sabato 7 aprile 2012

l’Unità 7.4.12
Intervista a Pier Luigi Bersani
«Vinta la battaglia dell’articolo 18, nessuno ora tenti colpi di mano»
Il leader del Pd: «Le regole sono importanti, ma la priorità è creare occupazione
Subito una legge sui partiti: devono dare garanzie su bilanci e democrazia interna»
di Simone Collini

Nei mesi scorsi molti hanno pensato che davanti a un tema di questo genere si potesse frantumare il Pd. E invece mi pare che le cose siano andate in modo molto diverso...». Pier Luigi Bersani in queste ore evita di infierire sulla Lega (e anzi alla domanda sulla crisi del Carroccio risponde con un ragionamento sulla possibilità di recuperare le tradite «ragioni originarie» che hanno portato alla nascita di quella forza politica), mentre nota che la riforma del mercato del lavoro sta creando problemi «in casa d’altri», non nel suo partito: «Questo dovrebbe dire qualcosa a chi ha sottovalutato l’unità, l’autonomia e la forza del pensiero e delle proposte del Pd».
Nel disegno di legge sul lavoro è stata inserita la possibilità del reintegro per i licenziamenti economici illegittimi, ma ora il Pdl chiede “nuove intese” al governo, se vuole i loro voti: c’è il rischio che il testo esca stravolto dalla discussione parlamentare? «Serve un dibattito rapido ma serio, che faccia emergere gli elementi da rafforzare sia dal lato delle esigenze poste dalle imprese che da quello riguardante i precari. Ma questo dovrà avvenire nel solco dell’equilibrio trovato».
Un equilibrio buono per voi, ma non per altri...
«Tutta questa vicenda ha sofferto un’ambiguità iniziale, riguardante il messaggio che si voleva dare». Cioè?
«Una volta approvata la più rilevante riforma delle pensioni che si sia vista in Europa, e che peraltro presenta un buco rilevante sugli esodati che andrà sanato, qual era il messaggio da dare? Di deregolazione o di ri-regolazione secondo le migliori esperienze europee? Questa ambiguità ha accompagnato tutta la discussione. Ora ci potrà essere anche un perfezionamento, ma è stato trovato un punto di equilibrio che viste le premesse è molto importante e va mantenuto».
Anche se Marcegaglia ha detto al “Financial Times” che la riforma è “pessima”? Anche se Di Pietro e Vendola, nonostante la battaglia del Pd sul reintegro, dicono che il testo costituisce un attacco all’articolo 18? «Non intendo ascrivere esclusivamente al Pd il merito della presenza nel disegno di legge del reintegro, chiesto da sindacati, autorità morali, opinione pubblica. Dopodiché, che ci sia una modifica dell’articolo 18 per come lo abbiamo conosciuto fin qui è evidente, e quindi è malafede dire al mondo che abbiamo le stesse rigidità di ieri. Stupisce sentire commenti distruttivi da parte di Confindustria, soprattutto quando ci si rivolge all’opinione pubblica internazionale e quando tutti sanno che per il 95% questo disegno di legge risponde al lavoro impegnativo fatto per tre mesi dalle forze sociali».
E il reintegro come “miraggio”, per dirla con Di Pietro?
«Non è così. È previsto quando vi siano insussistenti motivazioni economiche».
Anche se Monti ha sottolineato che il giudice “può”, non “deve” decidere per il reintegro?
«Sono convinto che il giudice, di fronte a un’insussistenza conclamata di motivazioni di tipo economico, si comporterà in coerenza. È determinante che sia rispettato il principio che non può esserci la sola monetizzazione del rapporto di lavoro. Principio che abbiamo sempre posto e che è stato ben compreso da un’opinione pubblica larghissima. È stato fermato il rischio di introdurre in un momento così difficile elementi di ansia, il sospetto di voler indebolire i rapporti di forza tra aziende e singolo lavoratore, addirittura di voler isolare la condizione lavorativa».
Il Pd quali aggiustamenti chiederà in Parlamento?
«Bisogna vedere come colmare il vuoto sugli ammortizzatori per i lavoratori parasubordinati, come ribilanciare i contributi pensionistici per il lavoro dipendente e per i lavoratori parasubordinati. Ma per noi resta un punto dirimente anche la questione degli esodati, su cui attendiamo provvedimenti da parte del governo».
La riforma del lavoro è approdata in Parlamento e però lo spread è ancora a livelli di guardia: sicuri che sia stata imboccata la strada giusta?
«Questa riforma è importante, ma non facciamo di queste norme l’alfa e l’omega di tutta la questione, anche perché è una favola che il mondo ci guarda per quel che facciamo sull’articolo 18. Più importante di ogni altra cosa adesso è la politica economica e come dare un po’ di lavoro. Ci si sarà accorti che perfino il “Wall Street Journal” dice che l’elemento critico della situazione italiana ed europea è il rischio di un avvitamento disastroso tra austerità cieca, recessione e mancata tenuta dei conti pubblici?».
Si torna a parlare di una legge sui partiti, per l’ennesima volta...
«Nei prossimi mesi saremo di fronte a un passaggio drammatico, in cui dovremo decidere se vogliamo consegnare alle prossime generazioni una democrazia costituzionale, occidentale, o se ci arrenderemo a un’eccezionalità italiana che passa da un populismo all’altro. Se è verso la prima che vogliamo andare, dobbiamo prendere di petto il tema della democrazia dei partiti, che devono rispondere non solo ai propri iscritti ma all’intero sistema, dare garanzie su bilanci, codici etici, partecipazione interna, candidature». Come si capisce se è la volta buona? «Ho chiesto ad Alfano e Casini di trovare il minimo comun denominatore tra le nostre proposte. Bisogna cominciare dalla certificazione dei bilanci, dalla loro pubblicazione su internet, dall’abbassamento a cinque mila euro per le donazioni per cui non è necessaria una dichiarazione. Per noi va privilegiata l’urgenza e si deve dare un segno che cominciamo a fare sul serio».
C’è chi sostiene che per fare sul serio vadano aboliti i rimborsi elettorali: lei che dice?
«Ci sono stati tagli considerevoli negli ultimi anni e ora una seria riforma va fatta, ad esempio si deve stabilire che quando un partito non c’è più non deve più ricevere finanziamenti. Ma in tutti i paesi occidentali è prevista una forma di finanziamento alle attività politiche ed è giusto che sia così, perché altrimenti si cade nell’oligarchia o nel dominio». Le vicende leghiste dicono che siamo alla fine dei partiti personali? «L’elemento personale ha giocato molto, per quel che riguarda la Lega, ma non alla Berlusconi. C’è stato un cortocircuito tra l’elemento personalistico e un centralismo che ha sospeso l’elemento partecipativo. Basti pensare che la Lega, che comunque vive nel territorio, non fa un congresso federale da dieci anni. Ma non scordiamo che in questo momento è il partito che ha il nome più antico, e penso che le ragioni di fondo che ne hanno determinato l’arrivo non siano scomparse».
Cosa intende dire?
«Quello che ho sempre detto, anche davanti ai militanti leghisti. E cioè: dov’è finita la vostra ragione originaria? La Lega è nata come forza antiburocratica, autonomistica, e costruita nella critica a tangentopoli. Tutto questo via via è stato perso e sostituito con una fisionomia separatista, xenofoba, populista, che si è fatta identificare come una politica di potere il giorno che ha preso a braccetto il miliardario. Ora la Lega può riprendere una sua strada solo rivedendo l’atto di nascita perduto in questi anni».
Si preoccupa delle sorti leghiste?
«No, mi preoccupo del fatto che quegli elementi originari devono ancora avere una risposta, dopo che la responsabilità autonomista è stata tradita da un federalismo propagandistico e inefficace e dopo che chi si era presentato difendendo la sobrietà in politica è finito in queste vicende. Oggi tocca anche a noi, non solo per il Nord ma per l’intero Paese, dare le risposte giuste».

Corriere della Sera 7.4.12
Ora Camusso difende la linea del governo
Marchionne: il test della riforma è lo spread. Boom della cassa integrazione
di Antonella Baccaro

ROMA — La Cgil conferma la mobilitazione, scioperi compresi, dopo la modifica dell'articolo 18 sui licenziamenti che ha fatto infuriare Confindustria. E si prepara a seguire l'iter della riforma del lavoro in Parlamento, a partire da mercoledì, quando il testo approderà in commissione Lavoro al Senato: relatori Maurizio Castro (Pdl) e Tiziano Treu (Pd).
«Se qualcuno lo pensa, noi non smobilitiamo» ha detto ieri il leader della Cgil, Susanna Camusso, sia pure sospendendo la raccolta delle firme a sostegno del reintegro. «Pensiamo di aver acquisito il risultato — ha proseguito — e sappiamo anche che da domani quel risultato dobbiamo incominciare a difenderlo. Perché — ha spiegato — da un minuto dopo quei soggetti che vogliono avere licenziamenti facili sono tornati in campo con grande forza per dire che quel risultato proveranno a riaverlo in Parlamento».
E non ha tutti i torti. Nelle file del Pdl c'è grande agitazione. Prova a esplicitarla Giuliano Cazzola, vicepresidente della commissione Lavoro alla Camera: «Non è proprio il caso di parlare di svolta storica a proposito del disegno di legge che conclude la prima fase della riforma del mercato del lavoro — ha affermato ieri —. Di svolte se ne intravvede una sola: all'indietro».
Attendista il manager della Fiat Sergio Marchionne: «La prova dell'efficacia della riforma sui mercati si vedrà dallo spread». Ma «la scelta — aggiunge — era difficile e non è compito mio mettermi nei panni di Monti per cercare di decidere dove è il giusto livello di equilibrio nella modifica dell'articolo 18».
Un equilibrio che si dovrà cercare in Parlamento dove è prevista battaglia. Il presidente della commissione al Senato, Pasquale Giuliano (Pdl), ha annunciato: «Ci saranno le audizioni di tutti gli attori sociali, dai sindacati a Confindustria e Confagricoltura. Ma sentiremo anche un proceduralista». Giuliano è convinto che «servirà un lavoro approfondito». I tempi? «Entro un paio di mesi spero di approdare in aula al Senato» per il primo via libera. «Mi sono assunto l'impegno come presidente, a nome della commissione, dove c'è un clima di grande collaborazione, di portare il disegno di legge in Aula prima dell'estate. Se c'è la volontà comune si può».
«È importante vedere quale sarà la fine del percorso» della riforma, ha commentato Laszlo Andor, commissario europeo all'Occupazione, osservando che per i giovani «l'Italia è uno dei Paesi in cui la situazione è peggiore», perciò «la maggior parte degli sforzi deve essere concentrata nella creazione di posti di lavoro e di opportunità» per loro.
La crisi intanto incalza, come dimostrano i dati record della cassa integrazione resi noti ieri dall'Inps: a marzo le aziende italiane hanno chiesto all'istituto 99,7 milioni di ore di cassa integrazione, con un aumento del 21,6% su febbraio e un lieve calo su marzo 2011 (-1,8%). Si conferma molto elevato il ricorso alla cassa integrazione in deroga, lo strumento più utilizzato, con 37,6 milioni di ore a fronte dei 33,7 della cassa straordinaria e dei 28,3 della cassa ordinaria. Il settore che più sembra essere entrato in sofferenza è quello del commercio: nel mese sono stati autorizzati nel settore oltre 17 milioni di ore, il numero più alto di sempre.
Per la Cgil c'è «il rischio di disoccupazione di massa», mentre l'Ugl parla di «campanello d'allarme» della recessione economica. Proprio l'Ugl si lamenta dell'esito della trattativa sul lavoro: «Nei fatti il reintegro non c'è» sostiene il segretario Giovanni Centrella.
Per chiarire le idee ai lavoratori, il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha dato disponibilità a incontrare i dipendenti dello stabilimento di Alenia a Caselle (Torino) che l'hanno invitata. Ieri sul punto si sono scontrati Fiom e Uilm. «È meglio se non viene» ha tuonato Giorgio Cremaschi (Fiom). «Apprezziamo il coraggio del ministro di accettare il confronto in una fabbrica, su temi tanto spinosi come la riforma del lavoro» ha replicato Maurizio Peverati della Uilm torinese. «In democrazia non si può rifuggire dal confronto, ascoltarci reciprocamente sarà utile a lei e a noi» ha concluso.

l’Unità 7.4.12
Se cade il mito della Cgil che dice solo no
di Francesco Cundari

Nel ventennio che sembra avviato a chiudersi con l’ingloriosa uscita di scena dei suoi massimi beneficiari, Silvio Berlusconi prima e Umberto Bossi ora, il dibattito pubblico è stato funestato da un lungo rosario di frasi fatte. Tante piccole perle della saggezza convenzionale sempre identiche a se stesse e sempre pronte all’uso, che hanno avuto un ruolo non secondario nel contribuire alla sclerosi dell’intero sistema. Tra le prime e più usate di queste perle c’è senz’altro «il conservatorismo sindacale», e in particolare della Cgil, che «sa dire solo no» e così facendo costituirebbe il principale ostacolo alle «riforme» (tutte quante, senza nemmeno bisogno di ulteriori precisazioni).
Come mostrano le dichiarazioni rilasciate ieri da tutti i protagonisti, la battaglia sulla riforma del mercato del lavoro non è ancora conclusa. Ma un fatto appare ormai incontrovertibile: sull’articolo 18 la Cgil si è mostrata più che disponibile a discutere di una modifica in direzione del modello tedesco. Se dunque il problema era «l’anomalia italiana» della disciplina sui licenziamenti che avrebbe penalizzato la nostra competitività, e il «veto» della Cgil che impediva di cambiarla, l’apertura del sindacato a una riforma che introduca le regole in vigore nell’economia più competitiva del continente dovrebbe bastare a chiudere la discussione. E i primi a riconoscerlo dovrebbero essere i tanti che fino a ieri ci hanno spiegato come il vero ostacolo alla riforma sarebbe stato «l’arroccamento» della Cgil, il suo «no pregiudiziale» e la sua «opposizione ideologica» a «qualsiasi ipotesi» di modifica dell’articolo 18. Che abbiano sostenuto questa tesi per semplice pigrizia, preferendo fare copia e incolla da uno qualsiasi dei loro editoriali degli ultimi vent’anni piuttosto che azzardare una diversa ipotesi, o che l’abbiano sostenuta consapevoli della sua debolezza per un’invincibile allergia al sindacato, difficile dire.
Ancora più difficile stabilire poi se il Wall Street Journal che prima tesseva grandi elogi di Mario Monti quale Thatcher italiana e ora ritira gli elogi sia da annoverare tra le vittime di quel dibattito anchilosato, o tra i suoi primi responsabili. Per la tesi della vittima farebbero propendere alcune espressioni, tipiche della polemica italiana, usate con disinvoltura dal quotidiano americano.
Certo qualche problema c’è se i famosi investitori internazionali traggono le loro informazioni sull’Italia da un giornale che nel suo primo articolo di elogio a Monti descriveva il «totemic Article 18» come una norma che semplicemente (citiamo dalla traduzione del Corriere della sera) «vieta alle imprese con oltre 15 dipendenti di licenziare, indipendentemente dagli indennizzi offerti». Proprio così, senza ulteriori precisazioni, nemmeno sul fatto che l’articolo 18 riguarda esclusivamente i licenziamenti illegittimi.
Una stampa liberale che avesse a cuore le sorti del Paese protesterebbe indignata e farebbe di tutto per sfatare una simile leggenda nera, che evidentemente, questa sì, può compromettere il giudizio dei mercati sul nostro Paese. Certo mai e poi mai userebbe simili caricature della realtà per la lotta politica, finendo così per alimentarle. Ma questo è purtroppo un vizio plurisecolare delle nostre classi dirigenti, che raramente, nella storia, hanno resistito alla tentazione d’invocare varie forme di commissariamento internazionale, pur di conservare le loro locali rendite di potere.


l’Unità 7.4.12
La minoranza Fiom appoggia la linea di Camusso

Torna forte la dialettica interna alla Fiom. Se da una parte la segreteria ha dato un «giudizio negativo» sulla riforma del lavoro, sostenendo che il disegno di legge «svuota di valore l’articolo 18», con Maurizio Landini che «non si spiega» il commento positivo della segreteria Cgil, ieri è toccato alla minoranza riformista parlare di «passi in avanti fatti dal governo sulla riforma del mercato del lavoro».
Orfana di Fausto Durante, tocca a Fabrizio Potetti fare il portavoce: «Le modifiche sono il frutto delle iniziative e delle mobilitazioni fatte dalla Cgil e dalla Fiom, a partire dallo sciopero del 9 marzo scorso: sbaglia chi non valorizza quanto fatto». Sull’articolo 18 la posizione è netta: «Nel merito del provvedimento la reintroduzione del reintegro è un elemento fondamentale», precisando però che «sicuramente però nei passaggi parlamentari sarà necessario scrivere meglio alcune parti del testo che, nella versione attuale, potrebbero ingenerare un aumento della confusione e della conflittualità». Simile alla nota della segreteria di Landini la posizione sugli ammortizzatori sociali, sulle crisi aziendali e sul precariato: «Rimangono ancora molti problemi».

l’Unità 7.4.12
Capitalismo in crisi. Intervista a Richard Sennett
«Un’altra via è possibile. Sostituire la flessibilità con la cooperazione»
Il sociologo: «Il neoliberismo isola le persone, eliminando la responsabilità reciproca e dequalificando il lavoro. L’unica strada è la collaborazione»
di Giuliano Battiston

Lo sa qual è una delle caratteristiche peculiari del capitalismo moderno? È quella di isolare le persone, affinché non si sentano reciprocamente responsabili». Tra i più noti e stimati intellettuali contemporanei, il sociologo americano Richard Sennett negli anni 90 ha studiato le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, come recita il sottotitolo di uno dei suoi testi più celebri, L’uomo flessibile (Feltrinelli 1999). Da alcuni anni, invece, ha deciso di interrogarsi su quelle pratiche concrete, abilità tecniche e doti sociali che se esercitate possono arginare e rovesciare la cultura del nuovo capitalismo. Insieme, appena uscito per Feltrinelli nella traduzione di Adriana Bottini (pp. 336, euro 25), è il secondo volume di una trilogia dedicata a questa ambiziosa esplorazione inaugurata con L’uomo artigiano (Feltrinelli 2009). Ne abbiamo discusso con l’autore, incontrato a Roma nell’ambito di una conferenza della Scuola del Sociale della Provincia di Roma.
Per molti cittadini in effetti la crisi economica, e la difficoltà di trovare qualcuno che se ne assuma almeno in parte la responsabilità, sembrano dimostrare una tendenza del capitalismo finanziario di cui parla nel libro: l’abdicazione all’autorità da parte del potere. Ci spiega meglio?
«Il divorzio tra potere e autorità funziona come un meccanismo difensivo per non dover rendere conto agli altri delle proprie decisioni, e riflette la caratteristica peculiare del capitalismo moderno: isolare le persone, affinché non si sentano reciprocamente responsabili. Questa abdicazione viene praticata con la scusa che sia il sistema a operare in quel modo e che quello che ciascuno fa non sia moralmente imputabile. Tuttavia, nel corso dei miei studi su Wall Street mi sono reso conto che persino lì esistono altre forme di capitalismo, che definirei patrimoniali, laddove i “capi” rivendicano il diritto di essere obbediti proprio perché si assumono la responsabilità di prendersi cura dei dipendenti. In Germania questo modello alternativo di capitalismo è molto diffuso, e forse lo è anche nel nord Italia, dove il patron rivendica la sua autorità e il dovere dell’obbedienza in virtù di un rapporto diverso da quello meramente contrattualizzato e monetario».
“Insieme” è il secondo volume del «progetto homo faber», ispirato all’antica idea dell’Uomo come «creatore della vita attraverso pratiche concrete». Ci spiega meglio il filo rosso che lega i tre volumi?
«Come un nome proprio si riferisce a una cosa, una persona o un luogo, così io ho deciso di dedicare tre studi alle pratiche con le quali vengono fabbricati gli oggetti materiali, conformate le relazioni sociali e costruite le città. Nel caso di Insieme, diversamente da altri teorici del capitalismo moderno credo che oggi si assista a una crescente rigidità e burocratizzazione delle relazioni sociali, che le rende “povere”. La capacità “artigianale” di collaborare, di cooperare, dovrebbe essere modellata sul principio dialogico, ma oggi è impedita dal capitalismo moderno. Che non è un capitalismo da “cowboy”, disorganizzato, ma un sistema che prevede una forte concentrazione e formalizzazione del potere, in antitesi alle pratiche concrete della cooperazione, che formano un sistema aperto, al cui interno possano svilupparsi, in modo non meccanico, forme diverse di interazione. Il progetto homo faber ha a che fare con l’idea di un sistema di sviluppo aperto, che liberi le persone dalla rigidità burocratiche del capitalismo».
Eppure i cantori del neoliberismo hanno assicurato finora che il capitalismo flessibile garantisce agli individui maggiori libertà e controllo, liberandoli dai lacci del capitalismo fordista. È solo retorica?
«Lo dimostra il fatto che nel mondo del lavoro sia sempre più diffusa, proprio nelle cosiddette organizzazioni flessibili, l’adozione di un sistema universale di business, che prevede l’applicazione di un unico modello di analisi degli input e degli output a tutti i settori economici. Le attività economiche sono flessibili, ma le strutture sociali che le conformano sono sempre più cristallizzate. L’altro lato della medaglia è la nozione che, se si è flessibili, non si è tenuti a essere responsabili verso gli altri. Sta qui la differenza tra la globalizzazione e l’imperialismo: le colonie di un tempo volevano che i soggetti colo-
nizzati incorporassero i modelli culturali dei colonizzatori, mentre oggi questo non avviene più. Una delle cose più interessanti di questa crisi è vedere quanto stupido possa essere il modo in cui gli uomini ai vertici interpretano le relazioni sociali. Non riescono a capire perché la gente se la prenda con loro per aver mandato all’aria intere attività economiche!». Secondo la sua tesi, se la collaborazione migliora la qualità della vita sociale, il capitalismo moderno indebolisce le potenzialità umane della cooperazione, dequalificandoci...
«Non intendo dire che abbiamo perso la capacità di fare qualcosa, ma che le circostanze non ci permettono di praticarla. Per riprendere una formula di Bruno Latour, mi interessa capire perché non abbiamo mai imparato a usare gli oggetti di cui disponiamo. Nel libro porto l’esempio di Facebook e di altri strumenti tecnologici: spesso hanno l’effetto di non lasciarci concentrare su ciò che gli altri intendono, ci spingono a interessarci al semplice significato esplicito, non ai pre-
supposti taciti. Nella cooperazione, invece, essere qualificati significa puntare l’attenzione su ciò che gli altri intendono pur non trovando le parole per dirlo. È difficile farlo con Twitter e Facebook, gli strumenti per eccellenza della transazione, non della collaborazione».
La cooperazione può essere intesa come un fine in sé, oppure come strumento strategico in vista di un obiettivo diverso, per esempio la solidarietà politica. Lei scrive che nel Novecento la collaborazione è stata pervertita in nome della solidarietà. Cosa intende?
«La “sinistra politica” ha sempre ritenuto che la cooperazione andasse usata come uno strumento per costruire dall’alto l’unità e la solidarietà. Al contrario, la “sinistra sociale” a cui appartengo guarda alla cooperazione come a un fine in sé, un modo per creare un legame tra persone che altrimenti non sarebbero mai state insieme, senza per questo neutralizzarne le differenze. È un tipo di esperienza dal basso verso l’alto, che ricorda il caso di Occupy Wall Street. Se si guarda bene, quel che tiene insieme il movimento non è l’unità, ma le relazioni sociali informali all’interno di una situazione vaga e ambigua tra diversi gruppi sociali e professionali, dai vecchi pensionati ai giovani studenti, dagli impiegati ai sindacalisti. È ciò che rende Occupy un buon esempio di cooperazione».


il Fatto 7.4.12
La rivolta degli ingenui
di Paolo Flores d’Arcais

Tangentopoli era un “piccolo mondo antico” di peccati veniali, rispetto al baratro di debordanti liquami corruttivi in cui è precipitata l’Italia nel quasi ventennio berlusconiano, grazie anche al corrivo atteggiamento bipartisan del centrosinistra sulla giustizia (abbiamo dimenticato che il ministro nominato da Prodi a Largo Arenula si chiamava Mastella?). Ormai siamo alla cupa orgia di illegalità, onnipervasiva, i cui putridumi vengono alla luce in quantità industriale non appena una procura riesca ad avviare un’indagine, rompendo il muro di omertà di politicanti, cricche, “giornalismo” servile e anche magistratura di regime stile P3 e P4, ben ramificata fino ai piani alti e altissimi.
Mitridate, re del Ponto, è passato alla storia per essersi reso immune ai veleni, ingerendone ogni giorno quantità minime ma crescenti. La nostra è una società mitridatizzata rispetto alla corruzione e alla illegalità, e alla dismisura che queste tabi della convivenza civile hanno ormai raggiunto. Questa è la vera e devastante vittoria storica dell’intreccio corruttivo politico-finanziario-mafioso: l’egemonia in cui ha imbozzolato istituzioni e “informazione”, l’assuefazione in cui ha invischiato ormai decine di milioni di cittadini, rendendoli incapaci di indignazione e rivolta.
Diventare un paese normale significa liberarsene. Solo una politica di INGENUITA’ può salvarci. Lucida e consapevole ingenuità, che sbandieri apertamente il programma di ragionevolezza e di equità che impone il buon senso, senza la paralizzante paura di essere accusata di “semplicismo”: per ogni futura “manovra” economica e finanziaria, e per il rilancio in grande del welfare (sanità, asili, salario di cittadinanza), neppure un euro va preso ai ceti medi (e meno che mai a disoccupati, precari, pensionati), ma tutto deve essere a carico dei ricchi, molto ricchi, mega ricchi, cominciando dalle ricchezze illegali della corruzione e dell’evasione (200 miliardi all’anno). Il deterrente sono confisca e manette, strumenti ordinari in quel santo Graal del capitalismo che si chiama America. E l’obbligo in dichiarazione dei redditi di “qualsiasi rapporto bancario di cui si abbia disponibilità”. E pene draconiane per il reato di ostruzione di giustizia, di falso in bilancio, di falsa testimonianza. E abrogazione della prescrizione dopo il rinvio a giudizio. E nel 2013 una “lista dell’ingenuità” di sindacalisti, magistrati, preti di strada. Estremismo? Allora ci si accomodi in terza classe sul Titanic, a ingrassare i grassatori di sempre, e amen.

Corriere della Sera 7.4.12
Un muro contro muro che ricorda le reazioni ai tempi di Mani pulite
di Massimo Franco

L' impressione è che la Lega non abbia capito, o finga di non comprendere in quale palude può affondare la sua nomenklatura; e a ruota l'intero Carroccio. Più emergono particolari sul modo in cui agivano i vertici del partito, più suonano lunari le disquisizioni sulla possibilità o meno che Umberto Bossi, dimessosi giovedì, si ricandidi segretario; gli insulti alla magistratura accusata di complotti; e i tentativi di salvare il fondatore, scaricando le responsabilità solo sul cosiddetto «cerchio magico» che lo ha sostenuto e quasi imprigionato dopo la malattia del 2004. A dare retta alle carte, la testa del partito più antico del Parlamento italiano appare in mano a una corte famelica e spregiudicata fino alla spudoratezza.
A meno che il Carroccio non l'abbia capito fin troppo bene. Il modo duro, sprezzante col quale i suoi capi si difendono, ricorda la disperata resistenza di alcuni leader della Prima Repubblica inseguiti dalle inchieste di Mani pulite nel 1992-93: quelle che la Lega appoggiava ed esaltava, e dalle quali ottenne un supplemento di legittimazione elettorale. Ma il sospetto è che, come Tangentopoli allora, adesso quella che è stata chiamata «Padanopoli» preluda ad un'accelerazione del crollo della Seconda Repubblica. E che Bossi, salvato e quasi beatificato da militanti abituati a vederlo come un politico frugale e integerrimo, possa essere travolto con la sua famiglia.
Per il sistema dei partiti, ma anche per le istituzioni, il problema sarà quello di evitare che una difesa disperata fatta di colpi di coda e deriva rissosa, accentui i giudizi liquidatori dell'opinione pubblica; e dia all'antipolitica una spinta decisiva. Quando il vicepresidente del Senato, Rosi Mauro, donna-ombra di Bossi, fa sapere tramite il suo avvocato che non si dimetterà dalla carica, materializza questi pericoli. Sembra trascurare la situazione imbarazzante che si potrebbe creare se ad esempio fosse chiamata a presiedere una riunione nell'Aula di palazzo Madama.
Il sospetto è che il leghismo si prepari a scegliere una strategia non solo di resistenza ma di demonizzazione delle inchieste. Il paradosso è che mentre il vincitore della lunga faida padana, l'ex ministro dell'Interno Roberto Maroni, chiede di «fare pulizia», il partito si arrocca: compreso un Bossi che potrebbe essere coinvolto nelle magagne finanziarie del Carroccio più di quanto sembrasse nelle prime ore. C'è da aspettarsi insomma un indurimento del «tanto peggio tanto meglio» già scelto contro il governo dei tecnici. Opposizione totale al premier Mario Monti; e adesso, guerra contro un'inchiesta che «puzza», secondo Bossi, perché sarebbe stata decisa da «Roma padrona».
È una raffigurazione di comodo della realtà, che può reggere nel breve periodo ma promette di sgretolarsi quando il quadro delle indagini diventerà più chiaro; e, pare di capire, devastante per la Lega. Anche perché sta già cominciando quella resa dei conti fra «maroniani» e bossiani, foriera di tensioni ancora più profonde per la tenuta del triumvirato che dovrebbe sostituire la leadership di Bossi. Più che un compromesso, giovedì è stata siglata una tregua fra il vecchio partito e l'«altro Carroccio» sognato da Maroni. Ma le inchieste, la paura di finire male e i malumori dei militanti lasciano prevedere un armistizio di breve durata; e un «si salvi chi può» che rischia di trasformarsi in cannibalismo politico.

Repubblica 7.4.12
La bancarotta della politica
di Guido Crainz

I nodi sono giunti al pettine. I due partiti fondativi della "seconda Repubblica" sono attraversati da una crisi probabilmente irreversibile, e i punti di somiglianza sembrano prendere il sopravvento sulle diversità.
Non solo e non tanto per gli aspetti più superficiali ed evidenti: la crisi di entrambi è stata progressivamente scandita dal pur differente tracollo dei due padri-padroni che li hanno forgiati e dominati, assolutamente incapaci di porsi il problema del ricambio. Portati a far crollare con sé le colonne del tempio, in un cupio dissolvi che si è arrestato solo sulla soglia della dissoluzione. Erosi da quella stessa antipolitica che ne aveva costituito il discutibile punto di forza e che rivela ora per intero i suoi esiti: l´assenza di democrazia interna, le cricche elevate a sistema, lo strapotere di tesorieri-avventurieri, il familismo da Basso Impero delineano in realtà percorsi paralleli e analoghi. Danno il segnale più visibile di un´involuzione della politica e del Paese, ci costringono a fare i conti con il ventennio di questa sciagurata "seconda Repubblica" e con le sue radici. Ci obbligano, soprattutto, a misurarci con il grande vuoto che si avverte sullo sfondo. Con le sue incognite e con gli enormi problemi che pone: in modo non molto dissimile, a ben vedere, da quel che era avvenuto vent´anni fa.
Sono entrati drasticamente in crisi, infatti, due partiti cui si era rivolta una parte significativa del Paese: in essi aveva fatto confluire alcune delle sue pulsioni peggiori - dall´egoismo proprietario all´intolleranza - ma anche illusioni e paure reali, ricerca di protezione e angoscia per l´urgere dei problemi, bisogno di speranza e rimozione delle inquietudini. L´antipolitica aveva fatto da cemento potente, alimentata da antiche e diffuse inculture e da sostanziali estraneità alla democrazia. Una deriva profonda, che talora sembrò inarrestabile: e che fu poco contrastata da forme di buona politica e da proposte capaci di rispondere in modo credibile alla crisi profonda del Paese. Di costruire un´idea di futuro. È stata questa assenza a permettere il consolidarsi del centro-destra e il suo lungo interagire con le deformazioni culturali più corpose della nostra storia recente.
Ove si ripercorra la storia degli ultimi decenni non è difficile comprendere l´iniziale irrompere della Lega e il successivo trionfo di Berlusconi. Non è difficile neppure cogliere il segreto di un´alleanza che era parsa (ed era) improbabile ma si è rivelata più duratura delle rotture e delle tensioni di superficie. Convivevano in essa, a dirla in breve, sia i peggiori guasti degli anni Ottanta sia l´esasperazione per le loro conseguenze. Vi confluivano cioè egoismi individuali e di ceto, protagonismi privi di regole e valori, disprezzo per lo Stato, indifferenza ai valori collettivi: in sintesi, il prevalere del privato sul pubblico nell´economia e nella politica, nei comportamenti quotidiani e nelle relazioni sociali. E vi era al tempo stesso l´esasperata reazione di fronte agli inevitabili frutti di tutto ciò (il debito pubblico ne era e ne è un concretissimo simbolo). Questo fu il connubio che vinse nel 1994, e uno sguardo agli anni precedenti rende più agevole capire perché quella vittoria sia stata possibile. Rende più chiari, anche, i problemi che stavano sullo sfondo e che rinviano a questioni centrali. Non era certo un´invenzione, ad esempio, la "questione settentrionale", pur nel suo scomposto deflagrare: che risposte ha avuto, e come si presenta ora? Per capire poi meglio, su di un differente versante, altri e connessi nodi che abbiamo di fronte si pensi anche ad un´esperienza molto positiva dell´ultimo ventennio: il grande pregio del primo governo Prodi nel portare il Paese in Europa ma al tempo stesso la sua debolezza nel far comprendere appieno le ragioni ideali e le prospettive di una costruzione europea che imponeva nell´immediato sacrifici pesanti.
Queste questioni sono ancora tutte sul terreno e non è possibile riproporre senza molta convinzione le ricette precedenti: è necessaria un´inversione di marcia radicale e riconoscibile. Capace di ridare fiducia. A questo è chiamato in primo luogo il centrosinistra ma forse è possibile che scendano in campo su questo terreno, pur con diversità di prospettive e di accenti, energie e forze più ampie. Nella speranza, naturalmente, che l´esperienza stessa del governo Monti possa contribuire anche alla nascita di quella "destra normale" che il Paese non ha mai conosciuto e che sarebbe invece preziosa.
Vi è però una questione assolutamente preliminare e drammaticamente urgente, e la prolungata insensibilità e sordità di quel che resta del ceto politico ha effetti ogni giorno più devastanti. Lo squallore della vicenda della Lega, ad esempio, non è riducibile a tesorieri felloni o a miserabili cerchi, a parenti o affini: è l´espressione esasperata di una bancarotta della politica che trae origine dal suo complessivo degradare e dalle scelte che ha compiuto. È difficile descrivere con parole adeguate la truffa compiuta ai danni di un Paese che aveva abolito per via referendaria il finanziamento pubblico. E che ha visto invece crescere a dismisura rimborsi ai partiti concessi senza alcuna documentazione, talmente esorbitanti da autorizzare investimenti in Tanzania e truffaldine dilapidazioni private. Lo ha scritto benissimo Stefano Rodotà su questo giornale prima ancora che l´ultima vicenda deflagrasse: la politica, prima vittima di questo viluppo di corruzione e privilegi, ne è stata complice. E ora non ha più alibi.
Revisione immediata e radicale della legge sui rimborsi elettorali, norme severissime contro la corruzione, riduzione drastica dei costi della politica: come è possibile presentarsi al Paese senza aver compiuto questi passi? Come è possibile lasciar incancrenire la situazione nel momento stesso in cui alla collettività nazionale si impongono invece sacrifici pesantissimi? Il tempo è scaduto, la casa brucia da tempo: ogni ulteriore ritardo è in realtà una corsa verso il baratro.

l’Unità 7.4.12
Quando muore un combattente per la libertà
di Moni Ovadia

Rosario Bentivegna, partigiano gappista, organizzatore dell’azione di Via Rasella, ci ha lasciato. Uomini come lui con il loro coraggio e la fedeltà alle loro scelte hanno contribuito a riportare l’Europa e il nostro Paese alla democrazia e alla libertà.
Il fronte del revisionismo e del negazionismo italiano compatti nel corso di tutto il secondo dopoguerra hanno cercato di marchiare come crimine, come strage assassina il legittimo attentato di via Rasella contro una colonna di SS.
Quell’attacco partigiano fu un legittimo atto di guerra contro l’esercito occupante della dittatura criminale genocida nazista alleata della dittatura criminale e genocida del fascismo italiano, come è stato stabilito in ogni grado di giudizio dei nostri tribunali.
A Rosario Bentivegna come era logico, nel momento della morte, sono stati tributati gli onori dovuti a un uomo che ha combattuto per restituire dignità alla sua patria e riportare i valori della civiltà al suo popolo.
Ma come era prevedibile, nostalgici fascisti mai redenti e revisionisti a vario titolo hanno approfittato dell’occasione per manifestare un ennesima volta il loro disprezzo per l’antifascismo, per la Resistenza e per la Costituzione repubblicana.
Ora che la stagione del berlusconismo con tutto il suo corredo di sottocultura reazionaria e fascistoide ha miseramente concluso la sua parabola e che anche il leghismo xenofobo e pararazzista mostra la squallida verità che sta dietro alle sue farneticazioni pseudo nazionaliste, sarebbe tempo, per il bene dell’Italia, di bandire dai nostri media e dalle nostre scuole il revisionismo ideologico e strumentale.

l’Unità 7.4.12
Rosario Sasà Bentivegna
risponde Luigi Cancrini

Si sono svolti nei giorni scorsi i funerali di Rosario Bentivegna noto a tutti principalmente per i fatti di Via Rasella avvenuti a Roma durante la seconda guerra mondiale. Erano presenti molti partigiani, molti giovani di sinistra ed anche Walter Veltroni alle cerimonia svoltasi nella sede principale della Provincia di Roma.
Michele Piacentini

RISPOSTA La storia dice che quella combattuta nel ’43 era una guerra in cui gli occupanti nazisti e i fascisti loro alleati uccidevano chi tentava di resistere, deportavano gli ebrei, sfogavano contro la popolazione civile il loro risentimento contro l’Italia che li aveva traditi. Combattere contro di loro richiedeva il coraggio di rischiare la vita e la passione di chi riusciva ancora a credere nella possibilità di un mondo migliore. È in questo contesto che l’attentato di Via Rasella va ricordato come un atto dello stesso valore di quello portato avanti dai liberatori che erano sbarcati in Italia e sarebbero sbarcati in Normandia perché erano stati i nazifascisti a volere la guerra e perché solo con atti di guerra era possibile sconfiggerli. L’esecrazione del ricordo dovrebbe restare confinata, per chi ha rispetto della Storia, alla rappresaglia di Kappler non all’attentato di Sasà cui vigliaccamente ora Storace, noto difensore del boia nazista, ha dato dell’“assassino”. Io di Sasà, che ho avuto la fortuna di conoscere insieme a Carla, ricordo l’innocenza e il sorriso che non ho mai visto sulla faccia di Kappler e di Storace: il sorriso di chi sa di aver fatto ciò che era giusto fare.


l’Unità 7.4.12
Forze armate Il ministro Di Paola annuncia il nuovo modello di difesa: 33 mila militari in meno
La Corte dei conti del Canada boccia il programma dei caccia adottato anche dall’Italia
Lezione canadese per il no agli F-35: «Poca trasparenza»
Palazzo Chigi annuncia il taglio delle spese militari, «ma non sarà una riforma lacrime e sangue». Confermati anche i controversi F-35. Che però registrano una clamorosa battuta d’arresto in Canada
di Umberto De Giovannangeli

Un segno dei tempi. La crisi colpisce anche le spese militari: il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge delega che prevede in dieci anni un taglio di 33mila mi-
litari e di diecimila civili che lavorano nel settore: nel 2024 la Difesa italiana potrà contare dunque su 150mila soldati e 20mila civili.
SNELLIRE
«È necessario, spiega Palazzo Chigi, «contenere i costi, a causa dell’attuale congiuntura economica e finanziaria». Ed infatti l’Italia, oggi, può destinare al settore lo 0,84% del Pil a fronte di una percentuale che nel 2004 era dello 1,01% e che nei Paesi europei è, in media, dell’1,61%. Dunque bisogna tagliare. «È un processo difficile ammette il ministro
Giampaolo Di Paola ma credo possa rappresentare un segnale di grossa innovazione. E non sarà una riforma lacrime e sangue». Quel che è certo è che accanto ai tagli è necessario un altro intervento: la razionalizzazione delle risorse a disposizione. Perché il terrorismo internazionale ma anche l’instabilità di alcune aree del Mediterraneo e del Medio Oriente richiedono strumenti operativi qualitativamente e tecnologicamente avanzati. E le risorse, oggi, sono distribuite male se è vero, come dice Palazzo Chigi nella nota al termine del Cdm, che il 70% è «assorbito dalle spese per il personale» mentre quelle destinate all’operatività e agli investimenti sono limitate rispettivamente al 12% e al 18%. L’obiettivo del ddl è dunque quello di consentire a Esercito, Marina e Aeronautica di riequilibrare i propri costi portando al 50% le spese per il personale e al 25% sia quelle per l’addestramento sia quelle per gli investimenti. Nella nota al termine del Consiglio dei ministri si sottolinea inoltre che è prevista una «rimodulazione dei programma di ammodernamento tecnologico». La prima, l’ha riconfermato anche oggi Di Paola, riguarda il programma degli F35 per il quale l’Italia si era impegnata ad acquistare 131 aerei per una spesa di 15 miliardi. «Il programma va avanti con trasparenza ha detto il ministro ma con un significativo ridimensionamento». Significa che gli aerei che l’Italia comprerà non saranno più 131 ma 90, con un risparmio stimato attorno ai 5 miliardi».
COSTI LIEVITATI
Un’acquisizione contestata. In Italia, e non solo. Esemplare è la vicenda canadese. Lo scorso 3 aprile rimarca l’Archivio Disarmo la Corte dei Conti canadese ha accusato il Dipartimento della Difesa di aver mentito sui costi crescenti del programma F-35 Joint Strike Fighter. Nel documento si condanna il comportamento dell’esecutivo, responsabile di non aver attestato con la dovuta «diligenza quella che sarà la più grossa spesa militare che sarà sostenuta dai contribuenti canadesi», ha spiegato il nuovo auditor general Michael Ferguson. «Il Dipartimento non ha fornito ai parlamentari le dovute informazioni sui costi e sui rischi connessi al problematico sviluppo del programma F-35». Secondo Ferguson, il Dipartimento della Difesa decise di acquistare gli F35 già nel 2006, ben quattro anni prima che ne fosse data comunicazione ufficiale, nel 2010. I militari hanno violato le norme mantenendo il governo all’oscuro della commessa con Lockheed Martin, decidendo praticamente da soli di approvare l’acquisto degli F-35, senza preoccuparsi di dover curare nessuna documentazione o analisi. «Il governo era conoscenza della lievitazione dei costi dell’F-35, ma ha volutamente nascosto la verità sia al parlamento che all’opinione pubblica», ha accusato la democratica Christine Moore. L’esecutivo ha reagito alle accuse promettendo una maggiore vigilanza e congelando momentaneamente l’acquisto dei caccia statunitensi, del valore originale di 9 miliardi di dollari, trasferendo ogni responsabilità in materia al ministero dei Lavori pubblici. A questo proposito si è espresso il ministro dei Lavori pubblici, Rona Ambrose, con una dichiarazione che non lascia spazio ad ulteriori interpretazioni: «Il Canada non acquisterà nuovi aerei fino a quando maggiore accuratezza, controllo e trasparenza non saranno applicati nel processo di sostituzione delle Forze aeree canadesi». Il Canada è partner del programma F-35 dal 1997, insieme con Australia, Danimarca, Italia, Olanda, Norvegia, Turchia e Gran Bretagna. Perché non seguire la via canadese? Una domanda che giriamo al ministro Di Paola.


l’Unità 7.4.12
«Diaz», la polizia ringrazia
Alla presentazione del film di Daniele Vicari sul massacro compiuto al G8 di Genova, un rappresentante delle forze dell’ordine loda la pellicola
Il regista: «Quello che mostro è tutto vero. Le istituzioni diano una risposta»
di Gabriella Gallozzi

Vi ringrazio per questo film. Troppe fiction televisive ci hanno abituato a poliziotti finti, qui si vede la polizia vera. Bisogna chiedersi quale modello di ordine pubblico si voglia in questo paese. Certo che finché ci sarà questa catena di comando....Ma proprio questo film potrebbe diventare l’occasione per unire il passato con il futuro». Mirko Carletti, poliziotto del Silp-Cgil strappa l’applauso della sala gremita per la conferenza stampa di Diaz, il film di Daniele Vicari reduce dai successi berlinesi e in arrivo nelle sale dal prossimo 13 aprile.
Un intervento che, finalmente, rompe il silenzio imposto da una circolare del Dipartimento della Pubblica Sicurezza che esige il «no comment» dei singoli poliziotti su questo straordinario film dedicato alla «macelleria messicana» compiuta dalle forze dell’ordine all’interno della Diaz, nel corso del G8 2001. Fin qui la polizia, riassume il produttore Domenico Procacci, «ha scelto la linea del silenzio», nonostante lui stesso, in fase di lavorazione, abbia cercato un contatto, proponendo, addirittura la letterura preliminare della stessa sceneggiatura. Tanto da aver suscitato, ai tempi, le proteste dei rappresentanti del Genova Social Forum ai quali non ha riservato la stessa «attenzione».
A questo punto, dunque Procacci si augura «che il ministro Annamaria Cancellieri lo veda. E spero in un' assunzione di responsabilità che magari arrivi prima della Cassazione in un paese in cui si confonde prescrizione di reato con assoluzione». Nonostante i processi, infatti, interviene Daniele Vicari «non possiamo non notare l'atteggiamento di assoluto silenzio in questi anni non solo della polizia ma di tutte le istituzioni, che avevano il dovere di dire qualcosa dopo le prime sentenze». E prosegue: «Questa vicenda è stata totalmente rimossa: alcuni cittadini sono stati lasciati senza interlocutori, e in questo modo si perpetua l'inciviltà del comportamento che c'è stato dentro la Diaz».
RESTANDO ALLA CRONACA
Vicari dal canto suo ha fatto la sua parte. Ricostruendo quella notte di orrore sulla base degli atti processuali e delle testimonianze delle vittime, massacrate di botte, umiliate, torturate e private di ogni dignità dalle forze dell’ordine. Immagini che avendole davanti rimandano ai lager nazisti, all’Argentina, al Cile, all’Iran delle dittature. «La più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale» definì questa pagina nera della nostra storia Amnesty International. Ma perché tutto questo sia accaduto, il contesto politico che l’ha determinato, Diaz non ce lo racconta. Per una scelta voluta e meditata, spiega lo stesso regista. «Ho voluto raccontare i fatti e non una teoria risponde Vicari . Quando al cinema si esprimono le teorie i film invecchiano in tre minuti. Per questo non credo nel “cinema civile” o “politico”, di cui qualcuno, del resto, ha detto che quello italiano sia il più brutto del mondo... Restare al racconto dei fatti accaduti alla Diaz e a Bolzaneto significa interrogarsi su cosa sia la nostra democrazia, che evidentemente non può certo dirsi compiuta. Del resto se avessi dovuto raccontare il contesto politico che ha determinato quel massacro avrei dovuto fare un Heimat a puntate». Ma, intanto, una prima «risposta» dalla politica è già arrivata: Diaz sarà proiettato il 15 maggio a Bruxelles, al Parlamento Europeo su richiesta dei Socialisti e Democratici dell’Europarlamento.

Repubblica 7.4.12
Parla il primo ministro: "Le sanzioni non bastano: servono misure più severe"
L’ira di Netanyahu contro l´Iran "Tutti in pericolo, non solo Israele"
I palestinesi devono prepararsi a concessioni dure, perché alcuni punti per noi sono irrinunciabili: è chiaro che non sono pronti
Il mondo è cambiato. Non possiamo dare per scontato quello che accadrà. Spero che il regime che si affermerà onori gli accordi di pace
di Shlomo Cezana e Amos Regev

GERUSALEMME - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è concentrato sulla questione iraniana, ma la situazione è complessa anche altrove. L´ascesa dei Fratelli musulmani in Egitto e la presentazione di un loro candidato alle prossime presidenziali dimostra, secondo lui, che le cose stanno cambiando e che bisogna essere capaci di leggere la situazione in modo dinamico. «Significa che il mondo è cambiato. E significa che non possiamo dare per scontato che quello che è successo finora succederà in futuro. Spero che il regime che si affermerà dopo il voto onori gli accordi di pace».
Di lui hanno scritto che ha iniziato questo mandato da capo del Governo con lo scopo di realizzare l´idea di cui parla da 15 anni: assicurarsi che il regime iraniano non entri in possesso della bomba atomica. «Misi in guardia da questo pericolo 15 anni fa e in sostanza oggi mi ritrovo nuovamente a doverci fare i conti», spiega.
Le sanzioni all´Iran non stanno funzionando. Non è frustrante?
«Le sanzioni stanno penalizzando l´economia iraniana, ma finora non sono riuscite a fermare il programma nucleare. È vero che hanno cercato di usare i negoziati per prendere tempo e confondere le acque, non è la prima volta che provano a farlo. Io spero che le grandi potenze mondiali, Stati Uniti in testa, abbiamo imparato la lezione. L´unico modo per fronteggiare questa strategia degli iraniani è presentare condizioni specifiche: cessare ogni attività di arricchimento dell´uranio, portare il materiale arricchito fuori dall´Iran e sostituirlo con materiale che non possa essere utilizzato per sviluppare la bomba atomica, e ovviamente ridimensionare il laboratorio sotterraneo di Qom. Deve esserci un atteggiamento risoluto e richieste chiare se si vuole che le sanzioni abbiano realmente effetto».
Lei ha dichiarato che non intende trascurare la questione palestinese. Ci sono prospettive diplomatiche?
«Sta a loro dimostrare di volersi sedere a un tavolo. Io sono disposto a incontrare il primo ministro Fayyam dove vuole per fare passi avanti. Stiamo chiedendo cose elementari, ma purtroppo finora i palestinesi hanno preferito non avviare un negoziato. Alla fine dovranno fare cose difficili. Un accordo di pace non sarà difficile solo per noi: loro dovranno rinunciare all´illusione di dissolvere lo Stato di Israele. Il governo di cui sono alla guida non cederà sulle esigenze fondamentali dello Stato di Israele e sulle esigenze vitali per il nostro futuro. Ecco perché i palestinesi dovranno cedere. Da Oslo in poi cinque premier israeliani, e io sono il sesto, hanno fatto concessioni, e siamo pronti a una riconciliazione storica, siamo pronti a fare compromessi. Perché non si è mai arrivati a un accordo? Loro non sono disposti a fare le concessioni elementari che devono necessariamente fare».
Alcuni ex alti funzionari hanno criticato pubblicamente le sue affermazioni sul fatto che l´Iran rappresenta una minaccia per l´esistenza di Israele: lei è ancora di questa opinione?
«Un Iran dotato di armi nucleari rappresenta un pericolo per Israele e per il mondo intero. È innanzitutto un pericolo per noi, perché afferma apertamente di voler cancellare Israele dalla faccia della terra, aiuta i terroristi e li rifornisce di migliaia e migliaia di razzi che vengono sparati contro di noi. La minaccia militare convenzionale diventerà molto più grave se potranno contare sulla protezione di un ombrello nucleare. Per non parlare del fatto che Israele per la prima volta dovrà fronteggiare una minaccia nucleare. Nessuna persona sana di mente può volersi trovare a fare i conti con una doppia minaccia di questo genere. Dobbiamo fare tutto quello che è in nostro potere per impedire all´Iran di dotarsi di armi nucleari».
Con chi si consulta sulla questione iraniana?
«Farei prima a dirle con chi non mi consulto. Ci sono strutture ben organizzate per discutere del problema. Non ci sono mai state discussioni strutturate e continuative su questo argomento come nel mio governo. Le decisioni sono complesse, non sono semplici. Le discussioni sono sicuramente altrettanto approfondite che in passato, ed è evidente che sono più approfondite che nei Governi precedenti».
(© Israel Hayom Traduzione Fabio Galimberti)

l’Unità 7.4.12
Il venerdì santo a Cuba e la preghiera di Chavez
Il leader venezuelano va a messa e implora Dio di salvargli la vita L’Avana celebra il giorno della Passione. Sarà «l’effetto Ratzinger»?
di Roberto Monteforte

Ieri nella «socialista» Cuba il «Venerdì santo» è stato festivo in tutto il Paese e l’omelia dell’arcivescovo dell’Avana, cardinale Jaime Ortega è stata trasmessa in diretta dalla televisione pubblica. È dalla rivoluzione castrista del 1959 che la Chiesa cattolica non aveva questo riconoscimento. È bastato che Papa Benedetto XVI avanzasse questa richiesta perché il presidente Raul Castro l’accogliesse, almeno per quest’anno. «Misura di carattere ecce-
zionale» è stata definita, poi si vedrà. Ma è molto probabile che vada come con il Natale, festivo dal 1997. In quel caso è stato il lider maximo Fidel ad accogliere la richiesta di Giovanni Paolo II. Un segno di apertura non soltanto per il 10% della popolazione cattolica, ma per la Chiesa chiamata ha svolgere un ruolo importante di pacificazione nel futuro dell’isola.
Lo si potrebbe chiamare l’«effetto Ratzinger». Ha mosso qualcosa la sua recente visita apostolica in Messico e a Cuba. Ha risvegliato la religiosità popolare ben radicata in quelle società, al di là dall’attaccamento alla Chiesa cattolica.
Un altro segno è stato il caso del presidente del Venezuela, Hugo Chavez, che malato di cancro, a Cuba per delle cure nei giorni della visita del pontefice avrebbe voluto incontrarlo. Non è stato possibile. Ieri, rientrato nel suo Paese, ha partecipato con la famiglia ad una messa nello Stato di Barinas, dove è nato. «Oggi ha affermato con voce rotta sono più cristiano che mai, mi sono affidato alle mani di Cristo». «Dammi la vita anche se è dolorosa, dammi la vita ha aggiunto perché mi restano ancora molte cose da fare per il mio popolo e per la patria. Non mi prendere ancora».
Ma il rito del «Venerdì santo» che più ha richiamato l’attenzione è stato la tradizionale Via Crucis al Colosseo, dedicata quest’anno alla famiglia, alla sue difficoltà e alla sua centralità. Su questo hanno insistito nelle loro «meditazioni» alle «stazioni» della «via dolorosa» i coniugi Danilo a Anna Maria Zanzucchi e il Papa nel suo messaggio conclusivo. Invece il predicatore vaticano, padre Cantalamessa, durante la solenne celebrazione in san Pietro della Passione del Signore, presieduta dal pontefice, ha esortato tutti i colpevoli a riconoscere i loro delitti.

Corriere della Sera 7.4.12
Chávez piange e prega: Gesù, non farmi morire
di Rocco Cotroneo

RIO DE JANEIRO — «Cristo, lasciami vivere! Anche nel dolore, nella sofferenza, con la croce sulle spalle e la corona di spine sul capo, ma non portarmi via. Ho ancora molte cose da fare qui, o mio Signore». Hugo Chávez come il Venezuela non l'aveva mai visto, cupo, commosso, in singhiozzi. È una funzione religiosa, non un atto politico, il momento scelto per ammettere in pubblico che la sua situazione di salute è seria. Più critica di quanto ha voluto far credere finora, a 13 anni dall'arrivo al potere e a pochi mesi dalle elezioni che vuol vincere, per restare alla guida del Venezuela altri sei anni.
Ha scelto Chávez, a sorpresa, di apparire nella sua città natale, Barinas. È una Messa organizzata dalla madre Elena, raccogliendo i familiari a pregare per la sua salute. Il leader bolivariano ci è arrivato direttamente da Cuba, in uno dei continui andirivieni dall'isola, dove è in trattamento per un tumore. Il Venezuela è ormai abituato al rito, che va avanti da un anno. In apparenza Chávez governa come nulla fosse, arringa per ore dalla tv, prepara la battaglia finale del 7 ottobre (giorno delle elezioni), dove garantisce che piegherà ancora una volta i borghesi e gli oligarchi che vorrebbero mettere fine alla marcia verso il socialismo del XXI secolo. Quando accenna alla malattia, parla di «recupero», alternato con «leggere complicazioni». Niente di più. La controinformazione sulla sua salute è tutta via Internet, blog e twitter: medici, giornalisti e analisti politici, dentro e fuori il Venezuela, fanno filtrare dettagli, quasi sempre brutti aggiornamenti. Il tumore sarebbe in rapida avanzata, con metastasi che avrebbero toccato organi vitali. Qualcuno azzarda l'aspettativa di vita: 6, 10 mesi, al massimo un anno.
È certo che il tumore operato a giugno del 2011 non è sparito, così come il successivo ciclo di chemioterapia non ha sortito gli effetti sperati. Chávez si fida solo dell'ospedale dell'Avana che lo ha in cura. Cuba gli garantisce il top secret più assoluto, e può essere raggiunta in tre ore di volo, consentendogli di non cedere i poteri, nemmeno formalmente. Ma l'ammissione durante la Messa («Dio, non portarmi via!») e le informazioni filtrate attraverso i medici non cubani che conoscono le cartelle cliniche lasciano ipotizzare l'inizio di una fase due.
Chávez ha annunciato che andrà in Brasile a visitare l'amico Lula, anche lui in cura per un tumore, ma è probabile che abbia deciso finalmente di farsi vedere nel centro oncologico più avanzato del continente, l'ospedale Sirio-Libanes di San Paolo. Il quotidiano O Globo sostiene che le ultime sessioni di radioterapia all'Avana sono state infruttifere, se non sbagliate. Chávez ha già rifiutato in passato di ricoverarsi in Brasile, dove avrebbe chiesto condizioni impossibili: segreto assoluto, due piani di ospedale per lui, perquisizioni di medici e pazienti per ragioni di sicurezza.
Sa che come per Lula, Dilma Rousseff e altri pazienti illustri, i medici del Sirio-Libanes emettono bollettini, e la stampa brasiliana non fa sconti. È il gioco politico, forse l'ultimo azzardo della sua vita, in vista delle presidenziali. Presentarsi al suo popolo in piena salute e con l'aura del vincitore. I sondaggi lo vedono ancora in testa sull'oppositore Henrique Capriles. Ma quanto sia anche effetto delle sue omissioni, o della carità cristiana, è impossibile dire.

Corriere della Sera 7.4.12
Inserto sulle donne all'Osservatore. Armeni: esempio per i laici
di G. G. V.

CITTÀ DEL VATICANO — L'idea si è fatta concreta durante una passeggiata in campagna, un mese fa, e una chiacchierata tra la storica Lucetta Scaraffia, Ritanna Armeni e il direttore dell'Osservatore Romano Giovanni Maria Vian. Il prologo, in un certo senso, era andato in scena prima di Natale, il 19 dicembre a Palazzo Borromeo, sede dell'ambasciata italiana presso la Santa Sede. Si presentava Uno sguardo cattolico, libro che raccoglie cento editoriali pubblicati tra il 2007 e il 2011 dal quotidiano della Santa Sede. E Ritanna Armeni, donna di sinistra che fu portavoce di Bertinotti, notò con una punta di sarcasmo: «Per me, ma non solo per me, è importante vedere le firme di tante editorialiste, di tante donne sull'Osservatore. Ce ne sono molte di più di quante si potrebbe supporre. Sicuramente più di quante ne possono vantare tanti grandi quotidiani che si definiscono laici e progressisti, che fanno battaglie per la dignità delle donne e poi le confinano in gran parte nelle pagine di cronaca e di moda».
E così, dalla svolta «rosa» dell'Osservatore — nata con la direzione di Vian e propiziata da Benedetto XVI — all'idea di un inserto al femminile, il passo è stato breve. Almeno all'inizio avrà quattro pagine e cadenza mensile, il titolo di lavoro è «Donne, chiesa, mondo», anche se tutto è ancora allo stadio iniziale: si sta cominciando a lavorare al numero zero, la speranza è di debuttare a fine maggio. Laiche e cattoliche, conservatrici e progressiste, credenti e non credenti o credenti di altre religioni: «Non è la Pravda», scherzava il direttore. E certo sarà un passaggio storico, per il Vaticano, se si considera che la prima donna a poter entrare nei Sacri Palazzi fu negli anni Venti del Novecento Teodolinda Banfi, governante di Pio XI, mentre si racconta che tra l'Ottocento e il Novecento Giuseppe Sarto, poi Papa Pio X, avesse ritegno ad uscire in calesse con le sorelle perché, insomma, non stava bene. Nel frattempo molta acqua, anche Oltretevere, è passata sotto i ponti. Ci sono donne in posizione di responsabilità negli atenei e nei dicasteri vaticani, nel 2008 Silvia Guidi è stata la prima giornalista mai assunta dal quotidiano, Giulia Galeotti si è aggiunta nella redazione Cultura, l'edizione settimanale inglese dell'Osservatore è tutta femminile: due inglesi, due americane e un'australiana.
Del resto le pagine coordinate da Scaraffia, Armeni e Galeotti saranno un inserto al femminile, non un «inserto femminile» nell'accezione corrente. L'idea è di creare una pubblicazione mondiale sulle notizie e le questioni che riguardano le donne, e non solo nella Chiesa. Un'intervista in ogni numero, certo, sarà dedicata a una figura femminile della Chiesa. Ma notizie, cultura, inchieste spazieranno su tutto ciò che riguarda le donne. L'Osservatore si rivolge al pianeta e l'inserto ha la stessa ambizione, già si pensa a una versione inglese sul sito web. Da tutto il mondo arriveranno quindi i contributi, «un taglio mondiale sia nelle collaborazioni sia nelle notizie», a cominciare da editorialiste e firme del giornale. Tra le altre, oltre alle «coordinatrici», la storica Anna Foa e Laura Palazzani, Sylvie Barnay, Marta Lago, Marguerite Peeters, Isabella Ducrot, Cristiana Dobner, Sandra Isetta.
Un'apertura elogiata dallo stesso Benedetto XVI nel messaggio per il 150° anniversario del giornale: «In questo tempo, il quotidiano della Santa Sede si presenta come un “giornale di idee”, un organo di formazione e non solo di informazione. Perciò deve sapere mantenere fedelmente il compito svolto in questo secolo e mezzo, con attenzione anche all'Oriente cristiano, all'irreversibile impegno ecumenico delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, alla ricerca costante di amicizia e collaborazione con l'Ebraismo e con le altre religioni, al dibattito e al confronto culturale, alla voce delle donne, ai temi bioetici. Continuando l'apertura a nuove firme – tra cui quelle di un numero crescente di collaboratrici...».

Repubblica 7.4.12
"Credere e conoscere", un saggio del cardinale e del medico
Martini-Marino Il dialogo etico
I temi affrontati sono tanti, dalle unioni gay alla fecondazione artificiale
di Vito Mancuso

Per il legame personale e spirituale che dal 1980 ho con il cardinale Carlo Maria Martini non temo di fargli torto affermando che il vero protagonista del libro Credere e conoscere appena pubblicato da Einaudi a firma sua e di Ignazio Marino, non è lui, il cardinale, ma è Marino, il chirurgo. Una luminosa carriera in Gran Bretagna e Stati Uniti, oggi senatore del Pd e a suo tempo candidato alle primarie per la carica di segretario, una decina di anni fa egli prese l´aereo da Philadelphia per recarsi in una casa dei gesuiti alle porte di Roma e incontrare il cardinal Martini, allora non più arcivescovo di Milano.
Fu il primo di una serie di incontri tra Gerusalemme e Gallarate rievocati con grazia all´inizio del libro che portarono nel 2006 alla clamorosa pubblicazione su L´Espresso del loro "Dialogo sulla vita" che tanto irritò alcuni autorevoli esponenti della gerarchia cattolica, fino al punto che un membro del Collegio cardinalizio giunse a definire le idee di Martini "pensieri che sono solo profilattici" (tra l´altro ignorando la quantità di bene che deriva all´umanità dai profilattici). Ma perché un medico affermato, allora direttore del Centro Trapianti del "Veterans Affairs Medical Center", il dipartimento per trapianti di fegato del governo degli Stati Uniti, si mette in viaggio per parlare con un cardinale e quasi lo insegue nelle successive diverse residenze? Qui entra in gioco anzitutto il fenomeno Martini, l´attrattiva che egli esercita sull´intelligenza aprendola alla sfida di una dimensione ulteriore.
È questo che ha portato a dialogare con lui personaggi come Norberto Bobbio, Eugenio Scalfari, Arrigo Levi, Umberto Eco, Edoardo Boncinelli, Giulio Giorello, Massimo Cacciari. Anche in uomini dichiaratamente non credenti, l´intelligenza avverte al cospetto di Martini che affrontare il territorio della spiritualità non significa venir meno al proprio compito ma accogliere una sfida ulteriore. Ovviamente tutto ciò vale a maggior ragione per uno come Ignazio Marino, uomo di scienza e di fede al contempo, due dimensioni la cui armonizzazione lo conduce quasi naturalmente a vedere in Martini un modello di vita. Scrive Marino: "Anch´io vorrei invecchiare così, con quel volto sereno che guarda a chi è più giovane con curiosità e disponibilità". Saper invecchiare con serenità, senza perdere fiducia nella vita, amore per gli altri e curiosità di conoscere: forse il senso ultimo di ogni cammino spirituale è tutto qui.
Leggendo il loro dialogo si incontrano i temi più dibattuti sulla frontiera della bioetica: l´inizio della vita e la diagnosi pre-impianto, le cellule staminali embrionali e la loro disponibilità per la ricerca, gli embrioni congelati, il testamento biologico, il conflitto tra principio di autodeterminazione e principio di indisponibilità, l´accanimento terapeutico, l´eutanasia. Si incontrano i temi caldi della disciplina ecclesiale quali la morale sessuale, il celibato dei sacerdoti, l´omosessualità, il riconoscimento delle unioni di fatto e delle coppie gay. A livello di contenuto Martini ribadisce quanto affermato nell´intervento su L´Espresso e in Conversazioni notturne a Gerusalemme, libro del 2008 che a mio avviso rimane il più profetico.
Martini conferma le critiche al magistero vaticano per la condanna della fecondazione artificiale ("si ha l´impressione che le decisioni della Congregazione per la Dottrina della Fede non siano cadute in un terreno preparato… forse sarebbe stato meglio non decidere subito"); ricorda che non si può dare retta decisione etica senza un attento ascolto della scienza ("Galileo Galilei docet"); riconosce che "l´uso del profilattico può costituire in certe occasioni un male minore"; sostiene che "non è male, in luogo di rapporti omosessuali occasionali, che due persone abbiano una certa stabilità e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli" e mentre sottolinea il primato del matrimonio tradizionale aggiunge che "non è giusto esprimere alcuna discriminazione per altri tipi di unioni". Infine sulla questione di chi debba decidere la sospensione delle cure afferma che "non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete, anche dal punto di vista giuridico salvo eccezioni ben definite, di valutare se le cure sono effettivamente proporzionate".
Il valore di questo libro però non sta in queste già note affermazioni, quanto piuttosto nel "dialogo come metodo nella ricerca della verità", uno stile che in Vaticano è diventato familiare nell´ambito della cultura grazie al cardinal Ravasi ma che è ancora del tutto assente in ambito bioetico, come dimostra l´improvvisa cancellazione di un convegno sulle cellule staminali previsto a Roma a causa della presenza di ricercatori pro staminali embrionali. E il vero artefice di questo dialogo, colui che l´ha perseguito e condotto, è Ignazio Marino, un medico che coltiva la dimensione spirituale della vita perché crede che la sapienza consiste nell´armonia tra conoscenza scientifica e saggezza etica, e più ancora sa quanto per la vita di ognuno sia decisivo l´amore e l´orizzonte di senso ultimo che esso può aprire.
In una pagina molto toccante Marino riporta il colloquio con il suo mentore Thomas Starzl al termine di un complesso intervento in sala operatoria, quando questi gli confidò come per lui l´amore fosse "la forza più distruttiva che esiste in natura". Risposta di Marino: "Io la penso diversamente e credo che l´amore sia una forza grande e invincibile". Il senso della fede cristiana, di cui il cardinal Martini è un testimone assoluto, sta tutto qui.


Repubblica 7.4.12
Così noi ebrei riscriviamo quel racconto della Bibbia
L’altra Pasqua senza copyright
Safran Foer racconta il rapporto con l´"Haggadah", testo che viene letto in occasione della festività ebraica
Come ogni bimbo anche mio figlio adora le storie, ma quelle di Mosè più di tutte le altre
Delle 7000 versioni note la più usata è quella del caffè Maxwell distribuita nei supermercati
di Jonathan Safran Foer

Per tutta la mia vita i miei genitori hanno ospitato il Seder della prima notte della Pasqua ebraica. A mano a mano che la nostra famiglia si allargava – e con essa di pari passo anche la nostra definizione di famiglia – per la cena rituale ci siamo spostati dalla sala da pranzo al nostro scantinato, più spazioso, che puzzava di muffa. Da un tavolo siamo passati a più superfici goffamente accostate le une alle altre per formarne uno più grande. La richiesta di mio padre di togliere la rete dal tavolo da ping-pong mi ha sempre reso consapevole dell´approssimarsi della Pasqua. Poi, tutti i tavoli erano ricoperti da grandi tovaglie sbiadite e assortite.
Ogni volta c´era un´Haggadah che i miei genitori avevano messo insieme fotocopiando i brani preferiti presi da altre Haggadah, e quando finalmente i Foer ottennero la connessione a Internet la prepararono stampando ciò che trovavano online. Perché la sera di Pasqua è diversa da qualsiasi altra? Perché quella sera non si applica il copyright.
In mancanza di una terra loro e stabile, gli ebrei misero su casa nei loro libri e l´Haggadah – il cui nucleo centrale è il racconto dell´Esodo dall´Egitto – è stata tradotta innumerevoli volte, più di qualsiasi altro libro ebraico, ed è stata rivista più frequentemente di qualsiasi altro libro ebraico. Ovunque si siano recati gli ebrei ci sono sempre state Haggadah: dall´Haggadah di Sarajevo risalente al XIV secolo (che si dice sia sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale sotto le assi del pavimento di una moschea, e all´assedio di Sarajevo nel caveau di una banca) a quelle preparate dagli ebrei etiopi e fatte pervenire per via aerea in Israele durante l´Operazione Mosé.
Tuttavia, delle settemila versioni note – per non parlare delle incalcolabili edizioni fatte in casa – una sola è usata più di tutte le altre messe insieme: dal 1932 l´Haggadah della Maxwell House predomina nei rituali degli ebrei americani. Sì, proprio quella della marca di caffè Maxwell House. Avendo assodato negli anni Venti che il chicco di caffè non è un legume bensì una bacca, e di conseguenza è kosher per Pasqua, la Maxwell House diede all´agenzia pubblicitaria Joseph Jacobs l´incarico di fare del caffè e non del tè la bevanda eletta da bere dopo i Seder. Se tutto ciò vi sembra folle, tenete presente che il caffè Maxwell House è sempre stato particolarmente popolare nelle case ebraiche.
L´Haggadah che ne nacque costituisce una delle promozioni-vendita speciale che dura da più tempo in assoluto nella storia della pubblicità. Nei supermercati ne sono state distribuite gratuitamente almeno 50 milioni di copie, ispiranti quanto si può immaginare che siano i gadget di una marca di caffè. Nondimeno, molte persone provano un senso di attaccamento nei confronti dell´Haggadah della Maxwell House, per la gioiosa rassicurazione che essa evoca. Ci piace come ci piacciono le battute sugli ebrei. La versione della Maxwell House è di per sé una sorta di battuta ebraica – per averne la conferma provate un po´ a farne parola a un gruppo di ebrei senza provocare risate. Oltretutto, è gratis e – al pari della bevanda a base di caffeina e senza tanti fronzoli che reclamizza – appaga un bisogno molto primario.
Il più leggendario Seder di tutti – che, per un caso postmoderno, è raccontato nell´Haggadah stessa – si svolse intorno all´inizio del secondo secolo a Bene Beraq tra gli studiosi più importanti dell´antichità ebraica. Si concluse anticipatamente, quando gli studenti irruppero per annunciare che era giunta l´ora della preghiera del mattino. Anche se lessero l´Haggadah dall´inizio alla fine, espletando ogni rito e cantando ogni verso di ogni singolo salmo, probabilmente trascorsero la maggior parte del loro tempo a fare altro. A estrapolare, sviscerare, discutere. La storia dell´Esodo, infatti, non deve essere soltanto recitata, ma affrontata.
Se l´Haggadah della Maxwell House non è mai riuscita a soddisfare appieno le esigenze intellettuali e spirituali, in ogni caso è servita in modo egregio e appropriato agli ebrei esperti conoscitori dei riti di una o due generazioni fa. Gli attori però non conoscono più il copione. Gli ebrei americani, con una sorta di esodo ulteriore, sono passati dalla povertà all´agiatezza, dalla tradizione alla modernità, dalla familiarità nei confronti di una storia comune alla perdita della memoria collettiva. I nostri nonni erano immigrati in America, ma erano originari dell´ebraismo. Noi siamo l´esatto contrario: sappiamo tutto di American Idol, ma non conosciamo i grandi protagonisti dell´ebraismo. Di conseguenza, nei confronti dell´ebraismo ci comportiamo come immigrati: ci andiamo cauti, lo respingiamo, ne diventiamo consapevoli, e fingiamo (o raggiungiamo) indifferenza. In quel paese straniero che è la nostra fede, abbiamo urgentemente bisogno di una buona guida.
Anche se significa "il racconto", l´Haggadah non racconta semplicemente una storia: è il libro della nostra memoria vivente. Non basta ri-raccontare la storia: dobbiamo spiccare un salto più estremo ed empatico ed entrare dentro di esso. «A ogni generazione ogni individuo è tenuto a considerarsi come se fosse colui che andò via dall´Egitto» ci dice l´Haggadah. Questo salto è sempre stato una sfida in grado di intimorire, seppur carico di significato per la mia generazione in modo diverso rispetto ai disperati delle prime generazioni che si volevano assimilare – perché adesso, oltre alla mancanza di cultura e di conoscenza del sapere ebraico, c´è anche il vizio strutturale di un compiacimento collettivo.
L´integrazione degli ebrei e delle tematiche ebraiche nella nostra cultura pop è così preponderante che ormai siamo intossicati dalle immagini surrogate di noi stessi. Anche io adoro Seinfeld (sit-com americana, NdT), ma non credete che ci sia un problema nel momento in cui questa trasmissione è indicata quale riferimento dell´identità ebraica del singolo? Per molti di noi, essere ebrei è diventato, più di ogni altra cosa, strano. Tutto ciò che resta, nel vuoto della scioltezza e della profondità, sono le risate.
Circa cinque anni fa ho avvertito in me una certa malinconia. Forse era dovuta al fatto di essere diventato padre, o semplicemente al fatto di invecchiare. Malgrado io sia cresciuto in una famiglia ebraica intellettuale e consapevole, non sapevo pressoché nulla di ciò che si suppone che sia il mio sistema di pensiero. C´era anche di peggio: mi sentivo soddisfatto del poco che sapevo. Talvolta pensavo al mio modo di essere in termini di rifiuto, ma è impossibile respingere ciò che non si comprende e che non è mai stato davvero tuo. Talvolta ritenevo fosse un successo, ma non c´è successo alcuno nella perdita passiva.
Perché ho sottratto tempo alla mia attività di scrittore per pubblicare una nuova Haggadah? Perché volevo fare un passo avanti in direzione di quella conversazione che potevo udire soltanto a stento attraverso le porte chiuse della mia ignoranza; un passo avanti in direzione di un ebraismo fatto di punti di domanda, più che di citazioni; verso la storia del mio popolo, della mia famiglia e di me stesso.
Come ogni bambino, anche mio figlio di sei anni adora ascoltare storie – miti e saghe nordiche, Roald Dahl, racconti della mia infanzia – ma più di ogni altra cosa gli piacciono le storie della Bibbia. Così, tra quando ha terminato di fare il bagno e il momento in cui va a letto, mia moglie ed io gli leggiamo spesso alcune versioni per bambini delle storie del Vecchio Testamento. Lui adora ascoltarle, perché sono le storie più belle mai raccontate. E noi adoriamo raccontargliele per un motivo diverso. Lo abbiamo aiutato a imparare a dormire tutta la notte, a servirsi della forchetta, a leggere, ad andare in bicicletta, a salutarci. Ma non esiste insegnamento più importante di quello che non si apprende mai ma si studia sempre, il progetto collettivo più nobile di tutti, preso in prestito da una generazione e tramandato alla successiva: come trovare sé stessi.
Alcune sere, fa, dopo aver sentito raccontare la morte di Mosé per l´ennesima volta – e come esalò l´ultimo respiro avvistando una terra promessa nella quale non avrebbe mai messo piede – mio figlio ha appoggiato la testa dai capelli ancora umidi sulla mia spalla.
«C´è qualcosa che non va?» gli ho chiesto, chiudendo il libro.
Lui ha scosso la testa.
«Sei sicuro?».
Senza alzare il viso, ha domandato se Mosé è esistito davvero.
«Non lo so» gli ho risposto, « ma siamo imparentati con lui».
Jonathan Safran Foer ha appena pubblicato la "New American Haggadah". © 2012, "The New York Times"
(Traduzione di Anna Bissanti)

Corriere della Sera 7.4.12
Ritorna «La struttura originaria»
L’essere eterno secondo Severino
di Armando Torno
qui

l’Unità 7.4.12
Un mare di profughi dalla Siria. E la Turchia chiede aiuto all’Onu
Il premier turco Erdogan si rivolge al segretario generale delle Nazioni Unite: il problema dei profughi in fuga dal regime di Assad è «un problema internazionale». Sono già 24 mila, in un giorno solo ne sono arrivati 2800.
di Gabriel Bertinetto

I civili siriani non sembrano credere molto nel piano di pace proposto da Onu e Lega Araba e accettato da Assad. O almeno sicuramente non si fidano le migliaia che in queste ore stanno fuggendo oltre confine, rifugiandosi in Turchia. Fra giovedì mattina e ieri pomeriggio sono scappate almeno 2800 persone, portando a 24mila il totale dei profughi. In meno di due giorni la Turchia ha assorbito quasi il 15% degli esuli arrivati alla spicciolata nei mesi passati. Il salto di qualità mette Ankara in allarme. Il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu
si rivolge al segretario dell’Onu, Ban Ki-moon ammonendo che «se questo è il ritmo dell’afflusso, abbiamo bisogno che intervenga l’Onu», perché il dramma dei profughi siriani sta diventando «un problema internazionale». Davutoglu nota che le fughe sono raddoppiate da quando Damasco ha detto sì al cessate il fuoco. Nei pochi giorni che restano sino alla prevista data d’inizio, il 10 aprile, l’esercito ha intensificato la caccia ai ribelli. Anziché al ritiro graduale delle truppe si assiste a un’escalation dei massacri.
I territori di Siria e Turchia si toccano per un tratto lungo 877 chilometri. La contiguità geografica è uno dei fattori che due anni fa favorì il riavvicinamento fra i due governi. Ma allora la Primavera araba non era sbocciata, e il regime di Assad pareva solido come una roccia. Lo sviluppo dei rapporti commerciali e del dialogo politico con la Siria si incastrava perfettamente nel progetto di egemonia regionale morbida del premier Erdogan.
Gli avevano dato un nome accattivante: «zero problemi con i nostri vicini». E per vicini si intendevano soprattutto gli Stati arabi o non arabi di tradizione musulmana. La Repubblica turca si poneva nei loro confronti come un modello di convivenza fra istituzioni democratiche e cultura islamica, saldamente piantato sulle fondamenta di un’economia fiorente e un esercito temibile. Allo sviluppo dei rapporti di amicizia e cooperazione commerciale con i Paesi dell’area, il governo del partito islamico moderato Akp era disposto a sacrificare almeno in parte i legami con gli Usa e la Nato, le ambizioni all’integrazione europea, e le speciali relazioni con Israele.
Le sommosse popolari in Tunisia e Egitto hanno scosso il disegno strategico di Ankara senza sfasciarlo. È bastato trasferire la formula «zero problemi con i vicini» dai vecchi ai nuovi dirigenti di Tunisi e del Cairo. La crisi libica ha costretto invece Erdogan a uscire dalla neutralità, e schierarsi contro un governo che era prima stato destinatario della politica dei «problemi zero». Con la Siria, il meccanismo è andato del tutto in pezzi. Non solo Ankara appoggia, ospitandone parte dei capi, la rivolta contro un governo vicino, ma così facendo incrina le buone relazioni che lo legano a un altro vicino importante, l’Iran. Amico della Siria di Assad.

l’Unità 7.4.12
Gramsci ravveduto? Ecco le prove di un falso teorema
Due documenti smontano la tesi di Biocca sull’eventuale «pieghevolezza» del leader comunista detenuto: il testo del regolamento carcerario relativo all’art. 176 del Codice Rocco e un numero del Soccorso Rosso del 1934
di Bruno Gravagnuolo

L a polemica sul ravvedimento di Gramsci in carcere si chiude: ecco i documenti che provano che l’istanza di libertà richiedeva altri requisiti.
Questa volta il «revisionista» l’aveva combinata grossa: «Gramsci ravveduto». Non più nel mirino Togliatti, Silone, la Resistenza o il percorso degli intellettuali approdati all’antifascismo e al Pci. Temi ormai «stagionati». No, il bersaglio era stato massimo: «l’eroico Gramsci», come lo definiva Galvano della Volpe, marxista che non lo aveva in simpatia per il suo «storicismo», ma che lo chiamava sempre così. Parliamo dello storico Dario Biocca, coautore con Mauro Canali per Luni nel 2000 de l’Informatore Silone, opera demolitoria del dirigente e scrittore anti-stalinista espulso nel 1930 dal Pc.d’I, accusato di essere stato una spia della polizia fin dal 1919 (tesi implausibile che suscitò incisive controrepliche da destra a sinistra, a partire dai controdossier di Giuseppe Tamburrano).
Ecco il riassunto delle puntate precedenti sul caso-Gramsci. Che si arricchisce ora di nuovi documenti di cui vi parleremo, tali da frantumare definitivamente lo pseudo scoop. Il 25 febbraio scorso Repubblica pubblica a tutta pagina culturale uno scritto di Biocca, pomposamente presentato come sintesi di un saggio in uscita su Nuova storia contemporanea, rivista dei defeliciani «ultras» diretta da Francesco Perfetti. Titolone su due righe: «Il “ravvedimento” di Gramsci». La tesi di Biocca è che Gramsci, disperato e malato nel 1934, per ottenere la libertà condizionale usa l’art. 176 del Codice Rocco, il quale prevedeva buona condotta del condannato «tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento». Dunque, in fondo Gramsci si era piegato, nell’invocare quell’articolo di legge, con una sua istanza al regime. Perché, scrive Biocca, era preso nella morsa. Perché stanco, abbandonato o tradito dai compagni dentro e fuori la galera. E qui lo storico equanime non si fa mancare la pietas. Mentre assesta colpi. Peccato che all’art. 176 quel «tale da far» con ciò che segue «il ravve-
dimento» non vi fosse nel Codice Rocco di allora, che prevedeva solo buona condotta, nonché l’aver scontato parte della pena, per ottenere la libertà condizionale. Il «ravvedimento» entra nel Codice soltanto nel 1962, dopo che il fascismo come concetto lo aveva espulso dal precedente ordinamento liberale. Quindi primo svarione di Biocca, segnalato in vario modo da chi scrive e da Nerio Naldi su l’Unità e poi da Joseph Buttigieg su Repubblica il 3 marzo: Biocca ha citato e per esteso un articolo di legge del 1962, invece di quello vigente nel 1934. Quello al quale Gramsci, giustamente, si appellò a fine agosto 1934 per la libertà condizionale. Adducendo inoltre, e a scanso equivoci, motivi di salute: aveva bisogno di una clinica, pure al confino, senza piantonamento, non importava come e dove.
Ma Biocca non ci sta. Studia e compulsa e il 17 marzo controbatte su Repubblica: è vero, «nel 1930 la clausola del ravvedimento non era prevista dal nuovo Codice penale». Ma fu «introdotta nella normativa e nei fatti l’anno successivo». Cosi: «Con l’art. 43 del Regio decreto n. 602 del 28 Maggio 1931scrive Biocca Mussolini attribuì al Ministero della giustizia l’autorità di emanare disposizioni applicative della legge ed emettere i relativi decreti...». E prosegue lo storico: «le nuove misure furono applicate con severità e imposero la verifica del ravvedimento reintegrato infine nel testo di legge del 1962». Di nuovo Buttigieg, con misero spazio su Repubblica, e ancora chi scrive, replicano che si tratta di illazioni e che quel che vale, è la norma «senza ravvedimento» a cui Gramsci si appellò, non già le «disposizioni applicative». Ma occorre qualcosa di più per troncare di netto la questione, di là del fatto acclarato dell’errore di Biocca, con lo scambio di una norma per l’altra.
E siamo in grado di darvelo il qualcosa, e in esclusiva. Non solo qualcosa, ma due prove decisive dell’infondatezza della tesi del ravvedimento. Vediamo la prima.
È Il testo di quelle famose disposizioni attuative del Codice Rocco frutto dell’art. 43 del Regio Decreto n. 602 del 28 Maggio 1931, emanate da Governo e Ministero di Giustizia, su impulso di Mussolini. Quelle disposizioni, per il caso in argomento, si traducono esattamente in un «Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena», previo altro Regio Decreto del 18 giugno 1931, n. 787, e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 27 Giugno 1931, n. 147. Al capitolo XVI al titolo «Liberazione condizionale», art. 191 (vedi la riproduzione qui sotto), proprio in riferimento all’art. 176 del Codice Rocco, al contrario di quel che scrive Biocca, non c’è nessun ravvedimento richiesto, e nessuna procedura di verifica a riguardo. E si legge che il condannato nelle condizioni dell’art. 176, per ottenere la libertà condizionale fa domanda al direttore del carcere, che la gira al giudice di sorveglianza, «con le informazioni sulla condotta del condannato e con il parere del consiglio di disciplina (mod. 30)». Seguono le indicazioni sulla residenza scelta e sulle «condizioni» che annullano il beneficio della libertà condizionale. Quali? Quelle (implicite) sulla pena inflitta o da scontare, e quella di una eventuale «misura di sicurezza detentiva», subentrata a carico del condannato dopo la pena.
Conclusione: né l’art. 176, né le relative e posteriori «disposizioni attuative» prevedevano il ravvedimento come «chance» per il detenuto. Contavano solo il comportamento e la la pena inflitta o da scontare. E la sostanza non cambia, anche a voler usare magari il “modello 30” formulario da inoltrare al giudice che poteva in teoria annotare «oscillazioni» dei detenuti. Ipotesi bizantina se non ridicola, falsa fino a prova contraria su Gramsci, che a quell’articolo 176, con ciò che v’era attorno, si appellò nella sua istanza: «Poiché mi trovo nelle condizioni giuridiche e disciplinari indicate dall’articolo 176...». È grazie a quell’istanza, e anche alla pressione internazionale, di cui vi diremo più avanti, che Gramsci, dopo Turi, potrà lasciare la clinica del dott. Cusumano a Formia e trasferirsi nel 1935 a Roma. Con orgoglio, lucidissimo politicamente, e senza piegarsi mai, continuando a scrivere I Quaderni, sebbene malato, «psicotizzato» e dolorante. Dopo aver rifiutato di farsi estorcere qualsivoglia domanda di grazia. Ma ecco infine la seconda prova, che manda all’aria ulteriormente il teorema di Biocca. È un documento storico: il numero del «Soccorso Rosso» del Gennaio 1934, Serie II. anno IV, n. 1. Lì c’è l’appello del «Comitato Gramsci Pertini, Lucetti», per la liberazione dei tre, con in testa la firma di Romain Rolland e altre personalità di diverse correnti politiche. Appello che metteva in difficoltà il regime per la sua eco da Parigi. E che chiedeva di intensificare la lotta: «onde costringere il fascismo ad applicare l’art.176 del codice penale fascista, che prevede la liberazione condizionale per i detenuti che abbiano raggiunto le condizioni previste dall’articolo stesso, a Gramsci, Pertini Lucetti che versano in gravi condizioni di salute». Sicché fin da gennaio 1934 l’antifascismo internazionale, i socialisti e il Pc. d’I. capovolta quasi la svolta staliniana del 1930 che vide Gramsci contro invitano ufficialmente Gramsci a usare il grimaldello dell’art.176, per mettere il regime in difficoltà dinanzi alla pubblica opinione. Benché Gramsci paventasse che il clamore potesse nuocergli. Altro che debolezza, congiure e ravvedimento. Per inciso: il saggio di Biocca che Repubblica scrisse di aver estratto da Nuova Storia Contemporanea è poi uscito, dopo le polemiche. Ma parla solo dell’ambiguo personaggio tedesco, padrone di casa di Gramsci in Via Morgagni a Roma. Non c’è (più) la parte sul «ravvedimento». Strano, no?

l’Unità 7.4.12
L’appello
Da Rolland a Wanner Il Comitato si mobilita

Il Comitato per la Difesa di Gramsci, Pertini, Lucetti formatosi la sera del 23 maggio 1933 e composto da R. Rolland, H. Barburre, F. Jourdain, Gabriele Duchene, Leo Wanner, Willj Munzerberg, Jules Mallard, Gaston Bergery, Pierre Langevin, Raffaele Rosseti, Cesare Campioli, Gino Carbin, Eugenio Bianco, Lisa Athos, rappresentanti diverse correnti politiche e categorie sociali, ha lanciato un appello per l’intensificazione della lotta in difesa di Gramsci, Pertini, Lucetti onde costringere il fascismo ad applicare l’articolo 176 del Codice Penale fascista, che prevede la liberazione condizionata per detenuti che abbiano raggiunto le condizioni previste dall’articolo stesso, a Gramsci, Pertini, Lucetti, che versano in condizioni gravi di salute.
I lavoratori italiani devono rispondere a questo appello con tutto l’entusiamo e realizzare sulla base dei Comitati Gramsci, Pertini, Lucetti, una larga intesa di fronte unico che faciliterà l’esito della campagna.

l’Unità 7.4.12
I fatti
Da Formia parte la richiesta di trasferimento

Nel 1934 Antonio Gramsci è piantonato a Formia, in condizione di detenzione, nella clinica del dott. Cusumano. Chiede di essere trasferito in una clinica specializzata a Fiesole, o di cambiare alloggio a Formia stessa. La pratica non va avanti: «Molte assicurazioni mi sono state fatte ma la realtà è che le mie condizioni sono morbose e ogni piccolo fruscio mi mete in orgasmo». A fine estate del 1934 Gramsci chiede la libertà condizionale e di poter consultare un sanitario di fiducia per scegliere il domicilio secondo le sue condizioni fisiche. Scrive nella sua istanza a Mussolini: «Poiché mi trovo nelle condizioni giuridiche e disciplinari indicate dall’articolo 176 del Codice penale per essere ammesso alla libertà condizionale, prego Vostra eccellenza di voler intervenire affinché mi sia concessa una condizione di esistenza che mi consenta di attenuare le forme più acute del mio male». L’istanza fu accolta il 25 ottobre 1934. Ma lascerà Formia soltanto il 25 agosto 1935. Destinazione clinica Quisisana di Roma. Morirà il 27 aprile 1937 a 46 anni.

l’Unità 7.4.12
Missione impossibile a Santiago
Parla Emilio Barbarani ambasciatore in Cile nel 1974, proprio quando iniziava la dittatura di Pinochet: «Tutelare i perseguitati politici era rischioso» Le sue memorie personali in un libro che ha il ritmo di una spy-story
di Rock Reynolds

C’è un fascino quasi perverso nella voglia di scoprire cosa porti un popolo a una spaccatura insanabile, a una contrapposizione prima socioeconomica e poi ideologica che finisce per esplodere in un vero e proprio scontro fisico, quando addirittura non in un cieco desiderio di annientamento reciproco. È questa la strada che, nella storia del Ventesimo Secolo, tante fragili democrazie si sono trovate a percorrere. Il Cile di Salvador Allende è uno dei casi più eclatanti, un paese le cui scelte non allineate hanno finito per pesare su equilibri internazionali ritenuti intoccabili, scatenando un colpo di stato militare e una repressione violentissima, una sorta di modello golpistico per l’intera America Latina.
Chi ha ucciso Lumi Videla? (Mursia, pagine 304, euro 19) di Emilio Barbarani è una accorata raccolta di memorie personali e un lucido ritratto di un paese, di un’epoca e di un popolo. Non è un trattato di storia, ma la storia, si sa, la fanno gli uomini e il suo libro è ricco di figure ed episodi di straordinaria umanità e, talvolta, miseria. Come la misteriosa morte di Lumi Videla, la ragazza vicina agli ambienti dell’estrema sinistra il cui cadavere fu ritrovato all’interno del perimetro dell’ambasciata italiana, gettatovi da qualcuno che intendeva farne ricadere la responsabilità sul nostro paese, reo di eccessiva indulgenza nei confronti dei numerosi rifugiati politici accolti.
Barbarani, un diplomatico di lungo corso, ha svolto uno dei suoi primi incarichi proprio a Santiago nel 1974, all’indomani della salita al potere di Pinochet. A Santiago è tornato nelle vesti di ambasciatore dopo la fine del regime, nel 1998.
Che atmosfera si respirava in quei giorni nella nostra ambasciata? «Metà del personale non parlava con l’altra metà per motivi politici: i conservatori ai ferri corti con i progressisti, i “pinochetisti” contro gli “antipinochetisti”. L’atmosfera era surreale. Il capo missione de Vergottini si sentiva controllato a vista da una parte del personale locale che per certo riferiva ai militari cileni e da altri impiegati che senza dubbio informavano i partiti della sinistra italiana. La congiuntura di rapporti bilaterali tra Italia e Cile era tesa all’estremo: l’ambasciata ufficialmente era chiusa».
Che tipo di difficoltà incontravate nella rappresentanza del nostro paese? «La nostra attività a tutela dei perseguitati politici di sinistra non era facile, né priva di rischi. Anche perché il governo italiano, pur non ignorando l’attività “extra ufficiale” che noi diplomatici svolgevamo, ci aveva spediti a Santiago senza alcuna forma di accreditamento. Le autorità cilene ci consideravano “diplomatici di passaggio”. Ciò indeboliva la nostra posizione e rendeva la nostra attività priva di qualsiasi copertura ufficiale. Il governo italiano non soltanto non riconosceva la giunta militare di Pinochet, nonostante la maggior parte dei paesi europei mantenesse relazioni diplomatiche con essa, ma tuonava ogni giorno contro i militari cileni per le loro inammissibili violazioni dei diritti umani. Roma aveva dunque vietato a noi funzionari di mantenere rapporti di qualsiasi tipo con i militari, ma allo stesso tempo ci aveva richiesto di fare il possibile per porre in salvo i perseguitati del regime cileno e farli espatriare: evidentemente questo non era possibile senza negoziare con i militari le autorizzazioni per l’espatrio».
Dal suo libro si evince che la chiesa cilena abbia sostenuto fortemente la popolazione vessata dal regime. In cosa è stata diversa dalla chiesa argentina? Il nunzio apostolico in Argentina è stato infatti più volte tacciato di collaborazionismo.
«Ammirevole è stata la Chiesa cilena, dal suo capo, il cardinale Silva Henrìquez, ai suoi preti, che spesso ricorrevano a me perché facessi il “lavoro sporco” che loro proprio non potevano fare. Le sollecitazioni per portare avanti le più rischiose operazioni in cui venni coinvolto a Santiago in quei tempi mi sono pervenute dal Vicariato della Solidarietà, l’organo della Chiesa cilena preposto alla tutela dei poveri e dei perseguitati politici. In Argentina, in una situazione molto diversa da quella cilena, la posizione della Chiesa nei confronti dei militari locali è stata certamente meno netta di quella dei preti cileni verso Pinochet».
Come percepiva il clima che si respirava fra la gente? Ricordo il film «Missing» di Costa Gavras. Le pare autentica l’atmosfera descritta?
«Dopo aver visto “Missing”, commentai: “Che ricostruzione perfetta! Questo è il vero clima nel quale ho vissuto e operato a Santiago”. Era la repressione in atto, la ricerca con ogni mezzo degli oppositori di sinistra, il loro arresto, l’interrogatorio, le torture, spesso la morte. Missing, “desaparecido”, scomparso. Dai centri di detenzione e tortura alcuni uscivano vivi, ma segnati per sempre nell’anima e nel corpo da tracce indelebili. Altri soccombevano. Re-
gnava una atmosfera inquietante. Metà della popolazione, poverissima, viveva in preda al sospetto, al timore di delazione, al terrore. L’altra metà, benestante, viveva serenamente, lieta che fosse stato sventato il palpabile rischio di una rivoluzione proletaria su modello cubano. Non v’erano mezzi per opporsi al regime, salvo darsi alla macchia. La magistratura, cui i parenti dei “desaparecidos” facevano ricorso per avere notizie dei loro cari, era incapace di dare risposte plausibili».
Qualcuno sostiene che le violenze inflitte ai perseguitati politici rientrassero nella strategia di una sorta di internazionale del terrorismo di stato in America Latina. Lei che idea si è fatta?
«Le storie di violenza e torture in Cile sono tristemente note. La cosa forse più sconvolgente è la notizia che circolava allora nelle capitali latinoamericane. I membri scelti di numerose polizie dei paesi sudamericani, specializzati nell’arte di “far cantare” i propri prigionieri, si erano addestrati presso una scuola internazionale appositamente creata in Centro America, di cui facevano parte anche stati dalle ineccepibili credenziali democratiche. Certamente fu posta allora in atto una comune e cruenta strategia di contenimento del comunismo. La “Operación Cóndor” tra Cile, Argentina, Uruguay, Bolivia, Brasile e Perù non è che uno dei numerosi esempi. In Cile, molti oppositori morirono e molti rimasero segnati a vita. Le cifre allora circolanti erano di 1500-2000 morti, sia nel corso delle operazioni militari, sia a causa dei trattamenti ricevuti nei centri di detenzione».
Quando è tornato in Cile nel 1998 nelle vesti di ambasciatore, che paese ha trovato?
«Nel 1998 ho trovato un Cile del tutto diverso. I militari, con una decisione poco comune nella storia delle dittature di destra e di sinistra, avevano accettato di restituire il potere ai civili. Il Cile politicamente tornato alla democrazia, era diventato economicamente forte, anche per merito delle riforme apportate all’economia dal regime militare, pur con un enorme prezzo sociale. Un paese purtroppo ancora profondamente diviso e ferito nell’anima. L’opera di riconciliazione nazionale è ancora in corso e sarà lunga».


Repubblica 7.4.12
 Sinead O´Connor
"Sono una ribelle che fa tanti errori scrivere canzoni è la mia terapia"
di Luigi Bolognini

Incontro con la O´Connor, la cantante irlandese ha appena pubblicato un album apprezzato ovunque dopo cinque anni di silenzio e follie. E a fine mese sarà a Milano per un concerto al Teatro Smeraldo
Il titolo del disco viene da alcuni racconti di atti sessuali che ho scritto per un giornale e sono stata travolta dalle critiche
Chi crede in Dio non dovrebbe rubare neanche le caramelle, figuriamoci di peggio. Bisogna salvare Dio dalla religione

Intervistare Sinead O´Connor è un´impresa: risponde solo dopo giorni e giorni di appostamento e appuntamenti saltati. Ma ancor più difficile deve essere la sua vita privata. L´elenco dei suoi colpi di testa - frutto anche di un disturbo bipolare della personalità - è alto suppergiù quanto quello del telefono. Tra le ultime imprese che hanno fatto parlare di lei: la minaccia di sparare a Benedetto XVI se mai venisse in visita a Dublino; il quarto matrimonio, con un terapista conosciuto dopo che su Twitter aveva chiesto che qualcuno la soddisfacesse sessualmente, durato un paio di settimane; un tentativo di suicidio per overdose di farmaci; uno sberleffo a Madonna («Mi spiace per lei che ha costruito una carriera sul look e si ritrova a 50 anni a correre contro il tempo e fingere di averne 30»). Però la 45enne cantante irlandese di tutto questo non intende affatto parlare: «Non so bene che cosa si scriva di me e di quello che dico e che penso: ho fatto voto di non leggere più i giornali e di dedicare il tempo a cose più interessanti, come pregare».
Ma ogni tanto le capiterà l´occhio su un sito Internet, o magari ascolterà radio e tv.
«Certo, succede. Devo dire che normalmente mi faccio grandi risate quando vengo a sapere quello che ho scritto e che ho detto, cioè l´enfasi che viene data. Sono solo delle opinioni, anche se a volte le esprimo con toni particolari. Dopodiché so benissimo come funziona: io sono un personaggio pubblico e le mie parole sono semplicemente il fuoco con cui si alimenta il forno dei mass media. È un gioco, è utile a voi per fare audience ed è utile a me per farmi pubblicità».
È a questo che si riferisce il titolo del suo disco appena uscito, "How about I be me (and you be you), ovvero "Che ne diresti se io fossi io e tu fossi tu?".
«Anche. Solo di recente sono riuscita a tenere certe cose fuori di me, a fregarmene e a essere me stessa. Il titolo mi è venuto dopo alcuni articoli sul sesso che ho scritto per un giornale irlandese: erano dei racconti di atti sessuali e sono stata travolta dalle critiche di gente repressa che voleva che fossi diversa da come sono».
Beh, lei non nasconde mai come la pensa. Anche su Twitter fa spesso dichiarazioni clamorose e controverse.
«Non sa quanta gente mi dice che dovrei stare attenta a scrivere certe cose perché ci sono i media che possono rilanciarle. Ma allora dovrei comportarmi diversamente da una persona normale solo per questo?».
Questo disco ha avuto accoglienze entusiastiche di critica e pubblico. Dicono che sia il suo migliore: è d´accordo?
«Guardi, io ho quattro figli e credo che lei non sarebbe così sfrontato da chiedermi qual è il mio preferito. Allo stesso modo non mi chieda qual è il mio disco migliore. Anche se ammetto di essere parecchio affezionata a Theology, il mio penultimo. Ma le reazioni del pubblico per questo album mi hanno sorpreso e lusingato».
Un disco di stile cantautorale, se vogliamo dire così, ricco di atmosfere intense e ballad come non faceva da tempo. Anzi, negli ultimi dischi aveva vagato tra il folk irlandese e il reggae.
«Più che vagato, ho divagato. Erano sfizi che mi volevo togliere, prima di tornare al songwriting classico, che è quello che più mi appartiene. Avevo bisogno di demolirmi prima di ricostruirmi, e lo intendo sia a livello artistico che personale».
Ma questa ricostruzione è durata cinque anni di silenzio. Cos´ha fatto? A parte le sue cose personali, intendiamo.
«Ho vissuto, appunto, ho pregato, ho fatto i miei errori. Quanto al resto sa, io sono una che scrive molto lentamente, quasi di subconscio. Non sono una che si mette a tavolino e scrive di getto. Tutto avviene per accumulazione, poco per volta, fino a che un giorno mi ritrovo le canzoni su carta. Scrivere per me è quasi catartico, una terapia che mi migliora, una specie di psicanalisi».
Però ci sono canzoni molto dirette, e ancora una volta contro la Chiesa cattolica. Quelle non nasceranno dal subconscio.
«No, quelle nascono dalla rabbia per certe responsabilità della Chiesa. Io sono estremamente religiosa, fin da piccola ho un amore appassionato per Dio. E mi arrabbio quando vedo come si comporta chi dovrebbe rappresentarlo. Chi crede in Dio non dovrebbe rubare neanche le caramelle, figuriamoci abusare dei bambini. Bisogna salvare Dio dalla religione».
Non è facile trovare un artista che parla di Dio. Le canzoni di adesso sono tutte su amore e dintorni.
«Quelle di adesso sì, è vero. Ma ho sempre in testa gente come John Lennon e Bob Marley, che ne parlavano eccome. Ora di canzoni che affrontano certi temi ci sono solo quelle reggae».
Ora il tour che la porterà anche in Italia per un´unica data, il 24 allo Smeraldo di Milano.
«Non vedo l´ora. Quando canto sono davvero sola: io, il microfono e lo Spirito Santo. E l´Italia è uno dei Paesi dove ho avuto più successo, credo sia per le comuni origini cattoliche. Anche se non l´ho mai visitata da turista, sempre e solo per spettacoli. Rimedierò prima o poi».
Come affronta i concerti?
«Con vari riti. Prima dei massaggi alla schiena che mi sono utilissimi da quando, anni fa, ho avuto un incidente. Poi un bicchiere di acqua calda con zenzero, limone e miele. Quindi le preghiere. Devo pregare molto, durante la giornata, e spesso prima di un concerto non è facile perché hai mille cose da fare. Così a volte mi chiudo in bagno e prego».
E ride felice agitando la testa rasata, da sempre il suo simbolo: «Ai tempi fu una ribellione alla richiesta della mia casa discografica di lasciar crescere i capelli, adesso ho capito che sto meglio così. Con la testa rasata puoi fregartene del resto, del corpo, del trucco. E comunque secondo molti ho sempre un bel fisico. Posso ancora tirare fuori le tette quando voglio».

Repubblica 7.4.12
"L´idea classica di libro si è estinta, parola di Amazon"
di Jaime D’Alessandro

Martin Angioni, a capo del colosso in Italia e che dovrebbe essere presente al Salone di Torino, spiega come cambierà il concetto di testo e di volume
"Oggi leggi una recensione e con un clic puoi prendere quell´opera: non c´è partita"
"Se puoi pubblicare 30 pagine a 99 centesimi è evidente che è cambiato un paradigma"

Lo chiama "tsunami", senza mezzi termini. Ecco cosa c´è nel futuro dell´editoria italiana secondo Martin Angioni, a capo della filiale di Amazon nel nostro Paese. Classe 1967, con un passato prima nella banca d´affari JP Morgan fra Berlino, Londra e New York, poi come amministratore delegato della casa editrice Electa di Mondadori, Angioni usa toni pacati per trasmettere contenuti esplosivi. Cominciando da quel che succede oggi nel mondo dei libri, proprio mentre voci di corridoio danno per certa la presenza di Amazon al Salone di Torino, e nei negozi è appena arrivato il Kindle Touch, il lettore di ebook con schermo tattile della multinazionale di Jeff Bezos. "L´onda anomala - spiega - è un processo inevitabile che nel giro di due o tre anni cambierà completamente il volto dell´editoria. Non riguarda nemmeno il tipo di lettore, che alla fine è sempre lo stesso, ma l´idea stessa di libro. Ed è un mutamento contro il quale si può fare davvero poco".
Tutto per colpa, o merito degli ebook?
«In America, per i grossi editori, i libri digitali valgono ormai il 20 per cento del fatturato. In Inghilterra siamo al 10 per cento. E i numeri tendono a raddoppiare anno su anno. Nel 2010 e nel 2011 c´è stata l´accelerazione. Un ebook, del resto, costa fra il 30 e il 50 per cento di meno rispetto alla copia di carta. In certi frangenti, penso alla saggistica, si arriva a meno 70 per cento. E poi si accede alla libreria 24 ore su 24. Leggi una recensione e compri il libro. Si può anche scaricare un estratto gratuitamente, il 10 per cento di un volume, o prestarlo ad un amico. Non c´è partita».
Fa venire in mente iTunes. E magari alcune case editrici non sono contente di fare la fine delle etichette musicali.
«Le rispondo partendo dalla definizione di libro dell´Unesco: "non è seriale, nel senso che non è un periodico come un settimanale o un quotidiano, ed è più lungo di 50 pagine". Il Kindle Single, la possibilità di pubblicare brevi saggi o racconti a prezzi stracciati, sta stravolgendo il paradigma. Quindi cos´è oggi il libro? Un contenitore che non condiziona più il contenuto. Si possono pubblicare 30 pagine a 99 centesimi e lo si può fare anche in forma seriale. Come nel caso di John Locke, il primo autore ad essere autopubblicato che ha superato il milione di copie».
Succede anche nel mondo degli app store che le persone propongano il proprie creazioni. Poi però a fare davvero i soldi, salvo eccezioni, sono solo la Apple e Google. La prima vendendo tablet e smartphone, la seconda con il mercato pubblicitario. La media di guadagno per singola applicazione a pagamento supera si e no i 300 dollari. Spiccioli. Succede anche su Kindle?
«Nell´editoria tradizionale è la stessa cosa. Solo il cinque per cento dei libri pubblicati vende».
Sta dicendo che in ogni caso non c´è scelta?
«Il futuro è già qui. O si decide di farne parte o si resta fuori. Non ci sono alternative agli ebook. Del resto come si fanno a vendere libri a 20 euro quando c´è una crisi di questo livello? E guarda caso il tracollo maggiore si ha nei volumi d´arte, quelli più cari. Per non parlare dei cataloghi delle mostre. Prima se ne vendeva uno ogni 15 visitatori, oggi uno ogni 50».
A proposito di crisi: i recenti dati della Nielsen sul calo dei lettori sono un segnale anche per voi.
«I lettori forti, quelli che comprano dai 9 a oltre 12 libri l´anno, sono scesi fra gennaio e febbraio di 720 mila unità. Ma guardando i dati Nielsen riguardo il 2011 scopriamo che sono comunque 6,3 milioni. Io stapperei una bottiglia di champagne. Per anni si è detto che erano solo cinque milioni»
E voi l´avete stappata la bottiglia di champagne? In Francia gli editori hanno alzato le barricate contro Amazon. Qui vi hanno dato l´intero catalogo di ebook senza fare una piega.
«In Francia hanno 15 mila librerie indipendenti, da noi sono appena 1200. A Parigi e dintorni il mercato dei libri vale tre volte quello italiano e c´è un governo con una vera politica culturale».
Ma qui c´è un ministro come Profumo che difende l´idea della digitalizzazione dei libri scolastici, mentre oltralpe Frédéric Mitterrand bacchetta i colossi dell´hi-tech sostenuto da figure come Teresa Cremisi, a capo di Flammarion.
«E´ il bello e il brutto dell´Italia, Paese molto "deregolato". La difesa francese delle librerie è la difesa ideologica di un sistema. Mitterrand ha chiesto espressamente agli editori di non trattare singolarmente con noi, Apple e Google, ma di esprimere una posizione comune. Molte case italiane al contrario vedono nel digitale un´opportunità, guardano avanti. Ma sono divise. Messaggerie è favorevole alla legge Levi che blocca gli sconti al 15 per cento. Gli altri no. Mondadori ad esempio incolpa quella stessa legge per il recente calo di lettori. Perché impedisce le promozioni».
E lei cosa pensa?
«E´ una questione culturale. Esistono vantaggi e svantaggi sia nel modello anglosassone senza prezzi fissi e senza regole, sia in quello europeo che prevede entrambi. Credo che la legge Levi non aiuti, anche se non è detto sia la principale causa del calo dei lettori».
Lo tsunami prevede che Amazon Italia si metta a fare l´editore come fa in America?
«Abbiamo sette marchi editoriali, ma solo negli Stati Uniti. Nella maggior parte dei casi trattiamo libri che non esistono in lingua inglese. Appena il tre per cento dei volumi usciti nel mondo arrivano nelle librerie statunitensi. E dato che Amazon sa cosa vende altrove, li traduce e li pubblica. Poi nel 2011 ha cominciato una campagna di acquisizioni. Feltrinelli era editore e ora ha delle librerie. Amazon da libraio fa anche l´editore. Nulla di strano».
E´ un si o un no?
«Per ora è un no. Non ci sono state iniziative simili fuori dall´America, né nuove assunzioni, piani a breve, investimenti. Però se Amazon ha 60 miliardi di dollari di fatturato, significa che lì dove opera è più efficiente di altri. Si vede che negli Usa le case editrici non hanno fatto tutto quel che si poteva fare per avere buoni margini di guadagno. Lasciando molto spazio agli altri».