sabato 13 giugno 2009

l’Unità 13.6.09
Intercettazioni, Caselli lancia l’allarme: «Legge devastante»
di Federica Fantozzi


Anna Finocchiaro annuncia battaglia in aula contro una legge «blocca processi»
Il procuratore di Torino: «Sulla sicurezza la maggioranza fa come Penelope. È una catastrofe»

Martedì il ddl sulle intercettazioni approvato nel primo ramo del Parlamento approda in Senato. Orlando contro i franchi tiratori: «Teste vuote e irresponsabili». IdV annuncia un sit in fuori Palazzo Madama.

La maggioranza va avanti come un bulldozer. Martedì prossimo il disegno di legge sulle intercettazioni approvato giovedì dalla Camera in mezzo a bagarre, striscioni, caos e proteste, approderà in commissione Giustizia a Palazzo Madama.
E IdV annuncia un sit in davanti al Senato per attirare l’attenzione del presidente della Repubblica che, ha già detto, esaminerà il testo una volta approvato.
Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd, annuncia battaglia in aula: «Come farà il governo, dopo tutti gli allarmi lanciati, dal procuratore antimafia Grasso ai funzionari di polizia, dagli intellettuali al mondo dell'informazione, a mettere di nuovo la fiducia?». A un testo che «limita le indagini, blocca i processi e imbavaglia l'informazione». Per Donatella Ferranti si vara una legge «ammazza indagini». Anche Articolo 21 parla di «legge bavaglio» e prepara una grande iniziativa nazionale di partiti, associazioni e sindacati.
Nel primo ramo del Parlamento il ddl è passato con 318 voti a favore, una ventina dei quali provenienti da franchi tiratori dell’opposizione (Pd e IdV). Una brutta figura, visto che il voto segreto era stato chiesto proprio dalla minoranza. Il dipietrista Leoluca Orlando bolla quella pattuglia di deputati come «teste vuote e irresponsabili».
Il procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli attacca: «Una catastrofe per la giustizia. Un siluro alla sicurezza di tutti i cittadini e l'impunità per fior di delinquenti. Da parte di un governo che strilla sicurezza! sicurezza! sicurezza! ma che così produce insicurezza».
Sull’argomento, secondo il magistrato, «la maggioranza si comporta come Penelope, che di giorno tesseva e la notte disfaceva. Da un lato tolleranza zero, esercito, flotta, ronde, e dall'altra il vero baluardo protettivo della sicurezza dei cittadini, le intercettazioni, picconate e ridotte in macerie, con conseguenze che saranno devastanti per tutti».
Anche il senatore Pd Beppe Lumia lancia l’allarme: «In Commissione Antimafia è emerso che questa legge danneggia l'efficacia delle indagini e quindi la repressione del fenomeno mafioso. «In apparenza sembra non riguardare i reati di mafia. Nella sostanza complica e limita il ricorso all'utilizzo delle intercettazioni e riduce l'ambito di manovra degli investigatori, compromettendo il buon esito delle indagini».
Condivide Rita Borsellino, neo-europarlamentare siciliana: «Si rischia di indebolire gravemente l'operato della magistratura e di ridurre drasticamente la libertà di informazione. Non è mettendo il bavaglio alla stampa e violando principi sanciti dalla Costituzione che si salvaguarda la privacy».

l’Unità 13.6.09
Se una legge isola i magistrati
Raffaele Cantone, magistrato


A proposito della legge approvata dalla Camera molto si è già detto e scritto sulle disposizioni dettate sulle disposizioni in materia di intercettazioni; queste ultime diverranno quasi impossibili per i reati di criminalità comune; molto pesanti saranno le ricadute in tema di sicurezza dei cittadini per l’impossibilità di svolgere indagini su delitti gravi; particolarmente negativi saranno anche gli effetti sull’accertamento dei fatti di criminalità organizzata. E poi parecchie riflessioni sono state proposte sui rischi dei divieti di pubblicazione, sulle pesanti sanzioni, anche penali, per giornalisti ed editori e su come tutto questo inciderà sul diritto all’informazione dei cittadini ed, in generale, sulla libertà, costituzionalmente garantita, di manifestazione del pensiero. Una norma, invece, sembra essere passata inosservata o essere stata, frettolosamente, considerata giusta o quantomeno opportuna: l’introduzione del nuovo comma 6 ter dell’art. 114 del codice di procedura penale che stabilisce il divieto di pubblicazione “dei nomi e delle immagini dei magistrati relativamente ai procedimenti o ai processi penali a loro affidati”. Si potrebbe essere portati a pensare: finalmente viene bloccata la deriva pubblicitaria di certi magistrati; o ancora: è una norma che dà una risposta all’allarme lanciato, nel discorso al Csm, pochi giorni fa dal Presidente della Repubblica sul protagonismo dannoso di certi p.m. E davvero una novità così positiva o bisogna, un attimo, fermarsi a pensare? Se fosse stata presente una norma di questo tipo quanti avrebbero mai saputo chi erano Falcone e Borsellino o Borrelli, Colombo, Di Pietro, Davigo, Spataro, Caselli e molti altri. Certo, si potrebbe ribattere, questa è la regola in tutti gli stati occidentali; i magistrati, così come i funzionari pubblici in genere, nessuno li conosce. Epperò perché la norma si è limitata a vietare la pubblicazione dei soli nomi dei magistrati e non di tutti gli altri soggetti che partecipano alle indagini, ad esempio, gli uomini delle forze dell’ordine? E poi davvero l’Italia è come gli altri stati occidentali? In questi ultimi paesi è mai capitato che magistrati sono state vittime di attentati o oggetto di violenti attacchi delegittimatori? Se nessuno avesse mai conosciuto Falcone e Borsellino, avrebbe mai potuto capire che cosa facevano e cosa era impedito loro di fare? Ci sarebbe stata ugualmente tangentopoli? Si sarebbe potuto evitare l’approvazione del famoso decreto salva ladri? I magistrati spesso lasciati soli nei loro difficili contesti ambientali avrebbero potuto ottenere una tutela per la loro incolumità fisica, derivatagli anche dal riconoscimento pubblico del loro lavoro? Sono domande su cui riflettere e forse le risposte non saranno poi così tranquillizzanti. Quantomeno potrebbe instillarsi il dubbio che, con questa norma, i magistrati diventeranno invisibili e saranno molto più soli ed isolati.

l’Unità 13.6.09
Le nuove norme del Ddl sulla sicurezza e la bocciatura del Csm


Il Csm ha approvato un parere sul Ddl sicurezza criticando in più punti le modifiche in materia di immigrazione. Tra queste, la norma che prevede l’esibizione del permesso di soggiorno da parte dei genitori per la registrazione all’anagrafe dei figli nati sul territorio italiano: essa andrebbe contro il diritto del minore ad avere «immediatamente al momento della sua nascita (…) il diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza». La questione posta riguarda, oltre che la tutela dell’integrità del bambino, il rischio di adozioni illegali. Si parla poi dell’obbligo di denuncia da parte dei pubblici ufficiali nei confronti di irregolari che vogliano accedere a «beni primari», come quello della salute: «il rischio concreto - in assenza dell'introduzione di una deroga all'obbligo» di denuncia «è che si possano creare circuiti illegali alternativi che offrano prestazioni non più ottenibili dalle strutture pubbliche»; altrettanto criticata l’estensione a 6 mesi della permanenza nei Cie.
A destare maggiore preoccupazione è, tuttavia, l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale, affidato alla competenza del giudice di pace.
Esso infatti, oltre a determinare la congestione dell’apparato giudiziario, «non appare idoneo» rispetto al suo fine. Anche perché la normativa vigente «consente alle autorità amministrative competenti» di disporre l'immediata espulsione degli irregolari: e se ciò non avviene, lo si deve non già a carenze normative, ma a «difficoltà di carattere amministrativo e organizzativo». Come si vede, il parere del Csm, approvato con due astensioni, conferma tutte le perplessità che le nuove norme hanno suscitato: e, soprattutto, qualifica come mera propaganda questo esercizio di «cattivismo al potere».

Repubblica 13.6.09
Il rapporto Censis
Quando il voto viene dopo il tiggì
di Giovanni Valentini


Questa volta è il Censis, il Centro studi investimenti sociali presieduto da Giuseppe De Rita, a dirlo con la forza delle cifre: durante l´ultima campagna per le europee e le amministrative, il 69,3 per cento degli elettori s´è formato la propria opinione attraverso i notiziari dei telegiornali. E il dato, già impressionante di per sé, sale ulteriormente fra i meno istruiti (76%), i pensionati (78,7) e le casalinghe (74,1). Al secondo posto, troviamo i programmi di approfondimento giornalistico della stessa televisione (30,6). Segue la carta stampata che è stata determinante per il 25,4 per cento degli elettori e quindi Internet con appena il 2,3.
Altro che "calunnie", "congiura dei giornali di sinistra", "complotto internazionale" e via discorrendo, come proclamano il presidente del Consiglio e i suoi seguaci. Qui, ancora una volta, è la tv che condiziona pesantemente il voto degli italiani. Come accade ormai da quindici anni a questa parte: dalla fatidica discesa in campo del Cavaliere sulle onde dell´etere, un bene pubblico che appartiene allo Stato e quindi a tutti noi, anche a quelli che non votano per il centrodestra.
È l´effetto di un´occupazione selvaggia – non ci stancheremo mai di ripeterlo – iniziata a metà degli anni Ottanta e proseguita fino ai giorni nostri, con l´acquiescenza o la complicità di un´opposizione remissiva, buonista o addirittura compromissoria. A cui poi s´è aggiunto, dal ‘94, un conflitto d´interessi senza uguali al mondo, con lo strapotere mediatico di un capo di governo che controlla direttamente tre reti private e indirettamente tre reti pubbliche.
E pensare che c´è ancora chi si ostina a dissimulare l´anomalia televisiva italiana, come fanno l´ex senatore del centrosinistra Franco Debenedetti e l´ex componente dell´Autorità sulle comunicazioni Antonio Pilati, trasferito poi all´Antitrust per meriti acquisiti sul campo, in un libro pubblicato dalla stessa casa editrice che appartiene al gruppo Berlusconi e che recentemente ha rifiutato un saggio del premio Nobel, José Saramago, perché conteneva accuse e giudizi critici sul Cavaliere. È vero che il marchio storico dell´Einaudi è lo struzzo. Ma i due co-autori fanno peggio che nascondere la testa sotto la sabbia, quando confondono la concentrazione televisiva e pubblicitaria con il conflitto d´interessi, trascurando lo status di concessionario pubblico del nostro premier-tycoon; oppure estrapolano la tv dal contesto del sistema dell´informazione, ignorando gli effetti su tutti gli altri media e in particolare sulla carta stampata; o ancora, invocano la privatizzazione della Rai come l´unica soluzione per affrancarla dalla sudditanza alla partitocrazia, quasi che in Gran Bretagna non esistesse la Bbc o un servizio pubblico più che decente in altri Paesi europei.
Ai cultori della materia, si può consigliare piuttosto il saggio rigoroso e ben documentato di Manlio Cammarata, citato all´inizio di questa rubrica. Dal caso di Rete 4 a quello di Europa 7, l´autore ricostruisce puntualmente "il monopolio del potere da Mussolini al digitale terrestre", sulla base degli atti parlamentari e delle sentenze, italiane ed europee. La provocatoria conclusione propone di modificare così l´articolo 1 della Costituzione: "L´Italia è una Repubblica democratica fondata sulla televisione. La sovranità appartiene a chi possiede la televisione, e la esercita come gli pare". Ma forse quell´aggettivo "democratica" ormai è di troppo.
Aspettiamo adesso le prossime nomine alla guida dei telegiornali Rai, dopo quella di Augusto Minzolini al Tg Uno. E vedremo fino a che punto si avvererà la "profezia di palazzo Grazioli", per verificare l´autonomia e l´indipendenza del nuovo Cda di viale Mazzini. Ma la verità è che al fondo resta da risolvere un problema di "governance", cioè di assetto e struttura dell´azienda, per sottrarre finalmente la tv di Stato al dominio dell´esecutivo, quale che sia.
Se settanta o più cittadini su cento vanno alle urne sotto l´effetto ipnotico della televisione, secondo l´indagine del Censis, non c´è poi da meravigliarsi più di tanto che il voto venga "dopo il tiggì" - come cantava ai suoi tempi Renzo Arbore - né tantomeno che il governo si preoccupi di insediare direttori di sua completa fiducia. Il potere si fonda sul controllo della tv. E quando uno prova ad avvertire nello studio di Porta a porta che il centrodestra governa con il "consenso esplicito" di appena il 35 per cento degli elettori, segnalando una questione fondamentale di rappresentanza e di democrazia che non mette in discussione la legittimità dell´esecutivo in carica, il ringhioso sottosegretario Castelli insorge e brandisce come una clava il suo 10,2 per cento per imporre le ragioni della Lega Nord a quelle del Sud e di tutto il resto del Paese.
Certo, anche in America il presidente Obama è stato eletto con un 34 per cento di astensioni. Ma, a parte le diverse tradizioni al di qua e al di là dell´Atlantico, il fatto è che nelle nostre ultime politiche, ai 10 milioni 892 mila di astenuti più 1 milione 629 mila di schede bianche o nulle, si sono aggiunti 3 milioni 692 mila voti validi ma "inutili", cioè dispersi, per effetto di quella "porcata" della legge elettorale che porta il nome del leghista Calderoli: un totale di non rappresentati pari a 16 milioni 215 mila persone. E ha ragione il segretario del Pd, Dario Franceschini, a consolarsi oggi per il fatto che il centrodestra esce in minoranza dalle europee, con il 45,3 per cento dei voti contro il 49,5 delle opposizioni più gli "altri" minori, sebbene questo fosse vero già da prima.
Sono sicuri, allora, i signori del governo di poter governare davvero un Paese così complesso, in un momento tanto delicato e difficile, con un "consenso esplicito" che equivale a un terzo della popolazione? E il dissenso implicito, quello di tutti coloro che non votano per il centrodestra, dove lo mettiamo e che cosa ne facciamo? Ma, soprattutto, i leader del centrodestra sono proprio sicuri di avere un tale consenso anche senza l´appoggio determinante della televisione e dei telegiornali? Basterebbe magari risolvere il conflitto d´interessi in capo a Berlusconi e togliere le mani dalla Rai, per avere infine una controprova.

span style="font-weight: bold; color: rgb(204, 0, 0);">Liberazione 12.6.09
Bipartitismo e sinistra unica,
Ferrero boccia l'idea di Bertinotti
di Vittorio Bonanni


«Proposta interna alla logica del bipartitismo». No da Nencini e Rizzo, dubbi di Veltroni. Consensi solo da alcuni settori del Pd

«E' una proposta tutta interna alla logica del bipartitismo». Così Paolo Ferrero, segretario del Prc, alla vigilia del Cpn che si terrà sabato e domenica, commenta la proposta di Fausto Bertinotti che ieri sulle pagine della Stampa ha ipotizzato la costruzione di un grande partito di sinistra che inglobi tutti, dal Pd stesso fino a Rifondazione passando per Di Pietro, Pannella e Vendola. «L'analisi che fa ha comunque una sua coerenza - dice l'ex ministro - perché ribadisce, come aveva già fatto altre volte, che non ci sono più le due sinistre. In realtà, secondo me, ce n'è una che è stata sconfitta, che è appunto la sinistra di alternativa. Ed è stata sconfitta per subalternità all'altra sinistra. E quindi ne è venuta meno la ragione sociale come è successo con la Sinistra l'Arcobaleno». La seconda riflessione, continua Ferrero, riguarda un'analisi identica a quella fatta per proporre la costruzione dell'Unione. «Dopo Genova - ricorda il segretario comunista - si disse che c'erano le condizioni dentro la sinistra moderata per fare un accordo riformista forte. Quell'analisi errata portò appunto all'Unione. Adesso su una base diversa, che non vede più appunto l'esistenza di due sinistre ma bensì di una, si va nella stessa direzione ma non essendoci un governo la proposta investe il Partito democratico. E quello di Bertinotti è infatti il manifesto di fondazione di un nuovo Pd che tiene dentro tutto». Ma dentro la sinistra moderata non c'è stata ancora una riflessione vera su cosa è stato il liberismo, sottolinea Ferrero, e dunque quella proposta non fa i conti con la realtà. «E accetta completamente la logica bipolare, puntando a distruggere ciò che resta della sinistra di alternativa per porre come unico sbocco appunto il Pd. Il fatto che dentro ci sia anche Di Pietro fa cambiare il ragionamento nelle forme ma non nella sostanza». Senza dimenticare, chiosa il segretario, «che c'è una sopravvalutazione delle proprie forze che ripete così lo stesso errore sia pure in un contesto diverso e con argomentazioni diverse».
L'idea di Bertinotti ha riscosso, non a caso, consensi praticamente solo nell'ala sinistra del Pd, un pezzo del partito di Franceschini ancora molto debole e dunque speranzoso dell'arrivo di nuovi rinforzi. «Una proposta che merita di essere discussa e che comunque non va respinta in modo burocratico» dice Vincenzo Vita, e lo stesso fa Giuseppe Giulietti, deputato dell'Idv e portavoce di Articolo 21, ma proveniente dall'ex sinistra Ds.
No netti arrivano invece da sponde diverse. Riccardo Nencini, segretario nazionale del Ps, considera irricevibile la proposta di Bertinotti, mentre per Marco Rizzo, europarlamentare uscente del Pdci «non servono alchimie organizzative ma un progetto nuovo e l'azzeramento dei gruppi dirigenti che hanno fallito. Serve aria nuova e non assassini della politica che tornano sul luogo del delitto». A spiegare bene la sostanza dell'idea dell'ex Presidente della Camera è Walter Veltroni: «Ha un margine se si vuole un sistema bipolare ma mi pareva che non era questa l'aspirazione di gran parte delle forze del centro-sinistra». Un'idea dunque irrealizzabile anche per chi non ha mai nascosto simpatie per un bipartitismo che queste ultime elezioni sembrano aver definitivamente seppellito. Facendo altresì capire che una sinistra moderata degna di questo nome non può esistere senza una sinistra più radicale che eviti ulteriori spinte moderate che il Paese non si può più permettere.

Repubblica 13.6.09
La riforma Gelmini dei Licei
Ma con i tagli non c´è futuro
di Aldo Schiavone


I nostri licei sono lo snodo cruciale del sistema educativo del Paese. Negli ultimi decenni – diciamo dalla fine degli anni Sessanta – intorno e dentro vi è accaduto di tutto. C´è più distanza fra una ragazza di oggi e una degli anni Cinquanta del secolo scorso – per esperienze, mentalità, aspettative, modelli di comportamento - che fra questa e una sua coetanea degli inizi dell´Ottocento. E per i maschi, le cose non stanno in termini molto diversi, anche se forse il contrasto è appena meno sconvolgente. E´ perciò un autentico miracolo che – pur in mancanza di una politica pubblica degna di questo nome, in particolare per quanto ha riguardato la riqualificazione e la valorizzazione del personale docente – la scuola secondaria superiore italiana abbia in qualche modo retto a questo straordinario mutamento.
E se i suoi studenti sono ancora in grado di sostenere il confronto con i loro pari delle più avanzate nazioni del mondo. Qualunque intervento legislativo su questa struttura e sui suoi meccanismi è dunque compito delicatissimo, in cui procedere con estrema attenzione e cautela.
Il regolamento ministeriale sul riassetto dei licei varato ieri dal Consiglio dei Ministri in attuazione della legge 133/2008 non riflette pregiudizi ideologici, né fa tabula rasa di un processo di sperimentazione farraginoso ma non inutile che ha attraversato negli ultimi anni più di un cambio di maggioranza e di governo. E questo è senza dubbio un punto positivo. Meno confortante è l´evidente mancanza di risorse finanziarie con cui il ministro Gelmini deve misurarsi, e che traspare, per esempio, dagli equilibrismi cui è costretta per quanto attiene alla quantità complessiva dell´offerta formativa (il numero di ore scolastiche fissato per ogni indirizzo, che vede, in alcuni casi, riduzioni anche drastiche e difficilmente giustificabili sul piano pedagogico). Mentre tutti i grandi Paesi dell´Occidente investono sulla scuola e sull´Università, individuando nella crescita della formazione una via per uscire in avanti dalla crisi, solo l´Italia continua a immaginare di riformare senza investire. Un tragico errore: e non aiuta certo a sopportarlo constatare che, in questo, Tremonti non si sta discostando poi molto da Padoa-Schioppa.
L´impianto dei sei licei previsto dal riordino ministeriale – classico, scientifico, delle scienze umane, artistico, linguistico, musicale – è, nell´insieme, abbastanza convincente, e mi sembra rispecchiare in modo sufficientemente coerente il quadro attuale degli studi specialistici non meno che (in prospettiva) quello degli sbocchi professionali. Rilievi più specifici si possono avanzare sul disegno di alcuni indirizzi. Nell´architettura d´insieme il percorso meno persuasivo mi sembra quello dedicato alle "scienze umane" (a cominciare dal nome; forse sarebbe stato preferibile "scienze sociali", per evitare ogni confusione con l´impianto altrettanto "umanistico" del liceo clasico): una novità che andrebbe pensata meglio, anche articolando con più cura i suoi curricula, che si potrebbero centrare con più nettezza rispettivamente sulle scienze storiche e antropologiche e sociologiche da un lato, e su quelle economiche e giuridiche dall´altro.
Più in generale, credo si debba fare uno sforzo maggiore per rendere evidente quella che chiamerei una "affinità formativa" fra tutti e sei gli indirizzi, in coerenza con la proclamata – e giustissima - "parità di dignità" fra i diversi percorsi, senza alcuna articolazione di livello fra di loro (una conquista di "democrazia della conoscenza" da non perdere). Un´eguaglianza che dovrebbe risultare più evidente attraverso la riproduzione in ciascuno di essi di un identico "blocco formativo" costruito sull´insegnamento dell´italiano, della storia e della matematica. Lo spazio opportunamente lasciato all´autonomia progettuale di ciascun istituto dovrebbe ruotare intorno a questo irrinunciabile asse comune.
Sarebbe auspicabile che su questi temi si aprisse una discussione approfondita e serena nell´opinione pubblica del Paese. Non sono in gioco né problemi di una lontana tecnicità da pedagogisti, né temi su cui scatenare risse ideologiche, ma l´avvenire delle nostre giovani generazioni, e la loro speranza di poter continuare a competere ad armi pari con le avanguardie intellettuali del mondo globale. E sarebbe importante che l´opposizione intervenisse con competenza, rigore e concretezza su queste proposte, come finora non è riuscita a fare (penso soprattutto all´Università), favorendo l´avvio di un grande dibattito nazionale sul futuro dell´intelligenza italiana. Perché è di questo che stiamo parlando.

Repubblica 13.6.09
Il Medio Oriente che verrà
Per la pace serve un piano Marshall
di David Grossman


Una lettura drammatica del conflitto tra israeliani e palestinesi

I due contendenti sono intrappolati dalla paura e dall´odio. Solo il nuovo vento americano può far vincere l´idea del dialogo su quella della forza
Discendere da due razze concede al presidente Usa una naturale capacità di visione bifocale
Se l´opzione della apertura non passerà, prevarrà l´onda dell´Islam fondamentalista

Il noto studioso di Qabbalà Gershom Sholem coniò una volta il detto «Tutto il sangue va alla ferita». Mi sembra che non ci sia descrizione più azzeccata per il prezzo che il conflitto in Medio Oriente pretende dalle sue vittime. Tutto il nostro sangue, quello israeliano e quello palestinese, da più di un secolo va alla ferita aperta tra noi e, sgorgandone, dissangua le vite di giovani che si combattono l´un l´altro, di coloro che vivono nella paura e nella disperazione, nonché le risorse economiche, sociali e creative dei popoli in lotta, i loro tesori materiali e spirituali. Tutto il sangue va alla ferita. Moltissimi, in entrambi i popoli, non riescono più a credere che un giorno, in futuro, li attenda una qualsivoglia possibilità di vivere in pace. Nel popolo davanti a loro vedono un male esistenziale pressoché disumano nella sua crudeltà. Sempre più, nella coscienza israeliana e in quella palestinese, il conflitto si configura in termini assoluti e apocalittici. Nella bolla ermetica in cui palestinesi e israeliani sono intrappolati prevale quasi esclusivamente la logica della paura e dell´odio secondo la quale ogni contendente ha giustificazioni e argomenti persuasivi per qualsiasi azione infame compiuta verso la controparte e, a causa di questa logica, entrambe le parti soffocano lì insieme, nella bolla.
Come venirne fuori? Come indurre i membri di queste due società tormentate e spaventate a superare gli istinti di ostilità e di diffidenza sviluppatisi e raffinatisi nel corso di cento anni di guerra? Come si può convincere gli abitanti di questa sciagurata regione che nessun comando supremo, divino, li condanna a vivere con la spada in mano per l´eternità, a uccidere e a essere uccisi senza scopo e senza fine? Come elevarsi al di sopra della sofferenza, delle ferite sanguinanti, dell´offesa profonda, del fatto che ormai da cento anni dilapidiamo così le nostre vite in Israele e in Palestina?
Temo che con le nostre sole forze, ormai, non potremo più farcela. Duole ammetterlo, ma ho la sensazione che dopo decine di anni di guerra qualcosa di profondo e di fondamentale si sia deformato in questi due popoli, indubbiamente dotati di molteplici e straordinarie qualità ma, al momento, molto malati. Entrambi. Malgrado sappiano cosa si debba fare per guarire, non sono in grado di farlo.
Se oggi esiste una qualche speranza per loro questa è da ricercarsi nel nuovo vento che comincia, forse, a soffiare sul mondo e che proviene da Washington.
Agli occhi di molti il presidente Obama si profila come un leader – e un uomo – che predilige il dialogo alla forza e, attualmente, è in grado di promuovere nella coscienza mondiale l´opzione del dialogo, dell´ascolto reciproco, della disponibilità e del coraggio a esporsi al punto di vista dell´altro, persino a quello del nemico. In Medio Oriente, si sa, questa è un´opzione molto labile, non ha numerosi precedenti e, per il momento, neppure abbastanza sostenitori. Non è dato sapere quale atteggiamento Obama adotterà verso il conflitto mediorientale ma, per lo meno, il suo punto di partenza è eccellente. L´essere discendente di due razze diverse gli concede una naturale capacità di visione bifocale. Da come si è espresso finora ho l´impressione che capisca benissimo che non si possa guardare il conflitto arabo-israeliano in maniera piatta, ristretta, dividendo rozzamente il mondo in «buoni» e in «appartenenti all´asse del male» come ha fatto il suo predecessore, il presidente Bush. Sembra che il nuovo presidente degli Stati Uniti sappia che chi vuole cambiare sostanzialmente le cose in Medio Oriente è tenuto ad ampliare la propria visuale e ad aprire il cuore alle difficoltà, ai timori e alle aspirazioni di ambo le parti, israeliani e palestinesi. È questo l´approccio che molti in Medio Oriente – e anche in Israele – si augurano che i leader degli stati riuniti oggi adottino. Voi sapete bene che, se ciò non avverrà, entro pochi anni vi ritroverete dinanzi a un Medio Oriente in cui l´Iran, Hezbollah, Hamas e al-Qaeda saranno molto più dominanti di quanto non lo siano oggi. In cui gli stati arabi moderati – l´Egitto, l´Arabia Saudita, la Giordania, l´Autorità palestinese e i principati arabi –, vostri naturali alleati, non riusciranno più ad assicurare regimi stabili e a opporre resistenza all´onda dell´Islam fondamentalista. Sarà un Medio Oriente violento e caotico in cui, di tanto in tanto, divamperanno scontri interislamici e, naturalmente, frequenti guerre tra Israele e i suoi vicini. Guerre che diverranno sempre più violente e brutali e mineranno gradualmente la stabilità di altre regioni del mondo.
Oggi ci troviamo di fronte a una contingenza rara, in cui gli interessi vitali di Israele e quelli degli stati arabi moderati convergono. È questa forse l´ultima occasione per le forze di pace di operare in condizioni di supremazia. La maggior parte degli israeliani e dei palestinesi sanno esattamente cosa si deve fare per risolvere il conflitto ma, come si è detto, non ne sono capaci. Occorre aiutarli. Rimettere in moto il processo di pace, risvegliare dal torpore l´iniziativa araba, neutralizzare la componente di ultimatum e di imposizione verso Israele insita in essa e trasformarla in dialogo. Occorre riprendere il negoziato – avviato con la mediazione della Turchia – tra Israele e la Siria e, naturalmente, quello tra Israele e l´Autorità palestinese. Di pari passo occorre adoperarsi per la riconciliazione delle due fazioni del popolo palestinese perché, senza di essa, non si avrà una pace stabile tra i palestinesi e lo stato ebraico. Per raggiungere questo obiettivo, ovviamente, sarà necessario dialogare anche con Hamas. E sarà altrettanto essenziale avviare dei colloqui diretti con l´Iran sul tema delle armi nucleari e sul suo ruolo di sobillatore in Medio Oriente. Occorre fare pressione, con saggezza e criterio, sulle parti recalcitranti mantenendo un dialogo costante con loro e con i loro timori e traendo razionalmente vantaggio dalla loro grande dipendenza da determinate nazioni in occidente e nel mondo arabo. Occorre assicurare a Israele e ai palestinesi ampi aiuti economici – una sorta di nuovo «Piano Marshall» – per stabilizzare il processo di pace e remunerare chi vi si attiene. Occorre garantire un massiccio intervento di forze internazionali che supervisionino l´attuazione completa e senza compromessi del futuro accordo. Così tante sfide e opportunità attendono la vostra azione risoluta. Oggi avete l´occasione di salvare israeliani e palestinesi dall´abisso in cui cadono insieme, avviluppati in un vortice. L´auspicio è che sappiate essere all´altezza di questo raro momento e far rivivere la speranza che ancora si intravede.

l’Unità 13.6.09
Movida dei minorenni
Le notti a Ponte Milvio tra cocktail, minicar e crisi di bulimia isterica
di Claudio Camarca


Ponte Milvio. Esterno, sera. Lucchetti e spinelli e mojito in bicchieri da mezzo litro. Bassi percussivi implosi negli stereo pencolanti dalle travi dei bar costruiti uno dietro l'altro a innalzare lo steccato di un recinto dentro il quale due/tremila persone il fine settimana si danno appuntamento per narcotizzarsi e passare in rassegna l'abito appena acquistato. Oltre il ponte, lungo le cupole delle chiese, il tramonto si distende ammantando di arancione le nuvole a cirri.
Il Tevere è in piena. Luigi mi guarda di sotto la zazzera bionda. Chiodo alla narice, un drago falso nipponico tatuato sul collo, bottiglia di Corona tra le gambe inguainate nei jeans. «Non è che facciamo delle cose. Stiamo qua in giro. Ascoltiamo musica. Buttiamo giù qualcosa».
Torna a fissare la bottiglia. Sguarda la sua amica Demetra. Che fuma una Marlboro e finge di non accorgersi delle attenzioni. Ha un chihuahua, con al collo un campanellino, incassato nella borsetta Gucci in pelle rossa. «Tanto a casa non c'è niente da fare. La tele è una merda. E mia madre mi rompe le palle con l'angoscia dello studio». Carezza il cagnetto e tira una boccata e accavalla le gambe strizzate nei jackerson, pantaloni da golfisti che da queste lande vanno per la maggiore perché fanno intendere che te la cavi sul green. Demetra ha una sorella, Anna Paola, dodici anni, che mastica eternamente un chewingum impedendosi così di mangiare «schifezze tipo patatine MacDonald che sono capace di farmene fuori un chilata», e che si accompagna al fidanzato coloured figlio di un diplomatico brasiliano abbigliato da giocatore di basket, per di più munito di una palletta da beach soccer che fa andare da una mano all'altra senza soluzione di continuità. Anna Paola soffre di disturbi alimentari «caratterizzati come dice l'analista da periodi di bulimia isterica, nei quali mangio e vomito, mangio e vomito anche cinque sei sette volte al giorno, fino a sputare sangue e allora mi decido e smetto perché mi accorgo di fare schifo».
Il fidanzato annuisce e palleggia e le appoggia la testa sulla spalla. Luigi scuote la testa e commenta dandole della deficiente. Dallo stereo del chiosco parte un brano jazz molto cool. I ragazzi hanno quattordici/quindici anni, frequentano il primo liceo scientifico, escluso il figlio del diplomatico che non ha le idee chiare e si è preso un anno sabbatico prima di compiere il passo. Intorno ce ne sono una decina, compagni di scuola vestiti con pantaloni calati alle ginocchia, CalvinKlein sopra le chiappe, magliette e camicie due taglie abbondanti, capelli sugli occhi a sbarrare l'accesso, cuffie i-pod e palmari alla mano. Figli di brillanti professionisti, rampolli della Roma bene, vacanze in barca e fine settimana sulla neve e college estivi in Gran Bretagna.
Ce ne stiamo a chiacchierare seduti ai tavolini buttati intorno a un platano gigantesco vecchio trecento anni. Beviamo birra e energydrink e pilucchiamo patatine. In mezzo a quattrocento avventori che sorseggiano cocktail e energydrink e piluccano patatine. I ragazzi sono abbronzati. Gli piace raccontarsi, perché come dice Demetra, «i miei non mi chiedono niente, si preoccupano dei voti a scuola e sono angosciati specie mia madre del fatto che uso la pillola». Luigi, «La macchinetta m'è costata dodicimila euro più altri dieci per allestirla come volevo. Mio padre s'è incazzato. Poi l'ha provata e adesso la usa per andare la mattina in tribunale». Anna Paola, «La prossima settimana ho il saggio di danza moderna e se non perdo almeno due chili non entro nella tuta in microfibra di carbonio e l'ansia mi fa venire ancora più fame che nemmeno mi basta dare di stomaco».
Ogni tanto, qualcuno si alza e ordina un bicchiere di vodka da mescolare nei RedBull e nei Burns. Demetra risponde al telefono, prende appuntamento da lì a qualche minuto, mi invita ad accompagnarla dalla parte opposta della piazza. E' figlia di una mia amica separata dal marito. «Mia madre non sa niente che faccio sesso. Mi raccomando non glielo dire. Non capisco cosa ci sia di terribile. Prendo la pillola e obbligo Lolly a infilarsi il preservativo». Lolly sta per Lorenzo. Fidanzato in punizione serale per via di una nota di biasimo inflitta a lezione di latino.
Fendiamo la folla agglomerata come palline di polistirolo. Ventate di PacoRabanne e Chanel e BulgariParfumepourHome. Decappottabili e moto e furgoni mortuari denominati SUV. Approdiamo a un altro bar. Sediamo sui trespoli in legno. La studentessa con mansioni da cameriera volteggia tra i tavoli e prende l'ordinazione e scompare inguainata nella micro gonna in stretch. Demetra, «Volevi sapere questa cosa dei pompini». Demetra, «E' come una gara che facciamo nei bagni della scuola». Demetra, «Un ragazzo e tre ragazze impegnate a chi lo fa venire prima».
La cameriera in stretch compare armata di vassoio ridondante olive e pizzette e rustici e un Margarita e un Negroni. Demetra, «È un gioco, così, non significa niente. Ma tu sai la roba che circola in internet!». Arriva l'amica della telefonata di prima. Baci baci. Un altro Margarita. Il chihuahua dorme con la testa infilata nel manico della Gucci.
Sofia ha quindici anni, secondo linguistico, un colibrì tatuato sulla spalla, stivaletti estivi e pantaloni a pinocchietto e camicia a sbuffo mezze maniche. Demetra le sussurra all'orecchio, la ragazzina mi guarda e ride. Poi risponde al cellulare. Demetra, «La politica non mi interessa. Sono tutti uguali. Pensano ai cazzi loro. Berlusconi? Ma se è un vecchio». Demetra, «Certo che da grande voglio lavorare. Qualcosa dove mi fanno viaggiare. Una di queste organizzazioni delle Nazioni Unite. Ti fa sentire utile». Sorseggia il Margarita incrociando il braccio con quello dell'amica. Si mettono in posa come due innamorate. Mi prendono per i fondelli. Luigi si presenta con in mano una seconda Corona e tra i denti la fetta di limone. «Andiamo?». Eravamo d'accordo per un giro per Roma a bordo della sua mini car.
(1/continua)

Repubblica 13.6.09
Le scorribande marine degli Etruschi "Erano loro i pirati del Mediterraneo"
di Cinzia Dal Maso


Lo proverebbe una stele appena ritrovata nell´isola di Lemnos, scritta nella lingua degli antichi Tirreni È del VI secolo a.C. e raffigura un uomo che ringrazia la divinità, forse perché scampato alla tempesta

Furono grandi navigatori che raggiunsero le terre d´Oriente dove sorgeva Troia
Secondo l´Inno omerico a Dioniso rapirono la divinità ma furono tramutati in delfini

ROMA. Sono trascorsi 120 anni dalla prima, epocale scoperta. E ora finalmente Lemnos, isola greca a due passi dalla costa anatolica di Troia, ha restituito una seconda "iscrizione tirrenica". Una seconda stele in pietra del VI secolo a. C. che porta incisa una scritta in una lingua strettamente imparentata con l´etrusco, e definita da molti linguisti "etrusco arcaico". Una seconda prova dello stretto legame dell´isola con il popolo dei "Tirreni", cioè gli Etruschi.
I Greci li chiamavano così. "Barbari", a detta dello storico Tucidide che racconta come nell´isola si parlava solo la loro lingua, e si cominciò a parlare greco solo dopo la sua conquista nel 510 a. C. da parte dell´ateniese Milziade. "Pirati" secondo l´Inno omerico a Dioniso, che osarono persino rapire il dio illudendosi di venderlo come schiavo, ma vennero tramutati in delfini.
Forse erano proprio pirati i Tirreni di Lemnos, come ipotizza il linguista Carlo De Simone che ha studiato la nuova iscrizione e la presenterà lunedì all´Università La Sapienza di Roma assieme all´archeologa Aglaia Archontidou, che parlerà del luogo in cui la stele è stata trovata, e ad Emanuele Greco, direttore della Scuola archeologica italiana di Atene, che illustrerà gli scavi italiani nell´isola.
I pirati Etruschi erano così noti e temuti nel mondo antico da essere entrati persino nel mito. Ma due iscrizioni (e qualche altra parola scritta su cocci qua e là) sono un po´ poco per trarre conclusioni certe. «E prove archeologiche non ce ne sono - afferma Emanuele Greco - Solo queste scritte che dimostrano l´esistenza di contatti culturali, di scambi forse solo episodici. Per il resto, l´archeologia dimostra chiaramente che l´isola era strettamente legata alla vicina costa anatolica e a Troia, e importante crocevia di rotte marine».
Il mondo antico era molto più "globale" di quanto abitualmente immaginiamo. Gli antichi viaggiavano di continuo in tutte le direzioni. Perché dunque pensare solo a migrazioni e passaggi da est a ovest? Ex oriente lux, si dice. E la prima iscrizione tirrenica ha fornito per decenni la "prova del nove" della tanto decantata origine orientale degli Etruschi. La prova che lo storico Erodoto diceva il vero, quando narrava la migrazione verso l´Italia centrale dell´eroe anatolico Tirreno, che avrebbe dato il nome agli Etruschi.
Una migrazione avvenuta in un passato lontano e mitico, che però alcuni storici e linguisti (come il tedesco Helmut Rix) collocano in un momento non precisato del secondo millennio a. C.
«Ma la stele è un oggetto del VI secolo a. C. - rileva De Simone - quando gli Etruschi sono già da tempo ben presenti in terra italica. Poi, mancano completamente prove di una presenza etrusca a Lemnos nelle epoche precedenti, quando sarebbe dovuta avvenire l´ipotetica migrazione. E neppure l´Iliade menziona mai i Tirreni».
Per De Simone l´origine orientale degli Etruschi è pura invenzione. Meglio dipingerli come grandi navigatori che, in epoca storica ben nota, raggiunsero persino le lontane terre d´Oriente. Commercianti senza scrupoli. Pirati. La stele appena scoperta porta la dedica di un signore a una divinità a noi ignota. Il verbo usato per "dedicare" è "héloke", termine tipico della lingua tirrenica di Lemnos, chiamata "arcaica" perché si è conservata inalterata come capita spesso nelle aree periferiche.
La stele è stata trovata tra le mura del teatro ellenistico dell´antica città di Efestia, ma sappiamo che prima del teatro nello stesso luogo c´era un santuario. È molto pesante e difficilmente trasportabile, e dunque è sempre rimasta sul posto ed era probabilmente un ex voto donato al santuario. Magari di un pirata "tirreno" scampato per miracolo a una rovinosa tempesta.

Corriere della Sera 13.6.09
ParmaPoesia Festival
Ci sono autori considerati lontani dalla nostra vita. Ma un verso del passato è un miracolo della fortuna
Il cuore delle parole
Orazio, Saffo, Virgilio Perché i poeti dell’antichità ci educano a forgiare i sentimenti e le emozioni
di Nicola Gardini


Nicola Gardini è nato a Petacciato (Campobasso) nel 1965. Si laurea a Milano in Lettere Classiche, nel 1990 si trasferisce a New York, dove consegue il Dottorato in Letteratura Comparata. Dal 2007 vive in Inghilterra e insegna Letteratura Italiana all’Università di Oxford.

Questo testo è un ampio stralcio della lectio magistralis che Nicola Gardini terrà martedì 23 giugno alle 16.30 nell’Aula dei Filosofi dell’Università degli Studi di Parma nell’ambito di ParmaPoesia Festival.

Quando prendiamo in mano il libro di un poeta antico, noi facciamo anzitutto scoperta della lontananza. Quelle paro­le mitiche che ci parlano anche da una qualunque edizione economica o sco­lastica e non sembrano di primo acchi­to dire niente di straordinario e ri­schiano di confondersi subito tra i di­scorsi del nostro mondo audiovisuale, quelle parole hanno viaggiato per se­coli prima di arrivare a noi e hanno af­frontato ogni sorta di aggressione. Molte sono sparite strada facendo. La maggior parte. Molte sono state ferite e menomate e non hanno più l’aspet­to originario. Ma l’importante è che si­ano arrivate fino a noi. Noi, aprendo una qualunque edizione moderna di Virgilio o di Orazio, non apriamo sem­plicemente un libro: noi apriamo le braccia a un sopravvissuto. E, leggen­do Virgilio o Orazio, compiamo il ge­sto più civile che un essere umano possa compiere: diamo ospitalità allo straniero, cioè gli offriamo la nostra casa e ci mettiamo ad ascoltarlo. Lo di­mentichiamo con troppa facilità: un verso, anche un solo verso di Omero è un miracolo della fortuna. Se ci viene incontro, abbiamo il dovere di ricever­lo. Negargli l’ascolto sarebbe favoreg­giare quella violenza irrazionale ma spesso intenzionale che ha disperso i quattro quinti della letteratura antica e che, in un modo o nell’altro, conti­nua ad agire tra noi e nullificherà an­che molte delle nostre cose migliori. Noi dobbiamo opporci alla violenza. Accogliendo l’antico, faremo simboli­camente resistenza a qualunque so­pruso.
I beni che provengono dal dare ospi­talità sono meravigliosi. Non solo lo straniero è soccorso e salvato e, dun­que, molto probabilmente ci resterà amico, ma noi, con lui, diventiamo nuovi. Attraverso lo straniero, nella nostra stessa casa, entriamo in contat­to con un mondo che non conosceva­mo. E la scoperta di una realtà diver­sa, oltre a produrre piacere di per sé, ci rende forti. Chi conosce — diceva Lucrezio — non ha paura.
Gli antichi ci insegnano ad ascolta­re, perché per prima cosa ci chiedono che li ascoltiamo. La distanza che han­no attraversato ci obbliga a fare silen­zio, a districare le loro voci dalla rete di suoni e rumori che ci riempiono le orecchie e la testa, a smettere perfino di ricordare e di stabilire paragoni. Gli antichi ci spingono a rinunciare al già noto, a ricevere l’irriconoscibile. Or­mai è raro che riusciamo a godere del­le cose nuove, perché per noi non c’è più novità. Anche ciò che la nostra ci­viltà tecnologica propone come nuo­vo contiene pur sempre qualcosa di abituale. Questa stessa civiltà tecnolo­gica e consumistica, anzi, ci addestra ad accogliere il «nuovo» con una certa familiarità, pretende che lo riceviamo come dovuto e necessario. Noi abbia­mo bisogno di novità ma alla fine, at­traverso i prodotti della cultura con­temporanea, perfino attraverso certa buona letteratura, non è novità quel che ci viene dato, ma un modo sem­pre variato di soddisfare la nostra sem­pre uguale esigenza di intrattenimen­to. Il nuovo, insomma, nel nostro mondo è scontato fin dall’ora del suo primo apparire.
La parola dei poeti antichi, nella sua totale diversità, non è necessaria: noi non la aspettavamo. Ci è completa­mente donata. Non soddisfa un biso­gno che c’era. È la risposta a quesiti che non avevamo formulato, come la soluzione a un enigma di cui non si sa­peva l’esistenza. Allora, mentre leggia­mo Orazio, Virgilio, Saffo, ogni sapere preconcetto smette di funzionare, per­ché non serve più a niente. Siamo completamente disponibili alla voce che viene dal passato. La nostra men­te ricomincia a pensare, a immaginare e si impegna a capire. L’inattualità o l’assurdità che può suggerire una pri­ma lettura distratta si dissolve e ogni vocabolo (ogni suono — se il lettore ha la fortuna di conoscere un po’ le lin­gue antiche) acquista un’importanza primigenia.
La scrittura, per gli antichi, è eserci­zio etico; impegno a vivere bene. Non c’è riga di Saffo o di Orazio che non proponga un programma di educazio­ne sentimentale ed emotiva. Attraver­so la poesia l’individuo impara a defi­nire i suoi sentimenti e a comprender­li in rapporto ai loro oggetti. La poesia circoscrive lo spazio della soggettivi­tà, che questa si esprima in un com­portamento o in una reazione psicolo­gica. Dalla poesia sono fissati o alme­no riconosciuti i limiti dell’umano e sono indicate le conseguenze degli ec­cessi. Ogni cosa al suo posto e al suo tempo: la felicità si raggiunge se si tie­ne a mente questa semplice verità. Ma gli antichi sanno bene che gli indivi­dui sono continuamente tentati da im­magini di sé che non possono adattar­si alla realtà. Il culto della misura, tra gli antichi, non è separabile dal fasci­no della follia e dell’autodistruzione e proprio per questo va considerato un’altissima conquista.
La poesia antica è lo specchio di una cultura che crede nel potere delle paro­le. Gli antichi conoscono perfino la pa­rola che vince la morte e ha il governo della natura. Mi sto riferendo al ben noto mito di Orfeo, il poeta che com­muoveva le stesse pietre con la bellez­za del suo canto e che in virtù del suo dono godette del raro privilegio di ri­portare la moglie prematuramente morta sulla terra. D’altra parte, il mito di Orfeo ci insegna che la potenza del­la parola non è onnipotenza. La parola vince se rispetta le regole del mondo in cui si manifesta. Orfeo aveva stretto un patto con il dio dei morti — di non voltarsi mai, prima di riuscire alla lu­ce, per accertarsi che la moglie lo se­guisse. Invece si girò ed Euridice fu persa una seconda e definitiva volta. La parola, insomma, ha un ambito di azione, che può essere anche vastissi­mo, può anche scendere agli inferi e lì esercitare la sua forza. Ma alle parole devono anche corrispondere azioni adeguate. Per di più, perduta Euridice per sempre, Orfeo continuerà a infran­gere le regole. Se ne andrà in giro solo per il mondo, poetando, e respingerà le altre donne. La sua fine è orribile, ma in fondo inevitabile. Sarà squarta­to proprio dalle donne e disperso. Di sole parole, infatti, non si vive. Ci vuo­le anche il resto. Ci vuole l’amore.
I poeti antichi si preoccuparono, co­me nessun poeta moderno si è mai preoccupato, di durare. Noi moderni tendiamo a concentrare la nostra men­te su chi siamo stati, pensiamo all’in­fanzia, a quel che non c’è più. Gli anti­chi pensano ai posteri, a quel che non c’è ancora. Per questo la poesia antica è così essenzialmente diversa dalla no­stra: perché non si abbandona ai ricor­di personali, nemmeno quando espri­me il massimo della soggettività, co­me vediamo in Catullo. Il pensiero dei posteri non nasce solo da sete di glo­ria. O meglio: la sete di gloria, che c’è ed è innegabile, esprime un bisogno profondo di autoconservazione e attra­verso questo un rispetto della vita che a noi moderni manca. La scarsità di ri­cordi, se da una parte può essere al­l’origine di molta della nostra indiffe­renza alla poesia antica, dall’altra do­vrebbe insegnarci a sviluppare qualco­sa di cui noi moderni siamo anche troppo carenti: il pensiero di chi verrà dopo di noi. Il poeta antico si sforza di trovare i modi per diventare contem­poraneo dei suoi discendenti. Il suo la­voro letterario è tutto un modo di me­ritarsi l’ascolto di chi verrà, di diventa­re degno, di essere un modello. Que­sto apparente narcisismo, in verità, è rispetto di chi ancora non c’è. Il poeta antico non rifugge dalla responsabili­tà di farsi padre. Solo così ritiene di po­tersi perpetuare. Ogni poeta antico si rivolge idealmente a un figlio.

l’Unità Firenze 13.6.09
«L’errore di Renzi e del Pd sul mancato accordo con Spini»
Osvaldo Sabato intervista Furio Colombo


Gli appelli al popolo della sinistra sono partiti appena ha capito che non avrebbe vinto al primo turno. Fin da subito però ha chiuso la porta alla trattativa con Valdo Spini: nessun accordicchio. È il motto di Matteo Renzi. «Se chi ha votato Spini riterrà di far vincere Galli, beh, è un suo diritto» continua a ribadire il candidato sindaco del centro sinistra. «Non sono in grado di valutare se sia rischioso dal punto di vista numerico» dice il senatore del Pd Furio Colombo, commentando la decisione di Renzi di ballare da solo al ballottaggio. L’ex direttore dell’Unità è uno dei grandi sponsor di Valdo Spini nella sua corsa a sindaco di Firenze, fermatasi al primo turno con l’8,4% dei voti. «È un errore dare uno inutile schiaffo a una Firenze vera e di sinistra» osserva Furio Colombo, riferendosi alla scelta di Renzi di non stringere alleanze al ballottaggio con Valdo Spini.
Ma Renzi vuole evitare lacci e laccetti con la sinistra radicale
«Ribadisco che sbaglia nel mettere da parte queste persone che hanno dato molto alla città e che vengono escluse solo per fare un exploit giovanilistico. Il suo è un inizio inglorioso, poi vincerà lo stesso e tanti auguri a Renzi».
Quindi Renzi sbaglia?
«Il suo è un serio errore culturale, umano e politico, una cattiva conoscenza della sua città, che ha molto di più da dare, che non semplicemente la spavalderia di uno che esagera nella valutazione di se stesso e che crede di essere il pigiama del gatto, come si dice in America».
L’appello alla sinistra del candidato sindaco Pd non basta?
«Certamente nessuno di loro starà con Giovanni Galli, non c’è dubbio, qualcuno forse non andrà a votare. Ma dal momento che Galli è così poco brillante, credo proprio che non si metta male per Renzi. Quello che sto rimpiangendo è che non abbia lui il senso di uno stabilire dei rapporti, che non sono fare degli accordi. Pensate che Spini cerchi un assessorato? Immaginate che la gente che ha votato per Spini, quasi tutti super occupati o a Firenze o nel mondo, siano alla ricerca di un sottogoverno?».
Spini si sarebbe aspettato almeno un segnale dal Pd ma non è mai arrivato.
«Verissimo. Questo è uno dei tanti errori che il Pd continua a fare. Non so quante telefonate a vuoto ho fatto per chiedere a qualcuno del Pd di farsi carico della questione di Firenze. Non stiamo cercando altri voti? Perché disprezzare quelli che potrebbero essere disponibili solo perché un leader locale è di cattivo umore? Il partito nazionale dovrebbe dire che così non va bene».
Intanto Galli continua a dire che lui è un candidato «civico» e che non c’entra nulla con Berlusconi.
«Non c’è dubbio che Galli sia un uomo di Berlusconi, non significa che sia un criminale, è semplicemente un uomo partitico come ogni altro ed è ridicolo che si nasconda dietro una lista civica. È anche falso, quindi non si deve accreditate un falso. Galli è un uomo di Berlusconi, poi la gente farà le conseguenze che crede».

il Riformista 13.6.09
Il Cavaliere "depresso". Sfoghi e scatti d'ira
di Fabrizio d'Esposito


Retroscena. Un rimprovero al fedele Valentini per un paio di calzini con la riga bianca. E le accuse a Bondi e Verdini.

Come Tony Soprano quando improvvisamente, senza motivo, picchia il cassiere del Bada Bing. La settimana nera della delusione post-elettorale di Silvio Berlusconi è stata scandita da vari raptus d'ira. Il più clamoroso ha investito il fedele deputato Valentino Valentini, la vera mente dello staff del premier. Il malcapitato Valentini aveva indossato un paio di calzini scuri con la riga bianca e quando il Cavaliere li ha notati gli ha fatto una vera e propria scenata.
Per non parlare degli sfoghi contro i vertici del Pdl, accusati di averlo lasciato da solo in una campagna elettorale infernale, basata sugli intrighi e i misteri della sua vita privata, a partire dallo scandalo di Casoria, il Noemigate. Seduto in poltrona, il premier non ha per niente apprezzato la performance televisiva di Sandro Bondi nella puntata di Porta a porta la sera stessa del voto, domenica scorsa. Stesso giudizio più che negativo riservato anche alle apparizioni del triumviro toscano Denis Verdini. Di qui l'anatema sull'onda della rabbia montata davanti al piccolo schermo: «Bondi e Verdini non li voglio più vedere in televisione. Bisogna cambiare. Mi sono stufato». All'ex aennino Ignazio La Russa, il ministro della Difesa indicato da Fini nella troika che governa il Pdl, ha invece indirizzato accuse di «scorrettezza» nella circoscrizione nord-ovest. Lì erano candidati alle europee Berlusconi, La Russa e Mario Mauro, quest'ultimo indicato come futuro presidente del parlamento di Strasburgo. Il ministro proveniente da An ha raccolto oltre 200mila preferenze, piazzandosi dopo il capolista e prima di Mauro, e questo ha fatto andare su tutte le furie il Cavaliere.
Insomma, un Cavaliere nero. E depresso. Politicamente, come ha osservato ieri Lodovico Festa sul Foglio. E non. Ad aggravare il suo umore, poi, ci sono i sempre più insistenti mal di schiena con annesso torcicollo che lo tormentano da settimane. Il premier si sente braccato, pure. La notizia pubblicata ieri da Repubblica sulle cinquemila immagini complessive dell'archivio del fotoreporter sardo Antonello Zappadu rappresentano il segnale definitivo che l'assedio alla sua vita privata è ripreso.
Nemmeno il tempo di centellinare quel po' di serenità provocatagli dal "pizzino" della moglie Veronica sul Corriere della sera (in pratica, un messaggio da decifrare come richiesta di pace per una separazione consensuale) che il Cavaliere ha appreso dell'enorme mole di foto di Zappadu, tra cui una che riprende il premier che sposa una ragazza in un finto matrimonio a Villa Certosa. Di qui l'ennesimo esposto del suo legale nonché deputato Niccolo Ghedini, che già bloccato settecento dei cinquemila scatti: «È gravissimo che un quotidiano, dimentico delle più elementari regole giuridiche, al fine di condurre una violenta campagna politica contro il presidente del Consiglio, si presti ad utilizzare notizie siffatte addirittura riportando presunte ricostruzioni di immagini, inesistenti o create ad arte, la cui divulgazione è vietata ex lege». E ancora: «Non ho dubbi che tali scatti in violazione di legge saranno pubblicati da giornali esteri e, come già accaduto, surrettiziamente ripresi da Repubblica ma non ci si potrà esimere dal richiedere un immediato intervento del Garante e delle autorità giudiziarie».
Dunque, quella che si chiude tra oggi e domani è stata certamente una settimana pesantissima per il premier, in cui anche la sua agenda è stata ridotta al massimo. Persino le sue battute, di solito gaffe leggerine o fuoriposto, sono un segno del suo nervosismo. Ormai, il Cavaliere le usa a mo' di esorcismo contro i suoi guai, come quella dell'altro giorno all'assemblea della Confartigianato: «Devo scappare via perché sto combinando il matrimonio tra Noemi e quell'avvocato inglese... (Mills, ndr) e porto in dono l'offerta di un viaggio di nozze sugli aerei di Stato aggratis». Infine, quando incontra giovani donne, il refrain è sempre lo stesso, come due giorni fa nell'ascensore di Palazzo Grazioli, la sua residenza romana. C'erano due ragazze e lui ha detto: «Non siete minorenni? Allora non posso venire con voi».

il Riformista 13.6.09
Villa Certosa. Sembra una spy story tra ragazze «apparentemente slave» e misteriosi ospiti di mezza età
James Bond lavora a Repubblica
di Peppino Caldarola


Chiamate James Bond. Solo lui può salvarci da quella che il mio amico Beppe D'Avanzo chiama «una crisi della sicurezza nazionale». Questa volta non è in discussione l'avanzata del Cavaliere da fermare ad ogni costo. E' peggio. C'eravamo illusi pensando che in discussione fosse la vita esagerata del premier che nei suoi fine settimana ama passare ore tranquille a Villa Certosa circondato da belle ragazze. No, una vera minaccia grava sul paese. Servizi segreti di tutto il mondo sono stati distolti dalla caccia a Bin Laden, a Ratko Mladic, ex comandante delle forze serbo bosniache accusato di genocidio e crimini di guerra anche lui ritratto recentemente mentre balla e festeggia, per dedicarsi alle nudità degli ospiti e, soprattutto, delle ospiti del presidente del Consiglio italiano.
D'Avanzo lancia l'allarme con quattromila battute che hanno sconvolto l'intelligence di tutto l'Occidente. E non venite a raccontare che si tratta di un pezzo antiberlusconiano. Qui la cosa si fa seria (Dagospia, che non lesina le parole forti scrive, citando Franchi e Ingrassia, che «l'affare si ingrossa») e forse siamo oltre il tempo massimo. Scrive D'Avanzo: «Ammesso che ci siano i margini tecnici per mettere in sicurezza la reputazione del presidente del consiglio, nessuno oggi è in grado di dire se non sia già troppo tardi». Un terribile ricatto contro Berlusconi e i suoi ospiti appena usciti dall'ospizio («sono avanti con gli anni. Hanno i capelli bianchi») incombe ed è peggio della peste suina.
Girano per le cancellerie del mondo libero fino alle montagne dell'Afghanistan cinquemila fotografie «caste ma non innocenti» di Berlusconi e dei suoi vecchietti circondati «da stuoli di ragazze, alcune italiane, altre apparentemente slave, sempre giovanissime». Fin qui niente di male ma a D'Avanzo che è un ragazzo di mondo non sfugge la trappola: «Quelle jeunes filles en fleurs hanno avuto la possibilità di andar via con qualche scatto, con qualche immagine». Attenzione, D'Avanzo non vuole passare per uno che insinua anzi premette, con uno slalom nel ragionamento che fa di lui il vero segugio della stampa italiana, che le foto «non è necessario che siano compromettenti anche se sarebbe avventuroso sostenere, con certezza, che non lo siano». Avete capito? Io no.
Chi pensa, aggiunge tuttavia il vicedirettore di Repubblica, che tutto ciò possa essere «un trascurabile gossip per teste imprevidenti o vecchi volponi» non ha capito che siamo di fronte a un passaggio cruciale della vita del paese che spinge i nostri servizi segreti alla «sterilizzazione di ogni minaccia che viene dal passato e la distruzione di ogni disegno aggressivo che può affacciarsi nel presente». Come dire che Br e terrorismo palestinese ci fanno un baffo da quando sono in scena le ragazze slave. Sufficientemente allarmato dall'appello di D'Avanzo, il lettore si butta a capofitto sul secondo articolo che apre la prima pagina del quotidiano di Ezio Mauro. Il pezzo di cronaca è firmato da Paolo Berizzi e Carlo Bonini e spiega le paure e i timori di D'Avanzo. Le foto non sono settecento ma cinquemila, raccolte in tre anni dal paparazzo sardo Antonello Zappadu. Che tipo di foto? Zappadu, scrivono i due brillanti colleghi, allarga le braccia: «Mettiamola così: nulla di pruriginoso. Piuttosto direi immagini politicamente imbarazzanti». Immagini, qui il passaggio è allusivo quanto basta, che «fissano una scena, ma alludono a un contesto». Ecco tornare il rovello di D'Avanzo e si capisce bene che siamo di fronte a un paese che sta rischiando troppo. Questa parte dell'articolo si intitola, come nei romanzi del romanticismo inglese, «Le ragazze nella villa». Si legge «Si è scritto nelle scorse settimane di docce saffiche, di nudi in topless a bordo piscina, di ragazze ora in pigiama, ora in baby doll a passeggio nel patio della villa». Qui il lettore non ne può più dell'attesa, accetta persino di sapere «che c'è una doccia ma non è saffica» (in pratica le fanciulle si lavano e basta), ma non ulteriori rinvii, e Berizzi e Bonini calano l'asso: «Alcune ragazze sembrano avere tratti slavi». Non manca il tocco erotico: «Passeggiano nel parco con stivali di velluto, viola, bianchi, scarpe dai tacchi alti, ridottissime minigonne, abiti colorati che ne fasciano i corpi». Senza dubbio, sono spie.
E il presidente del Consiglio? Quest'uomo privo di regole, corroso dalla perdizione, «indossa un pullover blu» circondato da ospiti di mezza età (ci risiamo!): «Il primo veste con un maglione beige e ha il voto incorniciato da baffi e capelli bianchi, anche il secondo gli sembra coetaneo: capelli bianchi, golf blu, pantaloni scuri. L'ultimo stringe una rivista, ha un gilet di cotone o scarpe bianche». Si sono fatti fregare dalle spie in stivali tutti vestiti addirittura con il maglioncino per via dell'età. Ci sono tutti gli ingredienti di un giallo di portata internazionale. Un giorno di questi mi farò spiegare come si fa a riconoscere in una foto presa da lontano il tratto «apparentemente slavo» di una ragazza. Ma non sono sicuro di essere in grado di capire. Forse faccio parte di quelli che D'Avanzo chiama le «teste imprevidenti o i vecchi volponi». Meno male che a largo Fochetti hanno assunto James Bond. Se ci facevamo bastare De Gennaro eravamo rovinati.

l’Unità Lettere 13.6.09
Psichiatria e prevenzione dei reati
Un poliziotto americano ha perso la vita in uno scontro a fuoco con un cosiddetto "folle" recidivo il quale, dopo aver compiuto un raid anni orsono sparando all'impazzata sulla folla, aveva scontato "soltanto" sei anni di prigione, prima del rilascio e del nuovo tentativo di strage. Ma come può, un individuo che senza motivo alcuno, un brutto giorno si sveglia, imbraccia un fucile e compie una strage essere giudicato "soltanto" un criminale e non un malato schizofrenico, bisognoso di adeguata sorveglianza e di cure psichiatriche? Ancora una volta, una corretta diagnosi psichiatrica avrebbe potuto risparmiare due vite umane, regalandoci un po' di speranza e maggiore civiltà, anziché quel sottile tragico e banale compiacimento che traspare dalla folla, acclamante l'ennesimo "eroe", che ha perduto la vita nell'uccidere il "mostro".
Antonella Pozzi

venerdì 12 giugno 2009

Repubblica 12.6.09
Il cittadino mortificato
di Stefano Rodotà


Un Parlamento mortificato, ridotto una volta di più a luogo di silenziosa ratifica della volontà del Governo. Una magistratura resa impotente di fronte a fenomeni gravi di illegalità. Un sistema della comunicazione espropriato della sua funzione di "ombudsman diffuso", della possibilità di riferire fatti di indubbia rilevanza pubblica.
Una società civile resa opaca e silenziosa dal divieto di assicurarle informazioni essenziali. Questo è il cambiamento del sistema istituzionale e sociale che ci consegna la nuova legge sulle intercettazioni telefoniche.
Siamo di fronte ad una nuova manifestazione di una linea ben nota, ad una accelerazione della irresistibile volontà di liberarsi proprio di quei contrappesi, di quegli strumenti di garanzia che, in un sistema democratico, possono impedire la degenerazione del potere, il suo esercizio incontrollato, la creazione di sacche di impunità. Per realizzare questo risultato si è insistito molto sulla necessità di tutelare la privacy delle persone, troppe volte violata. Ma questo argomento, in sé legittimo, è stato trasformato in pretesto per una disciplina punitiva, che con la tutela della privacy non ha niente a che vedere. Negli anni passati, infatti, proposte di legge presentate dalle più diverse parti politiche avevano individuato i soli punti sui quali era necessario intervenire: divieto di pubblicare brani di intercettazioni ancora coperti dal segreto, irrilevanti per le indagini, riferiti a persone diverse dagli indagati. Obiettivi che possono essere raggiunti senza restringere, o addirittura cancellare, le possibilità investigative da parte della magistratura e senza negare il diritto costituzionale all´informazione che, ricordiamolo, non è privilegio del giornalista, ma elemento storicamente essenziale per il passaggio da suddito a cittadino.
Perché, allora, un mutamento così radicale dei contenuti della legge e la fretta nell´approvarla, ricorrendo al voto di fiducia? Una ragione, la più immediata, riguardava il rischio che, pure in una maggioranza che si proclama ad ogni passo compatta, si manifestassero quei dissensi e quelle proposte di emendamento già affiorati nelle dichiarazioni di alcuni parlamentari. Il voto di fiducia non solo accorcia i tempi, ma soprattutto obbliga al silenzio. Una finalità di normalizzazione, dunque, una conferma ulteriore della considerazione del Parlamento come puro intralcio da rimuovere con qualsiasi mezzo, ignorando l´imperativo democratico che, soprattutto per le leggi incidenti su diritti fondamentali delle persone, imporrebbe la discussione più libera e aperta.
Ma la fretta, questa volta, ha una ragione più profonda. Proprio in occasione delle ultime elezioni si è visto che i mezzi d´informazione possono contribuire a modificare l´agenda politica, che la voce dei cittadini informati può sopraffare una comunicazione addomesticata. Una situazione che deve essere apparsa intollerabile, che non deve consolidarsi. Ecco, allora, che si prende al volo l´occasione offerta dalla tutela della privacy per piegare la legge ad un´altra finalità, per interrompere fin dall´origine il circuito informativo. Per questo era necessario ridurre le informazioni che la magistratura può raccogliere. Per questo erano necessarie nuove barriere, per impedire che le informazioni potessero poi giungere ai cittadini, se non dopo essere state sterilizzate dal passare del tempo. All´intento originario di punire magistratura e stampa si è aggiunta questa ulteriore urgenza. Non si può tollerare che i cittadini dispongano di informazioni che consentano loro di non essere soltanto spettatori delle vicende politiche, ma di divenire opinione pubblica consapevole e reattiva.
Di questa strategia, tanto rozza quanto efficace, si possono subito misurare le conseguenze. È stato ricordato che i risultati appena raggiunti dalla Procura di Venezia nella lotta al traffico degli immigrati, proprio un tema sul quale insiste fino a un pericoloso parossismo repressivo l´attuale maggioranza, sono il frutto di intercettazioni durate due anni. Con le nuove norme questo non sarebbe stato possibile. Queste, infatti, prevedono che le intercettazioni possano durare due mesi al massimo, ed è assai dubbio che nel caso veneziano potessero addirittura cominciare, viste le condizioni restrittive alle quali sono ormai subordinate. Le preoccupazioni espresse da magistrati e poliziotti, dunque, hanno un ben solido fondamento, e la contraddizione tra proclamazioni e strumenti dimostra quale sia il vero intento delle nuove norme.
Da molti anni, peraltro, disprezzo per la legalità e ostilità per l´informazione vanno di pari passo, e la restrizione delle possibilità investigative esigeva altrettante limitazioni della libertà d´informazione. Il punto rivelatore è rappresentato dal divieto di rendere pubbliche anche le intercettazioni non più coperte dal segreto. E il meccanismo delle sanzioni è particolarmente grave, soprattutto perché, accanto a intimidatorie sanzioni penali per i giornalisti, introduce una "censura economica" più pesante di qualsiasi altro meccanismo di controllo. Poiché si prevede che gli editori possano essere obbligati a pagare forti multe, è ovvio che pretenderanno di minimizzare questo rischio, interferendo nel libero lavoro d´informazione. Così, "Il Padrone in redazione" non sarà più solo il titolo di un bel libro di Giorgio Bocca, ma il destino promesso al sistema italiano della comunicazione.
Peraltro, proprio perché non più coperte dal segreto, le intercettazioni saranno nelle mani di molti, a cominciare dalle schiere di avvocati e loro collaboratori che accompagnano ogni indagine di qualche peso. Così, il divieto di renderle pubbliche creerà un grumo oscuro, disponibile per manovre oblique, manipolazioni, persino ricatti (che cosa sarebbe accaduto con la segretezza coatta delle indagini sui "furbetti del quartierino" e dintorni?). Corretto corso della giustizia e diritti delle persone (privacy inclusa) saranno assai più a rischio di oggi, in assenza di quei benefici contrappesi democratici che si chiamo trasparenza e controllo diffuso.
Il Presidente del Consiglio si accinge a partire per gli Stati Uniti. Chi sa se qualcuno dei suoi collaboratori, preparando i necessari dossier, penserà di inserirvi la citazione di quel che scrisse un grande giudice costituzionale americano, Louis Brandeis: "La luce del sole è il miglior disinfettante".

Corriere della Sera 12.6.09
Vecchi eccessi e nuovi pericoli nella legge sulle intercettazioni
di Luigi Ferrarella


Arriva dal passato la tagliola della nuova legge sulle intercettazioni: il boomerang di anni di prassi giudiziarie e giornalistiche innegabilmente troppo rilassate ha spianato la strada alle «molte cose da rinnovare» nella normativa in materia, per usare l’espressione di Napolitano. Ma non poche norme in cantiere rischiano di stravolgere le altre «molte cose da difendere» evocate dal presidente quando spiega di voler esaminare bene il testo approvato dalla Camera.
«Con la nostra legge sulle intercettazio­ni non si rovinerà più la vita della gente», esulta il ministro della Giustizia, Alfano. Vero. Basta intendersi sulla vita di chi. Di certo, e solo per restare a uno dei tanti punti critici, la legge, nel vietare ai magi­strati (tranne che per il reato di associazio­ne mafiosa) di utilizzare la prova del reato B emersa nelle intercettazioni autorizzate nel processo per il reato A, non avrebbe «rovinato la vita» di molti imputati di omi­cidi (5 solo a contare processi di questi mesi in Calabria, Lombardia, Puglia, Cam­pania e Sicilia): contro costoro non sareb­be stato più utilizzabile come prova l’ascol­to in «diretta» del delitto, casualmente re­gistrato allorché il killer per troppa foga aveva sfiorato il cellulare posto sotto inter­cettazione da tutt’altra indagine. A chi questa norma avrebbe «rovinato la vita», piuttosto, andrebbe chiesto ai familiari delle tre guardie giurate uccise nel 1999 a Lecce in una rapina: gli assassini che li hanno lasciati vedove e orfani sono stati individuati e condannati all’ergastolo gra­zie alle confessioni di uno dei killer, rasse­gnatosi a «collaborare» solo dopo aver ap­preso che a incastrarlo per l’esecuzione di un rivale esisteva l’intercettazione casuale (in un’altra indagine) del suo telefono pro­prio mentre la vittima gli implorava pietà. «Berlusconi ha fiuto — l’ha ieri appog­giato Umberto Bossi —, perché alla gente non piace essere ascoltata». Vero: ma in mezzo a quella «gente», a volte, capitano anche i criminali. Così come è ben dubbio che il modo migliore per togliere l’acqua ai tanti giornalisti che negli anni hanno fat­to carta straccia della vita privata delle per­sone sia estendere ancor di più l’area del segreto e presidiarla sia con maxisanzioni a carico degli editori, che portano «il pa­drone in redazione», sia con la previsione del carcere per i giornalisti, che porta l’Ita­lia fuori dall’Europa: quella Europa la cui Corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo con la sentenza Dupuis nel 2007 ha con­dannato la Francia per aver sproporziona­tamente ristretto la libertà di stampa san­zionando due giornalisti che avevano pub­blicato atti coperti da segreto, e che con la sentenza Kydonis due mesi fa ha condan­nato la Grecia ritenendo incompatibili con la libertà di stampa norme che contempli­no il carcere per i cronisti.

Corriere della Sera 12.6.09
Il magistrato Maria Cordova
«Abbiamo arrestato ottanta pedofili Ora sarà impossibile»
intervista di Lavinia Di Gianvito


ROMA — Duecento bambini violentati, scambiati, costretti a partecipare a festini a luci rosse. Ottanta arresti e altrettante condanne, fino a vent’anni di carcere.
L’inchiesta «Fiori nel fango» è quella che Maria Cordova ricorda per prima quando si tocca il tema delle microspie. Perché di una cosa l’ex procuratore aggiunto è certa: «Senza le intercettazioni, quei risultati non li avremmo mai ottenuti».
Quanto tempo sono durati gli «ascolti»?
«Almeno sei mesi. A poco a poco è emersa una catena, con pedofili che venivano a Roma anche da altre regioni».
I 60 giorni previsti adesso non sarebbero bastati?
«Assolutamente no, perché le conversazioni telefoniche non sono mai chiare. Ci possono essere quattro, cinque intercettazioni che non sono univoche.
Poi, a un certo punto, arriva quella che dà un senso anche alle precedenti».
Com’è cominciata l’inchiesta «Fiori nel fango»?
«Con dei controlli nei campi nomadi: la polizia aveva notato dei bambini che venivano portati via in macchina di sera.
Poi si è scoperto che maneggiavano un po’ di soldi e che dai loro cellulari risultavano parecchie telefonate ad adulti. Erano tutti maschi sui dieci anni».
Non c’è mai stato il rischio di violare la privacy?
«No, abbiamo controllato solo le persone che apparivano collegate alle nostre ipotesi di reato, pedofilia e induzione alla prostituzione minorile» .
Questo è successo in quell’inchiesta. E in generale?
«È sempre così».
Pensa che ora si dovrà tornare a metodi investigativi più «tradizionali»?
«E quali? Sono in magistratura dal ’67 e le intercettazioni ci sono sempre state. Per di più allora venivano disposte dal pm, senza l’autorizzazione di un giudice».
Oggi però sembra che siano cresciute a dismisura.
«Vent’anni fa c’era la pedofilia? Era così diffusa la corruzione? Molti reati esistevano, ma erano sommersi.
Cosa si contesta ai magistrati, di essere troppo efficienti?».

Repubblica 12.6.09
Esce il nuovo saggio di Massimo L. Salvadori
La deriva autoritaria delle democrazie
di Massimo L. Salvadori


"Bisogna porre sotto controllo le oligarchie economiche, garantire la libertà dell´informazione e la voce delle minoranze, tutelare i diritti sociali dei più deboli"

Esce in questi giorni "Democrazie senza democrazia" di (Laterza, pagg. 96, euro 14). Qui anticipiamo alcune pagine dell´Introduzione.
uando oggi parliamo di democrazia, usiamo un termine che è sinonimo di liberaldemocrazia o democrazia liberale. Infatti la democrazia diretta dell´Atene del V secolo a. C. e quella a cui in tempi moderni si è tentato di dar vita prima nell´effimera Comune di Parigi del 1871 e poi nella Russia bolscevica tra il 1918 e l´inizio degli anni ´20 non sono modelli ed esperienze attivi nella nostra società: l´una perché espressione di una realtà troppo arcaica, l´altra non foss´altro perché soffocata dalle sue contraddizioni interne e da quelle stesse forze che, dopo averla proposta e agitata come modello universale, hanno rapidamente costruito una dittatura di partito sfociata nel totalitarismo.
La democrazia di cui parliamo e a cui facciamo riferimento è dunque il sistema politico e istituzionale che si è formato dal connubio con il liberalismo: un connubio non facile e segnato da molte tensioni, su cui mi sono soffermato analizzando tre tipi di regimi. Il primo è il sistema liberale a suffragio ristretto e basato sui partiti, sui parlamenti e sul governo dei notabili di matrice aristocratica e borghese. Il secondo - il primo regime liberaldemocratico - è caratterizzato dal suffragio allargato o universale, dall´avvento sulla scena pubblica dei partiti organizzati di massa, dal dispiegarsi di acuti conflitti sociali e ideologici tra le classi e le loro rappresentanze politiche e parlamentari.
Il terzo - il secondo regime liberaldemocratico - è segnato, nel quadro dell´indebolimento e per aspetti importanti dalla scomparsa della sovranità degli Stati, dallo strapotere di oligarchie dominanti della finanza e dell´industria a livello internazionale, dal venir meno delle precedenti antitesi di classe e ideologiche, dalla trasformazione dei grandi partiti di massa organizzati sul territorio in «partiti leggeri» che si mobilitano essenzialmente in vista delle tornate elettorali e non poggiano più su quadri intermedi e gruppi di militanti sempre attivi e distribuiti capillarmente nel territorio, dalla formazione di una opinione pubblica inerte, forgiata prioritariamente dai mezzi di informazione di massa. Si tratta non già di un sistema in cui i cittadini costituiscono le primarie cellule viventi di regimi dotati di una sostanziale natura democratica, bensì di un sistema in cui i governi ricevono una sorta di passiva incoronazione dal basso, sono «governi a legittimazione popolare passiva».
Constatata la crisi strutturale della democrazia, chi scrive si è posto in conclusione l´interrogativo se sia dato o meno credere nella possibilità di un suo rilancio, diciamo pure di una sua rinascita all´altezza dei problemi di un mondo in continua trasformazione con ritmi che non fanno precedenti nella storia. Lo spero ma non m´azzardo a dare una risposta. Occorre nondimeno cercare di stabilire qualche punto fermo, qualche parametro.
Tre paiono i presupposti principali di questa rinascita: 1) la capacità delle autorità politiche dei singoli Stati e degli organismi internazionali di porre sotto controllo le oligarchie economiche, in modo da togliere loro il potere di agire pressoché indisturbate nel perseguire i propri interessi particolari e da impedire il ripetersi di crisi catastrofiche come quella scoppiata nell´autunno del 2008; 2) la sottrazione ai potentati della finanza e dell´industria di un dominio sui mass media che vanifica la possibilità stessa di una opinione pubblica informata in maniera veritiera e realmente pluralistica, e il conferimento del dovuto spazio anzitutto alle minoranze quotidianamente minacciate di essere ridotte al silenzio o all´irrilevanza; 3) un´energica azione volta a combattere l´eccesso di disuguaglianze economiche che rendono una parola vuota la solidarietà, minano la coesione sociale e pongono i non tutelati, i poveri, gli emarginati in una posizione che non è di cittadini ma, agli estremi, di veri e propri paria di nuova generazione. Il che vuol dire il ritorno alle politiche di protezione e potenziamento dei «diritti sociali» e delle istituzioni del welfare che nell´ultimo trentennio il neoconservatorismo liberistico ha frontalmente combattuto e il cui ambito e la cui incidenza sono stati fortemente ridotti. Insomma, una robusta combinazione di elementi tale da dare alla democrazia un volto insieme liberale e sociale.

Repubblica 12.6.09
Taccuino strategico
La guerra vera
del generale Fabio Mini


Gli attacchi continui alle nostre truppe in Afghanistan non sono fatalità né incidenti di percorso ma azioni e reazioni di una guerra che dura da otto anni e che ci ha visto sempre distratti e impreparati. Dobbiamo finirla di dar credito a quelli che ce l´hanno presentata come un´operazione di pace facendo assumere ai nostri soldati maggiori rischi, ma dobbiamo anche finirla di dare ascolto ai falchi da salotto che incitano alla violenza. I primi ci hanno esposto ai rischi della finzione della pace e i secondi ci espongono ai rischi della finzione della guerra calandoci in Afghanistan come nei fumetti, con i buoni da un lato e i cattivi dall´altro, con i boom, bang, smash. Dobbiamo anche smetterla di far credere che la responsabilità degli attacchi sia tutta dei presunti Taliban che nelle nostre province al confine con l´Iran non ci vivono e non ci vanno volentieri. Dobbiamo smettere di crederci legittimati perché siamo dalla parte del governo. Dobbiamo finirla di credere che il modo giusto di combattere sia solo quello dei più forti.
La guerra in Afghanistan, quella vera, è un misto d´insurrezione, guerra civile, criminalità, terrorismo e disperazione. L´approccio dei nostri alleati è stato quello della repressione in un territorio occupato e ostile. La nostra preparazione si è basata sul peacekeeping e sui conflitti a bassa intensità. In realtà sia noi che gli alleati abbiamo dimenticato gli afgani e siamo stati sul territorio, con i mitra o la cazzuola, ammazzando o sfornando pizze dalle otto alle cinque. Gli americani si sono accorti che la loro guerra non funziona. La nuova strategia militare americana vuole la penetrazione tra la gente, il consenso e la cooperazione. Non vuole affatto che ogni azione inneschi una vendetta e che ogni vittima ingiustificata crei decine di nuovi oppositori e rivoltosi. Il comandate americano e Nato in Afghanistan è stato mandato a casa perché la nuova strategia presidenziale ha bisogno di un nuovo comandante. Il suo successore è un esperto di forze speciali, infiltrazioni, intelligence, guerra psicologica, consiglieri militari. Da noi i soliti falchi lo ritengono l´uomo dal pugno di ferro e sperano in nuove mattanze. Sarà difficile, a meno che non voglia farsi buttar fuori. Ai nostri soldati dobbiamo finalmente dire la verità e indicare un modello operativo coerente con il tipo di guerra da combattere. A meno che non vogliamo farci massacrare o buttare fuori a pedate.

Corriere della Sera 12.6.09
Mondo radicale
Teodori a Pannella: caro Marco, fai un passo indietro e lascia spazio a Emma
di Massimo Teodori


Caro Marco, fai un passo indietro se vuoi che i valori e gli obiettivi radicali rimangano vivi. Altrimenti ci sarebbe un tramonto sempre più malinconico.

Chi è: Massimo Teodori (nato a Force il 9 settembre ’38) è uno storico, politico e scrittore. Fino al ’94 nei radicali, si è poi avvicinato a Forza Italia

Caro Marco, i voti ottenuti dalla tua lista alle europee (2,6%) con le 234 mila preferenze alla Bonino e 80 mila a te, sollecitano una riflessione da parte di chi ha a cuore la politica radicale. Non c'è persona che non ti riconosca il merito di essere stato in passato il paladino dei diritti civili. Ma, oggi, il crollo delle tue preferenze, malgrado la tua esposizione mediatica, indica una lezione chiara: non riesci più a comunicare e, quando comunichi, non sei gradito agli italiani. Non resta inascoltato il messaggio radicale che è ben accetto ai segmenti liberali della società, ma è la tua parola, il tuo stile, e la tua persona come bandiera ad essere divenuti indigesti.
E' giunto il momento di fare un passo indietro se vuoi onorare il passato, il presente e il futuro radicale, e non vuoi che tutto finisca con te. Le mie parole non sono mosse da pregiudizio, ma, al contrario, da una lunga e sincera vicinanza politica. L'amicizia ha bisogno di verità e non di compiacenza - 'il re è nudo' - , anche se si presenta ruvida. Se continui ad avvoltolarti su te stesso, se continui a gestire i pannelliani come una setta, se continui a pretendere il culto della personalità, se continui a logorare la tua intelligenza in un vittimismo stucchevole, se continui a ritenere di essere l'uomo che, da solo, può cambiare le cose, allora sei tu stesso, e non il complotto dei media, a decretare la tua condanna e, con te, anche quella del radicalismo.
L'Italia ha estremo bisogno di una forza liberale, radicale, laica, socialista, democratica. Il dramma della nostra democrazia è la scomparsa delle forze portatrici dei valori e degli obiettivi che i radicali, soprattutto in passato, hanno rappresentato, Ma oggi, paradossalmente, sei tu l'ostacolo allo sviluppo dell'ipotesi radicale: la tua azione è divenuta, nei fatti, un ostacolo a tutte le iniziative che non coincidano con la tua persona. E' probabile che cercherai di polverizzare anche l'ultimo successo di Emma come hai già fatto, per esempio alle elezione del 1999 quando la lista Bonino superò l'8%.
Fino a un certo punto sei stato il grande aggregatore laico, liberale e radicale: oggi sei il sommo disgregatore che impedisce le ragioni del consenso verso i radicali, come emerge da una seria analisi delle preferenze. Sei l'unico leader mondiale, insieme a Fidel Castro, che a ottant'anni mantiene da oltre mezzo secolo il potere politico assoluto.
Poiché sei un vecchio saggio oltre che uomo di grande forza fisica e morale, non dispero che queste parole, che a prima vista ti sembreranno dure, possano fare breccia nella tua coscienza individuale e responsabilità politica. Occorre che tu compia un atto di nobiltà per separarti dal lato oscuro della tua leadership nonviolenta e capricciosa. Quel che è in gioco non è la tua persona, che appartiene alla storia, quanto la possibilità di sviluppare una politica radicale di cui il Paese ha più che mai bisogno.
Devi accettare il fatto di non potere più guidare con piglio totalitario la grande storia radicale che, sotto la tua direzione assoluta, non andrebbe avanti, ma scivolerebbe inevitabilmente in un buco nero che finirebbe per oscurare anche il passato. Nessuno dubita che il tuo carisma, la tua esperienza, la tua intelligenza politica sono incommensurabili con le doti di chi ti è vicino. Ma in politica, come sai, non esiste nulla di obiettivo, e occorre cogliere i segni della realtà.

l’Unità 12.6.09
Europa e ambientalismo
La lezione verde di Cohn-Bendit
di Riccardo Spezia, presidente Pd Parigi


Immaginazione e unità. Con queste due parole chiave si riassume il metodo che ha portato Cohn-Bendit a compiere due miracoli: riunire in un progetto politico europeo e innovatore le tante anime ecologiste francesi e portare questa unione ad una eclatante vittoria. Una vittoria ancor più atipica nel panorama politico uscito dalle elezioni europee, poiché Europe Ecologie – la lista condotta da Dany il rosso – è l’unica forza non solo innovatrice ma anche convintamente europeista ad affermarsi il 7 giugno, quando in tanti paesi europei le pulsioni nazionalistiche e protezionistiche prendono il sopravvento.
Unità e immaginazione. Cohn-Bendit riesce facilmente a convincere elettori del PS e del MoDem grazie ad un progetto chiaro e onesto, unendo rigore intellettuale e un’oratoria semplice e diretta. Il progetto ecologista, anche sulla scia dei primi passi dell’amministrazione Obama, delinea una proposta politica realizzabile per uscire dalla crisi, dorandosi al tempo stesso del più nobile dei propositi, quello di salvare il pianeta. Ma Dany è ancor più travolgente perché non si fa invischiare nella palude del localismo e del nazionalismo da parte di giornalisti e avversari che tentano di portare il confronto nei piccoli confini interni. Riesce infatti ad esporre sulle questioni principali, lavoro, ecologia, politica estera, una visione europea, una risposta necessariamente europea. È questo che hanno premiato gli elettori progressisti francesi.
Immaginazione. Il vecchio leader del maggio francese sembra non aver perso lo smalto di 40 anni fa, quando chiedeva l’imagination au pouvoir. Ora l’immaginazione sembra la sola salvezza per la sinistra francese ed europea. Immaginare come uscire dai soliti schemi delle social-democrazie, unire il campo dei progressisti come si è riusciti a riunire quello degli ecologisti, elaborando un progetto innovatore, volto al futuro. Un vasto campo che Cohn-Bendit individua, non solo in Francia ma in tutta Europa, composto di ecologisti, socialisti e liberal-democratici. Un campo dove è necessario riconsiderare le proprie rassicuranti antiche parole d’ordine e crearne di nuove adatte alle sfide del tempo attuale. Un campo che in Francia è tutto da costruire. Un progetto che da noi è nato in anticipo rispetto all’Europa: Ulivo e Pd ne rappresentano la versione italiana. Un progetto cui però è mancato finora il coraggio delle azioni. Se quindi il Pd può mostrare come l’immaginario sia possibile, deve imparare come questo immaginario possa realizzarsi e affermarsi uscendo dalle imbolsite e tristi usanze politiche del secolo scorso.

Repubblica 12.6.09
Preti pedofili, il grido di Ratzinger
di Orazio La Rocca


Il Papa ai vescovi irlandesi: "Giustizia per le vittime, adesso tolleranza zero"
"Il Santo Padre ha esortato la Chiesa a continuare a stabilire la verità su ciò che è accaduto"

CITTÀ DEL VATICANO - La Chiesa irlandese prova «vergogna» e «umiliazione» per le violenze sessuali avvenute negli anni passati negli istituti religiosi dell´Irlanda. E per questo, la gerarchia cattolica dell´isola - su richiesta di papa Ratzinger - ora si batte il petto, chiede scusa, invoca giustizia per le vittime, assicura che farà tutto il «possibile per continuare a stabilire la verità di ciò che è accaduto e perché», ma, soprattutto, annuncia «tolleranza zero» nei confronti di quegli ecclesiastici che si macchino di «crimini tanto orrendi».
Quando venerdì scorso in Vaticano i vertici della Chiesa irlandese illustrarono il resoconto del Rapporto Ryan - l´inchiesta statale sugli abusi sessuali commessi su 2500 bambini delle scuole cattoliche tra il 1940 e il 1980 - Benedetto XVI, «visibilmente turbato», chiese interventi drastici per porre fine ad uno dei più grandi scandali che abbia scosso le fondamenta del cattolicesimo d´Irlanda. Ieri, sono stati gli stessi vertici ecclesiastici irlandesi a renderlo noto in un comunicato a firma del cardinale Sean Brady, arcivescovo di Armagh e primate di Irlanda, e monsignor Diarmuid Martin, arcivescovo di Dublino.
«Proviamo vergogna, siamo umiliati e chiediamo scusa se il nostro popolo si è allontanato così tanto dagli ideali cristiani», scrivono, tra l´altro, i vescovi irlandesi, esprimendo «profonda tristezza» per gli abusi che migliaia di minori hanno subito negli anni ‘40-80´ nei loro istituti religiosi. Quasi contemporaneamente alla pubblicazione del comunicato vescovile, ieri a Dublino migliaia di persone sono scese per strada per manifestare la loro solidarietà alle vittime e per protestare contro il mancato dibattito parlamentare sul Rapporto Ryan, rinviato all´ultimo momento per far posto ad una mozione di sfiducia al governo.
«Il Rapporto Ryan - ammettono i vescovi - rappresenta la più recente e inquietante incriminazione di una cultura che, per troppo tempo, è stata prevalente nella Chiesa cattolica in Irlanda. Crimini odiosi sono stati perpetrati contro i più deboli e i più vulnerabili, e sono stati commessi atti vili con effetti duraturi nella vita con il pretesto della missione di Gesù Cristo. E´ un grave atto di tradimento della fiducia che il nostro popolo ha da sempre riposto nella Chiesa. Chiediamo perdono e non ci stancheremo di cercare di capire - alla luce del Rapporto Ryan - le vere cause che hanno provocato tanto dolore a degli innocenti». «La nostra prima reazione a quanto accaduto - confessano i vescovi irlandesi - è di profonda tristezza per le sofferenze di tanti, provate per così lungo tempo. Vogliamo invitare le vittime ad impegnarsi con noi per vedere come possiamo aiutare coloro che sono stati abusati. Vogliamo rispondere come pastori... invitiamo tutta la Chiesa ad unirsi con noi in preghiera per il benessere e la pace della mente per tutti coloro che hanno sofferto».

il manifesto 12.6.09
Opposizione. L'ex subcomandante: «Un partito solo, dal Prc all'Idv»
di Micaela Bongi


Delle «due sinistre», una moderata e una radicale, non si può più parlare, perché ormai «non c'è nessuna sinistra». E se le formazioni escluse anche dal parlamento di Strasburgo «non prendono atto che è finita una storia e che quindi si deve ricostruire da zero, non faranno un metro in più». Dopo aver auspicato, per le elezioni europee, il «tanto peggio, tanto meglio» (un insuccesso delle liste di sinistra per poter, appunto, ripartire da zero) Fausto Bertinotti trae le sue conclusioni: il peggio è arrivato e allora è arrivato anche il momento di «rimescolare le carte». Come? Dando vita - dice l'ex subcomandante intervistato dalla Stampa a «un partito nuovo di tutta la sinistra italiana, creato da tutti quelli che oggi sono all'opposizione e che si sentono più o meno di sinistra, da Rifondazione all'Italia dei valori, dal Pd al movimento di Vendola, dai socialisti ai Verdi, dai Comunisti italiani ai radicali».
Proposta choc, bocciata subito senza complimenti dai socialisti di Riccardo Nencini che all'idea cdi stare nello stesso partito con Olviero Diliberto e Antonio Di Pietro si sentono male, e dal Pdci Marco Rizzo, che spara a zero contro l'ex segretario di Rifondazione: «Serve aria nuova e non assassini della politica che tornano sul luogo del delitto». Proposta che, seppure in modo più pacato, considera irrealizzabile il segretario del Prc Paolo Ferrero, perché «ha un tratto di illusione, la stessa che stava alla base del ragionamento fàtto all'epoca dell'Unione: la disponibilità della sinistra moderata a ragionare sui percorsi fatti. Ma poi abbiamo visto le politiche economiche di Padoa Schioppa». E anche ora, «vedo una sinistra moderata che ha fallito ma è ben presente e ha posizioni legate ai poteri forti. Il problema, anche di natura organizzativa, riguarda la costruzione della sinistra di alternativa, non di una sinistra senza aggettivi».
Insomma, al di là di Di Pietro - che tra le forze di Sinistra e libertà provoca un sussulto non solo ai socialisti - o di Marco Pannella, il punto principale è il Pd. O meglio, questo Pd. Perché Bertlnotti, di fronte al risultato elettorale, immagina o almeno auspica che il partito di Franceschini possa essere travolto dal «big bang». E dunque la nuova formazione raccoglierebbe solo l'ala più di sinistra dei democratici. Non a caso l'ex presidente della Camera ieri avrebbe parlato della sua proposta anche con Massimo D'Alema. Convinto che, di fronte al rischio palude, è meglio lanciare qualsiasi idea utile a movimentare le acque. Ma anche dall'area ex bertinottiana rimasta dentro Rifondazione si levano voci critiche, come quella di Augusto Rocchi: «Come si fa a definire di sinistra i radicali? Quella sinistra si dividerebbe subito sulla legge 30 o la guerra. Non condivido il presupposto di Fausto, secondo il quale non c'è più nessuna sinistra e dunque non ci sono le due sinistre. Ci sono due liste cresciute di 800 mila voti rispetto alle politiche. Pensiamo a porci il problema di come rimettere insieme i pezzi che. esistono in una forma unitaria e plurale, evitando che ognuno dica che il disegno egemonico è il proprio. E poi nel Pd ci può essere uno scontro sull'asse politico, non un'implosione. Affrontiamo semmai il tema delle alleanze. Se poi ci sarà un'evoluzione del quandro politico, vedremo».
Il problema più stringente del rapporto col Pd, lo ha Sinistra e libertà che vuole allontanare il sospetto di subalternità, senza essere antagonista. E per ora ba deciso di andare avanti con il suo progetto. Ma è appunto dai democratici che ci si aspetta un segnale, eventualmente dopo i ballottaggi. Posto che, come dicono da Sinistra democratica, «tutto è in movimento» ma «un partito con Di Pietro non funziona», anche se per la formazione di Claudio Fava è attuale, non da ora, il tema di un partito della sinistra. Dai verdi invece Paolo Cento conferma che «un partito da Rifondazione all'Idv non è all'ordine del giorno», però «è un bene che Sinisrtra e libertà non abbia deciso strette organizzative», perché «non si deve rinchiudere in un micro partito dai confini prefissati. In questo senso la sollecitazione per una sinistra ampia fatta da Bertinotti è interessante». E se dal Pd si leva la voce di Vmcenzo Vita, dell'Associazione A sinistra - «la proposta di Bertinotti merita di essere discussa e non va respinta in modo burocratico» - commenta contrariato Walter Veltroni, che con l'ex presidente della camera aveva firmato la «separazione consensuale» e che guarda con il solito sospetto ai movimenti di D'Alema: «La proposta di Bertinotti ha un margine se si vuole un sistema bipolare - commenta l'ex segretario del Pd - ma mi pareva di aver capito che non era questa l'aspirazione di gran parte delle forze del centro-sinistra. Un grande Pd può essere la base di alleanze riformiste».

l’Unità 12.6.09
Il voto femminile potrebbe essere decisivo oggi in Iran dove si va alle urne in un clima di elettrizzante attesa. Euforia tra i riformatoriIran, la carica delle donne
Mousavi spera nella svolta
di Gabriel Bertinetto


Oggi le presidenziali Il leader del fronte riformatore sfida il falco Ahmadinejad
L’aspirante First Lady Zahra Ranavand ha il consenso di giovani, ceti medi e moderati

Mercoledì sera, mentre la campagna elettorale si chiudeva per la cosiddetta pausa di riflessione prima del voto odierno, a Teheran è accaduto l’impensabile. In margine ad una manifestazione a sostegno del candidato riformatore Mirhossein Mousavi, un gruppo di donne ha sfidato in un solo momento trent’anni di inibizioni e proibizioni: via il foulard, sciolti i capelli sul volto scoperto, hanno ballato allegramente in strada con i loro compagni maschi. La polizia religiosa stavolta si è ben guardata dall’intervenire.
RINASCE LA SPERANZA
Se Zahra Ranavand, moglie di Mousavi, fosse stata presente, avrebbe redarguito le esuberanti connazionali, bollandone il comportamento come inutilmente provocatorio. Lei, Zahra, ha più volte detto che la società e le istituzioni della Repubblica islamica vanno cambiate con gradualità. Ma con la sua personalità decisa, la moderazione dei metodi e l’intransigenza dei principi, è diventata l’idolo di molte donne. Ed è anche grazie a lei che i gruppi sociali favorevoli alle riforme, ma delusi in passato dagli aspiranti riformatori, hanno ritrovato in queste ultime settimane entusiasmo e speranza di cambiare.
Attorno a Zahra ed al consorte si è formata una eterogenea alleanza fra i ceti medi urbani, i giovani, gli intellettuali, e parte degli ambienti conservatori che non si riconoscono nella retorica estremista di Ahmadinejad e che soprattutto hanno sperimentato quattro anni di politica economica disastrosa. Ecco perchè l’ondata anti-governativa del 2009 si distingue dai movimenti che accompagnarono l’elezione di Khatami nel 1997 e nel 2001. Allora molti votarono con l’illusione di portare alla presidenza un uomo capace di trasformare radicalmente il sistema in senso democratico. Oggi, ammaestrati dai precedenti sforzi andati in fumo, si pongono obiettivi più limitati. Togliere di mezzo Ahmadinejad è considerato di per sé già un grande risultato. Poi a poco a poco qualcosa gradualmente si potrà fare: dalla ripresa del dialogo con l’Occidente, a scelte più oculate in materia economica e sociale, all’apertura di spazi di libertà culturale e mediatica, a modifiche migliorative delle leggi che discriminano in base al sesso.
SPEZZATO UN TABÙ
Presentandosi assieme ai comizi, Mousavi e signora hanno spezzato il tabù della politica al maschile, ed aggirato i cavilli legali che sinora hanno impedito alle donne di candidarsi per la presidenza. Sarà certamente Mousavi, se eletto, a dirigere il Paese. Ma il ruolo di Zahra non sarà quello di una comprimaria. Quando una giornalista le ha chiesto se si sentisse una potenziale Michelle Obama di Teheran, Zahra ha risposto con il piglio di chi non vuole essere seconda a nessuno: «O forse potremmo dire che Michelle è una Zahra americana». Se le donne iraniane avevano un modello in Shirin Ebadi, paladina dei diritti umani vincitrice di un Nobel per la pace, ora ne hanno trovato uno non meno solido in Zahra Ranavand.
I sostenitori di Ahmadinejad temono di non farcela. Potrebbero anche prevalere ma senza superare il quorum del 50%cento. Ed in un eventuale ballottaggio con Mousavi tutto potrebbe accadere. Apparentemente fuori gioco sono gli altri candidati, il riformatore Kharroubi e l’ultraintegralista Moshen Rezaie. Il nervosismo del presidente uscente emerge dai ripetuti tentativi di infangare la personalità dei suoi avversari. Ha insinuato che Zahra abbia ottenuto irregolarmente un dottorato di ricerca universitario. Ha accusato di corruzione l’ex-presidente Rafsanjani, sostenitore di Mousavi. Ha mobilitato gli ambienti militari a lui favorevoli per lanciare un pesantissimo monito agli avversari. «Ogni tentativo di provocare in Iran una rivoluzione di velluto sarà stroncato sul nascere», ha dichiarato Yadollah Javani, responsabile politico dei Pasdaran. In altre parole, non azzardatevi a scendere in piazza per denunciare brogli o reclamare la vittoria.

Corriere della Sera 12.6.09
Fritjof Capra L’autore del «Tao della fisica» rilegge gli studi di botanica del genio
Così Leonardo scoprì l’età degli alberi
di C.Giu.


MILANO — Gli anelli del tronco per stabilire l’età degli alberi? Fu un’intuizione di Leonardo. E dal suo genio venne anche la scoperta del sistema vascolare delle piante e della stretta relazione che lega vegetali e acqua. Allora, fino al Rinascimento, si credeva che gli alberi si nutrissero di terra. Le opere, i disegni, il pensiero di Leonardo da Vinci sono al centro dell’ultima fatica del fisico e scrittore Fritjof Capra, autore del best seller «Il Tao della fisica».
Il volume, edito da Aboca, è stato presentato ieri al Circolo della stampa di Milano. È un libro che si inserisce nel progetto «International lectures on nature and human eclogy». Capra concentra la sua «inchiesta», il suo viaggio, le sue meticolose e approfondite analisi sul pensiero leonardesco; in particolare, sugli studi di botanica che furono compiuti perlopiù negli ultimi anni della vita di Leonardo. Si tratta di ricerche eseguite dopo il 1508, quando l’autore, a quell’epoca cinquantenne, aveva sviluppato buona parte delle sue conoscenze tecniche e scientifiche. Nei suoi disegni, che oggi sono conservati nei musei di tutto il mondo e che vengono riprodotti nelle pagine del volume, secondo Fritjof Capra «emerge il metodo sperimentale di osservazione della natura». Lo stesso metodo che Leonardo applicò per scoprire che la crescita degli anelli nel tronco degli alberi segnava non solo l’età ma poteva fornire indicazioni su carestie e le siccità del passato. Leonardo, secondo l’autore, «emerge come il primo autentico pensatore sistemico» che «riusciva ad unire discipline diverse» con un unica, grandissima conseguenza: «Ottenere una visione articolata delle leggi fisiche e del ciclo della vita».

Corriere della Sera 12.6.09
Fregi del Partenone:
Atene si mobilita contro il British Museum


Sembra una ferita destinata a riaprirsi in continuazione. Il governo greco del premier Costas Karamanlis ha respinto l’offerta del British Museum di prestare per alcuni mesi al neonato Museo dell’Acropoli di Atene i marmi del Partenone (che Lord Elgin aveva trafugato nell’Ottocento) «in cambio del riconoscimento della proprietà britannica sui fregi» ( foto). Il ministro della Cultura ellenico Antoni Samaras è stato categorico: accettare la proposta sarebbe come «legalizzare il saccheggio avvenuto duecento anni fa». Non è che l’ultimo atto di una «crisi eterna» ora aggravata dall’apertura, il prossimo 20 giugno, del nuovo museo progettato dall’architetto svizzero (con studio a New York e Parigi) Bernard Tschumi: 14 mila metri quadrati con «tutte le meraviglie dell’Acropoli», ma senza i fatidici fregi.
A guidare la campagna per la restituzione è oggi lo scrittore Alexis Mantheakis (ex portavoce della famiglia Onassis): per lui «la Gran Bretagna non restituirà mai i marmi del Partenone a meno che non vi sia costretta».
Intanto cresce la mobilitazione popolare e vengono annunciate manifestazioni per i giorni dell’inaugurazione.
Dice Mantheakis: «La Grecia veniva finora accusata dagli inglesi di non avere luoghi adatti per accogliere i fregi; ora con il nuovo museo, questa scusa non regge più».

Corriere della Sera 12.6.09
In difficoltà un’istituzione storica che vanta grandi docenti come Abbado, Muti, Tate e Brunello
L’Orchestra giovanile suona l’allarme
Crollo dei contributi alla Scuola di Fiesole. Accardo: chiudere sarebbe vergognoso


La sede per giovani musicisti fu ideata 30 anni fa da Piero Farulli, ora presidente onorario

MILANO — Sarebbe come se la Normale di Pisa annun­ciasse di dover chiudere per mancanza di fondi. L’Orche­stra Giovanile Italiana, Ogi, gloria del nostro Paese, ramo prestigioso della Scuola di Mu­sica di Fiesole, rischia di brut­to. Il centro di formazione per giovani musicisti ideato 30 an­ni fa da Piero Farulli, viola del leggendario Quartetto Italia­no, vivaio da cui attingono le nostre orchestre più impor­tanti, sta vivendo il peggiore momento della sua storia: for­se l’ultima stagione. Il budget per sovvenzionare l’Orche­stra, 900 mila euro, finora co­perto in gran parte da istituti bancari, si è ridotto di metà causa crisi. Un taglio pesante che obbligherebbe la Scuola a farsi carico per l’80% delle spe­se: borse di studio, compensi per i docenti, strumenti musi­cali... Insostenibile per le fi­nanze di Fiesole.
«Il 2009 è un annus horribi­lis — assicura Andrea Lucche­sini, pianista di fama interna­zionale e direttore artistico della Fondazione —. Purtrop­po in Italia la cultura soffre di una legislazione che non dà agli sponsor facilitazioni fisca­li. Quest’anno la Cassa di Ri­sparmio di Firenze ha dimez­zato il sostegno, da 800 a 400 mila euro, e si prevede che il Fus si riduca di un quarto. Il nostro bilancio è in rosso di 300 mila euro. Se saliranno a 600 mila, il rischio di chiude­re sarà altissimo». Certo 900 mila euro di questi tempi non sono pochi quando gli allievi ammessi ai corsi sono solo un’ottantina. «Vero, ma qui ar­rivano solo i migliori e per non creare discriminazioni economiche i nostri corsi so­no gratuiti. Ogni allievo costa circa 10 mila euro l’anno, com­prensivo dell’ospitalità. Quan­to ai docenti, gran parte sono ex allievi dell’Ogi, a cui si af­fiancano grandi nomi del con­certismo come Mario Brunel­lo, Giuliano Garmignola, Dani­lo Rossi, Pavel Vernikov, fanta­stiche masterclass. Tra i diret­tori, qui vengono Claudio Ab­bado, Roberto Abbado, Muti, Daniele Gatti, Mehta, Tate, Gianandrea Noseda...».
Garanzie di altissima forma­zione. Lo sanno i direttori arti­stici che qui vengono ad attin­gere le nuove leve dei loro or­ganici. «Succede con la Cheru­bini, con la Mozart, ma anche con l’Orchestra Rai o Santa Ce­c ilia — elenca Nicola Paszkowski, maestro prepara­tore dell’Ogi —. A differenza dei Conservatori, noi diamo grande spazio alla musica da camera, premessa indispensa­bile per imparare a suonare in­sieme e ascoltarsi. E ci sono anche momenti di confronto con il pubblico. Il 26 giugno saremo al Maggio Fiorentino con Noseda sul podio, a luglio al Ravenna Festival per il terzo anno consecutivo, il 14 con un concerto diretto da me, il 18 con Lang Lang solista».
Tra quanti prestano «rego­lare servizio» a Fiesole, il gran­de Salvatore Accardo. «Vengo da 20 anni, a Farulli sono lega­to da amicizia fraterna. Piero ha fatto per la musica e i giova­ni cose straordinarie. L’Ogi è una palestra meravigliosa per imparare a suonare e per com­portarsi nel modo giusto: ri­spettare gli altri, fare lavoro di squadra. La prima dote di un musicista è l’umiltà. Anche se sei solista fai sempre parte di una partitura. È vergognoso che l’Ogi si trovi in pericolo — conclude Accardo —. È un’eccellenza musicale di cui l’Italia dovrebbe andar fiera. In nessun altro Paese verreb­be abbandonata. E non parlo di Germania o Francia, ma del Venezuela. Paese non ricco, che però sostiene la politica del maestro Abreu: la musica strumento anche di recupero sociale. Abreu è amico di Fie­sole, speriamo che torni. Ma prima di tutto bisogna che l’Orchestra Giovanile Italiana continui a vivere».

l’Unità 12.6.09
Gramsci, fragile e immenso
A Napoli un ritratto dell’intellettuale negli anni della dura prigionia
Un’eredità fatta di etica e fede
di Rossella Battisti


Arriva Gramsci a Napoli. Un Gramsci a teatro - Gramsci a Turi, in scena al Festival Italia - scrutato nell’intimità sofferta degli ultimi anni dal carcere. «Oggetto misterioso» per chi lo circondava allora, e «oggetto del desiderio» per quanti lo rimpiangono oggi come faro di riferimento politico ed etico. Lo sguardo è quello di Antonio Tarantino - acuminato, implacabile, testimone. E sua la scrittura - verticale, graffiata e graffiante. Quella, cioè, a cui ci ha abituato questo drammaturgo anomalo, ex pittore autodidatta, arrivato solo a 50 anni alla scrittura teatrale ma in modo esplosivo, viscerale, fortemente etico. Spesso politico, così come lo è il teatro frequentato da Daniele Salvo, che lo mette in scena e che ha commissionato il testo. «Di questi tempi la memoria di un personaggio di questa statura ci sembrava una testimonianza - racconta il regista, già attore per Ronconi e suo assistente -. Un appello a una certa etica che non c’è più e di cui sentiamo la necessità».
6 ATTORI 30 PERSONAGGI
Sul palco sei attori - Gianluigi Fogacci, Melania Giglio, Michele Macagno, Francesco Colella, Massimiliano Sbarsi e Pasquale Di Filippo - che valgono per...trenta. «Tarantino ha scritto un copione per trenta personaggi - spiega Fogacci - e così ci siamo ingegnati a fare cinque parti a testa». Un reticolato fatto di fascisti (con maschere di lattice che ne alterano la fisionomia) e compagni di partito come Terracini, Bordiga e lo stesso Togliatti, ma anche di familiari come Tatiana Schucht, sorella della moglie Giulia, che girano intorno a Gramsci dagli anni del processo fino alla sepoltura a Testaccio. «Tutti insieme tracciano - prosegue Fogacci - il ritratto enigmatico di un uomo fragile, indifeso, sofferente e insieme dotato di spirito di sacrificio e con sguardi inconsueti sulla realtà e sul futuro. Un profilo che sembra sfuggire sia a chi vuole combatterlo che a chi ne ha fatto un baluardo». Fragile e indomito: sono aggettivi che ricorrono anche nei ricordi su Berlinguer in questi giorni... «Personaggi di cui si sente forte nostalgia - riprende Salvo -, e ci si sorprende a chiederci “cosa direbbe ora?”. A me succede spesso...». Nel testo si parla dell’ultimo Gramsci, però appaiono «in tralice cose che parlano del nostro presente, della divisione che già esisteva nella sinistra, della sottovalutazione di certi fenomeni» sottolinea Fogacci, ricordando come fosse stato considerato «passeggero» il fascismo.
Gramsci a Turi si chiude con una scena buia, i becchini intorno alla cassetta con le ceneri, quando arriva l’amico Piero Sraffa, con le lacrime all’occhio e dice «rispettiamo queste ceneri perché ci diano fede». «Ecco - riprende Salvo - l’eredità di Gramsci sta in queste parole, nell’appello all’unità e nella fede nell’uomo. In quell’ideale a cui lui stesso ha aderito fino in fondo, opponendo la sua fragilità fisica a un’impressionante lucidità mentale e al coraggio delle sue idee». Come fare teatro politico e d’impegno civile senza rinunciare all’aspetto più artistico? «Tirando fuori l’elemento poetico, molto importante anche in un certo tipo di storia politica, vedi Pasolini o le stesse Lettere di Gramsci dove il linguaggio che non è specificamente politico, ma umano. Il veicolo è l’emotività, l’emozione che collega gli spettatori a tematiche che sembrerebbero ostiche». Una sfida e un’opportunità anche per gli attori, «per andare al di là del solito lavoro - aggiunge Fogacci -, diventare latori di qualcosa d’importante, ritrovare un senso meno routinario. Uscire dall’idea di un teatro come mero strumento di autoaffermazione, esaltatore dell’ego, ed essere invece “servitori dell’opera”. Riportare oggi sulla scena figure di così alto profilo, mi appare quasi come un dovere morale».

Repubblica 12.6.09
Il fotografo di Villa Certosa: Cinquemila gli scatti sardi del premier "Anche le finte nozze con una ragazza"
Zappadu rivela: usciranno presto, ma non in Italia
di Paolo Berizzi


Le immagini risalgono al triennio 2006-2009 tra villa Certosa e l´aeroporto di Olbia
Nelle immagini elicotteri Fininvest da cui scendono anche decine di ragazze

Il fotografo sardo Antonello Zappadu ha qualcosa da dire. È appena fuori l´aula di tribunale di Tempio Pausania, dove aspetta di conoscere se verrà o meno processato per violazione di domicilio e violazione della privacy.
È qui per la storia delle foto pubblicate dal settimanale "Oggi" nel 2007: quelle del presidente del Consiglio in compagnia di cinque ragazze che si alternano nel sederglisi in grembo nei giardini di villa Certosa. Dice Zappadu: «Le 700 foto che mi hanno sequestrato non sono le sole che ho fatto - spiega - Se proprio la devo dire tutta, io, tra il 2006 e il 2009, ho scattato cinquemila fotografie. All´aeroporto di Olbia e all´interno di Villa Certosa». Che tipo di foto? Zappadu allarga le braccia: «Mettiamola così: nulla di pruriginoso. Piuttosto, direi immagini politicamente imbarazzanti. Ne posso raccontare una: sarà stata la tarda primavera del 2008 e nei giardini della villa, c´è un finto matrimonio tra Berlusconi e una ragazza. Ci sono il bouquet di fiori e un gruppo di altre ragazze intorno a loro che applaudono divertite». Con Zappadu, fuori dell´aula di Tempio Pausania, sono suo fratello, suo padre novantatreenne e il suo avvocato, Giommaria Uggias, neoeletto deputato europeo con l´Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Zappadu si congeda: «Penso che delle nuove foto usciranno presto. E non in Italia».
Il fotografo sardo dà due notizie. La prima: l´archivio di immagini del presidente del Consiglio e dei suoi ospiti nella sua residenza sarda, dei suoi spostamenti da e per il Continente con voli di Stato e Fininvest, è sette volte quello che, il 30 maggio scorso, Niccolò Ghedini, avvocato del premier, è riuscito a congelare con un esposto alla Procura della Repubblica di Roma. La seconda: quelle foto già circolano.
Solo Zappadù ne conosce evidentemente il contenuto, eppure le sue parole di oggi consentono in qualche modo di tornare a rileggere le 700 foto sequestrate dalla magistratura con un occhio diverso. Perché in quegli scatti - che "Repubblica" ha avuto modo di guardare nella loro totalità - c´è un metodo, una sorta di canovaccio narrativo che sembra anticipare o alludere a quel che ancora non è venuto, ma, a sentire Zappadu, verrà.
Liquidate come «innocue» dall´avvocato Ghedini e dallo stesso Berlusconi, le immagini catturate a Villa Certosa e all´aeroporto di Olbia tra il 17 aprile e il 31 dicembre del 2008, da questo punto di vista appaiono infatti meno innocue di quel che effettivamente sembrano. Divise sapientemente in blocchi, non hanno necessariamente un ordine cronologico, ma tematico. Fissano una scena, ma alludono a un contesto. Che, almeno per ora, non svelano.
I voli. Zappadu ne documenta sei. 9 dicembre 2007. 25 marzo 2008. 17 aprile 2008. 24 maggio 2008. 3 agosto 2008. 18 agosto 2008. Solo due, quello del 25 marzo e del 24 maggio 2008 hanno le insegne e il tricolore dell´Aeronautica militare. E sia sull´uno che sull´altro salgono almeno due persone che non sembrano far parte di alcuna delegazione ufficiale. Lo chansonnier personale del premier Apicella (24 maggio) e con lui artisti e artiste del Bagaglino. Una donna bruna vestita di scuro, gli occhiali da sole dalla grande montatura, che anticipa il presidente del consiglio sulla pista dell´aeroporto di Olbia e lo aspetta per imbarcarsi con lui. Gli altri voli, si è detto, sono Fininvest. Due Gulfstream della flotta Alba servizi (dicembre 2007 e aprile 2008), due elicotteri della stessa società il 3 e il 18 agosto del 2008. Le ragioni per cui Zappadu ritragga quegli elicotteri nella loro manovra di avvicinamento all´eliporto di Villa Certosa appaiono misteriose. Ma, interpellato, è proprio il fotografo sardo a spiegarlo, confermando non solo la capienza del suo archivio, ma il suo "metodo". «Perché le foto di quegli elicotteri? Perché ho altre foto in cui si vedono scendere da quegli elicotteri almeno una decina di ragazze».
Le ragazze nella villa. Si è scritto nelle scorse settimane di «docce saffiche», di nudi in topless a bordo piscina, di ragazze, ora in pigiama, ora in baby-doll a passeggio nel patio della villa, lasciando immaginare squarci vouyeristici. In realtà, quello che colpisce delle sequenze in cui le ragazze vengono ritratte, non è tanto quel che fanno (c´è una doccia, ma non è saffica, tanto per dirne una), ma come appaiono. Alcune sembrano avere tratti slavi. E, nonostante vengano tutte riprese sempre in pieno giorno (normalmente tra le 13 le 16), è come se indossassero un costume di scena. Passeggiano nel parco non in jeans o in scarpe da ginnastica, ma con stivali in velluto (viola, bianchi) scarpe dai tacchi alti, ridottissime minigonne, abiti colorati che ne fasciano i corpi.
Il presidente del Consiglio, quando appare tra loro (in due sole occasioni), indossa un pullover blu, dimostra confidenza. In un caso, le invita (si distingue una ragazza bruna dall´abito giallo acceso) a seguirlo all´interno della villa. In un altro - è il pomeriggio del 17 maggio - da quelle ragazze è circondato. Se ne contano cinque. Giovani. Gli fanno da corona mentre, in un patio della villa circondato da una macchia lussureggiante, il Presidente fa strada verso un kart da golf, cui si metterà alla guida.
Gli ospiti maschili. Dell´ex premier ceco Mirek Topolanek, si è scritto e si è visto (il quotidiano spagnolo El Pais ha pubblicato il 6 giugno scorso la foto di uno dei suoi nudi a bordo piscina). Ma anche in questo caso, Zappadu sembra avere del metodo nel fissare le immagini delle figure maschili che, talvolta, occupano la scena. Come se volesse agganciare nel contesto delle ragazze altri uomini, altri testimoni, che non siano il solo Presidente del Consiglio. Accade il 18 ottobre del 2008. Due ragazze (una in abito giallo, l´altra con una maglietta rosa) sono con Berlusconi alla sommità di una scala che affaccia su un patio. Tre uomini li seguono. Appaiono ospiti di mezza età. Il primo veste un maglione beige e ha il volto incorniciato da baffi e capelli bianchi. Anche il secondo gli sembra coetaneo: capelli bianchi, golf blu, pantaloni scuri. L´ultimo, sullo sfondo, osserva la scena: stringe una rivista, ha un gilet di cotone e scarpe bianche.
Chi sono? E, come loro, chi sono le ragazze dei 700 scatti? Sanno di essere nell´archivio di Zappadu? Che altro custodiscono le 4.300 foto che - dice il fotografo - sono «al sicuro» e sono «pronte a circolare»?

Repubblica 12.6.09
Perché la storia di quelle foto cambia il registro di una crisi
di Giuseppe D’Avanzo


Cinquemila foto che scrutano la vita del capo di un governo (una vita «disordinata»: lo dice la moglie; lo ammettono anche i suoi fedelissimi) possono essere un trascurabile gossip soltanto per teste imprevidenti o vecchi volponi.
La vicenda può minare la credibilità del Paese alla vigilia dell´incontro con Obama e del G8

È più responsabile parlare - per dirlo in modo chiaro - di una crisi della sicurezza nazionale. Può essere questo il nuovo e allarmante approdo di un affare che, in modo bizzarro, ha avuto inizio a una festa di compleanno di una ragazza di Napoli. Si è gonfiato con le ricostruzioni pubbliche di Silvio Berlusconi, presto diventate pubbliche menzogne e impossibilità a rispondere a dieci domande suscitate dalle sue stesse parole, contraddizioni, incoerenze.
Il "caso" è cresciuto con il racconto delle abitudini ambigue del presidente del consiglio che, in un qualsiasi pomeriggio d´autunno, telefona a una minorenne che non conosce (ne ha ammirato le grazie in un book fotografico) per invitarla a conservare la sua «purezza». Fin qui, anche se pochi hanno avuto finora l´interesse o la buona fede per capirlo, eravamo dinanzi a una questione politica che interrogava il divieto o il limite dell´uso della menzogna nel discorso pubblico.
L´affare proponeva questioni non dappoco: l´attendibilità del premier e la costruzione di una realtà artefatta che si avvantaggia della debolezza delle istituzioni (il Parlamento); del dominio di chi - come Berlusconi - possiede e governa i media; delle pulsioni gregarie che li abitano.
Il racconto per immagini della vita privata che il capo del governo conduce, con i suoi ospiti, a Villa Certosa (viene detto oggi in cinquemila scatti) muta ora il registro. In queste foto, raccolte nell´arco degli ultimi tre anni, si può scorgere Silvio Berlusconi, circondato da stuoli di ragazze, alcune italiane, altre apparentemente slave, sempre giovanissime.
Il presidente del consiglio è con i suoi ospiti, in alcune occasioni. Sono avanti con gli anni. Hanno i capelli bianchi. Chi sono? Amici personali del presidente o dignitari stranieri? E, in questo caso, di quale Paese? Le fotografie - Repubblica ha preso visione soltanto di una parte - sono caste, ma non innocenti. La loro pubblicazione (vietata in Italia) può senza dubbio danneggiare l´immagine e la reputazione del capo del governo, provocare l´imbarazzo del nostro e di altri governi o comunque dei leader che Berlusconi ha ospitato a Punta Lada. Qui si può scorgere, in due incertezze, l´avvio di una possibile crisi. Si pensava (lo pensava l´avvocato del premier) che tutte le foto fossero state eliminate dal mercato. Non è così. Ce ne sono altre migliaia in circolazione.
Che cosa ritraggono? Possono trasformare l´imbarazzo di Berlusconi in vergogna e la vergogna in disonore? E ancora, chi oggi può entrare in possesso di quelle foto? Al di là delle immagini delle jeunes filles en fleurs raccolte da Antonello Zappadu, quelle giovani ospiti straniere hanno avuto la possibilità di andar via con qualche scatto, con qualche immagine?
Ecco allora perché un affare nato, in modo inatteso in un ristorante della periferia di Napoli, può diventare una minaccia della sicurezza nazionale. Non c´è dubbio che il presidente del Consiglio vive ore di grande debolezza in quanto non è in grado di sapere quali e quante immagini circolino (e non è necessario che siano compromettenti anche se sarebbe oggi avventuroso sostenere, con certezza, che non lo siano). Come non c´è dubbio che chi arraffa, o ha arraffato per tempo, quegli scatti, potrebbe avere un potere di interdizione sui passi del capo del governo.
Si comprende quindi il nervosismo, l´ansia del premier; la pressione che in queste ore muove sui servizi segreti per avere non solo, come pure si è detto, una maggiore protezione per il futuro, ma - e quel che conta - la sterilizzazione di ogni minaccia che viene dal passato e la distruzione di ogni disegno aggressivo che può affacciarsi nel presente.
Questa condizione di precarietà, dicono, avrebbe convinto Berlusconi a chiedere all´intelligence un´azione meno "politica" e discreta, più convinta e determinata per liberare i suoi giorni da ogni possibile ombra. Soprattutto alla vigilia di importati appuntamenti internazionali (l´atteso incontro con Obama, il G8 di luglio a l´Aquila).
Ma, ammesso che ci siano i margini tecnici per mettere in sicurezza la reputazione del presidente del consiglio, nessuno oggi è in grado di dire se non sia già troppo tardi. In questo dubbio, c´è tutta l´asprezza di una crisi che deve ancora trovare il suo vero nome.

il Riformista 12.6.09
La mano di un avvocato in quelle poche righe e la volontà di smontare il teorema dei sparati in casa con due vite lontane
Una battaglia editoriale dietro il pizzino sul Corsera
di Fabrizio d'Esposito


A quattro giorni dal risultato delle elezioni europee e nel pieno della storica e controversa visita di Gheddafi in Italia, Veronica Berlusconi rompe il silenzio con un'altra lettera. Stavolta, però, non a Repubblica, cui negli ultimi due anni ha consegnato missive e sfoghi. A pubblicare, infatti, il breve testo vergato dalla moglie del premier è stato ieri il Corriere della Sera.
La lettera, come ha notato Dagospia, è stata piazzata in prima pagina senza commenti e servizi, nello stesso giorno in cui il quotidiano concorrente di Ezio Mauro riapre il fronte di Noemi con un articolo sui misteri legati al vecchio processo per corruzione al papà della ragazza di Portici, Benedetto Letizia detto Elio. Insomma gli affari privati del Cavaliere riemergono nella settimana post-voto, a corredo della deludente prestazione personale del premier, meno di tre milioni di preferenze.
La lettera di Veronica Lario, che però si firma ancora con il cognome del marito, come ha detto qualcuno «è un vero e proprio pizzino» da decifrare. Lei inizia rivendicando il silenzio delle ultime settimane, nonostante il «brutale infangamento della mia persona, della mia dignità e della mia storia coniugale». Una premessa in cui si sottolinea il ruolo di moglie e madre che fa la spettatrice e non reagisce, per esempio, alla campagna di Libero contro di lei: dapprima le foto a seno nudo di quando era attrice di teatro, poi l'intervista-choc di Daniela Santanché: «Veronica ha un compagno». Ma su questo Lario interviene in maniera implicita nell'ultimo capoverso. Prima c'è il passaggio più misterioso e difficile da decrittare: «Certo è che la verità del rapporto tra me e mio marito non è neppure stata sfiorata, così come la ragione per cui ho dovuto ricorrere alla stampa per comunicare con lui». Che significa?
Ma il vero messaggio è, appunto, alla fine: «Certo è che l'ho sempre amato e che ho impostato la mia vita in funzione del matrimonio e della mia famiglia». Per alcuni ambienti filoberlusconiani si tratterebbe «di una vera e propria sottomissione, un atto di pace in tutti i sensi, non di guerra, altrimenti avrebbe scelto di nuovo Repubblica». Perché a contare non è solo la sostanza ma anche la cornice. In questo caso il Corriere del de Bortoli bis, che sulla vicenda Noemi ha tenuto un profilo basso. La lettera è stata recapitata a via Solferino e non alla redazione di Repubblica. Un segnale forte, senza dubbio.
Fonti informate allargano lo spettro della discussione e spiegano come d'improvviso «l'ombrello della Rcs con salotti vari annessi» si sia aperto su Veronica. Sempre questa settimana, infatti, il settimanale Oggi pubblica un ampio servizio sulla moglie del Cavaliere che fa la nonna in vacanza, in una località della Puglia. L'articolo è intitolato significativamente «La solitudine di Veronica». C'è lei con la madre Flora e con «l'amato nipotino Alessandro», il figlio di Barbara che lei stessa, Veronica, non farebbe più vedere a Silvio. Ma soprattutto si mette in risalto come fra i tre bodyguard che scortano questo quadretto familiare non c'è quello indicato come il suo compagno da Libero, Alberto Orlandi. Insomma, la combinazione lettera più vacanze farebbe parte di una strategia legale tesa a smentire l'immagine di una coppia separata in casa da tempo, ognuno con la propria vita affettiva, e che mira a una separazione consensuale, non a un divorzio in un clima da guerra mediatica. Una versione, questa, che contraddice «l'atto di pace totale» intravisto da alcuni esponenti berlusconiani, che considerano la lettera anche come una retromarcia clamorosa sul «marito malato che frequenta le minorenni».
In ogni caso, ieri, il premier «era molto di buon umore», come riferiscono dalla sua corte. All'assemblea annuale della Confartigianato ha pure scherzato per l'ennesima volta (non è la prima volta, ormai a ogni donna che incontra fa la stessa battuta: «Se non è minorenne con lei non ci parlo») sui suoi guai, giudiziari e privati: «Devo scappare via perché sto combinando il matrimonio tra Noemi e quell'avvocato inglese, come si chiama... (Mills, ndr) e porto in dono l'offerta di un viaggio di nozze sugli aerei di Stati aggratis». A Palazzo Grazioli, raccontano, sono giorni che «il premier è nero, alternando depressione e inauditi scatti d'ira». Addirittura si è scagliato contro un suo fidatissimo collaboratore perché aveva i calzini con una riga bianca. Forse, ieri, con la lettura mattutina del Corsera la situazione è migliorata. Forse.

il Riformista 12.6.09
La «signora» gela di nuovo i berluscones
Le poche righe al Corriere condizionano la giornata politica. Un fedelissimo di Silvio: «Sembrava un comunicato delle Br». Il Cavaliere dribbla i giornalisti e ai suoi dice: «Adesso basta».
di Alessandro De Angelis


Un azzurro di rango sbotta, chiedendo l'anonimato: «Pare il comunicato numero sette delle br. Ci manca solo l'indicazione del cadavere al Lago della Duchessa». È l'effetto Veronica. La moglie del premier ha consegnato una dichiarazione al Corriere: «In queste settimane ho assistito in silenzio, senza reagire mediaticamente, al brutale infangamento della mia persona, della mia dignità e della mia storia coniugale. Certo è che la verità del rapporto tra me e mio marito non è neppure stata sfiorata, così come la ragione per cui ho dovuto ricorrere alla stampa per comunicare con lui. Certo è che l'ho sempre amato e che ho impostato la mia vita in funzione del mio matrimonio e della mia famiglia».
Tutto qui. Poche righe, pubblicate in prima pagina senza un commento. Solo un distico: «La signora Veronica ci ha fatto pervenire questa dichiarazione». Quanto basta per fare notizia smaltite le analisi del dopo-voto. E per irrompere nel Palazzo. In Aula si parla di intercettazioni. Ma nei capanelli del Transatlantico Veronica torna l'argomento del giorno. I parlamentari snocciolano domande sul caso: quale è la verità di cui parla Veronica che nessuno ha compreso? E le ragioni per cui ha dovuto ricorrere alla stampa per parlare con lui? Insomma il premier è ricattabile?
Quando arriva dribbla i cronisti ed entra in Aula. Silenzio. Ostenta tranquillità. Chi lo ha seguito durante tutta la giornata lo descrive di ottimo umore. Per i suoi l'argomento è tabù. Del resto non hanno mai parlato direttamente a lei. Berlusconi ha sempre scelto di attaccare sinistra e giornali per rispondere a sua moglie. E ieri ha detto ai fedelissimi: «La campagna elettorale è finita. Ora basta con questa storia». A domanda (su Veronica) Paolo Bonaiuti allarga le braccia: «Su questo non parlo». Tra gli azzurri, però, l'esternazione della signora Lario è stata vissuta come una minaccia: «Ha mandato un gatto morto» dicono a palazzo Grazioli. Per un attimo sembrano tornare i fantasmi del Noemigate, quelli di un premier sotto ricatto e della stampa che monta su un caso che sembra non finire mai. Perché, in questa storia, privato e politico si intrecciano, e un premier con attorno segreti inconfessabili è più debole pure politicamente. Taglia corto Carmelo Briguglio, ex aennino e vicecapogruppo del Pdl: «Mai visto una lettera di dieci righe messa di spalla in prima pagina. Mai».
Da palazzo Grazioli parte l'ordine di scuderia: dire che va tutto bene, sdrammatizzare. Almeno, così pare. I fedelissimi di Berlusconi provano a raccontare la favola bella. Osvaldo Napoli suona lo spartito del romanticismo: «È la prova che le vicende familiari si risolvono in quattro mura. La lettera mi pare un messaggio positivo, un segnale di pace. La mia impressione è che stanno prevalendo i sentimenti, che la vicenda sia rientrata in famiglia. Non mi stupirei affatto che moglie e marito si guardassero negli occhi e si dicessero: ricominciamo?». Dell'irraccontabile nessuno vuole parlare. Forse non c'è. O forse non lo sa nessuno, neanche fosse un caso di Stato. Giorgio Stracquadanio, altro fedelissimo del Cavaliere vuole vedere il lieto fine: «Credo che con questa lettera la moglie del presidente del Consiglio abbia voluto chiudere definitivamente qualcosa che non doveva diventare una polemica pubblica, ma rimanere una discussione familiare». Anche il capogruppo Fabrizio Cicchitto ha decrittato a lungo il messaggio. Lui che aveva denunciato il complotto sul Noemigate ha escluso ricadute politiche del nuovo affondo di Veronica: «I toni si sono abbassati. È un segnale di disperazione» dicono i suoi.
Arrivano in Aula le amazzoni del leader. E ci mettono un po' di spirito bellico. Micaela Biancofiore, ad esempio: «Se Veronica è innamorata come dice, allora faccia un passo indietro. Questa storia ha nuociuto al paese. Al pa-e-se. Di questo si tratta. Berlusconi è il presidente del Consiglio». È un'esegesi complessa quella del messaggio di Veronica, perché il privato, in questa storia, è politico. Un azzurro che conosce le vicende legali di Berlusconi la vede così: «La lettera mi pare diversa dalle esternazioni a Repubblica, che erano più politiche. Credo faccia parte di una strategia stabilita a tavolino dai suoi avvocati. Ci sono due punti dove si riconosce l'impronta avvocatesca: quel "l'ho sempre amato", serve a dire che è lui l'uomo che ama e non altri come ha scritto qualcuno; e quel "ho reagito in silenzio all'infangamento della mia persona" vuole dire "non sapete quanto ho sofferto". Entrambi prefigurano una separazione più normale, e meno pubblica». Già, meno pubblica. Forse.

il Riformista 12.6.09
Quanto pesano i figli da Veronica a Kakà
Matrimonio&patrimonio. Piersilvio e Marina difendono i business di famiglia e sono garanti dell'inserimento nel sistema. Gli altri tre - per ora - restano ai margini. Ma non ci saranno abbastanza poltrone per tutti senza rivoluzionare il gruppo.
di Stefano Feltri e Gianmaria Pica


Da un lato c'è la crisi di un matrimonio vista dalla coppia che si separa, Silvio e Veronica, ultima puntata ieri con la lettera pubblicata sul Corriere dela Sera di una moglie che difende «la dignità» di una storia coniugale. Dall'altro la stessa crisi vista dalla parte dei figli, una (doppia) famiglia che si rompe. Con gli stessi problemi delle famiglie normali moltiplicati dal denaro, perché un patrimonio delle dimensioni di quello berlusconiano può diventare anche una fonte di enormi problemi.
E forse proprio dai figli, dal rapporto tra loro e con il padre - e il suo patrimonio - per capire la portata di quello che sta succedendo. E di quello che succederà, perché ogni intervento sulla ricchezza famigliare è sempre un'inevitabile anticipazione della successione. Le cronache finanziarie raccontano di un bipolarismo che, nella realtà, è assai meno netto che sui giornali: i figli di Berlusconi e Carla Elvira Dall'Oglio, cioè Marina e Piersilvio, entrambi non laureati e cresciuti in azienda, sono quelli interessati a proseguire il business famigliare. I tre di Veronica Lario, invece, sono pronti ad altre avventure, Eleonora studia in America, Barbara si occupa di filosofia, arte, etica e associazionismo, Luigi promette bene nella finanza. Ma si tratta di una semplifiacazione eccessiva.
Partiamo dal 1996: il Cavaliere ha perso le elezioni, Rupert Murdoch è interessato a comprare le tre reti Fininvest, e Berlusconi pensa di vendere, un po' per i debiti un po' per togliere agli avversari l'arma del conflitto di interessi. Piersilvio e Marina lo convincono a non farlo: viene creata Mediaset, per riunire le tre reti, e quotata in Borsa, operazione che si rivelerà di successo. Il decennio successivo è quello dell'ascesa dei due eredi: Piersilvio cresce in Publitalia, Rti (contenuti per la tv), e poi Mediaset dove, dal 2000 è vicepresidente e si occupa, tra l'altro, della delicata transizione dall'analogico al digitale terrestre. A Milano lo cominciano a notare per un genere di cortesia che a qualcuno ricorda quella del padre, frequenta le sfilate di Giorgio Armani con la compagna, da cinque anni Silvia Toffanin. Marina diventa presidente di Fininvest e poi di Mondadori, espande l'azienda editoriale in Francia. Mentre Piersilvio incarna il lato più televisivo e in fondo anche mediatico del berlusconismo imprenditoriale, Marina si fa interprete nella vita professionale della parte più severa, dalla Mondadori (che nel ramo libri è un'azienda che produce molti utili) al consolidamento della presenza nel cuore del capitalismo di relazioni. Un processo che al padre ha richiesto decenni e che è culminato con l'ingresso a ottobre del 2008 proprio di Marina nel consiglio di amministrazione di Mediobanca che il nucleo del sistema economico e finanziario italiano.
L'unico elemento che li separa dal padre è l'amore verso il Milan, per il quale Silvio è disposto a spendere a fondo perduto (Ronaldinho e prima Alberto Gilardino e Alessandro Nesta), mentre Marina da anni chiede più austerità. E forse comincia a prevalere questa visione minimalista, a giudicare dalla cessione di Kakà e dal fatto che il 37enne Giuseppe Favalli potrebbe giocare titolare anche l'anno prossimo.
I tre figli di Veronica Lario, forse anche per una questione generazionale, sono diversi. Tutti e tre universitari, i due più piccoli (Eleonora e Luigi) poco noti alle cronache. Eleonora, 22 anni, studia economia in America, ha un fidanzato americano, di cui non si conosce il nome. Barbara, 25 anni, ha un figlio e ne aspetta un altro (è all'ottavo mese). Studia filosofia al San Raffaele, dove sta per laurearsi, è azionista con il 44 per cento dell'emergente galleria d'arte milanese Cardi (di cui è socia Martina Mondadori, che del radicalismo chic italiano è una specie di Gwyneth Paltrow), ha fondato insieme ad alcuni amici con cognomi importanti l'associazione Milano Young. «A settembre faremo la nostra seconda conferenza annuale alla Cattolica», dice Geronimo La Russa. La precedente alla Bocconi, su etica ed economia suscitò un certo dibattito (due pagine sul Times di cui oggi è noto l'orientamento antiberlusconiano). Di Luigi, 20 anni, si sa che da ragazzino ha pregato molto, lo dice il padre, che va a Lourdes come volontario, che studia alla Bocconi, che ha fatto una buona impressione quando ha accompagnato Veronica alla Scala, e che si alza quando in una stanza entra una signora. Dice La Russa: «Sono ragazzi che nella vita potranno fare quello che vogliono, e i due che studiano economia stanno maturando le competenze per lavorare in azienda».
Il problema è che le aziende importanti nel gruppo Berlusconi sono inferiori al numero dei figli. Barbara ha fatto sapere in una intervista che le piacerebbe lavorare in Mondadori, e siede da due anni nel cda della Fininvest. Luigi sta già nel cda di Mediolanum, la banca partecipata da Fininvest, ma per l'ingresso nella finanza ha scelto un'altra porta: uno stage di tre mesi e un successivo investimento finanziario presso il fondo Sator di Matteo Arpe, l'ex amministratore di Capitalia che non si è lasciato in buoni rapporti con l'allora presidente Cesare Geronzi, e oggi presidente del consiglio di amministrazione di Mediobanca dove siede Marina (una circostanza che alcuni considerano simbolica). Di Eleonora non sono noti gli interessi e le ambizioni. Gli accordi raggiunti all'interno della famiglia nel 2005 e ufficializzati nelle stanze dello studio legale Chiomenti hanno ripartito le quote di Fininvest, ma non hanno risolto il problema delle ambizioni. Silvio e Marina hanno due holding gemelle, la Quarta e la Quinta, le scatole che contengono le rispettive partecipazioni in Fininvest (circa il 7 per cento ciascuno) e una partecipazione simbolica nella società immobiliare Dolcedrago. Le quote dei tre figli di Veronica Lario, anch'esse intorno al sette per cento, sono nella Holding quattordicesima; poi c'è un'altra società - per ora poco più di una scatola vuota - che potrebbe diventare, secondo un'interpretazione, la nuova cassaforte dei figli di secondo letto, la Bel (acronimo formato dalle iniziali dei nomi dei tre fratelli). Una divisione alla pari ma che è solo un'anticamera di quella vera, essendo Berlusconi - con il 64,3 per cento - tuttora titolare delle quote di maggioranza di Fininvest.
Ora il divorzio potrebbe rimettere in discussione tutto. In ambienti vicini a Silvio Berlusconi si comincia a pensare che neppure il cosiddetto lodo Chiomenti (l'attuale divisione in cinque parti) sia più intoccabile. Tutto va ripensato soprattutto se ci sarà un divorzio per colpa: fattispecie, cioè, in cui Silvio si troverebbe in posizione di debolezza contrattuale. I tempi dovrebbero essere brevi, entro l'estate tutto sarà deciso e l'ipotesi di compromesso che si profila è quella della moratoria: come vuole Veronica Lario verrà garantita la spartizione "per teste" (un quinto dell'impero a tutti i figli) e non "per matrimonio" (metà a Piersilvio e Marina, metà ai Bel). Però i due figli di primo letto continueranno a comandare le aziende di famiglia per almeno un quindicennio, prima di fare spazio ai figli di secondo letto che - allora - saranno vicini alla quarantina.
Una soluzione che potrebbe però solo posticipare i problemi, congelando l'impero Fininvest nella sua forma attuale. Spiega l'economista Alessandro Penati che ci sarebbe un modo per «valorizzare i titoli» delle società di famiglia. «La soluzione sarebbe fondere Mediaset e Mondadori in Fininvest che poi dovrebbe essere quotata», dice Penati. Le quote di Fininvest, che sono le vere fette in cui è diviso il patrimonio della famiglia, diventerebbero a quel punto liquide, cioè avrebbero un prezzo e si potrebbero vendere (o comprare). Chi volesse uscire da Fininvest potrebbe farlo e usare i capitali per intraprendere avventure imprenditoriali in proprio. Ma la Fininvest potrebbe finalmente usare la propria enorme liquidità (oggi immobile sui conti correnti) che sommata a quella di Mondadori e Mediaset arriverebbe a cinque miliardi, una cifra che consente operazioni di ogni genere in Borsa. E i Berlusconi di seconda generazione potrebbero trovarsi - un po' come gli Agnelli - riuniti in un patto di sindacato o in un'accomandita per azioni: con alcuni impegnati a gestire le aziende, e altri che si limitano a ricevere i dividenti. La possibilità di fare acquisizioni sul mercato potrebbe essere la premessa per risolvere anche le ambizioni gestionali, trovando nuove posizioni di vertice da affidare ai più giovani.
Ma queste ipotesi, per ora, restano sulla carta anche se circolano da tempo. L'assetto attuale, con le azioni Fininvest non quotate, è funzionale a limitare le tensioni tra i due rami della famiglia e a posticipare il confronto.
Il patrimonio complessivo della famiglia supera secondo i calcoli di Forbes i dieci miliardi di dollari. È chiaro che la spinta di Marina e Piersilvio è quella di restare nel big game dell'informazione anche in futuro. Ma il modo in cui la forza patrimoniale della famiglia sarà utilizzata dalla prossima generazione, è tutto da decidere.