di rumeni accuditi dai ragazzi volontari del Bologna social forum di cui Monteventi è il principale esponente).
Il pomeriggio finiva senza l’incontro tra i collettivi e il primo cittadino, anche se ai primi veniva data possibilità di entrare in palazzo d’Accursio. "Nonostante mi abbiano dato del fascista li avrei ascoltati – dichiarava Cofferati, anche lui sceso nel giardino interno ma a debita distanza dai manifestanti – Evidentemente non erano interessati a parlare con il sindaco"..
La maggior parte degli assessori si stringe intorno a lui, criticando gli atteggiamenti di violenza verbale degli studenti, come faceva l’assessore alla sanità (Margherita) Paruolo. Anche la vicesindaco, sempre Margherita, Scaramuzzino, recentemente al centro di un disaccordo reso pubblico con il sindaco sulla questione degli immigrati lavavetri, sosteneva il primo cittadino condividendo le sue affermazioni e definendo confusionale l’atteggiamento degli studenti. Non la pensava così l’assessore Zamboni (Prc), che ha un ruolo importante in giunta avendo la delega alla mobilità e ai trasporti, che faceva quadrato con tutto il suo partito intorno al segretario Loreti finito in ospedale.
Lo strappo, già annunciato ma finora mai portato a termine, tra Rifondazione e la maggioranza, pare questa volta inevitabile, anche a seguito delle dichiarazioni in seduta consigliare degli esponenti diessini. Mentre infatti in piazza si svolgeva la bagarre, in aula la seduta era stata aperta dalle risposte di Cofferati alle domande degli esponenti di Verdi, Pdci, Prc, An e Margherita circa le modalità di intervento per lo sgombero delle baracche di rumeni sul fiume Reno dei giorni scorsi: "Procederemo allo sgombero totale dell’area. Siamo intervenuti perché c’era uno stato di necessità che ci è stato segnalato dall’Ausl. Lo sgombero riguardava solo persone adulte, per questo consono intervenuti i servizi sociali. Le donne e i bambini trovati sono stati identificati e poi rilasciati". E' inaccettabile per Cofferati fermarsi ora: "La maggiore sofferenza di queste persone è quella di rimanere in condizioni di illegalità e di pericolo". Non una parola, come ha fatto notare Sconciaforni (Prc), sulla ricerca di manodopera in nero da parte di imprenditori senza scrupoli che sulla fiorente industria del mattone a Bologna stanno facendo significativi affari.
Le parole di Cofferati avevano trovato precedentemente un’eco nell’intervento del capogruppo diessino Claudio Merighi, esponente di rilievo dei Ds a Bologna, il quale aveva denunciato l’atteggiamento di Rifondazione: "Avete praticato una politica mirata a mettere in luce le contraddizioni della legge Bossi-Fini". E riferendosi alle azioni svolte per il caso sopraccitato del Ferrhotel ha continuato affermando: "Avete incentivato un progresso migratorio caotico e disordinatio, di difficile gestione ed assimilazione tra le maglie accoglienti di Bologna. Ciò ha prodotto meno tolleranza e ha spostato risorse dall’accoglienza all’emergenza". "Parole gravi e strumentali - ha commentato Sconciaforni - tese a non risolvere i problemi ma a cercare capri espiatori. Non siamo in maggioranza per dire sempre di sì. La legalità non può essere usata come strumento da far balenare contro i più deboli. Non ho sentito nessuna parola contro gli imprenditori senza scrupoli che sfruttano questi immigrati".
Lunedì sera la sinistra radicale decideva di riflettere sull'eventualità di uscire dalla giunta dopo che sia Verdi che Pdci e Prc avevano consultato i propri gruppi consiliari. Diversa la posizione dei gruppi di maggioranza dell’Unione, Margherita e Ds, che cercano una posizione comune sul tema della legalità. Legalità che pare essere un termine sempre più inadeguato non solo per risolvere il complesso problema degli immigrati clandestini ma anche altri motivi di scandalo, come la vicenda dei concorsi truccati presso alcune facoltà universitarie e in ambito sanitario cittadino, annoso e risaputo fenomeno che fino a ieri era il leit motiv della cronaca cittadina.

il manifesto 26.20.05
Il gran rifiuto di Rosa Parks
Scompare con lei una figura definita da Time tra le più influenti del XX secolo. Il suo nome è legato alla difesa dei diritti civili da quando rifiutò di cedere a un bianco il suo posto sull'autobus. Un gesto simbolico dietro al quale c'è un complicato lavoro di relazioni politiche
di Alessandro Portelli

Era il settembre del 1973, ero appena arrivato allo Highlander Center di New Market, Tennessee - una storica istituzione del movimento operaio negli anni `30 e del movimento per i diritti civili dagli anni '50 in poi. Entro nell'ufficio del direttore Mike Clark per salutare, e si affaccia una segretaria: «C'è Rosa Parks al telefono». Fu come se mi avessero detto che aveva telefonato Carlo Marx: una figura mitica di fondatrice della mia stessa coscienza civile si manifestava viva e presente nel quotidiano - e in contatto con un'istituzione da sempre in odore di sovversione. Mike Clark e Myles Horton (il fondatore di Highlander) mi spiegarono poi che Rosa Parks era stata a Highlander e aveva partecipato a gruppi di lavoro e di formazione politica prima del suo storico rifiuto di obbedire alle norme della segregazione nei pubblici trasporti di Montgomery, Alabama. I media e la leggenda hanno alimentato la sua figura come quella di una anziana cucitrice che non cede il posto a un bianco perché è stanca e le fanno male i piedi; in realtà, Rosa Parks era perfettamente cosciente del significato politico di quanto stava facendo, il suo gesto era stato preparato accuratamente (e non era neanche una vecchietta, all'epoca del suo gran rifiuto aveva quarantatre anni). Per un po' mi dispiacque avere perduto quell'immagine romantica; ma in cambio avevo acquisito tutta un'altra percezione, tutto un nuovo rispetto, di quel che era stato il movimento dei diritti civili, della sua lunga e consapevole gestazione, e del coraggio collettivi di cui questa donna straordinaria era espressione, della memoria storica e della visione strategica che avevano messo in moto il movimento e lo avevano continuato. C'era senza dubbio una componente di indignazione spontanea, di mobilitazione immediata, nel movimento dei diritti civili; ma quello che Rosa Parks ha dimostrato è che esso fu frutto anche di una grande intelligenza politica diffusa.
Rosa Parks non era stata la prima donna nera a rifiutare di alzarsi in un autobus di Birmingham: c'era stato già un caso, addirittura nel 1939. Nelle occasioni precedenti - effettivamente spontanee e non preparate - le autorità erano riuscite a distorcere i fatti diffamando le protagoniste e sostenendo di averle arrestate per altre, piccole, trasgressioni all'ordine razziale dell'Alabama. Ma questi episodi spontanei avevano indicato una strategia possibile; e Rosa Parks era stata scelta per ripeterli proprio grazie alla la sua irreprensibile figura morale e civica, che rendeva impossibile mascherare il suo arresto con motivazioni altre che non la difesa dell'ordine razzista.
Alle sue spalle c'era tutta una rete di relazioni che avevano preparato il suo gesto e la risposta da dare al suo arresto: c'era, naturalmente, la National Association for the Advancement of Colored People, che aveva condotto le battaglie legali contro la segregazione (compresa la vittoria alla corte suprema nel caso Brown vs. Board of Education che nel 1954 aveva dichiarato incostituzionale la segregazione scolastica); ma c'erano anche figure come E. D. Nixon, sindacalista della Brotherhood of Sleeping Car Porters, gli addetti alle carrozze letto, la più grande organizzazione sindacale afroamericana. Solo in un secondo momento, a cose fatte, fu chiamato in causa un giovane ministro metodista, da poco arrivato a Montgomery, noto anche lui per la sua inattaccabile moralità e la sua rispettabile moderazione: Martin Luther King, Jr. (più tardi, anche King andò agli incontri di Highlander, e per questo lo bollarono come comunista).
Insomma, il movimento dei diritti civili aveva acquistato visibilità attraverso una serie di gesti e personaggi simbolici ma questi erano stati il risultato di un lungo, complicato, pericoloso lavoro di relazione, di preparazione politica, di memoria storica condivisa: senza una rete del genere il compatto boicottaggio dei trasporti pubblici che l'intera collettività afroamericana di Montgomery resse per più di un anno, non sarebbe stato possibile. Il potere simbolico di Rosa Parks stava proprio nel modo in cui combinava un impegno politico cosciente con un'immagine casalinga e quotidiana: una donna qualunque, e una donna eccezionale, insieme.
Due parole vanno spese proprio a proposito del luogo scelto per aprire la sfida alla segregazione, a Montgomery, e per commentare la strategia adottata. I tram e gli autobus segregati sono da sempre un dei luoghi più invisi del razzismo istituzionale, dai romanzi di fine `800 ai Freedom Rides degli anni `70: l'efficacia simbolica del gesto di Rosa Parks era accentuata da decenni di risentimenti e di rabbia accumulati nei mezzi di trasporto. Ma c'è di più: come hanno dimostrato le vicende dell'uragano Katrina a New Orleans, in un paese che ha fatto dell'automobile e del trasporto privato la sua icona rappresentativa, gli afroamericani sono gli utenti principali dei trasporti pubblici (e quelli che più soffrono della loro mancanza). Colpendo gli autobus, il movimento di Montgomery colpiva il potere locale proprio là dove i neri erano i clienti principali, una fonte di reddito per le istituzioni - e così inaugurava quella strategia di boicottaggi in cui gli afroamericani, spesso esclusi dai luoghi della produzione, usavano il loro potere di consumatori come strumento di pressione e di lotta.
Qualche giorno fa, Condoleezza Rice ha accompagnato il ministro degli esteri inglese, Jack Straw, in visita a Birmingham, Alabama, dove nel 1963 quattro bambine (una era sua amica) furono uccise da una bomba razzista in una chiesa. Con accenti che, per una volta, sembravano quasi veri, la Rice ha ricordato (ma come se fossero cose solo del passato) la sua infanzia in Alabama, il razzismo e la segregazione in cui era cresciuta. Ma l'impegno politico di Rosa Parks non si era fermato ai quei giorni; anche senza assumere ruoli di leadership, è continuato fino ad oggi perché ancora oggi il razzismo alza la sua brutta testa. Il fatto che dobbiamo anche Condoleezza Rice a Rosa Parks è un paradosso; ma costituisce una ragione di più per non permettere che si dichiari chiusa la storia rappresentata da Rosa Parks e che sia la Rice a impadronirsi della sua memoria e del suo coraggio.

Il Messaggero 26.10.05
Un’indagine del Comune e della Regione Lazio
Il dato è sottostimato: il consumo maggiore è di cannabis, seguono coca e allucinogeni
Nella Capitale uno su dieci fa uso di stupefacenti
L’esperto del Policlinico: la nuova emergenza è l’abbinamento di alcol e sostanze psicoattive
di Raffaella Troili

ROMA - Smetto quando voglio. Illuso chi ci crede. Così la coca abbindola, sirena buona che regala prontezza di ragionamento, memoria, resistenza e vivacità a manager in giacca e cravatta, stressati e compiaciuti dalle loro prestazioni. Ma la competizione è grande, lo sanno i giovanissimi, che allungano la mano sempre più spesso verso sostanze stupefacenti e alcol. La bottiglia si ostenta, la droga - cocaina e pasticche - non viene considerata assolutamente una pericolosa dipendenza. Non c’è più l’alcolista puro come dieci anni fa, anche il drogato non è più solo il tossico disperato, piuttosto il cocainomane che non sopporta di perdere il controllo. E cresce la poliassunzione: il 9,6 per cento della popolazione di Roma e provincia fa uso di una o più sostanze illegali. Lo dice un’indagine realizzata nel 2004 dal Centro di riferimento alcologico della Regione Lazio e dal Comune di Roma su un campione di 1000 persone sopra i 18 anni, estratte dalle liste elettorali. «Di questa cifra, sottostimata visto che non tutti si aprono agli estranei, tant’è che il 38% non ha voluto rispondere - spiega Mauro Ceccanti, responsabile del centro alcologico che ha la sede al Policlinico Umberto I - il 72,99% fa uso di cannabis, il 13,6 di cocaina, il 7,3 di allucinogeni, il 3,1 di inalanti, sempre il 3,1 di oppiacei».
Cala l’uso di eroina, che attenua le tensioni, cresce quello di cocaina, che garantisce sicurezza e concentrazione. «E soprattutto costa meno di un tempo e non viene percepita come una droga: non si deve iniettare, è molto più facile da usare», ancora Ceccanti. «Ma la nuova emergenza è l’uso contemporaneo di sostanze illegali: c’è un profondo disagio sociale favorito dalla metropoli. Perché conta sì, un certo tipo di patrimonio genetico, ma anche lo stress, in aumento: determina modificazioni a livello cerebrale, mettendo in circolo cortisone e adrenalina. Oggi ci sono basi organiche e biochimiche che spiegano il fenomeno». Più in generale, dall’indagine emerge che il 72,7% dichiara di bere alcol, e che il 12,1 rientra tra i bevitori eccessivi. Il 33,3 fa uso di tabacco, l’1,4 di cocaina, lo 0,8 di amfetamine, l’8,8 di cannabis, lo 0,7 di allucinogeni, lo 0,3 di inalanti, lo 0,3 di oppiacei, il 14,2 di sedativi o ansiolitici («fortemente in crescita tra le donne»).
«Inoltre, il 23,1% dei bevitori eccessivi usa cannabinoidi, come è emerso da un’ulteriore indagine sui pazienti del nostro Centro». I consumi giornalieri di alcol sono di 115 grammi di alcol puro negli uomini (corrisponde a circa un litro e mezzo di vino) e 113 per le donne. «I pazienti hanno una storia di consumo a rischio di alcol di 20 anni in media (23 per gli uomini, 14 per le donne)». Anche il 7,7% di chi si rivolge al Centro usa altre sostanze, il 3,8% di alcolisti mostra una polidipendenza (il 13,9 da cocaina, il 7,7 da eroina). Se l’Oms sei mesi fa ha allertato tutti gli addetti ai lavori: «La nuova emergenza è l’uso di alcol e altre sostanze psicoattive», il nuovo allarme non è sfuggito neppure alle scuole. «Cresce di anno in anno il numero di giovani che fanno un uso eccessivo di alcol associato come sedativo-tranquillante all’assunzione di exstasy, cocaina, anfetamine», conferma Ceccanti. La sua analisi parte dalla strada, prima di elencare numeri, racconta quel che vede in giro: «L’uso della birra e del vino è diventato un fatto culturale, sono sostanze simbolo della società: basta andare a San Lorenzo o Campo de’ Fiori per vedere giovani che ostentano la bottiglia per essere conformi al gruppo. Non è detto che siano alcolisti ma corrono rischi di salute maggiori: in questo periodo della vita una “tempesta” ormonale accompagna lo sviluppo psicosomatico e l’alcol è in grado di alterare la maggior parte degli equilibri ormonali stessi». Insomma, sono i giovani che esagerano, sempre loro quelli che vivono e guidano nella notte, quando la stanchezza è in agguato. «Le attuali abitudini di vita portano a questo. Se poi all’alcol si aggiungono altre sostanze che alterano la percezione esterna, i rischi crescono».
«Il 12% dei ragazzi tra i 14 e i 19 anni presentano problemi di alcol, dall’intossicazione acuta alla dipendenza». Il 4% al I anno di liceo, il 17-18% verso gli ultimi anni, con picchi del 21-23% negli istituti tecnici e professionali. «E il 50% dei ragazzi che si iscrivono al III anno di superiori ha sperimentato un’intossicazione acuta, uno su due, in genere durante le vacanze estive precedenti. Spesso le famiglie non si accorgono di niente». Al contrario dei prof: «Altro problema sono le gite scolastiche, che a volte i professori hanno difficoltà a gestire». Questi viaggi si trasformano in occasioni per ubriacarsi. «I docenti chiedono continuamente di essere aiutati, di non essere lasciati soli. Per questo la Provincia insieme a Centro Alcologico e Ufficio scolastico regionale sta avviando un intervento di prevenzione nelle superiori».

Il Messaggero (Abruzzo) 25.10.05
Bimbi maltrattati, orrore quotidiano
In Abruzzo nel primo semestre 2004 sono state 2.483 le sospette violenze sui minori
Esperti da tutta Italia a convegno a Scerne di Pineto. Crescono anche gli abusi sessuali
Dati allarmanti, fenomeno in aumento. E nella regione scatta l’allarme
di Teodoro Poeta
TERAMO - Violenze e minori. Violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale. Vittime prescelte sempre più bambini abruzzesi. Secondo una recente indagine, condotta dal Centro studi di Scerne di Pineto, nel primo semestre del 2004 sono stati 2.483 i casi di bambini abruzzesi per i quali il tribunale dei minori ha aperto un fascicolo per sospetta violenza, con un’incidenza percentuale sul totale della popolazione minorile pari a circa l’1%. Sempre nella nostra regione, le violenze sessuali, invece, nel 2003, sono state 54, di cui molte a danno proprio di minori. Su questi delicati temi la Fondazione Maria Regina ha chiamato a confrontarsi studiosi e ricercatori provenienti da tutta Italia: due le giornate del convegno, il 27 ed il 28 ottobre, nella sede del Centro studi a Scerne di Pineto. Due giornate intense, sia per la complessità delle tematiche, sia per gli aggiornamenti che verranno presentati anche per quanto riguarda la nostra regione.
TERAMO - Violenze e minori. Due mondi diversi, opposti, che, però, con sempre maggiore frequenza, si avvicinano, fino ad accavallarsi nei casi più estremi. Violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale. Vittime prescelte sempre più bambini abruzzesi. Un dato agghiacciante, che, comunque, mostra un fenomeno ancora più esteso di quanto possa emergere da qualsiasi analisi. Secondo una recente indagine, condotta dal Centro studi sul bambino di Scerne di Pineto, nel primo semestre del 2004 sono stati 2.483 i casi di bambini abruzzesi per i quali il tribunale dei minori ha aperto un fascicolo per sospetta violenza, con un’incidenza percentuale sul totale della popolazione minorile pari a circa l’1%. Sempre nella nostra regione, le violenze sessuali, invece, nel 2003, sono state 54, di cui molte a danno proprio di minori. Ma la violenza è davvero un male incurabile dell’uomo? O, forse, è un effetto delle dinamiche sociali e psicologiche, che può essere curato? Come prevenire il cattivo trattamento dei bambini in famiglie più ”vulnerabili”? Come attivare percorsi terapeutici in grado di curare anche l’abusante, che, a sua volta, spesso, è stato un bambino abusato? Su questi delicati temi la Fondazione Maria Regina ha chiamato a confrontarsi studiosi e ricercatori provenienti da tutta Italia per il 16° convegno annuale sulla tutela dei minori, dedicato, quest’anno, ai percorsi di trattamento di genitori ed abusanti. Due le giornate del convegno, il 27 ed il 28 ottobre, nella sede del Centro studi a Scerne di Pineto. Ad aprire i lavori il conduttore di Zapping, vice direttore del giornale radio Rai, Aldo Forbice, che fornirà un panorama mondiale sull’abuso ai danni dei minori e sulle risorse dell’informazione quale strategia di contrasto al fenomeno. Testimonianze e contributi arriveranno anche da Joseph Moversoen, giudice onorario del tribunale dei minori di Milano, uno dei maggiori esperti mondiali; Chiara Simonelli dell’università ”La Sapienza” di Roma; Dario Merlino del Centro tutela minori di Torino e Paola Ortolano, sostituto procuratore a Milano. Si tratta di due giorni intensi, sia per la complessità delle tematiche, sia per gli ultimi aggiornamenti che verranno presentati anche per quanto riguarda la nostra regione. Il 27, saranno don Fortunato di Noto, il sacerdote siciliano che ha smascherato diverse organizzazioni malavitose di pedofilia on-line, Myrian Caranzano dell’associazione svizzera per la protezione dell’infanzia e Maria Stella D’Andrea, medico legale di Reggio Emilia, a trattare il tema degli abusi telematici, di quelli accidentali e relativi strumenti di aiuto. Il 28, invece, il convegno vedrà la presenza dei tre maggiori esperti italiani in materia, ossia Stefano Cirillo, psicoterapeuta; Cosimo Schinaia, primario psichiatra, e Claudio Foti del centro Hansel e Gretel di Torino.

sanihelp.it 25.10.05
Anche il cervello ha un sesso, e si ammala di conseguenza

saniNews - Non sono solo gli organi sessuali ad avere nette differenze di genere: anche il cervello ha connotazioni diverse a seconda del sesso.
A sostenerlo è un gruppo di scienziati del Netherlands Institute for Brain Research di Amsterdam.
«Le differenze di sesso nel cervello si sviluppano nella fase prenatale», spiega il professor Dick Swaab, responsabile del progetto. Queste differenze fisiche sono alla base della differenziazione delle patologie: le donne sono più soggette ad ansia e depressione, ad esempio, mentre gli uomini al morbo di Parkinson.
Lo studio di queste differenze di genere apre nuove prospettive per la creazione di terapie gender-specific, cioè mirate alle specificità sessuali del cervello.

Fonte: Bbc News Health


donnamoderna.com 25.10.05
http://www.donnamoderna.com/famiglia/a021001008690.jsp
Quando la scuola fa paura
Per alcuni bambini mettere piede in classe è una tragedia. I capricci però non c’entrano
di Laura D'Orsi

La scuola è cominciata da un po’, ma tuo figlio piange, strepita, non ci vuole andare. All’inizio, pensavi che fossero capricci. Ma ora inizi a preoccuparti. E fai bene. Perché, come dicono gli esperti, potrebbe soffrire di un disturbo preciso chiamato “fobia della scuola”. E che colpisce ben sette bambini su cento. «L’angoscia è così forte che la sola idea di mettere piede in classe scatena crisi fortissime» spiega Piergiorgio Miottello, primario di neuropsichiatria infantile dell’ospedale di Bassano del Grappa. Un problema non da poco, quindi. Ma come capire se tuo figlio è capriccioso o soffre di questo disturbo? Qui di seguito troverai una piccola, ma efficace guida preparata dal nostro esperto che ti aiuterà a togliere qualsiasi dubbio.
I campanelli d’allarme
Sembra il solito mal di pancia, la solita scusa per restare a casa. Ma poi si aggiunge il mal di testa, il vomito. La notte si sveglia, mentre di giorno non vuole mangiare. Troppi disturbi e tutti insieme. I piccoli in preda al terrore della scuola manifestano attraverso il corpo la loro ansia. E il malessere è reale. Le cose peggiorano quando si avvicina il momento di uscire di casa. Il bambino è in preda a una forte agitazione, piange, si dispera, supplica i genitori, promette che il giorno dopo non farà storie, si aggrappa alla mamma e al papà. Oppure scappa, si nasconde, è aggressivo. Tanto che portarlo a scuola è impossibile. E infatti tenerlo a casa è l’unica soluzione. Ma attenzione: all’inizio i bambini si calmano. Ma è una tranquillità apparente. Perché apatia, ansia, tristezza e pianti improvvisi saltano presto fuori.
La via d’uscita
Per aiutarli, bisogna chiedere aiuto a uno specialista. La psicoterapia, che coinvolge anche i genitori, serve per capire da dove nasce quest’ansia. E che cosa fare per superarla. In generale, è importante che mamma e papà si mostrino fiduciosi nei confronti del bambino e si preoccupino più della sua sofferenza che delle sue assenze. Non a caso, il terapeuta consiglia di tenerlo a casa per almeno un paio di settimane. Così da permettere al piccolo di affrontare gradualmente il disagio.

il manifesto 26.10.05
Attraverso lo specchio di Gilles Deleuze
di Roberto Ciccarelli
Metafisica insolente A dieci anni dalla morte del filosofo francese Feltrinelli ripubblica quella Logica del senso che Foucault definì un libro «grande fra i grandi»
Irruzione del divenire Il maggio 68, e l'incontro con Félix Guattari, segnano il passaggio verso l'immanenza dell'Antiedipo dove l'evento contamina la vita
«Vogliamo essere lo Stanlio e Ollio della filosofia». Presentando Logica del senso al lettore italiano nel 1974, Gilles Deleuze parla così della «filosofia-cinema» composta con Félix Guattari nell'Antiedipo. La sua non è civetteria. In quel momento Deleuze ha ucciso l'autore che è in lui. E infatti scrive: «Adesso, per fortuna, non si può più parlare a mio nome, perché tutto quello che mi è successo dopo Logica del senso dipende dal mio incontro con Félix». Ma cosa è accaduto «dopo» Logica del senso? O meglio, che cosa avviene «in» Logica del senso per portare alla morte dell'autore-Deleuze e alla nascita della molteplicità Gilles-Félix, questa coppia filosofico-cinematografica che avrebbe composto negli anni successivi libri come Kafka. Per una letteratura minore, Mille Piani e Che cos'è la filosofia? A dieci anni dalla morte, e a ottanta dalla nascita di Gilles Deleuze, Feltrinelli ripubblica, nella traduzione di Mario De Stefanis, un libro che Michel Foucault definì «grande tra i grandi». Pubblicato in Francia nel 1969, Logica del senso è il più ardito, e il più insolente, dei trattati di metafisica. Il suo è il libero gioco delle superfici di Alice di Lewis Carroll, dell'assenza di Dio e dell'urlo del corpo di Artaud, dei giochi epidermici della perversione di Sade e di Bataille. «Mi piace questa Logica del senso, - ha scritto Deleuze - era la prima volta che cercavo una forma diversa da quella della filosofia tradizionale. È un libro gaio, e inoltre l'ho scritto in un periodo di malattia».
Qualche anno dopo Deleuze tornerà su Logica del senso riconoscendone l'importanza: «Ho iniziato a fare due libri in un senso vagabondo, Differenza e ripetizione e Logica del senso», scrive in Pourparlers. «Non mi faccio illusioni: hanno ancora un'impostazione accademica, sono pesanti, eppure anche lì tento di scuotere, di smuovere qualcosa in me, di trattare la scrittura come un flusso, non come un codice».
Logica del senso è il libro cerniera nell'opera deleuziana. È l'approdo all'estremo limite del continente conosciuto del pensiero, il tentativo cioè di superare l'opposizione tra la profondità e la superficie, tra il senso e il linguaggio, tra ciò che produce il senso e il discorso filosofico. Deleuze sostiene una teoria del senso che non è legata all'eternità delle idee, alla sua trascendenza noumenica, o al suo radicamento nella profondità della coscienza. Basta con Platone, con l'umanesimo kantiano o con la fenomenologia. La sua buona novella è che il senso non è la manifestazione di un soggetto, non designa alcunché e non significa nulla. Il senso non si deduce dall'azione di un soggetto, da una proposizione o da una rappresentazione. Il senso si produce.
È un pensiero che sovverte le coordinate millenarie della soggettività occidentale. Fuori dall'idealismo fenomenologico, dalla metafisica delle essenze eterne o dal trascendentalismo della ragion pura, infatti, il senso non viene più definito come la proprietà di un soggetto oppure di una sostanza, ma come l'effetto di un evento che per sua natura non è né soggettivo, né corporeo, né proposizionale. Nel flusso della sua scrittura ardua, con improvvisi squarci su Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll e sulla teoria stoica dell'evento e degli incorporali, Deleuze considera il senso nella sua produzione continua, mai definita in anticipo e sempre soggetta alle condizioni aleatorie in cui tale produzione avviene. Deleuze non sostiene che il senso è il prodotto casuale degli avvenimenti, ma è il caso stesso a essere produttore del senso. Dalla personale lettura degli stoici Deleuze giunge a definire questo caso nei termini di un evento. La sua ricerca separa l'evento da una metafisica che inserisce l'evento in una catena interminabile di causa ed effetto, riducendolo così alla rappresentazione fisica (come fa ad esempio il neopositivismo), oppure alla rappresentazione della coscienza (la fenomenologia), o a un luogo puntiforme del ciclo del tempo (la filosofia della storia).
Deleuze è alla ricerca di una metafisica il cui problema non è più quello dell'opposizione tra l'Uno (Dio) e il mondo oppure, al contrario, quello dell'oblio dell'essere (Heidegger), ma che sia affrancata dalla profondità originaria, come dall'essere supremo, insomma da quella illusione di trascendenza che è alla base anche della produzione del senso. Ma il suo è un tentativo riuscito solo a metà. «Che cosa non andava in questa Logica del senso?» si chiede anni dopo Deleuze. «Evidentemente era la testimonianza di un compiacimento ingenuo e colpevole nei confronti della psicoanalisi.... tentavo molto timidamente di rendere la psicoanalisi inoffensiva, presentandola come un'arte di superficie, che si occupa degli eventi».
Logica del senso paga così il debito con la psicoanalisi lacaniana. Il senso infatti può essere determinato solo all'interno di un discorso. Quando il senso è il prodotto dei giochi linguistici che popolano il mondo di Alice, («Snark» o «Jabberwocky» ad esempio), il mondo viene ridotto ai giochi linguistici dell'inconscio. Il senso, scrive infatti Deleuze, è l'espressione della potenza linguistica dell'inconscio. Riducendo le altezze e le profondità filosofiche alla superficie in cui non c'è né il soggetto né l'oggetto, né il vero né il falso, Deleuze non fa altro che riprodurre ciò che dice di rifiutare, quella metafisica dualistica che considera il senso come l'interfaccia tra le proposizione e le cose, la cerniera tra il finito e l'infinito, tra la coscienza e il mondo.
Quando però entra in scena Antonin Artaud, cambiano le cose. E la crisi precipita. L'arte del poeta-psicotico francese viene scagliata contro la psicoanalisi e contro il pensiero delle serie linguistiche. Lo scontro avviene nella tredicesima serie intitolata «Lo schizofrenico e la fanciulla» (in Logica del senso le «serie» sostituiscono i «capitoli» tradizionali di un libro). Davanti a una potenza di vita che minaccia la tranquillità appena increspata della superficie apollinea del linguaggio, Artaud porta la follia e il caos. Le deliziose parole-valigie di Alice sono ormai impotenti a renderlo inoffensivo. «Credevamo di essere ancora tra le fanciulle e i bambini, siamo invece davanti a una follia irreversibile» scrive Deleuze. «Credevamo di essere al vertice della ricerca letteraria e invece ci troviamo nei dibattiti di una vita convulsiva, nella notte di una creazione patologica che riguarda il corpo».
Il corpo si ribella all'inconscio linguistico, ma anche alla sua riduzione a organismo. Il caos, che è il vero soggetto della produzione del senso, distrugge la lingua e rifiuta la psicoanalisi. Minaccia cioè di distruggere lo stesso senso. In questo libro Deleuze avverte la necessità di uscire dai giochi linguistici dell'inconscio, ma il suo è ancora un tentativo parziale: il «corpo senza organi» è ancora una «potenza ambigua» che fa fatica a tagliare i ponti con le sue origini organiche come con quelle linguistiche. Pochi anni dopo non sarà più così. Il problema è posto: dove si produce il senso? Non più negli atti linguistici, né nelle cavità segrete della coscienza, ma nel movimento della vita.
Logica del senso porta dunque alla luce la questione fondamentale del materialismo deleuziano: come rendere il pensiero immanente alla vita se continua a essere pensiero della vita? È questo l'aspetto «ridicolo» del pensiero, scrive Deleuze, vivere nel fiume e pretendere allo stesso tempo di restare sulla riva a guardarlo scorrere.
Con L'Antiedipo cambia tutto. Il pensiero è ora immanente alla vita. Perché il pensiero è azione, non considera cioè l'azione il proprio prolungamento ideale. Pensare significa essere nel movimento e generare un movimento che porta al pensiero. Teoria e pratica, parti immanenti dello stesso movimento della vita. Il passaggio dalla trascendenza, di cui Logica del senso è ancora prigioniera, all'immanenza dell'Antiedipo non è spiegabile per via logica, ma con alcuni incontri: quelli con il maggio 68, con Guattari e con Marx.
«Poi c'è stato l'incontro con Félix, - scrive ancora Deleuze in Pourparlers - il modo in cui ci siamo intesi, completati, spersonalizzati l'uno nell'altro, singolarizzati l'uno attraverso l'altro, insomma amati». Qui l'incontro si è fatto evento, non perché Gilles e Félix erano due intellettuali che avevano i mezzi linguistici per raccontare la loro amicizia in una pellicola gloriosa da proiettare al cinema, ma perché l'evento - ogni evento - ha l'effetto di spersonalizzare e di proiettare le singolarità sul piano del divenire. Morti come autori, Gilles e Félix non si percepiscono più come attori linguistici ma come attori dell'evento. Questo passaggio introduce a un aspetto ancora poco esplorato della filosofia deleuziana: l'etica. Nella vita sospesa al filo degli eventi, il singolo non fa più riferimento a una significazione assoluta (Dio) o ai valori di una morale prescrittiva. È la scoperta della gioia tremenda del divenire contro il peso della necessità imposta dalla storia. Questa etica è vivissima già in Logica del senso. Deleuze si rivolge a Spinoza e a Nietzsche e abbraccia l'evento. Tutto ciò che accade non è solo voluto o subito dal singolo, ma è anche amato, perché l'evento contamina la vita e la muta radicalmente. Nietzsche chiamerà questo amore «amor fati». E così anche Deleuze. Ecco, è questo il modo in cui il filosofo francese affronta gli aspetti laceranti e dolorosi della vita, quindi anche la psicosi. L'etica diventa così la cura che aiuta il singolo a essere conforme a ciò a cui l'evento lo ha preparato a essere. Non dunque rassegnarsi a ciò che accade, dice Deleuze, ma resistere attivamente ai rapporti di forza in cui l'evento ci inserisce.
Questa riflessione sull'etica apre le porte della politica. «Il maggio 68 è stato l'irruzione di un divenire allo stato puro» afferma. Questo evento ha prodotto «il divenire-rivoluzionario della gente» dice Deleuze in una intervista a Toni Negri pubblicata su Futur Antérieur nel 1990. Ma cosa significa? «Il divenire designa qualcosa di nuovo - risponde Deleuze - e indica la resistenza al presente». Nella creazione dell'evento 68 per Deleuze si esprime la capacità «che da sola può scongiurare la vergogna o rispondere all'intollerabile». Cioè resistere ai rapporti di forza imposti nel presente e crearne dei nuovi.
Ma la linea di fuga aperta dal 68 si richiude presto. E il bilancio è ancora una volta spietato: «Sognavamo di finirla con Edipo» scrivono Deleuze-Guattari nella preziosa prefazione italiana a Mille Piani. «Ma era un compito troppo grande per noi. La reazione contro il 68 doveva dimostrare a qual punto l'Edipo familiare stesse bene e continuasse a imporre il suo regime di piagnucolio puerile in psicoanalisi, in letteratura e ovunque nel pensiero».
La chiusura dell'orizzonte politico non genera però una filosofia della sconfitta, ma al contrario un raffinamento dell'analisi. E una macchina di guerriglia permanente contro l'Edipo dilagante, un'etica della resistenza contro l'autoritarismo delle società di controllo capitalistiche. Quell'attore dell'evento che in Logica del senso gioca ancora da solo sul palco con i concetti e le cose, adesso si trova nel movimento stesso della vita. E costruisce l'evento.
La filosofia dell'evento diventa così una filosofia politica «centrata sull'analisi del capitalismo e dei suoi sviluppi, - dice ancora Deleuze - quello che ci interessa di più in Marx è l'analisi del capitalismo come sistema immanente che non smette di superare i propri limiti e di ritrovarli su una scala più grande. Perché il limite è il Capitale stesso». È l'Antiedipo la rottura con la quale «l'inconscio non delira più su papà e mamma, ma delira sulle razze, le tribù, i continenti, la storia e la geografia, sempre un campo sociale».
Siamo morti come autori, ma risorgiamo come attori dell'evento. Non è la promessa di una vita eterna, ma è il presente di un'etica comune. Che in Deleuze si fonda su una antropologia politica diversa da quella dominante. Diciamo allora che per lui la vita non implica né la mancanza (come nella psicoanalisi o nel consumo ordinario delle merci e del lavoro) né l'alterità (come nella filosofia o la teologia). È «potenza e beatitudine completa», si legge nell'ultimo breve testo, pubblicato nel 1995: L'immanence: une vie... La vita non solo persevera nel suo essere, ma desidera perseverare in esso. Questa vita «non manca di niente», scrive Deleuze, è una potenza realizzata nell'immanenza del desiderio nel movimento della vita.
Una delle malevole interpretazioni italiane della filosofia deleuziana sostiene che questa sia l'apologia di una specie di anarchismo desiderante o delle virtù della schizofrenia che riscopre lo stato barbaro del desiderio contro le ristrettezze analitiche della ragione. Ignorare l'origine spinozista dell'etica deleuziana la dice lunga sulla bestialità di questi pregiudizi.
Proprio oggi l'etica di Deleuze assume invece un'importanza politica fondamentale. Quando la vita viene presa in ostaggio da macchine che incanalano la coscienza, il linguaggio e i rapporti sociali nell'ordine rigoroso della servitù e dell'assoggettamento, il vero obiettivo di un serio progetto etico-politico diventa quello di creare una linea di fuga dalle macchine di cattura (semiotiche, politiche e salariali) capitalistiche e dal principio di autorità che insegna che è meglio avere un padre o una madre in paradiso piuttosto che morire in terra soli e umiliati da precari.
Esiste un'alternativa? Senz'altro no. La macchina trionfante dell'Edipo è stata azionata da tempo e gli viene offerta in cambio la sopravvivenza quotidiana e un pensiero di morte che impone alle donne e agli uomini una vita improntata ai principi «naturali»: con una legge disumana sulla fecondazione assistita, la minaccia costante contro quella dell'aborto e la stella polare della famiglia a suggellare l'ordine immutabile del desiderio e della sessualità. Perché Dio-Patria-Famiglia è vivo e lotta insieme a loro: contro i nostri corpi.