sabato 9 maggio 2015

Repubblica 9.5.15
Laterza va in scena oltre ai libri fa spettacoli
di Anna Bandettini


ROMA In un momento di molte incertezze, specie economiche, per il teatro italiano, succedono anche cose interessanti. L’editore Laterza diventa “produttore di spettacoli”: oltre ai libri, oltre ai festival culturali, la casa editrice darà il suo marchio (e un budget: per ogni progetto si parla di cifre come per un libro, dai 50 mila euro in su) per l’allestimento di spettacoli. Una novità importante in un paese dove i privati investono poco e dove gli steccati — editoria da una parte, teatro, cinema dall’altra — sono invalicabili. «L’ho fatto proprio per rompere le barriere, oltre che per portare, in un campo dove abbiamo tanto da imparare, la nostra esperienza, quella dei festival ma soprattutto quella delle “Lezioni di storia” che da dieci anni organizziamo a Roma, e che sono vere performance teatrali», spiega Giuseppe Laterza, 58enne presidente della casa editrice.
Il suo primo spettacolo da produttore è La guerra grande, sostenuto dal Teatro di Roma che lo ospiterà al Teatro India il 23 e 24 maggio e poi in tournée. L’occasione l’ha data il libro omonimo (ovviamente Laterza) di Antonio Gibelli, professore di storia contemporanea, che racconta il primo conflitto mondiale dalle “storie della gente comune” come recita il sottotitolo. «Volevo che il tema della guerra arrivasse anche ai giovani e il teatro mi è sembrato il linguaggio giusto e coinvolgente — spiega Laterza — Perché leggere un libro è un’esperienza fondamentale ma individuale, il teatro invece è comunità, condivisione ». Lo spettacolo è diretto dal giovane regista Roberto Di Maio che ha anche adattato il testo originale, equilibrando momenti drammatici a altri più leggeri e ironici. E giovani anche gli attori: da Stefano Fresi, il Secco di Romanzo criminale a Lucrezia Guidone, la più giovane attrice del teatro di Ronconi, Diego Sepe, Petix, Beatrice Fedi, Piero Cardano, Rosario Cristini. «Sono contento perché ho già ricevuto reazioni positive da artisti come Massimo Popolizio, Elio Germano, Claudio Longhi e dalla Presidenza del Consiglio che ha inserito lo spettacolo nelle celebrazioni della Grande guerra». E in cantiere c’è già un secondo progetto: «L’anglista e storico Alessandro Portelli terrà al Festival di Trento una lezione sul sogno americano dal Grande Gasby a Springsteen».
Repubblica 9.5.15
Arte e battaglie così nacque la prima Italia
Quasi cinquecento reperti raccontano una vita culturale vivace che formò anche poeti come Virgilio e Catullo
di Giuseppe M. Della Fina


LA MOSTRA Brixia. Roma e le genti del Po presenta un filo rosso costituito dalla documentazione archeologica: un mondo di oggetti, rinvenuti per caso o a seguito di scavi programmati (alcuni recentissimi), che riesce a fornire un’idea concreta sui tempi e i modi della romanizzazione dei Liguri, dei Celti e dei Veneti ovvero di alcuni dei popoli che costituirono il mosaico etnico e culturale della prima Italia.
Opere d’arte o semplici utensili che — seppure con una forza diversa — riescono a parlare di uomini e donne che si scontrarono e incontrarono riuscendo a trovare un equilibrio pienamente soddisfacente e destinato a durare per secoli.
Una storia che iniziò sul campo di battaglia di Sentino (presso Sassoferrato, nelle Marche attuali) dove un esercito costituito da Celti, Etruschi, Umbri e Sanniti affrontò quello di Roma e dei suoi alleati in uno degli scontri più sanguinosi dell’Italia antica: 100.000 sarebbero stati i morti per lo storico greco Duride, 25.000 per Tito Livio. Un’intera generazione venne segnata da quella battaglia: una parte consistente vi cadde, un’altra ne portò i segni, o il triste ricordo.
Una vicenda che proseguì su un altro campo di battaglia nei pressi di Talamone, in Toscana, dove un esercito composto da diverse tribù celtiche (Boi e Insubri alleati con Taurisci e Gesati) venne circondato e distrutto da quello romano settant’anni dopo Sentino. Una rivoluzione — la romanizzazione — i cui esiti finali furono, comunque, “campi arati da orefici” ricorrendo a una definizione di Pier Paolo Pasolini; città degne di nota come suggeriscono, tra l’altro, proprio i monumenti di epoca romana di Brescia (il Capitolium, il teatro, alcune domus ) valorizzati negli ultimi anni, o le collezioni stabili del Museo di Santa Giulia; una vita culturale vivace nel cui ambito si formarono poeti latini di primo piano: Catullo e Virgilio, su tutti.
Lungo il percorso espositivo, articolato in dodici sezioni, il racconto di questo incontro di culture è affidato a quasi 500 reperti. Tra essi spicca sicuramente il frontone di Talamone fatto realizzare dai vincitori per celebrare — ancora decenni dopo — lo scontro del 225 a. C. valutato come decisivo per l’espansione nella Valle Padana.
L’opera realizzata in terracotta rappresenta il mito dei Sette contro Tebe: ai lati sono i carri da guerra di Anfiarao, trascinato agli Inferi, e di Adrasto, in fuga dalla battaglia, entrambi accompagnati da demoni e furie; in posizione centrale, in basso, si trova Edipo tra i due figli morenti, Eteocle e Polinice: il primo è sorretto dalla madre Giocasta, l’altro da un compagno d’armi; il vertice del frontone è occupato da Capaneo raffigurato nel tentativo di scalare le mura della città con accanto altri due guerrieri e una portatrice di fiaccola. Sullo sfondo del frontone, in secondo piano, sono altri guerrieri. Il mito dei Sette contro Tebe , riproposto in chiave simbolica, alludeva al fallimento dell’attacco ad una città e alla sua forza sociale, militare e culturale. Tebe, quindi, come Roma e viceversa.
D’impatto minore, ma altrettanto significativa è la stele di Ostiala Gallenia proveniente dall’area veneta: l’epigrafe è in latino, le due figure maschili indossano tunica e toga, mentre la donna è raffigurata ancora nel suo costume venetico.
Un altro reperto attrae l’attenzione: si tratta di un grande ciottolo di fiume che reca un’iscrizione tracciata in maniera non curata e su una sola riga: vi si ricorda il consolato di Marco Tullio Cicerone nel 63 a. C., nell’anno della congiura di Catilina.
Repubblica 9.5.15
Brixia
Quelle antiche civiltà che incrociavano Roma sulle rive del Po
Da oggi al Museo Santa Giulia di Brescia un percorso archeologico e multimediale sugli scambi tra la Repubblica e i popoli del nord
di Marino Niola


ILPO ha un’anima e la gente di fiume la conosce bene. È la vox populi che scorre e si rincorre dalle Alpi al mare. Diramandosi tra correnti e affluenti, campagne rigogliose e popoli ingegnosi. Quelli che nei secoli hanno dato vita alle civiltà che sono nate da queste acque generose. E che ne hanno mutuato il carattere. Forza tranquilla e perseveranza incrollabile, senso pratico e visionarietà poetica. Quella di Cesare Zavattini e di Enzo Ferrari. Di Carlo Emilio Gadda E di Ermanno. Olmi. Per non dire del sommo Virgilio mantovano.
Per risalire verso le sorgenti materiali e spirituali dell’ethos e dell’etnos padani la Soprintendenza Archeologia della Lombardia, con la Direzione Generale Archeologia del Mibact e il Comune di Brescia e Brescia Musei organizzano la mostra intitolata. Roma e le genti del Po. Un incontro di culture. III-I secolo a. C.( Museo di Santa Giulia, Brescia, da oggi al 17 gennaio 2016) con la coproduzione di GAmm Giunti, che pubblica anche il catalogo.
In realtà quello fra l’antica Roma e gli abitanti del grande fiume è stato un incontro epocale, destinato a disegnare con un tratto indelebile il profilo dell’Italia. Fra paci e guerre, colonizzazioni e ribellioni. Fondazioni e distruzioni di città. Scambi di conoscenze e rivoluzioni territoriali. Come le centuriazioni augustee che hanno lasciato un segno decisivo nel paesaggio agrario padano, assieme a tutti quei disboscamenti e bonifiche che hanno messo a coltura queste terre. Il risultato è quell’immensa distesa produttiva che Napoleone definiva la pianura più feconda del mondo. Solcata da grandi strade consolari, come la via Emilia, che scorre anche lei come un fiume di pietra attraversando presente e passato di questo straordinario intreccio di epoche e di culture. Che spiana il tempo nello spazio, la durata nella distesa. Ci sono luoghi dove la stratificazione è verticale, pietra su pietra, ricordo su ricordo. Dove la storia prende l’aspetto immemoriale di una geologia. E luoghi come la Pianura padana dove invece la stratificazione è orizzontale, e le tracce delle epoche differenti si dispongono le une accanto alle altre, in itinerari spaziali percorribili. Allineando, come suggerisce questa mostra, reperti preistorici, elmi italici, manufatti camuni, falere celtiche, bronzi veneti e affreschi romani, mosaici bizantini e sculture romaniche. In fondo il mormorio lento del Po ci ricorda che la storia stessa ha l’andamento e il comportamento del fiume. Ora impetuoso, ora placido, a tratti tortuoso a tratti lineare.
Giovanni Guareschi, creatura fluviale fin nel midollo, amava dire che sul Po accadono cose che non accadono in nessun altro luogo. Anche perché le voci della pianura corrono liquide e trasfigurano le persone, i ricordi, i luoghi, le opere. Li trasformano in personaggi, in epica, in mitologia, in musica. Dalla morte di Fetonte, il figlio del Sole caduto nell’Eridano, antico nome del fiume, al passaggio degli elefanti di Annibale. Dalle gesta di Adelchi ed Ermengarda, eroi della Longobardia manzoniana, alla calata dei Lanzichenecchi, fino a quella delle truppe naziste. Dagli splendori dei Gonzaga che fanno di Mantova un’autentica capitale acquatica, liquida come la polifonia di Claudio Monteverdi e raffinatamente erotica come gli affreschi mitologici di Giulio Romano. Alle meraviglie della Ferrara estense che trasformano in materia architettonica i palazzi incantati delle maliarde ariostesche.
Grande regno del frumento e del latte, diceva Guido Piovene di questa terra. Ma non solo. Perché qui il dolciastro estenuante della barbabietola si mescola all’odore d’acqua scaldata dall’estate, trasformando questa campagna in un’iperbolica anguria che svapora sotto un sole giaguaro. È il miraggio padano, la bellezza narcotica di una pianura totale, dove i borghi, le contrade e le frazioni sono perdute in uno sprofondo vegetale rigato dai canali che saettano tra i campi come bisce e dai mille bracci splendenti, in cui la grande acqua dirama fino ad aprirsi nel ventaglio del delta.
E alla fine del fiume si distendono le valli, oscillanti tra periodi di magra e periodi di grassa, come in un pendolo biblico obbediente al volere del dio liquido. Che le genti del Po hanno imparato a blandire e a pregare. Come Don Camillo, il parroco nato dalla fantasia di Guareschi, che porta il paese in processione per scongiurare la piena. Non senza il sostegno del comunista Peppone. Esattamente quel che ha fatto qualche tempo fa il parroco di Brescello don Evandro Gherardi, che ha portato il Cristo sulla riva del fiume alla presenza del sindaco e delle autorità.
In realtà quella delle genti del Po è una storia colta e popolare, di corti signorili e di lotte contadine, fatta apposta per produrre racconto. In fondo come dice Paolo Rumiz nel suo bel libro Morimondo, un fiume è una narrazione già fatta.
E non a caso il cinema ha sempre amato queste rive e il popolo che le abita. Da Gente del Po, il primo film di Michelangelo Antonioni, a La donna del fiume di Mario Soldati, altro grande cantore della valle del Po, cui dedicò un memorabile viaggio televisivo che resta un esempio insuperato di come si può raccontare una cultura attraverso il cibo che ama. Fino a Riso amaro , di Giuseppe De Santis che risale le correnti dell’immaginario socialista per celebrare l’epopea del lavoro in risaia. Immortalata nell’acuto dissonan- te e tagliente di cantanti folk come la mondina Giovanna Daffini, la “proletaria che giammai tremò” davanti a nessun padrone dalle belle braghe bianche. Tanto che al suo funerale, quando il prete pronunciò la formula rituale “Signore accogli l’anima della tua serva Giovanna”, il marito sbottò, “Mai fatto la serva a nessuno!”.
Anche se il grande monumento cinematografico del riscatto contadino resta Novecento, il capolavoro di Bernardo Bertolucci, drammatico affresco verdiano che trasforma il patire e il sentire padani in un tratto caratteristico dell’anima nazionale. Proprio come le melodie di Verdi. Che danno parole e musica all’unità del paese. Ecco perché, proprio in quanto italiani, non possiamo non dirci gente del Po.
Repubblica 9.5.15
La Chiesa trovi il modo di parlare all’umanità tutta compresi i non credenti
Un testo inedito di Benedetto XVI introduce il nuovo libro del cardinale Tarcisio Bertone, “La fede e il bene comune”
di Benedetto XVI


EMINENZA ! Scorrendo i testi del Suo nuovo libro, La fede e il bene comune. Offerta cristiana alla società contemporanea , che gentilmente mi ha inviato, mi si sono ripresentati in modo vivo davanti agli occhi gli anni del nostro comune lavoro nel servizio del ministero petrino. Mi è di nuovo risultato molto evidente quante dimensioni oggi abbraccia l’ufficio pastorale di un pastore nella Chiesa di Gesù Cristo. Ufficio pastorale in verità non significa solo che noi nella Chiesa svolgiamo per i fedeli il servizio dei sacramenti e dell’annuncio della Parola di Dio. Mi è risultato chiaro in modo particolare che l’ufficio pastorale abbraccia decisamente anche la dimensione intellettuale, che i collaboratori del cardinale Ruini hanno definito con il termine “amor intellectualis”. Solo se condivideremo le prospettive e le domande del nostro tempo potremo comprendere la Parola di Dio come rivolta a noi nel presente. Solo se parteciperemo alle opportunità e alle necessità del nostro tempo, i sacramenti potranno giun- agli uomini con la loro vera forza.
C’è un altro elemento incluso nell’ufficio pastorale: per quanto in primo luogo ci sia affidata la cura dei fedeli e di chi direttamente è alla ricerca della fede, il servizio del pastore non può limitarsi solo alla Chiesa.
La Chiesa è parte del mondo e perciò essa può svolgere adeguatamente il suo servizio solo prendendosi cura complessivamente del mondo. Allo stesso modo, anche la Parola di Dio, a sua volta, riguarda la totalità della realtà, e l’attualità di essa impone alla Chiesa una responsabilità complessiva. L’impegno profuso nell’enciclica Caritas in veritate , che Ella ha esposto in modo tanto incisivo, mostra l’intreccio dei diversi piani: la Chiesa deve coinvolgersi negli sforzi che l’umanità e la società in quangere to tali compiono per un giusto cammino e deve per questo trovare un modo di argomentare che riguardi anche i non credenti. Solo se essa va oltre se stessa e assume la responsabilità per l’umanità nel suo complesso, la Chiesa rimane anche se stessa nel modo giusto.
Tutto questo emerge chiaramente nei saggi del Suo libro. Penso che trovare rappresentato il procedere di un impegno che abbraccia in tutta la sua ampiezza l’intero spettro dei compiti del nostro tempo farà riflettere anche molti lettori che non appartengono alla Chiesa. Così mi è risultato evidente anche che la nostra collaborazione non poteva limitarsi unicamente a concreti atti di governo, ma spingersi, più in profondità fino all’impegno di servire oggi nel modo giusto la Parola di Dio, il Logos di Dio.
Profitto della circostanza per ringraziarLa per questi anni di collaborazione e auguro che il libro possa far riflettere molti uomini e possa aprire loro anche la via che porta alla fede.
IL LIBRO La fede e il bene comune di Tarcisio Bertone (Libreria Editrice Vaticana, pagg. 453, euro 22) sarà presentato al Salone del libro di Torino
Corriere 9.5.15
I genitori diventano cattivi. La svolta della severità
Una ricerca su 19 Paesi lo dimostra: dall’epoca del «certo che puoi» siamo passati all’«adesso basta»
Rapporto sulle nuove madri e i nuovi padri trentenni
di Chiara Maffioletti


Fino ad ora erano sempre stati considerati come figli. Ma il tempo passa e adesso anche i Millennials — i nati tra gli anni Ottanta e i primi del Duemila, la generazione Y — sono cresciuti e diventati a loro volta genitori. Che cosa hanno in comune rispetto a chi li ha preceduti? Rispetto alle mamme di Baltimora, pronte a scaraventarsi sui loro figli con una raffica di ceffoni (pur nel tentativo di proteggerli) o ai padri che di fronte alla incaute dichiarazioni dei propri pargoli non possono che constatare, con disarmante lucidità, quanto siano pirla?
Questi due esempi paiono in realtà una proto fotografia dei nuovi genitori che, sorpresa, si scoprono essere più severi.
Dopo anni di «certo che puoi» e «ti sei messo la canottiera?», dopo le mamme chiocce e i papà pronti a provvedere ai propri piccoli anche quando piccoli non lo sono più da un pezzo, dopo le remore e i sensi di colpa che hanno divorato i genitori lavoratori, pionieri del tempo «di qualità» spesso confuso con il tempo in cui concedere tutto ai figli, è cresciuta una nuova generazione di genitori e, per la prima volta, una ricerca ce li racconta. Uno studio fatto da Viacom e Nickelodeon, che ha coinvolto 19 nazioni nel mondo (tra cui l’Italia), ci spiega che siamo a un punto di svolta.
Analizzando un campione per nazione di duecento famiglie con figli tra gli 8 e i 14 anni, ne esce che i nuovi genitori si vedono più come figure autoritarie che amici per i figli (anche se in Italia meno). Otto genitori italiani su dieci dichiarano poi di promuovere l’indipendenza dei loro piccoli ma nonostante questo sentono la necessità di esercitare un controllo diretto su alcuni aspetti della loro vita. Tradotto: oggi i genitori vietano molte più cose rispetto a un tempo (ma, anche qui, la situazione italiana è più morbida: il nostro campione è meno rigido di 14 punti percentuali rispetto alla media estera nel far rispettare i divieti) e il mancato rispetto delle regole comporta delle ripercussioni, tipo obbligo di spiegazioni e di scuse. Dopo anni di trattative con i figli, i giovani genitori si dimostrano poco abituati a negoziare e a confrontarsi su quanto stabiliscono, preferendo piuttosto tornare alle origini e usare la voce alta come strumento di richiamo e punizione (quasi il 60% del campione italiano, contro un modesto 25% di media globale).
Ma anche le preoccupazioni del nuovo genitore sono cambiate: la maggiore fonte di ansia (forse dettata dalla consapevolezza) arriva dalla vita digitale dei loro ragazzi (per oltre il 60%) mentre sono più tranquilli quando si parla di tv: meno di un terzo del campione monitora i gusti televisivi dei figli.
I genitori più giovani sarebbero poi meno vicini ai propri figli rispetto alla precedente generazione X (quattro punti percentuali in meno), con il risultato che anche i figli dei Millennials si sentono un po’ meno legati a loro. Ma forse proprio perché i nuovi genitori sono meno complici, esercitano più controllo. Un atteggiamento restrittivo dettato dalla ricerca di sicurezza e da alcuni timori. I nuovi papà e mamme intervengono parecchio sulla navigazione online dei figli ma sono meno inclini, ad esempio, al controllo sui pasti o sull’orario in cui andare a letto.
Il manuale del genitore di oggi si snoda quindi attorno alle voci «severità», «regole» e «fermezza». A cui si aggiunge un’irremovibilità maggiore nel punire i figli: i genitori di oggi hanno più fiducia nel metodo coercitivo (lo sostiene il 41% degli intervistati, 5 punti percentuali in più della generazione X). Il riflesso inatteso è che anche per i figli il metodo funziona. Segno che forse, ogni tanto, sentirsi dare del pirla fa bene anche a loro.
Repubblica 9.5.15
La partita dei diritti
Si sono manifestate riduzioni in ambito sociale, alle quali se ne stanno aggiungendo alcune riguardanti il campo politico
di Stefano Rodotà


SI ANNUNCIA una ripresa di attenzione per i diritti civili, che tuttavia non può essere considerata una partita a sé. Non è mai così quando si tratta di diritti. E questa volta, anzi, impone una riflessione che riguarda complessivamente la confusissima fase politica e istituzionale che stiamo attraversando.
Ai diritti e al loro riconoscimento (o concessione) si è molte volte guardato, e si continua a guardare, in un’ottica “compensativa”. È molto eloquente, in questo senso, la storia dei totalitarismi del Novecento, che hanno del tutto cancellato i diritti politici, cercando di compensarli, appunto, con concessioni sul terreno economico. Ma, in sistemi democratici, proprio i diritti civili sono stati talvolta giocati contro i diritti sociali. Ora, in Italia, si sta delineando una situazione più complessa. Si sono manifestate riduzioni dei diritti sociali, alle quali se ne stanno aggiungendo alcune riguardanti i diritti politici. La dichiarazione di incostituzionalità del Porcellum, infatti, aveva il suo fondamento in una inammissibile riduzione dei diritti dei cittadini per quanto riguarda la rappresentanza, un rischio che accompagna anche la nuova legge elettorale.
Per discutere correttamente di questi problemi, bisogna ricordare la critica alla divisione dei diritti in diverse categorie o generazioni, che rispecchia la vicenda storica del progressivo allargarsi dell’area dei diritti, ma non può divenire un criterio per stabilire una gerarchia tra i diritti riconosciuti, con il trasparente o addirittura dichiarato obiettivo di ridurre la tutela dei diritti sociali. A questa considerazione si deve aggiungere la constatazione della trasformazione che ha portato allo Stato costituzionale di diritto, del quale l’istituzione dei diritti fondamentali costituisce un connotato essenziale. Quando parliamo di diritti, dunque, tocchiamo l’assetto costituzionale nel suo insieme, che non può impunemente essere sottoposto a continui maltrattamenti.
I diritti come ostacolo alla decisione? Lo spirito del tempo ci parla anche di questo. Si insiste su vere o presunte inflazioni dei diritti, sulla necessità di un nuovo equilibrio tra diritti e doveri, soprattutto di bilanciamenti che fanno del calcolo economico l’unico criterio di valutazione dell’ammissibilità di un diritto. Ma, in Italia in particolare, l’accento sulla decisione come bene assoluto, pubblica o privata che sia, sta portando ad interventi taglienti che incidono proprio nella dimensione dei diritti. È avvenuto con il cosiddetto Jobs Act (perché questo travestimento anglofono di una legge che sostituisce nei punti essenziali quella che limpidamente parlava di “diritti e dignità dei lavoratori”?), con prassi mirate alla riduzione delle prerogative dei parlamentari, con una alterazione degli equilibri costituzionali affidata al combinarsi dell’Italicum e della riforma del Senato che fa deperire le possibilità dei controlli.
Il riconoscimento di diritti, infatti, porta anche a redistribuzione di poteri, con l’attribuzione a singoli o gruppi di rilevanti strumenti di controllo. Sembra quasi che siano state fatte prove generali di un assetto complessivo che diventerà più stringente una volta concluso l’iter delle riforme volute dal presidente del Consiglio. Si deve concludere che si sta ridisegnando un nuovo spazio dei diritti, nel quale non trovano posto quelli che possono configgere con la linea di un potere di decisione sempre più accentrato? È coerente tutto questo con la logica costituzionale che dovrebbe essere l’ineludibile punto di riferimento?
La risposta a questi interrogativi, che sono nelle cose, richiede una verifica di quel che sta accadendo o che ragionevolmente si annuncia. Un buon segnale è venuto dall’approvazione della legge sul divorzio breve, e ora si parla di cittadinanza agli immigrati sulla base dello ius soli e di una disciplina delle unioni anche tra persone dello stesso sesso. Provvedimenti attesi, che porrebbero anche rimedio ad una colpevole disattenzione del Parlamento rispetto a ripetute e sacrosante sollecitazioni venute in particolare dalla Corte costituzionale. Nell’attesa dei disegni di legge che daranno concretezza alle promesse, vi sono alcune questioni politiche e istituzionali sulle quali è bene riflettere subito.
La libertà di coscienza, contestata ai parlamentari in una materia come quella della legge elettorale, “principio primo” della democrazia, rifiorirà nel discutere temi come quelli ricordati, in parte almeno riconducibili all’ambigua e pericolosa categoria delle questioni “eticamente sensibili” e dei “valori non negoziabili”? Domanda non astratta, ma che scaturisce dalla composizione della maggioranza di governo, all’interno della quale è presente un partito che cerca di mantenere una sua identità presentandosi proprio come il difensore di valori che sarebbero travolti da iniziative di riforma davvero significative. Come verrà sciolto questo nodo? Prevarranno valutazioni di pura congiuntura politica, com’è accaduto per l’Italicum, con il suo regolamento di conti all’interno del Pd, e come potrebbe accadere con gli alfaniani, ai quali è assai improbabile che si chieda di sostenere buoni riconoscimenti di diritti civili minacciando crisi di governo e elezioni?
Altrettanto necessaria è una riflessione sull’effettiva ampiezza dell’area delle riforme. Se questa fosse delimitata qualitativamente solo secondo i criteri che stanno alla base della cittadinanza agli immigrati e dei diritti sulle unioni tra persone dello stesso sesso, si cancellerebbero certamente discriminazioni inaccettabili e si farebbe un passo nella direzione di una corretta attuazione di principi costituzionali, ma si finirebbe con il ribadire che l’ardimento riformatore può giungere solo fin dove non incide sulla decisione politica o economica. Ma vi è un ordine del giorno proposto dalla realtà, anche istituzionale, che rende inaccettabile scelte come questa.
Quale sorte spetterà ai diritti sociali? Si è appena cominciato a parlare con approssimazione di limiti al diritto di sciopero. Il governo ha una pericolosa delega in bianco per disciplinare i controlli a distanza sui lavoratori, che sembra concepita come rafforzamento dei poteri di controllo dell’imprenditore in palese contrasto con i criteri indicati da una raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Continuerà quella “eutanasia” del diritto del lavoro di cui parla Umberto Romagnoli? O si comincerà a rendersi conto dell’importanza della ricostruzione della “cittadinanza sociale”? Diseguaglianze, disoccupazione, povertà, restrizioni alla tutela pubblica della salute la rendono sempre più precaria. E questo stato delle cose, insieme all’incipiente riduzione della cittadinanza politica, mette in discussione l’insieme dei diritti di cittadinanza.
Rischi per i diritti vengono dalle risposte frettolose ad emergenze vere o costruite, com’è evidente nelle norme già approvate sull’antiterrorismo e da quelle minacciate sulle intercettazioni. Una stagione di rinnovata attenzione per i diritti deve misurarsi con tutto questo. È una consapevolezza indispensabile per contrastare le derive verso una democrazia senza popolo, e svuotata di diritti.
Repubblica 9.5.15
I debiti non vanno sempre pagati
di Thomas Piketty


PER alcuni, la risposta è ovvia: i debiti vanno sempre pagati, non c’è alternativa alla penitenza, soprattutto quando è incisa nel marmo dei trattati europei. Eppure, un rapido colpo d’occhio alla storia del debito pubblico, soggetto appassionante quanto ingiustamente trascurato, mostra che le cose sono molto più complesse di così.
Prima buona notizia: in passato ci sono stati casi di debiti pubblici ancora più importanti di quelli che osserviamo ora, e si è sempre riusciti a trovare una soluzione, facendo ricorso a una grande varietà di metodi, che possiamo suddividere così: da una parte il metodo lento, che punta ad accumulare pazientemente surplus di bilancio per rimborsare poco a poco prima gli interessi e poi il capitale del debito in questione; dall’altra parte una serie di metodi che puntano ad accelerare il processo: inflazione, imposte eccezionali, puri e semplici annullamenti del debito.
Un caso particolarmente interessante è quello della Germania e della Francia, che nel 1945 si ritrovavano con un debito pubblico di dimensioni pari a due anni di prodotto interno lordo (il 200 per cento del Pil), un livello ancora più elevato del debito pubblico che affligge oggi la Grecia o l’Italia. All’inizio degli anni ‘50, questo debito era ridisceso a meno del 30 per cento del Pil. È evidente che una riduzione così rapida non sarebbe mai stata possibile solo attraverso un lento accumulo di surplus di bilancio. Al contrario: i due Paesi utilizzarono tutta la vasta casistica dei metodi rapidi. L’inflazione, molto alta su entrambe le sponde del Reno fra il 1945 e il 1950, fu l’elemento centrale.
Alla Liberazione, la Francia introdusse anche un’imposta eccezionale sui capitali privati, che arrivava al 25 per cento sui patrimoni più alti e addirittura al 100 per cento per gli arricchimenti più significativi avvenuti tra il 1940 e il 1945. I due Paesi ricorsero anche a forme diverse di “ristrutturazioni del debito”, definizione tecnica utilizzata dagli esperti di finanza per indicare l’annullamento puro e semplice, totale o parziale, del debito (si parla anche, più prosaicamente, di haircut, sforbiciata): per esempio in occasione dei famosi accordi di Londra del 1953, dove fu annullato il grosso del debito estero tedesco. Furono questi metodi rapidi di riduzione del debito — e in particolare l’inflazione — che permisero alla Francia e alla Germania di lanciarsi nella ricostruzione e nella crescita del dopoguerra senza questo fardello. È grazie a ciò se i due Paesi negli anni ‘50 e ‘60 furono in grado di investire nelle infrastrutture, nell’istruzione e nello sviluppo economico. E sono proprio questi due Paesi che adesso spiegano al Sud dell’Europa che il debito pubblico va rimborsato fino all’ultimo euro, senza inflazione e senza misure eccezionali.
Attualmente la Grecia avrebbe un lieve avanzo primario: in altre parole, i greci pagano di tasse leggermente più di quello che ricevono sotto forma di spesa pubblica. Secondo gli accordi europei del 2012, la Grecia dovrebbe mantenere per decenni un avanzo colossale del 4 per cento del Pil per rimborsare i suoi debiti. Si tratta di una strategia assurda, che la Francia e la Germania, per nostra grande fortuna, non hanno mai applicato a loro stesse.
In questa incredibile amnesia storica, la Germania porta chiaramente una pesante responsabilità. Ma simili decisioni non avrebbero mai potuto essere adottate se la Francia si fosse opposta. I governi francesi che si sono succeduti, di destra e poi di sinistra, si sono dimostrati incapaci di valutare adeguatamente la situazione e proporre un’autentica rifondazione democratica dell’Europa.
Con il loro miope egoismo, la Germania e la Francia maltrattano il Sud dell’Europa, e al tempo stesso si maltrattano da sole. Con un debito pubblico che si avvicina al 100 per cento del Pil, un’inflazione nulla e una crescita fiacca, questi due Paesi impiegheranno anch’essi decenni prima di ritrovare la capacità di agire e investire nel futuro. La cosa più assurda è che i debiti europei del 2015 sono essenzialmente debiti interni, come peraltro quelli del 1945. Certo, la quota di titoli di Stato detenuta da altri Paesi dell’Eurozona ha raggiunto proporzioni senza precedenti: i risparmiatori delle banche francesi detengono una parte del debito tedesco e italiano; le istituzioni finanziarie tedesche e italiane possiedono una bella fetta del debito francese; e via discorrendo. Ma se si guarda alla zona euro in generale, allora possiamo dire che il debito è tutto nelle nostre mani. Non solo: deteniamo più attività finanziarie noi fuori dalla zona euro che il resto del mondo nella zona euro.
Invece di impiegare decenni per rimborsare il nostro debito a noi stessi, spetta a noi, e a noi soltanto, organizzarci in un altro modo. ( Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 9.5.15
Cento giorni di Tsipras e l’impasse delle trattative hanno riportato la Grecia sull’orlo della recessione
di Ettore Livini


MILANO I primi cento giorni del governo di Alexis Tsipras si chiudono con due certezze: l’accordo tra la Grecia e i creditori — pur «vicino», come ha ribadito ieri il premier — non c’è ancora e non arriverà nemmeno all’Eurogruppo di lunedì. Mentre l’economia di Atene, soffocata dallo stallo dei negoziati e dalla crisi di liquidità, ha fatto dietrofront. Le banche faticano a far credito, lo Stato non paga i fornitori, i cittadini non versano le tasse. E i segnali di ripresa registrati a fine 2014, sono già andati in fumo, rendendo ancor più complicato il salvataggio del Paese.
UNA GELATA A 360°
I numeri, nella loro fredda logica, dicono tutto: nei primi tre trimestri dello scorso anno davanti al Pil ellenico era rispuntato il segno più. Percentuali da prefisso telefonico (+0,7%), ma oro puro in un Paese che in un lustro ha bruciato il 25% della sua economia. Poi il vento è cambiato. Tra ottobre e dicembre 2014, quando l’ex presidente del Consiglio Antonis Samaras ha convocato le elezioni anticipate, l’indice è tornato a scendere. E da allora il barometro è rimasto sul brutto fisso. «La Grecia rischia di tornare in recessione », ha ammesso l’Ufficio bilancio del Parlamento nei giorni scorsi. La gelata è a 360 gradi. E i colpevoli (oltre al cappio al collo di Atene messo dai creditori centellinando la liquidità) sono un po’ tutti. Il governo, per far quadrare i conti dello Stato e pagare i prestiti di Bce, Ue e Fmi, ha smesso di pagare i suoi fornitori. Nei primi tre mesi del 2014 l’esecutivo Samaras aveva sborsato quasi 600 milioni a questa voce. Quest’anno le uscite sono state solo di 43 milioni. Un giro di vite che ha consentito di ottenere un avanzo in linea con le promesse all’ex Troika ma che ha soffocato molte piccole e medie imprese che campano vendendo beni e servizi alla pubblica amministrazione.
FORNITORI A SECCO
Stessa cosa è successo in ogni angolo della funzione pubblica. Gli ospedali hanno ricevuto dall’esecutivo tra gennaio e marzo trasferimenti per 63 milioni. Briciole rispetto al loro fabbisogno reale visto che solo a gennaio hanno dovuto ordinare medicinali per 88 milioni. E il congelamento della liquidità ordinato dal governo nelle ultime settimane a tutti gli enti statali è stato il colpo di grazia.
Lo stallo politico ha soffocato nella culla anche la flebile ripresa dei consumi. I greci, dopo aver perso il 45% del loro reddito disponibile dal 2008, avevano ripreso a spendere lo scorso Natale. Tutto già finito. A febbraio le vendite al dettaglio sono calate del 3,3%, Non solo. Il rischio di default ha convinto molti a ritirare i soldi dalle banche: da gennaio sono spariti dai conti correnti 26 miliardi, quasi il 15% del totale. Soldi che di sicuro non sono andati a pagare le tasse visto che nei primi tre mesi di quest’anno il fisco ha accumulato altri 3,5 miliardi di arretrati (il totale è a quota 74,6 miliardi) incassando 700 milioni in meno delle stime, prudenti, del governo Syriza.
RISCHIO AUSTERITY-BIS
Bce, Ue e Fmi — impegnate in queste ore in frenetiche trattative per un accordo sulle riforme che sblocchi gli aiuti alla Grecia — ne hanno preso atto: Bruxelles ha rivisto dal +2,5% al +0,5% le previsioni sul Pil di quest’anno. Anche il rapporto debito/Pil è stato ritoccato in peggio alla stratosferica quota del 180%. Numeri che tradotti nella quotidianità del Paese rischiano di tradursi in nuova austerità: per raggiungere l’obiettivo di avanzo primario del 4% imposto dall’ex- Troika, Tsipras dovrebbe varare oggi una nuova manovra da almeno 5 miliardi. Impensabile per una nazione già in ginocchio.
La speranza ovviamente è che un’intesa rapida ribalti il trend. Di sicuro, salvo sorprese, non accadrà all’Eurogruppo di lunedì. «Ci sono progressi, il lavoro è costruttivo ma i tempi non saranno brevi», hanno detto ieri dopo un faccia a faccia il ministro al Tesoro italiano Pier Carlo Padoan e il numero uno dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. «Siamo sicuri che la Grecia troverà i soldi per rispettare le proprie scadenze», hanno detto ieri fonti Ue. In primis quella di un prestito da 760 milioni dell’Fmi martedì prossimo. Il rischio però è di tirare troppo la corda. «Non vorrei essere costretto a decidere se con i soldi che ho devo pagare i creditori o gli stipendi e le pensioni », ha ribadito di recente Tsipras. Con le casse e l’economia del Paese in questa situazione, il dilemma potrebbe presentarsi al premier molto prima del previsto. E le conseguenze, per la Grecia e per l’euro, potrebbero essere disastrose.
Corriere 9.5.15
Russia e Cina si piacciono molto (ma non lasciamo che vadano a nozze)
di Guido Santevecchi


È il presidente cinese Xi Jinping il leader più importante che assisterà oggi a Mosca al fianco di Vladimir Putin alla grande parata per i 70 anni dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale.
L’assenza dei capi di governo occidentali è colmata anche dai soldati dell’esercito cinese, inviati a marciare spalla a spalla con i compagni russi.
Pechino sta ottenendo armi ad alta tecnologia dai russi: ha acquistato 24 caccia Sukhoi Su-35; sei sistemi missilistici antierei S-400; sottomarini della classe Kalina di nuova generazione. E tra una settimana nove unità navali delle flotte russe e cinese entreranno nel Mediterraneo per manovre congiunte. Ma non ci sono piani per un’alleanza militare formale, resta la memoria della rottura sino-sovietica del 1969. È sicuro però che oggi Xi ammira Putin per il suo decisionismo e la sua energia. I due si piacciono, non perdono occasione per incontrarsi.
Così Cina e Russia firmano decine di accordi commerciali: promettono di portare l’interscambio a 100 miliardi di dollari l’anno; tracciano la mappa della Nuova Via della Seta; cominciano la costruzione di due grandi gasdotti. Putin, isolato in Occidente per l’impresa avventurista in Crimea e Ucraina, ha staccato un assegno da 18 miliardi di dollari per partecipare al fondo strategico dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) al quale Pechino ha già dedicato 41 miliardi: un’altra mossa, dopo la Banca per le infrastrutture a guida cinese, per smarcarsi dal predominio finanziario americano.
Sul fronte economico la Russia è il partner debole di questa nuova solidarietà e Pechino, investendo miliardi negli Stan ex sovietici, dal Kazakhstan all’Uzbekistan, penetra nella periferia dell’ex impero sovietico.
Insomma, Russia e Cina possono essere partner che condividono il letto, ma hanno sogni diversi.
Stati Uniti ed europei debbono stare attenti a non cercare di isolare la Russia e contenere troppo la Cina: potrebbero spingere le due potenze a trasformare l’intesa in un asse strategico.
Corriere 9.5.15
Mosca, la parata della rivalsa sull’Occidente
Stamane sulla Piazza Rossa va in scena la più grande sfilata militare della storia russa e sovietica
di Paolo Valentino


MOSCA Sarà l’inestricabile racconto di due Russie, la Russia della memoria e la Russia della rivalsa. Sarà la celebrazione orgogliosa di una vittoria, che cambiò il corso della Storia e forgiò nel sangue di 27 milioni di vittime l’identità di un popolo. E sarà la proiezione assertiva e neo-nazionalista di un Paese, che si sente circondato da nemici e ripropone l’idea della propria forza e il mito della propria invincibilità.
Non ha lasciato nulla al caso, Vladimir Putin, nella sceneggiatura del settantesimo anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica, l’unica definizione che i russi posseggono per la Seconda Guerra Mondiale. Ogni dettaglio, ogni momento di questo 9 maggio sarà parte di un affresco collettivo, ricco di suggestioni e di messaggi sottotraccia. In fondo, perfino la diserzione di gran parte dei 68 capi di Stato e di governo invitati a partecipare alla cerimonia, soprattutto quella dei principali leader occidentali, alimenta la narrativa della fortezza assediata alimentata dallo dello Zar del Cremlino, che ostenta indifferenza, mentre accoglie i nuovi amici venuti da Oriente.
Alle 10 di stamane la Piazza Rossa, aggettivo che in russo antico vuol dire bella, sarà palcoscenico della più grande parata militare nella vicenda russa e sovietica: tra il museo storico e la cattedrale di San Basilio sfileranno più di 16 mila uomini, fra i quali 1300 soldati di unità speciali straniere, guardie d’elite serbe, granatieri indiani, guardie d’onore cinesi. E ancora 150 aerei da combattimento, più di 200 veicoli corazzati, fra i quali l’ultimo gioiello della difesa russa, l’Armata T-14, il micidiale carro armato di nuova generazione, assurto a simbolo del programma di riarmo da 650 miliardi di euro deciso da Putin. E a ricordare la parità strategica con gli Stati Uniti, ci saranno i nuovissimi RS-24 Yars, i missili intercontinentali che possono trasportare fino a 10 testate nucleari indipendenti.
Sul palco che nasconde il Mausoleo di Lenin, ci saranno il cinese Xi Jinping (con il quale ieri Putin ha firmato una serie di accordi economici) e l’indiano Modi, il presidente egiziano Al-Sisi e il leader di Cuba Raúl Castro. Assenti Obama, Hollande, Cameron e Renzi per protesta contro la politica di Putin in Ucraina, solo alla deposizione dei fiori sulla tomba del milite ignoto lo Zar verrà affiancato da alcuni ministri degli Esteri occidentali, il francese Laurent Fabius e il nostro Paolo Gentiloni. Diversa la scelta della Germania, che ha già mandato il capo della diplomazia, Frank-Walter Steinmeier, a Volgograd, già Stalingrado, teatro della battaglia che cambiò le sorti del conflitto. Angela Merkel verrà domani e tornerà con Putin sotto le mura del Cremlino, per rendere omaggio all’eroismo degli antichi nemici. A mezzogiorno, tutte le chiese di Mosca suoneranno a morto per 15 minuti. In ogni tempio ci sarà un de profundis. E’ la prima volta che la Chiesa ortodossa, pilastro del sistema putiniano, dedica una liturgia ai caduti nella Grande Guerra Patriottica. Diventerà tradizione.
Ma per quanti simbolismi e quanta volontà di potenza Vladimir Vladimirovich avvia voluto caricare nelle celebrazioni, nulla poteva essere aggiunto e nulla può considerarsi esagerato nella totale identificazione dei russi con questa ricorrenza. Non ci sarà nulla di forzato nel corteo dei familiari che porteranno i ritratti dei caduti lungo via Tverskaya per confluire sulla Piazza Rossa, o nei veterani che forse per l’ultima volta parteciperanno a un 9 maggio così significativo. Non c’è nulla di posticcio nella marea di popolo, che dalle prime ore del mattino inonderà come un mare calmo nel centro della capitale.
Certo l’umore sarà quello alimentato da mesi di retorica grande-russa e antioccidentale. Ma con o senza la propaganda del Cremlino, la Guerra Patriottica resta la placenta della memoria collettiva di un popolo, che come nessuno ha pagato nella lotta contro il nazismo: più della metà dei russi ha avuto un parente morto nel secondo conflitto mondiale. Perfino Putin, abbandonando la tradizionale immagine ferrigna, ha ricordato la lotta per la sopravvivenza dei suoi genitori nell’assedio di Leningrado. E’ stata la fugace concessione di un leader, che di regola preferisce il linguaggio della forza e la retorica dell’orgoglio nazionale.
Repubblica 9.5.15
Gran Bretagna, il Labour
Noi illusi e accecati dai nostri leader abbiamo perso il contatto col Paese
di Alastair Campbell


LONDRA DOPO il lunghissimo post di ieri, oggi uno molto breve per ammettere che ho sbagliato. Non a pensare che il Labour doveva vincere, ma – questo è evidente – a pensare che avrebbe vinto. A volte, quando consiglio le persone con cui lavoro, dico di stare sempre in guardia dal rischio di essere talmente immersi nella bolla del proprio team da finire per credere alla propria stessa propaganda, perdendo di vista quello che sta succedendo davvero.
Questa volta evidentemente, riguardando quello che dicevo negli ultimi giorni e nelle ultime settimane, è successo a me, e a molti altri. Ma sembrava davvero, guardando non solo ai sondaggi ma anche ai dati del Labour e al mio istinto in giro per il Paese, che i Tory non sarebbero riusciti ad assicurarsi una maggioranza e che Ed Miliband sarebbe quindi potuto riuscire a diventare primo ministro. Non ha senso far finta che sia qualcosa di diverso da un risultato disastroso: e sì, soprattutto in Scozia, ma anche in Inghilterra.
Forse una delle ragioni per cui ci troviamo in questa situazione è che abbiamo perso troppo tempo per eleggere un nuovo leader dopo la sconfitta di Gordon Brown nel 2010, consentendo in questo modo ai Tory di impostare l’approccio politico all’economia per tutta la legislatura; e non abbiamo rintuzzato in modo abbastanza chiaro ed energico i loro attacchi contro il bilancio complessivo dei nostri governi, né abbiamo saputo proporre argomenti e politiche capaci di costruire una coalizione al centro e alla sinistra del panorama politico.
Ma anche se sono del parere che abbiamo perso troppo tempo per eleggere un leader, l’ultima volta, stavolta penso che il dibattito sul futuro del partito dovrebbe essere ancora più lungo. Forse perché uno dei nostri problemi è che in realtà non abbiamo avuto il dibattito che sarebbe stato necessario, fra di noi e con l’opinione pubblica, dal momento in cui Tony Blair ha lasciato il posto a Gordon Brown. Dopo un risultato così disastroso dovrà esserci un esame di coscienza molto approfondito, e un’analisi a viso aperto su come abbiamo fatto ad arrivare dalla posizione di un partito che per un decennio e più è stato la forza dominante della politica britannica alla situazione in cui ci troviamo oggi. Sono domande a cui non possiamo, e non dobbiamo, dare una risposta frettolosa. (Testo tratto dal blog di Alastair Campbell Traduzione Fabio Galimberti)
Repubblica 9.5.15
A un anno dalla direttiva che ordinava di declassificare i documenti il primo bilancio. Le vittime: troppo poco
Quelle migliaia di pagine che possono svelare i segreti delle stragi
di Alberto Custodero


ROMA «DAI documenti resi pubblici sulle stragi, si percepisce l’esistenza di una struttura, o meglio di una sovrastruttura, che impedisce di arrivare alla verità». Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione “2 Agosto” (eccidio di Bologna), non nasconde la sua delusione dopo aver letto le prime carte declassificate provenienti dai ministeri dell’Interno e degli Esteri. «È il muro di gomma degli archivi», chiosa. Concetto ribadito dalla presidente dei familiari della strage di Ustica, Daria Bonfietti, che ha messo in dubbio la modalità con la quale sono state scelte, dai funzionari di ministeri, forze dell’ordine e 007, le carte da rendere pubbliche rispetto a quelle da mantenere segrete.
A un anno dalla direttiva Renzi che ha disposto la declassifica dei documenti sulle stragi, all’Archivio centrale dello Stato si sono riuniti, ieri, per la prima volta, archivisti, familiari delle vittime. E gli enti detentori dei “segreti”. Per il senatore Sergio Flamigni, il decano degli studiosi delle stragi in Italia, «è comprensibile che la pubblicazione di documenti di scarsa importanza generi uno stato d’animo di delusione diffuso. I familiari delle vittime si aspettavano finalmente di conoscere la verità, tenuto conto che la gran parte delle stragi non ha avuto “soluzione” giudiziaria ». Tuttavia, prosegue Flamigni, «è stato positivo» l’incontro «tra chi detiene i segreti, e chi ha sete di verità», avvenuto alla vigilia della celebrazione del Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo. La desegretazione riguarda la strage di Piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Piazza della Loggia, Brescia (1974), Italicus (1974), Ustica (1980), Stazione di Bologna (1980), Rapido 904 (1984). Un oceano di carte, svariate decine di migliaia di documenti da catalogare, con problemi di logistica, costi e burocrazia. Il colonnello Alessandro Puel, capo Ufficio sicurezza dell’Arma, ha spiegato che «i carabinieri hanno censito 34mila documenti “segreti”, 11mila già versati». Non è facile, ha detto poi il viceprefetto Franca Guessarian, responsabile della “Segreteria Speciale” del ministero dell’Interno, «districarsi nella normativa sul segreto. Ogni carta, infatti, va declassificata con l’autorizzazione dell’ente che l’ha generata». Una procedura che rischia di dilatare all’infinito i tempi di pubblicazione.
Corriere 9.5.15
Che cosa cambia per i pensionati? La sentenza della Consulta Effetti per 5,1 milioni di pensionati
Le ipotesi allo studio per i rimborsi. Ripagare tutti costerebbe 14 miliardi
Sarà usato il tesoretto per il buco delle pensioni «Ma non basterà»
di Domenico Comegna


Fra le ipotesi allo studio per limitare il costo dell’operazione rimborso degli arretrati, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il blocco della rivalutazione delle pensioni deciso dal governo Monti, c’è anche un contributo di solidarietà. Un prelievo aggiuntivo che potrebbe essere applicato agli assegni più alti, al di sopra dei 5 mila euro lordi al mese. Una buona parte dei soldi deve venire per forza da altre coperture, e da solo «il tesoretto da 1,6 miliardi non basta». Sarà dunque necessario trovare risorse dallo stesso sistema pensionistico, senza ridare tutto a tutti e limando qualcosa per il futuro.

La soglia dei 1.400 euro e le possibili restituzioni graduali La decisione dei giudici dovrà essere applicare automaticamente
Quanti e quali sono i pensionati interessati?
Tutte le rendite che alla data del 31 dicembre 2011 erano in pagamento con un importo superiore a 1.403 euro lorde (1.200 euro al netto delle tasse), ossia il triplo del trattamento minimo di allora. Le pensioni gestite dall’Inps alla data del primo gennaio 2015, con esclusione di quelle di tipo assistenziale (invalidità civili e pensioni sociali), sono circa 14 milioni e 300 mila. Di queste, 5 milioni e mezzo, grosso modo, registrano un importo superiore a 1.500 euro. Eccoli, dunque, gli assegni interessati alla recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il congelamento dell’indicizzazione. Le pensioni oltre i 1.403 euro, lo ricordiamo, sono state bloccate dalla riforma Fornero, e per ben due anni non sono state adeguate al caro vita. Il blocco del 2012 e del 2013, inoltre, ha comportato una perdita che si ripercuote per decenni e sterilizza gli effetti moltiplicativi degli adeguamenti (niente aumenti sugli adeguamenti). Nel biennio 2014-2015 invece l’adeguamento è stato calcolato sull’intero importo, con una percentuale del 100%, ma solo per tutti quelli che hanno un assegno fino a tre volte il minimo, mentre è diminuito per le altre categorie d’importo dallo 0,95% fino allo 0,40% (quest’anno con l’inflazione 2014 allo 0,2%, l’adeguamento praticamente non c’è stato). Senza tener conto che dal 1992 tutte le rendite non sono più agganciate agli aumenti contrattuali dei lavoratori in attività, come avveniva una volta. Ma solo all’inflazione (e in modo parziale). In vent’anni, per farla breve, gli assegni Inps hanno visto praticamente evaporare il loro potere d’acquisto.
A quanto ammonta il “buco” nei conti pubblici?
È la guerra delle cifre. In un primo momento, l’Avvocatura dello Stato aveva stimato il valore del blocco in 4,8 miliardi di euro. Ma questa somma andrebbe più che raddoppiata, perché l’adeguamento all’inflazione resta incorporato nella pensione e quindi si trascina negli anni successivi. Bisognerebbe rimborsare quindi anche per il 2014 e 2015. Inoltre, andrebbe prevista una maggiore spesa per gli anni prossimi, dovuta al ricalcolo delle pensioni stesse e al fatto che i futuri adeguamenti all’inflazione avverranno su un importo pensionistico maggiore. Le organizzazioni sindacali stimano che la mancata indicizzazione, ha sottratto ai pensionati ben 9,7 miliardi, pari ad una perdita media pro-capite di circa 1.800 euro. E i calcoli fatti a tavolino (Inps e Ministero dell’Economia) dicono che la sentenza costituzionale costerebbe non solo 10 miliardi di euro per chiudere i conti con il passato. Ma anche 5 miliardi l’anno da qui in avanti. Un peso non sostenibile, anche considerando che quei 5 miliardi sono lordi e quindi in parte tornerebbero indietro allo Stato sotto forma di tasse. Sono comunque troppi. Da qui l’idea di introdurre diversi scaglioni di rimborso, restituendo ad alcuni tutto, ad altri solo una parte, ad altri niente (i soliti pensionati “d’oro”, ossia coloro che godono di un assegno lordo di 3 mila euro, poco più di 2 mila euro netti in tasca). Il meccanismo, però, sarà più complesso di quello immaginato all’inizio.
Cosa fare per farsi rimborsare?
A seguito della pubblicazione (lo scorso 30 aprile) della sentenza della Corte Costituzionale n. 70/2015, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della cristallizzazione della perequazione automatica, la norma che la prevedeva (l’articolo 24, comma 25, della legge 214/2011) ha cessato di avere efficacia, con effetto retroattivo, dal giorno successivo (ossia dal 1° maggio). Questo è quanto stabilisce la stessa Costituzione (in base all’articolo 136). Il lettore deve scusarci per il tecnicismo utilizzato, ma era necessario per inquadrare meglio la questione. Ebbene, data l’automaticità degli effetti della pronuncia della Consulta, non sembra dunque consentito che un possibile provvedimento (si parla di un decreto legge) approvato oggi, possa incidere retroattivamente su un diritto già entrato nel patrimonio dei pensionati interessati. Non serve quindi presentare alcun ricorso all’Inps. Anche se le maggiori organizzazioni sindacali si stanno attrezzando per operare da intermediari, se non altro per sollecitare l’ente a fare in fretta. In proposito, l’Inps ha già fatto sapere che eventuali domande di ricostituzione (di ricalcolo) della pensione non potranno essere accolte, fino all’adozione di specifiche iniziative legislative.
Corriere 9.5.15
Renzi, irritazione per la sentenza «Danno al Paese»
Tanto è sospettoso per i metodi e la tempistica adottati dalla Consulta, quanto si mostra cauto nella reazione, e chiede a tutti di «pazientare», di «evitare le polemiche»
Ma ciò non toglie che Renzi consideri la sentenza sulle pensioni «un danno arrecato alla credibilità del Paese».
di Francesco Verderami


Palazzo Chigi e il verdetto «Un danno per il Paese»
L’irritazione di Renzi per l’assenza di comunicazione dalla Consulta
Sono molte le ragioni che hanno indotto il premier a questo convincimento. Certo si è infuriato per l’assenza di etichetta istituzionale della Corte, che ha violato il patto di collaborazione tra organi dello Stato, tenendo il governo all’oscuro del verdetto, e suscitando a Palazzo Chigi molti interrogativi estranei alle logiche giurisprudenziali. E non c’è dubbio che l’emergenza economica provocata dalla sentenza sia un fattore rilevante.
Ma non il più importante, secondo il leader del Pd. A suo giudizio infatti la vicenda rischia di produrre un grave effetto, un processo cioè di «deresponsabilizzazione in chi governa», perché di qui in avanti verrebbe offerto un alibi a quanti — in futuro — decidessero di «scaricare» sui loro successori eventuali falle di gestione: «Tanto la Corte sentenzierà fra qualche anno...».
L’anno che verrà per Renzi è già arrivato, tocca a lui oggi sobbarcarsi l’eredità di scelte altrui, vittima di una sorta di contrappasso della storia, se è vero che si presentò al Paese e ai partner dell’Unione dicendo «basta con i tecnici, che hanno provocato tanti danni in Italia e in Europa». Se il taglio delle pensioni sia stato un danno, un errore, o più semplicemente una scelta dettata dall’emergenza, ora poco importa, il punto è che i cocci sono i suoi.
Anche se gli resta un dubbio che somiglia tanto a una polemica: «Ci fosse stato qualcuno della minoranza del mio partito, in questi giorni, che avesse detto qualcosa... No che non l’hanno detta, allora — da Bersani a Letta — tutti votarono a favore del provvedimento di Monti». Lui che ha scommesso sul «ritorno al primato della politica» è gioco forza costretto a pagare la cambiale che gli impone di cambiare corso. E non sarà facile.
Perché Renzi finora aveva interpretato un unico ruolo. Vestendosi da rottamatore, riformatore, innovatore, al dunque aveva offerto al Paese sempre lo stesso, identico profilo: nella sua narrazione era il «buono» che si proponeva di cambiare il sistema politico con l’Italicum e la riforma del Senato, che si distingueva per misure di equità fiscale con gli ottanta euro, che puntava al rilancio della scuola con centomila nuovi assunti.
Adesso,per effetto di una sentenza della Consulta, gli toccherà la parte del «cattivo», a cui spetterà decidere quanti (e quanto) riceveranno ciò che la Corte stabilisce essere un loro diritto. Proverà a fare di necessità virtù, già sta pensando alla controffensiva mediatica per limitare i danni. Ma è consapevole che saranno molti gli scontenti, e che forse il suo provvedimento finirà di nuovo sotto la lente di osservazione dei giudici costituzionali.
È questa l’altra metà del «danno», stavolta alla sua immagine e al suo modo di proporsi all’opinione pubblica: perché sa che toccare le pensioni significa disorientare i cittadini, provocare un abbassamento del livello di affidabilità dello Stato, innescare un meccanismo di sfiducia e d’incertezza per il futuro. Tutto il contrario di quanto si è proposto di fare da un anno a questa parte, con le dosi massicce di ottimismo che non ha mai smesso di somministrare.
Perciò entra periodicamente in frizione con l’Istat. È vero, l’altro giorno il report dell’Istituto di statistica lo ha soddisfatto, anche se si trattava solo di una previsione del futuro. Ma ancora nel recente passato, appena due Consigli dei ministri fa, Renzi si è lasciato andare all’ennesima sortita contropelo: «L’Istat deve pubblicare i dati? Va bene, pubblichi questi dati. Ma su come darli occorre una comunicazione condivisa con il governo». Ad alleati e compagni di partito, ricorda qualcuno per questa sua allergia verso gli organismi indipendenti: dalla magistratura, alla Commissione europea, fino alla Corte Costituzionale...
Renzi il «buono» e Renzi il «cattivo». Lo sdoppiamento è inevitabile, anche se il premier — nel suo negoziato con Bruxelles — sta tentando di camuffarsi nel suo nuovo ruolo, mirando a posticipare il varo del provvedimento sulle pensioni dopo le urne delle Regionali, per evitare emorragie nel consenso. Tuttavia è consapevole che il tema impatterà sulla campagna elettorale, sa che gli avversari alzeranno il livello della polemica, ed è alla ricerca di una strategia di comunicazione che sia più efficace di quella che «non ha funzionato» per la riforma della scuola. L’eredità pesa.
La Stampa 9.5.15
Pensioni, imbarazzo a Bruxelles
La Ue chiede chiarezza sui conti
“Senza numeri non si può essere precisi sulle correzioni richieste per il deficit”
di Marco Zatterin


Le dichiarazioni ufficiali trasudano miele. «Sono fiducioso che il governo italiano prenderà la decisione giusta», assicura da Roma il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, a chi gli domanda un commento sugli effetti della sentenza previdenziale della Consulta sull’iter europeo dei nostri conti pubblici. «Ho confermato che lavoriamo su misure che minimizzino l’impatto sul bilancio», precisa il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, assicurando che si ottempererà «agli obblighi imposti dalle regole Ue». Tutto bene, a sentir loro. Ma a Bruxelles, l’impressione è altra: i contatti bilaterali procedono serrati e fluidi, ma qualche imbarazzo e confusione di troppo complica il cammino.
Un brutto imprevisto, in effetti. Siamo nelle fasi decisive del cosiddetto «semestre europeo», la strategia con cui i paesi dell’Unione hanno deciso di coordinare politiche e interventi di natura macroeconomica e fiscale. L’Italia ha inviato il Def il 28 aprile, con due giorni di anticipo rispetto alla deadline.
La doccia fredda
Poi, mentre la Commissione Ue limava le previsioni economiche di primavera pubblicate martedì, è arrivata la doccia fredda della Corte Costituzionale e col suo conto potenzialmente pesante, variabile da 5 a 19 miliardi a seconda delle fonti. E’ una somma che può allontanare il rispetto degli impegni e che, al contempo, rende più difficile il lavoro dell’esecutivo. Il quale, mercoledì, dovrebbe presentare le raccomandazioni «specifiche» su ogni fase. In pratica, suggerire i percorsi di correzione fiscale e politica.
Qualche giorno fa a Palazzo Berlaymont auspicavano di poter avere informazioni puntuali su dati e rotta già all’Eurogruppo di lunedì. Ieri più fonti si sono affrettate a dire che la sentenza della Consulta non influenzerà le raccomandazioni, concetto che pare avere un approccio più politico che tecnico: si lascia che Roma manovri e si rimanda il giudizio. «Senza numeri non si può essere precisi sullo sforzo correttivo richiesto per il deficit primario», ammette però un addetto ai lavori. Ovvero su quale debba essere l’intervento per il 2015 (sinora è accettato lo 0,25 del pil) e il 2016 (dovrebbe essere 0,5, ma Roma gioca la carta delle riforme per avere un altro sconto).
Le raccomandazioni
La prima raccomandazione delle 7-8 attese riguarda proprio il budget. L’obbligo di risarcire i pensionati della mancata indicizzazione decisa dal governo Monti nel 2011 suscita incertezza. Una soluzione potrebbe consistere nell’indicare un percorso e sospenderlo in attesa di notizie più precise, le stesse che il governo per il momento non sembra ancora avere. Le valutazioni della Commissione, va ricordato, sono delle proposte di decisioni per il Consiglio a cui spetta comunque l’ultima parola: una revisione del tiro potrebbe avvenire in quella sede; l’appuntamento è previsto per metà giugno. Sino ad allora c’è tempo per mettere a fuoco l’immagine. Anche se, assicurano a Bruxelles, «in questi casi essere rapidi e affidabili, come l’Italia ha saputo essere nell’ultimo scorcio, serve ad avvicinare una soluzione con benefici per tutti».
Repubblica 9.5.15
Zagrebelsky sulle pensioni
“Dalla Corte scelta difficile ma l’equilibrio di bilancio non può essere lasciapassare all’arbitrio della politica”
intervista di Liana Milella


I giudici della Corte Costituzionale si sono divisi sulla sentenza che ha bocciato una norma della riforma delle pensioni
Brutto segno Le grandi decisioni non si prendono attraverso maggioranze risicate Serviva più prudenza per costruire il consenso
La sentenza non esclude meccanismi diversi dalla rivalutazione automatica Si apra un discorso sulla giustizia dei trattamenti pensionistici

“Sorpreso dal metodo, ma la conformità alle richieste dell’Europa rischiava di diventare una super-norma costituzionale. Ora tocca al legislatore mediare tra la tenuta dei conti e la salvaguardia dei diritti dei pensionati, specie i ceti deboli”

ROMA La sentenza sulle pensioni? «Molti problemi ». La spaccatura della Corte? «Brutto segno ». Costituzione tra equilibrio di bilancio e giustizia sociale? «Difficile ma necessario districarsi ». Ne parliamo con Gustavo Zagrebelsky.
Che cosa l’ha colpita di più, professore, nella sentenza della Corte sul blocco degli adeguamenti pensionistici? «Più il metodo che il contenuto della decisione ».
Iniziamo dal contenuto.
«Noi non sediamo alla Corte. Possiamo avere le nostre opinioni private, ma solo la Corte è abilitata a dire ciò che è e ciò che non è conforme alla Costituzione. Come opinione privata, mi conforta che dal principio dell’equilibrio di bilancio non si sia dedotto automaticamente un lasciapassare al libero arbitrio della politica nello stabilire a chi farne pagare il prezzo. Il legislatore deve sempre e comunque tenere conto dell’uguaglianza della giustizia, tanto più in quanto siano in questione diritti previsti a salvaguardia dei ceti più deboli».
Non sta dicendo una cosa ovvia?
«Non mi pare. Nel dibattito politico, l’appello ai conti, e ai conti conformi alle richieste dell’Europa e della finanza internazionale, rischiava di diventare la super norma costituzionale».
Quindi lei approva incondizionatamente la decisione?
«Non mi spingo fino a questo punto».
C’erano altri modi per conciliare finanza e diritti?
«Probabilmente sì. Gli strumenti della Corte sono tanti. Spetta ora al legislatore esplorare le soluzioni per tutelare le fasce sociali più deboli e al contempo evitare il collasso finanziario».
Questo significa che il seguito della sentenza non è automatico?
«Infatti. La Corte si è limitata — e non poteva fare diversamente — a dichiarare incostituzionale la norma della legge Fornero. Ma non ha escluso — né avrebbe potuto farlo — che interventi diversi sull’adeguamento automatico delle pensioni siano possibili, purché nel rispetto dei principi di giustizia stabiliti dalla Costituzione. Questa potrebbe essere l’occasione per un discorso generale di giustizia nell’ambito dei trattamenti pensionistici delle diverse categorie».
Scusi, ma i “tormenti” del governo su come adeguarsi alla sentenza, su come restituire i soldi e se restituirli tutti, dimostrano che la soluzione non è poi così facile.
«È ovvio che sia difficile. La Corte ha aperto la prospettiva di un risarcimento integrale ma, come ho detto, questo non è automatico. Il legislatore, nel rispetto dei diritti essenziali, che riguardano soprattutto gli indigenti, può fare scelte. È chiaro che queste scelte, rispetto al quadro prospettato dalla Corte, scontenteranno qualcuno. Tanto più in quanto per coprire i costi della sentenza si intenda toccare in pejus posizioni pensionistiche privilegiate».
Dal contenuto della sentenza al metodo.
La Corte si è spaccata sei contro sei, e ha vinto il fronte della bocciatura solo grazie al voto decisivo del presidente Criscuolo.
In questa procedura vede delle anomalie?
«Certo non violazioni di norme giuridiche. Ma non di sole norme vivono i giudici, tanto più i giudici supremi. Alle norme deve affiancarsi la prudenza... ».
... proprio da lei arriva un invito del genere?
«Prudenza non vuol dire timidezza o paura. Mi spiego con due esempi storici. Il primo riguarda la sentenza della Corte suprema degli Usa nel celeberrimo caso Brown del 1954 che pose fine alla discriminazione razziale nelle scuole. Nelle sue memorie il giudice Felix Frankfurter racconta che il presidente della Corte Earl Warren, desiderando su una causa così importante l’unanimità dei giudici, tirò per le lunghe fino a ottenere quello che desiderava. “Per le lunghe” significò attendere il decesso dell’unico giudice dissenziente, il giudice Vincon. A quel punto l’unanimità era fatta e la sentenza non poté essere delegittimata come fosse stata una scelta politica di parte. Sono infatti le assemblee parlamentari che decidono a maggioranza».
Curioso esempio aspettare il decesso. E l’altro?
«Questo riguarda la Corte italiana. In una causa in materia penitenziaria il giudice relatore aveva proposto una soluzione molto innovativa, dalle conseguenze difficilmente prevedibili. Il presidente era dalla sua parte. La Corte, come nel nostro caso, si era spaccata in due, ma proprio col voto del presidente sarebbe passata la soluzione proposta dal relatore. A quel punto che cosa accadde? Il relatore stesso ritirò la sua proposta, che pure era sul punto di passare, in base alla considerazione che le grandi decisioni costituzionali non possono essere prese con risicate maggioranze».
Begli esempi. Ma cosa ci dicono se rapportati al caso delle pensioni? Che la Corte doveva cercare comunque una maggioranza più ampia su una faccenda così delicata?
«Significa, in generale, che mentre nelle assemblee parlamentari la divisione maggioranza- minoranza è fisiologica, negli organi giudicanti deve considerarsi l’extrema ratio. Prima di giungere al voto che divide, prudenza vuole che ogni sforzo, dandosi il tempo necessario, debba essere fatto per costruire il consenso più ampio possibile».
Ciò implica che si debba scendere a compromessi?
«Compromesso non è necessariamente una brutta parola. Soprattutto si deve tener conto che, nelle grandi cause costituzionali, sono in questione più esigenze che devono rendersi compatibili tra di loro. È ciò che, nel linguaggio dei giuristi, si chiama bilanciamento. Nel caso nostro, il bilanciamento riguardava diritti sociali ed esigenze di finanza pubblica. È ovvia la conclusione: quando si bilancia ciascuna delle parti deve rinunciare ad ottenere tutto in maniera tale che l’altra parte ottenga qualcosa. Questo modo di procedere è quello conforme alla Costituzione che noi abbiamo, una Costituzione in cui deve convivere una pluralità di principi ».
Quale poteva essere il compromesso?
«La Corte dispone di numerosi strumenti per modulare gli effetti delle sue decisioni. Spetta alla sua saggezza dire quali, non alla mia».
La sentenza potrebbe astrattamente costare una ventina di miliardi allo Stato. La Corte se ne doveva far carico?
«Piaccia o non piaccia, l’articolo 81 della Costituzione che impone il principio dell’equilibrio di bilancio, induce a rispondere di sì. Ma spetta al legislatore distribuire il peso di questo equilibrio tra le categorie sociali in maniera conforme al principio di giustizia sociale. L’equilibrio di bilancio non può essere usato ciecamente».
Corriere 9.5.15
Se la leader della Cgil snobba il candidato Pd
di Antonio Polito


Una volta, almeno, si sapeva che «un pacchetto di Marlboro è di destra, uno di contrabbando è di sinistra» (Giorgio Gaber). Ma ora che nessuno fuma più, non ci si capisce niente. La campagna elettorale per le regionali sta infatti sbriciolando anche quel divisorio in cartongesso tra destra e sinistra che era rimasto in piedi dopo le europee. Se infatti la segretaria della Cgil, cioè il pontefice massimo della sinistra sindacale, dichiara che in Veneto si potrebbe anche annullare la scheda, sempre meglio che lasciarla bianca o votare Alessandra Moretti, vuol dire che non c’è più religione. E, del resto, non ci sarebbe neanche da dispiacersene, visto che la dissoluzione dei confini elettorali viene apertamente auspicata e praticata da numerosi esponenti del Pd.
L’altro giorno Michele Emiliano, quello che nel suo ufficio da pm teneva un poster di Che Guevara, rispondendo su Twitter a un ragazzo che lo accusava di unirsi in Puglia «alle destre», si giustificava così: «Siamo uniti alle persone per bene, il valore della sinistra non è definibile». In Campania, poi, le liste collegate a De Luca, imbottite di cosentiniani, hanno arditamente varcato anche il limite delle «persone per bene», almeno secondo il giudizio di Saviano, il quale sostiene che lì dentro «c’è Gomorra». Anticipando Susanna Camusso, Rosa Russo Iervolino, per due volte sindaco di sinistra di Napoli, aveva già detto al Corriere del Mezzogiorno che se lei abitasse in Campania non voterebbe per il Pd. Il guaio della sinistra è che mentre quelli di destra sembrano sapere benissimo per chi votare ora che non c’è più destra e sinistra (perfino un frequentatore di Predappio è nelle liste di De Luca), quelli di sinistra non sanno che fare. Dovrebbero intonare con Gaber : «Tutti noi ce la prendiamo con la storia, ma io dico che la colpa è nostra».
Il Sole 9.5.15
Il cantiere a sinistra tra la sconfitta di Miliband e le spine di Tsipras
Londra e Atene: Miliband sconfitto, Tsipras vincente ma in affanno
Due storie di sinistra diverse ma comunque emblematiche per chi, a Roma, sta studiando un nuovo partito o vuole il ritorno al Pd del passato
di Lina Palmerini


Continua da pagina 1 Le prove a sinistra fervono ormai da alcuni mesi. Fino all’accelerazione della settimana scorsa che ha visto il Pd spaccarsi sulla fiducia al Governo e sul voto all’Italicum. Un passaggio clou che ha riaperto un cantiere che aspira a costruire una sinistra doc, ortodossa, contro quella renziana di matrice popolare e moderata. Che sia la coalizione sociale di Landini o un partito vero e proprio, sul progetto stanno lavorando in molti e perfino Giuliano Pisapia in queste ore si è candidato a fare da pontiere tra il Pd renziano e la futura cosa di sinistra. Ma è soprattutto la minoranza Pd che si sta organizzando per riprendersi la ditta e riportarla su posizioni più a sinistra. Su ciascuna di queste ambizioni vale la lezione di Londra ma anche quella di Atene.
Cominciamo dalla batosta dei laburisti che non è di buon auspicio. Perché Miliband aveva riportato il partito dov’era prima di Blair, spostato a sinistra e vicino al sindacato, esattamente il contrario di quello che era stato il Labour che vinceva. Insomma, l’operazione di ritorno al “come eravamo” non ha funzionato ed è costato non solo la sconfitta ma anche le dimissioni di Miliband. Non è bastato declinare un programma di sinistra sui temi dell’economia e del lavoro per convincere soprattutto mentre i risultati positivi del Governo Cameron erano realtà e quindi più forti di un programma elettorale. E sono mancate pure risposte convincenti sull’immigrazione che ha un impatto proprio sulle fasce più povere e dunque rientra in pieno in una piattaforma di sinistra che non parli solo di accoglienza.
Non ha convinto il Labour sia pure fuori dall’euro e non convincono i socialisti di Hollande. Alle ultime amministrative di marzo sono finiti al terzo posto e sono apparsi privi di un profilo chiaro, stretti tra il richiamo al socialismo e quello all’Europa senza la capacità di saperli coniugare.
E in effetti uno dei cardini del problema sembra proprio questo: la compatibilità della sinistra dentro un’Europa fatta di regole che stressano lo stato sociale, riducono la spesa pubblica, promuovono nuovi contratti di lavoro. Regole non nate per caso ma in ragione dei cambiamenti radicali portati dalla globalizzazione, ondate migratorie, calo demografico che è preoccupante soprattutto in Italia. Questa è la realtà sul tavolo ma, a quanto pare, mancano risposte convincenti dei grandi partiti che fanno parte dei socialisti europei.
In questo senso se Miliband è stata la prova che non c’è un ritorno al passato per la sinistra, quello che accadrà in Grecia sarà la prova di cosa potrà essere una sinistra che vuole restare in Europa. Tsipras ha vinto le elezioni proponendo esattamente un conflitto tra la sinistra e le regole europee ed è questa la partita che tutti stanno guardando. L’obiettivo dichiarato è di cambiare il paradigma di Bruxelles, Berlino e della Bce senza però uscire dalla casa comune sbattendo la porta. Una sorta di terza via, insomma, che prevede una “rivoluzione” dall’interno senza rompere con l’Europa e con la moneta unica. Il punto è di natura economica, cioè un allentamento del dogma dell’austerità, ma anche di sovranità nazionale. Perché il programma elettorale con cui Syriza ha vinto le elezioni non è riconosciuto dall’Europa che pretende profonde correzioni a urne chiuse.
Lunedì c’è un nuovo round all’Eurogruppo ma l’intesa sembra lontana. Dall’esito di questo braccio di ferro si ridisegneranno anche i confini di una sinistra che vuole essere compatibile con l’Europa. Senza ritorni al passato e con programmi credibili. A meno di scegliere l’opzione no-euro, finora monopolio della destra populista.
Corriere 9.5.15
Renzi attacca D’Alema e i «ribelli»: c’è una sinistra a cui piace perdere
A Genova con Paita. La replica alle accuse dell’ex premier sul calo di iscritti
di Marco Imarisio


DAL NOSTRO INVIATO GENOVA Che botte, ragazzi. «Questo è il terreno della partita tra la sinistra che coltiva il desiderio di perdere da sola contro quella che preferisce vincere insieme». Sarà che la Liguria è ormai il ring sul quale voleranno i primi sganassoni, elezioni regionali che all’improvviso hanno assunto il valore di una prova di laboratorio per verificare lo spazio di una possibile esistenza in vita oltre il Pd. Comunque Matteo Renzi ci va pesante con la fronda di Luca Pastorino, deputato europeo uscito dal gruppo ancora prima del suo mentore Pippo Civati per creare una lista che numeri alla mano complica di molto la vita al Partito democratico. «C’è chi vuole cambiare le cose e chi invece si accontenta di perdere e far perdere» dice, quasi un invito mascherato al voto utile.
Ai Magazzini del Cotone nel porto antico di Genova ci sono diversi tipi di sinistra. Il servizio d’ordine è fornito dai camalli della Compagnia unica, armadi a quattro ante con jeans sdrucito e giubbotto di pelle inneggiante al compianto padre nobile Paride Batini che amava definirsi come l’ultimo stalinista, la cui figlia corre però con una lista tutta sua, a sinistra dell’ipersinistra. In platea si fa notare la grisaglia leggermente più riformista di Vittorio Malacalza, fresco primo azionista di Carige, il più lesto ad abbracciare e baciare la candidata del Pd al suo ingresso in sala, seguito da Aldo Spinelli, storico signore della terminalistica portuale e altri pezzi di potere ligure.
Quando si abbassano le luci, la prima a parlare è Paita, portatrice di una candidatura sofferta e di una determinazione che la sta portando a una campagna elettorale molto vivace, poco incline ai compromessi. A lei tocca la bastonatura degli avversari esterni, a cominciare dal centrodestra e da Giovanni Toti, descritto come un candidato riluttante, desideroso di tornare presto alle sue comparsate nei talk show. «L’idea che lui possa battermi spaventa voi ma soprattutto lui».
Al fronte interno ci pensa invece il presidente del Consiglio, che mette insieme vecchi e nuovi concorrenti usando come argomenti a sostegno delle sue tesi anche la disfatta laburista in Inghilterra. Massimo D’Alema, che a mezzo stampa aveva alzato il dito citando il calo di iscritti nel Pd diventa così un campione dei «nostalgici del 25 per cento, quelli che stavano bene quando si perdeva, quelli che hanno avuto la loro occasione e l’hanno persa». L’analisi renziana del voto nel Regno Unito, molto pro domo sua , gioca molto sulla scelta del Miliband sbagliato. I laburisti avevano David, pupillo di Tony Blair, e Ed «molto radicale, capace di diventare segretario con l’aiuto della burocrazia di partito». Scegliendo l’ultimo hanno messo fine all’esperienza del blairismo. Morale a futura memoria della favola albionica: «Quando la sinistra sceglie di non giocare la partita del riformismo, può vincere qualche congresso ma perderà sempre le elezioni».
Londra chiama Bogliasco, paese del quale il reprobo Pastorino è sindaco. «Lo è diventato con i voti del Pd, così come è diventato eurodeputato, poi ha scelto di lasciare il partito senza per altro dimettersi dalle due cariche. Facendo così rappresenta lo spot migliore della sinistra che vuole perdere sempre e comunque». Renzi evita di dirlo, ma oltre al rimpianto per la terza via, elezioni inglesi e liguri hanno in comune anche un numero. «Si è parlato di deriva autoritaria a proposito della nostra riforma elettorale, ma guardate l’Inghilterra dove oggi col 36% dei voti i conservatori hanno la maggioranza assoluta. Con la nostra riforma invece saremmo andati al ballottaggio».
Con la legge elettorale ligure, invece, quella è la percentuale richiesta per avere il premio di maggioranza necessario a governare. Se non ci arrivi, sei costretto ad alleanze che avrebbero il sapore della resa alla minaccia da sinistra oppure quello del compromesso in odor di patto del Nazareno che darebbe vento alle vele di Civati e dintorni, non solo in Liguria. La posta in gioco è questa. A giudicare dalle carezze rifilate al convitato di pietra Pastorino, in Liguria non si gioca una partita da poco.
La Stampa 9.5.15
Renzi-D’Alema, bordate nel Pd
L’ex premier: “Non mi preoccupa solo chi esce come Civati, ma chi imbarchiamo” Il premier: “Sei nostalgico del 25%”. E su Miliband: si perde se si va troppo a sinistra
di Carlo Bertini


Usa la vittoria di Cameron, che chiama al telefono per complimentarsi, per lanciare il segnale che più gli preme alla vigilia di sfide elettorali dove bisogna fare il pieno a largo raggio. «Quando la sinistra rinuncia al riformismo e gioca la carta dell’estremismo può vincere qualche congresso ma perde le elezioni», dice Matteo Renzi per spiegare ad una platea sensibile come quella genovese che la «sinistra masochista preferisce perdere da sola che vincere insieme». Dunque un doppio affondo, prima a Firenze contro gli ex leader che non hanno fatto le riforme al tempo giusto, del lavoro e istituzionali; e poi a Genova, contro una sinistra nostalgica di quando il Pd non superava il 25%: Renzi rievoca la rottamazione, cui allude attaccando in senso lato i suoi predecessori e una sinistra che non cavalca il cambiamento. È una polemica che entra nel vivo dello scontro maturato in queste settimane dentro il Pd sulle riforme, una polemica che tocca il nervo sensibile di chi deve scegliere se stare dalla parte del Pd renziano oppure no. «Bisogna mandare in vacanza i professionisti del “non ce la faremo mai”: sono 20 anni che hanno l’egemonia culturale!».
Lo scontro a distanza
E si consuma infatti uno scontro a distanza con Massimo D’Alema, che da Pisa aveva lanciato bordate pesanti sul Pd che «ha perso 100 mila iscritti» e sull’Italicum che «è una legge di destra». Bordate che il premier non incassa in silenzio. Ingaggiando una polemica durissima proprio nel teatro di una contesa elettorale che si consumerà nel campo della sinistra, quella Liguria messa a rischio dai frondisti, dalle liste del candidato civatiano Luca Pastorino, concorrente della Paita. Che il premier difende, attaccando quelli come Cofferati e Civati che lasciano il partito quando perdono. «Non si tratta solo di Civati. Mi preoccupano quelli che se ne vanno, ma anche quelli che vengono», attacca sferzante D’Alema. Forse riferendosi anche agli imbarcati nelle liste campane che scuotono il Pd. L’ex premier liquida «l’arroganza che fa perdere consensi» e bolla l’Italicum come una legge che relega il coinvolgimento dei cittadini come «contorno al protagonismo del leader». 
Renzi contrattacca prendendosela con i suoi predecessori in senso lato, «se la riforma del lavoro si fosse fatta nel 2004, come in Germania, adesso avremmo una situazione occupazionale diversa. Se la legge elettorale fosse stata fatta prima, sarebbe stato un segnale più forte». E poi affonda il colpo da Genova. «Qualcuno oggi dice che perdiamo iscritti: sono i nostalgici del 25%, quelli che stavano bene quando si perdeva, quelli che hanno avuto la loro occasione e l’hanno persa». Per chiudere con un appello ai militanti a non farsi incantare dalle sirene di una sinistra barricadera, «questa terra non deve limitarsi a essere oggetto di un ricatto politico, il tentativo di una minoranza di impedire alla sinistra di essere maggioranza».
Temi caldi e consenso
Il premier è costretto a saltare da un teatro di voto all’altro, passa anche per Aosta, dove richiama le regioni al principio di solidarietà per gestire l’emergenza profughi. Proprio nei giorni di campagna elettorale infatti deve gestire fronti bollenti, come immigrazione, scuola e pensioni, temi sensibilissimi sul piano del consenso. Così si spiegano gli sforzi dei suoi colonnelli che cercano una mediazione sulla «Buona Scuola»: entro fine maggio andrà votata alla Camera, con un accordo che riesca ad accontentare tutti.
La Stampa 9.5.15
Nella ex caserma occupata prove di “coalizione sociale”
Landini e Civati sposano il “laboratorio Torino”
di Giuseppe Salvaggiulo


Una caserma torinese di fine ’800, sede della polizia politica fascista nel 1943 con centinaia di partigiani torturati e fucilati, sede di uffici per l’Olimpiade del 2006, rifugio per profughi nel 2009, poi definitivamente abbandonata. Ora, occupata da tre settimane da un collettivo promosso da Terra del Fuoco, associazione legata a don Ciotti, e allargato a una platea vasta e tutt’altro che estremista, rappresenta il primo esperimento di «coalizione sociale» vagheggiata da Landini in quello che Civati ha definito «lo spazio sconfinato fuori dal Pd». Non è un laboratorio politologico ma sociale, ispirato alla sinistra greca di Tsipras. Nei prossimi giorni sfocerà in un manifesto nazionale con intellettuali, associazioni culturali, sindacati, politici. Non a caso i primi a sposarlo sono stati proprio Landini e Civati.
Il luogo è stato scelto perché carico di storia e altamente simbolico. Lo stato di abbandono penoso. Dal punto di vista giuridico, dopo la vendita dal Demanio alla Cassa Depositi e Prestiti (27 mila metri quadri di superficie a 300 euro al metro quadro), è in attesa di trasformazione urbanistica. Ai primi di aprile, l’associazione Terra del Fuoco chiede di poter ripulire la targa sul muro di fucilazione dei partigiani per celebrare il settantesimo anniversario della Resistenza. Destinatari della lettera la Cdp e Fassino, che ne è consigliere di amministrazione oltre che sindaco di Torino.
In assenza di risposta, il 18 aprile quaranta ragazzi scavalcano i cancelli e occupano. La risposta del Pd è dura, con la minaccia di tagliare i contributi pubblici all'associazione, aderendo a una richiesta della Lega. Ma l’occupazione prosegue. La targa viene mondata dalla polvere che negli anni l’aveva sepolta. E altri 500 metri quadri vengono ripuliti e destinati a varie funzioni: tre mostre sulla Resistenza, sala convegni e dibattiti (con un ricco programma nei giorni del Salone del libro, aperto da Ugo Mattei e chiuso da Matteo Pericoli), cineforum, teatro, biblioteca di quartiere, orto e spazio giochi per bambini, presto sala studio aperta 24 ore su 24, mensa popolare e mini-alloggi per sfrattati causa morosità incolpevole (Torino ne ha registrati 4000 l’anno scorso).
Contemporaneamente, il progetto politico prende forma. Arrivano Landini e Civati oltre al vendoliano Fratoianni, anche Susanna Camusso manifesta interesse, aderiscono i segretari provinciali di Cgil e Cisl e diverse associazioni, si mobilitano docenti universitari, decine di intellettuali come Beatrice Merz, Carlo Petrini e Marco Aime, il presidente dei giovani della comunità ebraica e la Chiesa valdese, si entusiasmano partigiani come Bruno Segre. In tre settimane, quasi 5 mila persone passano dalla caserma Lamarmora. Al pranzo del primo maggio 600 persone. E i volontari si quadruplicano. Lunedì il comitato che si è nel frattempo costituito incontrerà Fassino, quindi riferirà in un’assemblea.
L’idea è di diventare un laboratorio nazionale. Teoria della prassi, si diceva un tempo. Se mai la coalizione sociale smetterà di essere una suggestione, potrebbe partire da qui.
Repubblica 9.5.15
Michela Marzano
“Mi dimetterò presto con Matteo solo incapaci forse seguirò Civati”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA «Letta e Bersani mi chiesero di entrare in Parlamento per continuare a occuparmi di quanto insegno all’università: i diritti individuali. Dissi sì a un partito di sinistra e ai suoi valori. E invece… ». E invece la deputata del Pd Michela Marzano, una cattedra di filosofa morale a Parigi, è rimasta delusa.
Vuole lasciare il Parlamento?
«Penso di dimettermi, sì. Di tornare al mio lavoro di intellettuale. Di certo non arrivo a fine legislatura, però vorrei restare fino all’approvazione della legge sull’accesso alle origini e sulle unioni civili. Mi do ancora qualche mese per evitare che vengano stravolti».
Si dice delusa. Da cosa, in particolare?
«Dal Pd, da come funziona, da come si allontana sempre di più dai valori di sinistra».
Potrebbe lasciare il Pd per seguire Civati?
«Non lo escludo. Finché resto, il “dove” mi colloco è una questione aperta. E mi domando: se muta il dna di sinistra, sono io che abbandono il Pd o lui che abbandona me? Civati lo osservo, cerco di capire il suo progetto».
Boccia anche il Pd di Bersani. Allora perché si è candidata?
«La vera natura del Pd l’ho capita standoci dentro. Ho capito che si stava sbriciolando quando non hanno preso atto della “non vittoria” del 2013, come fatto dai leader inglesi in queste ore che si sono tutti dimessi».
E Renzi? Lo ha sostenuto alle primarie.
«Non mi pento. Non avrei votato Cuperlo: vedo nella minoranza logiche vecchie. Renzi prometteva un cambiamento radicale, necessario. Però ha raccattato pezzi di Scelta civica, mutando la natura del Pd. Cosa c’è di sinistra nella riforma della scuola? I più bravi, da noi, semplicemente non contano ».
E chi conta, oltre al premier?
«Mi disturba il modo in cui Renzi gestisce il potere. Si circonda di incompetenti e incapaci, così da poter decidere tutto lui. Ma non basta volere per potere. Esistono i limiti del reale che non si piega all’onnipotenza della volontà».
Voterà ancora la fiducia? Sull’Italicum non c’era.
«Ho il senso di appartenenza a un gruppo. Ho detto sì alla fiducia sull’Italicum, ma non c’ero al voto finale. Ero bloccata in aereo».
Ha chiuso con l’Italia e torna in Francia. Non teme di rendersi antipatica?
«“Nemo propheta in patria”, purtroppo. Il problema non è essere antipatica, ma non seguire il mondo come va. Ho lasciato l’Italia con sofferenza, sono tornata con orgoglio per restituire qualcosa. Meglio tornare in Francia se restare implica tradirsi».
Repubblica 9.5.15
Elly Schlein
“Volevo riportare Prodi ma ora non sopporto più le troppe scelte di destra”
“Dagli immigrati ai diritti civili alla fiducia sull’Italicum era insopportabile la perenne contraddizione”
intervista di Eleonora Cappelli


BOLOGNA «Vale la pena di lottare dentro al partito finché c’è il partito, ma io temo che non esista già più e si sia trasformato in un’altra cosa. Le nostre politiche stanno diventando di centrodestra». L’eurodeputata Elly Schlein lascia il Pd, sulle orme di Pippo Civati. Un anno fa è volata a Strasburgo con oltre 53 mila preferenze, dopo aver dato vita a Bologna a Occupy Pd ed essere andata sotto casa di Romano Prodi a chiedergli di riprendere la tessera dei democratici. Ora l’addio.
Elly Schlein, qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?
«Sono mesi che il governo fa cose in cui non riesco a riconoscermi, ma la fiducia sull’Italicum è stato un vero colpo. L’elenco è lungo: questo è il governo che ha messo fine a Mare Nostrum e io non sono affatto convinta che Triton sia una risposta adeguata. Lotto per i diritti civili e il mio ministro dell’Interno impone la cancellazione delle nozze tra persone dello stesso sesso. Sogno un futuro sostenibile e mi ritrovo le trivelle rimesse in moto dallo Sblocca Italia. Non sopportavo più questa perenne contraddizione ».
Anche “Occupy Pd”, nato sull’onda della delusione del voto del 2013, era una protesta. Però lei ha sempre detto di voler cambiare il partito da dentro.
«Noi occupammo le sedi del partito contro le larghe intese, ma ora sono le larghe intese che stanno occupando noi. Il Pd non è quello che era nato per essere. Comunque deve preoccupare non il mio addio, o quello di Civati, ma le scissioni silenziose dei nostri elettori».
Cosa intende?
«Il mio segretario ha sostenuto che il 37% di affluenza in Emilia alle ultime regionali era un dato secondario. Come si fa a pensare una cosa simile? Io ho sempre lavorato per riportare a votare quelli che non ci andavano. C’è una sofferenza evidente, in tutta Italia: guardiamo in Campania, quello che ha scritto Roberto Saviano, guardiamo la Sicilia e le primarie di Agrigento. Pensiamo alla Liguria. Io non riesco a staccare il locale dal nazionale ».
Lei voleva convincere Prodi a tornare nel Pd, ma alla fine l’ha imitato nel non rinnovare la tessera… «Prodi ha le sue ragioni per essere purtroppo oggi fuori dalla politica, ma lui per me è stato un faro e lo è ancora oggi».
Cosa risponde a chi la accusa di voler far perdere il Pd, o di essere conservatrice?
«Io ho compiuto 30 anni tre giorni fa, come fanno a dirmi che non voglio cambiare? Solo che c’è differenza tra cambiare in meglio e in peggio».
Sel le dà in benvenuto a sinistra. E c’è chi la vede protagonista alle comunali di Bologna del 2016.
«No, il mio sguardo oggi è solo ai compagni che lascio».
Corriere 9.5.15
«Più rigorosi che con i cittadini»
Dice al Corriere la presidente della Camera, Laura Boldrini: «Votare la fine dei vitalizi per gli ex parlamentari condannati è un segno di moralizzazione chiesto dai cittadini».
intervista a Laura Boldrini


«Siamo stati rigorosi I cittadini condannati prendono la pensione Ora i parlamentari no»
ROMA «Mai era stato deciso un provvedimento di questo genere».
Non è un compromesso al ribasso, presidente Laura Boldrini?
«Il partito del “non è mai abbastanza” sarà sempre in agguato, pronto a sminuire qualsiasi cambiamento. L’ufficio di presidenza della Camera e il consiglio di presidenza del Senato hanno approvato una delibera che non ha precedenti. Votare la cessazione dei vitalizi per gli ex parlamentari condannati in via definitiva per reati gravi è un segnale di discontinuità e moralizzazione della politica chiaro e forte, che va incontro alle richieste di centinaia di migliaia di cittadini».
Il presidente Grasso ha detto “io volevo di più”. E lei?
«Abbiamo condiviso tutti i passaggi del lavoro istruttorio, con l’obiettivo di scrivere una delibera che desse un segnale chiaro e forte, riducesse i dubbi di costituzionalità e trovasse il consenso dei gruppi. Conta il risultato e di questo sono grata all’ufficio di presidenza».
Non le dispiace che l’abuso d’ufficio sia rimasto fuori dall’elenco dei reati?
«Abbiamo voluto fare una scelta sui reati gravi e gravissimi, mettendo dentro mafia, terrorismo, corruzione, concussione, omicidio... L’abuso di ufficio è un reato grave, ma non a questo livello».
Difficile spiegarlo ai tanti cittadini per i quali il vitalizio andrebbe tolto anche ai parlamentari onesti.
«A un cittadino italiano che ha versato i contributi e poi si è macchiato di un crimine grave, quando esce dal carcere la pensione non gliela leva nessuno. Noi invece siamo più rigorosi. Al parlamentare che pure ha versato i contributi e si macchia di reati gravi, il vitalizio non glielo a diamo più».
Per i cinquestelle è solo «una farsa».
«Se dicono che è una farsa, sbagliano».
Grillo ci è andato pesante con gli insulti.
«Chi insulta è libero di farlo. Ma io ho un altro stile e non replico, preferisco ragionare».
Un anno di tira e molla per arrivare alla meta.
«Non è stato un anno di tira e molla. Prima c’è stata l’istruttoria del collegio dei questori, poi il presidente Grasso e io li abbiamo incontrati congiuntamente, quindi sono stati chiesti dei pareri ad alcuni costituzionalisti. E i pareri forniti sono stati di stampo diverso».
I partiti hanno fatto ostruzionismo?
«Ci sono state posizioni diverse, perché alcuni volevano la legge invece della delibera e altri sostenevano che il contenuto della delibera non fosse abbastanza. Ma non mi sento di dire che i partiti hanno ostacolato, la materia era complicata ed era giusto approfondire. Comunque sulla necessità di farlo tutti hanno concordato e io sono contenta del risultato».
Ritiene giusto che i riabilitati abbiano il vitalizio?
«Bisogna fare chiarezza. La riabilitazione è un istituto giuridico che consente al condannato, che abbia scontato la pena e dato segni di ravvedimento, di essere ripulito di tutti gli effetti penali della condanna. Non è una misura estemporanea affidata alla Camera, ma una decisione del Tribunale di sorveglianza. Non dobbiamo farla passare come una scorciatoia, perché non lo è».
Cuffaro, Previti, Dell’Utri, Berlusconi e altri lo perderanno, mentre Nania, Pomicino, Maroni e Martelli no. La soglia minima di due anni non è bassa?
«Non abbiamo preso questa decisione avendo in mente dei casi specifici. E non è un provvedimento che mira alla spending review, è un segnale di moralizzazione. La delibera parla chiaro: chi si è stato condannato per i reati previsti perderà il vitalizio. Le Camere hanno 60 giorni per l’istruttoria».
Per De Lorenzo è un diritto inalienabile. Teme ricorsi?
«La possibilità di ricorrere c’è sempre, ma non per questo le cose non si devono fare. Ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità ed è sempre meglio rischiare che stare fermi».
Sposetti parla di «diritto alla sopravvivenza»...
«Una cosa è il parlamentare che versa i contributi e ha diritto ad avere il suo vitalizio. Altra cosa è chi ha commesso dei reati. Noi non abbiamo fatto altro che seguire la Costituzione, dove è scritto che le funzioni pubbliche vanno svolte con “onore e disciplina”».
Avete accelerato perché ci sono le Regionali?
«No, l’istruttoria è iniziata quasi un anno fa e ci vuole molta fantasia per arrivare a questa conclusione. Non si può sempre cercare una lettura diversa dal reale».
Sui vitalizi dei parlamentari non condannati si può tagliare ancora?
«È ora di fare chiarezza. Mentre prima il sistema era abnorme, oggi non è più così. Il Parlamento ha già riformato nel 2012 i vitalizi, introducendo il sistema prevalentemente contributivo».
La «casta» riuscirà mai a fare pace con i cittadini?
«La chiama casta chi non vuole prendere atto del cambiamento. Per quanto mi riguarda sarò sempre attenta alle istanze che vengono dalla società civile, cercando di declinare al meglio il ruolo del parlamentare, perché i cittadini possano apprezzarlo» .
Altri tagli in vista?
«Alla Camera nei primi due anni abbiamo risparmiato 138 milioni e nel bilancio del 2015 approveremo ulteriori risparmi. Con la riforma delle retribuzioni tra Camera e Senato abbiamo risparmiato 97 milioni in quattro anni. Ma una cosa è la spending review e un’altra è lo stop ai vitalizi per i parlamentari condannati. In questo caso l’obiettivo principale è darsi nuove regole, eliminando ciò che non è più accettabile».
Il Sole 9.5.15
Istruzione. A 18 anni dalla legge Berlinguer siamo ancora più o meno allo stesso punto
Senza valutazione non è una vera riforma
di Luisa Ribolzi


Nel gennaio del 1997, l’allora ministro Luigi Berlinguer inviò a un gruppo di esperti e operatori della scuola una bozza di documento sulla riforma dei cicli, avviando una fase di consultazione che doveva chiudersi con la legge 30 del febbraio 2000, che non completò il suo iter a causa della caduta del governo. Diciotto anni, sei ministri e alcune riforme più tardi, siamo più o meno allo stesso punto: stiamo discutendo un disegno di legge che, secondo una radicata ma deplorevole abitudine italica, si presenta non come una serie programmata di miglioramenti, finalizzati a raggiungere obiettivi specifici, pochi e chiari, ma come la soluzione magica dei problemi della scuola. Ciascuno dei ministri intercorsi ha proposto una sua legge o delle variazioni alla legge precedente, a volte è anche riuscito a farla approvare (la legge Gelmini), ma evidentemente con scarso successo, se ogni volta si ricomincia da capo o quasi: il che rende francamente poco fruttuoso esprimere un parere su di un documento non definitivo e la cui decretazione potrebbe tardare indefinitamente (per esempio, aspettiamo i regolamenti di riforma del sistema delle accademie e dei conservatori dal dicembre del 1999).
Dal mio punto di vista di sociologa dell’educazione, i motivi di questo eterno ritorno dell’uguale sono fondamentalmente due: nel progettare, i decisori politici non tengono conto dei risultati della ricerca, ma solo o quasi della spendibilità delle loro decisioni in termini di consenso sindacale o elettorale, e nel realizzare non prevedono e non utilizzano nessuna forma sistematica di valutazione.
Quanto ai risultati della ricerca educativa, in giro per il mondo e nelle organizzazioni internazionali come l’Ocse, gli elementi che caratterizzano le scuole “di successo”, intendendo per successo la capacità di fornire agli alunni un’istruzione di qualità, che risponde sia alla domanda individuale che a quella sociale, sono stati da tempo individuati. Per citarne alcuni, l’autonomia delle scuole; un serio processo di formazione, selezione e carriera del corpo docente; la presenza di una governance forte e attenta sia agli aspetti didattici che agli aspetti organizzativi (talvolta presenti in un’unica persona, talvolta con una divisione dei due compiti ma mai in forma assembleare); la partecipazione delle famiglie e degli studenti; il coinvolgimento della comunità locale; l’alleggerimento del centro, che conserva solo alcune funzioni fondamentali come la progettazione e il controllo; infine, fondamentale, la presenza di uno stabile e rigoroso processo di valutazione.
Purtroppo, la valutazione in Italia ha più o meno la popolarità delle epidemie di influenza, tanto che quasi non esistono percorsi di formazione (il dottorato per la valutazione dei processi e delle istituzioni educative di Genova è stato attivato nel 2008), e gli italiani sono assenti nel panorama internazionale. Eppure, se non esiste un sistema di valutazione, e un sistema che comporti delle conseguenze, l’autonomia si trasforma facilmente in anarchia, e non è possibile capire se abbiamo di fronte delle “buone” o delle “cattive” scuole. Ma è di tante buone scuole, e non di una buona riforma, che è fatta la “buona scuola”. Se non si progetta una valutazione sul medio - lungo periodo, la riforma è una parola vuota: e troppo spesso un’innovazione è stata generalizzata o abbandonata senza che fosse stata fatta un’analisi seria delle sue conseguenze, dei miglioramenti rispetto agli obiettivi o quantomeno del rapporto costi/benefici.
Eppure sarebbe bastata una frase presente in una delle prime stesure della legge 53, poi abolita forse perché troppo innovativa: si prevedeva che periodicamente il ministro facesse una relazione al Parlamento “in vista delle eventuali modifiche”. Con cinque parole si cancellava l’idea che le riforme fossero immutabili nella loro minuziosità indipendentemente dagli esiti, e si introduceva il concetto di rolling reform, riforma autoregolante, capace di modificarsi in corso d’opera. Per questo serve un dialogo costante con la scuola e con gli esperti dei processi e delle istituzioni formative, non le consultazioni universali, in cui molti parlano, ma alla fine solo i sindacati vengono ascoltati. E allora, forse, se si prevedesse un processo rigoroso di valutazione delle innovazioni, e si reintroducesse quella frasetta (“in vista delle eventuali modifiche”), potrei anche dare un'apertura di credito al governo, lasciando alla scuola il tempo di sperimentare le innovazioni, che sarebbero reversibili, se inutili. Ma forse è sperare troppo.