sabato 24 ottobre 2009

l’Unità 24.10.09
Il congresso nazionale l’intervento di monsignor Crociata sottolinea il «diritto-dovere»
L’invito della Cei per analogia con quanto è già previsto per il servizio di leva e per i medici
Pillola abortiva, i vescovi chiedono obiezione di coscienza per i farmacisti
Obiezione di coscienza per i farmacisti chiamati a vendere la pillola del giorno dopo o la Ru 468. La chiede la Cei con il segretario monsignor Crociata. Secca reazione degli organismi di categoria. Critiche dalla sinistra.
di Roberto Monteforte

Diritto alla libertà di obiezione di coscienza anche per i farmacisti chiamati a vendere prodotti che possono interrompere la vita, causare aborti come le pillola del giornodopoolaRu486.Anomedei vescovi italiani lo chiede il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata che ieri, intervenendo al congresso nazionale dei farmacisti cattolici dedicato proprio al riconoscimento per questa categoria del «diritto-dovere» all’obiezione di coscienza. Dalla Conferenza episcopale è giunto qualcosa di più di un semplice incoraggiamento a questa battaglia. Un convinto invito ad andare sino in fondo nella loro richiesta di avere una legge che lo consenta e un messaggio chiaro rivolto al mondo politico: consentitelo.
LA CHIESA INVOCA L’«ANALOGIA»
Parte dal fatto che l’aborto è considerato «un delitto» e che l’obiezione di coscienza è consentita in due soli casi, «legati al principio di non uccidere»: per chi è chiamato al servizio di leva obbligatorio e, con la legge 194 che ha introdotto l'interruzione di gravidanza, per il medico e per il personale sanitario coinvolto, ma non per il farmacista. Ora con la «pillola del giorno dopo», accanto all'aborto chirurgico è stato introdotto anche un prodotto farmacologico (nell'eventualità che l'embrione si sia formato, ndr) che lo consente e quindi «per analogia deve spettare anche ai farmacisti lo stesso diritto all'obiezione». «L'obiezione di coscienza è un diritto che deve essere riconosciuto anche ai farmacisti, permettendo loro di non collaborare direttamente o indirettamente alla fornitura di prodotti che hanno per scopo scelte chiaramente immorali come l'aborto e l'eutanasia», ha scandito monsignor Crociata. «In Italia ha spiegato il problema è avvertito soprattutto riguardo alla vendita della cosiddetta pillola del giorno dopo». Ma deve riguardare anche i farmacisti ospedalieri che potrebbero somministrare la Ru 486. Argomenta il segretario della Cei. Cita prese di posizione del Comitato nazionale di bioetica, ma non convince l'Ordine dei Farmacisti e di Federfarma. «Massimo rispetto per le preoccupazioni morali della Cei», gli risponde il presidente dell' Ordine Andrea Mandelli ma «credo che questo sia un tema delicato e che debba essere regolamentato da una legge che chiarisca nei dettagli gli ambiti di applicazione all' interno dei quali deve operare un responsabile donne del partito. Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista-sinistra europea denuncia «l'intollerabile ingerenza della Chiesa». Opposte le reazioni dell’Udc che con il presidente, Rocco Buttiglione ha pienamente accolto la richiesta di un diritto all'obiezione di coscienza dei farmacisti, mentre l'on. Luca Volontè, ha accusato il Pd di «intolleranza verso i diritti più intimi e sacri di libertà».❖
LA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
www.chiesacattolica.it

l’Unità 24.10.09
Il nazi-pallone
Croci uncinate e teste rasate, boom in curva
Dilagano negli stadi i «tifosi» dell’estrema destra a macchia di leopardo dalla capitale al nord-est Il caso degli Ultras Italia al seguito della Nazionale
di Simone Di Stefano

Trucchi. Le scritte fasciste a pennarello per evitare i sequestri ai tornelli
Simboli. Gli skinhead ascoltano musica Oi, un derivato dal punk rock
Tendenza. Cani sciolti che cantano canzoni del Ventennio e sniffano cocaina
Controllo I capi ultras sono padroni della curva tra soprusi e intimidazioni

Ultras e Skinheads, «nazismo da stadio» lo chiamano alcuni. Un mix che nelle curve italiane è più che mai attuale. Partiamo dalla curva nord dell'Olimpico di Roma, in occasione di Lazio-Parma del 23 settembre scorso, per denunciare un fenomeno che tuttavia riguarda tutta la penisola e affonda le sue radici in passati ormai remoti. Saluti romani, teste rasate, sciarpe con croci celtiche, in molti si confondono e li si riconosce solo quando sfoderano cori e insulti razzisti. Bevono, fumano spinelli, stanno «fatti» di cocaina, la spacciano a volte, si definiscono «cani sciolti» e i loro cori ricalcano le stesse note delle canzoni del Ventennio, in una parola: odiano. Per lo più sono ragazzi giovani, che si avvicinano all'estrema destra fin dai primi anni di scuola superiore, più perché fa tendenza, perché digrignando i molari ci si fa rispettare. All'Olimpico di Roma gli Irriducibili Lazio comandano le sorti della curva nord e ne gestiscono l'economia. Fin dai rapporti con la società, che soltanto nella recente gestione Lotito ha deciso di utilizzare il pugno duro. Così il patron viene fischiato e insultato, ma non soltanto perché la squadra va male. La nuova sfida ora, per tutti, è la tessera del tifoso. Dall'altra sponda del Tevere è con i Boys e Opposta Fazione, entrambi gruppi romanisti ora confluiti negli Ultras Romani, che affonda le radici il tifo fascista. Cambia il nome del gruppo ma le facce sono quelle, salvo qualche perdita per diffide o arresti. Il loro motto è «Libertà per i detenuti». In passato diversi esponenti di Opposta Fazione, alcuni provenienti dal Fuan, furono indagati per appartenenza ai Nar.
Passata è la tendenza a minacciare giornalisti o imporre presenze nelle trasmissioni radiotelevisive locali, ma riguardo a soprusi e a sentirsi padroni della curva, quella resta. Come in Roma-Fiorentina dello scorso 20 settembre, quando per mettere in atto un esemplare sciopero del tifo i capi ultras hanno imposto all'intero settore della curva sud di restare fuori dello stadio per la prima mezz'ora. Chi non voleva non poteva, quelli che hanno chiesto di entrare in tribuna sono stati insultati e presi a spinte. Sciopero che hanno messo in atto anche gli Irr Lazio durante il primo tempo di Lazio-Parma. Per tutta la prima frazione di gara nessuno poteva cantare, altrimenti veniva insultato o minacciato.
Si sentivano soltanto gli “buu” contro il keniota del Parma, Mariga. Le scritte fasciste sulle bandiere, per lo più sigle, sono a pennarello per evitare i sequestri ai tornelli, mentre le svastiche e le croci celtiche vengono camuffate in perversi intrecci di uncini. Nella curva nord laziale per esempio non è raro individuare bandiere con aquile del Terzo Reich piuttosto che il classico aquilotto biancoceleste. Tante anche le giovani ragazze lungo i muretti delle curve. In passato non sono mancati neanche casi di sfruttamento e prostituzione minorile. In Italia, secondo alcune stime, sarebbero oltre sessanta le sigle ultras legate ad ambienti della destra estrema.
E le aree maggiormente interessate sono Lombardia, Lazio e Veneto. Spesso dietro le facce dei capi ultrà si celano personaggi di spicco degli ambienti politici locali e nazionali. E la domenica tutti nell'arena dell'odio, ad incitare Mussolini, inveire contro «negri» ed «ebrei». Gli slavi automaticamente diventano tutti «zingari». Nella Verona del leghista Tosi dietro all'estremismo dei gruppi ultras di destra c'è lo zampino del Veneto Fronte Skinhead, mentre nella curva sud juventina sia il gruppo dei Fighters, nato dalle ceneri del gruppo di estrema destra dei Drughi, che quello dei Viking, entrano allo stadio con le celtiche. A Bologna, la frustrazione dopo l'accoltellamento di un ragazzo magrebino da parte di Mods bolognesi e Boys romani, nel 1997, fece sbottare l'allora tecnico del Bologna, Ulivieri, chiedendo la chiusura della curva. A Milano, se storicamente la curva rossonera era di sinistra, dopo lo scioglimento della Fossa dei Leoni hanno prevalso gruppi di destra radicale come i Commandos Tigre e le più temute Brigate rossonere, mentre la curva nord del Meazza, quella dell'Inter, è appannaggio degli Irriducibili Inter, forse il gruppo più cruento e anche il meglio organizzato in Italia.
Una loro frangia, gli Skins, sin dal nome che li rappresenta non fa mistero della sua ideologia e lo si desume dal loro simbolo, il cane Muttley che sovrasta una croce celtica. Gli skinheads curvaioli amano l'alcool e ascoltano musica Oi, un derivato del punk rock. Il loro film preferito è Febbre a 90 ̊ di David Evans. «Irriducibili Inter...Quelli che il calcio te lo danno in bocca», uno dei motti del gruppo; «Cuore nero sangue», invece, esplica l'una e l'altra tendenza. Gli Irriducibili Inter nascono nel 1988 e a seguito di vari spostamenti e rimescolamenti con altri gruppi della curva (Viking, Snakes e Shining), si fondono nel 1997 con Zona Nera, diventando il gruppo più influente della curva Nord milanese. Nemici in campionato ma alleati in Nazionale, l'ultimo fenomeno di tifo nero organizzato è targato “Ultras Italia”. Il gruppo organizzato che affonda le sue radici nei Viking Italia, embrione del nucleo di tifo nero nato dall'incontro di più frange: Verona, Trieste, Udine, Treviso, Brescia, alle quali hanno fatto seguito gli Irriducibili Lazio, alcune costole del tifo nero romanista e altri dal sud Italia.
Seguono la Nazionale all'estero vestendo maglie nere col fascio Littorio e dispongono di una mappatura di tifoserie amiche e nemiche. Nell'ottobre 2008, in occasione di Bulgaria-Italia, si sono distinti per cori fascisti, celtiche, fischi all'inno bulgaro e vari episodi di rissa con i tifosi di Sofia. Per l'occasione si scomodò anche l'ambasciata italiana e per poco non si sfiorò il caso diplomatico.❖

Repubblica 24.10.09
I disperati di France Telecom
di Francesco Merlo

Fanny si imbottiva di farmaci. Joël si sentiva perseguitato Jean Paul si è buttato dal ponte dell´autostrada E ancora, Alain il bretone, Guy il poeta, Lyonel che si è accoltellato davanti ai colleghi. Venticinque suicidi in pochi mesi: ecco come si muore di crisi
Le ultime lettere scritte ai parenti "In quell´azienda non servo a niente Meglio farla finita"

Fanny era ingrassata di 25 chili forse perché ingoiava antidepressivi da quando le era morta la mamma, ma da qualche mese era proprio disperata perché aspettava il terzo trasferimento: «A France Telecom non sapevano più dove metterla». Aveva scritto al padre: «Preferisco morire che ricominciare ancora con un altro capo. « Ed era uscita di casa portandosi dietro la carta di donatrice d´organi, «non si sa mai».
Il palazzotto di rue Médéric non è di quelli in vetro e acciaio, ma in mattoni marrone e la zona è elegante. Senza permesso mi fanno sbirciare nell´ufficio: non hanno toccato nulla, dagli scuri pudicamente abbassati penetra la luce umida e stanca dell´autunno di Parigi, ed è come entrare in un museo delle cere, hanno perso vita il tavolo, il computer, le carte e le penne biro: «Si sedeva lì, con le gambe incrociate e guardava fuori come si guarda verso il mare aperto». A cento metri c´è il parco Monseau, nella vicina rue Daru c´è la bellissima cattedrale ortodossa Alexandre Nevski, e dalla finestra di Fanny si vede la scuola alberghiera. Gli allievi cuochi con il lungo cappello bianco da cucina hanno sentito il tonfo e si sono voltati: «Aveva freddo, ha chiesto una coperta e se l´è tirata sopra il viso». Sino alla fine voleva nascondersi. E´ morta in ospedale. Lascia il gatto Frimousse ed il coniglio Zebulon.
In Francia si parla molto di suicidio ma pochissimo dei suicidi, delle loro storie di disperazione e di coraggio: le iniziali, un´età, la funzione, lo stress aziendale. Neppure all´Observatoire du stress et des mobilités forcées è stato facile censire questi 25 morti di France Telecom e i 15 tentati suicidi. Il tentativo più brutale e spettacolare è sicuramente quello di Lyonel Dervin che, in riunione, quando è arrivato il suo turno si è alzato in piedi e si è messo a parlare dei disagi e del malessere dei dipendenti. E mentre parlava, lucidamente e senza tremori, ha tirato fuori il coltello e se l´è infilato nel ventre. Lo hanno salvato e si è fatto intervistare accanto alla moglie, nel salotto di casa con le pareti rosse, in tuta e pantofole, e somigliava maledettamente a se stesso, voglio dire all´immagine che ci si fa di uno che ha tentato il suicidio: alto, stropicciato, il volto grigio e lo sguardo stupefatto di fanciullo innocente dietro gli occhiali. Ma si sa: suicidio e tentato suicidio sono malattie diverse. Di sicuro in Francia chi sopravvive finisce in televisione e ha diritto al nome e al cognome sui giornali. Dicono invece che il silenzio è la maniera migliore di rispettare i morti. E tengono sotto sorveglianza il fenomeno sociale come si tiene sotto sorveglianza il pentolino di latte che scalda al fuoco.
Mai suicidi non hanno scrittori e dunque non ci saranno poeti per l´antillano Joël che a 44 non sognava più di diventare ballerino anche se raccontava di essersi esibito con un gruppo trasgressivo al "Coconut club" e nessuno gli credeva. Era sempre in collera perché a France Telecom si sentiva perseguitato diceva dai razzisti ma tutti sapevano che stava male da 15 anni e infatti le parole gli morivano in gola mentre i suoi occhi sembravano sempre chiedere aiuto. Viveva al sesto piano, nella banlieue, un divano letto di stoffa, pavimento di lineolum... Ha mandato per mail il suo "testamento": parole di odio per France Telecom. Si è gettato giù ed è morto sul colpo.
Come i morti dell´influenza A, i suicidi di France Telecom non hanno diritto al "coccodrillo" né alla colonna di amabile prosa funeraria che i quotidiani consacrano agli scomparsi, ma solo agli istogrammi e alle astrazioni nei libri dei sociologi: "Lavorare per morire", "Orange Stressata", "Suicidio e lavoro: che fare?". E ancora: "Sanità mentale e lavoro", "La nuova fabbrica", "La depressione degli oppressi". Deve essere vero che la libreria è il luogo dove la realtà è come vorresti che fosse, ordinata, linda, riflessiva, elegante e dunque rispettosa. Ma nessuna risposta trova in libreria una domanda cieca come questa: «Perché Jean Paul prima di uccidersi aveva comprato un biglietto del cinema?».
Jean Paul ha fermato la sua vettura sull´autostrada A41 e si è gettato da un ponte. Aveva 51 anni, una moglie e due figli. Sulla vettura hanno trovato una letteranella quale accusa France Telecom: «Mi hanno ucciso loro, rendendomi la vita impossibile». Al funerale la famiglia non ha voluto i dirigenti della società né i giornalisti. La vedova ha solo detto che Jean Paul era depresso perché lo avevano trasferito, degradandolo da tecnico a centralinista. I suoi amici raccontano che Jean Paul a 51 anni pensava di essere rimbambito. RicordaGilbert: «Diceva che quando uno rimbambisce mica se ne accorge. E io gli rispondevo: ma quando se ne accorge vuol dire che non rimbambisce». E´ il suicida numero 24. In tasca aveva quel biglietto di cinema. «Signore, io sono Jean Paul, quello che voleva vedere il film di Tarantino».
Forse Jean Paul potrebbe mettersi alla testa di questi suicidi per attraversare tutti insieme, come immaginava Fabrizio De Andrè, «l´ultimo vecchio ponte» verso il Paradiso. De Andrè tentava di celebrare, contro la grettezza del tempo (era il 1968) la dignità dei «morti per oltraggio/che al cielo ed alla terra mostrarono il coraggio». Compose dunque la dolente poesia del suicidio, che magari può diventare anche una forma estrema di lotta di classe, come ora lasciano intendere i sociologi non solo francesi, ma è soprattutto sfida all´ordine delle cose, atto contro la metafisica, dichiarazione di guerra a Dio e alla natura, riscatto dell´individuo concreto rispetto all´assoluto.
Sicuramente su quell´ultimo vecchio ponte transita Nicholas che a soli 28 anni si è impiccato nel suo garage a Besançon dopo aver cercato di telefonare alla sua ragazza. Con lei si sentiva infelice ma era molto in collera con France Telecom anche perché il capo e i colleghi «non rispondono mai quando si ha bisogno di loro». Secondo la procura, leggendo la lettera che Nicholas ha scritto prima di morire «è impossibile stabilire un legame formale di causalità tra i suoi problemi professionali e il suo gesto fatale». Di sicuro aveva smesso di ridere di sé e di frequentare il cliccatissimo sito di autoderisione che diverte i ragazzi che si sentono infelici come si sentiva lui, e capita spesso che i ragazzi si sentano infelici. Si chiama viedemerde.fr (vitadimerda.fr), tre milioni di visitatori al mese, uno dei più grossi affari della pubblicità sul web in un paese dove ogni anno i suicidi sono più di diecimila (24 su ogni centomila abitanti di sesso maschile, contro gli 8 dell´Italia). Anche Nicholas, come tutti, lasciava il suo aneddoto di (mala) vita su questo sito come ormai si dice di losers, di perdenti (in Inghilterra il sito corrispondente si chiama fuckmylife.co.uk). Gli aneddoti di Nicholas erano di questo genere: «Oggi incontro un amico per strada. Non mi vede e allora gli telefono. Lui tira fuori il portatile, guarda chi chiama, sospira e non risponde». O ancora: «Oggi è il mio anniversario e i miei colleghi di France Telecom mi hanno offerto un deodorante». Ecco: «Signore, io sono Nicholas, quello che per vivere si autoderideva».
Di Alain invece gli allievi scout ora dicono che «forse un giorno sarebbe diventato antico ma mai vecchio»: dipingeva i paesaggi della sua Bretagna, aveva 48 anni, tre figli, era un ingegnere di Lannion, magnifico borgo medievale attraversato da un fiume e dominato dalle rovine di un castello. Alain aveva il sorriso fiero e allegro dei bretoni, amava le barche e le maree, ma da quando avevano sospeso la sua promozione a Rennes «era completamente a terra». Si era ammalato, da luglio non andava più al lavoro. Si è impiccato di mattina quando non c´era nessuno in casa, ha dato un gran calcio allo sgabello... Gli scout gli hanno dedicato pensieri, lacrime, poesie: per loro era "il pittore", «innamorato delle nostre coste, della pietra e della sabbia... a te dobbiamo la nostra creatività, ci hai insegnato la fantasia... Ma chi eri tu alla fine? Nostro padre? Nostro amico? Nostro fratello? Eri un artista a tempo pieno...».
Un artista come Guy che ha scritto e mandato ai colleghi, ai superiori e ai clienti, una poesia mail sulla morte che voleva darsi: «Fine di me». Riposa sulla collina di France Telecom il tecnico che, mandato al centro di ascolto, si era messo a fare l´apprendista idraulico perché voleva cambiare mestiere. E sull´ultimo ponte c´è ovviamente Jean-Michel, 53 anni, che usava troppo il telefono, anche mentre mangiava, e dunque lo ha fatto anche mentre moriva. Dopo avere chiamato mezzo mondo si è messo a parlare con la collega Anne-Marie, le diceva che si sarebbe ucciso e lei cercava di tirarlo su. Finché Anne-Marie ha sentito il fischio del treno sotto il quale Jean-Michel si buttava.
Il fratello e la sorella di Fanny, la ragazza che sta in cima a questa nostra Telecom river, ma soprattutto il padre, Guy, 63 anni, non perdona France Telecom: «Ci sono epiloghi che sono scritti nel prologo». E´ un po´ troppo dire che «è stata uccisa dalla Francia, è morta per la Francia» come hanno scritto i suoi colleghi in un cartello, ma nessuno può ridurla a due iniziali e al segmento di un diagramma. Ci sono lacrime che devono essere versate: "E se non piangi ora, di che pianger suoli?". In rue Médéric hanno pianto in tanti e in tanti hanno gridato quando Fanny ha toccato terra, anche gli impiegati dell´agenzia di viaggi, quelli della chiesa svedese, i giapponesi del ristorante "Sol Levante": piccoli gridi soffocati, gridi nervosi, gridi che sono diventati singhiozzi. Forse una vera Telecom River dovrebbe cominciare con l´elogio del pianto e della sofferenza gridata, sino al velo nero e alla madri meridionali che urlano. L´amore ha le sue leggi biologiche: si può piangere in privato o in pubblico, al balcone o con la testa sotto il cuscino, ma ci sono momenti in cui "bisogna" piangere. Il pianto e il grido di dolore sono civiltà e dignità, anche nel paese dell´anonima suicidi.

Corriere della Sera 24.10.09
Ritratto del Paese Lo storico inglese giudica i mali della politica e le ragioni della cronica debolezza della nostra democrazia
La maledizione dei guelfi e ghibellini
Insicurezza e astratto idealismo: alle radici dell’eterno estremismo italiano
di Christopher Duggan

Nel XIX secolo
Decenni di aspri conflitti hanno fatto sì che i patrioti risorgimentali apprezzassero l’unità e temessero la diversità Anni Novanta Il vuoto ideologico seguito alla perdita di credibilità del Pci è stato occupato dall’estrema destra e dalle forze della Chiesa

Se da Parliament Square, nel centro di Londra, si va verso l’abbazia e il palaz­zo di Westminster, e si prosegue poi passando davanti alle statue di ex pri­mi ministri come Robert Peel, Benjamin Disra­eli, Lord Palmerston, David Lloyd George e Winston Churchill, arrivando a Whitehall, a Downing Street, al Cenotafio e alla Banque­ting Hall — da cui in una fredda mattina di gennaio del 1649 uscì re Carlo I per essere giu­stiziato — a ogni passo si è portati a ricordare quanto l’autorità dello Stato britannico e dei suoi rappresentanti si fondi sulla sua storia. Gordon Brown e gli altri 645 membri del Parla­mento debbono il loro potere alla storia alme­no quanto agli elettori.

Viene però da fare anche un’altra considera­zione. Se i re come Carlo I sostenevano di esse­re legittimati per diritto divino, le democrazie liberali, nell’era della sovranità popolare, capi­rono che per ottenere il consenso dell’elettora­to la sacralità doveva essere sostituita da qual­cos’altro: da una visibile dimostrazione che si sta perseguendo il bene pubblico. Nel Diciotte­simo secolo la politica britannica era notoria­mente corrotta; nel Diciannovesimo secolo fu­rono introdotti dei rigidi codici di imparzialità e probità e i personaggi pubblici che non vi si adeguavano erano costretti a dimettersi. Se quei codici non erano costantemente applica­ti — e soprattutto se si aveva l’impressione che non lo fossero — l’autorità dello Stato si affievoliva.

Dato che la storia non è stata particolarmen­te benevola nei confronti dell’Italia moderna — che ha vissuto due drammatiche fratture negli anni 1922-25 e 1943-46 — sembrerebbe fondamentale che la Repubblica dovesse salva­guardare l’autorità dello Stato esercitando una costante vigilanza sulla reputazione delle isti­tuzioni. Ma questo non è avvenuto. Nella mag­gior parte delle democrazie sarebbe stato im­possibile per Berlusconi diventare primo mini­stro, per il suo conflitto di interessi; e l’opinio­ne pubblica avrebbe da tempo costretto a di­mettersi una persona indagata per tante pre­sunzioni di reato. Come si è giunti a questa si­tuazione, apparentemente anomala? E perché il clima politico è oggi così pericolosamente lacerato e avvelenato?

Per rispondere a queste domande gli storici possono provare a partire dalla problematica condizione del liberalismo in Italia. Il liberali­smo si fonda sul rispetto delle opinioni altrui e sulla convinzione che gli interessi della socie­tà nel suo insieme sono garantiti al meglio se si dà spazio a una pluralità di voci. La storia italiana del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo non è stata però caratterizzata dalla tol­leranza, dalla varietà e dall’empirismo, ma da una ricorrente tendenza all’estremismo, scatu­rita da un misto di insicurezza e di astratto ide­alismo. Anche la paura del passato ha giocato un ruolo: secoli di aspri conflitti tra città-stato e tra fazioni come i Guelfi e i Ghibellini hanno fatto sì che i patrioti italiani del Diciannovesi­mo secolo apprezzassero «l’unità» e temesse­ro la «diversità».

Mazzini era in fondo un intransigente: la formula «Dio e il popolo» era profondamente illiberale. Molti democratici condividevano il suo estremismo ideologico, anche perché cre­devano che il modo migliore di mobilitare le masse cattoliche fosse quello di offrire loro l’alternativa di una «religione della nazione». Alcune figure del Risorgimento sperarono che dopo il 1860 la libertà potesse creare un clima di pluralismo e di moderazione, ma presto si resero conto che questa era un’illusione peri­colosa, a fronte dell’inflessibile sfida del catto­licesimo e del repubblicanesimo.

Nel Ventesimo secolo il clima di polarizza­zione si accentuò. Mentre in Gran Bretagna, Francia e Germania tra il 1900 e il 1920 il socia­lismo perse molta della sua forza rivoluziona­ria, in Italia l’intransigenza dell’estrema sini­stra si intensificò. Venne poi il fascismo. Se si leggono i diari di persone comuni degli anni Venti e Trenta si è sorpresi dalla quasi totale assenza di riferimenti al liberalismo o di no­stalgia per quel periodo — perfino dopo che l’inconsistenza del fascismo, nel 1940-42, era divenuta brutalmente evidente. Leggendo il diario di Piero Calamandrei si è ugualmente colpiti da un uomo consapevole di essere una voce che grida nel deserto.

Quanto sono cambiate le cose dopo il 1945? La Costituzione del 1948 era un inno al liberali­smo e alla democrazia, ma la misura in cui ne­gli anni seguenti ne sono stati violati sia lo spi­rito che la lettera fa pensare che si trattasse in buona parte di una dichiarazione di intenti, se non di un’aspirazione alla riconciliazione o a mitigare la riprovazione internazionale. In re­altà nei successivi quarant’anni la cultura poli­tica italiana è di nuovo stata dominata dal­l’estremismo. A partire dagli anni Cinquanta il Pci e la Dc sembrarono prendere le distanze da Mosca e dal Vaticano, ma questo non dimi­nuì il clima di incomprensione, odio e timore reciproci — sentimenti che potevano essere ci­nicamente manipolati da persone prive di scrupoli.

La caduta del Muro di Berlino sembrò apri­re la strada a una cultura politica nuova e per qualche tempo, all’inizio degli anni Novanta, parve che nella psiche della nazione si verifi­casse un cambiamento epocale. Ma le culture politiche non si rinnovano facilmente. La per­dita di credibilità del Pci diede la possibilità agli eredi dell’estrema destra e alle forze della Chiesa — la cui relazione con il liberalismo era inevitabilmente sempre stata molto proble­matica — di occupare il vuoto ideologico. Le vecchie ideologie politiche sembravano scom­parse, ma la lingua dell’intolleranza, del trion­falismo e del vittimismo continuava a risonare in orecchie storicamente più sensibili alle pre­se di posizione che al dibattito.

Paradossalmente l’estremismo ideologico porta in sé la tendenza a creare decadimento morale. Dopo il 1860 le deboli forze del liberali­smo cedettero rapidamente, per mantenere il potere, alla tentazione di chiudere un occhio sull’illegalità — sulla violenza di Stato, sui bro­gli elettorali, sulle alleanze con mafiosi e ca­morristi. La brutalità e, in seguito, la diffusa corruzione dello Stato fascista si erano assicu­rate un largo consenso usando il linguaggio della «fede» rivoluzionaria. E quanti scandali della Prima Repubblica sono stati giustificati dall’elettorato e dalle élite politiche appellan­dosi all’idea di una guerra di religione contro le forze del male?

Tra le vittime di questa situazione ci sono le istituzioni pubbliche — istituzioni la cui repu­tazione di imparzialità, nel Diciannovesimo se­colo, era considerata da Stati liberali come la Gran Bretagna vitale per la propria credibilità in un’epoca in cui vigeva la sovranità popola­re. Se le istituzioni diventano (o vengono accu­sate di essere diventate) strumenti di parte per la promozione di una causa ideologica, che credibilità possono avere agli occhi dell’insie­me degli elettori? In queste circostanze, deve forse sorprendere che la gente cominci a rivol­gersi, con buona dose di disperazione, a un «uomo» che sostiene di offrire qualche spe­ranza di salvezza?

(Traduzione di Maria Sepa)

Repubblica 24.10.09
Calder. L´ingegnere bambino che fece volare la scultura
di Barbara Briganti

La passione per il circo lo portò a realizzare piccoli lavori semoventi con il fil di ferro
L´esposizione racconta anche il personaggio con le fotografie scattate da Ugo Mulas

ROMA Forse è l´artista più riconoscibile del novecento. Le sue macchine aeree snodate e colorate - talvolta enormi, altre tascabili -, i cosiddetti mobiles che, appesi a fili invisibili, si muovono con leggerezza danzante grazie ad un sistema perfetto di equilibri calcolati, sono diventati familiari al punto di avere perfino ispirato una forma di giocattolo.
Oggi queste stesse immense farfalle o se vogliamo ironici sistemi planetari, o ancora ninnoli incommensurabili o macchine surrealisticamente inutili, o comunque si possano definire i mobiles, vengono ospitati negli algidi spazi pseudoclassici del Palazzo delle Esposizioni (la mostra si è aperta ieri, ed è curata da Alexander S.C. Rower). Alexander Calder, lo scultore americano nato nel 1898 e morto nel 1976, era uomo di straordinaria simpatia e di infinita arguzia e avrebbe senza dubbio apprezzato molto la cornice di questa grande mostra dedicata all´insieme della sua opera. Forse proprio grazie a quella sua disponibilità all´umorismo, alla sua leggendaria gentilezza e generosità, Calder fu ritenuto un uomo fortunato ed apparentemente felice. Venne al mondo in una famiglia di artisti. Ebbe la fortuna di disporre, sin dall´età della scuola elementare, di uno studio proprio. Lì il piccolo Alexander, come tanti altri bambini, cominciò a ritagliare paperelle articolate. Solamente, le sue erano già di metallo.
Questi inizi promettenti non gli impedirono di affrontare serissimi studi di ingegneria. E come ogni bravo ragazzo americano, si misurò con un´infinità di mestieri stravaganti. Le esperienze che contribuirono alla maturazione della sua sensibilità artistica risalgono agli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Ci fu un episodio al quale Calder attribuì una particolare importanza. Un giorno, in navigazione su un cargo al largo del Guatemala, vide bilanciarsi ai due estremi dell´orizzonte la sfera infuocata del sole nascente e quella candida della luna piena. Fu una visione che non smise mai di citare come sua personale fonte di inspirazione. Il secondo stimolo alla sua creatività venne dall´incarico di seguire e documentare gli spettacoli del circo Barnum. La passione per il circo lo portò a creare una quantità di piccole sculture semoventi: clowns, belve, ballerine e domatori, realizzati con filo di ferro e "objets trouvés", quel meraviglioso materiale a metà strada tra la spazzatura e i tesori infantili da cui traevano ispirazione i surrealisti. Con queste figurine, che conservava in due valigie di fibra, dava vita ad uno spettacolo, di cui restano antichi filmati, che riscuoteva immenso successo tra i suoi nuovi amici. Perché nel frattempo, siamo verso la metà degli anni Venti, Alexander Calder si era trasferito a Parigi dove frequentava Mirò, Léger, Duchamp, Man Ray.
Fu in quel periodo che incominciò a costruire le sue prime sculture: si trattava di disegni tridimensionali, in cui il filo metallico ritorto era simile ad una penna che non si stacca mai dal foglio. Con una leggerezza che sembra disegnare l´aria, Calder dà forma ad un singolare bestiario nel quale spicca una straordinaria Lupa, completa di Gemelli, in filo di ferro e pomoli di legno, che giustamente troneggia nella sede della mostra.
I mobiles nacquero poco dopo, grazie ad una visita nello studio di Piet Mondrian: uno stanzone con i muri decorati da centinaia di cartoncini colorati che il pittore olandese usava per studiare le sue composizioni. «Si potrebbero fare muovere» suggerì Calder. «Non ce n´è bisogno, si muovono da soli» rispose freddamente Mondrian. Ma Calder, ormai totalmente catturato dall´arte astratta, li riprodusse, li ritagliò nella lamiera metallica, usando quegli stessi colori primari, e li fece muovere. In un primo momento grazie a dei meccanismi a manovella, una intuizione in largo anticipo sull´arte cinetica, poi solamente con l´uso sapiente di correnti d´aria e dell´equilibrio dei pesi.
Sospese o poggiate a terra le sculture che Calder continuò a creare tra il 1931-´32 e la fine della sua vita, assomigliano a lenti e dignitosi animali preistorici - almeno così li vedeva uno dei suoi estimatori, il filosofo Jean Paul Sartre – ad astrolabi futuribili, a sistemi solari, a sciami di volatili. Oggetti che decorano con ammiccante umorismo atrii di musei, aereoporti, aule magne universitarie in tutto il mondo. Giocosi e ironicamente inquietanti si ergono come un inno alla perenne infantile meraviglia che sottende la creazione dell´artista.
Ai mobiles, che devono il loro nome a Duchamp, seguirono pochi anni dopo gli stabiles. Questa volta fu Jean Arp a battezzarli. Stabiles sono strutture metalliche che nel corso del tempo Calder immaginò sempre più grandi e comunque destinate a luoghi aperti. Anche in questo caso il protagonista è lo spazio, o se vogliamo l´aria. In realtà non sono più le sculture che si muovono, cambiando aspetto a seconda della posizione assunta, bensì sono le città e i loro abitanti a penetravi dando loro vita. Tra le prime, anzi la prima in assoluto, nel 1962, fu il Teodelapio di Spoleto, di cui a Roma si può vedere una delle maquettes di studio. Questa altissima struttura che ricorda veramente una sorta di immane monumento equestre, tra le zampe del quale scorre il traffico cittadino, si arricchisce di una storia, raccontata dallo stesso Calder. Il quale in un primo momento aveva chiamato semplicemente "l´oggetto" quella grande scultura. Fu solo in un secondo tempo, quando vide un´immagine ottocentesca che raffigurava un leggendario duca longobardo con un copricapo irto di punte, tale Teodelapio, duca di Spoleto, che Calder ribattezzò il monumento.
Fu un´artista dell´aria, del gioco, della percezione istantanea, del movimento, dell´eterna meraviglia infantile davanti all´apparente casualità delle forme. Ma fu altresì un uomo che lasciò dietro di sé una traccia di umanità fuori dall´ordinario.
Al Palazzo delle Esposizioni (da poche settimane guidato dal presidente Emmanuele Emanuele) l´artista e il personaggio sono anche raccontati da una mostra di fotografie scattate, nel corso degli anni, da Ugo Mulas. Un lungo, commovente e bellissimo lavoro biografico su questo protagonista del Novecento.

Repubblica 24.10.09
Il diario segreto di Jünger
Hitler è solo una marionetta
di Ernst Junger

Così lo scrittore e filosofo, che militò nella Wehrmacht, descrisse la fine del nazismo e la disfatta dei suoi carnefici
"Il nostro mondo non ha solo zone e periodi spaventosi: è spaventoso fin dalle fondamenta"
"In fondo non importava poi così tanto di che cosa parlasse quel vispo ometto"

Anticipiamo un brano tratto da "La capanna nella vigna. Gli anni dell´occupazione, 1945-1948" di , in uscita oggi da Guanda

Kirchhorst, 1° maggio 1945
In serata la radio ha dato la notizia della morte di Hitler, oscura come tutto ciò che lo circonda. Avevo l´impressione che quell´uomo, come pure Mussolini, da tempo fosse solo una marionetta mossa da mani altrui, da forze estranee. La bomba di Stauffenberg non gli ha tolto la vita, ma di certo gli ha tolto l´aura; lo si avvertiva anche nella sua voce. Un attacco simile, mosso tra l´altro da un uomo di un´antica casata, me l´ero aspettato sin dall´inizio - come pure il fatto che potesse avere effetto solo fallendo. L´avevo descritto nei dettagli sin dal 1939, nel personaggio del principe Sunmyra.
Si dice che il grand´uomo si sia avvelenato. Ma questo sarebbe in contrasto con la visione che Ziegler mi raccontò a Parigi, credo nel 1942. La sua compagna aveva visto Hitler giacere a terra in un luogo buio, dalla bocca gli scorreva un rivolo di sangue. Anni prima, aveva visto l´incendio del grande dirigibile a Lakehurst nell´ora siderale.
Se ripenso a quella seduta, mi prende un senso di sventura. Fu al Café de la Paix.
[* * *]
Kirchhorst, 7 maggio 1945
A quanto dicono i russi, hanno ritrovato a Berlino i corpi del dottor Goebbels e della sua famiglia. Sono morti avvelenati, per loro stessa mano.
Ho ripensato alle varie tappe della nostra conoscenza. Incominciò col disaccordo di Spandau ed è finita sei settimane fa, quando vietò alla stampa di menzionare il mio compleanno.
Franke, che in seguito morì al comando di una cannoniera sudamericana, continuava a insistere perché partecipassi alle riunioni di Goebbels, sebbene sapesse quant´erano esigue le mie aspettative. Una volta però andammo insieme a Spandau. Non può essere stato molto tempo dopo l´arrivo del «Dottore» a Berlino. Fu oltremodo istruttivo, tuttavia, il modo in cui il piccolo coboldo tenne in pugno la massa radunata laggiù - in larga parte «comunisti» - , seppe scuoterla e renderla furiosa. Una cosa così dalle nostre parti, specialmente in Prussia, non s´era mai vista. I socialdemocratici, in confronto, erano scienziati illuministi. I comunisti videro bene che cosa si erano lasciati sfuggire in quell´occasione, e cercarono di imitarlo, ma arrivarono troppo tardi. In quell´occasione sentii anche il discorso in cui Thälmann si appellava a Ulrich von Hutten e alla libertà tedesca. Dieci anni prima, all´epoca della Corazzata Potëmkin, la cosa avrebbe fatto furore. (...)
La voce del dottore non era sgarbata e aggressiva. Era modulata con finezza, sottilmente affilata, disciplinata. Non era la voce dei grandi tribuni, del tutto certi del loro compito, della loro missione. Il discorso che pronunciava aveva un timbro ponderato: lasciava intuire studi accurati, coltivati durante ascetiche veglie notturne. Era la stessa voce dei pubblicitari, delle «macchine per vendere» che arrivano per decantare assicurazioni complicate, le cui visite si concludono in genere lasciandoci invischiati in contratti di pagamento interminabili. Le immagini erano superficiali, ma dotate di una certa grossolana efficacia, tipo «la fronte e il pugno» invece di «la testa e la mano». L´insieme era al di sopra del livello dell´uditore, ma non al di là della sua capacità di comprenderlo. Il dottore era anche vestito con cura, indossava un abito blu, di buona fattura. Anche quello però faceva senza alcun dubbio parte del personaggio; in una famiglia di meccanici, potrebbe presentarsi così «il fratello che ha studiato».
Fu una delle cerimonie in cui si scoprì la società senza classi, e la cosa determinò un forte slancio, un grande afflusso di energia. La si avvertiva ribollire nell´ampia sala. Per quel che riguarda la forza elementare, la materia prima della storia e il suo dispiegamento, lo spettacolo era piuttosto sorprendente. Quanto alla propaganda e alle sue tecniche, erano molto più avanti dei borghesi, come pure dei comunisti, ancora profondamente radicati in uno stato classista. Dal punto di vista ideologico, invece, emergevano solo i luoghi comuni dei XIX secolo, riarrangiati in modo nuovo, o forse nemmeno, bensì semplicemente ricondotti alla loro origine, perché la democrazia si era in primo luogo riconosciuta nel loro carattere nazionale. In tal senso restavano un passo indietro rispetto al marxismo. Ma in fondo non importava poi così tanto di che cosa parlasse quel vispo ometto. A tratti avevo l´impressione che egli, come un maestro di cappella, dirigesse il coro con lievi cenni della mano. E me ne andai prima della fine della riunione.
[* * *]
Kirchhorst, 23 maggio 1945
(...) La radio annuncia che Himmler è stato arrestato camuffato da un travestimento. Forse, per la prima volta, non era travestito - il comandante supremo delle SS nei panni di un vagabondo, di un accattone con un occhio guercio. Sic transit gloria. Mentre lo catturavano, ha morso la fiala di acido cianidrico che teneva in bocca. Che simili bonbon facessero parte del corredo, del nécessaire dei veri potenti, ormai privi di qualsiasi scrupolo, mi era chiaro fin dall´inizio.
Ciò che invece mi ha sempre colpito in modo singolare in questo individuo era il suo essere profondamente borghese. Vorremmo credere che chi mette in opera la morte di molte migliaia di uomini si distingua vistosamente da tutti gli altri, che lo avvolga un´aura spaventosa, un bagliore luciferino. E invece queste facce sono le stesse che ritrovi in tutte le metropoli quando cerchi una stanza ammobiliata e ti apre la porta un ispettore in prepensionamento.
Tutto questo però mette bene in evidenza quanto ampiamente il male sia dilagato nelle nostre istituzioni. E´ il progresso dell´astrazione. A uno sportello qualsiasi può affacciarsi il tuo carnefice. Oggi ti recapita una lettera raccomandata, domani una sentenza di morte. Oggi ti fora il biglietto, domani la nuca. Ed esegue entrambe le cose con la stessa pedanteria e lo stesso senso del dovere. Chi già non se ne accorga negli atri delle stazioni ferroviarie, o nel keep smiling delle commesse, si muove come un daltonico nel nostro mondo. Esso non ha soltanto certe zone e certi periodi spaventosi: è spaventoso fin dalle fondamenta.
C´è poi anche un altro aspetto che dà da pensare. Le idee pallide, l´ordinaria bruttezza di simili figure sono la spia del ruolo subalterno che è loro assegnato nel regno del male. Il pensiero che milioni di persone perdano la vita perché un signor Himmler aziona le leve della macchina della morte è un´ottimistica illusione. Se la neve cade per un intero, lungo inverno, basta la zampa di una lepre a far scendere a valle una slavina.
Non sappiamo che cosa c´è dall´altra parte. Nel momento in cui la vittima varca le porte della gloria, dimentica il suo carnefice; se lo lascia alle spalle come un fantasma dell´orrore, un usciere infilato nella livrea del tempo.

(© Klett-Cotta 1958, 1979
J.G Cotta´sche
Buchhandlung Nachfolger
GmbH, Stuttgart
2009 Ugo Guanda
Editore S.p.A.
Traduzione di
Alessandra Iadicicco)

venerdì 23 ottobre 2009

Repubblica 23.10.09
Cervello. Di destra o di sinistra? Ora lo decidono le neuroscienze
di Enrico Franceschini

David Cameron ha voluto esperti comportamentali e della mente come consiglieri in vista delle elezioni Recenti studi hanno infatti collegato le reazioni "cerebrali" con le scelte progressiste o conservatrici degli individui

Esistono basi neurologiche della morale: dall´altruismo alle virtù civiche

Di sinistra si nasce o si diventa? La medesima domanda, naturalmente, vale per chi è di destra. E la risposta è duplice: di destra, o di sinistra, si nasce e si diventa. La novità è che nuove ricerche sul cervello e sullo studio del comportamento umano vengono incorporate nell´analisi politica, per capire cosa spinge un elettore a votare in un senso o nell´altro. L´annuncio che David Cameron, leader dei conservatori britannici e, stando agli attuali sondaggi, prossimo primo ministro dopo le elezioni della primavera 2010, ha arruolato tra i suoi consiglieri degli esperti di neuroscienza e di economia comportamentale è un segnale dell´importanza che questo genere di studi hanno assunto nelle sfide elettorali del ventunesimo secolo. «Lo facevamo anche noi», rivela Matthew Taylor, ex-collaboratore di Tony Blair a Downing street.
In un articolo per il mensile Prospect Taylor racconta che negli anni del blairismo il governo laburista prendeva come modello l´Homo economicus: «Offri alla gente una scelta e la gente agirà nel proprio interesse, e nel fare ciò farà anche funzionare il sistema in modo migliore per tutti». Ma oggi, sostiene il politologo, la scienza ha fatto un ulteriore passo avanti, permettendo ai politici di analizzare le caratteristiche che spingono un cervello a simpatizzare per la sinistra piuttosto che per la destra, o viceversa. Finora, afferma, i dibattiti sulla natura umana erano ristretti ai comportamenti criminali e ad altre patologie. Adesso le reazioni "cerebrali" vengono studiate anche in relazione alle scelte politiche.
Prendiamo il Cervello Progressista. «L´altruismo ci rende felici», osserva Taylor. «Una comunità solidale crea persone migliori. Ineguaglianza e discriminazione ci privano di questo potenziale. Una buona guida ci aiuta a compiere decisioni sagge per il lungo termine». Morale: se una persona si sente sicura del proprio destino e assistita da uno stato e da una comunità solidali e ben funzionanti, è più propensa a votare per una politica che si identifica con questi valori. L´analisi del Cervello Conservatore secondo Taylor parte dalla constatazione che la morale ha una base neurologica: un forte istinto di giustizia che il nuovo leader dei Tory intende sfruttare per fare avanzare il suo progetto di un "conservatorismo sociale", intenzionato ad apparire moderno sulle questioni sociali e sulla scienza pur riaffermando i valori tradizionali della destra in difesa delle virtù civiche, delle istituzioni e delle tradizioni.
Il precedente tentativo di superare la divisione ideologica destra-sinistra e individuare un nuovo interlocutore era stato la Terza Via, l´idea del sociologo Anthony Giddens che ha portato al potere il New Labour di Blair in Gran Bretagna e forze riformiste in tutta Europa. Il concetto che i cittadini d´oggi non si vedono come oggetti di religioni, partiti, ma come autori delle proprie vite. L´ingresso della neuroscienza in politica, prevede Matthew Taylor, rappresenta un ulteriore passo avanti. Non bastano gli spin-master, gli esperti di manipolazione mediatica, per vincere le elezioni: servono anche gli psicologi del comportamento umano.

Repubblica 23.10.09
Parla Piero Ignazi, politologo: "Bisogna essere molto cauti nell´utilizzare queste teorie. Ma siamo solo all´inizio"
"Sono ricerche recenti, aspettiamo i risultati"
di Massimiliano Panarari

Piero Ignazi, politologo del Mulino e docente a Bologna, cosa pensa dell´intreccio tra neuroscienze e politica?
«Sarei molto cauto al riguardo perché siamo solamente ai primi passi di questo tipo di studi. A distanza di trent´anni dal loro debutto, avvenuto sostanzialmente con il libro Sociobiologia di Edward O. Wilson, pubblicato nel ´75 e che suscitò un enorme dibattito negli Usa, queste ricerche non forniscono ancora risposte convincenti o attendibili».
Anche in prospettiva?
«Per cultura e formazione, sono un razionalista, fiducioso nella scienza e, quindi, attendo qualcosa di più solido a questo proposito, perché al momento non disponiamo di alcuna certezza sulle determinanti biologiche dei comportamenti sociali (e, dunque, politici)».
Intravede qualche pericolo in questi approcci di "neuropolitica"?
«Sì, decisamente. Questo dibattito è, di fatto, una riproposizione di un´eterna querelle, la contrapposizione tra determinismo e libera scelta. Pensare che un ambito di scelte dell´agire umano possa venire determinato da fattori strutturali interni all´individuo e alla sua mente, significa, per esempio, negare l´influenza del contesto e dell´ambiente esterno. Col rischio, quindi, di prestarsi a strumentalizzazioni (come ai tempi di Wilson) o, peggio ancora, di consegnarci a un futuro assai fosco, alla Minority Report».


Repubblica 23.10.09
"Le ragioni di un decennio" di Giovanni De Luna, storico e ex militante di Lotta Continua
Violenza, errori e memoria Cosa sono stati gli anni ´70
di Simonetta Fiori

"Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche", è l´invito dell´autore esteso a tutti i protagonisti di quella stagione

Anni Settanta, il passato che non passa. Un decennio irrisolto, schiacciato inesorabilmente nella sua declinazione plumbea, ancora oggi invocato a sproposito come un fantasma molesto. A questa iconografia granitica, alimentata prima dal silenzio più tardi dall´«epica brigatista» e ancora da «un´ipertrofia della memoria» che travolge la conoscenza storica, tenta di porre rimedio il volume di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria (Feltrinelli, pagg. 254, euro 17, con le fotografie di Dario Lanzardo). Già il titolo, a ricalco di un celebre libro di Paolo Spriano, rivela la natura insolita dell´impianto, né solo saggio storico né autobiografia. Oltre che studioso contemporaneista, De Luna è anche un ex militante di Lotta Continua, che oggi decide di misurarsi senza indulgenza con quell´evo così complicato, con la deriva violenta ma anche con le modalità più innovative dell´impegno politico. Allo sguardo del testimone s´affianca così la lente dello storico, fino a produrre un´analisi disincantata del decennio. Il risultato è una fotografia lucida di un´occasione perduta, ferma nel ritrarre le potenziali energie che affluivano dal movimento ma anche i gravi errori di Lotta Continua e ferma nel denunciare le zone grigie di uno Stato che ancora evita di fare i conti con le sue ambiguità.
Perché il decennio dei Settanta è una storia che non passa? Il libro prende spunto dai morti dimenticati, espulsi dalla memoria pubblica. Militanti di sinistra che non erano del Pci o del Psi, non terroristi né poliziotti né vittime del terrorismo. I nomi sono quelli di Tonino Miccichè, Francesco Lo Russo, l´anarchico Franco Serantini e molti altri ancora, tutti «dediti con passione e generosità alla causa degli ultimi»: tutte vittime innocenti di una mano che è rimasta impunita. Così come non è mai stato trovato un colpevole in chiave giudiziaria per nessuna delle stragi riconducibili alla strategia della tensione: undici carneficine, centocinquanta morti, seicentocinquantadue feriti rimasti senza giustizia. Quel che ne ricava lo studioso è che «lo Stato ha rinunziato a fare luce ogni volta che si sospettava un coinvolgimento dei suoi apparati». Un grado di coinvolgimento su cui si potrà pronunciare soltanto lo storico del futuro, essendo stato finora impedito l´accesso alle carte e agli archivi. Se il passato dunque non passa - è una delle tesi del libro - è anche perché l´opinione pubblica non ha mai potuto penetrare «il cuore nero della storia repubblicana» simboleggiato dai morti rimasti senza giustizia.
Fu proprio il «dilatarsi patologico» della sfera dell´invisibile a creare un disagio diffuso verso le istituzioni democratiche. Una sfiducia estesa in larghi strati della collettività, tra studenti, giornalisti e intellettuali. Più che alla teoria del doppio Stato e della doppia lealtà, lo studioso preferisce richiamarsi a Norberto Bobbio, il quale teorizzava l´esistenza in tutte le democrazie di una dose fisiologica di arcana imperi, ma anche la necessità di contenere il più possibile la «simulazione» e «l´inganno» insite nella segretezza. Gli esordi di quel decennio furono invece segnati da una «pesante opacità», che finì per rendere «indecifrabili» e «inquietanti» le istituzioni dello Stato democratico. Era fondato questo senso diffuso di ostilità? Non peccava di ingenuità e di enfasi allarmistica? Lo storico - forte del senno di poi - non lo esclude. Però non può neppure trascurare i segnali sinistri che allora scuotevano le coscienze.
L´ansia di verità - in formazioni politiche come Lotta Continua - si coniugò con quella che lo studioso definisce una «rigidezza dottrinale ossessiva», con «giudizi politici superficiali» («il fanfascismo» o la «fascistizzazione dello Stato»), con «impazienze esistenziali», con la sostanziale incapacità di comprendere cosa stava avvenendo nelle pieghe più profonde della società italiana («la forza pervasiva dei mercati», «l´universalizzazione delle tecniche informatiche», «la marcata omologazione dei consumi e degli stili di vita», «il nuovo ruolo delle grandi banche e delle società multinazionali»). «Nessuno di questi scenari fu nemmeno intuito», scrive De Luna. «Rinchiusi nel Novecento, Lotta Continua e gli altri movimenti nati dal Sessantotto vi lessero solo ed esclusivamente una sorta di resa della democrazia e si consegnarono interamente al passato, affacciandosi con una sorta di impotente subalternità all´esplosione di violenza che nella seconda metà degli anni Settanta insanguinò la lotta politica».
Tra «concorrenza» alle Brigate Rosse e «netta alternativa» oscillò quella formazione, evocata fin dal primo congresso di Rimini (aprile 1972) nelle sue tonalità cupe ed aggressive. Riaffiorano i titoli del quotidiano, che festeggiano l´assassinio di Oberdan Sallustro, il dirigente della Fiat Concord ammazzato dai guerriglieri argentini. È questo il contesto in cui matura «la martellante campagna di stampa contro Luigi Calabresi, che fa da sfondo al delitto del commissario». Da «un compagno non può averlo fatto» si passa rapidamente «a un compagno può averlo fatto e, se lo ha fatto, ha fatto bene». Poi il pendolo prese ad oscillare in direzione opposta, ma «la virata fu troppo brusca, troppo poco elaborata, troppo verticistica perché Lotta Continua fosse in grado di interpretare con efficacia il suo nuovo ruolo di avversario dichiarato del terrorismo nascente». Il resto è storia nota.
Il passato può passare - è la conclusione di De Luna - soltanto se ciascuno oggi è disposto ad assumersene la responsabilità, sul modello della commissione sudafricana su Verità e Riconciliazione. «Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche», è l´invito dello storico, ma l´esortazione andrebbe estesa a tutti i protagonisti di quella stagione. «Imparare a perdonare», scrive Hannah Arendt, «vuol dire fare in modo che la vita vada avanti». Ma per perdonare occorre che vi sia chi si assuma la responsabilità di quelle derive. E perché il passato possa passare è anche necessario che sulla troppa memoria prevalga la storia, la reale conoscenza d´una stagione di sconfitte, rispetto alla quale Le ragioni di un decennio può essere considerato un prezioso contributo.

l’Unità 23.10.09
Intrigo internazionale per Vasari Il governo vende l’archivio ai russi
di Alessandro Bindi

Con una laconica lettera il ministro ai Beni culturali annuncia la vendita per 150 milioni di euro Sotto choc il Comune di Arezzo: ́Chiediamo la verifica degli atti alla Procura della Repubblica

Giorgio Vasari, adesso, parla russo. Gli atti formali di vendita sono in fase di traduzione ma con 150 milioni di euro il suo archivio di Arezzo è passato ad una società russa. L'hanno venduto gli eredi della famiglia Festari che ne deteneva la proprietà. La notizia è arrivata improvvisa ad Arezzo con una laconica lettera di notifica che il ministero dei beni culturali si è premurato di inviare al sindaco Giuseppe Fanfani. Immediata e accorata la reazione del primo cittadino, sotto choc per una notizia che arriva alla vigilia delle celebrazioni del cinquecentenario della nascita di Vasari che cade il 2011: «Il governo ne impedisca il trasferimento tuona Fanfani -. Un paese civile non vende la sua memoria e il suo patrimonio culturale». Nella lettera del ministero, all' amministrazione aretina è stato comunicato anche che la documentazione, costituita da carte autografe di Giorgio Vasari e dei più importanti personaggi contemporanei tra cui Michelangelo Buonarroti, è stata ceduta per 150 milioni di euro sempre che l'ente entro 90 giorni non sia intenzionato ad esercitare il diritto di prelazione. Come dire, se il Comune di Arezzo vuole mantenere l’Archivio in città sa come fare: si fruga in tasca e sborsa 150 milioni di euro.
DALL’ENEIDE AI PAPI
Del fantomatico acquirente russo si sa pochissimo. Si parla di una società della quale però non è stato reso noto il nome. Il prezioso archivio conservato in via XX settembre ad Arezzo, contiene anche la corrispondenza tra Giorgio Vasari e Annibal Caro, traduttore in endecasillabi sciolti dell'Eneide di Virgilio, della Poetica di Aristotele e delle Lettere a Lucilio di Seneca; inoltre ci sono anche molte epistole tra Vasari e i papi del tempo e tutta una serie di carteggi che offrono spaccati su aspetti molto interessanti come la società e l'economia della sua epoca. Tra i documenti compaiono anche i bilanci e i conti economici delle proprietà agricole di Giorgio Vasari. «Siamo di fronte ad un evento disastroso, da scongiurare in ogni modo sottolinea il sindaco -. È gravissimo che il ministero, attraverso la Soprintendenza archivistica della Toscana, abbia comunicato in maniera fredda e burocratica a noi, alla Provincia di Arezzo ed alla Regione Toscana questo fatto gravissimo. Non solo: ci ricorda che abbiamo a disposizione novanta giorni per esercitare il diritto di prelazione. Questo come se un Comune di dimensioni come Arezzo potesse avere a disposizione 150 milioni di euro sull’unghia».Per scongiurare la perdita di questo importantissimo patrimonio Fanfani ha scritto al presidente del consiglio, a Bondi, a Putin attraverso l’ambasciata a Roma, ai parlamentari eletti nel collegio aretino, a Claudio Martini, all'assessore regionale alla cultura Paolo Cocchi. La deputata Pd Donella Mattesini si è subito detta pronta ad attivarsi in sede parlamentare. Aggiunge Fanfani: «Mi meraviglia che questa vicenda sia stata gestita in maniera puramente burocratica come si trattasse della vendita di un qualsiasi bene sottoposto a tutela, nel silenzio generale». Il sindaco è pronto a tutto: «Se l’Archivio passerà di mano l'amministrazione comunale è intenzionata a chiedere una verifica degli atti e delle procedure alla Procura della Repubblica».
Il mistero si è poi infittito in serata, quando è giunta una nota del ministero dei beni culturali, che annuncia di aver informato l'Autorità giudiziaria. Questo perché l’operazione «ha evidentemente sollevato numerose perplessità, non solo per l'enormità della somma pattuita ma soprattutto perchè l'archivio Vasari, chiunque ne sia il proprietario, è soggetto ad un vincolo pertinenziale e pertanto non può essere spostato dal luogo in cui attualmente è collocato ad Arezzo». E ancora: «Al di là di ogni allarmismo, la notifica dell’atto al Comune costituisce un semplice adempimento previsto dal Codice dei beni culturali».●

l’Unità 23.10.09
Radio radicale lancia l’allarme: rischiamo di chiudere

L’emendamento. 202 senatori di tutti i partiti: rinnovare la convenzione

«Attenzione, incombe il pericolo dell’eliminazione di Radio Radicale», avverte una mezza pagina a pagamento pubblicata ieri dal Foglio. La questione è reale. Il 21 novembre scade la convenzione tra il ministero dello Sviluppo e la radio per la trasmissione delle sedute del Parlamento. È dal 1976 che l’emittente assicura il servizio, dal 1994 è in vigore la convenzione che attualmente garantisce 10 milioni di euro lordi l’anno. I radicali si sono mobilitati, e hanno raccolto oltre 200 firme di senatori di vari partiti (tutto il gruppo del Pd, tranne la teodem Baio Dossi, ma ci sono anche vari big del Pdl come Nania, Baldassarri e Vizzini) in calce a un emendamento alla Finanziaria che garantisce il rinnovo della convenzione. «Il ministro Scajola ha dato delle rassicurazioni ma in Senato non si sa mai come va a finire...», spiegano i radicali. «Anche il sottosegretario Letta si è formalmente impegnato nella stessa direzione, e ci è stato autorevolmente assicurato che lo stesso presidente del Consiglio è d’accordo». Eppure Pannella, Bonino e il direttore Bordin non si fidano. «La situazione si è un po’ ingarbugliata, per questo lanciamo un appello al governo». Nel Pdl, del resto, non mancano voci contrarie, come Alessio Butti: «Dal 1998, data di inizio dei programmi di Gr Parlamento, Radio Radicale risulta un “doppione” e come tale viene meno la necessità del finanziamento da parte dello Stato». E proprio in risposta a Butti, nel dicembre 2008, il viceministro alle Comunicazioni Romani aveva spiegato che «allo scadere della convenzione verranno considerate la piena operatività della rete Rai dedicata ai lavori parlamentari e le esigenze di riduzione della spesa». A Butti replica Pannella: «Calunnie e menzogne, lo sfido a un confronto pubblico». A.C.

Corriere della Sera 23.10.09
Democrazia liberale e scontro di civiltà
Quel che resta della «fine della storia» vent’anni dopo la caduta del Muro
di Francis Fukuyama

«Stiamo assistendo non solo alla fine della Guerra fredda, o al superamento di un particolare periodo della storia postbellica, bensì alla fine della storia come tale: ovvero, siamo al termine dell’evoluzione ideologica dell’umanità, dove inizia l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale, come la forma finale di governo umano». Vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, quali aspetti del mio saggio «La fine della storia e l’ultimo uomo» (Rizzoli) restano ancora validi? E che cosa è cambiato?

Il punto fondamentale — che la democrazia liberale rappresenta la forma finale di governo — regge ancora.

Ovviamente esistono alternative, come la Repubblica islamica dell’Iran o l’autoritarismo cinese. Ma non credo che molti siano convinti che queste sono forme di civiltà superiori ai governi che esistono in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone e nelle altre democrazie sviluppate, tutte società che assicurano ai loro cittadini un alto livello di prosperità e di libertà personale.

La questione non è se la democrazia liberale rappresenti o meno un sistema perfetto, né se il capitalismo sia esente da problemi. Dopo tutto, siamo stati colpiti da questa immensa recessione globale proprio per il fallimento dei mercati svincolati da ogni regola. La vera questione è se sia emerso un qualsiasi altro sistema di governo negli ultimi vent’anni a scardinare la mia tesi. E la risposta resta negativa.

Il mio saggio fu scritto nell’inverno del 1988-89, appena prima della caduta del Muro di Berlino. A mio avviso tutto il pessimismo riguardante la nostra civiltà, in seguito ai terribili eventi del ventesimo secolo, con i suoi genocidi, gulag e guerre mondiali, non rappresentava il quadro completo. In realtà, il mondo era percorso da molte tendenze positive, tra cui la nascita della democrazia laddove erano esistite dittature. Samuel Huntington la chiamava «la terza ondata».

Tutto prese avvio nel Sud dell’Europa negli anni Settanta, con il ritorno alla democrazia in Spagna e Portogallo. Nello stesso periodo, si assistette alla fine di quasi tutte le dittature in America del Sud, eccetto a Cuba. Poi ci fu il crollo del Muro di Berlino e l’apertura dell’Europa dell’Est.

Ancora oltre, la democrazia ha rimpiazzato i regimi autoritari in Corea del Sud e a Taiwan. Siamo passati da un’ottantina di democrazie nei primi anni Settanta a 130 o 140 due decenni più tardi.

Certo, non c’è stata una progressione lineare. Oggi assistiamo a una specie di recessione della democrazia. Ci sono state inversioni di tendenza in Paesi importanti, come la Russia, dove vediamo il ritorno di un duro sistema autoritario senza rispetto della legalità, oppure in Venezuela e in altri Paesi dell’America latina governati da regimi populisti.

È chiaro che il grande slancio verso la democrazia ha toccato i suoi limiti. In alcuni luoghi, oggi si verifica una reazione antidemocratica. Ma questo non significa che la corrente più consistente non sia ancora verso la democrazia.

È stato Samuel Huntington a fornire il principale argomento contro la teoria della «fine della storia». Lungi dalla convergenza ideologica, sosteneva, si assiste a uno «scontro di civiltà», nel quale cultura e religione si trasformano nei principali focolai di conflitto dopo la Guerra fredda. Per molti, l’11 settembre e le sue conseguenze hanno confermato la tesi di Huntington di uno scontro tra Islam e Occidente. Ma nel complesso, occorre capire se le caratteristiche culturali sono talmente radicate da escludere ogni possibilità di sviluppare valori universali o una convergenza di valori. Qui sta la questione. E su questo punto sono in disaccordo con lui.

La tesi di Huntington è che la democrazia, l’individualismo e i diritti umani non sono concetti universali, bensì riflessi di una cultura che affonda le radici nel cristianesimo occidentale. Storicamente è vero, ma occorre aggiungere che questi valori si sono diffusi ben al di là delle loro origini.

Sono stati accolti da società provenienti da tradizioni culturali molto diverse. Basta guardare gli esempi del Giappone, Taiwan, Corea del Sud e Indonesia.

Le società fondate su radici culturali diverse hanno condiviso questi valori non certo perché sono i valori degli Stati Uniti, ma perché funzionano anche per loro. Forniscono il meccanismo della responsabilità di governo e consentono alle società di allontanare i leader poco affidabili quando la situazione peggiora. È un enorme vantaggio a disposizione delle società democratiche, e la Cina ne è sprovvista. In questo momento la Cina può contare su leader competenti, ma prima aveva Mao. Non c’è nulla che possa impedire, in futuro, l’ascesa di un nuovo Mao se non si instaura qualche forma di responsabilità democratica.

È impossibile avere un buon governo senza responsabilità democratica. E credere altrimenti è un’illusione pericolosa.

testo raccolto da Nathan Gardels traduzione di Rita Baldassarre © Global Viewpoint

Corriere della Sera 23.10.09
Uruguay José Mujica favorito nelle elezioni di domenica
Pepe il «tupamaro» l’ex guerrigliero che vuole la presidenza
«Essere socialdemocratico è una codardia»
di Rocco Cotroneo 



RIO DE JANEIRO — «Dammi retta Pepe, mettiti una giacca. Non c’è niente di male. Ne ho per­se tre di elezioni perché giravo in camicia, poi alla quarta ho vin­to ». José Mujica, per tutti Pepe, ha accettato il consiglio dell’ami­co Lula. Smesse le guayaberas cu­bane e i giubbotti in stile country, ha tenuto duro solo sulla cravat­ta. Ma se domenica prossima — come tutto lascia pensare — vin­cerà le elezioni presidenziali in Uruguay, non lo si potrà accusare di trasformismo.

Nell’America Latina dei leader con un’altra vita alle spalle — l’operaio, il vescovo, il parà — Mujica si definisce con orgoglio un tupamaro, e il nome del cele­bre movimento guerrigliero degli anni Settanta figura tuttora sulla scheda elettorale. Ovviamente, a 74 anni suonati, non è più un com­battente in armi, attività per la quale ha pagato un prezzo terribi­le durante la dittatura militare in Uruguay: quindici anni di galera, buona parte in una cella lugubre sotto terra, e la minaccia quotidia­na di venire ammazzato se i suoi compagni in libertà avessero ripre­so a combattere.

Non ha bisogno di test di demo­crazia, Mujica, e non solo perché la sua coalizione, il Fronte Ampio, governa già l’Uruguay da quattro anni, con il moderato Tabaré Vázquez. «Ho già riconosciuto la codardia di essere diventato social­democratico », scherza. È stato de­putato, senatore e ministro, nel settore dove ne capisce di più, l’agricoltura e l’allevamento. Atti­vità che ancora costituiscono la ba­se produttiva del piccolo Paese su­damericano, appena tre milioni di abitanti, «in un angolo importan­te del mondo all’incrocio tra alcu­ni fiumi», definizione sua. Dice che l’Uruguay ha tutte le condizio­ni per trasformarsi in un gioielli­no del Sud del mondo, un Paese agro-intelligente, una sofisticata fattoria sotto la linea dell’equato­re, come quella dove vive a mez­z’ora di strada da Montevideo. Del denaro e dei consumi, perso­nalmente non gli importa nulla. Il mio sogno di vita? Pescare, cu­rare le piante e sedermi all’om­bra di un albero. Quando fu elet­to deputato, rinunciò allo stipen­dio e continuò a vendere fiori ai mercati. Per settimane dovette penare per convincere gli uscieri del Parlamento a farlo entrare nel garage con una vecchia moto, sempre sporca di fango.

Ma se il gusto retrò aiuta il per­sonaggio, attrae per coerenza e ser­ve a creare nei discorsi buone me­tafore contadine, sono le odierne passioni di Mujica a sostenere la sua candidatura. La scienza, la tec­nologia, lo spirito imprenditoria­le, le idee nuove. Arrivando a ca­valcare persino i luoghi comuni che dipingono l’Uruguay come un Paese sonnolento e triste, e i suoi concittadini attaccati alle certezze e alla rassegnazione di un buon impiego statale. «Abbiamo tutti bi­sogno di una scossa, ci vorrebbe­ro un po’ di emigrati stranieri nei nostri campi. I nostri fanno ben poco», ammette. E ce n’è anche per i dirimpettai del Rio de la Pla­ta: «Gli argentini? Un popolo di idioti, isterici e paranoici, che ama­no farsi governare da ladri e mafio­si », disse in un’intervista che poi uscì in un libro, qualche mese fa. Da Buenos Aires volarono fulmini e lui, già candidato, dovette fare marcia indietro con la solita scusa delle «parole estratte da un conte­sto » e chiedendo scusa. Ma la vec­chia rivalità tra i due Paesi, che si allarga dal tango al futebol passan­do per le vacche, male non cade in politica, e l'episodio è stato veloce­mente archiviato. Per domenica, il dubbio pare es­sere solo uno, se «Pepe» ce la farà o meno al primo turno. I sondaggi gli attribuiscono il 44-45% dei vo­ti e manca poco per evitare il bal­lottaggio. Il suo rivale di centrode­stra Luis Lacalle è fermo al 30-31%. 

La lotta alla dittatura 
Il nome Tupamaros: da Tupac Amaru, l’ultimo leader degli Indios del Perù Guerriglia Protagonisti di azioni di guerriglia negli anni ’60 e inizio dei ’70.
L’azione più clamorosa: il rapimento e l’uccisione dell’agente Cia Dan Mitrione
Carcere Sottoposti a torture e carcere duro durante la dittatura Svolta democratica Nel 1985, con la fine del regime, si trasformarono in Movimiento de Participación Popular 
Ci chiamavano guerriglieri ma eravamo un movimento politico armato.
La violenza era giustificata: c’era troppa ingiustizia

Corriere della Sera 23.10.09
Cinema e politica L’attrice: la violenza è colpa anche di certi film
La Kidman all’attacco: Hollywood vuole soltanto donne oggetto
di Alessandra Farkas

E il presidente Obama: i mariti sono ottusi

NEW YORK — L’iniquo su­perlavoro delle mamme in fa­miglia? «Colpa dei mariti ottu­si », secondo Barack Obama. La violenza che subiscono le donne nel mondo? «Colpa di Hollywood», a detta di Nicole Kidman.

Neppure si fossero messi d’accordo in anticipo, il presi­dente degli Stati Uniti e la star del cinema ieri hanno fatto a gara tutto il giorno nel domi­nare il dibattito Web con i loro cliccatissimi excursus all’inter­no del pianeta donna.

Nel suo ruolo di ambasciatri­ce dell’Unifem (Fondo Onu di Sviluppo per la Donna) la Kid­man è stata ascoltata a Washing­ton da una sottocommissione della Camera dei Rappresentan­ti che cerca di far adottare l’In­ternational Violence Against Women Act, un progetto di leg­ge volto a influenzare la politica estera Usa verso i Paesi dove i di­ritti delle donne sono violati.

«Hollywood ha certamente un ruolo nella violenza che su­biscono le donne», ha dichiara­to la star di The Hours rispon­dendo alla domanda della de­putata repubblicana Dana Rohrabacher, «perché il cine­ma le dipinge come oggetti sessuali deboli». Alcune ore più tardi, intervistato dalla Nbc , il presidente Obama face­va mea culpa per non essere stato sempre all’altezza come marito e come padre.

«Michelle ha dovuto fare molti più sacrifici di me, so­prattutto nel tirar su le nostre due figlie», ha detto, primo presidente americano della storia ad aver osato tanto. «Ogni tanto ho avuto bisogno di essere richiamato all’ordine — ha scherzato —. 'Perché, mi chiedeva in passato Michel­le, se le bambine hanno biso­gno di andare a comperare un vestito deve essere un compi­to mio e non tuo? O se si am­malano, tocca sempre a me as­sentarmi dal lavoro per corre­re a prelevarle a scuola?'». Dal particolare, Obama arriva al generale: tutti gli uomini ame­ricani che non capiscono quan­to sgobbano le loro mogli so­no «ottusi».

Nicole va più in là e dice che «la violenza contro le don­ne e le bambine è una delle violazioni dei diritti umani più diffuse nel mondo. Perché non conosce frontiere, né di­stinzione di razza o classe». Nel libretto che tiene in mano ci sono le prove sconvolgenti di ciò che ha appena detto: una donna su tre è picchiata o violentata nel corso della sua vita. Più della metà delle ag­gressioni sessuali avvengono ai danni delle minori di quindi­ci anni. Negli Stati Uniti sono stati denunciati 89 mila stupri nel solo 2008.

«Io non sono responsabile di tutto quel che fa Hollywo­od, ma lo sono per quel che ri­guarda la mia carriera — con­clude la Kidman — per questo non sono interessata ad inter­pretare ruoli degradanti di donne». Sarà. Ma in passato non ha esitato a farlo e adesso la blogosfera le presenta il con­to della spesa. «Nicole è un’ipocrita — tuona Al sul blog PopEater — non ha esita­to a recitare in Ore 10: Calma piatta , l’horror thriller dell'89 in cui interpreta il ruolo di una donna in balia di un mani­aco omicida. Per non parlare di Dogville », il controverso film di Lars Von Trier che la ve­de nei panni di una giovane soggetta a violenze di ogni ti­po da parte addirittura di un’intera città.

Ma anche Obama negli ulti­mi giorni è stato accusato di parlare bene e razzolare male per aver organizzato una parti­ta a basket con alcuni parla­mentari e ministri senza invita­re neanche una donna. «È una sciocchezza — ha sdrammatiz­zato il presidente nell’intervi­sta alla Nbc —, non era niente più che una partita di pallaca­nestro » . 


Corriere della Sera 23.10.09
Stavolta non è un dibattito da radical chic
di Maria Laura Rodotà

Bè, prendiamola come una buona notizia. Ni­cole Kidman (e ha un senso: proprio lei, in «To Die For» di Gus Van Sant, interpretò al meglio il ruolo della ragazza-vittima della cultura pop, co­sì desiderosa di stare in tv da uccidere) denun­cia la mercificazione hollywoodiana delle don­ne e le colpe dello show business nel rappresen­tarle come oggetti sessuali, potenziali oggetti di violenza. Obama (e ha senso per questo: è mari­to di Michelle, femmina formidabile che surclas­serebbe buona parte dei maschi medi del piane­ta; i quali lo sanno) esalta le multiple capacità delle donne contemporanee. L’uno/due acciden­tale ma riuscito è una buona notizia perché fa notizia: sono esternazioni Vip; perciò fanno il gi­ro di tg, giornali e siti di tutto il mondo. E fanno discutere gente inconsapevole, disinteressata, o (nel caso delle donne) spesso ammutolita.

Risultato: un’improvvisa, enorme risonanza mediatica per cause generalmente considerate da povere disgraziate ossessive. Succede in Ita­lia e ovunque; in fondo che c’è di male a mostra­re belle ragazze molto disponibili (niente; ma perché quasi sempre solo quelle?); cosa c’è di strano se un marito non dà retta alla moglie che lavora e deve stare anche dietro a casa e bambi­ni? Non è strano; però ha stra-ragione Obama a far notare che a furia di faticare e organizzarsi, le mogli diventano più brave dei mariti. Ora c’è da vedere quante obamiane convinte prenderan­no «a pugni in testa» i loro coniugi, come sugge­rito dal presidente degli Stati Uniti (l’espressio­ne è un po’ forte, ma in un momento di calo di popolarità può renderlo simpatico a molte elet­trici, è indubbio).

Quindi tutto bene. Discutiamo delle parole di Obama, e pure dell’intervento di Nicole Kid­man. Con un’unica preoccupazione. Che, dopo la sorpresa, il battage, le conversazioni sul te­ma, quella delle donne diventi una causa da bel­li- e-famosi. Piuttosto ganza, su cui spendere qualche bella parola; per poi antipatizzare, ma­gari con la facile obiezione «avete visto? E’ un argomento radical chic». Non lo è. Lo si capisce anche ripensando alle storie dei due personag­gi. Prima di diventare una diva, Kidman è stata una ragazzetta-carne da cannone nel mondo del­lo spettacolo. Se è riuscito a diventare presiden­te, Obama deve ringraziare l’esempio e l’aiuto di donne tostissime, la moglie, la madre, la nonna. Prendiamoci a pugni in testa, per favore, se pen­siamo sia una causetta Vip.

Corriere della Sera 23.10.09
Domani a Firenze
A Roberto Benigni il Premio Galileo in Santa Croce
di Laura Antonini

La Basilica di Santa Croce a Firenze, luogo delle sepolture dei grandi rese immortali da Ugo Foscolo, domani diventa teatro di eventi e si apre alla città. L’occasione è la XIII edizione del Premio Galileo, manifestazione ideata da Alfonso De Virgiliis quest’anno incentrata sui temi di Arte, Scienza, Fede. Tra i premiati Roberto Benigni (nella foto), l’astrofisico tedesco Reinhard Genzel, il cardinal Renato R. Martino, presidente del Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace e il maestro Seiji Ozawa. La serata esclusiva, suddivisa in tre momenti, si snoderà dalla vicina Biblioteca Nazionale dove gli ospiti tra spettacoli e coreografie di danza potranno ammirare opere e disegni autografi di Galileo, per approdare al Chiostro brunelleschiano attrezzato con telescopi puntati sulla Luna e su Giove. Da qui, attraversando il Chiostro di Arnolfo, gli invitati entreranno nella basilica per assistere alla premiazione tra i fronteggianti sepolcri di Galileo e Michelangelo animati da un dialogo immaginario per voce della soprintendente al polo museale Cristina Acidini e dell’ex rettore dell’ateneo fiorentino Paolo Blasi. Quando le porte di Santa Croce si apriranno sul sagrato illuminato per accogliere sulle note dell’Ave Maria di Schubert l’esibizione del ballerino spagnolo Angel Corella, premiato per la danza.

Agi 23.10.09
Poesia: Il ritorno di Lilith scritto con le unghie da Haddad

(AGI) - Roma, 23 ott. - Le piace dire che scrive con le unghie perche' scava, va in profondita' ma anche per sferzare le donne: perche' non fate sentire le vostre voci? Non mostrate le vostre unghie? E' questa Joumana Haddad, giornalista e scrittrice libanese che con il suo ultimo libro, prima opera integrale in italiano, 'Il ritorno di Lilith' (Ed. L'Asino d'oro), che sara' presentato martedi' prossimo a Milano alla libreria Feltrinelli, vuole aprire una 'speranza' per le donne arabe oppresse ma anche di altri paesi, Italia compresa: del resto l'oppressione della donna non necessariamente fisica, pur se con modalita' diverse e' la stessa come intenzionalita'. Joumana gia' intervistata da numerose testate radiofoniche e televisive, oltre che da riviste e quotidiani, ha raccontato la leggenda, il mito di Lilith, la prima donna creata che non si sottomise non si ridusse cioe' in schiavitu' ad Adamo. Un libro scritto "con le unghie", perche'? "Scrivere e' innanzitutto un atto fisico, violento e aggressivo ma solamente - ha risposto la poetessa libanese - soprattutto nei confronti di me stessa. E' qualcosa come scavare con le unghie nella carne per andare a pescare segreti, misteri e parole nascoste che ci sono in me". E questo libro e' frutto anche del coraggio di Joumana, della sua sfida a dogmi e tabu' sulla sessualita'. Infatti, "molti credono che mi sia gettata - nel fuoco", ha chiosato. E sul settimanale 'Left' in edicola va oltre: "sii bella e vota", rivolgendosi alle donne non solo del suo paese, il Libano ormai soprannominato la "repubblica del silicone". "I nostri partiti politici non dovrebbero, prima di chiedere i voti delle donne, candidarle? Oppure la donna per loro si limita ad avere un unico ruolo e un solo valore, ovvero essere elettrice soltanto - scrive Joumana - la strada davanti a lei e' ancora lunghissima prima di meritare di far parte degli eletti (e delle elette)?". Ma si pone la caporedattrice della rivista libanese 'Jasad', anche la questione in termini italiani: "Perche' sto facendo questa domanda ora, e qui? Perche' lo stato delle cose in Italia, purtroppo, non e' molto diverso dallo stato delle cose a Beirut. E il Libano non e' l'unica repubblica di silicone nel mondo moderno. Infatti, la strumentalizzazione della donna li' non e' molto diversa - continua - dalla strumentalizzazione della donna qui, anche se riveste delle maschere differenti. Quali posti decisivi occupano le donne, sia libanesi, sia italiane, sulla scena politica?". Infine la sferzata alle donne, "ribellatevi: perche' non fate sentire la vostra voce? Perche' non mostrate le unghie?". (AGI) Pat

giovedì 22 ottobre 2009

l’Unità 22.10.09
L’Agenzia del farmaco: sulla Ru486 nessuna pressione
di Nedo Canetti

Guido Rasi ascoltato ieri nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla pillola abortiva. Il presidente dell’Aifa ha difeso l’operato dell’Agenzia: «Il via libera dopo un iter procedurale ineccepibile».

Il via libera alla commercializzazione in Italia della pillola abortiva RU486 è arrivato al termine di «un iter procedurale ineccepibile» da parte dell’Agenzia del farmaco. Lo ha affermato ieri il direttore generale dell’Aifa, Guido Rasi, nel corso di un’audizione alla commissione Sanità del Senato, nell’ambito dell’avviata indagine conoscitiva. «La pubblicazione sulla G.U. ha proseguito è un atto dovuto, non posso modificare di una virgola la delibera approvata». Ha poi sostenuto di non aver ricevuto alcuna pressione, tanto è vero che l’Aifa «non ha fermato di un giorno la propria macchina», stabilendo che la pillola è «teoricamente compatibile con la 194, essendo un metodo abortivo come un altro». «La lettera del sen. Tommasini, presidente della commissione (proponeva di attendere, per la decisione, la fine dell’indagine del Senato, ndr) ha precisato non imponeva lo stop dell’approvazione , ed infatti non è stata recepita». Il Pd, ha ricordato la senatrice Fiorenza Bassoli, aveva protestato per la lettera ed è «decisamente contrario alle motivazioni che la destra assegna alla commissione, ispirate a una volontà di controllo e di messa in discussione delle competenze dell’Aifa». «Come Pd ha sottolineato riteniamo che unico scopo dell’indagine sia quello di accertare quali siano le procedure e le pratiche cliniche migliori per la salute della donna e più coerenti con la legge 194». In merito alle procedure, il dr. Rasi ha affermato che non spetta alla sua Agenzia definire le modalità di somministrazione del farmaco. «È un atto medico ha detto e, nell’ambito ospedaliero, definire le modalità spetta a governo e regioni». E le «indicazioni e linee guida ha annunciato il sottosegretario Eugenia Rocella, presente all’audizione saranno emesse dal governo «in compatibilità con la 194» e «secondo la delibera dell’Aifa» (ricovero ospedaliero fino ad aborto avvenuto e intera procedura praticata in ospedale). Diverse regioni, come la Campania, il Veneto e l’Emilia Romagna hanno annunciato che stanno procedendo.

l’Unità 22.10.09
SCUOLA E TRASPORTI
Sciopero
Sciopero generale dei sindacati di base per la giornata di domani. Manifestazioni a Milano, Torino e Roma. Interessati scuola, trasporti pubblici, sanità e trasporto aereo.

l’Unità 22.10.09
La storia di un medico
Autobiografia sui generis Un viaggio nel mestiere di chirurgo scritto a quattro mani
L’etica del lavoro L’oncologo più famoso d’Italia e il suo rapporto con i pazienti in un decalogo
Veronesi: la vita particolare dell’uomo con il camice bianco
di Luca Landò

È in libreria «L’uomo con il camice bianco», semi autobiografia di Umberto Veronesi, scritta insieme ad Alberto Costa, che ripercorre la carriera del celebre oncologo e, soprattutto, dei suoi rapporti con i pazienti.

«La prima volta che vedi il bisturi affondare svieni». Non sappiamo se Umberto Veronesi, l’oncologo più famoso d’Italia e uno dei più noti al mondo, sia davvero svenuto. Ma chi lo conosce non ha dubbi: il giorno dopo si presentò fresco e riposato con il «solito» quarto d’ora di anticipo. Perché tra le caratteristiche di questo giovane di ottanta anni spicca, da sempre, la voglia di battere il tempo. Come il vizio di andare nelle sale dei congressi, per primo e da solo, a controllare la disposizione delle sedie e delle diapositive. O l’abitudine di scendere prima dell’orario in sala operatoria a scambiare due chiacchiere col paziente e gli infermieri.
IL TRUCCO
Il trucco? Dormire poco, dormire sempre. Stare sveglio la notte per leggere e approfittare di ogni pausa del giorno per infilare brevi ma intensi momenti di sonno. «Sono diventato così bravo che dormo durante il rosso dei semafori», dice scherzando ad Alberto Costa, per vent’anni il suo più stretto collaboratore e adesso autore, con lui, de L’uomo con il camice bianco, scritto con Alberto Costa (pp. 216, euro 17,50, Rizzoli). Un’insolita «autobiografia a quattro mani» ma soprattutto un viaggio, duro e concreto, in quella quarta dimensione che è la chirurgia. «Non sono religioso. Ma la sala operatoria ha qualcosa del luogo sacro, della chiesa, della
Umberto Veronesi nel suo studio sinagoga. Nelle sale operatorie si avvertono sensazioni che solo i medici e gli infermieri (i sacerdoti del tempio) sanno riconoscere». Concentrazione, preparazione. E consapevolezza di quello che stai per fare. «Noi medici siamo come atleti impegnati a battere il record del mondo. Tutto è molto veloce e si hanno pochi minuti per decidere. È vero quello che si dice dei chirurghi: che non studiano abbastanza, che guadagnano troppo, che soffrono di onnipotenza. Ma vuole farsi avanti qualcun altro a prendersi sulle spalle il peso di quello che facciamo?».
La solitudine dei numeri primi, solo che questo non è un romanzo. E nemmeno una puntata di ER o del Dr. House dove tutti tornano sempre a casa guariti e contenti. Da qui, a volte, non si torna affatto. «Oggi nella mia mente c’è una gigantesca fossa comune. Ho visto morire molte persone. Troppe». E proprio questo, forse, ha spinto Veronesi a inventarsi l’Airc, l’associazione che raccoglie fondi dai cittadini per fare quello che lo Stato fa poco e male: finanziare la ricerca sul cancro. O a dar vita all’Istituto Europeo di Oncologia, una struttura di eccellenza dove i medici curano sia pazienti privati che quelli a carico del servizio pubblico. O ancora a spingerlo in politica, prima come senatore, poi come ministro della Sanità. «Un periodo indimenticabile ma il difficile fu ritrovarsi parte di un governo con colleghi che avevano idee molto diverse se non opposte dalle mie: sul nucleare, sugli Ogm, sul testamento biologico».
Da ministro riuscì a varare la legge che proibiva il fumo nei locali pubblici («il secondo Paese in Europa dopo l’Irlanda») e a porre la spinosa questione dei nostri centri di cura: «il trenta per cento degli ospedali italiani è troppo vecchio o troppo piccolo o troppo isolato». Un problema enorme anche per un chirurgo-ministro convinto che efficienza medica e diritti del malato debbano andare di pari passo. Gli ospedali sono rimasti quelli di prima, ma i diritti dei pazienti cominciano a farsi strada. Come il decalogo del malato, lanciato proprio Veronesi e riportato nel libro.
Dieci punti semplici ma fondamentali, come il diritto a essere informati («perché tanti medici trattano i pazienti come dei bambini?»), il diritto alla privacy e alla dignità, senza i quali il paziente viene trasformato in un numero (Porta la padella al quindici) o in un argomento di anatomia (Abbiamo due tiroidi da operare). Il diritto a non soffrire: «Ho imparato da una suora che il dolore non santifica. All’ottavo piano dell’Istituto dei Tumori suor Luigina diceva spesso: Il dolore fa arrabbiare. E fa anche venire voglia di bestemmiare. Meglio una fiala di morfina».
Una vita particolare, quella di Veronesi. Come particolare fu la quadrantectomia, la tecnica che mise a punto negli anni Settanta e che oggi permette alle donne con un tumore diagnosticato per tempo, dunque piccolo, di sottoporsi all’intervento chirurgico senza perdere il seno. Fu una rivoluzione, anche perché convinse le donne a cambiare atteggiamento verso gli esami di controllo, prima di allora rinviati o addirittura evitati. L’Italia entrò all’improvviso tra i Paesi più importanti nel campo dell’oncologia, mentre Veronesi divenne una star dei convegni e un inquilino volante dell’Alitalia: «A volte andavo al Cairo giusto il tempo di una cena o a Tokio solo per un’ora di lezione».
ALL’AEROPORTO
In valigia, oltre al passaporto, l’ormai consunta lastra del torace, unico modo per passare senza problemi i controlli degli aeroporti. Il motivo? Colpa di una mina che gli esplose accanto quando aveva diciott’anni. Duecento ferite in tutto il corpo e un frammento d’acciaio che finì troppo vicino al cuore per essere rimosso. È ancora lì, nel corpo del medico più famoso d’Italia. Che quando il metal detector suona, mostra rapido la radiografia.

Repubblica 22.10.09
In Toscana i preti del genocidio
Arrestati due sacerdoti ruandesi: "Hanno massacrato i tutsi"
Dopo Seromba, finisce in carcere anche Uwayezu, vice parroco vicino ad Empoli: "Sono innocente"
di Laura Montanari

FIRENZE - Stessa accusa, genocidio. E stesso rifugio, le chiese della diocesi fiorentina. Dopo padre Athanase Seromba, condannato all´ergastolo per i massacri della guerra civile in Ruanda, l´ultimo caso è quello che ha portato nel carcere di Sollicciano padre Emanuel Uwayezu, 47 anni, il sacerdote ruandese di etnia hutu, vice parroco in una chiesa di Ponzano (Empoli). Uwayezu è stato arrestato dai militari in esecuzione di un mandato di cattura internazionale: la procura generale in Ruanda lo accusa di essere coinvolto nel massacro dei tutsi nel maggio 1994, una primavera di sangue con centinaia di migliaia di vittime.
Padre Emanuel era direttore della scuola di Misericordia di Maria di Kibeho: ottanta studenti fra i 12 e i 20 anni tutsi vennero uccisi. Secondo la denuncia dell´Africa Rights, ong con sede a Londra, il sacerdote non avrebbe fatto nulla per difendere quei giovani circondati dai miliziani hutu e finiti a colpi di machete senza che i gendarmi schierati in loro difesa intervenissero. In pochissimi si salvarono. Uwayezu si è sempre proclamato innocente e l´ha ribadito anche ieri: «Non ero al collegio, ma a colloquio con il vescovo proprio per cercare un modo per mettere in salvo i ragazzi». Il sacerdote ruandese dopo il massacro si è rifugiato prima in Congo e poi è arrivato in Toscana grazie a una convenzione fra le diocesi, Fidei donum. La stessa che soltanto pochi anni prima aveva probabilmente portato a Firenze un altro sacerdote ruandese accusato e poi condannato nel 2008 per genocidio, padre Athanase Seromba. Anche Seromba si era sempre dichiarato innocente ed era scappato dal Paese trovando rifugio prima a Prato e poi a Firenze. Aveva cambiato nome, ma era stato individuato e denunciato dal procuratore del tribunale dell´Onu e alla fine si era costituito. Condannato in primo grado a 15 anni di carcere nella sentenza d´appello la corte del tribunale internazionale per il Ruanda (con sede in Tanzania) aveva trasformato la pena in ergastolo. La presenza di sacerdoti stranieri in Italia, di solito legata alla mancanza del clero necessario a coprire tutte le esigenze pastorali, è regolata da accordi fra vescovi. I legali di don Uwayezu, presenteranno oggi alla corte d´appello di Firenze l´istanza per ottenere gli arresti domiciliari.

Repubblica 22.10.09
Bucarest. Il sangue dell’89
Così cacciammo Ceausescu
di Bernardo Valli

Sul balcone del palazzo, Nicolae Ceausescu si avvicina al microfono, pronuncia le prime parole Dalla folla si levano grida ostili, il dittatore resta a bocca aperta. Nessuno lo aveva mai interrotto Erano le 12,30 del 21 dicembre: quel momento annunciò al mondo la fine del regime
Fu l´ultimo capitolo, e l´unico cruento, di quell´anno cruciale Il racconto di Ion Iliescu, oggi quasi ottantenne, l´uomo che guidò il Paese fuori dal comunismo alla testa del Fronte di Salvezza

La rivoluzione rumena (o la rivolta o il complotto o la congiura internazionale, secondo le varie tesi) fu l´ultimo capitolo, e il solo bagno di sangue, del 1989, l´anno in cui la storia d´Europa ha girato pagina, essendo il comunismo reale entrato in un´agonia irreversibile. Gli atti notarili chiedono tempo e il decesso ufficiale sarà registrato due anni dopo con la dissoluzione dell´Unione Sovietica. Ma l´estremo ictus è il tragico episodio del Natale rumeno, vissuto alla televisione, quasi in diretta, non solo dall´Europa ma dal mondo. Bucarest era in grande ritardo rispetto alle altre capitali satelliti dell´impero in decomposizione. A Varsavia, a Budapest, a Praga, nella stessa vicina Sofia, era già avvenuta la transizione incruenta; a Berlino, il 9 novembre, era caduto il Muro.
Gli occidentali avevano da tempo voltato le spalle a Ceausescu, dopo averlo a lungo adulato per assecondare le sua insubordinazione nazionalista nei confronti di Mosca. E nella stessa Unione Sovietica, dopo una burrascosa visita di Gorbaciov a Bucarest, nell´87, si sopportava sempre meno il caparbio, a tratti sprezzante, rifiuto del regime rumeno ad accettare la decisiva svolta del Cremlino, basata sulla perestrojka e la glasnost (la revisione economica e la trasparenza politica). Ceausescu appariva come l´estremo baluardo di un comunismo irriformabile, ancorato a un dittatore, il cui carattere assumeva sempre più aspetti psichiatrici. E il Paese era sull´orlo di un´esplosione.
Dal 1980 scarseggiava persino il pane. L´industria costava di più di quel che produceva. Con uno scatto d´orgoglio Ceausescu aveva deciso di rimborsare al più presto i debiti accumulati dal Paese. E allora cominciò il calvario. La gente non moriva di fame, ma la malnutrizione allungava le file, anche notturne, davanti ai negozi d´alimentari vuoti. Nei mesi d´inverno, durante i quali mancava spesso la corrente, i rumeni dormivano vestiti, con i guanti. E poi c´era stata la proibizione dell´aborto, che aveva moltiplicato le tragedie, poiché gli aborti, spesso per evitare figli che non si potevano mantenere, venivano fatti clandestinamente e senza sicurezza. In quegli stessi anni di miseria, Ceausescu aveva fatto costruire uno dei palazzi più grandi del mondo, foderato di legni preziosi e di marmi. E nel cantiere avevano lavorato operai malpagati e denutriti. Schiavi del XX secolo.
Cosi si arriva al dicembre dell´89. La cronologia degli ultimi avvenimenti è scrupolosa. Non sgarra di un minuto. Oscuro, incerto, resta invece il retroscena di quei fatti. Ed enigmatico il ruolo dei protagonisti. Alle 14,50 del giorno di Natale, in una caserma a neppure cento chilometri da Bucarest, sono sbrigativamente fucilati Nicolae ed Elena Ceausescu e con loro si spegne il comunismo paranoico, alla cui testa non c´era più da tempo il partito ma la famiglia: la famiglia dei coniugi Ceausescu. La quale, come se cercasse il riscatto di una lunga sinistra megalomania, ha un sussulto di dignità davanti alla morte. Marito e moglie negano la legittimità di chi li sta giudicando, respingono gli avvocati difensori e l´idea di un appello, che comunque sarebbe stato negato, e affrontano senza batter ciglio il plotone di esecuzione.
Esecuzione che avviene dopo un processo durato cento minuti e dieci minuti dopo la sentenza, nella città di Dracula: a Targoviste, che si stende sulla riva del fiume Lalomita, ed è l´antica capitale della Valacchia, dove nel Quattrocento governò il crudele Vlad Tepes (chiamato l´Impalatore perché impalava appunto i prigionieri). È alla sua storia che si è ispirato il mito di Dracula. Sulla cui terra immaginaria sono morti sul serio i coniugi Ceausescu.
Quattro giorni prima dell´esecuzione di Targoviste, nel pomeriggio del 21 dicembre, quando Petre Roman esce dal Politecnico e si imbatte nella fragile barricata nei pressi dell´Hotel Intercontinental, che lo coinvolge nella rivolta, Bucarest vive ore di grande tensione. Nella tarda mattina, alle 11,55 (le riprese televisive garantiscono tempi tanto esatti) Nicolae Ceausescu appare sul balcone che si allunga su quasi tutta la facciata, al primo piano, della sede del Comitato centrale. Accanto a lui ci sono la moglie Elena e alcuni eminenti membri della direzione del partito. I quali prendono a turno la parola davanti alla folla compatta, ordinata che riempie la piazza, e condannano unanimi i tumulti di Timisoara.
All´origine di quei tumulti, cominciati a metà dicembre nella città della Transilvania, c´è l´ordine di espulsione per un pastore luterano di origine ungherese, Laszlo Toekes, accusato di pronunciare sermoni irriverenti per il regime. E la popolazione è insorta in sua difesa. La repressione ha fatto e continua a fare decine di morti. E la cifra già alta delle vittime, moltiplicata ad arte, e diffusa dai media internazionali, suscita una forte emozione in Occidente e nei Paesi appena usciti dal comunismo. Al punto da indurre alcune capitali a sollecitare un intervento sovietico per fermare il massacro. Ma non sono più i tempi della "dottrina Breznev", della sovranità limitata mascherata da solidarietà internazionalista. Mosca rifiuta di intervenire, anche perché i suoi servizi segreti sono già in azione. Si dirà più tardi che numerosi agenti del Kgb erano entrati in Romania con l´approvazione, non del tutto passiva, della Cia. Nella nuova Europa che stava emergendo Ceausescu costituiva un´anomalia, un tumore, da estirpare.
Ma il Conducator, come è chiamato Ceausescu, resiste. Conta ancora sull´appoggio del popolo. Per questo ha convocato la manifestazione del 21 dicembre. Dopo i discorsi impacciati dei collaboratori, il dittatore si accosta a sua volta al microfono (sono le 12,30), pronuncia le prime parole e subito dalla folla partono grida che suonano ostili; o rivelano il panico, poiché nello stesso momento migliaia di uomini e donne cominciano ad agitarsi, e a riversarsi nelle strade vicine. Ceausescu tace, resta a bocca aperta, stupito. Dal 1965, quando è succeduto a Gheorghiu-Dej alla testa del partito, non gli è mai accaduto di essere interrotto in pubblico, in modo cosi plateale. Gira lo sguardo smarrito verso destra per seguire i movimenti della folla che cerca di disertare la piazza spinta dalla paura della rituale repressione. Sul balcone Elena Ceausescu dice ad alta voce: «Vine Secu!». Che vuol dire appunto: «La Securitate arriva». Ma l´annuncio non ha un seguito immediato.
L´immagine diffusa dalle televisioni di tutto il mondo annuncia chiaramente la fine del dittatore e del regime. Anche se Ceausescu riprende poi il discorso ed esorta alla lotta per l´indipendenza del Paese («minacciata da forze straniere»), e promette un aumento dei salari del 10 per cento, e degli assegni familiari e delle pensioni. Ma è troppo tardi per comperare il potere sfuggito di mano. A qualche centinaio di metri dalla piazza si alzano le prime barricate di Bucarest. Dietro una di queste c´è Petre Roman.
Ion Iliescu porta bene i quasi ottant´anni, e il peso della lunga agitata esistenza di militante e dirigente comunista, e poi di primo presidente della Repubblica rumena postcomunista (riconfermato nella carica per un secondo mandato). La mattina del 22 dicembre 1989 - mi racconta Iliescu - lui era nel suo ufficio di direttore delle Edizioni tecniche. Là era stato relegato, come ingegnere e professore del Politecnico, e come sorvegliato dalla Securitate in quanto elemento «accusato di intellettualismo», dopo essere stato via via privato di tutti gli alti incarichi ricoperti nel partito e nel governo. Verso mezzogiorno lo avvertono che degli elicotteri si sono posati sul tetto del palazzo del Comitato centrale. E allora si mette davanti a un televisore. Curiosamente la «rivoluzione» continua ad essere trasmessa in diretta.
Nella notte tra il 21 e il 22 dicembre, il Conducator si rende conto di essere ormai isolato. I suoi ordini non sono più eseguiti. L´esercito e la Securitate sono intervenuti per contenere le manifestazioni, hanno moltiplicato i morti, ma la loro azione si è rivelata troppo fiacca o scoordinata. Nella mattina del 22, il ministro della Difesa, Vasile Milea, viene trovato morto in un ufficio che non è il suo, e si dice che si sia suicidato. Ceausescu si sente tradito, ma compie un ultimo tentativo: convoca il Comitato politico esecutivo e proclama lo stato di guerra su tutto il territorio nazionale. La decisione non suscita reazione nei presenti. Le sue parole non contano più. E allora, armato di un altoparlante, il Conducator si affaccia al balcone del Comitato centrale e si rivolge alla folla assiepata sulla piazza. Ma la folla è ormai apertamente ostile e non vuole ascoltarlo. La sua voce è coperta da un altoparlante più potente che sotto il balcone ripete: «Non dategli retta. Non deve aprir bocca». Cosi nessuno conoscerà mai l´ultimo appello di Ceausescu. Alle 12,08, insieme alla moglie Elena, sale su un elicottero che si alza dal tetto del Comitato centrale e si dirige verso nord.
Ion Iliescu vede sullo schermo l´elicottero che si invola, portando con se la coppia presidenziale, e subito si dà da fare per formare il Consiglio del Fronte di salvezza nazionale (estraneo al vecchio Fronte clandestino che diffondeva scritti contro la dittatura). Il compito del nuovo organismo, in apparenza creato sui due piedi, è di assumere il potere abbandonato dal dittatore in fuga. Il primo appuntamento è davanti alle telecamere, che senza esitazione inquadrano Ilieuscu quale naturale capo del Fronte, di cui non si conoscono ancora i componenti. I candidati sono tanti, sono sempre più numerosi da quando l´elicottero dei Ceausescu è scomparso nel cielo di Bucarest, ma molti vengono respinti, perché troppo compromessi col regime. In quelle ore gli annunci rivoluzionari ricalcano il linguaggio di sempre: si condanna il dittatore in fuga, non ancora il comunismo. Anzi alcuni gli rimproverano di avere tradito il comunismo. Coloro che cavalcano al momento la rivolta sono tutti comunisti, o perlomeno sono iscritti al partito, in procinto di passare dalla tessera del pc alla tessera del Fronte.
Mentre la folla, esaltata dalla partenza di Ceausescu, invade il palazzo del Comitato centrale senza più incontrare una seria resistenza di poliziotti e militari, in città si continua a sparare. Iliescu ricorda: «Era già scuro, verso le sei e mezza di sera, e le pallottole fischiavano da tutte le parti, tanto che abbiamo dovuto interrompere una riunione del Consiglio appena formato». La confusione è tale che, non sapendo se reprimere o ribellarsi, nella notte i reparti della polizia e dell´esercito si scontrano e si uccidono tra di loro. Sui 1.033 morti di quei giorni, 270 sono militari. Il traffico di cadaveri è intenso. A Timisoara vengono riesumati quelli ricuciti dopo un´autopsia e spacciati per "freschi", al fine di gonfiare il numero delle vittime dell´esercito e della Securitate. A Bucarest Elena Ceausescu ordina, ed è stata una delle sue ultime decisioni, di incenerire quaranta corpi, per nascondere le vittime dell´esercito e della Securitate.
Al Consiglio di trenta e più membri, scelti «a caso o a memoria», appartiene anche Petre Roman. La sua presenza su una delle prime barricate non è passata inosservata. Il professore quarantenne ha saputo arringare operai e studenti. Oltre alla sua capacità di comando, ha colpito l´abilità di parlare alla gente. Il suo nome non era certo sconosciuto all´"aristocrazia" comunista di cui il padre, morto cinque anni prima, aveva fatto parte con alterna fortuna, e di cui lui stesso era inevitabilmente un esponente, pur non avendo mai partecipato direttamente al potere. Era iscritto al partito, ma gli iscritti erano più di quattro milioni, e un professore universitario doveva avere la tessera. La società politica di Bucarest era abbastanza ristretta. Quarant´anni di comunismo avevano intrecciato solidarietà e ostilità, dosate dalla buona o cattiva sorte, dalle svolte politiche e dalle scelte ideologiche, oltre che dagli umori del despota e di sua moglie. Le frequentazioni e le complicità erano come un labirinto.
Ion Iliescu e Petre Roman, pur non essendo legati da un rapporto particolare, sono diventati il presidente e il primo ministro della Romania subito dopo la morte di Ceausescu. Entrambi sostengono la tesi della rivoluzione, dell´insurrezione spontanea. Escludono quella del colpo di Stato. O della congiura internazionale. Non hanno del tutto torto. Come si chiama, se non rivoluzione, un cambio di regime, di sistema politico e sociale, sia pur graduale, a singhiozzo, accompagnato da una rivolta popolare, sia pur confusa? Quando gli ho ricordato l´ingresso in Romania, all´inizio del dicembre 1989, di numerosi agenti russi, Iliescu ha reagito dicendo che in una situazione come quella di vent´anni fa era inevitabile che affluisse nel Paese una vasta varietà di servizi segreti. Dal Kgb alla Cia.
E la sbrigativa esecuzione dei coniugi Ceausescu? Fu il Consiglio del Fronte di Salvezza a decidere il processo speditivo di Targovistele. Elena e Nicolae Ceausescu erano stati catturati e tenuti prigionieri in quella città. Era una decisione politica inevitabile, perché la morte del dittatore avrebbe messo fine allo spargimento di sangue nel Paese. È quel che sostengono Iliescu e Roman, in quelle ore uniti, ma poi diventati avversari politici.
D´accordo, è stata una rivoluzione. Ma l´immediata scelta di Ion Iliescu come capo del Fronte di Salvezza nazionale fa inevitabilmente pensare a una rivoluzione preparata, guidata. Come del resto la rapida ascesa del professor Petre Roman, che si distingue sulle barricate, e pochi giorni dopo è primo ministro. Ion Iliescu era conosciuto da Gorbaciov. Avevano frequentato insieme l´Istituto Molotov di Mosca. Era un dirigente comunista colto (ingegnere idraulico, professore universitario, poliglotta), al contrario di Ceausescu che, come la moglie, nonostante i titoli accademici che si era attribuito, leggendo i discorsi inciampava spesso in grossolani errori di grammatica e sintassi. Dei quali si vantava perché ricordavano le sue umili origini.
Iliescu era stato un apparatchik modello fino al 1971. Era allora, diciotto anni prima, ministro della Gioventù e segretario per l´ideologia del Comitato centrale. La sua disgrazia comincia con un viaggio in Estremo Oriente, a fianco di Ceausescu. Il quale si entusiasma, a Pechino, durante l´incontro con Mao che gli spiega la rivoluzione culturale. Anche lui, Ceausescu, farà la sua in Romania. Ma qualche giorno dopo, a Pyongyang, è affascinato da Kim Il Sung. Ammira il culto della personalità di cui si circonda il presidente nordcoreano. Guarda con invidia i palazzi in cui vive ed esercita il potere. E decide che Kim Il Sung è il leader comunista cui ispirarsi. Iliescu lo contraddice, cerca di dissuaderlo dal prendere come esempio il satrapo asiatico. È una follia. Ceausescu lo accusa di intellettualismo. E via via lo mette in disparte. Nel 1989 Ion Ilieuscu è l´uomo su cui possono contare coloro che (soprattutto a Mosca) vogliono togliere di mezzo l´incontrollabile Conducator.

Repubblica 22.10.09
Sonno. Con una pillola puoi farne a meno
La soluzione del team Usa interviene sull´area dell´ippocampo
di Elena Dusi

Ricercatori dell´Università della Pennsylvania sperimentano un farmaco che manipola gli enzimi del cervello Scopo: far riposare anche chi non riesce a dormire. Un´emergenza che riguarda il 55 per cento degli adulti

Per chi considera il sonno un nemico, si apre la strada per barattare una notte di riposo con una pillola. Una medicina capace di ridare smalto a una testa appesantita da troppe ore a occhi aperti è in sperimentazione all´università della Pennsylvania, a Filadelfia. Promette, manipolando gli enzimi del cervello, di mimare gli effetti del dormire, illuminando ancora di più notti già colonizzate da lavoro, studio o voglia di divertimento. E punta a risolvere quello che sembra essere diventato oggi uno dei problemi principali della società: restare svegli.
Finora della pillola contro la carenza di sonno hanno beneficiato alcuni topolini di laboratorio, sottoposti ai test preliminari nel corso degli ultimi mesi. Ma Ted Abel, il coordinatore dell´équipe di ricercatori americani, si rende perfettamente conto delle enormi potenzialità che il suo farmaco ha, andando a toccare, come spiega, "uno dei problemi più importanti della nostra società, cronicamente affetta da carenza di sonno". I risultati preliminari dei suoi studi sono pubblicati oggi su Nature.
La mancanza di riposo – riportavano a giugno i dati del congresso degli esperti di medicina del sonno americani – riguarda il 55 per cento degli adulti, che dorme non più di 7 ore contro le 8 consigliate. In Italia 41 milioni di persone usano il caffè per tenersi svegli, e in 4 milioni superano la dose massima consigliata di 5 tazzine al giorno, come segnalano i dati dell´Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione. Ecco allora che i neuroscienziati sono partiti alla caccia di una preda ghiotta: un´alternativa alla caffeina, un composto chimico in grado di mimare gli effetti del riposo, concentrando 8 ore di quello che è considerato "tempo improduttivo" nei pochi secondi necessari a inghiottire una pillola.
La soluzione che Abel propone va a toccare l´ippocampo, l´area del cervello che interviene nel processo di memorizzazione, e una di quelle più compromesse dalla mancanza di riposo. "Abbiamo identificato – spiegano i ricercatori – il meccanismo attraverso il quale la mancanza di sonno altera il funzionamento dell´ippocampo. La carenza di riposo causa nel cervello l´aumento dell´enzima Pde4 che a sua volta distrugge la molecola cAmp, il cui ruolo è quello di rendere efficiente il processo di memorizzazione". Già in passato si era scoperto che una buona nottata di sonno rende più facile lo studio e l´apprendimento, al contrario delle ore trascorse sotto a una lampadina prima degli esami.
Con una medicina capace di contrastare gli effetti di Pde4, riportando in alto i livelli di cAmp, Abel ha ripristinato in parte la memoria nell´ippocampo. Il principio attivo usato si chiama rolipram, è stato iniettato nei topolini costretti a dormire non più di 5 ore e poi sottoposti a test cognitivi. Si tratta di una sostanza già nota come antiinfiammatorio e non è il primo ritrovato che gli scienziati americani sperano di usare per combattere gli effetti dell´insonnia. A febbraio del 2008 alla Columbia University annunciarono dei risultati positivi con la stimolazione magnetica transcranica e a dicembre dell´anno prima fu la Wake Forest University a iniettare nelle scimmie private del riposo una sostanza detta orexina.
Ma il mondo del sonno, in realtà, è assai più complesso del gioco di una coppia di enzimi e la caccia a un valido sostituto del riposo notturno è ben lungi dall´essere vicina alla meta. Del dormire in fondo non si sono ancora comprese le ragioni. Dire che il sonno riposa è una risposta troppo generica e c´è chi ipotizza addirittura che stare fermi durante le ore buie avesse un tempo lo scopo di tenerci alla larga dai predatori. Oggi si è scoperto che dormire poco non ha effetti solo su memoria e apprendimento, ma favorisce obesità, depressione e alterazione dei cicli ormonali. Un gioco, quello del dormire, assai più complesso e ramificato dell´azione di una singola pillola.

Repubblica 22.10.09
Le piccole donne di Lombroso
Così la misoginia diventò una scienza
Esce la nuova edizione della monumentale opera dello studioso
di Natalia Aspesi

Viene fatta una divisione in tre categorie: delinquenti, prostitute e normali
"Ma anche quando sono spose esemplari hanno caratteri da creature selvagge"

Con il massimo tempismo, Cesare Lombroso torna tra noi: la nuova casa editrice, "et al.", ripubblica il suo celebre e funereo La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, scritto assieme al giovane Guglielmo Ferrero (assatanato disprezzatore delle donne, che poi divenne suo genero sposando la figlia Gina), testo fondamentale e monumentale (640 pagine, euro 32) della misoginia positivista, uscito per la prima volta e con gran successo internazionale nel 1893 dall´editore torinese Roux. Sarebbe esagerato dire, data la quantità di bizzarrie, e offese e deliri che accumula occupandosi delle donne, che pare scritto oggi, ma insomma… Oggi, il tempo delle volgarità verso le donne non asservite, delle escort invitate in politica, delle minorenni in carriera orizzontale, dell´esposizione mediatica dei corpi femminili, del favore erotico dei potenti verso le donne destinate al loro servizio, della sudditanza adorante di molte al maschio-padrone, del consolidarsi di un muro maschile che non sa più indignarsi e reagire al dileggio, alle provocazioni, al disprezzo verso le donne: come se la maschera civile e democratica stesse cadendo e finalmente si potesse tornare a quel convulso e arcigno ordine patriarcale che tra fine Ottocento e primi del Novecento riuscì, con gran sollievo maschile a sancire scientificamente e quindi inappellabilmente, (allora) l´inferiorità delle donne.
Questa nuova e integrale edizione italiana è arricchita dalla dottissima prefazione della storica Mary Gibson e della criminologa Nicole Hahn Rafter tradotta dal testo pubblicato dalla Duke University Press. Rallegra subito qualche simpatica contumelia verso le donne che, non essendo apertamente criminali e nemmeno prostitute (in questo caso doppiamente criminali, tenendo conto anche che l´adultera è una specie di prostituta), vengono definite "normali". Anche in questo caso però, la donna che si immagina sposa e madre esemplare «ha molti caratteri che l´avvicinano al selvaggio, al fanciullo, e quindi al criminale: irosità, vendetta, gelosia, vanità». La sua atavica perversità anche se inavvertibile, si accentua in certi periodi: «Durante le mestruazioni nulla è più frequente che la menzogna, unita con la cattiveria e l´astuzia, le sleali maldicenze, le delazioni calunniose, le trame perfide, l´invenzione di favole (citato da Icard)».
Quanto all´aspetto tendente alla degenerazione anche nella donna onesta, «sopra 560 donne in un pubblico passeggio, io ne rinvenni: 37 con nei e barba, 34 con mandibole voluminose, 9 con il tipo completo degenerativo». E così per un terzo dell´elefantiaco studio, più tutto il resto dedicato alle criminali e alle prostitute-nate o occasionali, con una mole immensa di citazioni, parametri, scoperte, riferimenti antropometrici, vaneggiamenti. Prima di tutto basta guardarle e misurarle, questa mascalzone, del resto come i maschi nella sua precedente opera L´uomo delinquente (1876): per esempio il pelo. «In 234 prostitute trovammo la distribuzione virile del pelo nel 15%, mentre nel normale era il 6% e nelle criminali il 5%. Viceversa la peluria che va al 6% nelle prostitute russe e nel 2% nelle omicide, manca nelle oneste e nelle ladre».
Cesare Lombroso, medico, psichiatra, antropologo, criminologo, cosmopolita e colto, nato a Verona da famiglia ebrea nel 1835, era cresciuto nel fervore del Risorgimento, da giovane si era arruolato volontario nella seconda guerra d´Indipendenza, in opposizione alla chiesa cattolica era un fervente sostenitore dell´evoluzionismo darwiniano, si era battuto per alleviare la spaventosa miseria del proletariato meridionale, aveva aderito al socialismo. Mentre stava scrivendo La donna delinquente, quasi tutte le sera, a Torino, Lombroso e la famiglia cenavano con la rivoluzionaria e femminista russa Anna Kuliscioff. Era quindi un progressista sincero, purché il progresso non si applicasse alle donne, arrivando anche a sostenere la tesi che, se la criminalità femminile è molto meno diffusa di quella maschile, dipende dal fatto che le donne sono più deboli e stupide degli uomini. La donna criminale ebbe un immediato successo anche all´estero. Proprio in quegli anni la violenza misogina si era fatta impressionante e praticamente tutte le forme della scienza, compresa la nuova sessuologia, parevano impegnate a stabilire l´inferiorità e la pericolosità delle donne, che avevano cominciato a reclamare diritti, istruzione, voto, parità giuridica, lavoro. I testi in questo senso sono montagne: e non sono pochi gli studiosi ad arrivare a conclusioni queste sì criminali, come Paul Adam che in un articolo pubblicato nel 1895 sulla Revue Blanche scrive che l´erotismo della donna è già evidente nel comportamento della bambina. Infatti le bambine tra gli 8 e i 13 anni «provano un perverso piacere mentre per pochi centesimi guardano uomini di mezza età che mostrano le loro nudità».
La paura da parte di Lombroso e dei tanti maschi col potere di far passare per scienza i loro incubi socio-sessuali, si stava spostando dalla prostituta nata, creatura aberrante e criminale, alle donne che smettevano di essere "normali" per sovvertire ogni ordine civile con le rivendicazioni femministe. Può sembrare strano che nei decenni successivi L´uomo delinquente dopo essere stato contestato e sbeffeggiato, scomparve quasi del tutto, mentre La donna delinquente continuò ad essere apprezzato e diffuso nelle università. Il fascismo se ne servì, con i suoi nuovi scienziati, per ribadire l´inferiorità della donna, il suo ruolo esclusivamente familiare e per escluderla dalla vita pubblica e dal lavoro fuori casa. Dagli anni ‘70 le studiose femministe della criminalità femminile, scelsero di ignorare Lombroso, se non per l´uso che ancora dominava nelle aule di giustizia, tra periti, avvocati e giudici. E oggi? Ci resta a conforto la fisiognomica: guardare in televisione certe facce, certi zigomi, certe calvizie, certi lobi dell´orecchio, certi deformazioni craniche, fa venire i brividi, ma può servire a metterci in guardia.

Corriere della Sera 22.10.09
Un convegno nel centenario dell’autore
L’eredità negata di Romano Bilenchi
di Paolo Di Stefano

Romano Bilenchi è uno dei grandi scrit­tori del ’900 purtrop­po quasi spariti dalla memoria dei lettori. Ben venga­no dunque le iniziative che, in occasione del centenario della nascita (il 9 novembre), ne ri­portino a galla il ricordo. Tra queste, un convegno sul per­corso editoriale, che si tiene og­gi all’Università Statale di Mila­no (ore 9.30, via Festa del Per­dono), organizzato da Alberto Cadioli. Cui si aggiungerà a bre­ve la riproposta, per la Bur e a cura di Benedetta Centovalli, delle sue opere, nate nel solco della lezione toscana di Tozzi. Con una prosa dalla geometria limpida e scarna, consegnata a veri e propri capolavori brevi come il romanzo Conservato­rio di Santa Teresa o i racconti

La siccità, La miseria e Il gelo.

All’incontro milanese (parle­ranno, tra gli altri, Corrado Stajano, Piero Gelli, Goffredo Fofi, Maria Antonietta Grigna­ni, Ermanno Paccagnini) si ag­giungerà, il 12 e 13 novembre, un nuovo convegno a Colle Val d’Elsa (luogo di nascita di Bilen­chi).

Bilenchi non è stato scritto­re di bestseller e lo dimostra­no, sin dagli anni Trenta i suoi accidentati percorsi editoriali che verranno illustrati da Anna Longoni. Fu un inizio non faci­le, testimoniato da un ricco epi­stolario: a proposito del suo primo libro, Il capofabbrica, che uscirà nel ’35 per le edizio­ni «Circoli», Bilenchi ricordò che dovette modificarne la fine «perché non apparisse così 'sovversivo' come molti aveva­no intuito». Persino Vallecchi e Bompiani lo rifiutarono. Ma pur militando sempre a sini­stra, e fino ai fatti d’Ungheria nel Pci, Bilenchi non fu mai un vero «sovversivo». Uno dei suoi massimi estimatori, Gian­franco Contini, ebbe qualche rimpianto perché l’attività gior­nalistica (prima al «Nuovo Cor­riere » e poi alla «Nazione») aveva finito per sacrificare il Bi­lenchi narratore.

È vero che la sua opera si rac­coglie in pochi volumi, ma il suo periodare «primitivista» e la ricerca artigianale della scrit­tura non avrebbero forse potu­to produrre molto di più. Ci so­no però le lettere. Nicoletta Trotta, indagando nell’epistola­rio consegnato al Fondo Mano­scritti di Pavia (i suoi autografi furono la prima acquisizione di Maria Corti), mette a fuoco i rapporti intensi che Bilenchi ebbe con gli amici scrittori, che vanno da Gadda a Bigon­giari, da Palazzeschi a Caproni, dalla Morante a Luzi in un arco cronologico di oltre un cin­quantennio fino alla morte, av­venuta il 18 novembre 1989.

Se qualcuno avesse bisogno di un suggerimento autorevole per accostarsi ai suoi racconti, ascolti l’entusiasmo con cui gli si rivolge Elsa Morante nel ’41, dopo averlo ringraziato per un delizioso panforte senese: «Au­guri di buon lavoro, caro Bilen­chi, e di scrivere presto qualco­sa di così bello come La sicci­tà .

Non potrei dirle qualcosa di più bello, perché davvero mi pare difficile. Voglio dire, Lei potrà raccontare molte altre co­se, ma in questo libro possiede il senso ideale di come le cose vanno raccontate. Se il mio en­tusiasmo per questo libro Le potesse venire significato in modo tangibile, Lei si trovereb­be addirittura in mezzo a un te­atro, fra migliaia di applausi».

Aki-Adnkronos 21.10.09
Libri: Haddad, da "Il ritorno di Lilith" una speranza per tutte le donne oppresse
"Spero sia punto d'incontro tra Medioriente e Occidente


Roma, 21 ott. -(Aki) - "Spero che questo libro rappresenti una speranza per la donne arabe oppresse, ma anche per quelle italiane, e che sia un punto d'incontro tra Medioriente e Occidente". E' quanto ha affermato ad AKI - ADNKRONOS INTERNATIONAL la poetessa e giornalista libanese Joumana Haddad, in Italia per presentare il suo nuovo volume 'Il ritorno di Lilith' (ed. L'asino d'oro), disponibile da domani in libreria.
La poetessa spiega i motivi che l'hanno spinta a scrivere un'opera in cui viene riportato alla memoria dei lettori il mito antichissimo di Lilith, la prima donna creata, che non volle sottomettersi ad Adamo, ma che anzi lo abbandonò nel paradiso con un atto di disobbedienza. "Ci sono tanti cliché sulla donna araba in Occidente - afferma la Haddad - la maggior parte ritiene che tutte le donne arabe sono oppresse e velate. E' una tendenza a generalizzare, mentre in verità ci sono molte più sfumature e c'è anche un altro modello di donna nella società araba, emancipata e libera, che si batte per i suoi diritti".
'Il ritorno di Lilith', la prima opera integrale della Haddad in italiano, è un libro scritto "con le unghie", secondo la poetessa libanese per la quale "scrivere è innanzitutto un atto fisico, violento e aggressivo, ma solamente nei confronti di me stessa". "E' qualcosa - afferma - come scavare con le unghie nella carne per andare a pescare i segreti, i misteri, le parole nascoste che ci sono in me".
La Haddad in Libano è caporedattrice di 'Jasad', una rivista in lingua araba specializzata nella letteratura e nelle arti del corpo, all'interno della quale vengono trattati argomenti come la sessualità e i diritti delle donne, temi di cui è difficile parlare nella società araba. "Jasad è una rivista per uomini e donne - afferma la Haddad - che affronta il tema del corpo, anche se non è facile trattare questo argomento nella mia lingua e nel mio mondo. Eppure, se torniamo ad alcuni scritti in lingua araba di mille anni fa ci sono testi che parlano del corpo e dell'erotismo con una semplicità che scioccherebbe anche lo scrittore occidentale più aperto".
La poetessa libanese non teme ritorsioni da parte dei gruppi religiosi più estremisti. "Quando ho scritto 'Il ritorno di Lilith' non ho pensato che gli estremisti fossero un ostacolo alla sua realizzazione - sostiene - Ero appassionata dall'idea di scrivere quest'opera e l'ho fatto, anche se molti credono che mi sia gettata nel fuoco".
L'ultimo pensiero della Haddad è per Rania, la regina di Giordania, in visita ufficiale a Roma. "Ho tanto rispetto e ammirazione per la regina Rania - dichiara la scrittrice - perché non accetta il modello stereotipato della donna araba oppressa che non ha potere e che vive lasciandosi andare al volere dell'uomo".
(Spi/AKI)