sabato 27 maggio 2006

aprileonline.info 27.5.06
Depressione e business commerciale
Salute. Il Congresso psichiatrico di Toronto in cui si è parlato di depressione e farmaci è stata una vetrina commerciale per le case farmaceutiche. E la stampa è caduta nell’inganno
Paolo Serra
*


Il 23 maggio, quasi tutti i giornali italiani, nonché il televideo della RAI hanno riportato, come se si trattasse di una notizia improvvisa, un dato che gli addetti ai lavori conoscono da molto tempo: un milione e mezzo di Italiani soffrono di Disturbo Depressivo. Io, essendo psichiatra e psichiatra democratico, impegnato da quasi quaranta anni contro l'istituzionalizzazione e la stigmatizzazione dei pazienti, ho avuto un sussulto, non per la notizia, alquanto stagionata, ma per il clamore con il quale veniva data. "Vuoi vedere - ho pensato - che finalmente si vuole dare un'informazione corretta, che si vuole comunicare ai pazienti di non essere dei casi clinici disperati e singolari (come pensano di essere tutti i depressi) e, magari, si incomincia a rivendicare un'adeguata risposta a tanta sofferenza diffusa, dotando i servizi pubblici di mezzi adeguati? O forse tutti insieme inizieremo a domandarci pubblicamente quello che tutti gli psichiatri si chiedono nel chiuso dei loro ambulatori e cioè come mai esista tanta sofferenza, crescente di anno in anno, se siamo dalla parte fortunata del mondo, la nostra civiltà continua a progredire e, tutto sommato il dolce paese (come lo chiamava Sergio Endrigo) è sempre il migliore da vivere?".

In realtà, come ho già affermato, la notizia sulla diffusione della depressione era un bel po' vecchiotta, ma, si sa, ai lettori la psichiatria interessa solamente quando fa sensazione, possibilmente grondando un po' di sangue. Le serie statistiche epidemiologiche, che pure farebbero tanto bene, sono noiose, ma questa volta, finalmente se ne parla!

Cercherò di spiegare perché penso che comunicare i dati epidemiologici possa fare bene: i pazienti psichiatrici, anzi no, le persone, quando per la prima volta si ammalano di un disturbo psichiatrico, patiscono una doppia sofferenza. A quella tipica del disturbo infatti si aggiunge l'angoscia di non riuscire mai più a guarire, di essere stigmatizzati, di potere diventare pericolosi, insomma tutti i falsi pregiudizi usualmente alimentati da una stampa scandalistica in cerca di alte tirature. Invece i disturbi psichiatrici sono curabili, una infima percentuale di pazienti psichiatrici è pericolosa e naturalmente nessun cittadino deve essere stigmatizzato o emarginato. Ma se la stampa parla di malattie mentali solo quando viene commesso un reato violento, l'equazione malattia mentale = violenza sarà automatica.

Proviamo invece a confrontare quantitativamente le notizie di reati commessi da pazienti psichiatrici con i dati reali. Al numeratore qualche atto violento ed al denominatore il milione e mezzo di depressi, ai quali vanno aggiunti i portatori di altre diagnosi psichiatriche, superando di certo i due milioni. Questa cifra enorme ci dice che il malato mentale è raramente violento e che chi è affetto da una patologia psichiatrica non è un raro maledetto da Dio, ma uno dei tanti sfortunati che si curerà in qualche settimana. Per i depressi l'idea di essere "particolarmente sfortunati" si associa sempre a quella di essere "helpless", senza possibilità di aiuto e questo pensiero è uno dei principali responsabili delle decisioni di suicidio. In sintesi, un'informazione corretta e non scandalistica salverebbe una buona quantità di vite umane. Non ci dimentichiamo che il suicidio è, per esempio, la seconda causa di morte, come quantità, per i giovani sotto i venticinque anni. La prima sono gli incidenti stradali e spesso anche quelli sono suicidi più o meno inconsapevoli.

In breve, tutte queste considerazioni mi facevano ritenere soddisfatto del clamore intorno alla depressione e mi facevano domandare quale miracolo lo avesse finalmente provocato. Invece, continuando l'articolo (Aprileonline n°167, dedicato al Congresso psichiatrico di Toronto, n.d.r), improvvisamente appariva il "deus ex machina": tutta questa enorme disperazione poteva essere sconfitta da una nuova portentosa molecola, la venlafaxina. Il bello (diciamo così) è che la venlafaxina è stata commercializzata in Italia nel 1998, otto anni fa, ragione per la quale chiamarla "nuova" appare alquanto singolare. Io stesso, non solo non nutro alcun pregiudizio verso questo farmaco, ma lo ricetto quotidianamente. Forse, più che nuova sarà venduta meno di quanto l'industria produttrice si aspettasse. E allora giù con un bel lancio pubblicitario: si offre a qualche primario un bel viaggio in Canada, con partecipazione ad un congresso, gli si fa spazio per una relazione che unisca l'utile (finanziario) al dilettevole (reali ed attempati dati epidemiologici) e poi si batte un po' di grancassa in Italia. Il gioco è fatto. Il messaggio: "Gentile cittadino Italiano, ricordati che la depressione colpisce tutti, anche te; e se non ti colpisce una vera e propria depressione, ti colpirà una depressione sottosoglia, sai, quella che la nonna chiamava magone o tristezza, ma, che ci vuoi fare, le nonne sono buone, ma un pò ignoranti, non potevano sapere che si chiamava depressione sottosoglia e che però la venlafaxina (mi raccomando non ti confondere con altre molecole della concorrenza) ci salverà”.

Mi sembra evidente che anche per oggi non è avvenuto alcun miracolo: i commercianti si camuffano come sempre da scienziati, i malati rimangono con la loro sensazione di inguaribilità e i giornalisti vendono giornali che non aiutano ad orientarsi.

* Psichiatria Democratica, Professore a Contratto in Psicofarmacologia Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica - Università di Siena

Corriere della Sera 27.5.06
«Non resterà nessun militare» Bertinotti incassa la promessa
di Maria Teresa Meli


ROMA - La definitiva conferma che aveva vinto anche questa battaglia Fausto Bertinotti l’ha avuta ieri dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta che ha comunicato a Rifondazione la notizia tanto attesa: nessun soldato italiano rimarrà in Iraq. Così a metà pomeriggio il segretario del Prc Franco Giordano poteva rassicurare i suoi con queste parole: «Nessun problema, l’idea di lasciare una parte del contingente non esiste». Eppure quell’idea esisteva e aveva creato non poche preoccupazioni nella sinistra radicale. Non più tardi di mercoledì, infatti, Massimo D’Alema aveva annunciato che l’Italia avrebbe rafforzato la «presenza civile» in quell’area e aveva precisato che a questo scopo vi era il «bisogno» di assicurare «una protezione di sicurezza». In parole povere, la proposta del ministro degli Esteri era questa: ritiro in tempi celeri, cioè entro agosto, a patto però di lasciare seicento, ottocento militari italiani in Iraq. Era un’ipotesi che Rifondazione non poteva accettare. Il Prc già fatica a digerire il fatto che il piano di rientro sia quello previsto da Berlusconi: arrivare fino al punto di non prevedere neanche il ritiro totale diventava impossibile. D’Alema ha cercato Bertinotti, per provare a smussarne le resistenze.
Il braccio di ferro - l’ennesimo - tra i due si è sviluppato in questi ultimi giorni. E non è stato un passaggio indolore. Il ministro degli Esteri, infatti, era stretto da una parte da Bertinotti che chiedeva il rispetto degli impegno presi in campagna elettorale, dall’altra dal leader della Margherita Francesco Rutelli che frenava: «Bisogna concordare il ritiro con Bagdad», era il ritornello dell’altro vicepremier. Ma non erano solo le italiche faccende a impensierire D’Alema. Il titolare della Farnesina ha in agenda un incontro con Condoleezza Rice, proprio per discutere del piano di rientro del contingente italiano. Presentarsi davanti al segretario di Stato Usa con una decisione già ratificata e, per giunta, frutto di un’imposizione del Prc, per ovvi motivi, per lui non era il massimo. Senza contare il fatto che il presidente iracheno Jalal Talebani, membro dell’Internazionale socialista, ha ribadito che in questa fase la «presenza degli Usa e degli alleati è necessaria più che mai».
Dunque, un difficile gioco di incastri. Difficile anche perché l’offensiva del ministro degli Esteri presso Bertinotti non ha prodotto nessun risultato. Per tutta risposta il presidente della Camera ha fatto sapere che lunedì incontrerà Don Ciotti, Gino Strada e Alex Zanotelli, firmatari di un appello per il ritiro immediato dall’Iraq e dall’Afghanistan. Niente da fare, quindi: il massimo che Rifondazione è disposta a concedere è che il ritiro per essere «completo» sia lento, ossia che si svolga in autunno. Il compromesso è questo. Condito con la promessa che Rifondazione non spaccherà la maggioranza votando contro il rifinanziamento delle altre missioni, grazie a un escamotage tecnico che le metterà insieme al ritiro dall’Iraq in un unico decreto. E’ un compromesso talmente accidentato che il briefing previsto al termine del vertice a tre Prodi- Parisi-D’Alema è saltato. La vicenda dovrebbe chiudersi così: solo Rutelli potrebbe riaprirla.

Liberazione 27.5.06
Lettere
Psichiatria
A tavola con i “matti”

Caro direttore, nel settimanale dell’Altritalia “Left” 19-25 maggio, a pagina 70 c’è un articolo a firma di Massimo Fagioli dal titolo “Pazzia o follia?”. C’è da rabbrividire, almeno per tre motivi. Il primo. Il pensiero di Franco Basaglia è tutt’altro che superato. Ne è una testimonianza l’estesa rete di servizi territoriali di salute mentale che in Italia sostituiscono in tutto e per tutto i vecchi manicomi e, con essi, il paradigma dell’internamento e dell’esclusione a vita. Va dato atto a tutti quegli operatori che negli ultimi trent’anni hanno dato l’anima perché ciò si realizzasse e affinché i pazienti che poi si sono affacciati ai servizi di salute mentale usufruissero di un nuovo e inedito modo di acquisire benessere. Il secondo, di conseguenza, è l’aver centrato l’attenzione sulla dimensione sociale della cosiddetta malattia mentale. Fortunatamente, l’esistenza di équipes multidisciplinari all’interno dei servizi di salute mentale ha sventato il pericolo, tuttora in agguato, che essi si caratterizzassero come erogatori di psicofarmaci e psicoterapia. L’esperienza ci dice che né gli uni, né l’altra - insieme o separatamente - determinano il “guarire” definitivamente dal male mentale. Il terzo. La ricerca, come ben ci suggeriscono i pazienti stessi, non ha un gran valore se non si tiene conto del loro punto di vista. Essi, infatti, se diventano protagonisti della loro stessa cura, ci spingono a capovolgere il modo di fare ricerca e soprattutto ci fanno notare che i risultati sono tutt’altro che scontati e prevedibili. Perciò, noi consideriamo i nostri servizi di salute mentale come veri e propri centri di cultura che nulla hanno da invidiare alle teorie di impronta universitaria. Quindi, al di là della tristezza e del pessimismo che traspare dalle parole di Massimo Fagioli, ci pare doveroso fare appello ancora una volta al pensiero di Franco Basaglia, ai suoi insegnamenti, nonché alla legge che fa capo alla sua esperienza (la 180): distruggere il manicomio fisico, prima di tutto, e - in via metaforica - quanto esso rappresenta: allontanamento, esclusione, nascondimento, oblio. Con queste idee in testa e con l’articolo di Massimo Fagioli in tasca, venerdì 19 maggio presso il segretariato sociale dell’XI Municipio di Roma, presenziavamo alla inaugurazione di uno sportello informativo e punto di ascolto sulla salute mentale gestito da
utenti del Centro Diurno e della Comunità Terapeutica di viale Giustiniano Imperatore 45. Ci siamo resi conto della distanza esistente tra le nostre pratiche, socialmente fondate, e quelle accademiche, evanescenti, lontane dal territorio, spesso incardinate sulla necessità di verificare la bontà delle teorie piuttosto che prendersi cura delle difficoltà e della miseria in cui versano molti dei nostri pazienti, forse impropriamente definiti gravi. «Gli psicoanalisti capirebbero di più se vedessero i loro pazienti mangiare», ha affermato Umberto Galimberti all’Auditorium Parco della Musica giovedì 11 maggio. Noi aggiungiamo… e se avessero il coraggio di mangiare con loro?

Angelo Di Gennaro
Psicologo Dsm Asl C di Roma, membro Psichiatria Democratica Lazio

Il Messaggero 26.5.06
Heidegger rivisitato
A trent’anni dalla morte il grande filosofo tedesco continua a dividere critici e studiosi. Per l’importanza del suo pensiero. E per i suoi controversi rapporti con il nazismo
di Luca Archibugi


A trent’anni esatti dalla sua scomparsa, Martin Heidegger – riguardo agli effetti della sua filosofia – appare ancora più bifronte e scisso in due. Da un lato, storiografi occupati soprattutto ad accertare i bacilli di nazionalsocialismo presenti nelle sue azioni e opinioni politiche; dall’altro, una crescente attenzione alla sua opera, che appare sempre più irrinunciabile punto di riferimento critico e interpretativo per il pensiero, e non soltanto per quello che a lui direttamente si ispira. Tale contraddizione è soltanto apparente. Se riflettiamo sul fatto che il cammino di Heidegger, della sua intera vita passata sulle tracce dell’essere perduto, obliato e vilipeso, si conclude come un’indicazione di salvezza (di stampo antiteologico, e tuttavia mistico e cristiano), non v’è scampo – in un certo senso – da un disegno di “martirio”: detto in modo lucido, senza particolare enfasi, il pensatore di Messkirch non poteva che assumere su di sé il peso della “colpa”. E la colpa per definizione è il nazismo.
Non ha importanza, in tal senso, che la colpa funzioni in senso reale o simbolico, ossia quante e quali compromissioni con il regime hitleriano siano da addebitargli. Qui è decisivo il fatto di ritenere che il mondo dell’“imposizione globale” (con le parole di Heidegger) non si esaurisce – purtroppo – nella soluzione finale e nello sterminio di massa, ma si estende senza soluzioni di continuità sia al gulag che alle purghe staliniane, così come alle degenerazioni del capitalismo democratico (da Hiroshima a Guantanamo, dall’oblio della questione tibetana a quello delle guerre etniche e dei genocidi di massa, sovente in paesi non baciati da giacimenti petroliferi). Non a caso, due fra i pensatori più sensibili sia al totalitarismo acclarato come a quello mascherato, furono partoriti dalla scuola fenomenologica e diretti discepoli di Heidegger, Günther Anders (che dedicò un’intera vita al significato della bomba atomica) e Hannah Arendt. Entrambi (furono anche sposati) riservarono al loro maestro critiche durissime.
Oggi alle 18, all’Università di Roma Tre, viene presentato da Giacomo Marramao, Vincenzo Vitiello e Marco Vozza il libro di uno dei più importanti interpreti del filosofo tedesco, Heidegger e il problema dello spazio di Didier Franck (Ananke, 192 pagine, 16,50 euro). Il libro costituisce uno snodo importante nell’itinerario di uno dei maggiori filosofi contemporanei. Dietro il problema dello spazio si annida per Franck la questione della “carne” (intesa come corpo e vivente), tralasciata da Heidegger in nome del privilegio accordato alla temporalità. In sintesi, spazio e carne sono un rimosso, così come lo è il corpo. Come non accostare tale problematica alla distruzione programmatica del corpo operata dallo sterminio nei lager o dalla bomba atomica (distruzione operata dalla fisica e dalla matematica nel corpo stesso della materia)? Che cosa, in fondo, ha obliato il mondo in quanto essere se non il corpo? Non hanno gli orrori del secolo scorso ridotto il corpo – secondo la terminologia heideggeriana – a mero “utilizzabile”, “alla mano”? Come non ricordare i forni crematori da cui uscivano saponette?
In buona sostanza, il vilipendio del corpo è quello dell’essere. Sostiene Pietro D’Oriano, forse il maggiore esegeta italiano di Franck: «Il libro è un momento importantissimo nel percorso del pensatore francese. Alla sua pubblicazione in Francia nell’86, seguì un lungo silenzio che portò al libro su Heidegger e il Cristianesimo e a quello su Nietzsche (di cui esiste una traduzione italiana, Nietzsche e l’ombra di Dio, Lythos, 2002). Infatti, per Franck, in Nietzsche non è più la razionalità, ma l’animalità ad essere il filo conduttore». Tuttavia, vorremmo avanzare una domanda. E se per Heidegger il problema dello spazio (dunque della carne e del corpo, così come riscrive Franck le nozioni) coincidesse in larga misura con quello dell’essere stesso?
Per rispondere occorre sempre tornare all’opera che costituisce lo snodo del pensiero heideggeriano, Essere e tempo. Di recente è apparsa una nuova traduzione a cura di Alfredo Marini (Essere e tempo, testo tedesco a fronte, Mondadori, I meridiani, 1.552 pagine) che introduce importanti novità nella terminologia. Va detto, in sostanza, che l’Heidegger bifronte è stato creato anche da una scarsa conoscenza dell’effettivo cammino della sua filosofia. Ci sono ancora alcuni che ritengono il filosofo tedesco, ad esempio, contrario alla “tecnica moderna”, ignorando completamente come, al contrario, egli fosse assolutamente conscio del fatto che essa costituisca il destino del nostro “oblio dell’essere”. Uno dei messaggi di Hölderlin da lui ricordati di continuo recita: «Là dove cresce il pericolo, cresce ciò che salva». E di quest’idea di salvezza testimonia anche una frase di Heidegger posta da Alfredo Marini in apertura alla Cronologia che correda la sue fatiche di traduttore: «Chi pensa in modo elevato non può che sbagliare in modo abissale».

venerdì 26 maggio 2006

Corriere della Sera 26.5.06
I delitti di Novi Ligure, la Cassazione respinge il ricorso per la libertà condizionale. Il legale: ma non ci arrendiamo «Erika non si è ravveduta, resti in carcere» La Corte: è priva di sensi di colpa. Negato il trasferimento in comunità
di Grazia Maria Mottola


Nessun senso di colpa, assenza di «sicuro ravvedimento». A Erika De Nardo, condannata a sedici anni per aver ucciso la madre e il fratellino di 12 anni, mancano i requisiti per ottenere la libertà condizionale, necessaria per entrare in una comunità terapeutica. In sostanza, la ragazza deve restare in carcere. Lo ha deciso la Corte di Cassazione, nella sentenza depositata ieri, confermando quanto disposto lo scorso anno dal Tribunale di sorveglianza dei minori. «È il gatto che si morde la coda - si sfoga il difensore di Erika, Mario Boccassi -: da un lato si sostiene che la ragazza ha bisogno di sostegno psicologico, dall’altro la lasciano in carcere dove non potrà mai essere curata. Ma chi è malato non può ravvedersi».
La partita non è chiusa qui. «Troveremo una soluzione - annuncia il legale -. Non è con il decorrere del tempo che si cambia. Vedremo più avanti. Per adesso si gioca a pallavolo». Un riferimento chiaro al clamore suscitato dalla recente uscita di Erika per un incontro sportivo fuori dal carcere, a Buffalora (Brescia). Da qui la riflessione: «Se non ci fosse stato tanto interesse mediatico, forse le cose sarebbero andate diversamente».
Erika bella, sorridente con le compagne. Normale nella sua maglietta arrotolata e la tuta scura. Quasi affascinante con gli occhiali alla moda e i capelli raccolti. Così l’hanno ripresa le telecamere. Tutto fuorché un mostro. Niente che ricordi la sedicenne biondina che il 21 febbraio di cinque anni fa ha massacrato la madre e il fratellino Gianluca, insieme al fidanzato Omar. Ma Erika è anche questo. Un’immagine non lontana, in parte, da quella descritta nella sentenza della Consulta. Erika docile, «che denota un progressivo adattamento alla vita carceraria, che ha seguito studi regolari».
Ma poi subentra l’altra Erika, quella che «mostra aperture di consapevolezza, ma la loro intermittenza e mancanza di un effettivo senso di colpa esigono ancora un trattamento lungo e tutt’altro che scontato negli esiti, per la presenza di un marcato assetto schizoide, che scinde costantemente i fattori affettivi da quelli cognitivi, non permettendone l’armonizzazione». Così la Cassazione accoglie la tesi del Tribunale di sorveglianza: «la ragazza è carente del requisito del sicuro ravvedimento (inteso come conclusione del processo di riadattamento sociale giustificativo di una prognosi negativa circa la futura recidività), sul quale si fonda la concessione della libertà condizionale. Infine l’osservazione: «la liberazione era vista dalla De Nardo solo come uno strumento per evitare il carcere per adulti e per poi, attraverso il beneficio, avvicinarsi» al ravvedimento.
Insomma Erika non può entrare in comunità. Dovrà restare nel carcere di Verziano (Brescia), dove è rinchiusa da quando lo scorso anno ha compiuto 21 anni. Continua a studiare, riceve le visite del padre, si dedica allo sport. E il suo stato mentale? «Non se ne cura nessuno - sottolinea l’avvocato Boccassi -. Si sa come vanno le cose nei penitenziari, l’assistenza carceraria è solo formale. Una terapia è tutt’altra cosa». Una posizione condivisa da diversi psichiatri. Secondo Francesco Bruno «Erika andava curata sin dall'inizio. Ma fu riconosciuta capace d'intendere e volere, quindi punita con il carcere: si è negata allora e si continua ora a negare la sua malattia». Stessa linea per Francesco Riggio: «Erika è trattata da delinquente e non come una persona affetta da patologia psichiatrica».
Una voce anche dal carcere di Verziano: «Il ravvedimento non è questione di tempo e varia da persona a persona - dice una suora che lavora a contatto con le detenute -, si può sbagliare sempre, ma anche solo una volta nella vita: un’opportunità va comunque data a tutti».

<Corriere della Sera 26.5.06
«Il Pontefice così diventa un relativista»
Carlo Augusto Viano intervistato da Dino Messina


MILANO - «Quando invita a tener conto da un lato delle circostanze in cui i cristiani hanno commesso i peccati nel passato e dall’altro a considerare assieme al male anche il bene compiuto, Benedetto XVI cade in una delle forme più radicali di relativismo». Carlo Augusto Viano, professore emerito di storia della filosofia all’università di Torino, autore tra l’altro del recente «Laici in ginocchio», il pamphlet uscito da Laterza in cui denuncia la debolezza del mondo laico davanti all’aggressività del tradizionalismo cattolico, non esita a giudicare le parole pronunciate dal papa a Varsavia come «una correzione rispetto alla linea della richiesta di perdono voluta da Giovanni Paolo II».
Perché, professore, lei ribalta su papa Ratzinger l’accusa di relativismo rivolta solitamente dai cattolici ai laici?
«Faccio un esempio facile: io mi ritengo un relativista moderato nel campo della morale sessuale, perché non considero la famiglia come l’unico ambito possibile di rapporti. Ma se dico: sono contrario all’omicidio ma comprendo le ragioni di chi ha ucciso, attuo una forma estrema di relativismo».
Non le sembra un ragionamento un po’ estremo per giudicare le parole del papa?
«Ho paura che la formula usata delle "altre circostanze" e del "bene compiuto" possa nascondere un apprezzamento positivo dei regimi di destra nella lotta contro il comunismo. Non dimentichiamo che parte della chiesa tedesca guardò positivamente alla guerra contro l’Urss. Mi colpisce poi il luogo scelto da Ratzinger per il suo discorso: un Paese di confine con l’Est, dove avvennero atroci persecuzioni contro gli ebrei. C’è ancora chi, pur condannando il nazismo, sostiene che in fondo salvò l’Europa dal comunismo».
Oltre che nel giudizio sulla storia del Novecento, ritiene che la correzione di rotta impressa da papa Ratzinger riguardi anche altri «mea culpa» voluti da Wojtyla nel Giubileo del 2000?
«Credo che la differenza con il predecessore emerga sul tema della libertà religiosa e quindi dell’Inquisizione. In questo Ratzinger non è solitario, perché la cultura cattolica, con il sostegno di studiosi come Paolo Prodi, sta rivalutando l’Inquisizione, tribunale "umano" che si occupava dell’anima degli imputati e che viene contrapposto alla durezza dei tribunali moderni, concentrati sul diritto ma poco attenti alla comprensione della personalità del reo».
Già nel 1993 Giovanni Paolo II si espresse per la riabilitazione di Galileo e quindi della libertà di ricerca. Crede che anche in questo ci sia un’inversione di rotta?
«In realtà a papa Wojtyla di Galileo non importava molto, perché si occupava di fisica. A lui premevano molto le scienze biologiche, che hanno a che fare con la sessualità e quindi con la famiglia. Invece papa Ratzinger mira a rivalutare la tradizione contro tutta la grande corrente di pensiero europeo che culminò nell’Illuminismo, accusato di aver fatto maggiori danni di qualunque errore cattolico. In questo atteggiamento generale si vede la differenza fra il tradizionalista Benedetto XVI, che guarda al passato, e l’innovatore Giovanni Paolo II, papa profetico proiettato verso il futuro».
Una delle richieste di perdono del Giubileo riguardava le Crociate, tema che dal Medioevo ci porta all’oggi e al dialogo con il mondo islamico.
«Mentre la preoccupazione di Wojtyla era di rivendicare la libertà religiosa nei Paesi dittatoriali dell’Est, Ratzinger si muove in un clima in cui le religioni dividono i popoli, sono strumento di mobilitazione più che di dialogo. Se nel Novecento i popoli arabi aderivano alle grandi ideologie, adesso si identificano con l’Islam. Parallelamente anche in Occidente la religione ha preso il posto delle ideologie: la solidarietà comunitaria che esprime valori conta più dell’individuo in grado di fare liberamente le proprie scelte. Ciò mi porta a concludere da laico che le religioni interpretate in questo senso sono pericolose quanto le ideologie».

Liberazione 26 maggio 2006
L’amore divino è asessuato. Così la Chiesa interpretò i greci
“Teoria del corpo amoroso. Per un’erotica solare”, il nuovo saggio del filosofo francese Michel Onfray, da oggi in libreria. Un pamphlet contro la monogamia e il matrimonio. L’autore presenterà il libro giovedì prossimo a Roma

L'anticipazione
Di Michel Onfray


Pubblichiamo uno stralcio da “Teoria del corpo amoroso. Per un’erotica solare” (Fazi Editore,
pp. 218, euro 14,00) di Michel Onfray, nelle librerie da oggi. Il saggio sarà presentato a Roma giovedì 29 (Casa delle letterature, piazza dell’Orologio, 3, ore 18).Oltre all’autore interviene Felice Cimatti.


I Padri della Chiesa sfruttano la teoria del duplice amore. Da un lato esaltano quello per le cose divine. Dall’altro, screditano l’opzione umana, sessuale e sessuata. E’ il platonismo a insegnare il disprezzo della carne e la grandezza dell’anima


Bisogna formulare un materialismo edonista agli antipodi delle versioni contemporanee del platonismo. Il materialista è colui che pratica le carni dal vivo e vuole la nudità

Sul terreno dell’amore e della relazione sessuale, l’Occidente trova i suoi caratteri distintivi nelle teorie platoniche del desiderio come mancanza, della coppia come esorcizzazione dell’incompletezza, del dualismo e dell’opposizione moralizzatrice tra i due amori. Chiunque si abbandona alle delizie di un corpo materiale, percorso da desideri e attraversato da piaceri, mette in gioco la propria vita, ma anche la sua salvezza, l’eternità. Il solo modo di guadagnarsi il passaporto per la vita eterna implica l’impegno dalla parte dell’amore che più tardi a giusta ragione si chiamerà platonico. Amore delle idee, dell’assoluto, amore dell’amore purificato, passione per l’ideale, ecco ciò che santifica la causa del desiderio. L’eccessiva attenzione per i corpi, le carni, i sensi, la sensualità concreta si paga ontologicamente con una dannazione, una punizione, un castigo.
[... ] Comunque sia, la concezione dell’amore in Occidente deriva dal platonismo e dalle sue metamorfosi nei due millenni della nostra civiltà ebraico-cristiana. La natura odierna delle relazioni tra i sessi implica storicamente il trionfo di una concezione e il fallimento di un’altra: successo integrale del platonismo, cristianizzato e sostenuto dall’onnipotenza della Chiesa cattolica per quasi venti secoli, repressione potente della tradizione materialistica sia democritea ed epicurea che cinica o cirenaica, edonistica o eudaimonistica.
I Padri della Chiesa, con ogni evidenza, sfruttano la teoria del duplice amore per esaltarne la versione positiva, l’amore di Dio e delle cose divine, e screditare l’opzione umana, sessuale e sessuata. Questo lavoro di riscrittura della filosofia greca per farla entrare nei quadri cristiani preoccupa i pensatori per quattordici secoli nel corso dei quali mettono spudoratamente la filosofia al servizio della teologia. Di modo che si teologizza la questione dell’amore per spostarla su un terreno spiritualistico, religioso, si condanna Eros a vantaggio di Agape, si fustigano i corpi, li si maltratta, li si detesta, li si punisce, li si ferisce e martirizza col cilicio, si infligge loro la disciplina, la mortificazione e la penitenza. Si inventa la castità, la verginità e, in mancanza di queste, il matrimonio, sinistra macchina per fabbricare angeli.
Il platonismo insegna teoricamente il crudele oblio dei corpi, il disprezzo della carne, l’esaltazione dell’Afrodite celeste, il disprezzo dell’Afrodite volgare, la grandezza dell’anima e la piccolezza degli involucri carnali; poi si dispiegano praticamente nella nostra civiltà occidentale ispirata da questi precetti idealistici, strani e velenosi fiori del male: il matrimonio borghese, l’adulterio che l’accompagna sempre come contrappunto, la nevrosi familiare e familista, la menzogna e l’ipocrisia, il travestimento e l’inganno, il pregiudizio monogamico, la libido malinconica, la feudalizzazione del sesso, la misoginia generalizzata, la prostituzione allargata, sui marciapiedi come presso le famiglie assoggettate all’imposta sui grandi patrimoni.
Con un ritorno violento del rimosso, la cerebralizzazione dell’amore, il suo diventare platonico rendono paradossalmente volgari le pratiche sessuali. La durezza dell’ascetismo platonico cristianizzato genera e fa nascere sofferenze, dolori, pene e frustrazioni in quantità. Potrebbero testimoniarlo terapeuti, medici e sessuologi: la miseria delle carni governa il mondo. L’esaltazione del corpo glorioso porta immancabilmente il corpo reale nelle stamberghe, nei bordelli o sul divano degli psicoanalisti. Fallite le scelte edonistiche, ludiche, gioiose e voluttuose, i due millenni cristiani non hanno prodotto che odio della vita e indicizzazione dell’esistenza sulla rinuncia, riservatezza, moderazione, prudenza, economia di sé e sospetto generalizzato nei confronti degli altri.
La morte trionfa come modello nella rivendicazione della fissità e immobilità: la coppia, la fedeltà, la monogamia, la paternità, la maternità, l’eterosessualità e tutte le figure sociali che captano e imprigionano l’energia sessuale, per ingabbiarla, addomesticarla, costringerla come i bonzi, in mezzo a convulsioni e coartazioni, torsioni e pastoie, vincoli e ostacoli. La religione e la filosofia dominanti si coalizzano sempre - anche oggi – per scagliare una maledizione sulla vita. Una teoria del libertinaggio implica la rivendicazione dell’ateismo sul terreno classico e tradizionale dell’amore accompagnato da un materialismo combattivo. Laddove i venditori di cilici trionfano fra sogliole, sfere e ostriche, il libertino si diverte con le scappatelle del pesce masturbatore, col grugnito del porco di Epicuro e con le libertà dell’istrice celibe.
Quando arriva il momento di combattere battaglie filosofiche sempre attuali, chi si ricorda ancora che Platone, che non ama i poeti e vorrebbe espellerli dalla sua città ideale, accarezza fortemente il progetto di un grande rogo purificatore nel quale gettare gli opera omnia di Democrito, detestato al punto da volerne cancellare la traccia sul pianeta? Chi, se non uno dei figli della terra fustigato dal filosofo venditore di oltremondi? Strana, tra l’altro, questa passione sfrenata per ciò che è mondano e le sue trivialità, quasi sempre rintracciabile nei pensatori dello spirituale e dell’Idea pura.
Due filosofi pitagorici, Amicla e Clinia, bisbigliano all’orecchio di Platone che circolano troppi libri di Democrito perché un solo rogo basti a cancellare dalla carta filosofica il nome del materialista di Abdera e le sue tesi sovversive. Che importa. L’Ateniese prepara una specie di rogo portatile e decide che nei suoi quasi quaranta dialoghi il nome incriminato non apparirà neanche una volta. Decisione rispettata: più di duemila pagine di filosofia senza nominare Democrito, che tuttavia viene costantemente e in modo sornione preso di mira. Il che dimostra che si può eccellere teoreticamente e idealmente nel Dovere, nella Giustizia, nella Saggezza, nell’Amore, nella Virtù e altri idoli con la maiuscola, e poi comportarsi da mascalzone.
Io continuo a credere che sia ancora utile la linea di demarcazione che attraversa la filosofia e divide il mondo del pensiero tra idealisti e materialisti, tra spiritualisti preoccupati del cielo delle Idee e realisti che si curano della terra. Mi piace che, di ognuna delle due correnti dalle molteplici varianti, fuori dal sinistro periodo in cui il materialismo venne confiscato dalla dialettica e dalla storia, si possano studiare le diverse versioni: atomistiche, antiche, razionali, energetiche, sensistiche, dionisiache, neuronali o magiche. Da parte mia, cerco di formulare un materialismo edonista nel quale, agli antipodi delle versioni contemporanee del platonismo, un certo numero di tesi ricorrenti strutturano l’insieme delle architetture indotte. Dagli atomisti presocratici ai neurobiologi di oggi, pur con formule diverse, la realtà viene interpretata esclusivamente secondo le modalità della demistificazione necessaria e della desacralizzazione salvatrice.
Il materialismo pratica le carni dal vivo e vuole la nudità, in quanto la lucidità si ottiene esclusivamente con un lavoro intellettuale di scorticamento. Sottoporre il desiderio alle fredde luci della lampada scialitica dei blocchi operatori, che proietta una luce senza ombre, ecco il compito del pensatore che si rifiuta di giustificare le illusioni, i luoghi comuni e i fantasmi. Dirigere il chiarore di quel raggio sul concetto di desiderio significa correre rischi e, per quel che mi riguarda, proporsi di distruggere finzioni, favole con cui la maggior parte di noi mette in piedi una visione del mondo, anzi giustifica il quotidiano, giorno dopo giorno. Il suo rifiuto di accettare le religioni dell’amore, i fantasmi che creano collanti sociali, da dell’approccio materialistico la vittima ideale dei roghi platonici.

giovedì 25 maggio 2006

La Provincia 23.5.06
Festival di Cannes. Con «Il regista di matrimoni» Bellocchio autore fuori dal coro
di Elisabetta Sgarbi


CANNES — Otto minuti di applausi. Successo meritato per Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio a Cannes. Il film di Bellocchio, passato nella sezione Un certain regard, è stato accolto dal pubblico francese con grande entusiasmo. Bellocchio ha spiegato di aver voluto partecipare «perchè un film grande o piccolo che sia ha sempre una sua vita» e ha aggiunto: «Non credo nell’eternità. Il mio è un film che trasmette un certo contagio positivo. E questa è la sua forza». Ancora più vivace diviene il suo intervento a seguito dei riferimenti al personaggio de Il regista di matrimoni, Smamma, che si finge morto e finisce per uccidersi per ottenere un David. Una figura, quella di Smamma, che nel film è corrosiva e polemica, pensando come i riconoscimenti nel mondo del cinema e della letteratura, spesso abbiano bisogno di una forza motrice sotterranea, sempre legata al potere, che inevitabilmente li fa divenire reali. «Io non ho padrini né a destra né a sinistra, quello che conta è la propria identità». A differenza, sembra essere sottinteso di Nanni Moretti che si dice sia atteso alla proiezione del suo Caimano da una platea piena di ministri: non mancherà il neo-ministro dei Beni e delle Attività Culturali, Francesco Rutelli. Bellocchio continua parlando dei suoi progetti e in particolare di un seguito di Buongiorno Notte, in versione Grande Fratello, dove, così come accade nei reality show, i brigatisti nel covo verranno ripresi da videocamere che spiano e trasmettono le immagini agli spettatori che stanno all’esterno. Bellocchio aggiunge, inoltre, di essere interessato a un film satira sul mondo superficiale e fazioso dei giornali, e quindi di voler raccontare la vita di un giornalista in un suo prossimo film.

Corriere della Sera 25.5.06
Scoperte le distinte aree cerebrali che si attivano quando si concorda o meno con l’interlocutore Idee politiche diverse? Si capisce dal cervello
di Massimo Piattelli Palmarini


Anche le idee, gradite e sgradite, hanno un posto specifico nel cervello. Psicologi di Harvard hanno dimostrato che, quando ci immedesimiamo con le idee di qualcuno a noi affine, si attiva un’area del cervello, mentre quando resistiamo a immedesimarci con chi non la pensa come noi si attiva un’area vicina.
«Non la penso come te». E il cervello si illumina Ecco cosa succede quando incontriamo chi ha idee etiche o politiche diverse Individuate da tre scienziati di Harvard le aree del «dissenso» e dell’«affinità»
Proviamoci a immaginare concretamente, visualizzandolo con l’occhio della mente, un illustre esponente di idee politiche ed etiche che noi condividiamo. Fatto? Ebbene, visualizziamo adesso una sua frase o un suo motto famoso. Proviamo poi, invece, a far questo per un illustre esponente di opinioni e idee che detestiamo. Una cosa è certa: soggettivamente, intuitivamente, avvertiamo una netta diversità interiore fra quello che ci succede nel primo e nel secondo caso. Insigni neuroscienziati ci confermano adesso che la nostra impressione soggettiva corrisponde a una reale differenza nell’attivazione delle aree cerebrali soggiacenti. Jason P. Mitchell, C. Neil Macrae e Mahzarin R. Banaji, del Dipartimento di psicologia di Harvard, nell’ultimo numero della rivista specializzata Neuron, mostrano che, quando ci immedesimiamo con le idee di qualcuno a noi affine, i neuroni della porzione dorsale della corteccia prefrontale mediana (in sigla, in inglese, mPfc) si attivano presto e intensamente, mentre quando resistiamo a immedesimarci con le idee di qualcuno che la pensa in modo opposto a noi si attivano quelli della porzione ventrale di questa stessa corteccia prefrontale mediana. Queste due sottoaree giacciono a pochi miseri centimetri di distanza nella mappa del nostro cervello, ma abbastanza per rendere distinguibili i due distinti segnali in soggetti come noi, testati in un apparato di risonanza magnetica funzionale.
Viene spontaneo chiedersi che cosa avvenga nel nostro cervello quando si cambia opinione. Si attivano via via neuroni di aree cerebrali intermedie, o invece c’è una specie di scatto brusco? Nessuno, per il momento, lo può dire, ma teniamoci sintonizzati con i progressi delle neuroscienze, perché ormai quella di mappare stati mentali, pensieri, emozioni, e perfino opinioni, su distinte aree del cervello è una vera e propria industria scientifica.
Nello stesso numero di Neuron, l’ultimo, appena pubblicato, una nota e autorevole coppia di neurobiologi inglesi, Chris e Uta Frith, traccia una vasta sintesi dei risultati degli ultimi anni. Per esempio, l’estremità posteriore del solco temporale superiore e la vicina giunzione temporo-parietale si incaricano di osservare le espressioni del viso e indovinarne le cause. In parole più semplici, la capacità che tutti abbiamo di indovinare che cosa pensano gli altri, quali sentimenti provino e quali conseguenze ne traggano si appoggia a circuiti cerebrali specifici, alcuni dei quali hanno stretti corrispondenti, seppur meno sviluppati, nelle scimmie. L’eroina attuale di queste ricerche è, come abbiamo appena detto, la vasta area detta corteccia prefrontale media e l’adiacente corteccia paracingolata. Detto sommariamente, è proprio questo il continente cerebrale della nostra capacità di immedesimarsi con gli altri. Oltre ai dati raccolti mediante la risonanza magnetica in soggetti normali, alcuni chiari casi patologici mostrano che, quando quest’area è lesa, il soggetto non sa più capire che cosa gli altri pensano, desiderano, credono. Fatto ancor più preoccupante, in certe specifiche lesioni, al soggetto non importa nemmeno più capirlo.
Proprio i coniugi Frith, già nel 1999, mostrarono che quest’area (la mPfc) si incarica non solo di capire gli altri, ma anche di farci capire che cosa noi stessi pensiamo. È ragionevole supporre, infatti, che riusciamo a capire il prossimo capendo innanzitutto noi stessi e che la similitudine tra noi e gli altri sia non solo un precetto morale, ma prima ancora, dal punto di vista evoluzionistico, un preciso meccanismo cerebrale. Altre aree sono deputate al monitoraggio delle emozioni (proprie e altrui), altre ancora a capire le intenzioni di comunicare. Le corrispondenti passeggiate dei neuroscienziati sulle loro dettagliate mappe cerebrali sono, appunto, di pochi centimetri, qualche volta soltanto millimetri. Rallegriamoci per questi sbalorditivi e ardui progressi, ma non si pensi che, per adesso almeno, si riesca ad andare oltre le pure correlazioni. Quando si individua un’area cerebrale come probabile centro di una specifica attività mentale, ci si ferma lì, o quasi. Perché neuroni situati a pochi centimetri di distanza facciano cose tanto diverse è per ora assai misterioso. Si vedono i rami, ma la logica della foresta ci sfugge.

il manifesto 25.5.06
La vita e l'arte di Modì, a carte scoperte
Oltre seimila documenti, tra disegni, stampe, diari, cartoline, lettere, da Montparnasse a Roma. Christian Parisot, direttore degli Archives Légales, spiega gli obiettivi della Fondazione Amedeo Modigliani
di Barbara Raggi


Seimila documenti tra lettere, cartoline, fotografie e appunti. Questo è il tesoro che Christian Parisot, direttore del Modigliani Institut Archives Légales di Parigi, vorrebbe portare a Roma. E' stato lui a volere, insieme a Massimo Riposati e Luciano Renzi, il Comitato promotore per la fondazione Amedeo Modigliani che si propone, tra le altre cose, di cercare una casa in città per le «carte» del più grande tra i pittori italiani del Novecento.
Parisot parla di Modigliani con passione: «La fama di maledetto lo perseguita - tiene a sottolineare come premessa - impedendoci di vedere l'artista completo. Non si può leggere il suo rapporto con l'alcol e la droga se non si conosce la realtà in cui si trovava a vivere. All'epoca era uno stile di vita molto diffuso tra artisti e intellettuali. Per uno di quegli strani scherzi del destino ad Amedeo Modigliani quest'immagine è rimasta attaccata addosso, cancellando il resto della sua esperienza. Cattivi registi e scrittori pigri hanno alimentato questa mitologia. Speriamo di potercene liberare al più presto. Per questo le sue carte sono così importanti, permettono di ricostruire i legami di Modigliani con la famiglia, con gli altri artisti delle avanguardie del Novecento, con le donne, con l'arte».
«Amedeo aveva un rapporto costante con la famiglia, soprattutto con la madre - prosegue Parisot -. Il padre infatti lavorava in Sardegna e incontrava i figli e la moglie solo durante le vacanze. A Livorno, seguendo un'antica tradizione di apertura cosmopolita dell'ebraismo sefardita, la madre di Amedeo aveva aperto una scuola dove si insegnavano le lingue e che il figlio frequentava insieme ad altri allievi». «La scoperta di un legame tra i Modigliani e la Sardegna - spiega - è abbastanza recente. Il nonno aveva acquistato una grande tenuta nel cagliaritano dove, oltre alla produzione agricola, dovevano gestire una miniera. Ed è per questo che Umberto, il fratello di Amedeo, era diventato ingegnere minerario. Un mestiere che non eserciterà mai nella miniera di famiglia, chiusa nel 1905».
Ma il direttore degli Archives è sollecito a rassicurare gli storici dell'arte: non si tratta solo di carteggi privati, ma di documenti essenziali. «Raccontano le relazioni di Modigliani con le avanguardie, prima a Firenze con i Macchiaioli, poi a Venezia con la Biennale, che frequenta nel 1903 e nel 1905, e poi con la Secessione viennese. Venezia per Modigliani è stata una base fondamentale. Conserviamo tutte le lettere, i cataloghi d'arte, gli appunti sulla psicoanalisi. Molti scritti riguardano proprio la scoperta della psicoanalisi che per lui è stata molto importante. Sul retro dei suoi schizzi troviamo appunti che riguardano la Cabala e l'interpretazione dei sogni, perché lui ha sempre rifiutato l'interpretazione di Freud. Anche il suo rapporto con Max Jacob è segnato dalla relazione con l'esoterismo cabalistico. Segni, sogni e numeri. Qualcosa che non è stato sistematizzato in una teoria ma di cui troviamo tracce continue. Modigliani metteva in relazione anche la chimica e l'alchimia, mettendo segni e simboli sul davanti e sul retro dei suoi disegni».
E di Max Jacob arrivano da Parigi, a 35 anni da quando vi furono esposti per la prima volta alla Galleria de la Poste, diciotto guaches e disegni che saranno visibili a Roma da domani al 30 luglio nello spazio Renzi&Partners (piazza Capranica 95) come apertura delle iniziative del comitato della Fondazione Modigliani.
Dalle carte degli Archivi Modigliani, dunque, emerge il ritratto di un uomo tanto diverso da quello della vulgata, da essere quasi irriconoscibile. Ci si chiede perché, addetti ai lavori a parte, ci si sia tanto appassionati alla leggenda dell'artista bello e maledetto piuttosto che alle inquietudine che hanno attraversato la sua arte. Deve essere stata la stessa domanda che spinse, nel lontano 1939, la figlia Jeanne a partire per la Francia. Tanto più che in Italia il varo della legislazione antiebraica non le permetteva alcuna prospettiva. E anche la storia della figlia merita di essere raccontata. Jeanne non ha mai conosciuto la famiglia materna che ruppe ogni rapporto con la madre, rea di essersi innamorata di un ebreo. Fu Margherita Modigliani, sorella della madre di Amedeo, ad accoglierla e adottarla legalmente, dopo la morte di entrambi i genitori. Arrivata a Parigi. non perse tempo e cominciò a raccogliere le carte del padre, un compito mantenuto anche durante la Resistenza e la clandestinità. Anche lei è «complice» di quest'avventura che cerca di riportare Modigliani a Roma.
Agli inizi del secolo scorso Parigi è stata il cuore di tutte le avanguardie, capace di accogliere l'esperienza. la vita e i sogni di tanti stranieri che, nel loro paese, non trovavano un modo per lavorare ed esprimersi. A tanti anni di distanza, è possibile che Roma ripari parzialmente il danno, trovando una «casa» degna per queste carte e per i progetti che si addensano intorno a esse. Questo almeno è l'auspicio di Christian Parisot e del comitato.

newspaper24.it 25.5.06
17 milioni di bambini sotto psicofarmaci


Nel maggio '06 USA Today ha rivelato che la Food and Drug Administration americana (Fda) è in possesso della documentazione relativa a 45 decessi infantili provocati dai nuovi farmaci antipsicotici. Gli esperti, sostengono che il numero delle vittime potrebbe aggirarsi attorno a 450, poiché gli effetti collaterali nocivi riferiti alla Fda sono solo l'1-10% del totale. Preoccupante è il fatto che le prescrizioni per farmaci antipsicotici a soggetti di età compresa tra i 2 e i 18 anni è passata da meno di 500.000 nel 1995 a circa 2,5 milioni nel 2002: ciò rappresenta un aumento del 400%. Parallelamente le vendite di questi stessi farmaci sono aumentate del 1500%, passando da 500 milioni di dollari nel 1991 a oltre 8 miliardi di dollari nel 2003. Le morti provocate dai farmaci antipsicotici rappresentano la terza grossa categoria di decessi provocati da psicofarmaci letali, attualmente prescritti a milioni di bambini americani; gli antidepressivi ora hanno l'obbligo di recare sulla confezione il “riquadro nero” di avvertimento della Fda, che avvisa come il farmaco provochi nei bambini e negli adolescenti reazioni suicide; un comitato consultivo dell'Fda ha consigliato che un analogo “riquadro nero” venga apposto sulle confezioni dei farmaci per l'ADHD, per avvertire che la sostanza causa sincopi, attacchi di cuore e morte improvvisa nei bambini. A livello internazionale, sono più di una decina gli avvertimenti lanciati sugli effetti collaterali che gli psicofarmaci hanno su bambini e adolescenti, tra i quali ricordiamo danni al fegato, scompensi cardiaci, sincopi, allucinazioni, psicosi, manie, comportamento violento, tendenze suicide e morte. Ciò nonostante, si continuano a prescrivere questi farmaci a oltre 17 milioni di bambini in tutto il mondo.

mercoledì 24 maggio 2006

l’Humanité 22.5.06
culture
La leçon du Maestro
Un certain regard. Le grand cinéaste italien Marco Bellocchio offre l’un des plus beaux cadeaux du Festival.
Dominique Widemann, envoyée spéciale


Franco Elica (Sergio Castellito) est un maître du cinéma. Du moins est-il considéré comme tel. La vénération qui l’environne peut frôler l’obséquiosité, le Maestro semble pris dans la tenaille d’une double impasse. Affective puisqu’à son grand dam, sa fille entre par mariage dans une famille de fervents catholiques qui lui font horreur. Professionnelle, en ce que son seul projet du moment consiste à tourner une énième version des Fiancés d’Alessandro Manzoni.

Dès la scène inaugurale des noces, magistralement filmée, Marco Bellocchio va placer très haut la barre d’une exigence cinématographique qui ne se démentira pas. Les premiers plans à eux seuls suffiraient chacun à situer le film en belle place au sein de la compétition officielle. Tambours sacrés dont les implacables systoles semblent sceller le destin de la promise et s’achèvent dans l’acidité des flûtes, officiants saisis par un ravissement d’une lumineuse bêtise, mesquineries en gloire et tout le saint sacrement ouvrent une leçon de cinéma dont toute arrogance est bannie. D’emblée Franco est bien sûr sollicité pour poser sa sublime patte sur le film de la cérémonie. D’épouvante, il s’enfuit jusqu’en Sicile où il va rencontrer un véritable metteur en scène de mariage (Bruno Cariello), un prince que son amour des arts a ruiné (Sami Frey), la fille de ce dernier, vouée elle aussi à une alliance sans coeur. Bellocchio, faisant appel à la figure de Thésée dans le labyrinthe, va propulser dans les méandres son trébuchant héros.

Amoureux au premier regard de la princesse Bona (Donatella Finocchiaro), Franco Elica connaîtra les affres de la passion et des diverses obsessions chères à Bellocchio, politique, religion et bien sûr, le cinéma convoqué à l’envi. Des eaux noires qui battent la plage sicilienne où il a échoué, Franco verra émerger un cinéaste qui a simulé sa propre mort pour obtenir enfin la reconnaissance à quoi il prétend (Gianni Cavina tenant le rôle de cet Orazio Smamma, récipiendaire d’un David qui toute sa vie s’était dérobé). De ruelles en palais, de scènes domestiques en volutes oniriques, de - pénombres intérieures en trouées de lumière naturelle, Bellocchio fait retentir les soupirs de la sainte et les cris de la fée. De Thésée à Prométhée se faisant bouffer le foie, Franco, invité par le prince à filmer le mariage de sa fille, sera traversé d’extases et de renoncements. Scènes de cauchemars ou d’enchantement apparaîtront parfois, de manière aléatoire, sur l’écran d’une petite caméra vidéo que personne ne tient, semblable à celles qui prolifèrent en bandoulière. Alors, l’image de cette femme cousant devant une fenêtre, ses ongles pourpres s’accordant, comme dans une toile de peintre nabi, aux ornements tapissiers du fond, ne ressemblera plus à rien. En l’absence de mise en scène, la fraîche arrivée de deux enfants dans une cuisine semblera aussi dépourvue de sens que le champ aplati du décor. « L’artiste peut être un idiot, glissera Smamma, il voit ce que le commun des mortels ne voit pas. » Et Bellocchio d’ajouter un joyau à sa longue filmographie au cours d’une fête du cinéma qui voit çà et là des vessies se prendre pour des lanternes magiques.

Libération, 22.5.06
Culture
Cannes. 59e FESTIVAL.
Autres films
par Philippe Azoury et Gérard Lefort et Didier Peron


Kim Rossi Stuart est l'acteur italien qui, ces derniers temps, suscite toutes les envies. Comme si ça ne suffisait pas, il s'est voulu un destin de cinéaste. De façon étonnante dans cet Anche libero va bene (Quinzaine des réalisateurs), dans lequel il interprète le rôle d'un père de famille élevant seul deux enfants, il porte une barbe taillée sur le même modèle que celle d'un certain Nanni Moretti. La ressemblance s'arrête là car le film, sans être antipathique, ne dépasse jamais le stade du regard sentimental et sans aucune férocité porté sur l'Italie moyenne d'aujourd'hui vue à travers les yeux d'un jeune garçon attachant.

Mais qu'est-ce que ça fait en compétition officielle (qui plus est pour «représenter la France»)? La question rongeait la critique au sortir de Selon Charlie de Nicole Garcia. L'histoire? Tu seras un homme, mon fils (mon père, mon amant, mon frère, ma déchirure). Et ta soeur... Le filmage ? Il ne manquerait plus que ça soit moche. Les acteurs? Il ne manquerait plus que, dans ce casting en préfabriqué (Benoît Magimel, Jean-Pierre Bacri, Benoît Poelvoorde, Vincent Lindon), ils jouent comme des patates (surtout Lindon, à vrai dire le seul intérêt de ce film). Bref, rien à foutre de cette toute petite vapeur gonflée en éruption et, à ce titre, parangon du film bourgeois : tout au centre pour en faire tout un drame, et rien autour.

Franco Elica, cinéaste important que tout le monde appelle «maestro», est accusé de violer les actrices qui défilent dans son bureau en vue d'un remake du film les Fiancées d'Alessandro Manzoni. Il prend la fuite en Sicile, où il rencontre un homme qui filme les cérémonies de mariage, un ami cinéaste censément mort de date récente, et Bona, fille d'un prince ombrageux. Les situations absurdes et bizarres se succèdent, précipitant l'acteur aux grands yeux tristes Sergio Castellitto dans un casse-tête que Marco Bellocchio, auteur d'Il Regista di matrimoni (Un certain regard), a imaginé comme «un va-et-vient constant entre un bonheur total et une angoisse tétanisante». On n'a hélas ressenti ni l'un ni l'autre.

Associazione Nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno”
L’8 per mille: una manna per la Conferenza episcopale italiana.
di Maria Mantello


Dopo la “Breccia di Porta Pia” e la conseguente fine del potere temporale della Chiesa, con la legge delle Guarentigie del 13 maggio 1871, lo Stato italiano si faceva carico del sostentamento del clero. Papa Pio IX, gridava all’usurpazione e lanciava scomuniche, tuttavia non disdegnava che le sue casse fossero annualmente incrementate da ben 3 .225.000 di lire. A tanto ammontava la quota che il Governo stanziava per il Vaticano. Poi c’è stato il Concordato voluto da Mussolini nel 1929, rivisto e rinnovato col governo Craxi nel 1984. Il nuovo Concordato tra Stato e Chiesa cattolica ha abolito il precedente sistema della così detta congrua per introdurre un contributo statale diretto. Venivano allora previste due diverse forme di finanziamento pubblico della Chiesa cattolica: le offerte dei fedeli (attualmente deducibili sino a 1021 euro) e la quota dell’otto per mille dell’Irpef di tutti i contribuenti italiani. Successive modifiche legislative hanno esteso ad altre confessioni religiose il diritto a concorrere alla ripartizione dei fondi derivanti dalla quota dell’otto per mille, ma chi ha i maggiori introiti da questo gettito è la Chiesa cattolica. Nel 2004 ha potuto prelevare dalle casse dello Stato italiano ben 936 milioni di euro.
Se si tiene conto del fatto che, in occasione della presentazione annua della dichiarazione dei redditi, in media solo tre italiani su dieci firmano la casella per destinare l’8 x mille del loro prelievo fiscale alla Chiesa Cattolica, c’è da chiedersi come sia possibile arrivare a cifre così cospicue. Ebbene ciò è possibile in virtù di un meccanismo che non possiamo non definire perverso. La straordinaria moltiplicazione di euro in favore della Chiesa Cattolica è possibile infatti grazie alle caselle lasciate in bianco dai contribuenti: ben 65% nel 2004. Accade allora che per il procedimento della ripartizione, previsto dall’articolo 37 della legge 222 del 1985, che recita: “in caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse”, è la Conferenza episcopale italiana ad essere la favorita. Pertanto, più aumentano le astensioni più si accrescono gli introiti al Vaticano.
A voler fare qualche previsione per il 2005, tenendo conto anche dell’aumento del gettito Irpef, la Conferenza episcopale italiana, solo col meccanismo di cui ci stiamo occupando, dovrebbe arrivare ad incassare un miliardo di euro circa. Una cifra considerevole, dunque, e che è utilizzata dalla Chiesa soprattutto per il mantenimento dei suoi apparati, e in minima parte (20% circa), per gli interventi caritatevoli ed umanitari, contrariamente a quanto le suadenti pubblicità che invitano a firmare a favore della Chiesa cattolica vorrebbero far credere.

Liberazione 23.5.06
Freddezza per il film su Berlusconi. Ne parla l’autore
“Il Caimano” di Moretti non riscalda Cannes
di Roberta Ronconi


C’è chi dice che hanno applaudito, altri dicono di no. La stampa italiana qui al Festival di Cannes era tutta con le orecchie tese ieri mattina alla proiezione per la critica del Caimano di Nanni Moretti. La verità è che alla fine di quel film non è facile applaudire - la stampa italiana a Roma non lo fece - e invece qui a Cannes di prima mattina, e nonostante lo choc dell’ultima sequenza, qualche applauso c’è stato.
Il problema però rimane: la stampa straniera non ha amato Moretti tanto quanto lui avrebbe voluto o comunque si aspettava. Abbiamo parlato con colleghi di diversi paesi. La risposta è stata sempre più o meno la stessa: Il Caimano non è apparso un film all’altezza dell’autore italiano più amato in Europa, un racconto percepito come a tratti confuso, con una sovrapposizione di piani (personale, politico, sociale) e di generi (dalla commedia all’horror) che non aiuta la comprensione, anzi la complica.
In conferenza stampa, Moretti viene accolto quasi freddamente, con un distacco e un imbarazzo mai avvertito nelle quattro volte precedenti (Ecce Bombo, Aprile, Caro Diario, La stanza del figlio). Una difficoltà che ovviamente il regista avverte, tanto che qualcuno è pronto a giurare di avergli visto un’emozione vicina alle lacrime.
Il punto, a nostro avviso, è che Il Caimano è un film imperfetto, ma emotivamente molto forte per gli italiani a cui Moretti per due ore offre la possibilità di riaprire gli occhi su qualcosa che hanno cancellato, messo da parte per stanchezza e per scarsità di memoria. Lo stesso non vale per gli stranieri che del berlusconismo hanno vissuto solo la follia politica, continuando a meravigliarsi sino all’ultimo di come gli italiani abbiano potuto permettere che tutto questo accadesse. Due pubblici diversi, dunque, ma un solo film. Che qui a Cannes ha pagato le sue - generose - imperfezioni.
Proviamo a farla notare a Moretti, in conferenza stampa, questa possibilità di doppia lettura. Ma lui è troppo nervoso per accettare il suggerimento.

Moretti, aveva pensato alla possibilità che il pubblico straniero non fosse nelle condizioni di emozionarsi, come è successo a buona parte del pubblico italiano, di fronte alle conseguenze del berlusconismo?
Se così dovesse succedere, ne sarei in fondo contento per loro, come cittadini. Vuol dire che non hanno mai provato quello che abbiamo provato noi. In fondo, non esiste alcun paese al mondo in cui un uomo ha potuto candidarsi per ben quattro volte a primo ministro, possedendo metà dell’impero televisivo di un paese, oltre ovviamente ad altre cosette come radio, giornali, riviste, etc. Questa tipologia di politico, alla Berlusconi, esiste anche in altri paesi. Ma solo in Italia gli è stato permesso di arrivare fin dove è arrivato. Negli altri paesi esistono leggi in grado di bloccare una cosa del genere molto prima. Il fatto è che gli italiani sono malati di assuefazione e di scarsissima memoria.

Forse il film ha diminuito la sua capacità di impatto, dopo i risultati elettorali?
E perché avrebbe dovuto? Anzi, a mio parere dopo le elezioni le cose sono addirittura peggiorate. Sono successe cose gravissime, come il non riconoscimento del risultato del voto popolare da parte del candidato sconfitto. Per 15 giorni Berlusconi ha continuato a dire che i risultati erano falsi. Dichiarazioni di una gravità inaudita. E la sinistra, come mi dicono qui anche i giornalisti stranieri, continua a prendere la cosa molto poco sul serio. Come se Berlusconi in fondo non fosse che una macchietta. E quando i giornalisti francesi chiedono ai nostri nuovi governanti cosa faranno del conflitto di interessi, loro rispondono che la questione non è tra le loro priorità.

Ha avuto particolari pressioni durante la realizzazione del “Caimano”?
No, di nessun genere. Anche perché questa volta, assieme a Barbagallo (produttore della Sacher film, ndr) abbiamo deciso di non coinvolgere nemmeno la Rai nella produzione, come di solito abbiamo fatto. Con Mediaset non ho mai voluto lavorare, fu uno dei punti fermi che stabilimmo ai tempi della fondazione della Sacher. Comunque, proprio per sentirmi completamente indipendente, abbiamo deciso di produrre il film solo con un buon aiuto da parte dei francesi. Anche se ora chiaramente è in vendita e spero che la Rai sia interessata ad un acquisto.

Perché, dopo aver deciso di affidare a Silvio Orlando la parte del produttore Bonomo, che all’inizio aveva pensato per se, ha deciso comunque di apparire nel ruolo del Caimano-stadio finale?
Perché volevo concludere il film con un momento davvero scioccante, mostrando un Berlusconi lucido, che ripete quelle parole dette tante volte e che a nessuno in Italia fanno più impressione. Volevo creare un’atmosfera in cui quelle affermazioni riassumessero tutto il loro peso e la loro gravità. Ho deciso quindi di mettere in scena un Berlusconi il più lontano possibile da quello cui siamo abituati. E allora ho pensato a me stesso.

aprileonline 24.5.06
Una sanità al femminile
Interviste. Le dichiarazioni del ministro della Salute sulla pillola abortiva e l' epidurale fanno sperare in una medicina più vicina alle donne. Ne discutiamo con Marisa Nicchi (Ds)
di Manuela Bianchi


Una tutela maggiore della salute della donna che le garantisca la possibilità di accedere al parto indolore e che diminuisca il sempre più frequente ricorso al cesareo. Un ritorno ad una maternità e ad una nascita più naturali che riconsegnino alla madre il ruolo da protagonista che le è più consono. Ma anche il diritto ad una medicina più vicina alle sue esigenze e che le consenta, qualora si decida per una interruzione volontaria di gravidanza, il ricorso a tecniche meno invasive come la pillola abortiva. Questi i contenuti del messaggio lanciato lunedì dal neoministro della Sanità Livia Turco in occasione della visita al reparto di Neonatologia del Policlinico Umberto I di Roma. Delle sue proposte e delle prospettive che esse inaugurano abbiamo parlato con Marisa Nicchi, deputata Ds.

Nella sua prima uscita pubblica, Livia Turco ha dichiarato di voler modificare "i livelli essenziali di assistenza", prendendo subito in esame la sanità al femminile. Dichiara infatti di voler dare il via libera alla pillola abortiva Ru486, dopo le polemiche suscitate dall'ex ministro Storace che ne ha ostacolato l'utilizzo, nel rispetto della legge 194 e senza "sperimentazioni selvagge". Che ne pensi?
Mi sembra un'ottima scelta a favore della salute delle donne. Applicando la legge 194, che prevede in un articolo l'introduzione, l'aggiornamento e l'uso delle metodiche più moderne per praticare l'interruzione volontaria di gravidanza, si umanizza un momento difficile che appartiene al mondo femminile. Sono favorevole.
Per quanto riguarda le sperimentazioni selvagge, stiamo tranquilli. Per questa pillola infatti non si può parlare di sperimentazione dal momento che viene oramai usata da molti anni in altrettanti paesi europei e negli Stati Uniti. Vorrei ricordare a questo proposito che la regione Toscana, anziché attivare le procedure per la sperimentazione della Ru486, ha fatto semplice richiesta del farmaco all'estero. Infatti il vero problema è che questa pillola non fa parte della farmacopea del nostro paese, ma bisogna richiederla al paese produttore che è la Francia. L'ospedale di Pontedera, che è stato l'antesignano nell'uso della pillola abortiva, ha messo a punto la procedura per procurarsi il farmaco direttamente. Attualmente a Pontedera e in altre Asl toscane, le donne che vogliono possono usufruire della Ru486 dietro richiesta della struttura sanitaria di rifornimento all'estero.
Dunque non si tratta di sperimentare, il farmaco è già ampiamente testato. La preoccupazione della Turco è una preoccupazione seria che però nei fatti è superata, visto che , come nel caso della regione Toscana, non si è dovuti procedere alla sperimentazione, ma direttamente alla richiesta all'estero. Il vero problema sarebbe quello di come introdurre il farmaco in Italia.

La Turco si é anche espressa sul parto e sui troppi "cesarei" praticati in Italia, piaga comune ad altri paesi soprattutto extraeuropei, nonché sul parto indolore impegnandosi in una legge sul parto che tuteli il diritto alla salute delle donne, dei bambini e per sostenere le nascite...
E' una scelta sempre nell'ottica dell'umanizzazione di un evento come il parto, che rischia di essere medicalizzato e che invece va riportato sul piano della riappropriazione di un evento naturale, e laddove le donne lo decidano, privo di dolore con l'utilizzo dell'anestesia epidurale.
Sono ottime scelte, naturalmente per il momento simboliche, in vista di un intervento più largo, più organico, sui grandi temi della maternità e del sostegno alla gravidanza. Al centro deve tornare la donna nella sua soggettività limitando tutte le pratiche di eccesso di medicalizzazione. Sono interventi che vanno riportati nelle mani della sensibilità delle donne.

Un'ultima domanda: la ministra ha dichiarato, a proposito della pillola del giorno dopo, che esaminerà la questione con calma: tu che posizione hai?
Sono sicuramente favorevole alla pillola del giorno dopo, è una metodica che andrebbe sostenuta.

Pensi debba diventare un farmaco da banco, libero da prescrizione medica?
Il problema è che ne deve essere garantita la possibilità di accesso. Attualmente é molto difficile trovare nei tempi necessari l'autorizzazione medica.
I medici devono garantire l'accesso alle donne che vogliono utilizzare questo farmaco. E' un fatto che non tutti i medici siano favorevoli, senza contare che se ne hai bisogno durante il fine settimana rischi di non riuscire ad avere la ricetta. Va dunque trovato il modo per cui, anche sotto controllo medico, le donne abbiano la possibilità di poterla avere quando necessario.

Dunque cosa prevedi per il futuro della sanità al femminile?
Le dichiarazioni della Turco fanno ben sperare. Ci sono segnali positivi nella direzione della autodeterminazione e della salute delle donne.

martedì 23 maggio 2006

Liberazione 23.5.06
Pietro Ingrao: non lasciate solo Bertinotti,
non lasciate solo il Parlamento
di Fabio Sebastiani


«Non lasciatelo solo». L’appello di Pietro Ingrao è di appena tre parole. Ma la platea di compagni e compagne, anziani e non, che lo ascolta al parco Nemorense, in uno dei tanti incontri organizzati presso la Festa di Liberazione della Federazione di Roma, capisce al volo quello che vuol dire. «Non lasciate solo Fausto Bertinotti», il presidente della Camera Fausto Bertinotti.
E se la domanda è «Il parlamento può tornare ad essere uno dei centri della rinascita del paese?», l’ex presidente Pietro Ingrao racconta la sua esperienza e ripete fino a stancarsi: «Sì, ma a condizione che non lo lasciate solo». Un Parlamento senza parlamentari è un “parlamento vuoto”. Un parlamento senza compagni e compagne che ci fanno “il girotondo”, e tanto altro ancora, è un Parlamento triste.
E se davvero ci vogliamo lasciare alle spalle Berlusconi, e il berlusconismo, non rimane che rimboccarsi le maniche e salire sul bus 85, che davanti a Montecitorio ci fa una fermata. Insomma, raccomanda il vecchio leader, se proprio dovete delegare, andate a delegare da
un’altra parte! Per adesso occorre partecipare. «Mi chiamò Enrico Berlinguer chiedendomi di diventare il presidente della Camera. Amendola ha rifiutato, aggiunse. Dissi di sì, perché mi piaceva l’idea». Ingrao racconta la prima volta da presidente, l’impressione di quell’aula così grande e l’emozione di salire «lo scranno più alto». «Io, un comunistello qualsiasi». A trenta anni di distanza c’è un altro comunistello nell’“ufficio” di Montecitorio. «Vedere di nuovo un rosso come Fausto e ricordare i tempi di allora è stata una grande emozione», dice il novantenne Pietro Ingrao. «Sono sicuro che farà bene anche con l’erre moscia». «Quell’aula può essere un altoparlante straordinario ma ha bisogno di risonanza. E la risonanza siete voi». L’appello è rivolto anche a un’altra categoria di “rossi”, a quei giornalisti di sinistra (Liberazione compresa) a cui è affidato il compito di raccontare quello che avviene lì dentro.
Ingrao prima di diventare presidente della Camera e prima ancora di entrare a far parte della segreteria nazionale del Pci è stato una delle “penne rosse” dell’Unità. Erano i primi anni ’50 e l’Italia si trovò a dover ingurgitare tutta d’un colpo la legge truffa, a forza di botte della
polizia di Scelba. Una delle tante manganellate colpì anche il cronista parlamentare Pietro Ingrao che rifiutò di farsi medicare e si presentò nel Transatlantico di Montecitorio, «che non ho capito perché lo chiamano in questo modo», con la fronte chiazzata (nel suo caso di sangue) come un Gorbaciov ante-litteram. Non c’era un “racconto” migliore di quello davanti a decine di parlamentari pronti a far da megafono, appunto. «Allora non fu difficile perché eravamo più liberi. Oggi i mass media ci soffocano e occorre sempre trovare una strada ». «E’ importante ricreare dalla base un filo che arriva al Parlamento, un luogo di confronto, di dialogo e di lotta. L’occasione è grande», dice Ingrao. «Mettetecela tutta». Lo stanno ad ascoltare in tanti nel parco Nemorense dove papà Pietro sembra che portasse di tanto in tanto le sue figlie piccole. Lo stanno ad ascoltare soprattutto i giovani, che forse oggi vedono il Parlamento italiano come poco più di un nome messo lì ad indicare una delle tante istituzioni, “bla bla bla”. E’ a loro che Ingrao si rivolge nella seconda parte della chiacchierata, quando attacca a parlare del dramma del lavoro precario. «Il lavoro precario è la sfida principale che abbiamo davanti », dice. E anche qui non risparmia qualche critica: «Sono preoccupato, perché sento che siamo un po’ indietro ». Forse ha usato un po’ di diplomazia nel dirlo, o forse no. Ma certo non tralascia di sottolineare l’importanza del tema quando aggiunge: «Il lavoro, in fondo, è
la grande invenzione dei comunisti».

Repubblica 22.5.06
Come, quando e dove tutto cominciò
In principio il nulla
di Piergiorgio Odifreddi


Oggi all' Accademia dei Lincei astronomi, chimici e matematici si misurano con il tema dell'inizio Ciascuno vi mette ciò che conosce Dalla dea turchese al sogno le soluzioni sono diverse e fantasiose - Chi sa parlare o scrivere può ricorrere alla Parola, come fanno i maya o il Vangelo - Ma per avvicinarsi alla soluzione bisogna rivalutare il vuoto

In principio erano i principianti, e agli inizi erano gli iniziati: per gli uni e per gli altri, il mondo e la vita sono venuti in essere nelle maniere più disparate e fantasiose. Ad esempio, per i Fulani, nomadi sahariani, tutto deriva da una goccia di latte. Per i Boscimani dell'Africa australe, gli esseri viventi fuoriuscirono da una profonda buca; per gli Zulu, da un letto di canne; per i Kayapò amazzonici, gli indios discesero dal cielo. Per i Bafia africani, agli inizi c'era una grande aquila; per gli Yoruba nigeriani, un pollo a cinque dita; per i Masai, un drago; per gli indiani Algonchini, una grande lepre; per i Cree nordamericani, un grande castoro; per i Pigmei, due uova di tartaruga; per gli Aztechi, due serpenti piumati; per gli Iban del Borneo, due uccelli; per i Baia equatoriali, un orco malvagio; per i melanesiani delle Nuove Ebridi, un vecchio seduto nel vuoto; per i pellirossa Navaho, una dea turchese; per gli Apache, una donna dipinta di bianco; per i Sioux, una donna con due facce; per gli Irochesi, una donna piovuta dal cielo. Per gli Witoto amazzonici, il mondo si è materializzato da un sogno; per gli Omaha nordamericani, le creature passano direttamente dalla pura spiritualità all'incarnazione; per gli Eschimesi, la terra è caduta dall'alto, e gli uomini sono emersi dal suolo. In principio e agli inizi, in altre parole, ciascuno mette ciò che conosce. E se sa parlare, e magari anche scrivere, ci può mettere la Parola stessa. Così fa, ad esempio, il Popul Vuh maya, secondo il quale i due progenitori Tepeu e Gucumac, ricoperti di piume verdi e azzurre, si incontrarono nell'oscurità della notte, meditarono e parlarono fra loro, e unendo i loro pensieri e le loro parole diedero inizio alla creazione. Analogamente, il Vangelo secondo Giovanni pone agli inizi delle cose il Logos, affermando che «tutto è stato fatto per mezzo di esso, e senza di esso nessuna delle cose è stata fatta»: un Logos che nella sofisticata e speculativa Grecia era inteso nel senso astratto di Parola o Ragione, cioè ancora una volta di linguaggio e di pensiero, e nella rozza e pratica Palestina finì per materializzarsi concretamente «facendosi carne e venendo ad abitare in mezzo a noi». Naturalmente, tutti i miti che pongono qualcuno o qualcosa in principio o agli inizi sono fallimentari in partenza, perché non fanno che spostare di un passo all'indietro il problema delle origini: come capiscono anche i bambini, che infatti immediatamente lo notano, l' affermazione che qualcuno o qualcosa ci ha creati provoca immediatamente il nuovo problema di chi o che cosa abbia creato quel qualcuno o quel qualcosa. Il primo tentativo di soluzione seria, cioè radicale, al problema si trova nell'Inno della Creazione del Rig Veda: «In principio non c'era il Non-Essere, e non c'era l' Essere. Non c'era l' atmosfera, e non c'era il cielo. Non c'era la morte, né l'immortalità. Niente distingueva la notte dal giorno. Tutto era tenebra coperta di tenebra, l'universo era un indistinto ondeggiare. E il principio vitale che era racchiuso nel vuoto generò se stesso come Uno, mediante la potenza del proprio calore. Ma chi sa veramente, chi può veramente spiegare da dove è originata la creazione?» Qui, finalmente, non si presuppone più assolutamente niente o nessuno agli inizi: non solo una materia primordiale plasmata da un Demiurgo, come nel Timeo platonico o nel Genesi ebraico, ma neppure un Creatore che crea dal nulla, come nell'ortodossia cristiana derivata da un versetto dell'apocrifo secondo libro dei Maccabei, poi fatto proprio da Agostino nelle Confessioni. Ed è proprio questa concezione matura e radicale che è stata annessa sia dalla fisica che dalla matematica: una concezione che richiede un'accettazione e una rivalutazione del vuoto e del nulla, troppo a lungo aborriti e rimossi dalla civiltà occidentale, e altrettanto a lungo coccolati e vezzeggiati da quella orientale. Anche se, naturalmente, la divergenza da alcune mitologie e la convergenza con altre non è che una curiosità per la scienza, perché essa non solo ritrova da sé ciò che le serve, ma lo rielabora in un linguaggio che, come diceva Goethe, subito fa apparire le cose diverse: cioè, incomprensibili agli analfabeti matematici che possono pascersi soltanto di cibo mortale. Quanto al cibo celeste, esso è appunto dieteticamente costituito di vuoto e nulla. Secondo la fisica moderna, infatti, «in principio era il vuoto»: un'affermazione in perfetto accordo con il «Brahaman è il vuoto» della Chandogya Upanishad, o con «il Tao è vuoto» del Tao Tze Ching. E non soltanto perché, secondo la relatività generale, la materia non è altro che una discontinuità del campo gravitazionale: cioè, un buco in un'entità puramente matematica. Ma anche, e soprattutto, perché secondo la meccanica quantistica il vuoto è in realtà un teatro sul cui palcoscenico continuamente appaiono e scompaiono particelle e antiparticelle, grazie al principio di indeterminazione di Heisenberg. Anche quello che noi chiamiamo universo si può vedere come una fluttuazione del vuoto cosmico, un non-nulla spontaneamente generato dal nulla, senza che questo richieda alcuna violazione della legge di conservazione dell' energia. Come infatti ha compreso nel 1973 Edward Tryon, basta assegnare al campo gravitazionale un'energia negativa, pari a quella positiva posseduta dalla materia, per poter interpretare l'apparizione della forza gravitazionale come il prezzo che l'universo paga per creare materia pur mantenendo la sua energia totale nulla, come in effetti essa dev' essere in un universo vuoto che precede la creazione. Alla domanda di Leibniz: «Perché c'è qualcosa invece del nulla?» oggi si può dunque rispondere. E non solo, metaforicamente: «Perché Dio ha voluto così». Ma, scientificamente: «Perché il nulla è instabile e la materia è da esso generata, non creata, della stessa sostanza del niente». Se proprio si vuole pregare, allora, bisogna farlo come suggerì Hemingway in uno dei Quarantanove racconti: «Nulla nostro, che sei nel nulla, sia santificato il tuo nulla, venga il tuo nulla, sia fatto il tuo nulla, dovunque nel nulla. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano, e rimetti a noi i nostri nulla, come noi li rimettiamo agli altri nulla. E non ci indurre nel nulla, ma liberaci dal nulla». E così pregano implicitamente i matematici, che fondano anch'essi l'intera loro disciplina sul principio che «in principio era il vuoto»: in questo caso nella forma senza forma dell'insieme vuoto, che non ha nulla dentro di sé. È stato Gottlob Frege a scoprire, nel 1884, che sulla teoria degli insiemi inventata o scoperta da Georg Cantor si poteva fondare l'intera matematica, a partire dall'aritmetica. Il punto di partenza è semplice, e consiste nell'identificare lo zero con l'insieme vuoto. Meno ovvio è definire l'uno come un insieme privilegiato di un solo elemento, cioè lo zero: ossia, con l'insieme il cui unico elemento è l'insieme che non ha nessun elemento. E, più in generale, un numero intero come l'insieme dei suoi predecessori: ad esempio, il due come l'insieme dello zero e dell'uno, e dunque dell'insieme vuoto, senza elementi, e dell'insieme che contiene come unico elemento l'insieme vuoto stesso. In termini più concreti, si potrebbe immaginare un insieme come una scatola che contiene i suoi elementi: tenendo presente, naturalmente, che le pareti di queste scatole sono puri confini mentali e immateriali. In tal caso, lo zero sarebbe una scatola vuota, senza nulla dentro o, se si preferisce, con il nulla dentro: tutta contenitore e niente contenuto, cioè, come la maggior parte dei programmi televisivi, delle opere letterarie e delle teorie filosofiche (e anche, naturalmente, degli articoli di giornale). L'uno sarebbe invece una scatola che contiene un'unica scatola, vuota. Il due, una scatola che contiene due scatole: una vuota, e l'altra che contiene una scatola vuota. E così via. Tutti gli insiemi sono dunque scatole che contengono scatole che contengono scatole, ma a forza di rompere queste scatole per vedere cosa c'è dentro, prima o poi si arriva sempre a scatole vuote, oltre le quali non si può più rompere: la matematica è dunque, letteralmente, un edificio di pure forme che si dissolve in ultima analisi nel nulla. Allo stesso modo, si rimane con niente in mano se si cerca l' essenza della cipolla pelandola o del carciofo sfogliandolo: metafore che si trovano nel Peer Gynt di Henrik Ibsen, in Vestire gli ignudi di Luigi Pirandello e nelle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein, a memento del fatto che in principio era il nulla e alla fine tutto vi ritornerà.

aprileonline 23.5.06
La depressione, il nuovo male del secolo
Scienza. In corso a Toronto un congresso internazionale di psichiatria che lancia l'allarme sul mal di vivere. Entro il 2020 sarà la seconda malattia più diffusa al mondo
di Marzia Bonacci


Ne soffrivano Virginia Wolf e Adolf Hitler, Cesare Pavese e Joseph Stalin. Personaggi diversi e spesso antitetici, tutti però accomunati dall'aver combattuto nel corso della vita una medesima e difficilissima battaglia: quella contro se stessi. Vittime illustri del "mal di vivere", queste figure storiche hanno dovuto imparare a convivere con la bestia nera della depressione, spesso naufragando nell'insuccesso che, in alcuni casi, li ha condotti al suicidio, drammatico epilogo di un lungo commino vitale poi conclusosi nel "vizio assurdo", come lo definì Pavese sottolineandone la costante pervicacia e l'ossessività.
A tutt'oggi questa malattia, la cui origine e la cui spiegazione sono da ricercarsi nell'intreccio fra dinamiche psicologiche e fattori biologico-funzionali, rimane un terreno caldo di confronto per la ricerca scientifica, come testimonia il Congresso "American Psychiatric Association", in corso di svolgimento in questi giorni a Toronto e in programmazione fino a giovedì prossimo. Psichiatri esperti di tutto il mondo sono giunti nella capitale canadese per discutere le nuove tendenze e le nuove frontiere, anche della farmacologia, in materia. Del resto stando alle valutazioni dell'Oms (Organizzazione mondiale della Sanità), la depressione entro il 2020 è destinata a diventare la seconda patologia più diffusa al mondo dopo le complicazioni cardiovascolari. Alla base di questa possibile crescita ci sarebbe l’allungamento della vita media, che comporta un conseguente aumento del rischio.
Un disturbo che nel caso del nostro paese coinvolge 1 milione e mezzo di persone, soprattutto anziani e donne, le quali risultano le più colpite con due terzi di loro affette dal disturbo depressivo. Alla base di questa tendenza ci sarebbe, come spiegato dal professor Claudio Mencacci del dipartimento di Psichiatria del Fatebenefratelli di Milano, l’influenza esercitata sulle donne dalla componente ormonale estrogenica, che le vede particolarmente esposte al rischio depressione soprattutto durante l’età fertile, mentre nell’età della pubertà e in quella post menopausa la probabilità di rimanerne vittima è pari a quella maschile. Anche la tiroide sarebbe fra i fattori biologici più condizionanti.
A questi malati cronici, si devono poi aggiungere quanti hanno comunque sofferto almeno una volta nel corso della vita di un episodio depressivo e che si attesterebbero a sette milioni di individui, cioè 15 persone su 100.
Per il professor Massimo Di Giannantonio, ordinario di Psichiatra all’Università “D’Annunzio” di Chieti che partecipa in questi giorni al congresso canadese, l’arma principale da impegnare nella lotta alla malattia deve essere una nuova prospettiva di cura: “Il paziente deve essere curato per tutto il tempo necessario, senza abbandonare la terapia prescritta. Solo in questo modo – spiega il professore – si evitano pericolose ricadute”. Uno fra i problemi principali che si annidano nella depressione è infatti proprio quello di un ripetersi dell’evento, soprattutto per pazienti che con la giusta cura e l’adeguata attenzione psicologica avrebbero potuto evitare il ripresentarsi della malattia. In sostanza, il rischio che bisogna contrastare è quello di un cronicizzarsi della patologia che, come spiegano sia il dottor Di Giannantonio che Paolo Pancheri, ordinario di Psichiatria a “La Sapienza” di Roma, è sempre in agguato: “Se il 50%, dopo il primo attacco, non necessiterà di cure ulteriori, un altro 50%, invece, dovrà fare i conti con un secondo episodio entro 4 anni, in media. Se, invece, non avrà ricevuto le cure mirate contro la depressione, dovrà affrontare altre crisi depressive cronicizzando, così, la malattia”. Da scongiurare, quindi, l’interruzione precoce delle cure prima di quella che viene definita “remissione”, ovvero la forma di restitutio ad integrum delle funzionalità del sistema nervoso del paziente, perchè aumenterebbe il rischio di nuovi possibili episodi.
Proprio su questo punto il congresso ha rappresentato l’occasione per poter presentare una nuova molecola, la quale si sarebbe dimostrata in grado di portare ad una diminuzione del 92% le probabilità di ricadute. La venlafaxina, sperimentata su 1000 persone per un tempo di due anni, è infatti riuscita ad agire sui neurorecettori della serotonina e della noradrenalina, migliorando la plasticità delle cellule del cervello (neuroni) e favorendo la loro replicazione. Una molecola che avrebbe anche il merito di agire contro il dolore e rafforzare le difese immunitarie, come ha spiegato Riccardo Torta, direttore di Psicologia clinica e oncologia all’università di Torino, impegnato da anni nello studio relativo alla relazione tra depressione e malattie come tumori e infarti.
Alla base di tutto, comunque, ci sarebbe secondo gli esperti la centralità di una corretta e precoce diagnosi: il riconoscimento dei segnali patologici come la ridotta volontà, la capacità di fare o di prendere decisioni, una diminuzione delle capacità cognitive come la memoria e l’attenzione, l’inappetenza, l’insonnia o il dolore senza spiegazioni fisiche, rimane una priorità per contrastare il fenomeno.
Il “male oscuro”, come lo chiamò in un suo celebre romanzo Giuseppe Berto, continua quindi a restare al centro dell’interesse clinico dell’intero mondo psichiatrico, ormai però consapevole della necessità di far sposare terapia farmacologica e supporto psicologico, soprattutto alla luce di un futuro tutt’altro che limpido, in cui la depressione è destinata a diventare probabilmente il “male del secolo”, almeno per una parte di umanità.
L’allarme lanciato sul futuro dal meeting canadese non ha però riguardato esclusivamente la patologia depressiva, ma si è esteso fino a coinvolgere la salute dell’infanzia. Una crescita della sindrome da iperattività o più generali problemi neurologici dovrebbero infatti registrare nei prossimi anni una netta crescita. “Una delle ragioni di questa maggiore suscettibilità - commenta Claudio Mencacci - è tutta biologica, ed è conseguenza diretta del carico di stress delle mamme che hanno partorito i bambini. Se le donne in gravidanza sono particolarmente depresse o stressate, infatti, l'ippocampo del cervello del feto si riduce anche del 20%, favorendo una probabilità più alta di sviluppare problemi neurologici”. Una tesi che lo stesso Mencacci ha supportato attraverso la presentazione di alcuni dati: “Un esempio che fa scuola è offerto dalle ricerche effettuate sulle donne che erano incinte a New York nei giorni dell'attentato alle Torri Gemelle. Ebbene l'ippocampo dei bambini nati successivamente a quell'evento è ridotto proprio in virtù degli stimoli psicologici subiti dalle donne”.
La medicina e la psicologia sono quindi destinate a rispondere alle nuove sfide cliniche, sempre più determinate dal contesto sociale.

Repubblica 23.5.06
Il ministro: "Nessun ostacolo alla Ru486 in ospedale
Garantiremo a tutte le mamme di partorire senza dolore"
Pillola abortiva, apertura della Turco
"Via libera, senza test selvaggi"
di Mario Reggio


ROMA - "Garantiremo a tutte le mamme italiane di partorire senza dolore. Il sistema sanitario nazionale assicurerà gratis l'anestesia epidurale. Nessun ostacolo alla pillola abortiva Ru486, ma rispettando le indicazioni della legge sull'aborto e senza alcuna sperimentazione selvaggia". Livia Turco, ministro alla Salute, parla chiaro. Ed ha scelto il giorno dell'inaugurazione del nuovo reparto di Neonatologia al Policlinico Umberto I di Roma.
"In Italia si fanno troppi parti cesarei, occorre una legge organica che tuteli la salute delle donne e che segua le neomamme - prosegue Livia Turco - anche dopo il parto. Più di un terzo di loro soffre di forme di depressione dopo aver dato alla luce il bambino. In molti paesi dell'Unione Europea il sistema sanitario assicura l'assistenza domiciliare fino al terzo mese di vita. Quindi più assistenza, ecco perché vanno potenziati i consultori. Basta con il dolore, diffondendo specie nelle Regioni del Sud i reparti di Neonatologia. Il tutto concordato e condiviso con le Regioni, che negli anni del governo Berlusconi sono state sistematicamente escluse dalle scelte di politica sanitaria e finanziaria".
E le cifre danno ragione a Livia Turco: negli ultimi 20 anni i parti cesarei sono triplicati, passando dall'11 al 33 per cento, un valore che supera del 15 per cento quello raccomandato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Perché questo aumento impressionante dei cesarei? In realtà un terzo delle donne che devono partorire chiedono l'epidurale, ma solo un misero 4 per cento riesce ad ottenere l'intervento gratuito in una struttura pubblica. Per le altre ci sono due alternative: pagare dai 500 ai 700 euro alla Asl, oppure anche 1.500 euro nelle strutture private.
Prima apertura, anche se molto sfumata, sulla pillola del giorno dopo: "La questione verrà esaminata con calma - risponde il ministro della Salute - un passo alla volta. Con me il ministero non sarà quello degli spot e della propaganda, mettiamolo ben in chiaro. Intendo esercitare la funzione prevista dal Titolo V della Costituzione, vale a dire i poteri di indirizzo, monitoraggio, valutazione, proposta e accompagnamento, vicino alle Regioni più deboli".
Insomma, rispetto ai suoi predecessori del centrodestra, Girolamo Sirchia e Francesco Storace, la musica sembra essere cambiata e di molto. Anche sulla pillola abortiva Ru486, contrastata a lungo da Storace, l'uso del farmaco, che non è venduto in Italia, fa un consistente passo avanti. Già oggi, in realtà, non c'è bisogno di alcuna autorizzazione centrale per la sperimentazione, visto che basta l'autorizzazione del Comitato Etico della struttura sanitaria: tant'è che l'ospedale Lotti di Pontedera, con il placet della Regione Toscana, ha acquistato direttamente il farmaco in Francia. Mentre viene somministrata all'ospedale ginecologico Sant'Anna di Torino, il Maggiore di Bologna, e nei centri ginecologici pubblici di Ferrara e Trento.
Immancabili e prevedibili le reazioni. "Sulla Ru486 pensi agli interessi della famiglia - commenta il capogruppo Udc alla Camera Luca Volontè - lo stesso padre della pillola abortiva ha ammesso il rischio di decessi a seguito della terapia".
"Brava la Turco - ribatte la deputata diessina Gloria Buffo - Volontè si tranquillizzi, noi ci occuperemo della salute di tutti e dei bisogni sociali dei più deboli, cosa che il centrodestra non ha fatto".

lunedì 22 maggio 2006

Libertà 22.5.06
Definito "l'ultimo dei Mohicani", ha incontrato il pubblico, 8 minuti di applausi per il film
Bellocchio : attacco ai giornalisti
Alcune grandi firme non capiscono di cinema


«Ecco a voi l'ultimo dei Mohicani della Nouvelle Vague italiana». Così Marco Belloccio viene presentato dalla giornalista Laura Delli Colli, con le parole che ha usato Le Monde per definire il regista piacentino ieri, all'incontro con il pubblico del Festival di Cannes il giorno dopo la presentazione del suo film Il regista di matrimoni che in sala, presente Bellocchio, la Finocchiaro e Cavina, ha raccolto ben 8 minuti di applausi (e oggi passa in concorso il molto atteso Caimano di Nanni Moretti )
Con il consueto distacco, Bellocchio ha trovato questa definizione «affascinante». «Credo volesse dire - ha detto ieri - che c'è una mitologia del cinema italiano degli anni Sessanta. Molti sono scomparsi, è rimasta in attività la coppia Bertolucci-Bellocchio. Nel mio lavoro ho cercato sempre di non ripetermi, di seguire la mia naturale inclinazione, unitamente a una disobbedienza, se non proprio ottimista, comunque non disperata. E' una disobbedienza non violenta, che non mi porta più a distruggere l'avversario, come nei miei primi film».
Inevitabile il commento sui titoli di due giornali italiani: «Sono la dimostrazione di quello che temevo. Una carissima amica (Fulvia Caprarade La Stampa, ndr) ha scritto: "Bellocchio contro Moretti" ed è diventato un titolo da prima pagina. D'altronde, se non l'avesse scritto, non avrebbe mai ottenuto quel rilievo. Ma io non l'ho mai detto. Pure la battuta sul mio progetto di film su un giornalista era una boutade che avevo detto proprio perché i miei progetti sono ancora molto in fieri. L'unica cosa vera è la trasposizione di Buongiorno, notte a teatro, tipo Grande Fratello».
Tra il pubblico c'è anche chi sottolinea che ormai i cronisti hanno più spazio dei critici nella presentazione dei film sui giornali. Incalza Bellocchio: «Qui verrebbe voglia di alimentare le polemiche contro giornalisti, anche di grande fama, ma che non capiscono nulla di cinema».
C'è poi chi gli chiede se rifarebbe il regista: «Bella domanda. Forse farei l'attore, visto che ho già fallito. Il regista ha un potere straordinario. Ma bisogna curare prima la mente, perché se fai il regista e sei malato di mente rischi di fare dei guai».
Inevitabile dunque l'approfondimento legato ai nuovi cineasti: «Si è perso il senso della forma, il senso dell'immagine, che è ormai legata solo al contagio televisivo. Questa è la cosa peggiore, perché ci sono cineasti che cercano solo di copiare la televisione». E qualcuno gli chiede ancora della sua vitalità, che tutti i giornali stranieri gli hanno riconosciuto. «Quando me lo chiedono - risponde - devo dire che l'anagrafe non conta, però non posso non approvare la necessità di rinnovamento della nostra società italiana, quando sui giornali si parla di politici ottuagenari».
L'incontro pubblico è una gragnuola di domande. Ve ne sono ancora sul film che premia il regista «da morto», ma il maestro piacentino sembra impaziente di ripartire. Così, appena si presenta l'occasione, fugge via con la montatrice del film (nonché sua compagna) Francesca Calvelli dicendo: «Tra poche ore tornerò in Italia, libero».

Liberazione 21.5.06
Toni più soft del passato nell’incontro del Papa con il nuovo ambasciatore spagnolo
Vaticano, l’ora di religione divide Ratzinger e Zapatero
di Fulvio Fania


Città del Vaticano. C’è un’ora di distanza tra Oltretevere e Madrid. E’ l’ora di religione. L’insegnamento cattolico nelle scuole ha dominato il discorso che il Papa ha rivolto al nuovo ambasciatore del governo Zapatero, Francisco Vasquez, ricevuto ieri per la presentazione delle credenziali.
La Chiesa spagnola vorrebbe che l’insegnamento cattolico, sebbene nella forma non sia obbligatorio, fosse considerato assolutamente pari a quello delle altre materie, tranne ovviamente che per la scelta dei professori e dei programmi che spetta invece ai vescovi. L’episcopato del regno vorrebbe insomma ritornare alla legge che fu approvata dall’ex premier Aznar poco prima di finire travolto dalle elezioni. Il voto di religione sarebbe nuovamente conteggiato nella valutazione finale degli studenti. Al contrario il governo socialista ha sottolineato per legge il carattere facoltativo dell’ora confessionale. Ma secondo i vescovi questo sarebbe in contrasto con l’accordo del 1979 tra Spagna e Santa Sede - un concordato - in cui sono previste «condizioni di parità con le altre discipline fondamentali».
Il conflitto tra Vaticano e Spagna non è risolto. Il dossier è pesante, anche se ieri Ratzinger ha riassunto gli altri capitoli in poche formule classiche: «difesa della vita» e tutela del matrimonio «senza offuscarlo con altre forme giuridiche». I toni sono però più morbidi. Basta dare un’occhiata alla dura reprimenda che Giovanni Paolo II impartì meno di due anni fa al precedente ambasciatore per cogliere una maggiore cautela nelle ultime parole di Ratzinger. Sulla scena del conflitto sono cambiati anche alcuni protagonisti. Alla guida della Conferenza episcopale spagnola il cardinale Ruoco Varela, stretto alleato di Aznar, ha lasciato il posto all’arcivescovo di Bilbao e sull’altra sponda anche Zapatero ha cambiato il proprio rappresentante diplomatico in Santa Sede. Quello nuovo, Vasquez appunto, è un politico socialista, è stato sindaco a La Coruna ed è cattolico dichiarato. Una carta d’identità che l’ambasciatore ha fatto molto pesare nel suo saluto al Papa proponendosi come «ponte» per far comprendere al governo le «preoccupazioni» del Vaticano e d’altra parte per favorire il dialogo con il governo.
Il maggiore realismo nei rapporti non cancella l’incognita dei prossimi appuntamenti. La visita di Benedetto XVI a Valencia sarà un’occasione per verificare fino a che punto la Chiesa abbia davvero intenzione di smorzare le posizioni dei più oltranzisti contro il governo e le sue leggi. Di per sé la ragione del viaggio papale, l’8 e 9 luglio, non promette alcun miglioramento nei confronti di Zapatero. Benedetto XVI andrà infatti a concludere un incontro mondiale delle famiglie con annesso convegno teologico-pastorale. Animatore dell’iniziativa è stato finora il cardinale vaticano Lopez Trujillo, un autentico ultras contro l’aborto, le nozze gay, le coppie di fatto e i divorzi “brevi”, tutti pomi della discordia con il governo spagnolo. L’impostazione è stata confermata da Ratzinger pochi giorni fa quando ha accolto in udienza proprio gli organizzatori del convegno. Il nuovo papa non ha mai incontrato Zapatero e non ha privilegiato neppure il suo ministro degli esteri e la vicepremier che, quando vennero a Roma, poterono discutere soltanto con Sodano. Rifiutata anche l’ipotesi di fare tappa a Madrid prima di raggiungere Valencia, Ratzinger incontrerà re Juan Carlos nel palazzo del governo valenciano mentre il premier, per poter incontrare il Papa, dovrà recarsi in arcivescovado insieme ai familiari.

l’Unità 22.5.06 pag.20
L'ESCALATION
In crescita, per numero e brutalità, le violenze: stupri di gruppo e non, omicidi per lo più commessi da ex-mariti ed ex-fidanzati. Fino all'orrore della giovane Jennifer incinta e sepolta viva. Tre scrittrici guardano in faccia questa realtà
2006, quest'Italia è rossa Ma di sangue. Di donna


Contro il corpo femminile
Vedi alla voce Sessuofobia
di Elena Stancanelli

E’ uscito da poco, nelle bellissime edizioni ISBN (quelle tutte bianche col codice a barre in copertina) un anonimo pamphlet dal titolo Contro Ratzinger. Interessante. Si parla di nazismo e teologia della liberazione, morale, omosessuali e contraccezione.
Si parla anche di donne. C'è una citazione da Oddone di Cluny, databile intorno al 900 dopo Cristo. Una descrizione del corpo femminile. «La bellezza», dice il buon Oddone, «si limita alla pelle. Se gli uomini vedessero quel che è sotto la pelle... rabbrividirebbero alla vista delle donne. Tutta quella grazia consiste di mucosità e di sangue, di umore e di bile. Se si pensa a ciò che si nasconde nelle narici, nella gola e nel ventre, non si troverà che lordume. E se ci ripugna toccare il muco o lo stereo con la punta del dito, come potremmo desiderare di abbracciare il sacco stesso che contiene lo stereo?». Segue una lunga riflessione della chiesa, databile intomo al millenovecento dopo Cristo, sul ruolo delle donne e la procreazione. Tutti sanno che la chiesa non ama la fecondazione artificiale. Né etcrologa né omologa. Ma non tutti sanno perché. Non c'è niente di male, neanche per la chiesa, nel fatto che il seme fecondi l'ovulo. È così che nascono i bambini, anche nella fantasia del clero. Ma il punto è che l'atto deve avvenire «naturalmente», cioè con il pene dentro la vagina, direbbe Ratzinger. Gli sposi devono infatti essere «una sola carne», nel procreare. Altrimenti si incorre nel delitto di masturbazione, e nel delitto del terzo incomodo, rappresentato dal medico che procede all'inseminazione. La chiesa propone due escamotage: prelevare lo sperma dai testicoli senza passare dall'orgasmo o intervenire succhiandolo dalla vagina della donna, un attimo dopo Patto sessuale avvenuto, si spiega, in una stanza senza altri presenti oltre alla «sola carne» sposo-sposa. L'artificialità, nella mente degli uomini di chiesa (fieri avversari, peraltro, anche della naturalità che bandiscono per legge) è il nemico. Spiegano con questo motivo anche l'ira stizzosa nei confronti dell'omosessualità. Due uomini o due donne creano una coppia impossibilitata a procreare naturalmente, e quindi inaccettabile. Io non ho figli. Nessuna malattia mi avrebbe impedito di averne, né mi sono mancate le occasioni. Semplicemente ho scelto di non averli. Ogni tanto mi chiedo che cosa pensi la Chiesa di me. Non di me Elena,ma delle donne che scelgono di non avere figli. Avranno un anatema specifico, chissà se faccio parte degli scomunicabili, degli eretici, se potrei fare la comunione, qualora fossi interessata, o se, facendo la madrina a mia nipote, ho violato qualche legge. Mi faccio queste domande quando leggo di donne decapitate, o sepolte vive al nono mese di gravidanza. Esiste la responsabilità individuale dell'atto. Ci credo fortemente e mi arrabbio ogni volta che per le colpe dei figli si tirano in ballo le responsabilità dei padri. Un uomo che decapita una donna deve avere un coltello affilato che recida tendini, cartilagini, pelle, e comunque ci metterà un po'. Dieci minuti? Si può dire che è colpa * della società se un uomo per dieci minuti, coperto di sangue, si affanna a staccare il collo di una donna? O la seppellisce viva dentro una buca di terra, insieme al bambino che hanno concepito insieme nove mesi prima, facendosi «una sola carne» (non lo so con certezza, ma tendo a pensare che non si sia trattato di inseminazione artificiale)? Ovvio che no. La follia può essere solo del singolo. Ma a un livello più basso ci sono le percosse, le violenze sessuali, e ancora più in basso la violenza verbale, la difficoltà di accedere a ruoli prestigiosi sul lavoro, la scarsissima rappresentanza politica. E le parole della chiesa. Le donne non sono macchine da figli, la coppia non è finalizzata esclusivamente alla procreazione esattamente come il sesso, la famiglia non è l'unica soluzione socio-sentimentale, il matrimonio non santifica l'amore anche perché l'amore non ha bisogno di essere santificato per avere valore. Ogni passo avanti verso la libertà e il rispetto dei singoli, anche nel significato da dare alle parole (coppia, donna, omosessuali...) è un passo indietro rispetto alla violenza.

Uomini, voi cosa dite?
Di Luisa Muraro

Mi è stato chiesto di unirmi alla denuncia della violenza che patiscono tante donne da parte di uomini. Non è giusto, infatti, che questo stillicidio di morte che minaccia l'alfabeto della civiltà, venga messo tra i fatti di cronaca e presto dimenticato. Bisogna metterlo fra le questioni sulle quali non intendiamo sorvolare, come le guerre e le povertà estreme. Ma, trattandosi della violenza di uomini su donne e bambini, io pretendo che siano uomini a occuparsene per primi. Alcuni hanno cominciato. Io non voglio ripetere cose che sono state dette troppe volte da parte nostra, inascoltate. La seconda ondata del femminismo, ormai trascorsa, ha cambiato molte cose in meglio, ma la tendenza maschile a farsi valere con il disprezzo dell'altro sesso, nel suo fondo sembra immutata. Si è pensato che fosse l'espressione del dominio patriarcale, ma questo non c'è più nei termini del passato e quella persiste. Si pensa che oggi noi assistiamo alla reazione scomposta di una minoranza per la perdita di privilegio sessista. Neanche questo mi sembra assodato La violenza più brutale è di pochi(non tanto pochi, per altro), ma il linguaggio del disprezzo è di molti, impossibile sapere quanti, forse i più: è il linguaggio di una virilità che forse per sua natura è una conquista e si sente perciò minacciata e fragile. E che, per di più, non trova aiuto nella cultura dominante i cui protagonisti, scientifici, religiosi, politici, delle donne hanno un bisogno di cui sanno troppo poco. «Credevo che lei fosse una donna, mi scusi», ha scritto una lettri-ce al direttore di un femminile. Mi scusi: non sia rriai che una donna non riconosca la virilità di lui. Se, da questo punto di vista, il femminismo è passato invano, io penso che c'entri anche la mancata rispondenza nella cultura politica che pretendeva di stare dalla parte delle donne. In pieno femminismo, ricordo la vicenda di una donna uccisa sulla porta di casa dal compagno, erano entrambi ferrovieri e iscritti al sindacato, lei aveva deciso di andarsene con la loro bambina, sul suo diario il giudice potè leggere gli inutili sforzi che aveva fatto per convincere l'uomo, troppo preso dalla militanza, a stare un po' in famiglia. L'Unità le dedicò un commento in prima pagina, firmato da un suo commentatore abituale, che cominciava e concludeva su questo motivo: perché Caino uccide Abele? Sordo, distratto, astratto. È da qui che bisogna ricominciare, e da tutta una cultura progressista che ragiona come se le donne fossero uomini o, altrimenti, da meno e disponibili. E che quasi ostenta la sua ignoranza della verità riguardo agli inizi e alla cura della vita (che non si trova nei laboratori, come credono gli scienziati e ora anche i papi, dimentichi di Dio e della mamma)Che cosa le rende così terribile, questa verità,che vi impedisce di guardarla in faccia?

Costume, linguaggio, politica la retromarcia di questi anni
Di Clara Sereni

Le parole non bastano più, sembrano diventate inutili e vuote: i dati sulla violenza contro le donne, nel mondo e in Italia, sono così schiaccianti da ammutolire. E le ultime trovate della cosiddetta informazione (la foto del bambino mai nato) caso mai ce ne fosse bisogno sottolineano come il corpo di donna sia, in tanti casi tanto diversi fra loro, nient'altro che un contenitore, un oggetto che acquista valore soltanto sul mercato del cinismo voyeuristico. Non ci sono ricette facili e rapide, per rispondere a tutto questo, ma dobbiamo trovare almeno le parole per dirlo. Per una come me, che delle parole ha fatto il proprio mestiere, l’esigenza di restituire al linguaggio un senso e un peso è una urgenza indifferibile: credo fermamente che questo sia un primo passo indispensabile, senza il quale nessun’altra strategia è pensabile. So benissimo quanti uomini, e anche quante donne, di fronte all'appello al politically correct alzano gli occhi al ciclo, o fanno spallucce. Non ci si ricorda più di anni in certa misura vittoriosi, quando Nilde Jotti era «la» presidente della Camera e una fiction di grido come La Piovra aveva come protagonista una magistrata: i drammatici slittamenti lessicali e di costume di tanti anni, e in particolare dell'ultima legislatura, fanno sì che si parli tutt'al più di «quote rosa», e anche questa è una concessione che ci viene (non viene) fatta. La declinazione al femminile di cariche e funzioni è «passata di moda», dicono i più, e dunque non ci si sforza in alcun modo di utilizzarla. Anche da parte delle donne: che accettano e talvolta pretendono di essere chiamate sindaco, o «il» presidente per esempio della Regione tale o talaltra, o ministro. Preoccupate ancora e sempre - come dicono a Roma - «di non farsi riconoscere», di non mettere in evidenza l'identità di genere, tuttora percepita come debolezza. E pazienza se poi, nelle cronache, sembra curioso leggere che il sindaco portava un tailleur alla moda, o che ha partorito un figlio.
Ma le parole sono sostanza, e non solo apparenza, delle cose. Restituire loro il peso che meritano non è bizantinismo da delegare agli addetti ai lavori, è un compito alto che deve riguardare, oggi più che mai, tutte e tutti coloro che si pongono l'obiettivo di ridare serenità, normalità, decenza a un Paese da troppo tempo, e sotto troppi aspetti, in discesa. E quello della visibilità femminile, del riconoscimento delle competenze dei saperi e delle abilità delle donne, è una tessera nient'affatto secondaria del complesso puzzle della società in cui viviamo. L'impegno di Prodi e dell'intera coalizione ad una presenza femminile forte nel governo, nelle Istituzioni e negli Enti ha trovato finora applicazioni amare: più un cazzotto che un riconoscimento, e la nostra democrazia appare sempre più zoppa, amputata. Ancor più in questa situazione, la responsabilità delle donne cooptate in situazioni di potere è enorme. La speranza accorata è che - a cominciare dall'impegno delle nominate a farsi chiamare con l'appellativo del proprio genere, a farsi riconoscere in quanto donne in ogni passo del loro procedere - si cominci a finirla almeno nelle parole con la maschiocrazia che, non solo metaforicamente, ci offende, ci tortura, ci Almeno nelle parole: perché quando ai fatti, a quanto è dato di vedere, bisognerà ancora un bel pezzo.