sabato 16 ottobre 2010

l’Unità 16.10.10
Roma pronta ad ospitare due cortei. A partire dalle 13,30. Presenti i partiti di sinistra
Piazza di Fiom e Cgil. Almeno mezzo milione
Oggi le tute blu della Fiom scendono in piazza a Roma per il lavoro e i diritti. Con loro lavoratori di tutte le categorie, precari, studenti e migranti. Due i cortei, da piazza della Repubblica e piazzale dei Partigiani.
di Luigina Venturelli


L’annuncio di una grande manifestazione nazionale della Fiom, lanciato in piena estate da un’assemblea nello stabilimento napoletano della Fiat, passò quasi sotto silenzio: erano i primi giorni di luglio, l’accordo di Pomigliano sembrava ancora un caso isolato, l’ultimatum di Marchionne pareva quasi una scelta obbligata. Da allora sembrano passati anni, non pochi mesi: il Lingotto ha ulteriormente delocalizzato e licenziato chi protestava, Federmeccanica ha disdetto il contratto nazionale dei metalmeccanici, il governo non ha mosso un dito contro la crisi ma ha tirato dritto sul ddl lavoro e sulla riforma dello Statuto dei lavoratori.
PER IL LAVORO E LA DEMOCRAZIA
Oggi l’allarme lanciato dalle tute blu della Cgil sul rischio di una generale diminuzione dei diritti del lavoro ha assunto la forma e la sostanza dell’evidenza. Si era parlato di 100mila persone attese oggi a Roma, poi le stime sono salite a 500mila, e ieri sera la segreteria del sindacato si limitava a lamentare l’impossibilità di trovare più un mezzo pubblico disponibile per raggiungere la capitale dalle varie regioni d’Italia. La Fiom scende in piazza per «i diritti, la democrazia, la legalità, il lavoro e il contratto nazionale». E accanto a lei sfilano migliaia di cittadini convinti della necessità di respingere «l’attacco su più fronti» che sta colpendo il lavoro, «bene comune che deve tornare elemento centrale» nella società e nella politica.
L’appuntamento è per le 13.30: i due cortei partiranno da piazza della Repubblica e piazzale dei Partigiani e, attraverso il centro cittadino, si riuniranno in piazza San Giovanni, dove il leader della Fiom Maurizio Landini prima, e quello della Cgil Guglielmo Epifani poi, terranno i comizi conclusivi. Prima di loro interverranno lavoratori, precari, studenti e associazioni: dagli operai di Melfi illegittimamente licenziati dalla Fiat al fondatore di Emergency Gino Strada, dai rappresentanti di Libera al Popolo viola, dal Comitato contro la privatizzazione dell’acqua agli emigranti. E poi tutto il mondo della scuola, studenti, insegnanti, ricercatori e genitori, quello del volontariato e quello dell’ecologia. Non mancherà, ovviamente, il centrosinistra: il Pd non ha aderito come partito, ma parteciperanno molti suoi esponenti, mentre ci saranno al gran completo Italia dei Valori, Sinistra Ecologia Libertà, e Federazione della Sinistra.

l’Unità 16.10.10
Intervista a Maurizio Landini
«Abbiamo già vinto
Grazie a noi si parla di lavoro e democrazia»
Il segretario Fiom: «Sarà una piazza pacifica Chi non condivide i principi della democrazia e della non violenza è bene che non venga»
di Luigina Venturelli


Da giorni i centralini della Fiom sono intasati di telefonate da tutta Italia. Lamentano l’assenza di mezzi pubblici per soddisfare le richieste di chi vuol partecipare alla manifestazione: le Fs non hanno fornito nemmeno la metà dei treni richiesti dal sindacato, di pullman non se ne trovano più, ormai ci si organizza con le auto tra amici. Ma il governo non parla delle ragioni di questa imponente mobilitazione di massa. Preferisce lanciare allarmi preventivi. Landini, come giudica questo gran parlare di sicurezza? Un tentativo per sviare l’attenzione dalla sostanza della mobilitazione? «Penso di sì. Quella di domani (oggi per chi legge, ndr) sarà una gran-
de manifestazione. Anche quanti tentano di inasprire il clima sono consapevoli dell’ampio livello di partecipazione previsto, sia tra i lavoratori metalmeccanici, sia tra le persone convinte che una politica di difesa dei diritti corrisponda ad una politica per uscire dalla crisi economica molto diversa da quella proposta da governo e Confindustria. E per questo provano a parlare d’altro».
Per togliere di mezzo ogni dubbio, alla Fiom risultano rischi di scontri o infiltrazioni violente? «No. Per le persone che rappresentiamo e per le associazioni della società civile che ci hanno comunicato la loro adesione, non ci risulta alcun allarme. Del resto abbiamo detto con estrema chiarezza che chi non condivide i principi della democrazia e della non violenza, che stanno alla base della manifestazione, è bene che non venga. Se poi il ministro sa di possibili infiltrazioni dall’estero, è questione di stretta competenza del ministero, che deve garantire la sicurezza non solo dei manifestanti ma dei cittadini in generale». Che cosa pensa delle parole di Maurizio Sacconi: «Quando arriverà il morto, saranno in molti a condannare»? «Sono parole irresponsabili, soprattutto perché pronunciate da un ministro con generali responsabilità di governo. Chi dà lezioni di linguaggio, dovrebbe cominciare da sé. E dovrebbe rispettare la storia di questo Paese: se c’è una democrazia, è perché qualcuno ha lottato per conquistarla, e questo qualcuno è proprio il movimento dei lavoratori». Il che ci riporta alle ragioni della manifestazione.
«Le ragioni che ci hanno spinto ad organizzarla sono sempre più confermate dall’attualità. È in corso un attacco ai diritti senza precedenti, a cominciare dalla cancellazione del contratto nazionale di lavoro, sulla falsa premessa che si tratti di un passo necessario a superare la crisi economica. E manca democrazia nei luoghi di lavoro, da cui la pratica degli accordi separati: se i lavoratori non possono esprimersi e votare, come possono scegliere in caso di opinioni diverse tra i sindacati?».
È questo che dirà nel suo intervento conclusivo? Tornerà anche a chiedere uno sciopero generale della Cgil? «Dopo una grande manifestazione è necessario continuare la mobilitazione, sia per garantire la partecipazione delle persone che ne condividono le motivazioni, sia per raggiungere risultati concreti, riaprendo le trattative sui temi che ci stanno a cuore».
Quali potrebbero essere le conseguenze politiche del corteo? «La mobilitazione della Fiom ha già raggiunto un primo risultato: ha riportato il lavoro al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e del dibattito politico. In questi mesi abbiamo tenuto molte assemblee nelle fabbriche ed altrettante iniziative pubbliche con cittadini, giovani ed associazioni, ed era molto tempo che non vedevo centinaia di persone discutere per ore di lavoro, diritti ed uscita dalla crisi. Se questa attenzione si consolidasse, sarebbe già un forte elemento di novità sociale e politica».

l’Unità 16.10.10
Da Nichi Vendola a Ferrero, dal Pdci ai Verdi, la sinistra in corteo. E anche l’Idv di Di Pietro
I democratici : molte le adesioni. Il vicesegretario sulla sicurezza: «Prova per il governo»
Tutta l’opposizione in piazza Concerto a più voci nel Pd
La Fiom porta in piazza l’opposizione: Sel, Federazione della sinistra, Verdi, Idv, movimenti, studenti, associazioni, intellettuali. Il Pd non aderisce ufficialmente (e Bersani non c’è), ma molti dirigenti partecipano.
di Laura Matteucci


In piazza con la Fiom ci sarà tutta l’opposizione, politica, sociale, civile. Sì deciso di Nichi Vendola («Con la Fiom, per un Paese migliore», è lo slogan dei manifesti di Sel), Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero, Oliviero Diliberto, dei Verdi di Angelo Bonelli, e poi degli studenti, dei centri sociali, dei movimenti della sinistra radicale e di quelli contro la privatizzazione dell’acqua, del Popolo Viola e degli intellettuali vicini alla rivista MicroMega. Hanno aderito Andrea Camilleri, Antonio Tabucchi, Carlo Lizzani, Margherita Hack, per dirne alcuni. Dal palco parlerà (anche) il fondatore di Emergency Gino Strada, in collegamento da Firenze l’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky.
Contro il «Patto di Pomigliano», per i diritti e la democrazia, arriveranno a migliaia da tutta Italia (anche Giuliano Pisapia, candidato alle primarie del centrosinistra per il sindaco di Milano).
LA LINEA SOTTILE
Per il Pd, sulla linea sottile della non adesione ufficiale ma della numerosa partecipazione di militanti e dirigenti, tra la sostanziale condivisione dei motivi della manifestazione e le preoccupazioni per le divisioni sindacali, la faccenda è più complessa. Pierluigi Bersani non ci sarà, per evitare di prestare il fianco a strumentalizzazioni, ma ci saranno l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, Stefano Fassina, responsabile Economico, membro della segreteria e tra i più stretti collaboratori del segretario, Paolo Nerozzi, Gavino Angius, Vincenzo Vita, Barbara Pollastrini, Matteo Orfini, Sergio Cofferati, Roberto Della Seta del MoDem. Presente anche il senatore Ignazio Marino, in piazza con la Fiom per battere «la paura». Quella «di perdere il lavoro dice di non riuscire a pagare il mutuo, l’istruzione o un paio di scarpe per i propri figli. Questa è la paura che serpeggia nel Paese ed è per questo che la tutela del lavoro e l’uscita dalla crisi debbono essere le nostre priorità. Vado in piazza perché dove ci sono i lavoratori deve esserci la politica». In corteo anche i Giovani democratici, perchè «dove c’è un disagio espresso dai lavoratori abbiamo il dovere di esserci», dichiara il segretario nazionale Fausto Raciti.
Assenti Veltroni e Franceschini, ma chi mancherà per scelta precisa sono i moderati che ritengono un grave errore aderire. Per essere chiari, il vicesegretario Enrico Letta parteciperà al forum organizzato dalla Confindustria di Prato. Ma a lamentarsi in modo esplicito è l’ex popolare Beppe Fioroni, che definisce «opportunista» l’atteggiamento del «non aderisco, ma i miei verranno».
Rispetto agli allarmi sicurezza lanciati in questi giorni da Maroni, Sacconi cui ha fatto eco pure il segretario Cisl Bonanni, Letta ricorda che «sarà una grande prova anche per il governo». E Sabina Rossa, parlamentare Pd e figlia del sindacalista ucciso dalle Br, è molto chiara: «È inaccettabile il paragone con gli anni bui della strategia della tensione: non c’è alcun segnale di ritorno a quel periodo, e manifestare rimane un diritto dei lavoratori».

l’Unità 16.10.10
Chi criminalizza la protesta
Il pacifico «dissenso» della Fiom
di Enzo Mazzi


La grande manifestazione di “pacifico dissenso” della FIOM e non solo che si tiene oggi a Roma è stata pericolosamente colpita dal lancio verbale di ordigni incendiari da parte di Maroni, in una specie di carica preventiva. E’ apparsa pericolosamente più vicina l’illiberalità della Cina verso il dissenso. La critica alla Cina, sebbene pericolosa per via de-
gli interessi economici, è un po’ scontata. Meno scontata anzi sottaciuta se non coperta da una coltre di omertà politica e mediatica è la critica alle democrazie occidentali. L’Italia non fa eccezione.
Solo alcuni esempi più eclatanti, oltre a questo inquietante attacco di Maroni contro la manifestazione di oggi. Furono considerati “delinquenti” i pacifisti dissidenti verso il G8 di Genova pestati a sangue nella caserma di Bolzaneto; delinquenti i neri di Rosarno, quelli di Cagliari. Ed ora, altro esempio inquietante, il 5 novembre prossimo si svolgerà a Firenze il processo d’appello per 13 persone condannate in prima istanza nel 2008, addirittura a sette anni di reclusione per aver manifestato nel maggio del 1999 contro i bombardamenti NATO sulla Serbia, per dire no a un’operazione militare decisa fuori dall’Onu, cosa che non succedeva dalla fine della seconda guerra mondiale, in contrasto con la Costituzione che “ripudia la guerra”. Il corteo fu del tutto pacifico, posso testimoniarlo perché c’ero anch’io, non erano presenti Black Bloc e si concluse sotto il Consolato americano. Improvvisa una violenta carica dei Carabinieri. Fuggi fuggi a mani alzate, qualcuno pestato a caso, una ragazza quasi perse un occhio, lacrimogeni ad altezza d’uomo. Vennero individuate 13 persone – a posteriori, non identificate in loco – denunciate, processate e condannate appunto a ben sette anni di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale aggravata dal loro numero. Dissenso uguale sovversione o invece sacrosanta difesa della Costituzione?
Non va dimenticato che i bombardamenti furono decisi al termine di trattative tra NATO e Federazione Jugoslava, nel febbraio 1999, a Rambouillet. I giochi erano già fatti prima di cominciare. Gli Stati Uniti pongono a Belgrado un ultimatum irricevibile col quale, di fatto, le milizie NATO avrebbero pieni poteri in tutto il paese. Lo denunciò Lamberto Dini e lo tesso Henry Kissinger dichiarerà: “Il testo di Rambouillet, che chiedeva alla Serbia di ammettere truppe NATO in tutta la Jugoslavia, era una provocazione, una scusa per iniziare il bombardamento” (Daily Telegraph, 28 giugno 1999).
Deve essere responsabilità di tutti a livello isituzionale e di società civile allontanare dall’Italia lo spettro dell’illiberalità cinese contro il pacifico dissenso: quello delle tute blu di oggi come quello dei pacifisti del maggio 1999.

l’Unità 16.10.10
Il ricatto è violenza
di Moni Ovadia


Oggi siamo in piazza per manifestare a sostegno della Fiom e contro il governo. Personalmente ho aderito alla manifestazione senza esitare non solo per essere vicino ai lavoratori in un momento drammatico per il presente e il futuro loro e dei loro figli, ma anche per partecipare ad una lotta decisiva e dare futuro allo statuto di dignità e di sacralità dell'essere umano in quanto tale. L'attacco ai diritti dei lavoratori condotto in nome delle ragioni della prepotenza mercantile non è più questione politica, né sindacale o socio economica. È molto, molto di più. È questione che attiene al senso stesso della vita, alla dimensione etica e spirituale dell'esistenza umana. Le argomentazioni del padronato fatte proprie anche da una parte delle rappresentanze sindacali e da politici disinvolti si pretendono fondate sul buon senso, si qualificano come risposta alle trasformazioni dei rapporti di produzione e di scambio create dalla globalizzazione. In realtà si fondano su un assunto assiomatico che si vorrebbe asettico mentre è ideologico e spietato. La mondializzazione crea un mercato aggressivo? I finanzieri provocano la crisi che devasta le economie e le vite di milioni manipolando algoritmi separati dall'economia reale? Utilizzano i soldi pubblici per ricominciare i loro traffici di devastazione? Non c'è che una soluzione. I lavoratori scelgano: o il lavoro sottopagato con ritmi bestiali o i diritti. E se il mercato diventasse ancora più aggressivo quale alternativa verrebbe posta ai lavoratori, lavoro schiavistico o morte per fame? La contrapposizione alternativa fra diritti e lavoro sottende un carico di violenza ricattatoria contro l'essere umano. Chi condanna la violenza, anche nelle sue forme simboliche, dovrebbe essere in prima linea nel condannare una violenza che spoglia donne e uomini della dignità che costituisce il fondamento della loro identità.

il Fatto 16.10.10
Chi ha paura della piazza?


Il ministro Maroni insiste con gli allarmi, la Cisl pure La replica: “Sono solo spaventati da noi”
“Alcuni centri sociali hanno dichiarato che verranno a Roma. Se arriva quello di Padova, il Pedro, cosa facciamo?”. “Da Firenze un gruppo di anarchici è intenzionato a raggiungere piazza San Giovanni. Per fare cosa? Solo per ascoltare?”. “So anche che si stanno muovendo quelli di Askatasuna, quelli che a Torino hanno tirato un fumogeno a Bonanni. Devo preoccuparmi oppure no?”. A sentire il ministro Maroni oggi a Roma orde di antagonisti sarebbero pronti a scatenare la guerriglia. Da giorni ripete che nel Paese c'è “un clima che può provocare incidenti”. Sono le informazioni che raccoglie dalle Digos cittadine o – come ha detto in un'intervista a Repubblica: “Faccio riferimento al vostro articolo” lo agita la lettura dei giornali? Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni non ha dubbi: “Il ministro dell’Interno è lui, se parla sa quello che dice. Se penso a chi ha chiesto a tutti i centri sociali, come ha fatto la Fiom, di andare in piazza è chiaro che non sarà una manifestazione come quella che Cisl e Uil hanno fatto la scorsa settimana, dove c’era gente che non aveva cartelli contro qualcuno, c’era gente gioiosa, serena e rispettosa della convivenza civile”. Dalla Fiom la bollano così: tutta invidia. Per il leader del sindacato dei metalmeccanici Maurizio Landini l’allarmismo ingiustificato è tutto dovuto al fatto che “qualcuno si è reso conto che sarà una grande manifestazione”. Ma ha fatto sapere che “bisognerebbe smetterla di alimentare le tensioni”. Anche per la Cgil, dice Susanna Camusso, “la sensazione è che il ministro Maroni stia scaricando le responsabilità dell’ordine pubblico che, fino a prova contraria, spettano alle forze dell’ordine e al ministro dell’Interno”. “È inaccettabile il paragone con gli anni bui della strategia della tensione: non c'è nessun segnale di ritorno a quel periodo”. Parola di Sabina Rossa, parlamentare Pd e figlia di Guido, sindacalista ucciso dalle Br nel 1979.

l’Unità 16.10.10
«Negli anni ’50 il controllo dei cortei lo facevano le donne»
«Quello che conta è conoscersi, l’amicizia la solidarietà»
Quando il sindacato fa da solo: i “miracoli” del servizio d’ordine
Storia e memoria nelle parole di Antonio Pizzinato, una lunga vita di sindacalista e organizzatore di cortei. Come ci si difendeva nel dopoguerra e nella stagione delle grandi proteste operaie
di Oreste Pivetta


Torna in scena il «servizio d’ordine». Un po’ in ombra nell’era postindustriale quelli mitici operai, le tute blu che sapevano garantirsi rispetto, cancellati quelli studenteschi (famoso e temuto il servizio d’ordine della Statale, a Milano, ai tempi del Movimento e di Mario Capanna), a rivitalizzarne il ruolo è il ministro Maroni, che manifesta le sue paure in tv e sembra affidarsi per la tranquillità di Roma più alla Fiom che alla Pubblica sicurezza.
Antonio Pizzinato di anni ne ha quasi ottanta, una storia gloriosa nel sindacato fino a diventare segretario generale della Cgil. Ora è presidente dell’Anpi. Cominciò nel ’47, quando di anni ne aveva quattordici, immigrato da Caneva di Sacile (Friuli) a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, operaio metalmeccanico alla Borletti. Al primo corteo sindacale andò a piazzarsi in prima fila, ma le donne (che in fabbrica erano la maggioranza) lo cacciarono indietro. La testa del corteo la presero loro. «Come era stato – ricorda Pizzinato – durante i grandi scioperi antifascisti del 1944. Sempre loro davanti, mi rammentarono i partigiani. Magari erano anche più coraggiose. Soprattutto ancora speravano che poliziotti o carabinieri avessero qualche remora ad aggredire proprio loro». «Un giorno – racconta ancora Pizzinato arrivammo uniti in piazza della Scala. In piazza del Duomo era stato appena inaugurato il nuovo palazzo della Rinascente, proprietà dei Borletti. Ancora le donne presero l’iniziativa ed entrarono in massa nei grandi magazzini...». Esproprio proletario? «No, nel massimo ordine salirono con le scale mobili fino all’ultimo piano, aprirono le finestre e stesero lo striscione: ‘No ai licenziamenti’ c’era scritto».
«Conoscersi tutti, questa è la forza di un servizio d’ordine – testimonia un funzionario della Fiom, da ieri a Roma – non esiste la ‘gladio’ segreta dei metalmeccanici, altro che militarizzazione del sindacato. La solidarietà è la nostra arma, sentirsi vicini, conoscersi, sapersi tutti responsabili». Ma un corteo come si costruisce? Il corteo come sarà? «Spero grandioso. Come sempre saremo organizzati per regioni, per città, per fabbriche. Sfileranno i lavoratori con i loro delegati, con i funzionari delle varie zone, con i responsabili regionali. Il servizio d’ordine non è un reparto addestrato militarmente, il servizio d’ordine è la rete, una rete di persone che sanno di dover vigilare. È una rete che si costruisce nei luoghi di lavoro». Una costruzione sempre più difficile dopo il tramonto delle grandi fabbriche? «Certo. Pensa a Milano, quando da Sesto San Giovanni o da Rogoredo mettevi in fila fabbriche da tremila a cinquemila a diecimila lavoratori: si faceva presto a fare i numeri e anche la qualità. Anche la qualità perché la fabbrica è sempre stata una scuola di cultura politica e sindacale. Non solo. È sempre stata per i più anche una grande famiglia, che insegnava la solidarietà e l’amicizia».
Pizzinato rievoca tre cortei particolarissimi, due interrotti da notizie terribili, il primo quando fu ucciso il commissario Calabresi, il secondo quando venne rapito Aldo Moro: «In un caso riuscimmo a organizzare una delegazione. Nell’altro riuscimmo addirittura a ‘girare’ il corteo: da piazza del Duomo, tornammo indietro verso piazzale Loreto e trasformammo una manifestazione sindacale in una prova di ragione politica contro il terrorismo. Prima c’era stata piazza Fontana. Il venerdì sera la bomba. Discutemmo due giorni per decidere il che fare. Qualcuno chiese subito lo sciopero generale. Decidemmo per un corteo silenzioso, senza striscioni, senza bandiere, segno del nostro lutto ma anche della nostra determinazione contro ogni manovra antidemocratica. E il lunedì dopo la strage il corteo ci fu: silenzioso, senza striscioni, senza bandiere. Non si udì una voce. Sono convinto che quel corteo muto abbia indotto il governo a modificare qualcosa del proprio atteggiamento».

il Fatto 16.10.10
Il servizio d’ordine
“Nessun nemico: un corteo unito e capace di guardarsi da solo”
di Sal. Can.


Saranno diverse centinaia gli uomini del servizio d’ordine, schierati lungo i due cortei, che, con pettorina ampiamente riconoscibile, vigileranno sul proprio corteo. Per la Fiom non è una novità, l’ha sempre fatto anche se oggi l’attenzione è più alta. A coordinare il tutto ci sarà la stessa segreteria nazionale, gli uomini dell’Emilia in testa, ma un ruolo tradizionale sul campo verrà assegnato a Roberto Giudici, dirigente Fiom mite e determinato che si è trovato in passato a sbrogliare vicende come quella di Genova nel 2001 o Firenze nel 2002.
“SCHIERIAMO un servizio d’ordine del tutto normale fatto dei nostri militanti ma che comunque si vedrà e si vedrà che l’organizzazione è impegnata”. Giudici è molto esperto di questo genere di cose e quindi non ostenta falsa tranquillità ma nemmeno trepidazione. “Sono preoccupato quanto è giusto in questi casi ma non abbiamo avuto nessuna segnalazione di problemi né dai territori né dalla Questura di Roma” dice al Fatto. Quello che lo tranquillizza è l’alto numero dei partecipanti e quindi la capacità della manifestazione di “guardarsi da sola”.
La Fiom non dà numeri e assicura che non li darà nemmeno al termine, anche perché ormai a Roma si è ingenerata l’abitudine di moltiplicare a dismisura i dati reali. “Noi alla fine diremo a tutti: guardate la piazza e decidete”. Quando ha manifestato Berlusconi, con una piazza piena a metà i dirigenti del Pdl hanno parlato di mezzo milione di manifestanti. L’unico momento di difficoltà, in realtà, sarà dato dal discorso di Epifani perché in quel caso ci potrebbero essere contestazioni. “Ma a me non sembra che sarà una manifestazione che avrà bisogno di indicare dei nemici interni” spiega il dirigente Fiom.
E va anche detto che la sortita di Maroni ha contribuito a creare un clima di maggiore unità interna e di orgoglio di organizzazione. Giudici si occuperà anche del rapporto con i movimenti e le associazioni.
MA SU QUEL FRONTE , a partire proprio dai centri sociali, non ci sono problemi, perché ognuno punta a privilegiare il rapporto con la Fiom piuttosto che la propria visibilità di parte. Inoltre, il grosso dei centri sociali, guidati da Casarini ma anche dai romani di Action, ha stretto un patto con l’ex segretario della Fiom, Rinaldini, costituendo il cartello “Uniti contro la crisi” che si posizionerà con un suo striscione nel corteo dopo la Fiom. E che poi si ritroverà, il giorno dopo, in un’assemblea nazionale all’università di Roma.
Lì dietro ci saranno anche i maggiori centri sociali romani che ieri hanno annunciato di volere scendere in piazza insieme ai migranti ma soprattutto con “le famiglie e i bambini”.

Corriere della Sera 16.10.10
Il corteo Fiom e il Pd in ordine sparso
di Paolo Franchi


Non sarà solo una manifestazione sindacale, questa indetta oggi a Roma dai metalmeccanici della Cgil. Sarà anche, e forse soprattutto, una manifestazione politica, la prima dopo molto tempo, di una sinistra-sinistra più vasta di quanto dicessero gli sconfortanti risultati elettorali del 2008.
Questa (ovvia) considerazione aiuta a comprendere, almeno in parte, l’atteggiamento sconcertato, sì, ma pure sconcertante, del Pd. In piazza si faranno vedere alcuni suoi dirigenti, tutti o quasi di provenienza Ds, convinti che con la sinistra-sinistra non vadano tagliati i ponti. Invece i «moderati», e soprattutto il grosso degli ex democristiani, quelli, insomma, che, come si dice in gergo, «guardano al centro» con sguardo sempre più intenso, non solo non parteciperanno al corteo, ma già nei giorni scorsi hanno polemicamente reso noto che avrebbero gradito una dissociazione netta: il caso più emblematico è quello di Enrico Letta che, per significare quanto poco ha da spartire con la Fiom, se ne andrà a Prato a un convegno della Confindustria. E il partito? Non aderire né sabotare: il Pd in quanto tale, a cominciare dal suo segretario Pier Luigi Bersani, non ci sarà. Seguirà la manifestazione da lontano, incrociando comprensibilmente le dita perché tutto vada liscio, senza sapere bene che cosa augurarsi, un successo o un mezzo flop. Per lo stesso identico motivo per cui non sa bene se sperare che Nichi Vendola riesca a rimettere in campo la maggior parte di un popolo di sinistra disorientato e disperso mobilitandolo attorno alla sua «narrazione» o far voti perché il presidente della Puglia, nella sua lunga corsa verso le primarie, perda colpi e si sfianchi.
Ma non sarebbe giusto limitarsi a rimirare la foto di gruppo in un interno che ci hanno consegnato in questi giorni le cronache politiche. C’è, per il Partito democratico, ma non solo per il Partito democratico, qualcosa di più profondo, di più grave e di più preoccupante ancora. Le dimensioni della crisi, e la pericolosità (non solo sotto il profilo dell’ordine pubblico) delle tensioni politiche e sociali che essa minaccia di innescare, sono sotto gli occhi di tutti. Da più parti si lanciano grida d’allarme sul pericolo di un ritorno al clima degli anni Settanta. Per tanti motivi, fortunatamente, non è così. Le differenze sono sin troppo evidenti. Ma, tra queste differenze, ce n’è anche una preoccupante. I Settanta non furono solo violenza, piombo, terrorismo nero e partiti armati rossi. Furono, tra tante altre cose, anche gli anni di un’unità sindacale che, con tutti i limiti e i fraintendimenti dell’epoca, ebbe un ruolo fondamentale nel farcene uscire, tutto sommato, sani e salvi. È vero che l’unità sindacale è un ricordo sempre più sbiadito. Mai, però, nemmeno al tempo della contesa durissima sulla scala mobile (di qua la Cisl e la Uil, di là la grande maggioranza, comunista, della Cgil), lo scontro era divampato così furibondo e feroce, come se la sopravvivenza e i successi dell’uno potessero derivare dai disastri e dalle sconfitte dell’altro. Non è solo questione di insulti, di scritte più o meno ingiuriose, di uova e di fumogeni. Agli inizi degli Anni 90, i leader sindacali, per difendere le loro scelte unitarie, dovettero fare i conti, in piazza, con lanci non di uova, ma di bulloni, e ressero la prova. Se adesso Guglielmo Epifani, di fronte ai danneggiamenti e agli sberleffi a sedi della Cisl e della Uil, deve ricordare che le polemiche sono legittime, certo, ma ogni sede sindacale va rispettata perché è un patrimonio comune, carico di storia, di lotte e di sacrifici, vuol dire che della vecchia semina è rimasto poco o nulla. Di più, che le organizzazioni sindacali dei lavoratori, tutte le organizzazioni sindacali dei lavoratori, rischiano di essere le prime a venire investite, e squassate, dai colpi di una crisi di cui rischiano di diventare assieme vittime e protagoniste.
Tutto questo c’entra qualcosa con il Pd, e anche con la strategia (si fa per dire) del «non aderire né sabotare» adottata, ma è solo l’ultimo di una serie di casi, di fronte alla manifestazione, sindacale e politica insieme, della Fiom? Diremmo proprio di sì. È appena il caso di ricordare che qui si parla del più grande partito del centrosinistra, il cui segretario ha voluto richiamare, prima e dopo la sua elezione nelle primarie, le salde radici del mondo del lavoro e l’ispirazione «laburista»: non di un partito pigliatutto. Nessuno rimpiange i tempi delle cinghie di trasmissione e dei collateralismi, che in ogni caso sono da un pezzo consegnati alla storia e non torneranno mai; il problema, anche se nel Pd qualcuno pensa il contrario, non è certo quello di risolversi una buona volta a scegliere, o con la Cisl e la Uil o con la Cgil (e la Fiom); e, se è per questo, non sono ipotizzabili neanche dei Di Vittorio o dei Lama redivivi, capaci di dire nel momento della rottura più drammatica che «l’unità ci è cara come le pupille dei nostri occhi», e di essere creduti. Ma è ugualmente impressionante che il più grande partito del centrosinistra, di ispirazione «laburista», sulla tempesta che sta investendo il mondo sindacale e sta dilaniando l’anima di tanta parte della sua gente, abbia così poco da dire.

Repubblica 16.10.10
Il Pd partecipa in ordine sparso ma Bersani manda il suo pupillo
Fassina: il tema del lavoro per noi è centrale
di Goffredo De Marchis


Ci saranno Di Pietro e Vendola a sottolineare l´imbarazzo dei democratici
Adesione convinta da parte dei giovani. Il lettiano Boccia: c´è opportunismo

ROMA - Il Partito democratico non aderisce al corteo della Fiom. Ma le facce del Pd in piazza saranno moltissime, a cominciare da quelle dei suoi dirigenti. Da Sergio Cofferati a Ignazio Marino, dal veltroniano Roberto Della Seta al pupillo di Pier Luigi Bersani Stefano Fassina. Le attenzioni sono concentrate proprio su di lui, giovane responsabile economico, "creatura" dell´associazione Nens che fa capo a Bersani e Vincenzo Visco. Il segretario sta lontano dalla manifestazione, eppure la presenza di Fassina segnala una sostanziale adesione del leader alle ragioni del corteo. Ecco perché si avverte un certo imbarazzo nel Pd. Chi non va guarda con attenzione alle mosse di Fassina, alle sue parole. Per vedere se lo sbilanciamento a sinistra del partito può diventare più di un sospetto.
Fassina spiega i motivi della sua presenza e il senso dell´interesse verso questo appuntamento: «Partecipiamo sempre a manifestazioni in cui la questione del lavoro rappresenta il tema centrale». Il lavoro è il vero grande punto programmatico democratico. Bersani è sicuro che saranno i lavoratori le vere vittime della grande crisi globale. «Non vuol dire che condividiamo tutto ciò che sostiene il sindacato dei metalmeccanici - aggiunge il responsabile economico del Pd -. Ma la manifestazione aiuta a focalizzare il punto». L´ala dei cattolici democratici che fa capo a Beppe Fioroni esprime invece una preoccupazione per il corteo. «Bisogna fare attenzione a mischiarsi con i centri sociali che mettono sul loro sito le foto delle aggressioni alla Cisl», avverte l´ex ministro. Fioroni da tempo denuncia lo spostamento a sinistra del Pd, il suo collegamento troppo stretto con Cgil e Fiom, una disattenzione verso il mondo del lavoro rappresentato da Bonanni. Che si traduce nella distanza con categorie e rappresentanze alle quali «il Pd non sa ancora parlare». Convinti e decisi parteciperanno invece i Giovani democratici guidati da Fausto Raciti.
Per paradosso l´atteggiamento nei confronti della Fiom spacca gli schieramenti, crea alleanze innaturali dentro le correnti democratiche. Sulla Fiom Enrico Letta, che pure è vicesegretario di Bersani, sembra pensarla come Fioroni. Oggi Letta, plasticamente, si recherà a 200 chilometri da Roma, al convegno delle piccole e medie imprese a Prato. E commentando la manifestazione taglia corto: «Alcuni vanno, il Pd non aderisce». Francesco Boccia, lettiano, è molto più eloquente: «Quando vedo politici che sgambettano dietro un corteo sindacale mi viene un´infinita tristezza. È opportunismo che dura mezza giornata». Gli eco-dem veltroniani di Della Seta vanno in piazza, ma della stessa area fa parte anche Pietro Ichino, il giuslavorista che difende gli accordi di Pomigliano.
Questo è il quadro della vigilia. Oltre alle divisioni il rischio viene dalla presenza di Di Pietro e Vendola. I due alleati potrebbero mettere il dito nella piaga degli imbarazzi Pd, virare la polemica non sul governo o sulle imprese ma sui tentennamenti di Bersani e del suo partito. Un rischio che si concentra soprattutto sull´ex pm, non nuovo a certe punture di spillo. Senza contare che un incidente farebbe il resto, portando il Pd in un confronto di accuse incrociate.

l’Unità 16.10.10
Giornata di mobilitazione in 13 città contro i tagli e l’impoverimento degli organici didattici
p Centomila persone in piazza per chiedere le dimissioni del ministro, tensioni in Campania
Cobas scuola, la rivoluzione d’ottobre Tutta Italia in piazza contro la Gelmini
di Gioia Salvatori


Giornata di protesta dei Cobas della scuola contro il ministro Gelmini e i tagli all’istruzione. Mezza Italia in corteo, a Roma la manifestazione sotto alle finestre del ministero. Studenti in lotta per i precari.

«La scuola? Deve diventare un bene comune da difendere. Proprio come l’acqua pubblica, in difesa della quale quasi un milione e mezzo di persone ha sottoscritto un referendum». Non basta la piazza, quella che servirebbe a questo scopo è una piccola rivoluzione culturale, che porti i problemi di molti nelle case di tutti. Lo sa Piero Bernocchi, portavoce dei Cobas e autore dell’auspicio di cui sopra. C’era anche lui, ieri, a Roma in viale Trastevere sotto il ministero dell’Istruzione, a gridare il mantra di ottobre: «Gelmini dimissioni». Nel frattempo il sindacato di base era in piazza in altre 13 città italiane per dire no «al massacro della scuola, all'eliminazione di 140mila posti di lavoro in tre anni e all'espulsione in massa dei precari». Tagli che hanno già lasciato a casa almeno 25mila supplenti annuali per lo più nelle regioni del centro-sud. E infatti ieri, fatta eccezione per Torino, le piazze più partecipate sono state quelle di Palermo, Cagliari e Napoli. Roma, ovviamente, con il sit-in sotto il Miur e cortei.
GIOVANI IN MARCIA
Di prima mattina gli studenti dei collettivi “Senza tregua” sono partiti da porta San Paolo diretti in viale Trastevere. Si vedono falci e martelli sui manifesti, bandiere rosse, fondoschiena di plastica ricoperti da pezze, maschere bianche di fantasmi sui volti. «Riforme, tagli, precarietà, ci rubano il futuro, ci tolgono la dignità» è scritto sullo striscione di testa del corteo degli studenti di “Senza tregua”, almeno tremila. Non sono gli unici: un altro gruppo di studenti medi dal liceo Virgilio va in viale Trastevere. Tutti insieme, studenti, Ata e docenti sotto al ministero finché i Cobas non chiedono di poter sfilare fino a Montecitorio. Richiesta non accolta dalla questura che concede ai manifestanti di fare a ritroso il percorso del corteo studentesco. Gli organizzatori a fine giornata dicono che l’adesione allo sciopero è stata del 30% (ma il ministero dice 3,1%), che in tutta Italia in 100mila hanno manifestato: 15mila a Roma dove, diversamente da Napoli, tutto fila liscio. In Campania, dove un gran numero di supplenti precari non ha riavuto il posto, la situazione è tesa. Ieri a Napoli gli universitari si sono uniti a docenti e personale Ata, con loro pure qualche lavoratore delle società a partecipazione regionale in crisi. Quando qualcuno prova ad allontanarsi dal concentramento autorizzato di piazza Matteotti per raggiungere la prefettura, sono scontri con la polizia in via Cervantes: un ricercatore precario viene fermato e oggi sarà processato per direttissima, uno studente e tre poliziotti restano feriti. Anche a Torino i Cobas non erano soli: in piazza c’erano gli studenti dell’università che hanno improvvisato un’occupazione lampo del rettorato, migliaia di studenti medi e gli operai della Fiat. E anche a Palermo i professori non erano soli: con loro c’era l’Anpi e per le strade ha sfilato un corteo antifascista. Per dire no ai tagli alla scuola, sperare che i settemila docenti precari siciliani rimasti senza posto possano riaverlo e esprimere solidarietà a tre universitari di nome Ruggero, Francesco e Cesare. Volantinavano davanti al liceo Umberto I contro “Casa Pound”, quando hanno avuto un diverbio con la polizia che li ha fermati con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e manifestazione non autorizzata. Era lo scorso sabato, sono usciti dalla cella solo lunedì, quando il fermo non è stato convalidato. Manifestazioni si sono svolte anche a Cagliari, Venezia, ad Adro per dire no ai simboli leghisti a scuola, a Perugia, Bologna, Pisa, Bari e Catania. È anche il rilancio della «campa-
gna anticollaborazionista» dei Cobas scuola. Una forma di protesta scelta in alternativa allo sciopero, che chiama docenti e personale Ata all’astenersi dalle attività extra non obbligatorie (per esempio accompagnare i ragazzi in gita, partecipare ai progetti d’istituto, badare a due o tre classi contemporaneamente). Non fa niente se gli studenti non vanno in gita, da grandi capiranno.

Repubblica 16.10.10
Se le bugie negazioniste diventeranno un reato
di Adriano Prosperi


Fare i conti con la realtà di Auschwitz e della Shoah è un compito che ci sta davanti, che domina il nostro presente e dominerà il futuro della nostra specie. Si tratta di un peso insostenibile. È un passato che non passa: e che non deve passare se questo significa affidarlo al metabolismo illimitato di una storia come galleria degli orrori.
Né deve essere oggetto di comprensione, se comprendere significa giustificare. È la sua realtà storica che deve essere conosciuta. E questo è un compito immenso, appena avviato e sempre minacciato dal bisogno di sfuggire, di ridurre, di negare. È qui che si affacciano i «negazionisti» e i «riduzionisti»: termini orrendi. Preferiremmo parlare, con Pierre Vidal-Naquet, di «assassini della memoria». L´ultimo in ordine di tempo è un professore che si è appellato a una nozione notarile della storia: manca un atto con firma autografa di Hitler, dunque il dittatore nazista non è colpevole della Shoah. E forse Hitler non è nemmeno morto. E forse le leggi razziali fasciste sono state azzerate da quegli italiani che ci piace immaginare come brava gente. Prende così forma in un depresso e deprimente contesto italiano di barzellette antisemite e di rigurgiti razzisti e clerico-fascisti l´ennesimo caso di fuga dalla storia come verità verso una storia come proiezione delle illusioni del momento, falsificazione del certo e del documentato. Bisognerà forse cacciare quel professore dall´università, medita un ministro incapace di fornire a chi studia e insegna il minimo indispensabile di risorse. O non si dovrà punire per legge i negazionisti, come propone il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici?
Diciamo subito che comprendiamo la reazione di sdegno e di sconforto dei membri della comunità ebraica romana. La tragica eredità di memoria che quella comunità reca nel cuore dei suoi membri ha trovato voce corale nelle testimonianze rese di recente dai suoi membri che la benemerita attività editoriale di Daniel Vogelmann con la sua «Giuntina» manda in libreria in questi giorni. Ma crediamo che si debba dissentire senza incertezze dalla proposta di affidare a una legge il compito di far rispettare la verità storica. Il principio della libertà intellettuale e l´inviolabile diritto di ciascuno a non essere punito per legge per le proprie convinzioni sono il frutto di secoli di lotte contro l´intolleranza e la censura di poteri religiosi o politici. Sarebbe una vittoria postuma dei regimi totalitari sconfitti al prezzo di un´immane conflitto mondiale se nella nostra repubblica democratica si dovesse ricorrere alla barriera del codice penale per difendere dalle deformazioni e dagli errori la verità storica. La verità della storia è tutelata quando esiste la tranquilla coscienza che l´indagine degli storici ha per oggetto il passato come realtà di cose accadute. È solo così che si reagisce alla cultura del falso e dell´apocrifo, alla fabbrica della propaganda e della disinformazione, alla confusione deliberata tra ricerca del vero e «fiction», alla riduzione della storia a racconto piegato a piacere a seconda delle convinzioni soggettive. La riduzione del lavoro degli storici a una costola dell´invenzione romanzesca ha conosciuto una moda diffusa nei decenni del tardo ‘900: prova se ce ne fosse bisogno che la malattia del nostro tempo ha una radice nell´incapacità di fare i conti con la realtà di Auschwitz. Una realtà talmente enorme e spaventosa da spingere a evitarla nei due modi opposti della negazione e della ritualizzazione retorica della memoria. Dobbiamo diventare consapevoli che quella realtà non è nata come un fungo, non è un tumore che può essere escisso isolandolo da tutto il percorso che lo ha generato o circoscrivendolo cautelosamente con una norma di legge. Non è né col codice penale né coi «giorni della memoria» che si fa fronte alla pulsione a ripetere gli errori del passato o addirittura a farne l´apologia. I rigurgiti di antisemitismo che affiorano ogni giorno in Italia si curano con la volontà di fare i conti con la realtà storica di qualcosa che ci appartiene, che è stato generato dal profondo della storia europea ed è stato portato all´ultima maturazione dall´Italia fascista e dalla Germania nazista. Ed è tanto più urgente farlo in un paese come il nostro, dove la rinascita repubblicana non ha avuto la forza necessaria per affrontare in radice le responsabilità del passato e rendere giustizia alle vittime. Una giustizia che coincide con la verità. La storia come ricerca del vero e la memoria come dimensione del ricordo sono realtà diverse: ma vivono quando sono legate insieme da una tensione speciale. C´è stato il tempo dei testimoni, dei superstiti . E poi c´è stata la verità delle carte. Oggi è il tempo di scegliere con decisione la via giusta per opporsi alla minaccia della distruzione della memoria. Lo storico Michele Battini ha parlato in un libro recente della condizione di «estrema solitudine» in cui oggi gli ebrei italiani e non italiani affrontano il ricordo della Shoah. E ha ricostruito la lunga elaborazione di un falso, quella leggenda del «complotto ebraico» che fu la premessa del complotto vero, quello destinato alla distruzione degli ebrei come obbiettivo primario del nazionalsocialismo e del fascismo. Ma c´è anche una solitudine di chi indaga la verità storica coi poveri mezzi e con l´asfittica burocrazia di una università in gravissima crisi. Compito del governo di un paese democratico non è quello di cacciare dall´Università un povero untorello del negazionismo ma quello di ridare slancio alla ricerca e speranza di futuro ai giovani . Oggi abbiamo bisogno di tutta la loro intelligenza per fare i conti con la storia che ha prodotto Auschwitz: la nostra storia.

Repubblica 16.10.10
Quell’Ici non pagata dalla Chiesa
risponde Corrado Augias


Caro Augias, la Commissione Europea ha decretato che esentare la Chiesa dal pagamento dell'ICI, come benevolmente deciso dal governo Berlusconi, non va bene perché, essendo il beneficio destinato ad un solo soggetto, altera di fatto gli equilibri del mercato e crea una situazione di concorrenza sleale. In effetti, considerando quanta parte del patrimonio immobiliare di proprietà della Chiesa è destinato ad attività commerciali (basterebbe citare tutte le strutture alberghiere, che vanno dagli hotel di lusso agli ostelli), la presenza sul mercato di un operatore che ha minori costi (anche di "personale"...) pone le altre strutture in una condizione di svantaggio. Come dare torto alla Cee? E' una situazione che ha delle analogie con quella esistente fra il commerciante che paga le tasse e il suo collega evasore fiscale, il quale, potendo praticare prezzi più bassi senza ridurre il profitto (tutt'altro), costringerà prima o poi l'altro a chiudere bottega. Sono curioso di vedere quale contromossa escogiterà il governo per mantenere al "grande alleato" questo privilegio illegittimo e a quali pesanti sanzioni condannerà il paese pur di non revocarglielo.
SilvanoFassetta

I  terzo comma dell'articolo 7 del Concordato stabilisce: «Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopo, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime». Dunque la cosa è chiara. Sembra chiara, quanto meno. Nei fatti non è così. Per esempio: il nostro paese è disseminato di conventi e seminari che una volta erano pieni di religiosi o di aspiranti sacerdoti e alla loro formazione o all'esercizio della loro pietà erano destinati. La crisi delle vocazioni li ha svuotati non solo delle persone ma anche del loro scopo originario. Bene: molti di questi edifici sono oggi alberghi, ostelli, luoghi di vacanze rasserenanti, posso dirlo per diretta esperienza. Però mantengono al loro interno una cappelletta, un crocifisso, qualche parvenza dell'originaria destinazione. Queste sopravvivenze, anche se minime, li esentano dal pagamento dell'Ici nonostante la prevalente finalità commerciale. È giusto questo? Non basta il miliardo di euro che ogni anno lo Stato passa alla Chiesa con l'astutissima legge detta 8 per mille? La Repubblica Italiana sarebbe, a norma di Costituzione, uno Stato laico. Di nome. Di fatto abbondano leggi speciali che un po' troppo spesso sono 'ad personam', 'ad aziendam' e perché no anche 'ad ecclesiam'.

Repubblica 16.10.10
La scomparsa el ceto medio
di Paul Ginsborg


Che cos´è oggi il ceto medio italiano? Tre elementi ci colpiscono subito. In primo luogo l´incessante crescita numerica. In base ai dati forniti da Paolo Sylos Labini, i ceti medi urbani italiani, in cui l´autore raggruppa le principali categorie dei piccoli imprenditori, degli impiegati pubblici e privati, degli artigiani e dei commercianti rappresentavano nel 1881 il 23,4% della popolazione, mentre nel 1993 toccavano il 52%. Oggi secondo le stime si attestano attorno al 60%...
Accanto a questo primo, grande fatto strutturale ve n´è un secondo: il livello sempre più alto di istruzione che li caratterizza. Nel 2001... gli italiani in possesso di un titolo di studio medio, superiore o universitario erano diventati il 63,4% per cento della popolazione. Questa rivoluzione scolastica non colma il divario esistente rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna, ma è innegabile che il paese può vantare un ceto medio sempre più esteso e istruito. Il terzo elemento strutturale riguarda la composizione interna dei ceti medi. L´Italia ha una quota di occupazione indipendente (o lavoro autonomo) molto alta (il 26,4% dell´occupazione totale nel 2006) più elevata di qualsiasi altro paese europeo. Ma attenzione: in questi anni i media e la destra politica hanno tentato con martellante insistenza di presentare il mondo del lavoro autonomo in generale e quello del piccolo imprenditore in particolare come predominante nel paese... In realtà, il lavoro autonomo è in lento declino dal 2003, costituisce solo un quarto del lavoro complessivo in Italia e meno della metà dell´occupazione dei ceti medi presi nel loro insieme. Esso cela in sé un gran numero di figure diverse – non solo quella del piccolo imprenditore dinamico ma anche il vasto e perdurante mondo dei commercianti e degli artigiani, nonché moltissimi ‘autonomi precari´, specialmente giovani, che hanno la partita Iva ma non un´ occupazione stabile...
Negli ultimi quindici anni il ceto medio si è diviso in due mondi, piuttosto diversi uno dall´altro... Chiamerei l´uno il ceto medio riflessivo, capace di bridging (cioè capacità di costruire ponti verso altri) e, in termini occupazionali, caratterizzato dal lavoro dipendente; l´altro il ceto medio concorrenziale, tendente al bonding (cioè tendenza a rafforzare i legami interni a uno specifico gruppo) e prevalentemente dedito al lavoro autonomo.
Partiamo con la prima componente, il ceto medio riflessivo. In tutta l´Europa si è sviluppato un ceto medio attivo nelle professioni socialmente utili, nel terzo settore e tra gli assistenti sociali, ma anche tra gli insegnanti e gli studenti, gli impiegati direttivi e di concetto del settore pubblico, i nuovi operatori nel mondo dell´informazione e della cultura... Ad ingrossarne le file è stato un numero sempre crescente di donne molto istruite, alla ricerca di un impiego adeguato alla loro professionalità, ma in forte difficoltà nel trovarlo, soprattutto al Sud... Questa componente dei ceti medi contemporanei in apparenza è dotata di notevole potenziale civico. Se guardiamo il caso italiano vediamo come l´opposizione al regime di Berlusconi provenga in parte considerevole da questi settori dei ceti medi. A partire dalle grandi manifestazioni della primavera e dell´autunno 2002, fino alle dimostrazioni organizzate attraverso internet dal ‘Popolo Viola´ del dicembre 2009 e di ottobre 2010, numerosi appartenenti a questi strati sociali si sono mobilitati contro il regime... Non bisogna in nessun modo esagerare le capacità civiche di questa parte dei ceti medi, né la loro consapevolezza di sé come gruppo sociale... Essi hanno sempre possibilità di scelta e, di fronte alla ripetitività delle proteste e soprattutto allo scarso incoraggiamento proveniente dal ceto politico di sinistra, perdono slancio e speranza...
Vengo ora alla seconda agglomerazione – i ceti medi – prevalentemente dediti al lavoro autonomo e fortemente orientati al mercato... Storicamente una componente di spicco di questo mondo sono sempre stati i distretti industriali italiani, apprezzati da numerosi studi internazionali e considerati anche portatori di un specifico modello di coesione sociale... Viene da chiedersi, però, quanto questo quadro sia ancora valido nel Nord Italia, di fronte alla crescita della Lega... Nella Lombardia e nel Veneto, se non nella Toscana e nell´Emilia-Romagna, si è sviluppato un modello diverso, fortemente basato sul bonding territoriale e sull´appartenenza etnica, sullo sfruttamento di una sottoclasse di immigrati, sulla scarsa presenza di equità sociale e su una forma di democrazia fortemente personalizzata e di partito. Davanti a quest´onda gli studiosi devono dirci cosa resta dell´ethos dei vecchi gloriosi distretti industriali...
Qual è l´apporto del ‘Berlusconismo´ a questo quadro generale?... La singolarità del ‘Berlusconismo´ risiede nell´uso particolare che egli ha fatto delle opportunità che il degrado democratico degli anni ´80 gli ha offerto. In modo precoce (1984) ha potuto stabilire un controllo mediatico sulla televisione commerciale unico in Europa, senza la sorveglianza di un qualsiasi garante pubblico, e ha potuto utilizzare questa libertà per reiterare incessantemente determinati valori e stili di vita, e per trascurarne o denigrarne altri... Questo sfrenato potere mediatico è il primo elemento del Berlusconismo. Un secondo è il comportamento di Berlusconi nei confronti dello Stato e della sfera pubblica. Qui riscontriamo una forte diversità rispetto alla signora Thatcher. Quest´ultima, per quanto radicale, non mise mai in dubbio le istituzioni e le pratiche della democrazia britannica. Berlusconi, al contrario, come dimostra anche la sua famosa videocassetta del 26 gennaio 1994, quella della ‘discesa in campo´, ha sempre considerato la sfera pubblica una zona di conquista, di occupazione, di trasformazione... L´ultimo apporto del Berlusconismo... è l´esplicito appoggio a un elemento dei ceti medi – quello del lavoro autonomo e concorrenziale – a spese dell´altro, quello più riflessivo e basato sul lavoro dipendente. Berlusconi blandisce il primo con tutta una serie di carezze - agevolazioni fiscali, condoni edilizi, la depenalizzazione sostanziale del falso in bilancio... All´altro elemento dei ceti medi, il ‘Berlusconismo´ riserva solo schiaffi – lo smantellamento progressivo della scuola pubblica, il degrado senza fine delle grandi istituzioni culturali, gli stipendi in calo verticale in termini di potere d´acquisto. Così - e questo forse è la sua eredità più dannosa - Berlusconi contribuisce in modo drammatico a spaccare il ceto medio, e ad incrementare il livello di incomunicabilità tra le sue due componenti principali. Ogni tanto mi sembra che i moniti ottocenteschi di Disraeli circa il rischio di creare due Nazioni siano di scottante attualità per l´Italia contemporanea...
*Questo testo è tratto dal discorso che terrà oggi a Firenze, al convegno "Società e Stato nell´era del berlusconismo".

l’Unità 16.10.10
Scioperi e cortei si moltiplicano a Parigi e in tutto il paese contro le politiche del governo
Sarkozy è preoccupato della possibile saldatura tra scuola e lavoratori
Cresce la protesta in Francia. Ora si muovono gli studenti
Allarme per il blocco delle raffinerie e per gli effetti delle proteste sul trasporto aereo e sulle autostrade. Non accenna a calmarsi la mobilitazine sociale e studentesca che ha investito l’intero paese.
di Luca Sebastiani


Il presidente Sarkozy credeva di chiudere la partita della riforma delle pensioni concedendo ai sindacati ancora un paio di innocui cortei d’onore, e invece più passano le ore e più cresce in Francia la tensione sociale di pari passo con l’inquietudine dell’Eliseo. Le confederazioni sono infatti riuscite a dare respiro al movimento con il coinvolgimento degli studenti e con il cambio di strategia nel braccio di ferro con l’esecutivo. Se finora la piazza non è bastata a piegare l’Eliseo, i sindacati tentano ora di spostare il conflitto sul campo energetico per costruire un crescendo che può portare alla paralisi paese.
Ieri sono scattati i primi allarmi. In mattinata sono infatti entrate in sciopero le due raffinerie di Gravechon e Reichstett portando a 12, cioè il totale degli stabilimenti francesi, il numero delle raffinerie bloccate. Col rallentamento della produzione anche grazie al blocco dei terminal portuali – ora sono diventati strategici i depositi di carburante, che i sindacati bloccano da diversi giorni usando la minaccia della penuria di benzina come mezzo di pressione.
Evidentemente qualche timore lo hanno sollevato nelle tranquille nottate all’Eliseo se giovedì in tarda serata Sarkozy in persona ha deciso di prendere in mano la situazione. Su ordine diretto dell’esecutivo ieri mattina la polizia si è infatti presentata ai depositi occupati sgomberando i picchetti degli scioperanti. Le operazioni si sono svolte nella calma più totale perché i sindacati hanno preferito organizzare una specie di gioco al gatto e al topo. Mentre la polizia liberava uno stock di carburante, i sindacati ne occupavano un altro. L’inseguimento è andato avanti fino a quando i lavoratori sono riusciti ad interrompere l’attività dell’oleodotto che approvvigiona gli aeroporti di Parigi. A questo punto se la situazione non dovesse mutare l’aeroporto di Roissy si troverebbe in ginocchio all’inizio della prossima settimana mentre quello di Orly tra un paio di settimane. Tanto basta per diffondere un certo allarme, nonostante tutte le rassicurazioni del governo.
Già ieri parecchi francesi hanno preferito premurarsi garantendosi un pieno, ma ora Sarkozy vuole evitare che la minaccia dei sindacati generi code ai distributori, esaurisca le scorte e consegni ai sindacati un’arma contro la sua riforma che porta da 60 a 62 gli anni per andare in pensione. Per questo ieri ha mandato la polizia a sbloccare la situazione e il ministro dei Trasporti Dominique Bussereau a rassicurare i francesi. Le riserve strategiche non saranno toccate, ha detto, e «il corretto approvvigionamento sarà garantito».
Mentre da martedì continuano gli scioperi a singhiozzo nelle ferrovie e nei mezzi pubblici di trasporto, e i camionisti organizzano blocchi sporadici delle strade, a preoccupare l’esecutivo è soprattutto il fattore studentesco. Evitare che il movimento sociale si saldi col mondo dell’istruzione generando davvero una specie di ’68 è per ora la priorità. Dopo ben tre manifestazioni che hanno portato in piazza tremilioni di persone, l’Eliseo ha cominciato ad allarmarsi quando martedì scorso al quarto corteo, che ha portato a tre milioni e mezzo i partecipanti, si sono visti migliaia di studenti. I liceali hanno poi dato vita ad una giornata autonoma d’azione giovedì e ancora ieri erano tra trecento (secondo il ministero) e novecento (secondo gli studenti) i licei occupati.
Oggi è prevista un’altra giornata di manifestazioni e un’altra è già fissata per martedì. Per ora i francesi sembrano seguire i sindacati, e un sondaggio ha rivelato in queste ore che una maggioranza di loro vedrebbe di buon occhio una riedizione delle grandi manifestazioni che nel ’95 paralizzarono il paese e costrinsero il governo di Alain Juppé a fare dietro front sulla riforma delle pensioni.

l’Unità 16.10.10
Tendinerosse abbassate, il Plenum del partito riunito a porte chiuse sul piano quinquennale
I dissidenti chiedono democrazia, alcuni di loro segregati in casa o spariti nelle ultime ore
Il Pcc pianifica la Cina futura 120 intellettuali: è ora di libertà
Una lettera aperta firmata da 120 intellettuali cinesi chiede al governo di liberare Liu Xiaobo e di cogliere l’occasione per aprire alla democrazia. Nel giorno in cui il plenum del Pcc traccia il futuro della Cina.
di Rachele Gonnelli


Occhi puntati sul palazzetto «a pagoda» noto come Zhongnanhai, adiacente al complesso imperiale della Città Proibita. Dietro le tendine rosse e rigidamente a porte chiuse da ieri si riunisce il Comitato centrale del Partito comunista cinese per studiare il prossimo piano quinquennale, ovvero stabilire come la seconda potenza economica del mondo intende portare avanti la sua trasformazione. Le aspettative sono molte e la politica si interseca con l’economia. Non sembra proprio un caso che giusto ieri sia stata lanciata una lettera aperta al governo di Pechino firmata da 120 intellettuali, accademici, giuristi per chiedere la liberazione di Liu Xiaobo, il dissidente condannato a 11 anni di prigione per «istigazione alla sovversione» vincitore del Nobel per la pace 2010. Molti dei firmatari, come Teng Biao, avvocato che si occupa di violazione dei diritti umani in Cina, amico personale di Liu Xiaobo, fanno parte del movimento noto come Charta 08 e tornano oggi a chiedere l’apertura di una nuova stagione di riforme che aprano finalmente il Paese alla democrazia. Tra loro c’è Xu Youyu, docente di filosofia politica all’Accademia di scienze sociali di Pechino, e altri due intellettuali di fama come Cui Weiping e Hao Jian, che però nelle ultime ore risultano «spariti». Mentre Zhuo Duo, altro amico di Liu, denuncia di essere segregato in casa da quando ha cercato di organizzare una cena per festeggiare il Nobel a Liu. Un po’ come la moglie del dissidente premiato, Liu Xia che ora tramite Twitter fa sapere di temere di essere portata via da Pechino.
La lettera dei 120 intellettuali segue l’altra missiva, inviata al al comitato permanente dell’assemblea nazionale del popolo, massimo organo legislativo cinese, mercoledì scorso, da 23 «veterani», ossia 23 ex «alti papaveri» del Pcc ai tempi di Mao. Anche loro in testa l’ex segretario di Mao, Li Rui, e l’ex direttore del Quotidiano del Popolo, Hu Jiwei con la richiesta di aprire alle libertà di organizzazione e di espressione, abolendo la censura su Internet. EntrAmbe le lettere fanno appello alla Costituzione cinese del 1982 che all’articolo 35 garantiva libertà di parola, di stampa, di riunione e di manifestazione. Mai veramente attuato.
LE RIFORME
Per la prima volta da quando Liu Xiaobo ha vinto il Nobel, una settimana fa, ieri l’agenzia ufficiale Xinhua interviene sulla questione con un lungo editoriale che dà ampio conto della notizia nell’attaccare il Comitato di Oslo per la sua scelta, frutto di «una cospirazione occidentale» che vuole «far diventare la Cina vassallo dell’Occidente». Come quando premiando il Dalai Lama voleva «punire la Cina» per gli incidenti di Lhasa nell’89 per la sua opposizione all’indipendenza del Tibet. L’agenzia governativa ribadisce la giustezza della condanna a Liu. La «sua cosiddetta lotta per i diritti umani» non sarebbe altro che «appelli a unirsi e propaganda via Internet» per «sovvertire la politica esistente». Xinhua risponde anche alle critiche costituzionali. E all’articolo 35 contrappone «l’articolo 51 comma 54»: la libertà del Pcc di limitare le libertà altrui «per salva-
guardare la sicurezza nazionale». Si torna a sbirciare dietro le tendine rosse del palazzo Zhongnanhai dove sono riuniti i 371 uomini più potenti della Repubblica popolare. Dalle indiscrezioni della vigilia anche loro si pongono il problema delle riforme, soprattutto però da un punto di vista economico. Il presidente della Repubblica, e segretario generale, Hu Jintao chiede un riequilibrio tra ricchi e poveri, uno sviluppo che abbandoni la crescita industriale discriminata e punti sul «benessere». Il plenum parlerà di incentivi per le energie rinnovabili già nel 2011 la Cina sarà il maggior produttore di energia eolica hi-tech, bio ingegneria e reti infrastrutturali, quindi potenziando gli investimenti in istruzione e ricerca medica. Da campione dell’export anche il Fondo Monetario lo pensa la Cina punterà ora nello sviluppo del suo mercato interno, potenzialmente il più grande del mondo.

l’Unità 16.10.10
Via libera alla costruzione di nuovi edifici nei quartieri arabi della città
La protesta palestinese: così si dà un colpo mortale alla trattativa
Netanyahu gela il negoziato 238 case a Gerusalemme Est
Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu ha dato il via libera per la realizzazione di altri 238 appartamenti a Gerusalemme Est. L’Anp reagisce duramente: «Israele ha scelto la colonizzazione contro la pace».
di Umberto De Giovannangeli


Per i palestinesi è il «chiodo» sulla bara dei negoziati. Per la destra oltranzista israeliana è l’ennesima vittoria. A Gerusalemme Est i cantieri ebraici riprendono a lavorare: il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha infatti autorizzato la costruzione di circa 240 nuovi alloggi nei rioni di Ramot e di Pisgat Zeev, oltre la linea di demarcazione in vigore fino al 1967, cioè fino alla guerra dei Sei Giorni. Ufficialmente in merito non era mai stata annunciata alcuna moratoria (a differenza da quanto è avvenuto fra il dicembre 2009 e il settembre 2010 nelle colonie in Cisgiordania). Ma in pratica le polemiche di marzo, seguite alla visita del vicepresidente statunitense Joe Biden a Gerusalemme, avevano indotto il governo Netanyahu per non suscitare vespai a mettere la sordina ai progetti edili ebraici in città. Le forze nazionaliste dell'esecutivo avevano ingoiato l'amaro boccone senza fare troppe proteste.
RUSPE IN AZIONE
Mentre le trattative israelo-palestinesi restano dunque bloccate già in seguito alla fine della moratoria edile nelle colonie cisgiordane, la stampa locale scrive che a Gerusalemme Est (la cui annessione da parte di Israele non è mai stata riconosciuta da parte della comunità internazionale) il ministro dell'edilizia Ariel Atias (Shas) ha autorizzato la costruzione di 158 alloggi nel rione ebraico di Ramot (che già oggi conta 47 mila abitanti) e di altri 80 a Pisgat Zeev (fra Gerusalemme e Ramallah) dove vivono già 45 mila israeliani. Secondo il quotidiano Maariv, Netanyahu ha avuto cura di dissimulare questa iniziativa in un progetto nazionale di costruzioni per complessivi 500 alloggi. Il giornale aggiunge che il premier ha avvertito Washington della novità lasciando intendere di essere stato obbligato, dopo mesi di inattività, ad autorizzare una iniziativa circoscritta.
L’ANP PROTESTA
La dura reazione palestinese non si è fatta comunque attendere. «Si tratta di un chiodo ulteriore sulla bara dei negoziati» ha dichiarato a caldo una fonte dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). Poi anche il capo negoziatore Saeb Erekat è tornato sull'argomento. «Sembra che Netanyahu abbia fatto la propria scelta: meglio gli insediamenti della pace». «Israele ha proseguito continua ad adottare ogni possibile provvedimento pur di impedire la costituzione di uno Stato palestinese indipendente». A Gerusalemme Est la tensione resta alta, specialmente nel rione di Silwan (alle pendici della Spianata delle Moschee) dove, attorno ad un vasto parco archeologico, 300 israeliani si sono insediati fra circa 60 mila palestinesi e dove le frizioni sono costanti. Ieri si sono segnalati lanci di pietre contro le abitazioni ebraiche e una postazione della guardia di frontiera è stata data alle fiamme.

l’Unità 16.10.10
Nucleare,Veronesi guiderà l’Agenzia. Polemiche dal Pd
Umberto Veronesi ha accettato di dirigere l’Agenzia per la sicurezza nucleare. Il governo spinge per far partire il programma e realizzare le centrali. Dal Pd: «Si dimetta dal Senato».
di Maria Zegarelli


L’oncologo Umberto Veronesi ieri ha detto sì all’Agenzia per la sicurezza nucleare, come ha annunciato nel corso di «Mattino 5». «Mi è stata chiesta la disponibilità e ho accettato volentieri», ha spiegato il professore che il mondo ci invidia. A chi ha avanzato dubbi sulla sicurezza nucleare, lo scienziato ha risposto che «chi ha studiato sa benissimo che il disastro di Chernobyl è stato provocato dalla follia di un direttore che ha voluto fare un esperimento e per farlo ha tolto almeno 12 livelli di sicurezza. È stata una follia umana che non si ripeterà».
I REATTORI IN ITALIA
La decisione del professore è stata accolta con «grande condivisione» dai ministri dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, e dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, anche se per la formalizzazione della nomina, che deve avvenire con decreto della Presidenza del Consiglio, si dovrà aspettare la prossima settimana, quando rientrerà il premier, attualmente in convalescenza per l’intervento alla mano. A quel punto, come spiega una nota, «si potrà procedere quindi sollecitamente con i successivi adempimenti, proseguendo nell'attivazione del programma di rientro nel nucleare deciso dal Governo nell'ambito di un sistema che privilegi l'informazione, la sicurezza e la condivisione delle scelte sul territorio». L’Agenzia è tutta da costruire: il ministro Prestigiacomo dovrà individuare e quindi nominare con un decreto i cento dipendenti, 50 dei quali provenienti dall'Ispra e 50 dall'Enea, primo passo di altri adempimenti burocratici. Una volta operativa, sarà compito dell’Agenzia fare la mappature dei siti per le centrali e per lo stoccaggio dei rifiuti.
Veronesi è entusiasta: «I nuovi reattori sono bellissimi, potenti e non c’è alcun dubbio sulla sicurezza», anche se per averli in Italia ci «vorranno 4 anni per la primissima attività».
DAL PD: SI DIMETTA DAL SENATO
Nel Pd, la cui posizione decisa nell’Assemblea dello scorso maggio è un no secco al nucleare di terza generazione voluto dal governo, si sono agitate le acque. «Umberto Veronesi è nel suo campo persona di assoluto valore e competenza, una di quelle figure che fanno onore all’Italia, ma non potrà essere la foglia di fico che renderà possibile una scelta antieconomica e contraria agli interessi dei cittadini e del Paese come il nucleare», commenta Ermete Realacci, responsabile Green Economy del partito. Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, i senatori ecodem, chiedono al professore di dimettersi dal suo incarico in Senato. I due esponenti Pd esprimono preoccupazione per il programma «nucleare di Berlusconi che non è una cosa seria e pare obbedire più ad una scelta propagandistica e ideologica che non ad una capacità programmatica nel settore energetico». La richiesta di dimissioni da senatore a cui fanno riferimento nel Pd è relativa a quanto disse nei mesi scorsi Veronesi: «Se dovessi andare a dirigere l’Agenzia mi dimetterei».
Critica anche la responsabile Ambiente per il Nazareno, Stella Bianchi: «Non basta la scelta di un oncologo di grande fama ed esperienza pluridecennale come Umberto Veronesi a rendere accettabile una scelta anti-economica e sbagliata per l'Italia, come è il piano di ritorno al nucleare che il governo Berlusconi sta imponendo al Paese».

l’Unità 16.10.10
Sarai violento? Mostra il cervello
Il professor Michael Gazzaniga spiega come le neuroscienze possono entrare nei tribunali: uno scenario degno di “Minority Report”
di Cristiana Pulcinelli


Il progetto a cui sta lavorando si chiama «Law and Neurosciences», la legge e le neuroscienze. Due cose apparentemente molto distanti, ma che, secondo Michael Gazzaniga, si stanno rapidamente avvicinando. Gazzaniga è uno neuroscienziato americano che ha dedicato molto tempo allo studio del cervello umano, ma che negli ultimi anni ha cercato anche di capire come queste nuove conoscenze abbiano un influsso su altri campi, in particolare l’etica e il diritto. A questi temi Gazzaniga ha dedicato un libro (La mente etica, Codice edizioni, 2006) e oggi torna a parlarne in Italia, in occasione di Bergamoscienza.
Professor Gazzaniga, come è nato il progetto Law and Neurosciences? «Le neuroscienze stanno chiarendo come il cervello influisce sulla mente e sui comportamenti. Una vera rivoluzione cognitiva che negli ultimi dieci anni si è estesa ad emozioni e comportamento sociale. Abbiamo imparato moltissimo su come il cervello percepisce gli oggetti, mantiene l’attenzione, assembla il linguaggio, fissa gli obiettivi, pianifica le azioni e individua gli imbroglioni e stiamo anche cominciando a capire il ruolo del cervello nella religione e nella morale. Le caratteristiche distintive della specie umana stanno diventando comprensibili in termini biologici. Il diritto, al contrario, è un sistema che evolve lentamente. Contiene secoli di pensieri e credenze sulla mente e il comportamento umano basate per lo più su osservazioni casuali e ipotesi non verificate. La maggior parte delle leggi accettano assunti del senso comune senza averli sottoposti a esperimenti controllati. Il progetto Law and Neurosciences ha iniziato un dialogo tra i due campi».
Lei sostiene che le neuroscienze stanno entrando nei tribunali, come avviene? «In vari modi. In primo luogo l’accertamento della verità: le aziende stanno lanciando sul mercato macchine della verità basate sulla risonanza magnetica funzionale e l’elettroencefalogramma. E alcune ricerche hanno mostrato che la risonanza magnetica funzionale può mostrare se un soggetto ha familiarità con un luogo, ad esempio il luogo del delitto. Del resto, esami sulla fisiologia del cervello vengono già oggi utilizzatati per richiedere la concessione di attenuanti per “infermità mentale”».
Queste conoscenze possono aiutarci a ridefinire concetti come quello di responsabilità? «Le ricerche sulla sequenza degli stati cerebrali connessi a processi come la decisione di compiere un’azione e l’attuazione dell’azione stessa hanno prodotto risultati che potrebbero mettere in crisi il concetto di controllo esecutivo. Da questi studi emergono alcuni quesiti: davvero noi decidiamo di agire? O forse abbiamo solo l’opzione di veto su un’azione che si mette in moto prima che ne siamo coscienti? Se così fosse, questo cambierebbe la nostra idea di responsabilità penale? Alcuni studiosi di diritto rispondono di no a quest’ultima domanda: la legge si basa sulla nozione di responsabilità propria del senso comune. E questo non sembra stia cambiando. Ci potremmo chiedere se dovrebbe cambiare, ma in questo caso l’intero sistema giuridico dovrebbe essere riprogettato dalle fondamenta. Un altro problema è legato alla percezione popolare degli ultimi sviluppi delle neuroscienze. A prescindere dalla sua correttezza, l’idea che gli esseri umani siano nient’altro che macchine e non possano venir puniti perché le loro risposte sono predeterminate e automatiche potrebbe influenzare la giurisprudenza. Ma non è quello che i neuroscienziati vorrebbero».
È possibile ottenere informazioni sulle caratteristiche psicologiche di un individuo, come la sua predisposizione a un comportamento violento, attraverso la tecnica del «brain imaging»? «Non solo è possibile, ma si sta facendo. La legge fa spesso uso di strumenti di analisi comportamentale per predire azioni violente. Ad esempio, per stabilire se un prigioniero debba essere rilasciato con la condizionale. Oppure, se un detenuto debba essere messo in un carcere di massima sicurezza. Gli strumenti di brain imaging potrebbero presto essere in grado di dare queste previsioni meglio di quanto facciano oggi le perizie degli psicologi».
Quali sono i pro e i contro dell’uso dell’analisi degli stati cerebrali per stabilire la colpevolezza? «Credo che l’influenza positiva delle neuroscienze sulla giurisprudenza sia maggiore di quella negativa. L’aspetto positivo è che le neuroscienze portano accuratezza sottoponendo a indagine empirica gli assunti che sono alla base del diritto. Gli aspetti negativi sono spesso descritti come la preoccupazione per il “Grande Fratello”. Lo Stato può sottoporre a scansione cerebrale preventiva gli individui per cercare i segni di una futura violenza? Possiamo costringere un sospettato a sottoporsi a una macchina della verità? La questione è se la sicurezza pubblica possa avere la meglio sul diritto di un individuo di essere libero di compiere molto probabilmente in futuro un atto di violenza».

Convegno all’Università “La Sapienza” 11 ottobre 2010
La sessualità umana, biologia e comunicazione interpersonale

Lunedì 11 ottobre si è tenuto presso la I° Clinica Medica del Policlinico Umberto I° di Roma il convegno dal titolo “La sessualità umana, biologia e comunicazione interpersonale”, organizzato dalla Prof.ssa M. Rita Ziparo, docente di Fisiologia umana presso l’Università “La Sapienza”.
La giornata è stata suddivisa in due sessioni: nella prima il tema della sessualità umana è stato affrontato in modo interdisciplinare, dal punto di vista genetico, embriologico, endocrinologico ed andrologico, neurologico e psichiatrico. Nelle intenzioni degli organizzatori c’era la volontà di approfondire il tema della sessualità,per chiarire i tanti dubbi e dissipare la confusione tra eterosessualità, omossessualità, transessualità, sia dal punto di vista strettamente medico scientifico che sul piano culturale. In questo senso a mio avviso è stato fondamentale l’ultimo intervento, della prof.ssa Valentina Gazzaniga, docente di Storia della medicina, la quale ha presentato un interessantissimo lavoro sulla sessualità nella cultura antica dal titolo: Sesso e polis: normalità e anomalie tra genere e sesso nella medicina antica, così come molto interessante è stata la sessione pomeridiana nella quale sono intervenuti il Segretario del Centro culturale islamico di Roma, prof. Abdellah Redouane, che ha parlato de “La concezione della sessualità nell’islam”, il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo S. Di Segni, che ha dissertato su “Pensiero ebraico e sessualità” ed infine il rappresentante del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, Mons. Michael Czerny, che ha parlato de ”La sessualità umana: cosa impariamo dal Cristianesimo e dall’AIDS in Africa?”. Se è pur vero, come ha sostenuto il vice preside della Facoltà di Medicina, Prof Gaudio, che il tema della sessualità è altamente complesso, importante, e va trattato nelle sedi accademiche con rigore scientifico, quella di ieri è stata per tanti versi un’occasione mancata: infatti, ad eccezione dell’intervento del prof. Cavaggioni, dal titolo: ”La violenza dell’assente: psicopatologia e psicodinamica dell’impotenza”, che ha accennato alla sessualità umana come relazione uomo–donna, basata sul riconoscimento della diversità, nessuno dei relatori nella prima sessione è stato in grado di parlare di sessualità umana come dimensione interna, come rapporto profondo tra identità ed immagini –maschile e femminile- assolutamente diverse.
Si è discusso dell’andrologia come medicina della sessualità, dei disturbi della libido dovuti alle alterazioni degli ormoni e dei neurotrasmettitori, del ruolo della genetica delle patologie del differenziamento sessuale e delle tappe dello sviluppo sessuale dell’embrione e del feto durante la gravidanza, del transessualismo e dei disturbi della differenziazione sessuale maschile, delle alterazioni dello sviluppo sessuale e affettivo nei bambini, presentati genericamente come disturbi della personalità o di tipo ossessivo o come disturbi isterici e/o istrionici. Dal canto suo, la prof.ssa Ziparo, ci ha parlato de “Il sesso nel cervello: il pensiero di lei, il pensiero di lui”, affermando, su un piano rigorosamente neurofisiologico, la indubbia differenza “anatomica” tra cervello maschile e cervello femminile, che sarebbe alla base del diverso modo di pensare e di comunicare tra uomini e donne: siamo diversi perché i nostri cervelli si sono sviluppati sotto il diretto controllo degli ormoni steroidei sessuali, che regolano l’equilibrio tra proliferazione e morte cellulare, e che stimolano la crescita e lo sviluppo delle arborizzazioni dendritiche, controllando il numero e la tipologia delle sinapsi neuronali, conferendo così ad ognuno di noi un cervello particolare ed unico!
Di ben altra natura e spessore è stato l’intervento della prof.ssa Gazzaniga, che ci ha brillantemente raccontato come nel mondo greco e romano la sessualità fosse intesa secondo tre “norme” diverse: la norma culturale, basata sul rapporto esclusivamente omosessuale inteso come rituale di iniziazione dei maschi con i maschi e delle femmine con le femmine; la norma fisiologica propria dei medici prima (Ippocrate) e dei filosofi dopo, (Platone e Aristotele), che nasce come riflesso della norma culturale, e che stabilisce una diversa “costruzione fisica” del maschio e della femmina, in cui la donna è presentata come un maschio incompiuto, imperfetto, e che verrà codificata definitivamente poi dal medico Galeno e infine la norma sociale, che impone la conservazione della specie e quindi si basa sul matrimonio e sulla relazione eterosessuale.
Del fatto che esista una norma culturale che non prevede l’orientamento eterosessuale nel mondo greco noi abbiamo una serie di testimonianze molto ampie” e molto esplicite, sia grafiche che pittoriche, e il fatto che esse siano presenti anche in contesti sacri e religiosi dimostra –ha affermato la prof.ssa Gazzaniga - come l’omosessualità nella cultura antica, in cui l’erastes, il vecchio, abusava del eromenos, il bambino o l’adolescente, non solo non è considerata una devianza, “ma è presentata come la normalità del rapporto con l’altro”.
Infine, nel pomeriggio, si è discusso della sessualità nell’Islam, nella religione ebraica e nel cristianesimo: l’Islam non associa la sessualità al peccato, ma il rapporto sessuale viene considerato il “preludio alle delizie del paradiso”. La sessualità è secondo il Corano un dovere da compiersi, di cui non si può fare a meno, anche se l’unica relazione sessuale considerata lecita è quella vissuta nel matrimonio: l’adulterio, una volta dimostrato, è punito mentre l’omosessualità è formalmente proibita.
Nella religione ebraica il rapporto sessuale, ha ricordato il Rabbino Capo Di Segni, è indicato dalla parola conoscenza: non ha nessuna correlazione con il peccato, ma rappresenta positivamente un modello di conoscenza per l’appunto, reale e profonda, che ha il suo massimo esempio nel rapporto di amore tra il dio creatore e i suoi fedeli. Il sesso è un’esigenza fondamentale per l’uomo, e non ha come unico fine la riproduzione, ma è necessario per mantenere l’equilibrio psicologico individuale e della coppia.
Il delegato pontificio con il suo intervento finale ha in sostanza in modo violento e disonesto tentato di dimostrare che l’uso del preservativo come strumento di prevenzione del rischio AIDS in Africa è del tutto inutile, e che ha ragione il papa nel ritenere che l’unico modo per evitare le malattie a trasmissione sessuale è l’astinenza dai rapporti sessuali o, se si è sposati, la fedeltà verso i rispettivi coniugi.
Molto interessante è stato il dibattito, che non ha dato grande spazio al numeroso pubblico, composto prevalentemente da giovani studenti, ma che ha consentito comunque di affrontare il tema dell’omosessualità nelle diverse religioni, il problema della libertà della donna nelle diverse società islamiche, e, grazie al’intervento di una studentessa molto intelligente, determinata e coraggiosa, quello sempre più pressante ed urgente del riconoscimento che la vita umana non è solo “biologia” come per la chiesa cattolica: l’uomo ha tutto il diritto di decidere per una vita che sia “umana” dal punto di vista qualitativo, ha affermato la studentessa, e di difendere la libertà di vivere secondo le proprie scelte, anche se queste vanno in alcuni casi contro la vita biologica, come nell’eutanasia o nell’aborto. Lascio a voi immaginare la risposta del delegato pontificio, io preferisco non riferirvela!

Michol Consolazione

venerdì 15 ottobre 2010

il Fatto 15.10.10
Università in ginocchio per i tagli. Proteste in tutta Italia
Tremonti: “Fondi a fine anno”. Ma non dice quanti
di Caterina Perniconi


“Berlusconi, se hai i capelli è solo grazie alla ricerca”. Provano a scherzarci sopra con uno striscione irriverente gli studenti e i ricercatori scesi in piazza Montecitorio per protestare contro la riforma del ministro Mariastella Gelmini. Ma non hanno molta voglia di ridere: “Questi tagli distruggono l’Università pubblica e la legge la renderà sempre più privata” spiegano i manifestanti, che nonostante lo slittamento del ddl, che non verrà discusso prima della sessione di bilancio della Camera, continuano la loro lotta contro il provve-
dimento. Ieri, mentre il governo varava la manovra Finanziaria, studenti e ricercatori hanno sfilato fianco a fianco in molte città e occupato la sede della Conferenza dei rettori a Roma. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, in conferenza stampa non ha fatto assolutamente nessuna cifra. Ha promesso di “mettere più soldi possibile” per la riforma dell’Università, ma ciò avverrà “a fine anno”. Il che significa che gli anni accademici dovrebbero partire senza sapere su quanti soldi potranno contare gli atenei.
Dimenticati i precari
A QUESTE condizioni i ricercatori non ci stanno e continuano lo “sciopero” della didattica, che poi un vero sciopero non è, trattandosi solo del rispetto delle loro formule contrattuali. I precari, completamente dimenticati dal governo, accettano con difficoltà la
protesta di una fascia docente già assunta che chiede diritti, maforsequestotipodicontestazione sarà il primo che dimostrerà realmente cosa sta succedendo nelle Università. Perché l’offerta formativa sarà ridotta, e senza soldi non si potranno rimettere insieme i pezzi.
Dopo i presidi del Politecnico di Torino anche la preside di Scienze Matematiche dell’Università di Milano, Paola Campadelli, è stata costretta ad avvertire gli studenti e le famiglie dei disagi che la riforma in itinere e i tagli previsti dal governo porteranno alla riforma: “L’Università si trova in grave disagio – spiega la preside – a causa delle recenti manovre finanziarie (giugno 2008 e giugno 2010) e dei problemi che il disegno di legge di riforma dell’Università, in discussione in questi giorni alla Camera, potrebbe provocare se non opportunamente finanziato ed emendato”. Nella lettera viene spiegato che lamediadispesaperognistudente è molto inferiore rispetto alla media europea (8.500 euro contro 13.000), si fa riferimento al taglio del 18% del fondo di finanziamento ordinario e a quello per i progetti d’interesse nazionale.
“Il ministro Gelmini ritiri la sua polpetta avvelenata e ridia futuro al Paese” ha dichiarato il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro. “I ministri Gelmini e Tremonti – ha denunciato Di Pietro – hanno tolto 8 miliardi di euro alla scuola pubblica, 1,2 miliardi all’università e hanno mandato 140 mila insegnanti per strada. Altro che riforma, queste scelte nascondono soltanto un disegno ben preciso: far trionfare l’ignoranza, cancellare la meritocrazia agevolando così solo gli istituti privati”. Mentre per il leader della Lega umberto Bossi, il
problema non esiste: “I soldi si troveranno, ci penserà Tremonti”.
Manifestazioni da nord a sud
EPPURE nella “padana” Milano le proteste continuano, eccome. Ieri i ricercatori hanno fatto lezione in piazza e hanno sfilato in corteo insieme agli studenti. A Torino il Politecnico è occupato. A Trieste sono state fermate tutte le attività per mezz’ora, dalle 11.30 alle 12.00 . A Firenze lezioni “aperte” all’ospedale Carreggi. A tenerle i docenti della facoltà di medicina. In segno di protesta è stato esposto uno striscione con la scritta “il ddl Gelmini e la Finanziaria uccidono l’università. Non lasciamola morire!”. Mentre nel corso di una manifestazione i ricercatori dell’Università di Bari hanno bruciato i loro curricula in piazza. “Si tratta di un atto simbolico importante – hanno spiegato – perchè i curricula sono il nostro bene più prezioso, che rischia di essere negato, mortificato, ignorato nel nuovo modello di Università voluto dal governo dato che il provvedimento governativo non fa altro che aumentare il precariato nelle università pubbliche”.

l’Unità 15.10.10
Epifani: va fermata l’offensiva
contro i diritti dei lavoratori
Il segretario Cgil: la situazione di molte persone è drammatica e il governo è allo sbando Maroni faccia quel che gli compete per mantenere la sicurezza, ma perché parla ora?
di Oreste Pivetta


Domani la grande manifestazione di Roma e ieri sera il ministro Maroni va in scena a Porta a Porta, con Bruno Vespa, per annunciare «elevato rischio» e possibilità di «infiltrazione di gruppi violenti». Guglielmo Epifani, che chiuderà la giornata romana, commenta: «Strano che il ministro esprima le sue preoccupazioni in televisione e solo dopo con il sindacato. Non capisco le sue dichiarazioni all’ultimo momento, se sia un modo per scaricare responsabilità o altro. Gli chiedo solo di lavorare al massimo, per quanto gli compete, per prevenire incidenti e garantire l’ordine pubblico». Comunque, chiediamo a Guglielmo Epifani, come vi sentite? Sotto osservazione?
«Diciamo intanto che la manifestazione è una manifestazione sindacale e che sindacale resta, pur sapendo della forte presenza di movimenti. Ho già detto: se succedesse qualcosa sarebbe una giornata persa per far valere le nostre ragioni. Il nostro impegno, perché violenze non ci siano sarà assoluto, perché sappiamo bene che esistono limiti invalicabili: non si scagliano candelotti, non si invadono le sedi degli altri. Non si può essere ‘non violenti’ e poi giustificare certi atti, che rappresentano l’opposto del confronto che noi ricerchiamo sempre. Non esistono due verità. Di verità ce n’è una sola: la nostra dice che è inaccettabile la violenza». Veniamo ai contenuti. Su che cosa punterà nel suo discorso, che sarà probabilmente il suo ultimo da segretario della Cgil?
«Al cuore del discorso deve stare ancora la denuncia della grave crisi che stiamo attraversando e dell’uso che se ne sta facendo per colpire i diritti dei lavoratori, deve stare la denuncia dell’assenza di una politica che dia risposte alle necessità di tante persone, in condizioni drammaticamente pesanti. Basterebbe rileggere i dati della cassa integrazione, della disoccupazione, i numeri del precariato, rileggere le storie di tante aziende a rischio chiusura, ascoltare le proteste di contadini come in Sardegna e di operai un po’ ovunque, riflettere sui rapporti della Caritas a proposito di povertà. Mentre il governo appare allo sbando, da un lato incapace di affrontare i nodi di una politica che aiuti le famiglie, che sostenga il lavoro, che dia stimolo agli investimenti, dall’altra dominato nelle sue strategie da due obiettivi: un ferocissimo controllo del bilancio pubblico e l’attacco sistematico ai diritti dei lavoratori. Di fronte a questa alternativa, mi pare che si sia rotto, in parte almeno, quel patto che l’impresa aveva stipulato con il governo. Si cominciano ad avvertire scricchiolii, che la Marcegaglia cerca con cautela di rappresentare e che sono in realtà ben più numerosi. Come se l’impresa avesse dapprima considerata giusta una linea di grande rigore, che la mettesse al riparo dalla tempesta finanziaria, contando poi su una ripresa più rapida e sostenuta. Invece cresciamo pochissimo e si avverte al tempo stesso la divaricazione tra la spinta alle attività produttive decisa negli altri paesi e il nulla o quasi proposto dal nostro governo».
La vicenda dell’università è emblematica di un governo diviso... «Siamo al paradosso perché il minimo del minimo che il governo aveva promesso per sistemare un po’ di ricercatori e garantire un filo di prospettiva viene bloccato dalla rigidità della manovra di Tremonti».
In compenso ci hanno regalato il federalismo... «Il federalismo è una impresa a grande rischio, perché con una politica così rigida di bilancio anche le risorse necessarie per un federalismo solidale non sembrano alla portata. Ne parlerò e parlerò naturalmente della vicenda dei precari, in particolare della pubblica amministrazione, dell’attacco al contratto nazionale, dell’attacco ai diritti dei lavoratori...».
Lei lascia, mentre appaiono assai difficili i rapporti tra la Cgil e la Cisl e tra la Cgil e la stessa Fiom.
«Con la Fiom non direi, perché per quanto riguarda il contratto nazionale la strada imboccata dalla Fiom sia giusta e che la scelta di Federmeccanica sia inaccettabile oltre che assai delicata. A proposito di Pomigliano, anch’io penso che non ci fossero le condizioni per firmare, ma non perché ci chiedessero di lavorare di più, ma perché pretendevano di mettere sotto controllo i comportamenti delle persone in un modo che va al di là di diritti indisponibili anche per il sindacato. Siamo convinti però che per superare questa situazione serva una proposta che ci consenta di rientrare nel gioco di una revisione della riforma contrattuale. Con una nostra proposta saremmo tutti più forti, sarebbe più forte la Fiom». Qualcuno accusa: protesta debole, serve lo sciopero generale.
«Ne abbiamo appena fatto uno. E poi ricordo la manifestazione della Cgil di novembre. C‘è un’altra necessità, quella di tenere unito il fronte rivendicativo. Dobbiamo tenere temi e obiettivi come il rinnovo della cassa integrazione, la crisi industriale, la condizione dei precari, la richiesta di politiche industriali, la questione del peso fiscale per i lavoratori indipendenti e per i pensionati, il rispetto dei diritti contrattuali, contro le deroghe e l’accordo di Pomigliano... Non siamo come nel 2001, quando l’attacco fu su un punto soltanto, sull’articolo 18. Siamo di fronte a una politica che rischia di far precipitare le condizioni dei lavoratori».
Rischiando di trovarvi senza interlocutori. «Siamo in una fase di assoluta incertezza nell’azione del governo... Ma non è che possiamo fermarci, perché comunque il governo procede: vedi il collegato sul lavoro con l’arbitrato che potrebbe diventare nella sostanza quasi obbligatorio».
Il suo personale bilancio?
«Sono diventato segretario in una fase di divisione, ho lavorato per ricomporre l’unità. Mi ritrovo a fare i conti con un’altra forte divisione. E questa è la cosa che più mi rammarica. Siamo di fronte a una profonda lacerazione sul ruolo del sindacato. Anche se esistono altri segnali: in fondo sono stati firmati unitariamente cinquanta contratti e si fanno ancora scioperi insieme. Certo che iniziative come di sabato scorso della Cisl non aiutano. Quando c’erano tutti i presupposti perché in piazza sul fisco si scendesse assieme».
Che cosa manca?
«Mancano momenti di confronto con i lavoratori. La paura di confrontarsi nei luoghi di lavoro fa male alla ripresa dell’unità».

Corriere della Sera 15.10.10
L’imbarazzo del Pd anche con gli alleati per la manifestazione
di Maria Teresa Meli


ROMA — L'allarme lanciato dal ministro dell'Interno Roberto Maroni divide un Pd già diviso. Rafforza le perplessità — che in alcuni casi sono vere e proprie ostilità — nei confronti della manifestazione della Fiom, da una parte, mentre dall'altra suscita lo sdegno di quanti domani scenderanno in piazza. Pier Luigi Bersani, che non parteciperà al corteo, era stato già avvisato della possibilità di provocazioni ed eventuali infiltrazioni.
Ma se il segretario domani non ci sarà, al fianco dei metalmeccanici della Fiom sfilerà invece uno dei suoi pupilli, il responsabile economico del partito, Stefano Fassina, uno dei giovani su cui il leader punta molto. È stato proprio lui a tenere i rapporti con la Fiom in questi ultimi giorni e a rassicurare il sindacato, lasciando intendere che comunque il Pd non si defila.
Del resto, le divisioni dentro il Partito Democratico sono trasversali. Per un Fassina che partecipa convinto alla manifestazione, c'è un Enrico Letta che fa sapere che lui domani sarà in quel di Prato a un convegno della Confindustria. Divisioni anche tra i 75, la corrente di minoranza del partito. Per il veltroniano emergente Andrea Martella «il Pd farebbe bene a stare lontano dalle piazze». Martella è convinto che un partito riformista ha poco o nulla a che spartire con le battaglie della Fiom. Invece secondo il senatore Roberto Della Seta, della stessa componente, l'iniziativa della Fiom è sacrosanta: «È inaccettabile che la ripresa della nostra economia possa avvenire riducendo i diritti dei lavoratori».
Il partito di Bersani come tale non ha dato l'adesione ufficiale. Anche se in molti andranno. «Chi ci va, lo farà solo a titolo personale», spiega Sergio D'Antoni ex leader della Cisl, che aggiunge: «Se non siamo andati alla manifestazione di sabato scorso di Cisl e Uil, a maggior ragione non possiamo andare a quella della Fiom».
La linea è «né contro la manifestazione, né a favore». Ma non risolve i problemi del Pd. Tant'è vero che la tensione, dentro il partito, tra gli amici della Cisl e quelli della Cgil è ancora forte. E questa linea in realtà non risolve nemmeno i problemi che il partito ha con gli alleati del nuovo Ulivo che verrà. I Vendola, i Nencini, i Verdi, Di Pietro, saranno tutti in piazza, domani. E c'è da scommettere che saranno pronti a puntare il dito sul Pd che un po' manifesta e un po' no.
E ancora: molti centristi del partito sono in sofferenza. Marco Follini vede una deriva «che rischia di farci finire come i Progressisti del '94». Europa, il quotidiano dei «Democrats», avverte: «Il Pd eviti il collateralismo, sarebbe un colpo mortale». E auspica che, al contrario, il Pd abbia «una sua linea da contrapporre al conservatorismo sindacale».
Scatenatissimi gli ex ppi. Beppe Fioroni è contrario senza se e senza ma. Riferendosi agli assalti alla Cisl parla di «nuova strategia della tensione da non sottovalutare». A suo giudizio, se il Pd prendesse sotto gamba quanto sta avvenendo compirebbe «un grosso sbaglio», perché «non si possono mettere sullo stesso piano le vittime e i carnefici». Dove è chiaro chi per Fioroni, tra Cisl e Fiom, chi sia la vittima e chi il carnefice. Per il responsabile Welfare, che è uno dei leader dei 75, «non basta non andare al corteo come partito, bisogna prima di tutto condannare la violenza». E su questo punto, secondo Fioroni, il Pd non ha ancora fatto abbastanza: bisogna «compiere un altro passo», altrimenti il rischio è quello di comportarsi, «senza volerlo», da «fiancheggiatori».

l’Unità 15.10.10
Italia 2010. Il pensiero smarrito
L’analisi Le scienze sociali impantanate in questo nostro «tempo sospeso» tra l’autoreferenzialità, le identità in crisi e la sopraffazione del nuovo E per la politica la cultura appare sempre di più un ostacolo da abbattere...
di Stefano Rodotà


Da uno sguardo sulla situazione delle scienze sociali in Italia si ricava una sensazione diffusa di distanza e di autoreferenzialità. Distanza, o difficoltà di individuazione, per quel che riguarda il proprio oggetto una società fattasi sempre più instabile, liquida, del rischio, dell’incertezza, secondo le definizioni correnti. Autoreferenzialità, per la fatica di identificare modalità e fini che consentano loro di collocarsi in forme adeguate nell’epoca che viviamo. Sembra quasi di trovarsi in un tempo sospeso, nel quale ovviamente ricorre spesso il termine «crisi», il cui esito sembra ancora più cercato che intravisto. Lo stesso ruolo delle scienze sociali finisce così con l’apparire rimpicciolito, per la mancanza di tracce forti per quanto riguarda il metodo, per il rivelarsi di eccessi di dipendenza da fattori esterni che investono, insieme, il tipo di ricerche e lo status degli studiosi.
Al tempo stesso, però, si manifesta una non trascurabile capacità reattiva di fronte alle dinamiche più significative, si tratti della crisi finanziaria o del mutamento radicale indotto dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Considerando questo panorama, tuttavia, si ha piuttosto l’impressione di una agenda dettata dall’esterno, governata più dall’attualità che da un coerente progetto di analisi della società italiana. Ma il peso dell’attualità finisce col giocare un ruolo positivo, perché individua questioni ineludibili e che sollecitano l’attenzione di discipline diverse. Si delineano così anche campi di ricerca unificanti, che spingono ad un lavoro comune a diverse discipline, anzi sfidano le stesse partizioni disciplinari. Si tratta, ad esempio, di tutte le questioni volte a disegnare il perimetro stesso dell’azione individuale, a individuare il senso che assume il legame sociale, a cogliere le nuove antropologie. La persona e il corpo assumono rilevanza particolare, e da qui si sviluppa una riflessione che porta alla dimensione del soggetto e alle impervie questioni dell’identità, alla cui definizione contribuiscono antropologi e sociologi, psicologi e giuristi. Si giunge così, più che ad una generica interdisciplinarietà delle ricerche, ad una attenzione reciproca.
Le difficoltà si manifestano quando bisogna poi passare dalle molteplicità delle ricerche alla ricostruzione di contesti e categorie più generali. Trascinati recalcitranti in un’altra modernità, molti studiosi sembrano quasi sopraffatti dal nuovo e si fermano al racconto delle novità, senza indagarne il senso più profondo. Diminuiscono così l’elaborazione teorica, la capacità di connessione comparativa interculturale, la propensione alla generalizzazione.
Tutto questo incide sul ruolo sociale degli studiosi, sulla capacità di contribuire alla costruzione del discorso pubblico, sul rapporto con la politica. Quest’ultimo è fortemente segnato dal disinteresse sempre più marcato dei politici, che davvero sta incentivando una «cultura» tutta italiana, fatta di approssimazione mediatica e di avversione al sapere critico che, anzi, appare sempre più spesso come un ostacolo da abbattere, come l’ultima forma di controllo di cui una politica povera e prepotente vuole liberarsi.

l’Unità 15.10.10
Terapia di “soglia”. Tutti giù dal lettino
Nuovi “spazi” psicoanalitici crescono Per offrire a chi ne ha bisogno un orizzonte di speranza
di Marco Rossi-Doria


Oggi e domani si tiene a Roma un convegno dal significativo titolo Quando la psicanalisi scende dal lettino. Il tema è quello del superamento delle forme canoniche della psicoanalisi per dare luogo a una clinica, gratuita o a basso costo, per chi si trova intrappolato nelle molteplici forme dell’esclusione sociale. L’evento fa parte di un più largo e composito scenario di nuova attenzione alle sofferenze ma anche ai desideri delle persone escluse. Se, per esempio, si legge il rapporto della Caritas (http://www.caritasitaliana.it/home_page/pubblicazioni/00002032_In_caduta_libera. html), appena uscito, o quello della Commissione di indagine sull’esclusione sociale (http://www. commissionepoverta-cies.eu/Archivio/rapporto2009.pdf) è evidente l’attenzione per i molti nessi tra la situazione sociale del Paese e le specifiche fragilità e sofferenze individuali. Il rapporto della Commissione, per esempio, ricostruisce alcune ricorrenti traiettorie individuali di impoverimento e il come vengono intaccate le capacità dei singoli di resistere e provare ad uscire dalla loro situazione. Certo, le diverse condizioni di povertà che riguardano quasi un italiano su quattro sono descritte come il portato della lunga crisi in atto, del mancato sviluppo del Mezzogiorno, della disoccupazione di massa, dell’analfabetismo delle famiglie, della mancanza di welfare, del progressivo restringimento delle reti di solidarietà comunitaria tradizionali. Ma vengono, al contempo, messe in relazione con fattori legati alle biografie dei
singoli. Tanto che entrano nel dibattito pubblico sul macro-sistema della povertà oggetti che sono al confine con lo studio della psiche: la trasmissione intergenerazionale del senso di «impossibilità ad uscirne», le diverse forme della cronicizzazione della propria condizione, la nozione di «cumulo di eventi negativi», il peso delle situazioni traumatiche precoci, ecc.
Forse si sta incrinando, in modo promettente, il muro tra chi studia i fenomeni sociali e le politiche pubbliche e chi si occupa del come le persone possono ricostruire la possibilità di scegliere. È un fatto non nuovo in assoluto. Da anni gli operatori sociali quando incontrano la madre sola e senza lavoro o il giovane costretto al lavoro nero o il bimbo quasi abbandonato a se stesso o l’operaio cinquantenne della fabbrica dismessa che è pericolosamente depresso si battono sì per ottenere dispositivi di sostegno materiali, oggi messi a repentaglio da un vero e proprio attacco ai poveri; ma, al contempo, si attivano per dare risposte anche alle sofferenze psicologiche sempre più frequenti: difficoltà relazionali, ansia, angoscia, fobie, stati depressivi, disturbi del comportamento o psico-somatici, dipendenze.
Il favorire l’attivizzazione diretta delle persone nel contrastare la loro condizione di esclusione è da anni ritenuto fattore indispensabile nella lotta alle povertà. Amartya Sen ha mostrato come i sistemi di welfare, per produrre efficacia, necessitano di autentica negoziazione con i soggetti in termini di risposte ai loro problemi e alle loro aspirazioni. E, appunto, la «capacità di aspirare a» è una componente decisiva di ogni riscatto – secondo Arjun Appadurai.
D’altro canto, è in campo psicologico e psicoanalitico che spesso ci si misura con molte delle condizioni che consentono di rimuovere gli impedimenti alle aspirazioni di riscatto. Anche su questo terreno esistono da anni moltissime commistioni tra pensiero psicanalitico e pratiche sociali. E alcune esperienze d’avanguardia già degli anni ottanta, riprese qui e lì, proponevano un accessibile «spazio» di terapia psicoanalitica a chi non poteva permettersi una psicanalisi pur manifestandone il bisogno. Oggi questo tipo di proposte si stanno moltiplicando. Anche da parte delle società psicoanalitiche. E stanno aumentando i cantieri di terapia cosiddetta «di soglia» – come vengono definiti nel libro Quando la psicanalisi scende dal lettino. Che provano a fornire l’occasione di separare il malessere dalle sue manifestazioni più distruttive, di non accentuare solitudine e abbandono, di non cadere per forza nella rottura dei legami, ecc. E di rimettersi in contatto con le proprie parole e forze interne. Per iniziare a darsi, per come possibile, un orizzonte di speranza.

il Fatto 15.10.10
Giudici, l’antidoto ai veleni
di Gian Carlo Caselli


Di un libro come Giustizia la parola ai magistrati (curato da Livio Pepino ed edito da Laterza pagg. 225, euro 16) c’era proprio un gran bisogno per una boccata d’aria fresca contro i miasmi di certe strumentali polemiche. Viviamo infatti una stagione che vede ogni dibattito sui temi della giustizia fortemente condizionato dall’ossessione del premier di scrollarsi di dosso le inchieste e i processi che lo riguardano. Un’esclusiva del nostro paese, ignota a ogni altra democrazia. Com’è sconosciuto a qualunque cielo del mondo un premier che riesce a cancellare il signor Charles de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu (quello diventato famoso per la teorizzazione della necessaria divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario), avanzando la pretesa di sottoporre a una commissione parlamentare d’inchiesta i magistrati istituzionalmente titolari del potere-dovere di accusa, compresi ( se non soprattutto) quelli che tale potere hanno doverosamente esercitato
nei suoi confronti.
QUESTA SITUAZIONE
non rispettosa dell’ordine costituzionale e dell’equilibrio dei vari poteri è indubbiamente favorita dal fatto – rilevato da Pepino nell’introduzione del libro – che “si assiste a un crescente smarrimento di senso delle parole e a un uso marcatamente e impudicamente strumentale delle stesse”. Sicchè “la fonte del potere si sposta dalla conoscenza delle parole alla capacità di manipolarle e al possesso dei mezzi per diffonderle e amplificarle (rendendo vero, con l’ossessiva ripetizione, anche ciò che è macroscopicamente falso)”. Un fatto che è particolarmente evidente quando si tratta di le-
galità e di giustizia, per cui proprio la difficoltà della stagione politica richiede ai magistrati qui ed oggi – di intervenire, esercitando da un lato un diritto personalissimo incontestabile e nel contempo fornendo un contributo professionale utile alla chiarezza e alla realizzazione di una giustizia migliore (contributo, oltre che utile, per certi profili indispensabile, essendo il nostro un paese in cui tutti parlano di giustizia, ma spessissimo – anche in “alto loco” – con toni da bar dello sport).
Per tutti questi motivi, di un libro come La parola ai magistrati c’era proprio – ripeto – un gran bisogno. Ad esso hanno collaborato non solo giudici che con il curatore Livio Pepino hanno in comune l’esperienza di Magistratura democratica, ma anche altri magistrati, spesso assai diversi per idee, sensibilità e cultura. Lo evidenzia l’elenco degli autori, mentre i titoli degli argomenti trattati sono testimonianza di un impegno molto articolato ai cui risultati potrà attingere chiunque voglia discutere di giustizia senza abbeverarsi a luoghi comuni o frasi fatte che – se vanno bene per urlare in qualche comizio – fanno rischiare derive illiberali e disgreganti: perché se la giustizia viene pregiudizialmente e patologicamente sfiduciata anche da pulpiti istituzionali onnipresenti sui media (di solito senza adeguato contraddittorio), alla fine si incrina un elemento che in democrazia, lungi dall’esse-
re un “optional”, è strutturale. Compongono il libro Giustizia La parola ai magistrati i seguenti interventi: Difesa (Paolo Borgna); Errore (Giuseppe Santalucia); Garantismo (Raffaello Magi); Giudici (Matilde Brancaccio); Indipendenza (Rita Sanlorenzo); Giustizia e informazione (Giancarlo De Cataldo); Intercettazioni (Antonio Ingroia); Legittimazione e consenso (Pier Luigi Zanchetta); Libertà personale e custodia cautelare (Andrea Natale); Obbligatorietà dell’azione penale (Armando Spataro); Pena e carcere (Carlo Renoldi); Politicizzazione (Livio Pepino); Prescrizione (Margherita Cassano); Separazione delle carriere (Letizio Magliaro); Tempo (Luigi Marini); Uguaglianza (Carla Ponterio).
NEL COMPLESSO , un’analisi argomentata e approfondita, sempre agganciata a dirette esperienze di lavoro di notevole rilievo nei vari settori volta volta interessati, mai viziata da visioni corporative od “autoreferenziali”, capace anzi di guardare al proprio interno senza intenti meramente “difensivistici” ma razionalmente critici. Una base di conoscenza e riflessione davvero seria. In grado – si spera – di funzionare da antidoto contro le parole malate usate per denigrare i magistrati definendoli cancro da estirpare, disturbati mentali, antropologicamente diversi dal resto della razza umana... O contro le parole false, tipo persecuzione giudiziaria, uso distorto della giustizia per fini golpisti, partito dei giudici, giustizialismo... Parole false perché basate sul nulla (se mai divenisse operativa la minaccia di una commissione d’inchiesta, parlerebbero finalmente gli atti e i documenti contro le bufale propagandistiche), ma buone per frenare i magistrati che ricercano la verità con coraggio e determinazione (requisiti, un altro segno dei tempi, divenuti ormai indispensabili al pari dell’onestà e della preparazione): sia rendendo esilissima la linea di confine fra attacco e intimidazione; sia consolidando sempre più il “teorema” secondo cui giustizia giusta – quando si tratta di imputati che contano – è quella che assolve; mentre quella che osa indagare o addirittura (a volte capita) condannare è giustizia per definizione ingiusta, da bollare con campagne mediatiche feroci.

il Fatto 15.10.10
Karl Marx, un contemporaneo
Due pubblicazioni rivisitano il pensiero del filosofo tedesco Ma davvero
la struttura economica della società in cui viviamo è ancora quella da lui descritta?
di Vladimiro Giacché


Ironie della storia. Mentre in Germania viene festeggiato il 20° anniversario della fine della Germania Democratica Tedesca, si assiste ovunque a un grande risveglio di interesse nei confronti di quello che ne fu (inconsapevolmente) il filosofo ufficiale: Karl Marx. Soltanto in Italia da giugno ad oggi sono uscite due biografie: la traduzione del testo di Francis Wheen (Karl Marx. Una vita, Isbn edizioni, pp. 400) e il volume di Nicolao Merker Karl Marx. Vita e opere (Laterza, pp. 261). Se il primo testo è avvincente, il secondo riesce a fare il miracolo: ossia a darci una panoramica completa della vita di Marx e delle linee di fondo del suo pensiero. Merker inizia ricordando che “il pensiero di Marx sta nei suoi scritti”. Non si tratta di una banalità, ma di una doverosa cautela, visto l’uso a dir poco disinvolto che spesso si è fatto del pensiero di Marx. I testi di Marx vanno letti e collocati nel loro contesto storico. Ma non per farne altrettanti “classici” da tenere sullo scaffale, bensì per capire cosa ci possono dire sull’oggi.
QUESTO utilizzo è possibile in quanto la struttura economica della società in cui viviamo è ancora quella descritta da Marx. Anzi, per certi aspetti il mondo attuale è più vicino ai testi marxiani di quanto lo fosse la realtà dei suoi tempi: basti pensare alla “globalizzazione”, ossia alla creazione di un mercato mondiale. Merker nella sua ricostruzione del pensiero di Marx non ha timore di andare controcorrente. Come quando denuncia “l’infatuazione per i Grundrisse che alcuni decenni addietro regnò nella letteratura su Marx”, insistendo invece sulla centralità del Capitale (tanto del primo libro, pubblicato da Marx nel 1867, quanto dei manoscritti che dopo la sua morte Engels pubblicò come secondo e terzo libro del Capitale nel 1885 e nel 1894). E soprattutto quando afferma l’importanza della “teoria del valore e del plusvalore”, che a suo giudizio “spiega tanto la dinamica del particolare modo di produzione capitalistico quanto gli elementi generali di ogni sistema produttivo”. La forza-lavoro umana, osserva Merker, “fornisce sempre con il suo pluslavoro un valore economico maggiore di quanto essa costa”; è infatti l’unica merce che possiede la caratteristica di creare nuovo valore (cosa di cui non è capace neppure la macchina più sofisticata, che se non viene messa in opera dal lavoro umano non soltanto non crea nuovo valore, ma perde anche quello che possedeva).
LA PECULIARITÀ del sistema capitalistico consiste nel fatto che “i risultati del pluslavoro – cioè il plusprodotto e il corrispettivo plusvalore – non sono proprietà del soggetto che lavora. Questo carattere del capitalismo non viene modificato dal numero dei ‘colletti bianchi’ che sostituiscono le ‘tute blu’. Conserva il connotato che la proprietà e gestione dei mezzi di produzione non è proprietà e gestione sociale”. Proprio da questo Marx fa derivare le crisi: esse sono infatti – ci spiega Merker – “conseguenza dell’antitesi, nell’economia di mercato, tra la produzione moderna a carattere sociale e l’appropriazione privata del profitto”. In questo modo ci viene offerta una chiave di lettura anche della crisi odierna molto diversa da quelle correnti. “A un certo punto il mercato non assorbe più tutte le merci che vengono offerte. Mancano gli acquirenti perché il sistema è caduto in un circolo vizioso: non appena le merci invendute affollano i magazzini, il capitalista riduce la produzione chiudendo fabbriche e licenziando operai, sicché a causa del diminuito potere d’acquisto dei consumatori la montagna dei beni invenduti continua a crescere e la crisi si avvita su se stessa. Alla fine il sistema la risolve soltanto a costo di enormi distruzioni di mezzi di produzione e di prodotti. Fabbriche smantellate, lavoratori disoccupati, beni di consumo al macero e una crescente concentrazione di capitali perché i capitalisti deboli, rovinati, escono dal mercato: sono questi i fenomeni che accompagnano le crisi periodiche”. Le crisi sorgono insomma, come ci ricorda lo stesso Marx, perché nel sistema capitalistico “l’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma ...in base al profitto e al rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato”.
SECONDO questo punto di vista, a differenza di quanto ci è stato ripetuto in questi anni, le crisi non rappresentano un incidente di percorso o una sciagurata eccezione all’interno di un sistema che per sua natura sarebbe in equilibrio, ma sono necessarie per correggere – attraverso la distruzione di forze produttive su larga scala – i profondi squilibri che inevitabilmente caratterizzano l’“anarchia della produzione” capitalistica. Nelle ultime pagine del suo libro Merker si chiede quindi se quel “contrasto tra la produzione sociale-collettiva del plusvalore e l’utilizzazione privatistica di esso” sia ineliminabile nella società umana. E osserva che “quest’istanza teorico-pratica, certamente non scaduta, viene dal Marx del Capitale e attende risposte che funzionino nella prassi socio-politica”. La più grande sfida dei nostri tempi è precisamente questa.

Corriere della Sera 15.10.10
Murdoch-De Benedetti, prove di asse anti-Mediaset
Sky punta all’affitto delle frequenze di Espresso per sei canali sul digitale terrestre
di Federico De Rosa


Dopo l’accordo su Cielo, si rafforza l’intesa tra i due rivali del Cavaliere per lo sbarco in forze sulla nuova piattaforma

MILANO — Un primo accordo c’è già stato. Per portare Cielo, la tv in chiaro di Sky, sul digitale terrestre. I contenuti li ha messi Rupert Murdoch, le frequenze Carlo De Benedetti, firmando un’inedita alleanza che molti hanno letto come una mossa anti-Mediaset. Non tanto per il coinvolgimento dell’Ingegnere quanto per «l’invasione di campo» di Sky in un segmento del mercato televisivo in cui il Biscione sta puntando forte. I colloqui non si sarebbero però fermati lì e secondo diversi osservatori presto potrebbero portare a un nuovo accordo tra i due. Ben più ampio del primo.
Murdoch starebbe puntando a prendere in affitto le frequenze che il gruppo Espresso avrà a disposizione via via che le trasmissioni saranno convertite dall’analogico al digitale. Cinque o sei canali, che verrebbero creati attraverso la digitalizzazione delle frequenze attualmente utilizzate da De Benedetti per diffondere Deejay Tv in analogico. Si parla anche di cifre. Secondo alcune voci Murdoch avrebbe offerto 25 milioni di euro l’anno, con un’opzione per acquistare il multiplex una volta che cadranno i vincoli per Sky alla trasmissione in digitale della pay per view. Una fonte vicina al Gruppo Espresso conferma che «ci sono colloqui in corso, ma con tutti quelli che sono interessati ad andare sul digitale». Quindi non solo con Sky. Che da parte sua «smentisce accordi per l’acquisto di multiplex nel digitale terrestre».
Posizioni ufficiali, a cui fanno da contorno però molte voci che parlano di una possibile alleanza più stretta tra lo Squalo australiano e l’Ingegnere, in grado di creare non solo grandi suggestioni ma anche uno scenario inedito per il mercato televisivo. Rendendo più difficile la vita a Mediaset, che in attesa dell’assegnazione delle nuove frequenze sta accumulando terreno sulla nuova piattaforma. Sky al momento ha le mani legate: l’Antitrust le ha vietato di sbarcare nel digitale a pagamento prima del 2012. Ma affitta ndo un c a nal e dal g r uppo Espresso è riuscita ad aggirare l’ostacolo e ottenere il via libera per trasmettere Cielo, in chiaro però, ossia gratis. Ora gli uomini di Murdoch stanno parlando con Dalhia, la tv digitale della famiglia Wallemberg. Insomma il patron di NewsCorp ci crede. E in De Benedetti potrebbe aver trovato l’alleato perfetto per rispondere all’avanzata del Biscione, aspettando la gara per le nuove frequenze prevista per il 2011.
Le malelingue diranno che la comune antipatia per Silvio Berlusconi ha spianato la strada. Ma la verità è che a Murdoch più della politica interessa il business. Anche all’Ingegnere, ma nell’ordine inverso. E poiché per crescere nella nuova tv l’Espresso ha bisogno di investire i due potrebbero aver trovato un buon compromesso. Per mettere in difficoltà il nemico e tentare quello che nessuno è riuscito a fare sull’analogico, ossia il terzo polo.
I tempi di un possibile accordo tuttavia non sarebbero brevi. Intanto De Benedetti non ha ancora a disposizione l’intero multiplex da affittare a Sky. E’ vero che Rete A, controllata dall’Espresso, ne ha due, ma il primo è saturo e l’altro nascerà con lo switch-off che sarà completato entro il 2012. De Benedetti non è mai sembrato particolarmente interessato a fare concorrenza diretta ai broadcaster, ma a valorizzare le sue frequenze sì. E Murdoch potrebbe fare quegli investimenti necessari a migliorare la qualità di banda e ad ampliare la copertura. Soprattutto se l’intenzione, come dicono le voci, è quella di comprare le frequenze. Una possibilità che tuttavia De Benedetti al momento non avrebbe preso in considerazione. Dal gruppo che fa capo all’Ingegnere spiegano infatti che la via maestra è quella dell’affitto, ma che a un’offerta d’acquisto certo non direbbero di no senza averla esaminata. Se così fosse Murdoch e De Benedetti metterebbero solide basi per fare concorrenza a Mediaset, aggiungendo alle frequenze già a disposizione quelle nuove che potrebbero essere assegnate a Sky. La quale potrebbe così replicare, su scala ridotta, ma non di molto, il modello satellitare con bouquet tematici e canali specializzati. Che entrerebbero nelle case di tutti e non più solo in quelle dotate di parabola.


l’Unità 15.10.10
L’università scende in piazza «Avete commissariato il sapere»
Domani con la Fiom. Gli studenti saranno con i metalmeccanici della Cgil a Roma
Da Roma a Bari, da Pavia a Firenze la protesta di studenti, ricercatori e dottorandi. Sott’attacco la coppia Gelmini e Tremonti. Pier Luigi Bersani: «La riforma dell’istruzione umilia gli atenei»


Di un contentino nel milleproroghe non si accontentano. Vogliono che il ministro dell’Istruzione, con tutto il governo, vada a casa, perché «questa riforma Gelminator non l’ha scritta da sola». Hanno facce giovani, magliette con su disegnati mattoni, caschi gialli da cantiere in testa, catene di carta stagnola al collo: simboli del muro dell’ignoranza da abbattere, dell’università-cantiere di sapere, dell’università distrutta dai tagli. Del ministro Tremonti non si fidano neppure quando dice, mentre anche Lega e pezzi del Pdl premono, che «per l’università ci sarà il massimo dei fondi possibili nel decreto di fine anno». Contestano il metodo: «non vogliamo gli avanzi, l’istruzione pubblica deve essere priorità». «Soldi all’università non alle bombe» è uno dei leit motiv di una lunga giornata di contestazione universitaria, con tanto di blocchi del traffico a Roma centro per un corteo non autorizzato e lanci d’uova contro la sede della conferenza dei rettori (Crui) da parte di un manipolo di collettivi. Ieri tremila studenti, ricercatori e dottorandi sono giunti da tutta Italia in piazza Montecitorio a Roma, aderendo al sit-in indetto da Udu e Flc Cgil a cui hanno partecipato anche i Giovani Democratici, per protestare contro la riforma dell’università e chiedere le dimissioni della Gelmini. Non fa niente se il ddl, che ieri doveva andare in Aula, arriverà solo dopo la Finanziaria: lo stop di Tremonti al ddl per assenza di copertura galvanizza la piazza: «È un chiaro segno dell’incapacità di questo governo», dicono gli universitari. «La Gelmini è commissariata da Tremonti, ora va aperto un confronto sui mali dell’università e un percorso fatto di assemblee per scrivere una riforma tutta diversa. Una riforma che prima di tutto tenga fuori i privati dall’università pubblica», dice Giorgio Paterna, coordinatore nazionale dell’Udu. È tra i primi ad arrivare in piazza insieme ai colleghi di Torino, «Sai che in Piemonte l’Edisu rischia di diventare un ente inutile tra un anno?». È l’ente regionale per il diritto allo studio del Piemonte, punta d’eccellenza nel settore, noto per erogare copertura totale delle tasse universitarie agli studenti con Isee fino a 18mila euro; inoltre finanzia case per studenti e mense universitarie che rischiano di chiudere per via di un taglio che riduce i fondi da 22 milioni a 7: la presidente si è già dimessa. Il Politecnico a Torino è occupato come Ingegneria a La Sapienza, la rabbia è tanta nelle facoltà scientifiche. E poi ci sono gli studenti di Pavia e Urbino «disposti a fare sacrifici, ma il governo deve garantire fondi a ciò che è importante sia pubblico: la sanità e l’istruzione»; ci sono i sardi arrivati in aereo e gli aspiranti architetti de La Sapienza, i più fantasiosi. Nel pomeriggio mettono all’asta una ricercatrice: si va a ribasso, dai 500 euro del bando iniziale viene aggiudicata per «un rimborso spese». Speranze nel futuro poche e non si può neppure andare all’estero: a Daniele tre università londinesi hanno bocciato la richiesta di master. La motivazione? La laurea triennale che avrà in mano non gli darà adeguati strumenti tecnici, non attesta la capacità di uso dei programmi di progettazione, a Londra è carta straccia.
A fine giornata si rilanciano assemblee in tutto il paese e i due cortei studenteschi di domani a Roma, dove i ragazzi saranno accanto agli operai della Fiom. Arriveranno da tutta Italia, si dice, e anche ieri la mobilitazione è stata nazionale. A Bari i ricercatori hanno bruciato in piazza i loro curriculum, a Pavia corteo per le vie del centro, a Firenze lezioni di medicina davanti all’ospedale Careggi, a Pisa occupato il Rettorato. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che ieri ha incontrato una delegazione di universitari e ricercatori, non ha dubbi: «La riforma degli atenei viene vissuta come fumo negli occhi dalle forze vive dell’università. Volerla approvare è fuori dal mondo». Poi rilancia la proposta affidata alle colonne del Corriere della Sera e propone al governo la vendita delle frequenze digitali libere per finanziare gli atenei.