Intercettazioni, Caselli lancia l’allarme: «Legge devastante»
di Federica Fantozzi
Anna Finocchiaro annuncia battaglia in aula contro una legge «blocca processi»
Il procuratore di Torino: «Sulla sicurezza la maggioranza fa come Penelope. È una catastrofe»
Martedì il ddl sulle intercettazioni approvato nel primo ramo del Parlamento approda in Senato. Orlando contro i franchi tiratori: «Teste vuote e irresponsabili». IdV annuncia un sit in fuori Palazzo Madama.
La maggioranza va avanti come un bulldozer. Martedì prossimo il disegno di legge sulle intercettazioni approvato giovedì dalla Camera in mezzo a bagarre, striscioni, caos e proteste, approderà in commissione Giustizia a Palazzo Madama.
E IdV annuncia un sit in davanti al Senato per attirare l’attenzione del presidente della Repubblica che, ha già detto, esaminerà il testo una volta approvato.
Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd, annuncia battaglia in aula: «Come farà il governo, dopo tutti gli allarmi lanciati, dal procuratore antimafia Grasso ai funzionari di polizia, dagli intellettuali al mondo dell'informazione, a mettere di nuovo la fiducia?». A un testo che «limita le indagini, blocca i processi e imbavaglia l'informazione». Per Donatella Ferranti si vara una legge «ammazza indagini». Anche Articolo 21 parla di «legge bavaglio» e prepara una grande iniziativa nazionale di partiti, associazioni e sindacati.
Nel primo ramo del Parlamento il ddl è passato con 318 voti a favore, una ventina dei quali provenienti da franchi tiratori dell’opposizione (Pd e IdV). Una brutta figura, visto che il voto segreto era stato chiesto proprio dalla minoranza. Il dipietrista Leoluca Orlando bolla quella pattuglia di deputati come «teste vuote e irresponsabili».
Il procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli attacca: «Una catastrofe per la giustizia. Un siluro alla sicurezza di tutti i cittadini e l'impunità per fior di delinquenti. Da parte di un governo che strilla sicurezza! sicurezza! sicurezza! ma che così produce insicurezza».
Sull’argomento, secondo il magistrato, «la maggioranza si comporta come Penelope, che di giorno tesseva e la notte disfaceva. Da un lato tolleranza zero, esercito, flotta, ronde, e dall'altra il vero baluardo protettivo della sicurezza dei cittadini, le intercettazioni, picconate e ridotte in macerie, con conseguenze che saranno devastanti per tutti».
Anche il senatore Pd Beppe Lumia lancia l’allarme: «In Commissione Antimafia è emerso che questa legge danneggia l'efficacia delle indagini e quindi la repressione del fenomeno mafioso. «In apparenza sembra non riguardare i reati di mafia. Nella sostanza complica e limita il ricorso all'utilizzo delle intercettazioni e riduce l'ambito di manovra degli investigatori, compromettendo il buon esito delle indagini».
Condivide Rita Borsellino, neo-europarlamentare siciliana: «Si rischia di indebolire gravemente l'operato della magistratura e di ridurre drasticamente la libertà di informazione. Non è mettendo il bavaglio alla stampa e violando principi sanciti dalla Costituzione che si salvaguarda la privacy».
l’Unità 13.6.09
Se una legge isola i magistrati
Raffaele Cantone, magistrato
A proposito della legge approvata dalla Camera molto si è già detto e scritto sulle disposizioni dettate sulle disposizioni in materia di intercettazioni; queste ultime diverranno quasi impossibili per i reati di criminalità comune; molto pesanti saranno le ricadute in tema di sicurezza dei cittadini per l’impossibilità di svolgere indagini su delitti gravi; particolarmente negativi saranno anche gli effetti sull’accertamento dei fatti di criminalità organizzata. E poi parecchie riflessioni sono state proposte sui rischi dei divieti di pubblicazione, sulle pesanti sanzioni, anche penali, per giornalisti ed editori e su come tutto questo inciderà sul diritto all’informazione dei cittadini ed, in generale, sulla libertà, costituzionalmente garantita, di manifestazione del pensiero. Una norma, invece, sembra essere passata inosservata o essere stata, frettolosamente, considerata giusta o quantomeno opportuna: l’introduzione del nuovo comma 6 ter dell’art. 114 del codice di procedura penale che stabilisce il divieto di pubblicazione “dei nomi e delle immagini dei magistrati relativamente ai procedimenti o ai processi penali a loro affidati”. Si potrebbe essere portati a pensare: finalmente viene bloccata la deriva pubblicitaria di certi magistrati; o ancora: è una norma che dà una risposta all’allarme lanciato, nel discorso al Csm, pochi giorni fa dal Presidente della Repubblica sul protagonismo dannoso di certi p.m. E davvero una novità così positiva o bisogna, un attimo, fermarsi a pensare? Se fosse stata presente una norma di questo tipo quanti avrebbero mai saputo chi erano Falcone e Borsellino o Borrelli, Colombo, Di Pietro, Davigo, Spataro, Caselli e molti altri. Certo, si potrebbe ribattere, questa è la regola in tutti gli stati occidentali; i magistrati, così come i funzionari pubblici in genere, nessuno li conosce. Epperò perché la norma si è limitata a vietare la pubblicazione dei soli nomi dei magistrati e non di tutti gli altri soggetti che partecipano alle indagini, ad esempio, gli uomini delle forze dell’ordine? E poi davvero l’Italia è come gli altri stati occidentali? In questi ultimi paesi è mai capitato che magistrati sono state vittime di attentati o oggetto di violenti attacchi delegittimatori? Se nessuno avesse mai conosciuto Falcone e Borsellino, avrebbe mai potuto capire che cosa facevano e cosa era impedito loro di fare? Ci sarebbe stata ugualmente tangentopoli? Si sarebbe potuto evitare l’approvazione del famoso decreto salva ladri? I magistrati spesso lasciati soli nei loro difficili contesti ambientali avrebbero potuto ottenere una tutela per la loro incolumità fisica, derivatagli anche dal riconoscimento pubblico del loro lavoro? Sono domande su cui riflettere e forse le risposte non saranno poi così tranquillizzanti. Quantomeno potrebbe instillarsi il dubbio che, con questa norma, i magistrati diventeranno invisibili e saranno molto più soli ed isolati.
l’Unità 13.6.09
Le nuove norme del Ddl sulla sicurezza e la bocciatura del Csm
Il Csm ha approvato un parere sul Ddl sicurezza criticando in più punti le modifiche in materia di immigrazione. Tra queste, la norma che prevede l’esibizione del permesso di soggiorno da parte dei genitori per la registrazione all’anagrafe dei figli nati sul territorio italiano: essa andrebbe contro il diritto del minore ad avere «immediatamente al momento della sua nascita (…) il diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza». La questione posta riguarda, oltre che la tutela dell’integrità del bambino, il rischio di adozioni illegali. Si parla poi dell’obbligo di denuncia da parte dei pubblici ufficiali nei confronti di irregolari che vogliano accedere a «beni primari», come quello della salute: «il rischio concreto - in assenza dell'introduzione di una deroga all'obbligo» di denuncia «è che si possano creare circuiti illegali alternativi che offrano prestazioni non più ottenibili dalle strutture pubbliche»; altrettanto criticata l’estensione a 6 mesi della permanenza nei Cie.
A destare maggiore preoccupazione è, tuttavia, l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale, affidato alla competenza del giudice di pace.
Esso infatti, oltre a determinare la congestione dell’apparato giudiziario, «non appare idoneo» rispetto al suo fine. Anche perché la normativa vigente «consente alle autorità amministrative competenti» di disporre l'immediata espulsione degli irregolari: e se ciò non avviene, lo si deve non già a carenze normative, ma a «difficoltà di carattere amministrativo e organizzativo». Come si vede, il parere del Csm, approvato con due astensioni, conferma tutte le perplessità che le nuove norme hanno suscitato: e, soprattutto, qualifica come mera propaganda questo esercizio di «cattivismo al potere».
Repubblica 13.6.09
Il rapporto Censis
Quando il voto viene dopo il tiggì
di Giovanni Valentini
Questa volta è il Censis, il Centro studi investimenti sociali presieduto da Giuseppe De Rita, a dirlo con la forza delle cifre: durante l´ultima campagna per le europee e le amministrative, il 69,3 per cento degli elettori s´è formato la propria opinione attraverso i notiziari dei telegiornali. E il dato, già impressionante di per sé, sale ulteriormente fra i meno istruiti (76%), i pensionati (78,7) e le casalinghe (74,1). Al secondo posto, troviamo i programmi di approfondimento giornalistico della stessa televisione (30,6). Segue la carta stampata che è stata determinante per il 25,4 per cento degli elettori e quindi Internet con appena il 2,3.
Altro che "calunnie", "congiura dei giornali di sinistra", "complotto internazionale" e via discorrendo, come proclamano il presidente del Consiglio e i suoi seguaci. Qui, ancora una volta, è la tv che condiziona pesantemente il voto degli italiani. Come accade ormai da quindici anni a questa parte: dalla fatidica discesa in campo del Cavaliere sulle onde dell´etere, un bene pubblico che appartiene allo Stato e quindi a tutti noi, anche a quelli che non votano per il centrodestra.
È l´effetto di un´occupazione selvaggia – non ci stancheremo mai di ripeterlo – iniziata a metà degli anni Ottanta e proseguita fino ai giorni nostri, con l´acquiescenza o la complicità di un´opposizione remissiva, buonista o addirittura compromissoria. A cui poi s´è aggiunto, dal ‘94, un conflitto d´interessi senza uguali al mondo, con lo strapotere mediatico di un capo di governo che controlla direttamente tre reti private e indirettamente tre reti pubbliche.
E pensare che c´è ancora chi si ostina a dissimulare l´anomalia televisiva italiana, come fanno l´ex senatore del centrosinistra Franco Debenedetti e l´ex componente dell´Autorità sulle comunicazioni Antonio Pilati, trasferito poi all´Antitrust per meriti acquisiti sul campo, in un libro pubblicato dalla stessa casa editrice che appartiene al gruppo Berlusconi e che recentemente ha rifiutato un saggio del premio Nobel, José Saramago, perché conteneva accuse e giudizi critici sul Cavaliere. È vero che il marchio storico dell´Einaudi è lo struzzo. Ma i due co-autori fanno peggio che nascondere la testa sotto la sabbia, quando confondono la concentrazione televisiva e pubblicitaria con il conflitto d´interessi, trascurando lo status di concessionario pubblico del nostro premier-tycoon; oppure estrapolano la tv dal contesto del sistema dell´informazione, ignorando gli effetti su tutti gli altri media e in particolare sulla carta stampata; o ancora, invocano la privatizzazione della Rai come l´unica soluzione per affrancarla dalla sudditanza alla partitocrazia, quasi che in Gran Bretagna non esistesse la Bbc o un servizio pubblico più che decente in altri Paesi europei.
Ai cultori della materia, si può consigliare piuttosto il saggio rigoroso e ben documentato di Manlio Cammarata, citato all´inizio di questa rubrica. Dal caso di Rete 4 a quello di Europa 7, l´autore ricostruisce puntualmente "il monopolio del potere da Mussolini al digitale terrestre", sulla base degli atti parlamentari e delle sentenze, italiane ed europee. La provocatoria conclusione propone di modificare così l´articolo 1 della Costituzione: "L´Italia è una Repubblica democratica fondata sulla televisione. La sovranità appartiene a chi possiede la televisione, e la esercita come gli pare". Ma forse quell´aggettivo "democratica" ormai è di troppo.
Aspettiamo adesso le prossime nomine alla guida dei telegiornali Rai, dopo quella di Augusto Minzolini al Tg Uno. E vedremo fino a che punto si avvererà la "profezia di palazzo Grazioli", per verificare l´autonomia e l´indipendenza del nuovo Cda di viale Mazzini. Ma la verità è che al fondo resta da risolvere un problema di "governance", cioè di assetto e struttura dell´azienda, per sottrarre finalmente la tv di Stato al dominio dell´esecutivo, quale che sia.
Se settanta o più cittadini su cento vanno alle urne sotto l´effetto ipnotico della televisione, secondo l´indagine del Censis, non c´è poi da meravigliarsi più di tanto che il voto venga "dopo il tiggì" - come cantava ai suoi tempi Renzo Arbore - né tantomeno che il governo si preoccupi di insediare direttori di sua completa fiducia. Il potere si fonda sul controllo della tv. E quando uno prova ad avvertire nello studio di Porta a porta che il centrodestra governa con il "consenso esplicito" di appena il 35 per cento degli elettori, segnalando una questione fondamentale di rappresentanza e di democrazia che non mette in discussione la legittimità dell´esecutivo in carica, il ringhioso sottosegretario Castelli insorge e brandisce come una clava il suo 10,2 per cento per imporre le ragioni della Lega Nord a quelle del Sud e di tutto il resto del Paese.
Certo, anche in America il presidente Obama è stato eletto con un 34 per cento di astensioni. Ma, a parte le diverse tradizioni al di qua e al di là dell´Atlantico, il fatto è che nelle nostre ultime politiche, ai 10 milioni 892 mila di astenuti più 1 milione 629 mila di schede bianche o nulle, si sono aggiunti 3 milioni 692 mila voti validi ma "inutili", cioè dispersi, per effetto di quella "porcata" della legge elettorale che porta il nome del leghista Calderoli: un totale di non rappresentati pari a 16 milioni 215 mila persone. E ha ragione il segretario del Pd, Dario Franceschini, a consolarsi oggi per il fatto che il centrodestra esce in minoranza dalle europee, con il 45,3 per cento dei voti contro il 49,5 delle opposizioni più gli "altri" minori, sebbene questo fosse vero già da prima.
Sono sicuri, allora, i signori del governo di poter governare davvero un Paese così complesso, in un momento tanto delicato e difficile, con un "consenso esplicito" che equivale a un terzo della popolazione? E il dissenso implicito, quello di tutti coloro che non votano per il centrodestra, dove lo mettiamo e che cosa ne facciamo? Ma, soprattutto, i leader del centrodestra sono proprio sicuri di avere un tale consenso anche senza l´appoggio determinante della televisione e dei telegiornali? Basterebbe magari risolvere il conflitto d´interessi in capo a Berlusconi e togliere le mani dalla Rai, per avere infine una controprova.
span style="font-weight: bold; color: rgb(204, 0, 0);">Liberazione 12.6.09
Bipartitismo e sinistra unica,
Ferrero boccia l'idea di Bertinotti
di Vittorio Bonanni
«Proposta interna alla logica del bipartitismo». No da Nencini e Rizzo, dubbi di Veltroni. Consensi solo da alcuni settori del Pd
«E' una proposta tutta interna alla logica del bipartitismo». Così Paolo Ferrero, segretario del Prc, alla vigilia del Cpn che si terrà sabato e domenica, commenta la proposta di Fausto Bertinotti che ieri sulle pagine della Stampa ha ipotizzato la costruzione di un grande partito di sinistra che inglobi tutti, dal Pd stesso fino a Rifondazione passando per Di Pietro, Pannella e Vendola. «L'analisi che fa ha comunque una sua coerenza - dice l'ex ministro - perché ribadisce, come aveva già fatto altre volte, che non ci sono più le due sinistre. In realtà, secondo me, ce n'è una che è stata sconfitta, che è appunto la sinistra di alternativa. Ed è stata sconfitta per subalternità all'altra sinistra. E quindi ne è venuta meno la ragione sociale come è successo con la Sinistra l'Arcobaleno». La seconda riflessione, continua Ferrero, riguarda un'analisi identica a quella fatta per proporre la costruzione dell'Unione. «Dopo Genova - ricorda il segretario comunista - si disse che c'erano le condizioni dentro la sinistra moderata per fare un accordo riformista forte. Quell'analisi errata portò appunto all'Unione. Adesso su una base diversa, che non vede più appunto l'esistenza di due sinistre ma bensì di una, si va nella stessa direzione ma non essendoci un governo la proposta investe il Partito democratico. E quello di Bertinotti è infatti il manifesto di fondazione di un nuovo Pd che tiene dentro tutto». Ma dentro la sinistra moderata non c'è stata ancora una riflessione vera su cosa è stato il liberismo, sottolinea Ferrero, e dunque quella proposta non fa i conti con la realtà. «E accetta completamente la logica bipolare, puntando a distruggere ciò che resta della sinistra di alternativa per porre come unico sbocco appunto il Pd. Il fatto che dentro ci sia anche Di Pietro fa cambiare il ragionamento nelle forme ma non nella sostanza». Senza dimenticare, chiosa il segretario, «che c'è una sopravvalutazione delle proprie forze che ripete così lo stesso errore sia pure in un contesto diverso e con argomentazioni diverse».
L'idea di Bertinotti ha riscosso, non a caso, consensi praticamente solo nell'ala sinistra del Pd, un pezzo del partito di Franceschini ancora molto debole e dunque speranzoso dell'arrivo di nuovi rinforzi. «Una proposta che merita di essere discussa e che comunque non va respinta in modo burocratico» dice Vincenzo Vita, e lo stesso fa Giuseppe Giulietti, deputato dell'Idv e portavoce di Articolo 21, ma proveniente dall'ex sinistra Ds.
No netti arrivano invece da sponde diverse. Riccardo Nencini, segretario nazionale del Ps, considera irricevibile la proposta di Bertinotti, mentre per Marco Rizzo, europarlamentare uscente del Pdci «non servono alchimie organizzative ma un progetto nuovo e l'azzeramento dei gruppi dirigenti che hanno fallito. Serve aria nuova e non assassini della politica che tornano sul luogo del delitto». A spiegare bene la sostanza dell'idea dell'ex Presidente della Camera è Walter Veltroni: «Ha un margine se si vuole un sistema bipolare ma mi pareva che non era questa l'aspirazione di gran parte delle forze del centro-sinistra». Un'idea dunque irrealizzabile anche per chi non ha mai nascosto simpatie per un bipartitismo che queste ultime elezioni sembrano aver definitivamente seppellito. Facendo altresì capire che una sinistra moderata degna di questo nome non può esistere senza una sinistra più radicale che eviti ulteriori spinte moderate che il Paese non si può più permettere.
Repubblica 13.6.09
La riforma Gelmini dei Licei
Ma con i tagli non c´è futuro
di Aldo Schiavone
I nostri licei sono lo snodo cruciale del sistema educativo del Paese. Negli ultimi decenni – diciamo dalla fine degli anni Sessanta – intorno e dentro vi è accaduto di tutto. C´è più distanza fra una ragazza di oggi e una degli anni Cinquanta del secolo scorso – per esperienze, mentalità, aspettative, modelli di comportamento - che fra questa e una sua coetanea degli inizi dell´Ottocento. E per i maschi, le cose non stanno in termini molto diversi, anche se forse il contrasto è appena meno sconvolgente. E´ perciò un autentico miracolo che – pur in mancanza di una politica pubblica degna di questo nome, in particolare per quanto ha riguardato la riqualificazione e la valorizzazione del personale docente – la scuola secondaria superiore italiana abbia in qualche modo retto a questo straordinario mutamento.
E se i suoi studenti sono ancora in grado di sostenere il confronto con i loro pari delle più avanzate nazioni del mondo. Qualunque intervento legislativo su questa struttura e sui suoi meccanismi è dunque compito delicatissimo, in cui procedere con estrema attenzione e cautela.
Il regolamento ministeriale sul riassetto dei licei varato ieri dal Consiglio dei Ministri in attuazione della legge 133/2008 non riflette pregiudizi ideologici, né fa tabula rasa di un processo di sperimentazione farraginoso ma non inutile che ha attraversato negli ultimi anni più di un cambio di maggioranza e di governo. E questo è senza dubbio un punto positivo. Meno confortante è l´evidente mancanza di risorse finanziarie con cui il ministro Gelmini deve misurarsi, e che traspare, per esempio, dagli equilibrismi cui è costretta per quanto attiene alla quantità complessiva dell´offerta formativa (il numero di ore scolastiche fissato per ogni indirizzo, che vede, in alcuni casi, riduzioni anche drastiche e difficilmente giustificabili sul piano pedagogico). Mentre tutti i grandi Paesi dell´Occidente investono sulla scuola e sull´Università, individuando nella crescita della formazione una via per uscire in avanti dalla crisi, solo l´Italia continua a immaginare di riformare senza investire. Un tragico errore: e non aiuta certo a sopportarlo constatare che, in questo, Tremonti non si sta discostando poi molto da Padoa-Schioppa.
L´impianto dei sei licei previsto dal riordino ministeriale – classico, scientifico, delle scienze umane, artistico, linguistico, musicale – è, nell´insieme, abbastanza convincente, e mi sembra rispecchiare in modo sufficientemente coerente il quadro attuale degli studi specialistici non meno che (in prospettiva) quello degli sbocchi professionali. Rilievi più specifici si possono avanzare sul disegno di alcuni indirizzi. Nell´architettura d´insieme il percorso meno persuasivo mi sembra quello dedicato alle "scienze umane" (a cominciare dal nome; forse sarebbe stato preferibile "scienze sociali", per evitare ogni confusione con l´impianto altrettanto "umanistico" del liceo clasico): una novità che andrebbe pensata meglio, anche articolando con più cura i suoi curricula, che si potrebbero centrare con più nettezza rispettivamente sulle scienze storiche e antropologiche e sociologiche da un lato, e su quelle economiche e giuridiche dall´altro.
Più in generale, credo si debba fare uno sforzo maggiore per rendere evidente quella che chiamerei una "affinità formativa" fra tutti e sei gli indirizzi, in coerenza con la proclamata – e giustissima - "parità di dignità" fra i diversi percorsi, senza alcuna articolazione di livello fra di loro (una conquista di "democrazia della conoscenza" da non perdere). Un´eguaglianza che dovrebbe risultare più evidente attraverso la riproduzione in ciascuno di essi di un identico "blocco formativo" costruito sull´insegnamento dell´italiano, della storia e della matematica. Lo spazio opportunamente lasciato all´autonomia progettuale di ciascun istituto dovrebbe ruotare intorno a questo irrinunciabile asse comune.
Sarebbe auspicabile che su questi temi si aprisse una discussione approfondita e serena nell´opinione pubblica del Paese. Non sono in gioco né problemi di una lontana tecnicità da pedagogisti, né temi su cui scatenare risse ideologiche, ma l´avvenire delle nostre giovani generazioni, e la loro speranza di poter continuare a competere ad armi pari con le avanguardie intellettuali del mondo globale. E sarebbe importante che l´opposizione intervenisse con competenza, rigore e concretezza su queste proposte, come finora non è riuscita a fare (penso soprattutto all´Università), favorendo l´avvio di un grande dibattito nazionale sul futuro dell´intelligenza italiana. Perché è di questo che stiamo parlando.
Repubblica 13.6.09
Il Medio Oriente che verrà
Per la pace serve un piano Marshall
di David Grossman
Una lettura drammatica del conflitto tra israeliani e palestinesi
I due contendenti sono intrappolati dalla paura e dall´odio. Solo il nuovo vento americano può far vincere l´idea del dialogo su quella della forza
Discendere da due razze concede al presidente Usa una naturale capacità di visione bifocale
Se l´opzione della apertura non passerà, prevarrà l´onda dell´Islam fondamentalista
Il noto studioso di Qabbalà Gershom Sholem coniò una volta il detto «Tutto il sangue va alla ferita». Mi sembra che non ci sia descrizione più azzeccata per il prezzo che il conflitto in Medio Oriente pretende dalle sue vittime. Tutto il nostro sangue, quello israeliano e quello palestinese, da più di un secolo va alla ferita aperta tra noi e, sgorgandone, dissangua le vite di giovani che si combattono l´un l´altro, di coloro che vivono nella paura e nella disperazione, nonché le risorse economiche, sociali e creative dei popoli in lotta, i loro tesori materiali e spirituali. Tutto il sangue va alla ferita. Moltissimi, in entrambi i popoli, non riescono più a credere che un giorno, in futuro, li attenda una qualsivoglia possibilità di vivere in pace. Nel popolo davanti a loro vedono un male esistenziale pressoché disumano nella sua crudeltà. Sempre più, nella coscienza israeliana e in quella palestinese, il conflitto si configura in termini assoluti e apocalittici. Nella bolla ermetica in cui palestinesi e israeliani sono intrappolati prevale quasi esclusivamente la logica della paura e dell´odio secondo la quale ogni contendente ha giustificazioni e argomenti persuasivi per qualsiasi azione infame compiuta verso la controparte e, a causa di questa logica, entrambe le parti soffocano lì insieme, nella bolla.
Come venirne fuori? Come indurre i membri di queste due società tormentate e spaventate a superare gli istinti di ostilità e di diffidenza sviluppatisi e raffinatisi nel corso di cento anni di guerra? Come si può convincere gli abitanti di questa sciagurata regione che nessun comando supremo, divino, li condanna a vivere con la spada in mano per l´eternità, a uccidere e a essere uccisi senza scopo e senza fine? Come elevarsi al di sopra della sofferenza, delle ferite sanguinanti, dell´offesa profonda, del fatto che ormai da cento anni dilapidiamo così le nostre vite in Israele e in Palestina?
Temo che con le nostre sole forze, ormai, non potremo più farcela. Duole ammetterlo, ma ho la sensazione che dopo decine di anni di guerra qualcosa di profondo e di fondamentale si sia deformato in questi due popoli, indubbiamente dotati di molteplici e straordinarie qualità ma, al momento, molto malati. Entrambi. Malgrado sappiano cosa si debba fare per guarire, non sono in grado di farlo.
Se oggi esiste una qualche speranza per loro questa è da ricercarsi nel nuovo vento che comincia, forse, a soffiare sul mondo e che proviene da Washington.
Agli occhi di molti il presidente Obama si profila come un leader – e un uomo – che predilige il dialogo alla forza e, attualmente, è in grado di promuovere nella coscienza mondiale l´opzione del dialogo, dell´ascolto reciproco, della disponibilità e del coraggio a esporsi al punto di vista dell´altro, persino a quello del nemico. In Medio Oriente, si sa, questa è un´opzione molto labile, non ha numerosi precedenti e, per il momento, neppure abbastanza sostenitori. Non è dato sapere quale atteggiamento Obama adotterà verso il conflitto mediorientale ma, per lo meno, il suo punto di partenza è eccellente. L´essere discendente di due razze diverse gli concede una naturale capacità di visione bifocale. Da come si è espresso finora ho l´impressione che capisca benissimo che non si possa guardare il conflitto arabo-israeliano in maniera piatta, ristretta, dividendo rozzamente il mondo in «buoni» e in «appartenenti all´asse del male» come ha fatto il suo predecessore, il presidente Bush. Sembra che il nuovo presidente degli Stati Uniti sappia che chi vuole cambiare sostanzialmente le cose in Medio Oriente è tenuto ad ampliare la propria visuale e ad aprire il cuore alle difficoltà, ai timori e alle aspirazioni di ambo le parti, israeliani e palestinesi. È questo l´approccio che molti in Medio Oriente – e anche in Israele – si augurano che i leader degli stati riuniti oggi adottino. Voi sapete bene che, se ciò non avverrà, entro pochi anni vi ritroverete dinanzi a un Medio Oriente in cui l´Iran, Hezbollah, Hamas e al-Qaeda saranno molto più dominanti di quanto non lo siano oggi. In cui gli stati arabi moderati – l´Egitto, l´Arabia Saudita, la Giordania, l´Autorità palestinese e i principati arabi –, vostri naturali alleati, non riusciranno più ad assicurare regimi stabili e a opporre resistenza all´onda dell´Islam fondamentalista. Sarà un Medio Oriente violento e caotico in cui, di tanto in tanto, divamperanno scontri interislamici e, naturalmente, frequenti guerre tra Israele e i suoi vicini. Guerre che diverranno sempre più violente e brutali e mineranno gradualmente la stabilità di altre regioni del mondo.
Oggi ci troviamo di fronte a una contingenza rara, in cui gli interessi vitali di Israele e quelli degli stati arabi moderati convergono. È questa forse l´ultima occasione per le forze di pace di operare in condizioni di supremazia. La maggior parte degli israeliani e dei palestinesi sanno esattamente cosa si deve fare per risolvere il conflitto ma, come si è detto, non ne sono capaci. Occorre aiutarli. Rimettere in moto il processo di pace, risvegliare dal torpore l´iniziativa araba, neutralizzare la componente di ultimatum e di imposizione verso Israele insita in essa e trasformarla in dialogo. Occorre riprendere il negoziato – avviato con la mediazione della Turchia – tra Israele e la Siria e, naturalmente, quello tra Israele e l´Autorità palestinese. Di pari passo occorre adoperarsi per la riconciliazione delle due fazioni del popolo palestinese perché, senza di essa, non si avrà una pace stabile tra i palestinesi e lo stato ebraico. Per raggiungere questo obiettivo, ovviamente, sarà necessario dialogare anche con Hamas. E sarà altrettanto essenziale avviare dei colloqui diretti con l´Iran sul tema delle armi nucleari e sul suo ruolo di sobillatore in Medio Oriente. Occorre fare pressione, con saggezza e criterio, sulle parti recalcitranti mantenendo un dialogo costante con loro e con i loro timori e traendo razionalmente vantaggio dalla loro grande dipendenza da determinate nazioni in occidente e nel mondo arabo. Occorre assicurare a Israele e ai palestinesi ampi aiuti economici – una sorta di nuovo «Piano Marshall» – per stabilizzare il processo di pace e remunerare chi vi si attiene. Occorre garantire un massiccio intervento di forze internazionali che supervisionino l´attuazione completa e senza compromessi del futuro accordo. Così tante sfide e opportunità attendono la vostra azione risoluta. Oggi avete l´occasione di salvare israeliani e palestinesi dall´abisso in cui cadono insieme, avviluppati in un vortice. L´auspicio è che sappiate essere all´altezza di questo raro momento e far rivivere la speranza che ancora si intravede.
l’Unità 13.6.09
Movida dei minorenni
Le notti a Ponte Milvio tra cocktail, minicar e crisi di bulimia isterica
di Claudio Camarca
Ponte Milvio. Esterno, sera. Lucchetti e spinelli e mojito in bicchieri da mezzo litro. Bassi percussivi implosi negli stereo pencolanti dalle travi dei bar costruiti uno dietro l'altro a innalzare lo steccato di un recinto dentro il quale due/tremila persone il fine settimana si danno appuntamento per narcotizzarsi e passare in rassegna l'abito appena acquistato. Oltre il ponte, lungo le cupole delle chiese, il tramonto si distende ammantando di arancione le nuvole a cirri.
Il Tevere è in piena. Luigi mi guarda di sotto la zazzera bionda. Chiodo alla narice, un drago falso nipponico tatuato sul collo, bottiglia di Corona tra le gambe inguainate nei jeans. «Non è che facciamo delle cose. Stiamo qua in giro. Ascoltiamo musica. Buttiamo giù qualcosa».
Torna a fissare la bottiglia. Sguarda la sua amica Demetra. Che fuma una Marlboro e finge di non accorgersi delle attenzioni. Ha un chihuahua, con al collo un campanellino, incassato nella borsetta Gucci in pelle rossa. «Tanto a casa non c'è niente da fare. La tele è una merda. E mia madre mi rompe le palle con l'angoscia dello studio». Carezza il cagnetto e tira una boccata e accavalla le gambe strizzate nei jackerson, pantaloni da golfisti che da queste lande vanno per la maggiore perché fanno intendere che te la cavi sul green. Demetra ha una sorella, Anna Paola, dodici anni, che mastica eternamente un chewingum impedendosi così di mangiare «schifezze tipo patatine MacDonald che sono capace di farmene fuori un chilata», e che si accompagna al fidanzato coloured figlio di un diplomatico brasiliano abbigliato da giocatore di basket, per di più munito di una palletta da beach soccer che fa andare da una mano all'altra senza soluzione di continuità. Anna Paola soffre di disturbi alimentari «caratterizzati come dice l'analista da periodi di bulimia isterica, nei quali mangio e vomito, mangio e vomito anche cinque sei sette volte al giorno, fino a sputare sangue e allora mi decido e smetto perché mi accorgo di fare schifo».
Il fidanzato annuisce e palleggia e le appoggia la testa sulla spalla. Luigi scuote la testa e commenta dandole della deficiente. Dallo stereo del chiosco parte un brano jazz molto cool. I ragazzi hanno quattordici/quindici anni, frequentano il primo liceo scientifico, escluso il figlio del diplomatico che non ha le idee chiare e si è preso un anno sabbatico prima di compiere il passo. Intorno ce ne sono una decina, compagni di scuola vestiti con pantaloni calati alle ginocchia, CalvinKlein sopra le chiappe, magliette e camicie due taglie abbondanti, capelli sugli occhi a sbarrare l'accesso, cuffie i-pod e palmari alla mano. Figli di brillanti professionisti, rampolli della Roma bene, vacanze in barca e fine settimana sulla neve e college estivi in Gran Bretagna.
Ce ne stiamo a chiacchierare seduti ai tavolini buttati intorno a un platano gigantesco vecchio trecento anni. Beviamo birra e energydrink e pilucchiamo patatine. In mezzo a quattrocento avventori che sorseggiano cocktail e energydrink e piluccano patatine. I ragazzi sono abbronzati. Gli piace raccontarsi, perché come dice Demetra, «i miei non mi chiedono niente, si preoccupano dei voti a scuola e sono angosciati specie mia madre del fatto che uso la pillola». Luigi, «La macchinetta m'è costata dodicimila euro più altri dieci per allestirla come volevo. Mio padre s'è incazzato. Poi l'ha provata e adesso la usa per andare la mattina in tribunale». Anna Paola, «La prossima settimana ho il saggio di danza moderna e se non perdo almeno due chili non entro nella tuta in microfibra di carbonio e l'ansia mi fa venire ancora più fame che nemmeno mi basta dare di stomaco».
Ogni tanto, qualcuno si alza e ordina un bicchiere di vodka da mescolare nei RedBull e nei Burns. Demetra risponde al telefono, prende appuntamento da lì a qualche minuto, mi invita ad accompagnarla dalla parte opposta della piazza. E' figlia di una mia amica separata dal marito. «Mia madre non sa niente che faccio sesso. Mi raccomando non glielo dire. Non capisco cosa ci sia di terribile. Prendo la pillola e obbligo Lolly a infilarsi il preservativo». Lolly sta per Lorenzo. Fidanzato in punizione serale per via di una nota di biasimo inflitta a lezione di latino.
Fendiamo la folla agglomerata come palline di polistirolo. Ventate di PacoRabanne e Chanel e BulgariParfumepourHome. Decappottabili e moto e furgoni mortuari denominati SUV. Approdiamo a un altro bar. Sediamo sui trespoli in legno. La studentessa con mansioni da cameriera volteggia tra i tavoli e prende l'ordinazione e scompare inguainata nella micro gonna in stretch. Demetra, «Volevi sapere questa cosa dei pompini». Demetra, «E' come una gara che facciamo nei bagni della scuola». Demetra, «Un ragazzo e tre ragazze impegnate a chi lo fa venire prima».
La cameriera in stretch compare armata di vassoio ridondante olive e pizzette e rustici e un Margarita e un Negroni. Demetra, «È un gioco, così, non significa niente. Ma tu sai la roba che circola in internet!». Arriva l'amica della telefonata di prima. Baci baci. Un altro Margarita. Il chihuahua dorme con la testa infilata nel manico della Gucci.
Sofia ha quindici anni, secondo linguistico, un colibrì tatuato sulla spalla, stivaletti estivi e pantaloni a pinocchietto e camicia a sbuffo mezze maniche. Demetra le sussurra all'orecchio, la ragazzina mi guarda e ride. Poi risponde al cellulare. Demetra, «La politica non mi interessa. Sono tutti uguali. Pensano ai cazzi loro. Berlusconi? Ma se è un vecchio». Demetra, «Certo che da grande voglio lavorare. Qualcosa dove mi fanno viaggiare. Una di queste organizzazioni delle Nazioni Unite. Ti fa sentire utile». Sorseggia il Margarita incrociando il braccio con quello dell'amica. Si mettono in posa come due innamorate. Mi prendono per i fondelli. Luigi si presenta con in mano una seconda Corona e tra i denti la fetta di limone. «Andiamo?». Eravamo d'accordo per un giro per Roma a bordo della sua mini car.
(1/continua)
Repubblica 13.6.09
Le scorribande marine degli Etruschi "Erano loro i pirati del Mediterraneo"
di Cinzia Dal Maso
Lo proverebbe una stele appena ritrovata nell´isola di Lemnos, scritta nella lingua degli antichi Tirreni È del VI secolo a.C. e raffigura un uomo che ringrazia la divinità, forse perché scampato alla tempesta
Furono grandi navigatori che raggiunsero le terre d´Oriente dove sorgeva Troia
Secondo l´Inno omerico a Dioniso rapirono la divinità ma furono tramutati in delfini
ROMA. Sono trascorsi 120 anni dalla prima, epocale scoperta. E ora finalmente Lemnos, isola greca a due passi dalla costa anatolica di Troia, ha restituito una seconda "iscrizione tirrenica". Una seconda stele in pietra del VI secolo a. C. che porta incisa una scritta in una lingua strettamente imparentata con l´etrusco, e definita da molti linguisti "etrusco arcaico". Una seconda prova dello stretto legame dell´isola con il popolo dei "Tirreni", cioè gli Etruschi.
I Greci li chiamavano così. "Barbari", a detta dello storico Tucidide che racconta come nell´isola si parlava solo la loro lingua, e si cominciò a parlare greco solo dopo la sua conquista nel 510 a. C. da parte dell´ateniese Milziade. "Pirati" secondo l´Inno omerico a Dioniso, che osarono persino rapire il dio illudendosi di venderlo come schiavo, ma vennero tramutati in delfini.
Forse erano proprio pirati i Tirreni di Lemnos, come ipotizza il linguista Carlo De Simone che ha studiato la nuova iscrizione e la presenterà lunedì all´Università La Sapienza di Roma assieme all´archeologa Aglaia Archontidou, che parlerà del luogo in cui la stele è stata trovata, e ad Emanuele Greco, direttore della Scuola archeologica italiana di Atene, che illustrerà gli scavi italiani nell´isola.
I pirati Etruschi erano così noti e temuti nel mondo antico da essere entrati persino nel mito. Ma due iscrizioni (e qualche altra parola scritta su cocci qua e là) sono un po´ poco per trarre conclusioni certe. «E prove archeologiche non ce ne sono - afferma Emanuele Greco - Solo queste scritte che dimostrano l´esistenza di contatti culturali, di scambi forse solo episodici. Per il resto, l´archeologia dimostra chiaramente che l´isola era strettamente legata alla vicina costa anatolica e a Troia, e importante crocevia di rotte marine».
Il mondo antico era molto più "globale" di quanto abitualmente immaginiamo. Gli antichi viaggiavano di continuo in tutte le direzioni. Perché dunque pensare solo a migrazioni e passaggi da est a ovest? Ex oriente lux, si dice. E la prima iscrizione tirrenica ha fornito per decenni la "prova del nove" della tanto decantata origine orientale degli Etruschi. La prova che lo storico Erodoto diceva il vero, quando narrava la migrazione verso l´Italia centrale dell´eroe anatolico Tirreno, che avrebbe dato il nome agli Etruschi.
Una migrazione avvenuta in un passato lontano e mitico, che però alcuni storici e linguisti (come il tedesco Helmut Rix) collocano in un momento non precisato del secondo millennio a. C.
«Ma la stele è un oggetto del VI secolo a. C. - rileva De Simone - quando gli Etruschi sono già da tempo ben presenti in terra italica. Poi, mancano completamente prove di una presenza etrusca a Lemnos nelle epoche precedenti, quando sarebbe dovuta avvenire l´ipotetica migrazione. E neppure l´Iliade menziona mai i Tirreni».
Per De Simone l´origine orientale degli Etruschi è pura invenzione. Meglio dipingerli come grandi navigatori che, in epoca storica ben nota, raggiunsero persino le lontane terre d´Oriente. Commercianti senza scrupoli. Pirati. La stele appena scoperta porta la dedica di un signore a una divinità a noi ignota. Il verbo usato per "dedicare" è "héloke", termine tipico della lingua tirrenica di Lemnos, chiamata "arcaica" perché si è conservata inalterata come capita spesso nelle aree periferiche.
La stele è stata trovata tra le mura del teatro ellenistico dell´antica città di Efestia, ma sappiamo che prima del teatro nello stesso luogo c´era un santuario. È molto pesante e difficilmente trasportabile, e dunque è sempre rimasta sul posto ed era probabilmente un ex voto donato al santuario. Magari di un pirata "tirreno" scampato per miracolo a una rovinosa tempesta.
Corriere della Sera 13.6.09
ParmaPoesia Festival
Ci sono autori considerati lontani dalla nostra vita. Ma un verso del passato è un miracolo della fortuna
Il cuore delle parole
Orazio, Saffo, Virgilio Perché i poeti dell’antichità ci educano a forgiare i sentimenti e le emozioni
di Nicola Gardini
Nicola Gardini è nato a Petacciato (Campobasso) nel 1965. Si laurea a Milano in Lettere Classiche, nel 1990 si trasferisce a New York, dove consegue il Dottorato in Letteratura Comparata. Dal 2007 vive in Inghilterra e insegna Letteratura Italiana all’Università di Oxford.
Questo testo è un ampio stralcio della lectio magistralis che Nicola Gardini terrà martedì 23 giugno alle 16.30 nell’Aula dei Filosofi dell’Università degli Studi di Parma nell’ambito di ParmaPoesia Festival.
Quando prendiamo in mano il libro di un poeta antico, noi facciamo anzitutto scoperta della lontananza. Quelle parole mitiche che ci parlano anche da una qualunque edizione economica o scolastica e non sembrano di primo acchito dire niente di straordinario e rischiano di confondersi subito tra i discorsi del nostro mondo audiovisuale, quelle parole hanno viaggiato per secoli prima di arrivare a noi e hanno affrontato ogni sorta di aggressione. Molte sono sparite strada facendo. La maggior parte. Molte sono state ferite e menomate e non hanno più l’aspetto originario. Ma l’importante è che siano arrivate fino a noi. Noi, aprendo una qualunque edizione moderna di Virgilio o di Orazio, non apriamo semplicemente un libro: noi apriamo le braccia a un sopravvissuto. E, leggendo Virgilio o Orazio, compiamo il gesto più civile che un essere umano possa compiere: diamo ospitalità allo straniero, cioè gli offriamo la nostra casa e ci mettiamo ad ascoltarlo. Lo dimentichiamo con troppa facilità: un verso, anche un solo verso di Omero è un miracolo della fortuna. Se ci viene incontro, abbiamo il dovere di riceverlo. Negargli l’ascolto sarebbe favoreggiare quella violenza irrazionale ma spesso intenzionale che ha disperso i quattro quinti della letteratura antica e che, in un modo o nell’altro, continua ad agire tra noi e nullificherà anche molte delle nostre cose migliori. Noi dobbiamo opporci alla violenza. Accogliendo l’antico, faremo simbolicamente resistenza a qualunque sopruso.
I beni che provengono dal dare ospitalità sono meravigliosi. Non solo lo straniero è soccorso e salvato e, dunque, molto probabilmente ci resterà amico, ma noi, con lui, diventiamo nuovi. Attraverso lo straniero, nella nostra stessa casa, entriamo in contatto con un mondo che non conoscevamo. E la scoperta di una realtà diversa, oltre a produrre piacere di per sé, ci rende forti. Chi conosce — diceva Lucrezio — non ha paura.
Gli antichi ci insegnano ad ascoltare, perché per prima cosa ci chiedono che li ascoltiamo. La distanza che hanno attraversato ci obbliga a fare silenzio, a districare le loro voci dalla rete di suoni e rumori che ci riempiono le orecchie e la testa, a smettere perfino di ricordare e di stabilire paragoni. Gli antichi ci spingono a rinunciare al già noto, a ricevere l’irriconoscibile. Ormai è raro che riusciamo a godere delle cose nuove, perché per noi non c’è più novità. Anche ciò che la nostra civiltà tecnologica propone come nuovo contiene pur sempre qualcosa di abituale. Questa stessa civiltà tecnologica e consumistica, anzi, ci addestra ad accogliere il «nuovo» con una certa familiarità, pretende che lo riceviamo come dovuto e necessario. Noi abbiamo bisogno di novità ma alla fine, attraverso i prodotti della cultura contemporanea, perfino attraverso certa buona letteratura, non è novità quel che ci viene dato, ma un modo sempre variato di soddisfare la nostra sempre uguale esigenza di intrattenimento. Il nuovo, insomma, nel nostro mondo è scontato fin dall’ora del suo primo apparire.
La parola dei poeti antichi, nella sua totale diversità, non è necessaria: noi non la aspettavamo. Ci è completamente donata. Non soddisfa un bisogno che c’era. È la risposta a quesiti che non avevamo formulato, come la soluzione a un enigma di cui non si sapeva l’esistenza. Allora, mentre leggiamo Orazio, Virgilio, Saffo, ogni sapere preconcetto smette di funzionare, perché non serve più a niente. Siamo completamente disponibili alla voce che viene dal passato. La nostra mente ricomincia a pensare, a immaginare e si impegna a capire. L’inattualità o l’assurdità che può suggerire una prima lettura distratta si dissolve e ogni vocabolo (ogni suono — se il lettore ha la fortuna di conoscere un po’ le lingue antiche) acquista un’importanza primigenia.
La scrittura, per gli antichi, è esercizio etico; impegno a vivere bene. Non c’è riga di Saffo o di Orazio che non proponga un programma di educazione sentimentale ed emotiva. Attraverso la poesia l’individuo impara a definire i suoi sentimenti e a comprenderli in rapporto ai loro oggetti. La poesia circoscrive lo spazio della soggettività, che questa si esprima in un comportamento o in una reazione psicologica. Dalla poesia sono fissati o almeno riconosciuti i limiti dell’umano e sono indicate le conseguenze degli eccessi. Ogni cosa al suo posto e al suo tempo: la felicità si raggiunge se si tiene a mente questa semplice verità. Ma gli antichi sanno bene che gli individui sono continuamente tentati da immagini di sé che non possono adattarsi alla realtà. Il culto della misura, tra gli antichi, non è separabile dal fascino della follia e dell’autodistruzione e proprio per questo va considerato un’altissima conquista.
La poesia antica è lo specchio di una cultura che crede nel potere delle parole. Gli antichi conoscono perfino la parola che vince la morte e ha il governo della natura. Mi sto riferendo al ben noto mito di Orfeo, il poeta che commuoveva le stesse pietre con la bellezza del suo canto e che in virtù del suo dono godette del raro privilegio di riportare la moglie prematuramente morta sulla terra. D’altra parte, il mito di Orfeo ci insegna che la potenza della parola non è onnipotenza. La parola vince se rispetta le regole del mondo in cui si manifesta. Orfeo aveva stretto un patto con il dio dei morti — di non voltarsi mai, prima di riuscire alla luce, per accertarsi che la moglie lo seguisse. Invece si girò ed Euridice fu persa una seconda e definitiva volta. La parola, insomma, ha un ambito di azione, che può essere anche vastissimo, può anche scendere agli inferi e lì esercitare la sua forza. Ma alle parole devono anche corrispondere azioni adeguate. Per di più, perduta Euridice per sempre, Orfeo continuerà a infrangere le regole. Se ne andrà in giro solo per il mondo, poetando, e respingerà le altre donne. La sua fine è orribile, ma in fondo inevitabile. Sarà squartato proprio dalle donne e disperso. Di sole parole, infatti, non si vive. Ci vuole anche il resto. Ci vuole l’amore.
I poeti antichi si preoccuparono, come nessun poeta moderno si è mai preoccupato, di durare. Noi moderni tendiamo a concentrare la nostra mente su chi siamo stati, pensiamo all’infanzia, a quel che non c’è più. Gli antichi pensano ai posteri, a quel che non c’è ancora. Per questo la poesia antica è così essenzialmente diversa dalla nostra: perché non si abbandona ai ricordi personali, nemmeno quando esprime il massimo della soggettività, come vediamo in Catullo. Il pensiero dei posteri non nasce solo da sete di gloria. O meglio: la sete di gloria, che c’è ed è innegabile, esprime un bisogno profondo di autoconservazione e attraverso questo un rispetto della vita che a noi moderni manca. La scarsità di ricordi, se da una parte può essere all’origine di molta della nostra indifferenza alla poesia antica, dall’altra dovrebbe insegnarci a sviluppare qualcosa di cui noi moderni siamo anche troppo carenti: il pensiero di chi verrà dopo di noi. Il poeta antico si sforza di trovare i modi per diventare contemporaneo dei suoi discendenti. Il suo lavoro letterario è tutto un modo di meritarsi l’ascolto di chi verrà, di diventare degno, di essere un modello. Questo apparente narcisismo, in verità, è rispetto di chi ancora non c’è. Il poeta antico non rifugge dalla responsabilità di farsi padre. Solo così ritiene di potersi perpetuare. Ogni poeta antico si rivolge idealmente a un figlio.
l’Unità Firenze 13.6.09
«L’errore di Renzi e del Pd sul mancato accordo con Spini»
Osvaldo Sabato intervista Furio Colombo
Gli appelli al popolo della sinistra sono partiti appena ha capito che non avrebbe vinto al primo turno. Fin da subito però ha chiuso la porta alla trattativa con Valdo Spini: nessun accordicchio. È il motto di Matteo Renzi. «Se chi ha votato Spini riterrà di far vincere Galli, beh, è un suo diritto» continua a ribadire il candidato sindaco del centro sinistra. «Non sono in grado di valutare se sia rischioso dal punto di vista numerico» dice il senatore del Pd Furio Colombo, commentando la decisione di Renzi di ballare da solo al ballottaggio. L’ex direttore dell’Unità è uno dei grandi sponsor di Valdo Spini nella sua corsa a sindaco di Firenze, fermatasi al primo turno con l’8,4% dei voti. «È un errore dare uno inutile schiaffo a una Firenze vera e di sinistra» osserva Furio Colombo, riferendosi alla scelta di Renzi di non stringere alleanze al ballottaggio con Valdo Spini.
Ma Renzi vuole evitare lacci e laccetti con la sinistra radicale
«Ribadisco che sbaglia nel mettere da parte queste persone che hanno dato molto alla città e che vengono escluse solo per fare un exploit giovanilistico. Il suo è un inizio inglorioso, poi vincerà lo stesso e tanti auguri a Renzi».
Quindi Renzi sbaglia?
«Il suo è un serio errore culturale, umano e politico, una cattiva conoscenza della sua città, che ha molto di più da dare, che non semplicemente la spavalderia di uno che esagera nella valutazione di se stesso e che crede di essere il pigiama del gatto, come si dice in America».
L’appello alla sinistra del candidato sindaco Pd non basta?
«Certamente nessuno di loro starà con Giovanni Galli, non c’è dubbio, qualcuno forse non andrà a votare. Ma dal momento che Galli è così poco brillante, credo proprio che non si metta male per Renzi. Quello che sto rimpiangendo è che non abbia lui il senso di uno stabilire dei rapporti, che non sono fare degli accordi. Pensate che Spini cerchi un assessorato? Immaginate che la gente che ha votato per Spini, quasi tutti super occupati o a Firenze o nel mondo, siano alla ricerca di un sottogoverno?».
Spini si sarebbe aspettato almeno un segnale dal Pd ma non è mai arrivato.
«Verissimo. Questo è uno dei tanti errori che il Pd continua a fare. Non so quante telefonate a vuoto ho fatto per chiedere a qualcuno del Pd di farsi carico della questione di Firenze. Non stiamo cercando altri voti? Perché disprezzare quelli che potrebbero essere disponibili solo perché un leader locale è di cattivo umore? Il partito nazionale dovrebbe dire che così non va bene».
Intanto Galli continua a dire che lui è un candidato «civico» e che non c’entra nulla con Berlusconi.
«Non c’è dubbio che Galli sia un uomo di Berlusconi, non significa che sia un criminale, è semplicemente un uomo partitico come ogni altro ed è ridicolo che si nasconda dietro una lista civica. È anche falso, quindi non si deve accreditate un falso. Galli è un uomo di Berlusconi, poi la gente farà le conseguenze che crede».
il Riformista 13.6.09
Il Cavaliere "depresso". Sfoghi e scatti d'ira
di Fabrizio d'Esposito
Retroscena. Un rimprovero al fedele Valentini per un paio di calzini con la riga bianca. E le accuse a Bondi e Verdini.
Come Tony Soprano quando improvvisamente, senza motivo, picchia il cassiere del Bada Bing. La settimana nera della delusione post-elettorale di Silvio Berlusconi è stata scandita da vari raptus d'ira. Il più clamoroso ha investito il fedele deputato Valentino Valentini, la vera mente dello staff del premier. Il malcapitato Valentini aveva indossato un paio di calzini scuri con la riga bianca e quando il Cavaliere li ha notati gli ha fatto una vera e propria scenata.
Per non parlare degli sfoghi contro i vertici del Pdl, accusati di averlo lasciato da solo in una campagna elettorale infernale, basata sugli intrighi e i misteri della sua vita privata, a partire dallo scandalo di Casoria, il Noemigate. Seduto in poltrona, il premier non ha per niente apprezzato la performance televisiva di Sandro Bondi nella puntata di Porta a porta la sera stessa del voto, domenica scorsa. Stesso giudizio più che negativo riservato anche alle apparizioni del triumviro toscano Denis Verdini. Di qui l'anatema sull'onda della rabbia montata davanti al piccolo schermo: «Bondi e Verdini non li voglio più vedere in televisione. Bisogna cambiare. Mi sono stufato». All'ex aennino Ignazio La Russa, il ministro della Difesa indicato da Fini nella troika che governa il Pdl, ha invece indirizzato accuse di «scorrettezza» nella circoscrizione nord-ovest. Lì erano candidati alle europee Berlusconi, La Russa e Mario Mauro, quest'ultimo indicato come futuro presidente del parlamento di Strasburgo. Il ministro proveniente da An ha raccolto oltre 200mila preferenze, piazzandosi dopo il capolista e prima di Mauro, e questo ha fatto andare su tutte le furie il Cavaliere.
Insomma, un Cavaliere nero. E depresso. Politicamente, come ha osservato ieri Lodovico Festa sul Foglio. E non. Ad aggravare il suo umore, poi, ci sono i sempre più insistenti mal di schiena con annesso torcicollo che lo tormentano da settimane. Il premier si sente braccato, pure. La notizia pubblicata ieri da Repubblica sulle cinquemila immagini complessive dell'archivio del fotoreporter sardo Antonello Zappadu rappresentano il segnale definitivo che l'assedio alla sua vita privata è ripreso.
Nemmeno il tempo di centellinare quel po' di serenità provocatagli dal "pizzino" della moglie Veronica sul Corriere della sera (in pratica, un messaggio da decifrare come richiesta di pace per una separazione consensuale) che il Cavaliere ha appreso dell'enorme mole di foto di Zappadu, tra cui una che riprende il premier che sposa una ragazza in un finto matrimonio a Villa Certosa. Di qui l'ennesimo esposto del suo legale nonché deputato Niccolo Ghedini, che già bloccato settecento dei cinquemila scatti: «È gravissimo che un quotidiano, dimentico delle più elementari regole giuridiche, al fine di condurre una violenta campagna politica contro il presidente del Consiglio, si presti ad utilizzare notizie siffatte addirittura riportando presunte ricostruzioni di immagini, inesistenti o create ad arte, la cui divulgazione è vietata ex lege». E ancora: «Non ho dubbi che tali scatti in violazione di legge saranno pubblicati da giornali esteri e, come già accaduto, surrettiziamente ripresi da Repubblica ma non ci si potrà esimere dal richiedere un immediato intervento del Garante e delle autorità giudiziarie».
Dunque, quella che si chiude tra oggi e domani è stata certamente una settimana pesantissima per il premier, in cui anche la sua agenda è stata ridotta al massimo. Persino le sue battute, di solito gaffe leggerine o fuoriposto, sono un segno del suo nervosismo. Ormai, il Cavaliere le usa a mo' di esorcismo contro i suoi guai, come quella dell'altro giorno all'assemblea della Confartigianato: «Devo scappare via perché sto combinando il matrimonio tra Noemi e quell'avvocato inglese... (Mills, ndr) e porto in dono l'offerta di un viaggio di nozze sugli aerei di Stato aggratis». Infine, quando incontra giovani donne, il refrain è sempre lo stesso, come due giorni fa nell'ascensore di Palazzo Grazioli, la sua residenza romana. C'erano due ragazze e lui ha detto: «Non siete minorenni? Allora non posso venire con voi».
il Riformista 13.6.09
Villa Certosa. Sembra una spy story tra ragazze «apparentemente slave» e misteriosi ospiti di mezza età
James Bond lavora a Repubblica
di Peppino Caldarola
Chiamate James Bond. Solo lui può salvarci da quella che il mio amico Beppe D'Avanzo chiama «una crisi della sicurezza nazionale». Questa volta non è in discussione l'avanzata del Cavaliere da fermare ad ogni costo. E' peggio. C'eravamo illusi pensando che in discussione fosse la vita esagerata del premier che nei suoi fine settimana ama passare ore tranquille a Villa Certosa circondato da belle ragazze. No, una vera minaccia grava sul paese. Servizi segreti di tutto il mondo sono stati distolti dalla caccia a Bin Laden, a Ratko Mladic, ex comandante delle forze serbo bosniache accusato di genocidio e crimini di guerra anche lui ritratto recentemente mentre balla e festeggia, per dedicarsi alle nudità degli ospiti e, soprattutto, delle ospiti del presidente del Consiglio italiano.
D'Avanzo lancia l'allarme con quattromila battute che hanno sconvolto l'intelligence di tutto l'Occidente. E non venite a raccontare che si tratta di un pezzo antiberlusconiano. Qui la cosa si fa seria (Dagospia, che non lesina le parole forti scrive, citando Franchi e Ingrassia, che «l'affare si ingrossa») e forse siamo oltre il tempo massimo. Scrive D'Avanzo: «Ammesso che ci siano i margini tecnici per mettere in sicurezza la reputazione del presidente del consiglio, nessuno oggi è in grado di dire se non sia già troppo tardi». Un terribile ricatto contro Berlusconi e i suoi ospiti appena usciti dall'ospizio («sono avanti con gli anni. Hanno i capelli bianchi») incombe ed è peggio della peste suina.
Girano per le cancellerie del mondo libero fino alle montagne dell'Afghanistan cinquemila fotografie «caste ma non innocenti» di Berlusconi e dei suoi vecchietti circondati «da stuoli di ragazze, alcune italiane, altre apparentemente slave, sempre giovanissime». Fin qui niente di male ma a D'Avanzo che è un ragazzo di mondo non sfugge la trappola: «Quelle jeunes filles en fleurs hanno avuto la possibilità di andar via con qualche scatto, con qualche immagine». Attenzione, D'Avanzo non vuole passare per uno che insinua anzi premette, con uno slalom nel ragionamento che fa di lui il vero segugio della stampa italiana, che le foto «non è necessario che siano compromettenti anche se sarebbe avventuroso sostenere, con certezza, che non lo siano». Avete capito? Io no.
Chi pensa, aggiunge tuttavia il vicedirettore di Repubblica, che tutto ciò possa essere «un trascurabile gossip per teste imprevidenti o vecchi volponi» non ha capito che siamo di fronte a un passaggio cruciale della vita del paese che spinge i nostri servizi segreti alla «sterilizzazione di ogni minaccia che viene dal passato e la distruzione di ogni disegno aggressivo che può affacciarsi nel presente». Come dire che Br e terrorismo palestinese ci fanno un baffo da quando sono in scena le ragazze slave. Sufficientemente allarmato dall'appello di D'Avanzo, il lettore si butta a capofitto sul secondo articolo che apre la prima pagina del quotidiano di Ezio Mauro. Il pezzo di cronaca è firmato da Paolo Berizzi e Carlo Bonini e spiega le paure e i timori di D'Avanzo. Le foto non sono settecento ma cinquemila, raccolte in tre anni dal paparazzo sardo Antonello Zappadu. Che tipo di foto? Zappadu, scrivono i due brillanti colleghi, allarga le braccia: «Mettiamola così: nulla di pruriginoso. Piuttosto direi immagini politicamente imbarazzanti». Immagini, qui il passaggio è allusivo quanto basta, che «fissano una scena, ma alludono a un contesto». Ecco tornare il rovello di D'Avanzo e si capisce bene che siamo di fronte a un paese che sta rischiando troppo. Questa parte dell'articolo si intitola, come nei romanzi del romanticismo inglese, «Le ragazze nella villa». Si legge «Si è scritto nelle scorse settimane di docce saffiche, di nudi in topless a bordo piscina, di ragazze ora in pigiama, ora in baby doll a passeggio nel patio della villa». Qui il lettore non ne può più dell'attesa, accetta persino di sapere «che c'è una doccia ma non è saffica» (in pratica le fanciulle si lavano e basta), ma non ulteriori rinvii, e Berizzi e Bonini calano l'asso: «Alcune ragazze sembrano avere tratti slavi». Non manca il tocco erotico: «Passeggiano nel parco con stivali di velluto, viola, bianchi, scarpe dai tacchi alti, ridottissime minigonne, abiti colorati che ne fasciano i corpi». Senza dubbio, sono spie.
E il presidente del Consiglio? Quest'uomo privo di regole, corroso dalla perdizione, «indossa un pullover blu» circondato da ospiti di mezza età (ci risiamo!): «Il primo veste con un maglione beige e ha il voto incorniciato da baffi e capelli bianchi, anche il secondo gli sembra coetaneo: capelli bianchi, golf blu, pantaloni scuri. L'ultimo stringe una rivista, ha un gilet di cotone o scarpe bianche». Si sono fatti fregare dalle spie in stivali tutti vestiti addirittura con il maglioncino per via dell'età. Ci sono tutti gli ingredienti di un giallo di portata internazionale. Un giorno di questi mi farò spiegare come si fa a riconoscere in una foto presa da lontano il tratto «apparentemente slavo» di una ragazza. Ma non sono sicuro di essere in grado di capire. Forse faccio parte di quelli che D'Avanzo chiama le «teste imprevidenti o i vecchi volponi». Meno male che a largo Fochetti hanno assunto James Bond. Se ci facevamo bastare De Gennaro eravamo rovinati.
l’Unità Lettere 13.6.09
Psichiatria e prevenzione dei reati
Un poliziotto americano ha perso la vita in uno scontro a fuoco con un cosiddetto "folle" recidivo il quale, dopo aver compiuto un raid anni orsono sparando all'impazzata sulla folla, aveva scontato "soltanto" sei anni di prigione, prima del rilascio e del nuovo tentativo di strage. Ma come può, un individuo che senza motivo alcuno, un brutto giorno si sveglia, imbraccia un fucile e compie una strage essere giudicato "soltanto" un criminale e non un malato schizofrenico, bisognoso di adeguata sorveglianza e di cure psichiatriche? Ancora una volta, una corretta diagnosi psichiatrica avrebbe potuto risparmiare due vite umane, regalandoci un po' di speranza e maggiore civiltà, anziché quel sottile tragico e banale compiacimento che traspare dalla folla, acclamante l'ennesimo "eroe", che ha perduto la vita nell'uccidere il "mostro".
Antonella Pozzi