Depressione e business commerciale
Salute. Il Congresso psichiatrico di Toronto in cui si è parlato di depressione e farmaci è stata una vetrina commerciale per le case farmaceutiche. E la stampa è caduta nell’inganno
Paolo Serra*
Il 23 maggio, quasi tutti i giornali italiani, nonché il televideo della RAI hanno riportato, come se si trattasse di una notizia improvvisa, un dato che gli addetti ai lavori conoscono da molto tempo: un milione e mezzo di Italiani soffrono di Disturbo Depressivo. Io, essendo psichiatra e psichiatra democratico, impegnato da quasi quaranta anni contro l'istituzionalizzazione e la stigmatizzazione dei pazienti, ho avuto un sussulto, non per la notizia, alquanto stagionata, ma per il clamore con il quale veniva data. "Vuoi vedere - ho pensato - che finalmente si vuole dare un'informazione corretta, che si vuole comunicare ai pazienti di non essere dei casi clinici disperati e singolari (come pensano di essere tutti i depressi) e, magari, si incomincia a rivendicare un'adeguata risposta a tanta sofferenza diffusa, dotando i servizi pubblici di mezzi adeguati? O forse tutti insieme inizieremo a domandarci pubblicamente quello che tutti gli psichiatri si chiedono nel chiuso dei loro ambulatori e cioè come mai esista tanta sofferenza, crescente di anno in anno, se siamo dalla parte fortunata del mondo, la nostra civiltà continua a progredire e, tutto sommato il dolce paese (come lo chiamava Sergio Endrigo) è sempre il migliore da vivere?".
In realtà, come ho già affermato, la notizia sulla diffusione della depressione era un bel po' vecchiotta, ma, si sa, ai lettori la psichiatria interessa solamente quando fa sensazione, possibilmente grondando un po' di sangue. Le serie statistiche epidemiologiche, che pure farebbero tanto bene, sono noiose, ma questa volta, finalmente se ne parla!
Cercherò di spiegare perché penso che comunicare i dati epidemiologici possa fare bene: i pazienti psichiatrici, anzi no, le persone, quando per la prima volta si ammalano di un disturbo psichiatrico, patiscono una doppia sofferenza. A quella tipica del disturbo infatti si aggiunge l'angoscia di non riuscire mai più a guarire, di essere stigmatizzati, di potere diventare pericolosi, insomma tutti i falsi pregiudizi usualmente alimentati da una stampa scandalistica in cerca di alte tirature. Invece i disturbi psichiatrici sono curabili, una infima percentuale di pazienti psichiatrici è pericolosa e naturalmente nessun cittadino deve essere stigmatizzato o emarginato. Ma se la stampa parla di malattie mentali solo quando viene commesso un reato violento, l'equazione malattia mentale = violenza sarà automatica.
Proviamo invece a confrontare quantitativamente le notizie di reati commessi da pazienti psichiatrici con i dati reali. Al numeratore qualche atto violento ed al denominatore il milione e mezzo di depressi, ai quali vanno aggiunti i portatori di altre diagnosi psichiatriche, superando di certo i due milioni. Questa cifra enorme ci dice che il malato mentale è raramente violento e che chi è affetto da una patologia psichiatrica non è un raro maledetto da Dio, ma uno dei tanti sfortunati che si curerà in qualche settimana. Per i depressi l'idea di essere "particolarmente sfortunati" si associa sempre a quella di essere "helpless", senza possibilità di aiuto e questo pensiero è uno dei principali responsabili delle decisioni di suicidio. In sintesi, un'informazione corretta e non scandalistica salverebbe una buona quantità di vite umane. Non ci dimentichiamo che il suicidio è, per esempio, la seconda causa di morte, come quantità, per i giovani sotto i venticinque anni. La prima sono gli incidenti stradali e spesso anche quelli sono suicidi più o meno inconsapevoli.
In breve, tutte queste considerazioni mi facevano ritenere soddisfatto del clamore intorno alla depressione e mi facevano domandare quale miracolo lo avesse finalmente provocato. Invece, continuando l'articolo (Aprileonline n°167, dedicato al Congresso psichiatrico di Toronto, n.d.r), improvvisamente appariva il "deus ex machina": tutta questa enorme disperazione poteva essere sconfitta da una nuova portentosa molecola, la venlafaxina. Il bello (diciamo così) è che la venlafaxina è stata commercializzata in Italia nel 1998, otto anni fa, ragione per la quale chiamarla "nuova" appare alquanto singolare. Io stesso, non solo non nutro alcun pregiudizio verso questo farmaco, ma lo ricetto quotidianamente. Forse, più che nuova sarà venduta meno di quanto l'industria produttrice si aspettasse. E allora giù con un bel lancio pubblicitario: si offre a qualche primario un bel viaggio in Canada, con partecipazione ad un congresso, gli si fa spazio per una relazione che unisca l'utile (finanziario) al dilettevole (reali ed attempati dati epidemiologici) e poi si batte un po' di grancassa in Italia. Il gioco è fatto. Il messaggio: "Gentile cittadino Italiano, ricordati che la depressione colpisce tutti, anche te; e se non ti colpisce una vera e propria depressione, ti colpirà una depressione sottosoglia, sai, quella che la nonna chiamava magone o tristezza, ma, che ci vuoi fare, le nonne sono buone, ma un pò ignoranti, non potevano sapere che si chiamava depressione sottosoglia e che però la venlafaxina (mi raccomando non ti confondere con altre molecole della concorrenza) ci salverà”.
Mi sembra evidente che anche per oggi non è avvenuto alcun miracolo: i commercianti si camuffano come sempre da scienziati, i malati rimangono con la loro sensazione di inguaribilità e i giornalisti vendono giornali che non aiutano ad orientarsi.
* Psichiatria Democratica, Professore a Contratto in Psicofarmacologia Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica - Università di Siena
Corriere della Sera 27.5.06
«Non resterà nessun militare» Bertinotti incassa la promessa
di Maria Teresa Meli
ROMA - La definitiva conferma che aveva vinto anche questa battaglia Fausto Bertinotti l’ha avuta ieri dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta che ha comunicato a Rifondazione la notizia tanto attesa: nessun soldato italiano rimarrà in Iraq. Così a metà pomeriggio il segretario del Prc Franco Giordano poteva rassicurare i suoi con queste parole: «Nessun problema, l’idea di lasciare una parte del contingente non esiste». Eppure quell’idea esisteva e aveva creato non poche preoccupazioni nella sinistra radicale. Non più tardi di mercoledì, infatti, Massimo D’Alema aveva annunciato che l’Italia avrebbe rafforzato la «presenza civile» in quell’area e aveva precisato che a questo scopo vi era il «bisogno» di assicurare «una protezione di sicurezza». In parole povere, la proposta del ministro degli Esteri era questa: ritiro in tempi celeri, cioè entro agosto, a patto però di lasciare seicento, ottocento militari italiani in Iraq. Era un’ipotesi che Rifondazione non poteva accettare. Il Prc già fatica a digerire il fatto che il piano di rientro sia quello previsto da Berlusconi: arrivare fino al punto di non prevedere neanche il ritiro totale diventava impossibile. D’Alema ha cercato Bertinotti, per provare a smussarne le resistenze.
Il braccio di ferro - l’ennesimo - tra i due si è sviluppato in questi ultimi giorni. E non è stato un passaggio indolore. Il ministro degli Esteri, infatti, era stretto da una parte da Bertinotti che chiedeva il rispetto degli impegno presi in campagna elettorale, dall’altra dal leader della Margherita Francesco Rutelli che frenava: «Bisogna concordare il ritiro con Bagdad», era il ritornello dell’altro vicepremier. Ma non erano solo le italiche faccende a impensierire D’Alema. Il titolare della Farnesina ha in agenda un incontro con Condoleezza Rice, proprio per discutere del piano di rientro del contingente italiano. Presentarsi davanti al segretario di Stato Usa con una decisione già ratificata e, per giunta, frutto di un’imposizione del Prc, per ovvi motivi, per lui non era il massimo. Senza contare il fatto che il presidente iracheno Jalal Talebani, membro dell’Internazionale socialista, ha ribadito che in questa fase la «presenza degli Usa e degli alleati è necessaria più che mai».
Dunque, un difficile gioco di incastri. Difficile anche perché l’offensiva del ministro degli Esteri presso Bertinotti non ha prodotto nessun risultato. Per tutta risposta il presidente della Camera ha fatto sapere che lunedì incontrerà Don Ciotti, Gino Strada e Alex Zanotelli, firmatari di un appello per il ritiro immediato dall’Iraq e dall’Afghanistan. Niente da fare, quindi: il massimo che Rifondazione è disposta a concedere è che il ritiro per essere «completo» sia lento, ossia che si svolga in autunno. Il compromesso è questo. Condito con la promessa che Rifondazione non spaccherà la maggioranza votando contro il rifinanziamento delle altre missioni, grazie a un escamotage tecnico che le metterà insieme al ritiro dall’Iraq in un unico decreto. E’ un compromesso talmente accidentato che il briefing previsto al termine del vertice a tre Prodi- Parisi-D’Alema è saltato. La vicenda dovrebbe chiudersi così: solo Rutelli potrebbe riaprirla.
Liberazione 27.5.06
Lettere
Psichiatria
A tavola con i “matti”
Caro direttore, nel settimanale dell’Altritalia “Left” 19-25 maggio, a pagina 70 c’è un articolo a firma di Massimo Fagioli dal titolo “Pazzia o follia?”. C’è da rabbrividire, almeno per tre motivi. Il primo. Il pensiero di Franco Basaglia è tutt’altro che superato. Ne è una testimonianza l’estesa rete di servizi territoriali di salute mentale che in Italia sostituiscono in tutto e per tutto i vecchi manicomi e, con essi, il paradigma dell’internamento e dell’esclusione a vita. Va dato atto a tutti quegli operatori che negli ultimi trent’anni hanno dato l’anima perché ciò si realizzasse e affinché i pazienti che poi si sono affacciati ai servizi di salute mentale usufruissero di un nuovo e inedito modo di acquisire benessere. Il secondo, di conseguenza, è l’aver centrato l’attenzione sulla dimensione sociale della cosiddetta malattia mentale. Fortunatamente, l’esistenza di équipes multidisciplinari all’interno dei servizi di salute mentale ha sventato il pericolo, tuttora in agguato, che essi si caratterizzassero come erogatori di psicofarmaci e psicoterapia. L’esperienza ci dice che né gli uni, né l’altra - insieme o separatamente - determinano il “guarire” definitivamente dal male mentale. Il terzo. La ricerca, come ben ci suggeriscono i pazienti stessi, non ha un gran valore se non si tiene conto del loro punto di vista. Essi, infatti, se diventano protagonisti della loro stessa cura, ci spingono a capovolgere il modo di fare ricerca e soprattutto ci fanno notare che i risultati sono tutt’altro che scontati e prevedibili. Perciò, noi consideriamo i nostri servizi di salute mentale come veri e propri centri di cultura che nulla hanno da invidiare alle teorie di impronta universitaria. Quindi, al di là della tristezza e del pessimismo che traspare dalle parole di Massimo Fagioli, ci pare doveroso fare appello ancora una volta al pensiero di Franco Basaglia, ai suoi insegnamenti, nonché alla legge che fa capo alla sua esperienza (la 180): distruggere il manicomio fisico, prima di tutto, e - in via metaforica - quanto esso rappresenta: allontanamento, esclusione, nascondimento, oblio. Con queste idee in testa e con l’articolo di Massimo Fagioli in tasca, venerdì 19 maggio presso il segretariato sociale dell’XI Municipio di Roma, presenziavamo alla inaugurazione di uno sportello informativo e punto di ascolto sulla salute mentale gestito da
utenti del Centro Diurno e della Comunità Terapeutica di viale Giustiniano Imperatore 45. Ci siamo resi conto della distanza esistente tra le nostre pratiche, socialmente fondate, e quelle accademiche, evanescenti, lontane dal territorio, spesso incardinate sulla necessità di verificare la bontà delle teorie piuttosto che prendersi cura delle difficoltà e della miseria in cui versano molti dei nostri pazienti, forse impropriamente definiti gravi. «Gli psicoanalisti capirebbero di più se vedessero i loro pazienti mangiare», ha affermato Umberto Galimberti all’Auditorium Parco della Musica giovedì 11 maggio. Noi aggiungiamo… e se avessero il coraggio di mangiare con loro?
Angelo Di Gennaro
Psicologo Dsm Asl C di Roma, membro Psichiatria Democratica Lazio
Il Messaggero 26.5.06
Heidegger rivisitato
A trent’anni dalla morte il grande filosofo tedesco continua a dividere critici e studiosi. Per l’importanza del suo pensiero. E per i suoi controversi rapporti con il nazismo
di Luca Archibugi
A trent’anni esatti dalla sua scomparsa, Martin Heidegger – riguardo agli effetti della sua filosofia – appare ancora più bifronte e scisso in due. Da un lato, storiografi occupati soprattutto ad accertare i bacilli di nazionalsocialismo presenti nelle sue azioni e opinioni politiche; dall’altro, una crescente attenzione alla sua opera, che appare sempre più irrinunciabile punto di riferimento critico e interpretativo per il pensiero, e non soltanto per quello che a lui direttamente si ispira. Tale contraddizione è soltanto apparente. Se riflettiamo sul fatto che il cammino di Heidegger, della sua intera vita passata sulle tracce dell’essere perduto, obliato e vilipeso, si conclude come un’indicazione di salvezza (di stampo antiteologico, e tuttavia mistico e cristiano), non v’è scampo – in un certo senso – da un disegno di “martirio”: detto in modo lucido, senza particolare enfasi, il pensatore di Messkirch non poteva che assumere su di sé il peso della “colpa”. E la colpa per definizione è il nazismo.
Non ha importanza, in tal senso, che la colpa funzioni in senso reale o simbolico, ossia quante e quali compromissioni con il regime hitleriano siano da addebitargli. Qui è decisivo il fatto di ritenere che il mondo dell’“imposizione globale” (con le parole di Heidegger) non si esaurisce – purtroppo – nella soluzione finale e nello sterminio di massa, ma si estende senza soluzioni di continuità sia al gulag che alle purghe staliniane, così come alle degenerazioni del capitalismo democratico (da Hiroshima a Guantanamo, dall’oblio della questione tibetana a quello delle guerre etniche e dei genocidi di massa, sovente in paesi non baciati da giacimenti petroliferi). Non a caso, due fra i pensatori più sensibili sia al totalitarismo acclarato come a quello mascherato, furono partoriti dalla scuola fenomenologica e diretti discepoli di Heidegger, Günther Anders (che dedicò un’intera vita al significato della bomba atomica) e Hannah Arendt. Entrambi (furono anche sposati) riservarono al loro maestro critiche durissime.
Oggi alle 18, all’Università di Roma Tre, viene presentato da Giacomo Marramao, Vincenzo Vitiello e Marco Vozza il libro di uno dei più importanti interpreti del filosofo tedesco, Heidegger e il problema dello spazio di Didier Franck (Ananke, 192 pagine, 16,50 euro). Il libro costituisce uno snodo importante nell’itinerario di uno dei maggiori filosofi contemporanei. Dietro il problema dello spazio si annida per Franck la questione della “carne” (intesa come corpo e vivente), tralasciata da Heidegger in nome del privilegio accordato alla temporalità. In sintesi, spazio e carne sono un rimosso, così come lo è il corpo. Come non accostare tale problematica alla distruzione programmatica del corpo operata dallo sterminio nei lager o dalla bomba atomica (distruzione operata dalla fisica e dalla matematica nel corpo stesso della materia)? Che cosa, in fondo, ha obliato il mondo in quanto essere se non il corpo? Non hanno gli orrori del secolo scorso ridotto il corpo – secondo la terminologia heideggeriana – a mero “utilizzabile”, “alla mano”? Come non ricordare i forni crematori da cui uscivano saponette?
In buona sostanza, il vilipendio del corpo è quello dell’essere. Sostiene Pietro D’Oriano, forse il maggiore esegeta italiano di Franck: «Il libro è un momento importantissimo nel percorso del pensatore francese. Alla sua pubblicazione in Francia nell’86, seguì un lungo silenzio che portò al libro su Heidegger e il Cristianesimo e a quello su Nietzsche (di cui esiste una traduzione italiana, Nietzsche e l’ombra di Dio, Lythos, 2002). Infatti, per Franck, in Nietzsche non è più la razionalità, ma l’animalità ad essere il filo conduttore». Tuttavia, vorremmo avanzare una domanda. E se per Heidegger il problema dello spazio (dunque della carne e del corpo, così come riscrive Franck le nozioni) coincidesse in larga misura con quello dell’essere stesso?
Per rispondere occorre sempre tornare all’opera che costituisce lo snodo del pensiero heideggeriano, Essere e tempo. Di recente è apparsa una nuova traduzione a cura di Alfredo Marini (Essere e tempo, testo tedesco a fronte, Mondadori, I meridiani, 1.552 pagine) che introduce importanti novità nella terminologia. Va detto, in sostanza, che l’Heidegger bifronte è stato creato anche da una scarsa conoscenza dell’effettivo cammino della sua filosofia. Ci sono ancora alcuni che ritengono il filosofo tedesco, ad esempio, contrario alla “tecnica moderna”, ignorando completamente come, al contrario, egli fosse assolutamente conscio del fatto che essa costituisca il destino del nostro “oblio dell’essere”. Uno dei messaggi di Hölderlin da lui ricordati di continuo recita: «Là dove cresce il pericolo, cresce ciò che salva». E di quest’idea di salvezza testimonia anche una frase di Heidegger posta da Alfredo Marini in apertura alla Cronologia che correda la sue fatiche di traduttore: «Chi pensa in modo elevato non può che sbagliare in modo abissale».