sabato 26 agosto 2017

Repubblica 26.8-17
Bertinotti e quel feeling con Cl “Mi ricordate le mie feste dell’Unità”
Applausi all’ex leader di Rifondazione dal popolo di Rimini: “Sono un esperto di sconfitte”. Al Meeting le testimonianze battono i discorsi dei politici
C’erano 1500 persone ieri ad ascoltare l’intervento di Fausto Bertinotti. L’ex presidente della Camera, già leader di Rifondazione comunista, è stato lungamente applaudito al suo arrivo
di Paolo Griseri


RIMINI. Si sfiora la standing ovation quando parla quasi in confessionale: «Ciò che di voi mi interessa di più è il vostro farsi popolo, la vostra capacità di costruire la relazione. A me questo ricorda la parte migliore della mia esperienza, le feste dell’Unità e le relazioni con le donne e gli uomini del movimento operaio». Fausto Bertinotti affascina il popolo di Comunione e Liberazione. E viceversa. L’alchimia che non ti aspetti nasce perché è coerente con il filo conduttore dell’altro meeting, quello che appassiona più delle passerelle dei personaggi televisivi: la ricerca di senso in un periodo in cui la politica, nemmeno quella un tempo cara ai cilellini, è più in grado di proporre soluzioni.
L’anziano comunista non può fare paura. Lo premette lui stesso: «Se c’è una cosa in cui sono esperto, sono le sconfitte». Ma anche Cl non si sente tanto bene. Non è più nel periodo sfavillante di Formigoni. Anzi paga ancor oggi il dazio dei compromessi di quella stagione. Forse per questo una folla di 1.500 persone riempie la sala «Illumino 3». Per ascoltare un intellettuale che non ha la pretesa di convincere. Che tiene, anzi, a distinguere, con un intercalare di rispettosa prudenza: «Nella mia eredità..». Ma che riconosce a Cl «il merito di non aver abbandonato il suo popolo », anche nei momenti di difficoltà, al contrario, si intuisce, di quel che accade a sinistra. Un comunista che nel dialogo con il professor Andrea Simoncini, cita Isaia: «Sentinella quanto resta della notte ». Chi è più nella notte oggi? Chi ha più bisogno di un fatto imprevisto che cambi il senso della storia? La risposta di Bertinotti appare minimalista: «Per chi ha l’ambizione a questa tarda età di dirsi ancora comunista, l’imprevisto è tutto ciò che ci può salvare».
L’imprevisto e la testimonianza. L’altro filo conduttore del successo di questa edizione. Gli oltre seimila ciellini che si siedono anche nei corridoi per ascoltare il racconto dei frati che vivono in Terrasanta, che sperimentano sulla loro pelle le ferite della Siria. I duemila che si lasciano catturare dalla storia della suora ugandese che strappa le ragazze dei villaggi alla violenza delle milizie. I molti che seguono per due ore la predicazione dei monaci buddisti. Più della politica attirano, le esperienze vissute in prima persona.
Questo colpisce i 400 mila visitatori del meeting, «il popolo» che ha affascinato Bertinotti. Le mostre sull’arte contemporanea, sulla Russia, ma soprattutto quella sulle testimonianze di chi lavora, alla fine della settimana sfioreranno le 40 mila presenze. Tra i politici hanno un buon successo Gentiloni, Letta, Tajani. Non si avvistano gli uomini della politica gridata, i Salvini, i Grillo. Non si capisce se perché il meeting non si è ancora sintonizzato sui nuovi mood della politica italiana o se, al contrario, è già andato oltre la propaganda fatta con la pancia.
Certo mai come in quest’anno di transizione il popolo di Cl sembra aperto a interloquire con chi è diverso, a tentare nuove strade. Al termine Bertinotti scende dal palco e continua a dialogare a tu per tu con il pubblico. Si avvicina un uomo sulla quarantina: «Ciao Fausto, ero un tuo segretario di circolo». Quale singolare percorso può aver portato quest’uomo a traslocare da Rifondazione a Comunione e Liberazione? Miracoli dell’alchimia di Rimini.

il manifesto 26.8.17
Meeting di Cl, Bertinotti superstar

«Sarà significativo che la mostra sul 1917 la faccia il Meeting di Cl e non una forza politica di sinistra… Questo perché nella storia di Cl la tradizione è viva, mentre certa sinistra se ne è disfatta diventando colpevole di una damnatio memoriae». Così l’ex segrretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, ieri al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini. E durante il suo intervento i circa 1.500 presenti si sono spellati le mani.
«Dobbiamo porci il tema della fede, del senso della vita umana rispetto a una meta – ha detto ancora Bertinotti -. Per chi ha l’ambizione, a questa tarda età, di dirsi ancora comunista, l’imprevisto è tutto ciò che ci può salvare».

Repubblica 26.8.17
Addio a Menichelli l’autista di Berlinguer “Quel sorso di whisky prima dei comizi”
di Concetto Vecchio


ROMA. Se n’è andato Alberto Menichelli, lo storico autista di Enrico Berlinguer. Aveva 88 anni. In realtà rappresentò molto di più: caposcorta, amico personale, consigliere. Fu la sua ombra per 15 anni, dal 1969 al 1984. Era a Padova, quando il segretario del Pci si sentì male sul palco. «Quel giorno morì il mio partito», disse. Insieme avevano macinato migliaia e migliaia di chilometri, nella stagione esaltante delle giunte rosse, quando a metà degli anni Settanta il Pci fu sul punto di sorpassare la Dc, ma anche nel decennio terribile del terrorismo: le Brigate Rosse pedinarono a lungo il capo dei comunisti italiani. Berlinguer ebbe due scorte, una della polizia, l’altra del partito; Menichelli era così a capo di quattro uomini che vigilavano sul segretario giorno e notte. Guidava la prima macchina blindata d’Italia: «Gli operai di Pisa - raccontò Menichelli nella sua biografia
In auto con Berlinguer - ci avevano dato il vetro, i compagni di Roma avevano messo le lastre d’acciaio alle portiere. E c’era sempre una seconda vettura, ogni volta diversa, che ci precedeva e ci affiancava».
«Dopo i funerali di papà — racconta l’ex direttrice del Tg3 Bianca Berlinguer, la primogenita di Enrico — Alberto ci accompagnò a casa: “Ricordatevi che per voi Alberto Menichelli ci sarà sempre”. E così è stato davvero: io l’ho sentito ancora una settimana fa. Era così legato a noi figli che per due anni, dopo la scomparsa di papà, volle accompagnare a scuola con la sua Uno Bianca mia sorella Laura, che aveva 14 anni ed entrava al liceo: era una sua iniziativa personale, il partito non c’entrava più nulla. È stato così parte della nostra vita. Le nostre famiglie, la moglie, le due figlie, Alessandra e Laura, trascorrevano anche il Natale insieme».
Ogni mattina Menichelli si presentava a casa Berlinguer, prima in viale Tiziano, e poi, dal ‘74, in via Ronciglione, a Ponte Milvio, con la mazzetta dei giornali: una dozzina di quotidiani italiani, più due francesi, Le Monde e l’Humanitè, che il segretario sfogliava ancora in pigiama. Le giornate finivano regolarmente a tarda sera. Berlinguer, prima di rientrare, si fermava in latteria per comprare un litro di latte, perché «a quest’ora della sera il frigo è sempre vuoto». Al pari di altri uomini della Vigilanza del Pci sacrificò larga parte della sua esistenza per il partito, che allora contava milioni di iscritti. Definì quell’avventura umana e politica «il periodo più bello della mia vita».
Berlinguer, timidissimo, di fronte alle folle oceaniche si emozionava, allora Menichelli prima di ogni comizio gli allungava una fiaschetta per i liquori con dentro del whisky, Berlinguer ne beveva appena un sorso e vinceva così la stretta allo stomaco; Menichelli conservò poi quella fiaschetta come una reliquia. Fino all’ultimo ha onorato la memoria del leader, che anche ora parla ai giovani, presiedendo l’associazione culturale di Cinecittà dedicata a Berlinguer. «Alberto aveva capito papà nel profondo», dice ora Bianca, con la voce rotta dalla commozione.

il manifesto 26.8.17
Il vuoto politico lascia spazio al manganello
di Paolo Berdini


Le città vivono di avvenimenti simbolici che restano negli anni a venire. I due sgomberi del palazzo e dei giardini di piazza Indipendenza resteranno come una macchia indelebile sull’amministrazione Raggi.
Nei quattro giorni drammatici vissuti dalla comunità di rifugiati non si è affacciato né il sindaco né il suo vice, un atteggiamento che dimostra una intollerabile insensibilità sociale. La giunta che doveva riscattare la città dalla vergogna di mafia capitale si è asserragliata nel palazzo Senatorio e occupa il suo tempo a consultare Genova o Milano per avere lumi.
Possiamo suggerire di tentare di trovare un nome cui affidare il ruolo di Capo di gabinetto visto che è un anno preciso che fu sfiduciata Carla Raineri e da allora manca il garante della correttezza amministrativa degli atti comunali. Non era mai avvenuto prima.
E passando dal dramma alla farsa ecco le dichiarazioni del vicepresidente della Camera Di Maio che ha addirittura teorizzato la priorità dell’impegno del sindaco Raggi verso i romani, al di là dei quali ci sono evidentemente soltanto leoni. Per un movimento che voleva cambiare la cultura politica italiana non c’è male. Il peggio seguirà.
Se mancava la città capitale, a piazza Indipendenza c’era però lo Stato. Quello con il volto meraviglioso del poliziotto che consola la donna disperata e quello del prefetto Gabrielli che accusa della mancata utilizzazione del finanziamento di 130 milioni conquistato con fatica negli anni scorsi per risolvere i problemi dei senza tetto.
Su queste stesse pagine avevamo dato atto del suo lavoro quando era prefetto di Roma. Resta il fatto scandaloso che quei soldi non siano stati ancora spesi per responsabilità dell’amministrazione comunale.
È la prima volta che vinco il riserbo cui mi ero finora attenuto, ma dopo aver assistito a tre sgomberi avevo redatto e consegnato al sindaco e ai membri della giunta un progetto dal titolo «Un tetto per tutti» in cui tentavo di fornire un quadro di obiettivi per risolvere il problema delle occupazioni in atto a Roma.
Il primo era nel riuso delle caserme abbandonate.
Il secondo stava nella costruzione su aree pubbliche di piccole dimensioni comunali o dell’Ater (duemila metri quadrati) di edifici da assegnare a senza tetto. I 130 milioni di Gabrielli non erano certo sufficienti ma la bravura di una amministrazione si misura anche nella capacità di strappare risorse.
Questa proposta fu in particolare contestata dalla stessa Raggi che mi ricordò che i 5Stelle erano contro il consumo di suolo. Su un altro tavolo erano però favorevoli allo stadio della Roma che prevedeva cemento su 20 ettari (cento volte di più!) solo di parcheggi.
La terza stava nella piena utilizzazione del patrimonio pubblico spesso abbandonato o occupato da famiglie senza titolo.
La quarta stava nella legalizzazione di alcune delle occupazioni in atto perché la proprietà privata deve essere certo rispettata ma all’interno di quanto previsto dalla nostra Costituzione.
L’elenco era più ampio, ma ciò che preme sottolineare è il fatto che a Roma ha vinto l’insensibilità sociale e il disprezzo per le condizioni della parte più sfavorita della società.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Con l’inerzia e i silenzi si avalla l’altro volto dello Stato, quello del ministro Minniti che sta riducendo il gigantesco problema dell’integrazione degli immigrati alla sola chiave securitaria: così si smarrisce il senso della comunità urbana e si dà anche voce all’istigazione alla violenza del dirigente filmato alla stazione Termini.
* urbanista, ex assessore della giunta Raggi

Repubblica 26.8.17
La scuola nelle mani dei barbari
di Alberto Asor Rosa


SI PARLA sempre più spesso ma sempre più superficialmente della scuola in Italia. Per esempio: l’allungamento dell’obbligo fino a diciott’anni. Come? Perché? In quale modo? Non una parola di spiegazione sulla riforma (si vedano gli articoli di Mariapia Veladiano e Alessandro Rosina, su Repubblica giovedì e ieri). Se però si entra nel merito, e si passa al già programmato, la situazione appare ancora peggiore.
È INFATTI ufficiale che con l’anno scolastico prossimo inizierà la sperimentazione per ridurre gli anni delle scuole medie superiori italiane da cinque a quattro. È la riprova che siamo nelle mani dei barbari. Anzi, più esattamente, di barbari incolti.
Siccome nessuno può persuadere qualcuno che sia possibile studiare meglio la stessa mole di contenuti ed esperienze scientifico- disciplinari in un tempo più breve, restano tre motivazioni, abbondantemente propagandate, e cioè: 1. La minore spesa d’investimento; 2. Il più rapido avvio dei giovani al mercato del lavoro; 3. Il cosiddetto “allineamento” all’Europa.
Vediamo. 1. La spesa d’investimento nella cultura e nella formazione è drammaticamente sempre più bassa in Italia. L’attacco portato in questo senso all’Università nel corso degli ultimi anni è impressionante. Direi dunque che la logica è sempre la stessa: si cerca di omogeneizzare la scuola media superiore all’Università: minore spesa, maggior profitto (profitto di che?). 2. Si legge da tutte le parti, con dati ben fondati, della drammatica situazione dei giovani nell’attuale mercato del lavoro italiano: spedire di anno in anno una leva anticipata di un anno servirebbe a migliorare la situazione? 3. In Europa ci sono situazioni diverse, e in ogni caso il puro “allineamento”, come dice la parola stessa, sarebbe destinato a rappresentare una pericolosa frattura con bisogni e tradizioni della cultura italiana, sia scientifica sia umanistica.
Il vero problema dunque è un altro. A cosa serve la scuola media superiore? In ciascuna delle sue branche — modi e finalità diversi, certo, ma che alla fine dovrebbero risultare il più possibile convergenti — serve a due cose: orientare con tutti gli strumenti disciplinari necessari all’esercizio di una professione e/o alla scelta consapevole di una facoltà universitaria; ed egualmente — o forse soprattutto — formare nei giovani una cultura sufficientemente approfondita e consapevole, sia scientifica che umanistica, ripeto, che consenta loro di affrontare in maniera (discretamente) matura i mille problemi della società contemporanea, politici, tecnologici, economici, culturali in senso lato e, soprattutto, umani, nel senso estensivo del termine. La domanda da porsi, dunque, è: che cosa si può fare per innalzare il cosiddetto trend di addestramento e formazione che la scuola media superiore italiana trasmette ai suoi studenti?
Una buona scuola è fatta d’insegnanti ben preparati e consapevoli del ruolo fondamentale che svolgono e di buoni programmi. Un programma scolastico, vuoi di matematica vuoi d’italiano, vuoi di scienze vuoi di filosofia, è la ricaduta operativa di un’alta informazione e al tempo stesso di un’attenta rispondenza ai bisogni della società in mutamento, oggi più rapidi e sostanziali che in altre stagioni. Fino a che punto questa ricaduta oggi si verifica?
È di questo che oggi bisogna parlare: con gli esperti, ma anche, anzi in primo luogo, con gli stessi professori della scuola media superiore. Propongo per farmi capire un solo esempio. Ho “fatto” la mia maturità nel 1951 (ahimè!). In quegli anni il programma di letteratura italiana si concludeva pressoché ovunque con i tre numi del tardo Ottocento primo Novecento: Carducci, Pascoli, D’Annunzio. Già allora, dunque, molto in ritardo rispetto agli svolgimenti successivi. Ma non così tanto come accade oggi.
I centoventi anni che ormai ci separano dall’inizio del secolo che convenzionalmente definiamo Novecento non sono ancora entrati a pieno titolo — anzi spesso non sono entrati per niente! — nei programmi scolastici di cui stiamo parlando.
Dunque, il problema va rovesciato rispetto a come viene attualmente posto: invece di diminuire i corsi di un anno, si tratta di far entrare un secolo in più nei programmi.
Innovando, ma non distruggendo, si potrebbero riformulare i programmi dell’intero corso quinquennale, attribuendo all’ultimo anno il compito pressoché esclusivo d’investigare questi ultimi cento anni, decisivi per far capire ai giovani chi siamo e con cosa abbiamo a che fare. Portare la storia fino alla globalizzazione; consentire di leggere e approfondire, al pari di Cavalcanti e dei Promessi sposi, Primo Levi, Gadda, Pasolini, Calvino, de Céspedes e Ginzburg e — perché no? — Tabucchi e Del Giudice; accostarsi consapevolmente a filosofia, politologia, sociologia dell’ultimo secolo; avere una nozione precisa dello svolgimento storico delle scienze, di tutte le scienze, in questo periodo decisivo; conoscere per la prima volta (più o meno, suppongo) la storia dell’arte e della musica del Novecento (formidabili!).
Certo, i professori, per affrontare questo allargamento e questa “modernizzazione” dei programmi dovrebbero studiare un po’, ma ne varrebbe la pena. Non esistevano una volta i benemeriti corsi di aggiornamento? Sì, ma costavano troppo.

La Stampa 26.8.17
Gentiloni sposa la linea Minniti
“Non si accoglie senza legalità”
Il premier era stato informato dal Viminale del piano sugli sgomberi Pd in fermento. Orfini

di Fabio Martini

Nelle ultime settimane il profilo del governo sta cambiando. Il principio della legalità - dalle Ong agli sgomberi degli abusivi a Roma - sta corroborando l’immagine di “forza tranquilla” espressa sinora dalla figura del presidente del Consiglio: Paolo Gentiloni sta assecondando questa correzione e il silenzio-assenso sugli scontri di piazza a Roma lo conferma. Nessuna dichiarazione pubblica su una vicenda che, alla resa dei conti si è conclusa con qualche contuso e molte polemiche, ma l’appoggio alla linea Minniti da parte di Paolo Gentiloni (espressa personalmente al ministro), si riassume in due sostantivi: «L’accoglienza non può essere disgiunta dalla legalità».
In altre parole soltanto governando i flussi si può garantire un’accoglienza umana per i migranti. Sia alle frontiere che nelle città, dove va salvaguardato il principio della legalità. Per Gentiloni questa deve essere - e deve restare - la linea di una sinistra di governo e infatti in queste ore il presidente del Consiglio insiste su una espressione che riassume l’”ideologia” del governo nei prossimi mesi: «Serve una conclusione ordinata della legislatura» su tutti i dossier, dalla politica per i migranti alla legge di Stabilità.
A Palazzo Chigi nei giorni scorsi sono stati informati sulla decisione delle forze di polizia di intervenire e nessuna obiezione è stata opposta alla attuazione della direttiva del Viminale che prevede il progressivo svuotamento di tutte le occupazioni abusive. Naturalmente la gestione concreta degli interventi spetta a prefetto, questore e forze sul campo e su questo aspetto eventuali obiezioni e critiche non cambiano - nell’ottica del governo - l’opportunità dell’intervento. Dunque, il silenzio di queste ore del presidente del Consiglio è da intendersi come un silenzio-assenso alla linea della legalità interpretata dal ministro dell’Interno.
Una linea che, dal punto di vista comunicativo, si traduce in un approccio sobrio, riassunto nel concetto: “parlino i fatti”. Un approccio molto evidente sulla vicenda degli sbarchi. Da metà luglio, come è noto, gli arrivi di migranti si sono drasticamente ridotti, con un calo del 72 per cento nel mese di agosto, ma Gentiloni e Minniti - con una differenza abissale rispetto al precedente governo - hanno omesso di sottolineare un dato così eclatante. Un omissis naturalmente a tempo, nella speranza che il dato si consolidi e diventi in modo inoppugnabile la conseguenza oggettiva delle scelte del governo. Una sordina che presidente del Consiglio e ministro dell’Interno hanno deciso di concerto.
Una “coppia”, quella Gentiloni-Minniti, che comincia a fare ombra alle altre “filiere” del Pd, quelle che si preparano a contendersi la gestione della campagna elettorale. Sotto questo punto di vista si può leggere la sortita fortemente critica da parte del presidente del Pd Matteo Orfini: «Quello che è accaduto a Roma in questi giorni non è normale. E non lo deve diventare. Non si può continuare a pensare che un dramma sociale possa essere ridotto a questione di ordine pubblico». E ancora: «A essere inadeguata è stata anche la gestione da parte delle forze dell’ordine. Non si esegue uno sgombero con quelle modalità e non lo si fa senza una adeguata soluzione alternativa. Soprattutto, non si risponde alla povertà con le cariche e con gli idranti».
Una posizione fortemente critica con la quale Orfini, da una parte si candida a “leader” della sinistra Pd, in coppia col ministro Maurizio Martina e dall’altra “prenota” un posto al sole nella battaglia interna, che si preannuncia durissima, per la conquista di uno spazio politico in campagna elettorale al fianco del leader Matteo Renzi. In vista di quell’appuntamento le varie aree - Orfini-Martina, Franceschini, Delrio - contenderanno lo spazio di visibilità al tandem che finora ha mostrato qualità politica e crescente consenso tra l’opinione pubblica: la coppia Gentiloni-Minniti.

Corriere 26.8.17
L’impulso antico dei fuoriusciti pd. Dire sempre no
di Pierluigi Battista


L’impulso a dire sempre «no»: i fuoriusciti del Pd, raccolti nella sigla Mdp, sembrano ossessionati dalla politica dei veti. L’ultimo «no» in ordine di tempo è quello sull’ipotesi di candidatura a governatore della Sicilia di Fabrizio Micari, caldeggiato da Leoluca Orlando.
È come se si fossero mentalmente e psicologicamente bloccati nell’attimo fatale del referendum del 4 dicembre, quando dovevano dire perentoriamente «No». I fuoriusciti dal Pd, poi raccolti nella sigla Mdp, preceduta dal richiamo all’Articolo 1 della Costituzione, quello che evoca il lavoro come fondamento primo del nostro Stato, si sono incantati sul «No».
L’ultimo «no», detto anche veto, è quello pronunciato sull’ipotesi di candidatura a governatore della Sicilia di Fabrizio Micari, caldeggiato da Leoluca Orlando che peraltro era assiso con i maggiorenti di «Insieme» nella manifestazione della rediviva sinistra del primo luglio. «No» stentoreo e inequivocabile. Ma prima c’era stato il «No» all’ipotesi di anticipo congressuale del Pd proposta da Matteo Renzi, vero casus belli che ha portato alla separazione. Poi un «No» meno stentoreo alla proposta di Giuliano Pisapia di non frantumare tutti i ponti con il Pd per le prossime elezioni, poi diventato stentoreo quando Pisapia si è prodotto nel solidale abbraccio con Maria Elena Boschi, vedendo diminuita la possibilità di una sua leadership della sinistra che si allea con il centro. In verità c’erano stati alcuni «Sì» nelle candidature unitarie alle elezioni amministrative di giugno ed è stato un disastro, con il centrodestra trionfante. Per cui è tornata prepotente la tentazione del «No» globale. No a tutto, a candidati, alleanze, leader. Come se il «No» fosse il rimedio alla paura della contaminazione. Della contaminazione con Matteo Renzi, ovviamente.
Ma sembra quasi che vogliano indirettamente fargli un piacere a Renzi. Perché c’è solo una persona che, più degli esponenti del Mdp, vorrebbe cancellare dalla faccia della terra anche lontanamente l’alleanza tra il Pd e l’arcipelago ancora parecchio instabile della sinistra in cui hanno preso casa gli ex del Pd: e questa persona si chiama Matteo Renzi. Il quale infatti in Sicilia, come a voler agitare il drappo rosso che fa infuriare vieppiù un toro già abbastanza infuriato, costruisce un asse privilegiato con Angelino Alfano, gonfiando il prevedibile «no» della sinistra con una forza particolare. Ma è solo un pretesto, forse. È che un’antica malattia riaffiora quando tra ex della sinistra l’abisso della separazione crea rancori e risentimenti inestinguibili e ogni barlume di razionalità politica, di semplice ed elementare calcolo, in questo caso il calcolo di evitare la vittoria nell’isola del centrodestra o del Movimento 5 Stelle, viene travolto dalla deriva minoritaria, dalla pulsione alla divisione in minuscoli pezzi che, se soddisfano la legittima ansia di identità e di purezza, portano inevitabilmente allo scacco elettorale. Ossia, in una parola: alla sconfitta. Nobile, pura, ma pur sempre sconfitta.
Ecco perché il gioco dei veti reciproci, dei No incrociati, rischia per il centrosinistra di fare della Sicilia l’antipasto di quello che potrebbe accadere nelle elezioni per il prossimo Parlamento nazionale. E del resto il No a ogni leadership chiara, che sta facendo di «Insieme» il contrario di ciò che dovrebbe essere trasmesso attraverso quel motto, non può diventare una linea politica alternativa e nemmeno un’offerta appetibile per un elettorato sempre più depresso e frastornato. Un «No» che va benissimo per un referendum ma non per una proposta di governo, argomento che non dovrebbe essere estraneo a chi è stato ai vertici del Pd e del governo. La politica dei veti contiene un suo motivo di orgoglio, ma anche un irresistibile impulso suicida. In Sicilia. E anche a Roma.

Repubblica 26.8.17
Battute razziste sui social, accordi con esponenti di destra in nome dell’ordine. Quando gli “estremisti” interni fanno sbandare il Pd
Vendette tributarie e stranieri alla berlina quei dem di periferia che imitano la Lega
di Alessandra Longo


ROMA. In genere svelano i loro intimi convincimenti su Facebook o altri social, magari di notte, dopo aver passato una giornata all’insegna della fatica e delle catene del politically correct. Piccoli “leghisti” di sinistra, o associati alla sinistra, crescono. Carsicamente, qua e là, soprattutto in periferia, soprattutto nelle circoscrizioni, ma non solo. Per esempio, non sarà sfuggito a luglio l’exploit di Marco Andrea Ercoli, esponente di una lista civica, assessore alla sicurezza e alla polizia locale nella giunta di centro sinistra di Rozzano, hinterland milanese, guidata dal sindaco Barbara Agogliati. Il nostro Ercoli ha ripreso su Whatsapp un volantino anonimo che evidentemente aveva attirato la sua attenzione. Testo: «Calendario venatorio, aperta la caccia (tutto l’anno) per la seguente selvaggina migratoria: marocchini, romeni, bulgari, albanesi, kosovari, talebani, afghani, zingari, extracomunitari in genere». Il copione è sempre lo stesso: la frase o l’immagine dal sen sfuggiti, la riprovazione (e, a volte, se iscritti, la sanzione del partito) poi, a seguire, le reazioni del gaffeur: «Sono stato mal interpretato», «non volevo offendere»...
Fenomeno in crescita: esponenti del Pd, o associati a giunte di centrosinistra, che sparano a pallettoni come faceva l’ex sceriffo di Treviso, il mitico Gentilini, che voleva caricare i fucili contro gli immigrati- leprotti. Però lui era un pioniere del Carroccio, questi, invece, dovrebbero essere espressione delle forze cosiddette progressiste. E’ il caso della sindaca di Codigoro Alice Zanardi, Pd doc, balzata agli onori della cronaca pochi giorni fa quando ha deciso di aumentare le tasse comunali a chi accoglieva i profughi. Uno svarione? Nonostante la pioggia di critiche e l’intento sanzionatorio del suo partito, Zanardi si è difesa, a nome della comunità, come una leonessa: «Vengo dal mondo del volontariato, mai stata razzista».
Nel 2013, la sua collega di partito Caterina Marini, consigliera della circoscrizione Centro di Prato, ed ex portavoce del segretario della federazione pratese del Pd di allora Ilaria Bugetti, così commentava su Facebook il furto subito dalla sorella in casa e il ladro sorpreso sul fatto: «Extracomunitari ladri stronzi dovete morire subito. Era un magrebino agile come un gatto. Se mi date della razzista non me ne frega un cazzo». Post subito rimosso, ma la rete non perdona.
Davvero un po’ troppi casi o no? Va inclusa anche la recente performance di Patrizia Saccone, ex assessora ai servizi demografici e pari opportunità della vecchia giunta di centrosinistra di La Spezia, ora passata comprensibilmente, viste le sue idee, sull’altra sponda. La Saccone è appena tornata dalle ferie in Slovenia, Paese che le è piaciuto tantissimo. Sempre su Facebook: «La Slovenia mi lascia un bel ricordo. Case tenute bene e decoro ovunque, nessun arabo in giro e nessun immigrato, nessun mendicante ai supermercati e nessun venditore abusivo... ». Domanda: è Facebook che fa questo effetto o nel territorio si sta facendo strada l’ibrido in politica, un po’ leghista, un po’ compagno? Debora Serracchiani è consapevole del fenomeno: «Anche se hai un ruolo minore devi sapere che le tue parole pesano più di quelle degli altri. Invece sono convinta che spesso chi scrive su Facebook pensa di parlare privatamente in famiglia oppure, al contrario, di commentare al bar sport. Atteggiamenti entrambi sbagliati. A volte, in buona fede, c’è un uso errato della parola. Al di là degli eventi estremi quello che fa cilecca è l’approccio valoriale... Dobbiamo investire di più in formazione e cultura». Sacrosanto. Forse bisognerebbe prendere sul serio le Frattocchie 2.0.
Oppure seguire un’altra strada: fare come il presidente Pd del municipio genovese di Valpolcevera, Federico Romeo, che si è preso direttamente un camerata sovranista e gli ha affidato senza tentennamenti la delega sicurezza, trovando con lui sintonia operativa. «E’ finito il tempo di continuare a dedicare e perdere energie preziose alla ricerca di “etichette “- spiega Romeo - Siamo in un municipio a contatto con i bisogni quotidiani e non immersi nelle alchimie politiche che hanno portato a ben poco».

Repubblica 26.8.17
“Pericolosi 500 mila abusi” Ma i sindaci non utilizzano il fondo per le demolizioni
Il viceministro Nencini: su 50 milioni richiesti solo 3. Ischia celebra i funerali delle due vittime del terremoto. Il vescovo: crolli non colpa dell’abusivismo
di Mauro Favale


ROMA. Un numero preciso non esiste. Una stima, però, c’è: «In Italia, tra le centinaia di migliaia di edifici abusivi, ce ne sono mezzo milione in cui il livello di sicurezza è minimo ». Il dato lo rivela Riccardo Nencini, viceministro delle Infrastrutture con delega alla casa: «La cifra è confermata dall’ordine degli architetti», precisa. Anche Nencini, come Raffaele Cantone nel suo intervento ieri su Repubblica, è convinto che non ci sia un’alternativa agli abbattimenti: «La politica è fatta per decidere: se la norma ti obbliga ad abbattere devi procedere». E a chi, tra gli amministratori locali, nei giorni scorsi ha fatto notare come lo Stato dovrebbe mettere a disposizione la risorse adeguate per le demolizioni, il viceministro risponde così: «Cassa depositi e prestiti ha creato un fondo di 50 milioni di euro destinato ai Comuni proprio per abbattere gli edifici fuorilegge. Sa quanti ne sono stati spesi? Appena 3».
Un dato clamoroso che si aggiunge a un altra problematica segnalata da Nencini: la mancata vigilanza. «Come fanno gli amministratori o i vigili a non accorgersi degli abusi mentre vengono costruiti? Se io devo alzare un piano intero nella mia abitazione non lo faccio in una notte». Anche per questo il governo sta pensando di studiare, di concerto con l’Anci, l’associazione dei Comuni, «un meccanismo di surroga, una norma per colmare queste lacune. Perché se da una parte non procedi con gli abbattimenti e, in più, ci sono voragini nel controllo e nella vigilanza, allora il governo si deve porre il problema di come sostituire i Comuni in queste operazioni ».
Un ragionamento che arriva a cinque giorni dal terremoto di Ischia, mentre, nell’isola non è ancora partita una vera e propria conta dei crolli. Verrà effettuata nei prossimi giorni, come ha stabilito un vertice in procura a Napoli tra pm e carabinieri che ieri, tra l’altro, hanno sequestrato numerosi documenti presso l’ufficio tecnico del comune di Casamicciola. Intanto ieri il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, al funerale delle vittime morte nei crolli di lunedì sera, ha preso da parte il ministro dell’Interno Marco Minniti e gli ha fatto presente che «a Ischia non si può fare come Amatrice: le macerie vanno rimosse in fretta».
Nel frattempo, però, non si placano le polemiche sull’abusivismo nell’isola che, secondo il vescovo Pietro Lagnese, «non può essere ritenuto la vera causa dei crolli. C’è amarezza a essere additati come incoscienti ». Da parte sua, il viceministro Nencini spiega a Repubblica che «gli abusi non sono tutti dello stesso tipo: non posso assimilare la trasformazione di un ufficio in un’abitazione, o “l’apertura” di una finestra con un aumento della volumetria di una villetta che incide sul paesaggio. Se ho un abuso “minore” devo mettere in condizione il cittadino di sanarlo. Se esiste un danno ambientale, economico e un rischio per la sicurezza di tutti devo usare, giustamente, la mano pesante e procedere con le demolizioni».

Repubblica 26.8.17
In tre mesi il presidente francese ha speso 26mila euro per make up e parrucchiere. Ci sono precedenti illustri
Il bello della politica da Macron a Trump tutti schiavi del trucco
di Vittorio Zucconi


Nella spietata crudeltà della telecamera, fondotinta, cipria, correttore di imperfezioni, lacche e gommine sono indispensabili protesi per la naturale bruttezza o per gli insulti dell’età. Se quella del trucco era stata per decenni la condanna delle donne, il caso Macron, come quelli di Silvio Berlusconi e di Donald Trump, ha fatto giustizia almeno di questa discriminazione estetica.
L’immagine è tutto. Mentre politologi, opinionisti, strateghi elettorali setacciano e vivisezionano programmi e parole, il pubblico «vota per quello che vede», diceva Micheal Deaver il mago che creò il Ronald Reagan Show: e con lui, ex attore di Hollywood, aveva vita facile. Ma anche i politici più apparentemente “acqua e sapone”, anche i bacchettoni come Jimmy Carter - che pretendeva i propri due parrucchieri di fiducia alla Casa Bianca a 25 dollari per taglio - cedevano alla vanità dell’apparenza. Si truccava anche Barack Obama per le apparizioni televisive, cercando di rendere più omogenea la propria carnagione che il tempo aveva intaccato.
Ancora i maschi al potere non sono arrivati a mascara, ciglia finte ed estensioni per le chiome. Oggi la sfida per i loro truccatori è l’opposto di quella dei makeup-artist per le donne: gli uni devono rendere più femminili le loro clienti, gli altri si sforzano di mascolinizzare gli uomini, soprattutto quelli con la sindrome del Narciso Alfa, come Donald il Macho. Per i più anziani, i settantenni come Reagan o come Trump, la battaglia per mimetizzare le rughe obbliga ad acrobazie che nel caso di Donald si estendono dal collo da tacchino alla articolata pettinatura. A Ronald, benedetto da una capigliatura rigogliosa e naturale, bastava la lucentezza del classico Brylcreem. Per Donald, come ha spiegato la parrucchiera personale Amy Lasch, la coiffure di gusto pompadouriano richiede una complessa impalcatura di creme, colle, gomme che la ancorino nella innaturale collocazione.
Un volto disfatto, come sempre appare sotto le luci autoptiche delle tv, è vissuto come un segnale, appunto, di disfatta. Il viso struccato di Hillary Clinton quando apparve per ammettere la sconfitta era più di un segnale di fatica e di lacrime . Voleva essere la manifestazione pubblica dei suoi sentimenti privati. Il colorito arancione di Donald, che apparirebbe mostruoso come quello di un tenore lirico fuori dal palcoscenico, vuole invece comunicare ottimismo, salute, freschezza. E deve resistere ai suoi esagitati comizi.
Naturalmente, nell’America dove alla fine si devono seguire i soldi, i costi dell’immagine devono essere contenuti, per non scandalizzare un elettorato che si preoccupa di quanto spenda un politico per pettinarsi più di quanto il Tesoro sprechi in avventure belliche senza fondo. Clinton fu crocefisso per avere bloccato il traffico all’aeroporto di Los Angeles nel 1993, quando fece salire a bordo dell’Air Force One un coiffeur dei divi per acconciargli la soffice capigliatura pepe e sale al prezzo di 200 dollari, che dovette pagare lui. George W. Bush fu sospettato di utilizzare un filo di rossetto, per dare colorito alle sue labbra un po’ esangui, ma la voce fu smentita.
Sorprende naturalmente che un ragazzo, in termini di età dei leader politici, come Emmanuel Macron debba ricorrere alle arti dei truccatori. Il costo, quei 26mila euro, appare più da diva del cinema che da capo dello Stato, ma la tirannide del riflettore non risparmia nazionalità, ideologie, forme di governo.
È impossibile immaginare un De Gasperi col fondotinta, un Berlinguer con la gommina o un Nenni con la cipria sulla calvizie. Ma se anche gli autocrati ed ex colonnelli del KGB come Vladimir Putin si fanno sistemare dai truccatori per ostentare la propria virilità, nessun politico è al riparo. Tutto ciò che è politico, oggi deve essere truccato.

Repubblica 26.8.17
L’intervista.
Dogan Akhanli, autore dissidente, fermato in Spagna dall’Interpol su richiesta di Ankara
Lo scrittore fatto arrestare “Erdogan si sopravvaluta la sua fine non è lontana”
Chi lo può fermare? L’opposizione non ha la forza di batterlo ma i turchi alla fine reagiranno
di Raffaella Scuder


Dogan Akhanli, 60 anni, ora è in libertà condizionata a Madrid

«NON importa quello che accadrà, anche se mi gettano in prigione io non rimarrò in silenzio». Sono le parole di un dissidente turco che conosce bene l’inferno e le torture della prigionia. Ci è già passato tre volte. Dogan Akhanli ha 60 anni. Scrittore, attivista dei diritti umani, è diventato cittadino tedesco nel 2001. L’Interpol lo ha arrestato il 19 agosto a Granada, dove trascorreva le vacanze. Le purghe di Erdogan hanno varcato i confini della Turchia raggiungendo la Spagna. Il duro intervento della cancelliera tedesca Merkel e del ministro degli Esteri Gabriel lo hanno liberato. Akhani è fuori, a condizione che rimanga a Madrid. Dovrà attendere 40 giorni in attesa della decisione spagnola sull’estradizione. Considerato uno dei maggiori scrittori sul genocidio armeno del 1915 compiuto dagli ottomani, Akhanli è scappato dalla Turchia nel 1991, dopo essere stato imprigionato e torturato per due volte. Se la Spagna acconsentisse all’estradizione, Akhanli finirebbe in carcere per la quarta volta.
Akhanli perché è andato in Spagna? Era già noto l’arresto del 3 agosto a Barcellona di Hamza Yalcin, dissidente turco svedese.
«Mi era già successo nel 2010. Sono arrivato a Istanbul per assistere mio padre morente. Mi hanno incarcerato per 4 giorni e poi rilasciato. Le accuse caddero. Sapevo di rischiare. Ma ho scelto mio padre».
Questa volta?
«Quando ho saputo di Yalcin non avrei mai pensato che sarebbe potuto accadere una seconda volta. Sono stato ottimista ».
Cos’è successo quella mattina?
«Alle 7 bussano con violenza alla porta della mia camera d’albergo. Davanti a me, l’unità antiterroristica in assetto di guerra, armi spianate e giubbotti antiproiettili. Io ero in mutande. Loro spiazzati. Sembravo tutto tranne un terrorista. Mi hanno messo dentro. Era surreale finire in una prigione europea. Il giorno dopo fortunatamente ero libero».
Di cosa è accusato?
«Di un furto che avrei compiuto nel 1989 per conto di un’organizzazione terroristica, che non esisteva. Sono stato assolto nel 2010 e di nuovo accusato nel 2013 per lo stesso reato».
Alle prossime elezioni tedesche di settembre, Erdogan ha invitato i turchi-tedeschi a non votare la Cdu, la Spd e i verdi. Cosa ne pensa?
«Cosa ci sta chiedendo? Di votare per i nazisti di destra? È la cosa più stupida che ho sentito dal punto di vista politico. Si sopravvaluta, e questa sarà la sua fine».
Cosa ne pensa di lui?
«Da riformista è diventato un dittatore. E’ un miracolo che sia ancora al potere. Deve essere felice se riesce ad arrivare al 2020. Ha perso il sostegno all’interno e per questo non riesce a mantenere il potere. Lo dimostra l’esito del referendum del 16 aprile».

Repubblica 26.8,17
L’estasi dionisiaca nei morsi e rimorsi dei tarantolati
di Marino Niola


Questa notte a Melpignano nel Salento si rinnova il rito che ha un’eco già nelle Baccanti di Euripide e in Medea E che ha piegato al mito anche San Paolo trasformandolo nel grande taumaturgo immune a ogni veleno
Una menade in estasi danza nella notte. Tamburello nella destra e fiaccola nella sinistra. È una scheggia delle Baccanti di Euripide caduta sotto il tacco d’Italia. E incastonata, come una farfalla nell’ambra, sulla superficie di un vaso greco. Si trova in una sala del bellissimo museo Sigismondo Castromediano di Lecce, appartato foyer del politeismo salentino, dove si cammina piano piano per far perdere le
proprie tracce alle ombre del passato che, nell’austera costruzione gesuitica, vivono la loro cattività archeologica. In attesa del viaggiatore incantato che le le faccia tornare a ballare. Come Agave e le sue sorelle che, nella tragedia euripidea, vengono pizzicate dal pungolo divino, l’oistros, da cui il nostro estro, che scatena epidemie di danza notturna.
Un po’ come fanno ora le menadi femministe quando ballano la pizzica nella Notte della taranta, che domani, anche in diretta tv, riunirà a Melpignano il popolo del ragno ballerino. Sulle tracce di quel che resta dell’aracne mediterranea e del rito musicale che per secoli ha rappresentato l’antidoto ritmico ai palpiti di una terra in trance. «Deliquii giocolieri, estri smarriti» diceva il poeta barocco Giacomo Lubrano che nel ’600 assistette al ballo terapeutico delle donne in preda alla stravaganza velenosa della tarantola. Una musicoterapia che dal Medioevo costituisce un enigma per medici, letterati e filosofi. Nonché un problema per la Chiesa. Costretta a fare i conti con una storia non sua. Fatta di dee vendicative e di numi trasgressivi, morsi e rimorsi. Come quelli delle contadine che dopo aver subito il primo morso, pativano il cosiddetto rimorso, la recidiva del male che si manifestava una volta all’anno. Le chiamavano le spose di San Paolo perché andavano a ballare vestite di bianco a Galatina, come menadi pizzicate davanti alla statua dell’apostolo. Santu Paulu meu de le tarante, facitene la grazia a tutte quante. Era il loro stralunato Help!
Nel tarantismo salentino s’intrecciano i fili di una vicenda che viene da lontano. Da Dioniso e Medea. All’origine c’è proprio lei, la madre di tutti gli infanticidi che, dopo aver ucciso i figli, li gettò nelle acque di Punta Ristola, all’estremo del “finimondo” di Leuca. I due innocenti si trasformarono nei cosiddetti scogli dannati. «È stata lei la prima a sentire il rimorso », dicono le donne di Soleto, Calimera e Sternatia. Un vaso pugliese del III secolo a.C., ora a Monaco, la raffigura mentre fugge via su un carro guidato da un auriga che si chiama proprio Oistros. Pura coincidenza? Difficile, visto che il mito non lascia nulla al caso.
Platone, nelle Leggi, parla di malattie provocate dagli dei e che si curano con il movimento. Saltellando come cerbiatti al suono di strumenti dionisiaci. Proprio quel che facevano le tarantolate, che zompettavano come ninfe epilettiche. Obbedendo incantate al suono del tamburello e del violino, maneggiati da musicisti sciamani che conoscevano, per esperienza, la scala dei temperamenti, la gamma dei toni, le dissonanze degli umori e le consonanze degli amori. Era la rivincita degli antichi dei, declassati a demoni dal cristianesimo che li aveva occultati nei simulacri di santi benedicenti e di angeli svolazzanti. Ma, come diceva García Lorca, niente può l’angelo quando sente un ragno, per piccolo che sia, sul suo tenero piede rosato. Niente può e dunque si ritrae, smarrito, esitante. E proprio in questa esitazione si è prodotto il compromesso storico tra pathos pagano ed ethos cristiano. Che ha avvicendato Aracne e Dioniso, patroni dei sussulti mantici e delle esaltazioni coreutiche, con San Paolo. L’intellettuale della Chiesa, campione del logos e vincitore dell’oistros. Perché a Malta aveva neutralizzato il veleno di un serpente diventandone immune. Così, al termine di un morphing secolare, l’apostolo di Tarso diventa il signore delle tarantole, un Dioniso cristiano. Per effetto di quel dispositivo cumulativo della storia, che non scarta ma ricicla.
Non a caso il Salento è un incrocio di tempi e di culture. Su questo tavolato è passato il mondo: Messapi, Spartani, Romani, Bizantini, Longobardi, Normanni, Svevi, Spagnoli, Turchi, Levantini. Il risultato è il particolare mood salentino. Ragione e arzigogolo, sobrietà e signorilità. Un bizantinismo frugale, che arrotonda gli spigoli del tempo e i caratteri degli uomini. Sovrappone segni, recupera eredità, ricicla identità. Stratifica e giustappone. Al punto da fare di megaliti preistorici come dolmen e menhir, pietrefitte e specchie, matrici di mitologie e leggende. Si dice che ogni menhir custodisca un tesoro. Sotto la Specchia dei mori, a Martano, un paese della Grecia salentina, dove si parla ancora il griko, un dialetto greco giunto nel Medioevo da Bisanzio, sia nascosta una chioccia con dodici pulcini d’oro. E a Giurdignano, la Stonehenge italiana, con le sue lastre allineate in asse solstiziale, si trova il menhir di San Paolo. Una bocca da forno ciclopica al cui interno è dipinta un’immagine del santo. Sullo sfondo rosso, una ragnatela con tarantola. Sopra si innalza un dito preistorico che punta l’assoluto. Pare sia l’ultimo rifugio degli adepti del ragno che fa ballare. C’è chi assicura che vi si svolgano sabba della possessione mediterranea. È la fotografia di un sincretismo vivente che fa del Salento un pandemonio mitologico. Un’officina di simboli. Aveva ragione Aldous Huxley, quando diceva che il cristianesimo ha commesso l’errore di desacralizzare la danza, emarginandola dal suo rituale. Come un residuo pagano da obliterare. Ma quella pizzica che Paracelso ribattezzò Lasciva Chorea, frenesia sfrenata, oggi torna. E diventa il motore culturale di un revival pagano. Feste, sagre, libri, siti che rimettono insieme frammenti di storie per costruire una nuova mitologia del ragno. Upgradando la rete di Aracne con quella del Web. Per costruire il neotarantismo 2.0.
3. Continua

Repubblica 26.8.17
I segreti dell’universo, la musica, la letteratura nel libro postumo del fisico Giovanni Bignami
Capire il Big Bang grazie alla magia di Haydn e Calvino
di Giovanni Bignami


La scena è uno studio della Bbc, a Londra, nel difficile dopoguerra, con Fred Hoyle (1915-2001) finalmente tornato alla scienza, dopo anni passati all’Ammiragliato in un immenso progetto (che occupava più persone e scienziati del famoso Progetto Manhattan) dedicato a studiare contromisure per i radar tedeschi. Avendolo conosciuto personalmente, non avevo dubbi che fosse deciso a rifarsi. Oltre a essere un grande scienziato, Fred è anche un fantastico divulgatore, capace di tenere il pubblico della Bbc incollato a un apparecchio radio. Fa una bellissima serie di lezioni, poi trascritte
in un libretto subito diventato un bestseller, oggi introvabile (ma io ce l’ho…) dal titolo The Nature of the Universe.
Quando arriva il momento di parlare dell’origine dell’Universo, Hoyle difende la sua teoria, detta dello stato “stazionario”: la materia è da sempre creata poco a poco dentro all’Universo, in quantità giusta per continuare a rifornire l’espansione del medesimo Universo, già ben misurata nel 1949. Non gli va affatto bene la teoria opposta, proprio per niente. Dice, e l’enfasi gli fa venir fuori l’accento dello Yorkshire: «Io la chiamo la teoria del “gran botto” (big bang…)» e lo dice in modo chiaramente dispregiativo. Alle 18.30 di quel pomeriggio del 28 marzo 1949, per la prima volta l’espressione “big bang” viene usata in riferimento all’origine dell’Universo. Hoyle aggiunge che questa «teoria del big bang», come poi tutti la chiameranno da quel giorno, fino a quelli della Big Bang Theory della tv trash di oggi, «è come una di quelle ragazze che saltano fuori poco vestite dalla torta di compleanno» per fare una sorpresa, e come tale non è da prendere sul serio.
A definirlo “un grande botto” fu Fred Hoyle alla Bbc, nel 1949
Non dice “deus ex machina” solo perché non era il tipo da parlare latino, anche se lo sapeva benissimo. Hoyle, come vedremo, sarà poi il primo a capire che siamo fatti di polvere di stelle… e quindi pazienza se sul Big Bang aveva sbagliato. Anche per Hoyle, come per Einstein, il minuscolo miracolo non è che l’Universo esista, ma che si faccia vedere da noi, cioè che si manifesti ai nostri sensi. (...) Sono passate molte generazioni di cosmologi da quel 28 marzo 1949, e oggi la teoria del Big Bang (diventato maiuscolo nel frattempo) non è più in discussione: ci crediamo tutti. Ma non per un atto di fede: le prove osservazionali sono ormai schiaccianti e, anzi, continuano a perfezionarsi e ad accumularsi all’apertura di ogni nuovo canale di informazione, cioè man mano che la nostra comprensione fenomenologica dell’Universo si arricchisce di dimensioni. I test osservazionali della teoria del Big Bang sono ben noti oggi: l’osservazione diretta dell’”eco” dell’esplosione iniziale (che però, ricordiamolo, esplosione non è) con la misura della temperatura del fondo del cielo, la misura dell’allontanamento apparente delle galassie e infine la cosiddetta nucleosintesi primordiale, il fatto cioè che noi non siamo una zuppetta insipida di idrogeno, ma che, da subito, la materia si è cominciata ad aggregare in nuclei di elio e poco altro, prima ancora che si accendessero le stelle. Ma a quel punto diventa tutta un’altra storia.
Come si fa a immaginare il Big Bang? Cioè quel momento in cui tutto comincia? Ma che non è un’esplosione perché, invece, è lo spazio che nasce e comincia a espandersi e il tempo che comincia a scorrere? No, non si può immaginare. E chiamare il Big Bang una “fluttuazione quantistica casuale” non è che aiuti molto, se non a convincerci che siamo figli del caso (ma lo sospettavamo da tempo). Riconosciamo i limiti di noi persone normali, smettiamo di tormentare la nostra povera immaginazione antropomorfa, non ce la può fare. Diverso è il caso dei grandi artisti. Joseph Haydn (1732-1809), per esempio, non aveva una particolare cultura astronomica: era semplicemente un genio (anche Beethoven andava a lezione da lui…) e usava la sua musica per dirlo al mondo. Tra il 1796 e il 1798 compose un oratorio, dal modesto titolo di  Die Schöpfung ( La creazione), l’inizio di tutto. I primi dieci, lunghissimi secondi dell’opera, che Haydn chiamò Die Vorstellung des Chaos ( La rappresentazione del Caos), sono la miglior descrizione che io riesca a immaginare non solo del Big Bang, ma anche dell’inizio dell’espansione dell’Universo: esplosione di suono, poi una nota unica, decrescente in intensità e frequenza. Provare per credere: si capisce al volo l’inizio del nostro Universo.
L’altro artista/genio capace di farci immaginare il Big Bang è uno scrittore italiano più vicino a noi, Italo Calvino (1923-1985), che amava la scienza e ammirava Galileo. Nelle Cosmicomiche (1965) scrive un breve racconto che intitola Tutto in un punto (e già qui si comincia bene…). L’incipit quasi basta
Nelle “Cosmicomiche” il racconto dell’origine di spazio e tempo
da solo: «Si capisce che si stava tutti lì, — fece il vecchio Qfwfq, — e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe?» e così via, fino a quando l’affascinante signora Ph(i)Nko dice: «Ragazzi, avessi un po’ di spazio…» e di colpo si creano lo spazio e il tempo solo per poterla guardare fare le tagliatelle. Grazie a Calvino.
Che fosse buio pesto, all’inizio, questo lo sappiamo. Non perché non ci fossero fotoni, che erano stati creati subito come forma di energia insieme alla materia; il problema era solo che non sapevano dove andare, venivano continuamente sbatacchiati dagli elettroni, anch’essi pigiati come acciughe (anzi peggio…). (...) Una conseguenza interessante, e molto rivoluzionaria, della teoria del Big Bang, dai primi istanti fino a oggi, riguarda l’abbondanza degli elementi così come li conosciamo noi, adesso, in tutto l’Universo. La materia della quale sono fatte le stelle, i pianeti e il vostro gatto, è composta da protoni e neutroni, particelle “pesanti” note come “barioni” (dal greco barùs). Gli elettroni, pure importantissimi nella struttura degli atomi, sono 1800 volte più leggeri, quindi contribuiscono poco alla massa totale. La materia barionica è pochina: rappresenta meno del 5 per cento della massa di tutto l’Universo. Di tutto il resto non sappiamo praticamente niente, per questo è stata adottata la definizione “materia oscura”. Per adesso ricordiamoci di questo 5 per cento. Rappresenta un ulteriore, durissimo colpo all’antropocentrismo: e la dimostrazione, dopo Copernico e Darwin, non solo che non siamo al centro del mondo e che “discendiamo” dalle scimmie… ma anche che la materia della quale siamo fatti noi è poco più di un pizzico di sale nella minestra, più o meno come le uvette nel panettone. Chissà quante altre cose importanti sono successe nell’Universo, quando era ancora buio, quante rivoluzioni ci sono nascoste, pronte a spiegare cose che non sappiamo ancora di non sapere.

il manifesto 26.8.17
Addio a Tullio Seppilli, l’antropologo dell’opzione comunista
di Piergiorgio Giacchè


La sera del 23 agosto è morto Tulio Seppilli, antropologo e comunista, come voleva essere definito. Ebreo e figlio di un uomo di scienza e di politica che è stato fra i fondatori dell’Educazione sanitaria e di una donna di cultura e di chiara fama e straordinaria intelligenza (Anita Seppilli), Tullio nasce a Padova nel 1928 ma a dieci anni, in seguito alle leggi razziali, si trasferisce in Brasile, dove compie gli studi e intanto scopre e vive la densità e la varietà culturale. Poi, tornato in Italia, diventerà assistente e collaboratore di Ernesto de Martino e farà parte di quella “prima” generazione di antropologi italiani che – oggi si può e si deve dire – può essere ricapitolata e intitolata come “scuola”. Dell’antropologia italiana, Tullio Seppilli è stato uno dei più attivi e convinti e infine aperti sostenitori e diffusori: in particolare è stato il primo ad allargarne confini oltre le miniere delle tradizioni popolari e a ibridare l’antropologia con la sociologia, promuovendo e perfino precorrendo la nuova antropologia delle “società complesse” o – come più tardi scoprono i francesi – “dei mondi contemporanei”. Fin dagli anni Cinquanta, all’Università di Perugia, ha diretto e prima ancora ‘inventato’ un Istituto di Etnologia e Antropologia culturale coniugato con un Centro studi delle comunicazioni di massa, che è stato per decenni una formidabile sede di formazione e crocevia di iniziative. Quelli che come me hanno avuto il privilegio di partecipare alla vita e all’attività dell’Istituto di Tullio Seppilli, più che un insegnamento magistrale hanno ricevuto una iniziazione professionale, basata sulla insolita e antiaccademica armonia tra enorme libertà personale e gioioso impegno collegiale. Seppilli – a differenza di molti suoi colleghi coetanei – non ha lasciato opere di fama o libri di moda, ma si è continuamente e completamente speso in una operatività indefessa e generosa e infine più ambiziosa. Ha dato vita a decine di nuove istituzioni e associazioni, ha prodotto centinaia di interventi scritti e orali in una miriade di convegni e incontri e riviste, sempre attento alla loro efficacia sociale e sempre coerente con il suo impegno politico.
Perché fare? In una recente intervista che poi è diventata la sua ultima pubblicazione (1), Tullio Seppilli racconta la sua scelta di vita e di lavoro, ma soprattutto rivela come il punto interrogativo sia anche il punto di forza di quanti intendono studiare e fare antropologia. Porsi la domanda sul motivo e sul valore della propria disciplina è sempre salutare, ma nel caso dell’antropologia è tanto indispensabile quanto fertile. L’antropologia culturale è una strana scienza, che forse non ha un suo autonomo fondamento e un suo esclusivo metodo, ma ha la pretesa di aggiungersi – insieme umile e ambiziosa – alle altre scienze dell’Uomo. Una personificazione di Claude Lévi-Strauss, incaricato negli anni Cinquanta dall’Unesco di mettere ordine o forse pace fra le diverse scuole antropologiche, rappresenta una Antropologia «che poggia i pedi sulle scienze naturali, si appoggia alle scienze umane e guarda verso le scienze sociali». Tullio Seppilli ha per così dire ricalcato questa immagine, laureandosi in scienze naturali e formandosi nella filosofia e immergendosi nella storia e proiettandosi nel sociale, riuscendo a impersonare una disciplina antropologica che – a metà fra un parassita e una cariatide – si nutre dei dati e rispetta i metodi di tutte le scienze, ma intanto ne corrobora la sostanza e ne sostiene il senso. Non è un caso se, nel corso degli ultimi cinquanta anni, l’Antropologia culturale sia riuscita a contaminare ogni area di ricerca e ogni tipo di riflessione scientifica, con interlocuzioni ed esplorazioni che hanno davvero fatto il Nostro tempo. Tullio Seppilli è stato un consapevole portatore di questo “valore aggiunto”, cioè dell’originalità ma anche della necessità di ‘fare antropologia’, sempre ponendosi la questione del Perché e del Come fare, peraltro nel suo caso mai disgiunta dalla fondamentale antica domanda “rivoluzionaria” del Che fare.
Per Seppilli, quella che lui chiama «l’opzione comunista» non è stata soltanto adesione a un’ideologia ovvero a un partito politico, ma è valsa anche come ausilio scientifico al lavoro e allo studio dell’antropologo: per via – egli scrive – del «costante richiamo a contestualizzare idee, persone, istituzioni, accadimenti, in un orizzonte storico… e per il metodo e l’abitudine al lavoro di gruppo», e ancora di più per poter «agire sulla realtà», trasformando ogni ricerca in intervento.
Perché infine, quella che era nei suoi propositi fin dai suoi primitivi studi in Brasile, era «una antropologia come ricerca nel cuore stesso della società, dei suoi problemi e delle sue ingiustizie. Un’antropologia per ‘capire’, ma anche per ‘agire’, per ‘impegnarsi’».

venerdì 25 agosto 2017

Corriere 25.8.17
Facciamo decidere l’elettore
di Aldo Cazzullo


L a politica italiana apre una lunga campagna elettorale con il retropensiero che le elezioni non serviranno a nulla, e i giochi si faranno dopo in Parlamento. Si considera inevitabile, come un destino, che il voto popolare non consegni nessuna maggioranza e quindi nessun governo, e tocchi alle alchimie di Palazzo inventare qualche formula o riportare il Paese alle urne.
È un atteggiamento irresponsabile, come ha denunciato il 29 luglio scorso il direttore del Corriere Luciano Fontana. Il 2018 sarà un tornante della storia. L’Europa è chiamata a superare definitivamente la crisi economica, governare le migrazioni, fronteggiare il terrorismo islamico, costruire l’unità in un momento di eclissi della leadership americana. A queste sfide epocali l’Italia rinuncia a rispondere. La Francia ha scelto un leader giovane e gli ha dato cinque anni di pieni poteri. La Germania si prepara a rieleggere per un altro quadriennio la sua Cancelliera. La Spagna ha un governo traballante ma cresce a ritmi più che doppi rispetto ai nostri. In Italia ai segni di dinamismo della società produttiva, in particolare a Milano e nel resto del Nord, non corrisponde la consapevolezza dei partiti e dei loro leader. Eppure il Paese è da ricostruire, come dopo la guerra. Settant’anni fa, forze divise sul piano ideologico seppero trovare regole comuni. Oggi non c’è traccia di un analogo senso di responsabilità.
Certo, si intuisce che si sta preparando un accordo per introdurre un premio di maggioranza alla coalizione vincente.
N é Renzi né Berlusconi sono entusiasti, perché non hanno gran voglia di costruire alleanze (per non parlare di Grillo, che alleanze non ne fa); però nel centrosinistra e nel centrodestra molti premono perché i due tradizionali campi vengano in qualche modo ricostruiti. Ma neppure il premio sarebbe sufficiente a dare una maggioranza di governo. Il problema, come hanno scritto Angelo Panebianco il 7 agosto ed Ernesto Galli della Loggia lunedì scorso, è il sistema proporzionale. Che toglie potere agli elettori per consegnarlo alle segreterie. Che fa del presidente del Consiglio un re travicello in balia delle onde. Ma il proporzionale non è stato scelto dal popolo italiano, anzi; quando gli elettori furono chiamati a esprimersi con il referendum del 1993, in 29 milioni — l’82,74% — votarono per abolirlo. La partecipazione fu altissima: oltre il 77%. Nacque allora la riforma elettorale che porta il nome dell’attuale capo dello Stato.
Con i collegi uninominali si votò tre volte. Due volte, nel 1994 e nel 2001, vinse il centrodestra. Avrebbe vinto anche nel 1996, se non avesse voluto una riforma elettorale sbagliata. Probabilmente vincerebbe anche l’anno prossimo. Non è vero che con tre poli neppure il maggioritario designa un vincitore. Nel 2005 Blair ebbe la maggioranza assoluta con il 35%, con i conservatori al 32 e i liberaldemocratici al 22. Anche in Italia nel 2006 si misurarono tre poli: Prodi conquistò la maggioranza sconfiggendo Berlusconi di misura, con la Lega al massimo storico. Il maggioritario con i collegi uninominali, oltre a creare un legame tra elettori ed eletti, incoraggia e rafforza la tendenza che si crea prima del voto, e che a giudicare dagli umori del Paese potrebbe premiare appunto il centrodestra.
Ma il fondatore del centrodestra italiano, Silvio Berlusconi, il maggioritario non lo vuole. Forse perché il centrodestra come l’abbiamo conosciuto non esiste più. Forse perché Berlusconi preferisce governare con Renzi anziché con Salvini, con un riformista di centro anziché con un lepenista. Ma la prospettiva di un accordo farebbe perdere voti sia a Forza Italia, sia al Pd. Mentre il voto amministrativo, dove si eleggono direttamente i sindaci, conferma che agli elettori le coalizioni e il maggioritario non dispiacciono. A sinistra come a destra.
Una legge con una quota di collegi uninominali appare oggi molto difficile. Ma sarebbe utile al Paese, e forse anche conveniente per più di una forza politica. Certo, i collegi uninominali bisogna vincerli. Occorrono candidati presentabili e radicati sul territorio. Molto più comodo scrivere di proprio pugno la lista dei propri eletti, per poi giocarsi la partita al tavolo delle trattative.

il manifesto
L’Eritrea e la rimozione del passato coloniale italiano
Corno d'Africa. La fuga disperata dal «paese caserma» dove i nomi delle torture sono italiani
di Alessandro Leogrande


Il violento sgombero degli eritrei in Piazza Indipendenza non mette in luce solo l’incapacità della giunta Raggi di affrontare una seria e organica politica di accoglienza dei rifugiati, anche quando questi sono donne e bambini residenti in città da molti anni.
Pone in risalto l’evidente rimozione del passato prossimo e meno prossimo che si riproduce ogni qualvolta ci si trova di fronte alle migrazioni dal Corno d’Africa.
ANCORA UNA VOLTA, si finisce per definire genericamente africani, quando non «invasori», profughi che provengono specificamente dalle ex colonie italiane. Una tale rimozione si produsse, ad esempio, anche in occasione del terribile naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando a morire furono 360 eritrei su 368 vittime complessive. Da cosa scappavano gli eritrei morti a Lampedusa? Da cosa scappano gli eritrei di piazza Indipendenza? E perché, soprattutto in questi anni, gli eritrei scappano in massa?
SONO QUESTE LE DOMANDE che dovrebbero precedere ogni seria riflessione sulle politiche di accoglienza nei confronti di rifugiati che si sono lasciati alle spalle una delle dittature più feroci al mondo. Ma tali domande raramente trovano una risposta.
Gli eritrei (che continuano a essere da anni uno dei principali gruppi nazionali che raggiungono l’Italia dalla Libia) fuggono da un regime che ha privato il suo popolo di ogni libertà civile e politica, che ha imposto il servizio militare obbligatorio, e a tempo indeterminato, per ogni eritreo – uomo o donna che sia – che abbia compiuto 18 anni.
    In pratica, il paese si è trasformato in una immensa caserma-prigione da cui (non solo) ragazzi e ragazze provano a fuggire. Sfidano la morte probabile durante il Grande Viaggio pur di lasciarsi alle spalle la certezza di una intera vita governata dal regime
CHI VIENE RIACCIUFFATO e rispedito indietro, in quanto disertore, finisce direttamente nei gulag nel deserto. Sono almeno diecimila i prigionieri politici vecchi e nuovi. Che tutto questo poi sia stato edificato da Isaias Afewerki, il leader di quello che fu il Fronte popolare per la liberazione dell’Eritrea, un’organizzazione laica e socialista, è doppiamente grave. Come raccontato da molti esuli, ex militanti del Fronte popolare, l’attuale caserma-prigione è stata generata dal fallimento di una lunga lotta di liberazione.
La frattura si è prodotta nella seconda metà degli anni novanta, allorquando gli oppressi di ieri, dopo aver ottenuto l’indipendenza, hanno adottato gli stessi metodi dei precedenti oppressori (quelli dell’occupazione etiopica e, per certi versi, ancor prima, quelli dell’occupazione italiana terminata nel 1943).
OGGI NEI GULAG ERITREI, come accertato da una Commissione d’inchiesta dell’Onu, si pratica sistematicamente la tortura. Qualche anno fa, mi è capitato di incontrare un rifugiato eritreo che era stato detenuto in un campo alle porte di Asmara e di ascoltare dalla sua viva voce il racconto delle violenze subite.
Le torture subite avevano nomi italiani: Ferro, Otto, Gesù Cristo. Improvvisamente ho capito che quei nomignoli si erano tramandati di dominazione in dominazione, dai carcerieri di ieri a quelli di oggi. Per giunta, ho appreso poco dopo, alcuni degli attuali campi di internamento sorgono esattamente laddove sorgevano i vecchi campi coloniali.
    Così, quando si parla dell’esodo dal Corno d’Africa si produce una doppia rimozione, del presente e del passato. Tale doppia rimozione produce quel misto di indifferenza e fastidio che è alla base di uno sgombero privo di reali soluzioni alternative come quello di piazza Indipendenza.
Ieri pomeriggio, intorno alle 15,00, la piazza era presidiata dai blindati della polizia mentre dal palazzo ormai vuoto, che aveva ospitato negli ultimi anni gli eritrei, sventolava un tricolore lacero e stinto. Chissà da quanto stava lì, al primo piano del palazzo. Che tutto questo sia avvenuto a meno di cento metri da Piazza dei Cinquecento, il piazzale che fronteggia la stazione Termini, intitolato ai soldati italiani caduti nella battaglia di Dogali (in Eritrea, nel 1887), una delle pagine nere del nostro colonialismo, reinterpretata negli anni successivi come una sorta di italica Little Big Horn, è una coincidenza che ha il sapore del cortocircuito.

il manifesto 25.8.17
Chi soffia sul fuoco della paura
di Norma Rangeri


Una donna anziana ferita, bambini terrorizzati, immigrati finiti in ospedale, poliziotti con scudi e manganelli all’inseguimento tra le persone ferme ad aspettare l’autobus. E’ in sintesi il bilancio dello sgombero avvenuto ieri a Roma, in un luogo centrale della città come piazza Indipendenza. La cronaca dei mezzi della polizia che arrivano all’alba e scatenano gli scontri usando gli idranti è un pessimo segnale.
Purtroppo questo ennesimo episodio di ostilità verso persone costrette a dormire accampate nei giardini, e tutte con il permesso di soggiorno, è lo specchio di un clima alimentato da mesi. Iniziato con quella che potremmo definire la “politica dei respingimenti” del ministro degli interni verso le Ong. Un clima segnato da episodi di ordinario razzismo nella quotidianità del Belpaese, registrati ogni giorno ovunque, con esempi di sindaci, compresi quelli del Pd, protagonisti di comportamenti di ordinario leghismo. Come è avvenuto anche ieri in provincia di Piacenza con la scritta «no ai neri, no all’invasione» con cui sono stati accolti i minori non accompagnati provenienti da molti paesi africani.
Se è necessario ricorrere alla polizia contro migranti regolari a cui la prefettura ha tolto il palazzo che occupavano da anni, con famiglie e bambini iscritti alle scuole del quartiere, vuol dire che si passa alle maniere forti con i più deboli, con i più poveri. Il ministro Minniiti che ieri ha assistito alla messa per le vittime del terremoto, a Pescara del Tronto, non ha niente da dire?
Non che le dichiarazioni e gli annunci servano a molto, in genere finiscono nel sacco stracolmo delle promesse governative che proprio oggi, anniversario del terremoto di Amatrice, tutti possono vedere quale valore abbiano e di che razza di impegni si tratti.
Ma oltre alla responsabilità del ministero degli interni c’è anche quella di chi governa oggi la Capitale. La giunta Raggi, che alle prime piogge autunnali vedremo galleggiare sulle pozzanghere di Roma, è alle prese con troppe patate bollenti.
Troppi scontri di potere per avere il tempo di occuparsi (lo sfratto del palazzo era in essere da molti mesi) del problema. Al Campidoglio tiene banco la girandola degli assessori, la sindaca Raggi ce ne ha appena regalato uno di Livorno per mettere le mani nel bilancio della capitale, mentre per gli immigrati di piazza Indipendenza la soluzione offerta dal comune si dovrebbe tradurre nello smembramento delle famiglie in due centri di accoglienza alla periferia della città.
Naturalmente la situazione generale è complicata dal fatto che seppure i somali e gli eritrei di piazza Indipendenza volessero andarsene in un altro paese non potrebbero farlo perché glielo impedisce il Regolamento di Dublino. Tuttavia il modo in cui il governo e il comune rispondono ai muri europei non può, non dovrebbe e essere quello dell’emergenza. A meno che non sia strumento di una politica cinica quanto miope, la politica della paura con il suo vasto, frequentato, ambito mercato politico. Condivisa da pentastellati, leghisti, berlusconiani, piddini senza troppe distinzioni tra governo e opposizione. Le elezioni sono ancora lontane ma si cerca la migliore posizione ai nastri di partenza. E l’immigrazione corrisponde al colpo di inizio corsa. Ci sono quelli che bastonano gli ambulanti sulle spiagge, e ci sono gli idranti di chi pensa di governare l’ordine pubblico scatenando lo scontro di piazza contro gli invasori. manganelli, idranti contro sassi, con una bombola lanciata da una finestra. E’ una violenza sconsiderata che non promette niente di buono.
Oltretutto contro persone che fuggono da guerre e siccità, sarebbe da sconsigliare un così insensato spreco di acqua, proprio in una città coperta da sterpaglie, con le risorse idriche in rosso e le fontane a secco.

La Stampa 25.8.17
Roma, è braccio di ferro sul salvataggio di Atac
“Posti di lavoro a rischio”
Mazzillo: io epurato, ma collaborerò da militante
di Federico Capurso


L’azienda del trasporto pubblico romano è in ginocchio, ma «deve essere tenuta in vita a tutti i costi», sostengono i vertici del Movimento 5 stelle. E la via d’uscita è tracciata già da alcune settimane: «Faremo come a Livorno, dove abbiamo già salvato l’azienda dei rifiuti», ripetono come un mantra.
Da queste due frasi passa tutta la strategia del M5S per Atac. Nei «costi» preventivati rientra Andrea Mazzillo, ex assessore al Bilancio di Roma, e la sua «epurazione», come lui stesso l’ha definita. Considerato il più avverso in giunta alla ricetta scelta dai Cinque stelle nazionali per salvare Atac e quindi scaricato “a sua insaputa” dalla sindaca di Roma. Il voler «fare come a Livorno» si traduce invece con l’arruolamento di Gianni Lemmetti, che lascia l’assessorato al Bilancio toscano per approdare in Campidoglio, in sostituzione di Mazzillo.
Liberata la strada e scelti gli uomini, si può procedere. Il piano, al quale si è iniziato a lavorare da alcune settimane, prevede il ricorso al cosiddetto «concordato preventivo in continuità»: una procedura di fallimento guidata dalla magistratura. Il servizio di trasporto nella Capitale verrebbe garantito, così come l’erogazione degli stipendi ai dipendenti. Mentre i debiti da saldare sarebbero discussi con i creditori e pagati solo in parte.
La procedura del concordato impone che ad amministrare l’azienda continui ad essere il debitore, e quindi Atac. Norma che va nel verso giusto per il Campidoglio. Nel 2019 il servizio del trasporto romano sarebbe dovuto infatti essere messo a gara pubblica. E Atac, nelle condizioni in cui è attualmente, avrebbe fatto difficoltà persino a concorrere. In questo modo, invece, con un piano di ristrutturazione che andrà ben oltre il 2019, Raggi potrà mantenere pubblico il servizio, scongiurando l’arrivo di privati se non per una soglia del 10% (che già esiste). Un obbiettivo dichiarato in campagna elettorale raggiunto, per assurdo, grazie ai conti in rosso dell’azienda. Altro obbligo previsto è quello di cedere l’attività, pur continuando ad amministrarla, oppure di scorporarla in altre società più piccole. Quest’ultima sembrerebbe l’opzione preferita: due o tre imprese con compiti e debiti ripartiti. Alla base di tutto, dovrà essere presentato un business plan con i costi e i ricavi previsti negli anni a venire. Impresa non da poco, visto che l’ultimo bilancio pubblicato da Atac risale al 2015. Per trovare le risorse e le coperture necessarie, inizialmente si era pensato di vendere alcuni immobili dell’azienda ad altre partecipate del Campidoglio (come Acea) per mantenerne indirettamente la proprietà. Adesso, però, sembra che l’idea di metterli all’asta, aprendo ai privati, possa essere preferibile in termini di liquidità immediata.
Il concordato nasconde però i suoi rischi. Atac ha infatti un miliardo e mezzo di debiti. Di questi, 429 milioni di euro sono crediti vantati dal Comune, già messi a bilancio dal Campidoglio e che «con il concordato rischiamo di perdere», mette in guardia Mazzillo. Non tutti, ma almeno in parte. Difficile che le casse di Roma riescano a digerire un’operazione del genere, sostiene ancora l’ex assessore al Bilancio: «Il pericolo è di passare dal commissariamento di Atac a quello del Comune». E se è vero che gli stipendi verrebbero garantiti, non è altrettanto sicuro che si riesca ad evitare un taglio del personale. Dei tredicimila dipendenti complessivi, solo i settemila autisti avrebbero maggiori garanzie di mantenere il posto. Un punto sul quale Mazzillo ha sollevato seri dubbi, anche con Luigi Di Maio «che si era dimostrato sensibile al tema», sostiene l’ex assessore romano. Rispetto al «sacrificio in termini di posti di lavoro- dice Mazzillo - bisogna trovare una soluzione in bonis per preservare anche le famiglie». Per questo, l’assessore epurato si propone come collaboratore esterno alla giunta, «da semplice attivista», per aprire un tavolo di confronto su Atac.

Corriere 25.8.17
Il pasticciaccio brutto dell’Atac
Tutti i dubbi sul supermanager M5S
di Federico Fubini


Appare in violazione delle norme anticorruzione il cumulo di cariche di Simioni
N on deve sentirsi invidiato, al mattino quando si reca in ufficio: né dai suoi collaboratori, né dai manager di aziende normali quale un tempo era anche lui.
Paolo Simioni, nato a Valdobbiadene in provincia di Treviso poco meno di 57 anni fa, ha appena ricevuto uno degli incarichi più apparentemente donchisciotteschi d’Italia. Deve risanare Atac, la società del trasporto pubblico locale di Roma che versa in crisi finanziaria e di liquidità con oltre 1,3 miliardi di debiti, dopo un decennio (quasi) ininterrotto di bilanci in rosso. A Simioni, un laureato in Ingegneria civile con il massimo dei voti, non manca l’esperienza alla testa di aziende complesse. Soprattutto quando queste si trovano alla frontiera fra il settore pubblico e il mercato. Per anni è stato amministratore delegato di Save, la società a partecipazione pubblica che controlla gli aeroporti di Venezia, Treviso e Verona. Prima ancora, in alleanza con Ferrovie dello Stato, ha guidato Centostazioni Spa. È questa sua storia, a quanto sembra, ad avergli guadagnato il rispetto di figure determinanti del Movimento 5 Stelle come Davide Casaleggio e lo stesso Beppe Grillo .
Ma con Atac né il curriculum né gli sponsor possono bastare. Per ridare ossigeno all’azienda del Comune di Roma — magari attraverso un parziale, ordinato e legale default sul debito — serve tutta l’influenza possibile. Simioni ha fatto passi avanti: il 31 luglio Virginia Raggi, il sindaco pentastellato di Roma, l’ha nominato nuovo presidente e amministratore delegato di Atac. Dall’esterno, un giornale che segue M5S senza ostilità preconcetta come Il Fatto Quotidiano ha visto nella sua nomina una mossa dei leader nazionali del movimento («Casaleggio governa Roma da Milano», è il titolo del primo agosto scorso).
All’interno dell’azienda la carica di presidente e amministratore delegato ha però un valore preciso: può gestire con la sua firma un concordato preventivo che porti a un accordo con i creditori. Si tratta del potere che era mancato a Bruno Rota, il quale da marzo a luglio aveva gestito Atac come direttore generale prima di dimettersi. Quindi il 10 agosto Simioni si rafforza ancora di più, perché il consiglio di amministrazione dell’Atac lo nomina anche al posto che era stato di Rota: direttore generale.
Ora il manager ha tutti i poteri. Resta una domanda: è legale?
Rispondere con certezza è impossibile perché l’Anac, l’autorità anti-corruzione guidata da Raffaele Cantone, non si è pronunciata né risulta sia stata consultata dal comune di Roma o dall’azienda. Ma la normativa non sembra dalla parte di Simioni, in particolare quella legata alla più recente legge anti-corruzione. Uno dei decreti di quel pacchetto, il 39 approvato l’8 aprile del 2013, all’articolo 12, comma primo proibisce il cumulo di altre poltrone da parte di un presidente e amministratore delegato di una società di proprietà di un comune. Si legge: «Gli incarichi dirigenziali negli enti di diritto privato in controllo pubblico sono incompatibili con l’assunzione o il mantenimento della carica di presidente e amministratore delegato nello stesso ente di diritto privato in controllo pubblico». Insomma non si può fare allo stesso tempo il presidente (o amministratore delegato) e il dirigente. Poco sotto poi si precisa: «Gli incarichi dirigenziali (...) sono incompatibili con la carica di componente degli organi d’indirizzo negli enti di diritto privato in controllo pubblico di comuni di oltre 15.000 abitanti». Non si può sedere in consiglio d’amministrazione ed essere dirigente della stessa società pubblica.
Si potrebbe sospettare che esistano eccezioni, ma non sembra sia così. Un parere del 2014 della Civit, la stessa autorità per la trasparenza di recente ribattezzata Anac, è netto: non si può essere sia dirigenti che amministratori delegati di una municipalizzata. Non è chiaro perché Atac, Raggi e Simioni abbiano rischiato una violazione così vistosa delle norme anti-corruzione. Di certo Simioni fino al mese scorso guadagnava 240 mila euro lordi l’anno — il massimo possibile nel settore pubblico — con il suo incarico di «coordinamento» delle partecipate del comune di Roma. Invece il ruolo di presidente dell’Atac valeva appena 79 mila euro. Solo un compenso da direttore generale in teoria poteva permettere a Simioni di risalire fino a 240 mila, anche in un’Atac vicina al default. Ma è impossibile sapere con certezza quanto guadagna con quest’ultima nomina il manager veneto: a varie richieste di fare chiarezza in proposito, ieri in pieno orario d’ufficio, l’Atac non ha risposto.

Il Fatto 25.7.17
Lemmetti: da Livorno a Roma, la sfida del concordato in Atac
Il precedente - Aamps, portata in Tribunale da Nogarin, ora è in utile. Mentre l’azienda del trasporto romano ha un rosso da 1,3 miliardi
di Andrea Managò


Nella storia di Aamps, la municipalizzata dei rifiuti di Livorno, c’è uno spaccato delle inefficienze più diffuse nelle oltre 5.500 aziende partecipate dagli enti locali in Italia. Conti in rosso a fronte di un servizio poco efficace e personale amministrativo spesso “in quota” politica. Più una singolare particolarità: un’indagine della Procura cittadina – a carico tra gli altri del sindaco M5S Filippo Nogarin e del suo ex assessore al Bilancio Gianni Lemmetti (passato mercoledì alla stessa carica in Campidoglio) – per bancarotta fraudolenta senza che l’azienda livornese dei rifiuti abbia mai dichiarato fallimento. Con il documento del Tribunale che declina l’ipotesi di reato al futuro “in Livorno, alla data di omologazione del concordato preventivo, ovvero del fallimento di Aamps”.
La vicenda. A fine 2015, invece di procedere a una nuova ricapitalizzazione, la giunta Nogarin (in carica dall’anno precedente) ha scelto la via del “concordato preventivo in continuità” per la municipalizzata dei rifiuti, gravata da debiti per 42 milioni di euro. Tra consigli comunali infuocati, proteste dei lavoratori e polemiche incrociate, col sindaco che parla di “situazione disastrosa lasciata in eredità dal Pd” e l’opposizione dem che replica “butta la palla fuori dal campo”, ad aprile 2016 arriva l’apertura del fascicolo di inchiesta. Poi lo scorso 10 marzo la sezione fallimentare del Tribunale di Livorno ha riconosciuto “l’assoggettabilità” di Aamps al concordato preventivo. Ovvero: i conti consentono la prosecuzione dell’attività e ora la municipalizzata potrà congelare i suoi debiti e spalmarne il pagamento fino al 2021. Il piano prevede, oltre alla liquidazione integrale dei crediti privilegiati, il pagamento dall’80% in su del credito chirografaro (cioè quello non assistito da garanzia o pegno) entro un massimo di 5 anni.
Non solo: il lavoro di pulizia contabile quest’anno ha dato i primi frutti producendo una riduzione della tariffa dei rifiuti del 2% per gli immobili fino a 70 metri quadri. L’Aamps inoltre ha chiuso il bilancio 2016 con 2,3 milioni di euro di utili e nel nuovo piano industriale ha inserito un programma di 56 nuove assunzioni associato alla riduzione della tariffa media Tari pro-capite da 224 a 186 euro entro il 2021.
Tra i protagonisti di questo percorso, che al momento sembra premiare la scelta del sindaco Nogarin, il suo ormai ex assessore al Bilancio Gianni Lemmetti, da ieri ufficialmente in Campidoglio come titolare del Bilancio al posto di Andrea Mazzillo, che ha bollato la revoca della sua delega da parte di Virginia Raggi come “un’epurazione fatta con una modalità inaccettabile”. Per ora Lemmetti si limita solo a una frase di circostanza: “Sono stato chiamato qui dalla sindaca per mettermi a disposizione, datemi la possibilità almeno di salutare i miei colleghi”.
La principale missione che gli verrà affidata è quella di replicare il concordato anche in Atac, la malandata azienda di trasporto pubblico della Capitale. Certo, la sfida è di proporzioni ben differenti, perché se Aamps conta poco più di 300 dipendenti, Atac ne annovera 11.700. Per non parlare del versante contabile: qui i debiti ammontano ad 1,3 miliardi. Mazzillo è caduto proprio per la sua contrarietà al progetto di portare i conti dell’azienda alla revisione del Tribunale, oltre che per le critiche ai vertici nazionali M5S.
Sulla partita dei trasporti si gioca una buona fetta della riuscita dell’esperienza pentastellata alla guida della capitale, perché, assieme allo smaltimento dei rifiuti, rimane uno dei servizi pubblici più carenti. Per conoscere i conti capitolini serve tempo, il Campidoglio ha centinaia di centri di spesa, che spesso non dialogano tra loro. Tempo però che Lemmetti non avrà a disposizione perché la Giunta ha l’obiettivo di instradare il concordato entro settembre. Già la prossima settimana è attesa la seduta del cda di Atac per votare il bilancio 2016, primo passo per certificare i conti aziendali e avviarli lungo la strada del concordato preventivo.

La Stampa 25.8.17
E in Turchia arrivano gli autobus per sole donne
Nelle città più religiose si fa strada la separazione di genere
di Marta Ottaviani


Nella «Yeni Türkiye», la Nuova Turchia, sempre più devota, di Recep Tayyip Erdogan, iniziano a proliferare i luoghi per sole donne. Mezzi di trasporto, alberghi, feste, persino scuole e ricevimenti ufficiali. Una tendenza che per il momento si sta manifestando soprattutto nelle città più conservatrici dell’Anatolia, dove Erdogan e il suo Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, che guida il Paese dal 2002, hanno il bacino di voti più importante. Ma che sembra sempre più il risultato di un’agenda politica precisa.
L’ultimo scandalo, solo in ordine di tempo, viene dalle città di Malatya, dove dal mese prossimo entreranno in funzione gli «autobus rosa». L’idea era stata suggerita nel lontano 2002 dalle donne del Partito Islamico della Felicità (Saadet Partisi), una formazione fondata dal padre politico di Erdogan, Necmettin Erbakan, ma era stata rapidamente bocciata in quello che, solo 15 anni fa, era un altro Paese. A giugno, il Comune di Bursa, una delle città più religiose del Paese e con un glorioso passato ottomano, aveva annunciato l’introduzione di vagoni in metropolitana per sole donne. L’iniziativa ha provocato la protesta da parte dell’opposizione, ma la replica dell’amministrazione, ovviamente targata Akp, è stata che il provvedimento era stato varato per «soddisfare una richiesta della cittadinanza».
Sembrano lontani i tempi in cui la formula «haremlik-selamlik», letteralmente locali divisi per donne e uomini, sembrava solo un’idea imprenditoriale per attirare turisti dal Medioriente. Correva l’anno 2007, la Turchia sembrava navigare con il vento in poppa verso la piena democratizzazione e verso l’ingresso in Unione europea. L’allora premier Erdogan era acclamato da molti come un sincero riformatore e i timori dell’opposizione laica sembravano, nella migliore delle ipotesi, esagerati. Ma era già possibile vedere i primi segnali di una società che stava cambiando. Nelle maxi strutture sulla costa mediterranea, con piscine, spa e discoteche rigorosamente separate, ci andava anche la nuova borghesia religiosa che ha preso sempre più potere economico in Turchia durante l’era Erdogan. Oggi in tutte le principali città sono presenti ristoranti dove donne e uomini mangiano in sale diverse e saloni per le feste, soprattutto matrimoni e sunnet (la circoncisione) che prevedono la separazione dei sessi.
Del resto, ormai, è arrivata anche «la benedizione» delle istituzioni. A maggio, il presidente del Parlamento, Ismail Kahraman, lo stesso che il mese prima aveva dichiarato che la nuova costituzione «non doveva essere laica», ha organizzato due iftar, la cena che rompe il digiuno del Ramadan, una per i deputati uomini e l’altra per le colleghe donne.
Dai primi segnali di separazione dei sessi non si salva nemmeno la scuola. A ottobre dell’anno scorso, a Mersin, nel Sud del Paese, in una scuola media, il preside aveva dato ordine che le studentesse e gli studenti non sedessero una di fianco all’altro. In un liceo di Konya, la città più religiosa della Turchia, dove si trova la tomba del Sufi Mevlana, sul sito di un liceo è stata pubblicata l’avvertenza che «nell’anno scolastico 2017-2018 le lezioni proseguiranno con le ragazze separate dai ragazzi». Il sindacato scuola (Egitim-Sen) ha parlato di «situazione vergognosa e di laicità in pericolo».

La Stampa 25.8.17
Il Brasile cede l’Amazzonia ai mercanti globali dell’oro
Via libera del governo Temer alle trivelle nell’area protetta di Renca: “Faremo ripartire il Paese”. Gli ambientalisti: “Sarà una catastrofe”
di Lidia Catalano


Un’immensa riserva naturale dell’Amazzonia si prepara a diventare nuova terra di conquista dei cercatori d’oro. Il via libera porta la firma del presidente brasiliano Michel Temer, che mercoledì ha abolito la National Reserve of Copper and Associates (Renca), aprendo la strada alle trivellazioni in un’area ricca di minerali e metalli preziosi che si estende per oltre 46mila chilometri quadrati, a cavallo degli Stati settentrionali di Amapa e Para.
«La misura punta ad attrarre investimenti nel Paese e a creare nuovi posti di lavoro, nel rispetto della sostenibilità ambientale», ha dichiarato in un comunicato il ministero per l’Estrazione e l’Energia, precisando che nove aree della riserva, incluse quelle abitate dalle popolazioni indigene, «continueranno ad essere tutelate».
L’ira degli ambientalisti
Ma le rassicurazioni non sono bastate ad alleviare i timori degli ambientalisti, secondo cui l’attività di estrazione mineraria nella zona porterebbe a «esplosioni demografiche, deforestazioni, distruzione delle risorse idriche, perdita di biodiversità e creazione di conflitti territoriali». Secondo un recente rapporto del Wwf, la principale area di interesse per l’estrazione di rame e di oro si trova proprio in una delle aree protette, la Riserva Biologica di Maicuru, «popolata da comunità indigene di varie etnie che vivono in isolamento» e una corsa all’oro nella regione potrebbe «creare danni irreversibili a queste culture». «È più grande attacco all’Amazzonia degli ultimi 50 anni - ha denunciato il senatore dell’opposizione Randolfe Rodrigues - neppure la dittatura militare o la costruzione dell’autostrada trans-Amazzonica riuscirono a produrre una tale devastazione».
Secondo i dati dell’Inpe, l’Istituto di ricerca sull’Ambiente brasiliano, tra agosto 2015 e luglio 2016 sono andati perduti circa 8000 chilometri quadri di foresta Amazzonica, pari a oltre cinque volte l’area di Londra. Nell’arco di appena dodici mesi il tasso di deforestazione è cresciuto del 29 per cento: per ritrovare cifre simili bisogna tornare al 2008. Il governo Temer assicura che le trivelle saranno autorizzate ad operare soltanto in un’area pari al 30 per cento del’ex riserva naturale, la cui superficie totale supera per estensione la Danimarca. Fondata nel 1984 sotto l’allora dittatura militare, la riserva di Renca fu nominata area protetta per consentire le estrazioni minerarie solo alle compagnie di Stato. Il governo brasiliano ha accompagnato il cambio di passo con la promessa che l’apertura ai privati dopo 33 anni di interdizione «porterà enorme ricchezza nel Paese e contribuirà ad estirpare le attività di estrazione illegale in Amazzonia».
Ma secondo gli ambientalisti e l’opposizione la mossa rientra nell’aggressiva strategia di sfruttamento delle risorse minerarie messa in campo da Temer. Il presidente - su cui pende una pesante accusa di corruzione nell’ambito di un’inchiesta che ha già portato in carcere dirigenti statali e delle principali multinazionali brasiliane del settore petrolifero - ha infatti in programma di dare il via libera alle trivellazioni di compagnie nazionali e straniere in 20.000 siti minerari distribuiti in 400 parchi nazionali.
«Lula da Silva and Dilma Rousseff erano molto più attenti a salvaguardare il nostro patrimonio naturale», lamentano gli attivisti, mentre il governo insiste sull’importanza di questa spinta per trascinare il Brasile fuori dalla più grave crisi economica dell’ultimo secolo. «Nessuno ignora l’importanza dell’attività mineraria per risollevare il Paese», è la replica di Michel de Souza, coordinatore di Wwf Brasile. «Ma se il governo tirerà dritto senza valutare le conseguenze sull’ambiente e sulle comunità locali andremo incontro a una catastrofe annunciata».

La Stampa 25.8.17
Carlo Petrini
“Il danno è irreparabile vanno fermati adesso”
“Distruggeranno un patrimonio e creeranno servi della gleba”


Carlo Petrini, come cambierà il mondo con questo decreto per lo sfruttamento minerario dell’Amazzonia?
«È un punto di non ritorno. Quando si creano ferite così profonde nel territorio, a livello dei suoli, le conseguenze diventano irreversibili. Dobbiamo fermarci finché siamo in tempo».
Il governo brasiliano sostiene che le foreste e le riserve delle popolazioni indigene saranno salvaguardate. Lei ci crede?
«No, sono le solite parole abusate, che hanno perso ogni significato. C’è questo termine: sostenibilità. Ritorna sempre. Quando lo senti in bocca a un governo o alle multinazionali bisogna fare molta attenzione. Sostenibilità viene dal sustain, il pedale del pianoforte che fa durare una nota più a lungo. È questo che chiediamo: di far durare il più a lungo possibile le riserve naturali. Non sono infinite. Dove c’è distruzione e deprivazione del territorio non c’è sostenibilità possibile».
Lei conosce quella regione. Da lì arrivano molti contadini di Terra Madre. Può raccontarla?
«Sono stato diverse volte in Amazzonia. È grande come metà dell’Europa. È il più immenso tesoro che l’umanità abbia a disposizione: un tesoro per la maggior parte ancora sconosciuto. Questa nuova industria estrattiva occuperà una zona vasta come la Danimarca. Ed ha un limite naturale: quando avrà finito, intorno resterà il deserto. Pezzo dopo pezzo, perderemo il tesoro».
Il senatore all’opposizione brasiliana Randolfe Rodrigues dice che si tratta del più grande attacco all’Amazzonia degli ultimi cinquant’anni. Esagera?
«Forse ha calcato un po’ la mano, ma sicuramente è un altro passo verso l’autodistruzione. Da un’attività estrattiva di quel genere consegue l’insediamento di villaggi minerari con popolazioni disperate. Tutto torna indietro, a quanto pare. Siamo di nuovo a Marcinelle. Il lavoro del minatore è il più faticoso ed umiliante in assoluto. A queste concentrazioni di poveri minatori dovranno portare l’acqua. Costruiranno case scadenti, creeranno delle vie. Taglieranno foreste».
È finita l’epoca di Chico Mendes, il sindacalista che lottò tutta la vita contro il disboscamento dell’Amazzonia. Lei cercherà di fare qualcosa di concreto?
«Certamente. Tutte le associazioni si stanno muovendo. Anche Slow Food Brasile e Terra Madre. Il movimento Sem Terra, il Wwf e Via Campensina, la più grande associazione contadina del mondo. Anche le organizzazione indigene sono sul piede di guerra, tutte. Partiamo da questo dato, che sembra quasi incredibile: in Brasile il 2,8% dei proprietari terrieri possiede il 56% dei terreni agricoli. E ancora: l’1% delle aziende agricole occupa il 45% della superficie totale. Siamo ai servi della gleba. Non si è ancora risolto il problema delle masse dei contadini poveri. Non solo non vogliono dividere la terra. Intendono andare a estrarre risorse, vogliono impoverirla. E la decisione arriva da un presidente completamente squalificato e plurinquisito come Temer».
Proprio lui sostiene che questa decisione, attraendo nuovi investimenti, porterà soldi e sviluppo.
«È una favola che va decodificata. Di quale sviluppo stiamo parlando? I depauperamenti dei territori, dell’agricoltura e della biodiversità sono sempre forme distruttive. Non di sviluppo. Lì sta il paradigma. Non ci sarà una distribuzione delle ricchezze. Non ci saranno bene comuni. Centinaia di migliaia di persone non avranno alcun ricavo. L’industria estrattiva distruggerà territori, creando nuovi schiavi. Come già succede in Africa per i minerali che servono ai nostri telefonini».
Perché quello che succede in Amazzonia è importante anche qui?
«Perché quell’immenso polmone verde mantiene l’equilibrio del pianeta. Pulisce l’aria del mondo. Ne usufruiamo anche noi. E forse, un giorno, sarà giusto pagare un dazio. Siamo in una situazione in cui il rispetto dell’ambiente è ormai una questione sovrannazionale. Riguarda tutti. L’Italia, la Cina, gli Stati Uniti. Non è possibile continuare a danneggiare l’ambiente, non è possibile non ragionare in termini globali».
Quale sarebbe, secondo lei, la priorità?
«Riuscire a capire una volta per tutte che sviluppo e ricchezza, specialmente nei Paesi poveri, devono sempre essere in accordo con la produzione alimentare, la produzione primaria di cui tutti abbiamo bisogno. L’estrazione dell’oro va nelle mani di pochi, questo dice la storia della umanità. L’agricoltura è un bene universale. Per questo va difesa la terra, la dignità dei contadini e il tesoro della foresta amazzonica, il grande polmone verde del pianeta».

La Stampa 25.8.17
Così si regredisce all’epoca coloniale
Il rilancio economico ignora la Terra


la decisione del Brasile è gravissima, perché porterà alla distruzione di altre centinaia di ettari dell’Amazzonia, che è non solo il più grande polmone verde del mondo, ma ha anche una ricchezza inestimabile in biodiversità ed è la casa di tante comunità indigene, i cui diritti verranno violati. Purtroppo, l’America Latina, invece di cercare seriamente altre vie di sviluppo, sta tornando all’estrazione su vasta scala, come in epoca coloniale, con profonde ricadute anche sulle economie locali e sui livelli di corruzione.
Le attività di estrazione, anche utilizzando le migliori tecnologie a disposizione, provocano inevitabilmente profonde e inguaribili ferite ecologiche, spesso compensate mediante la protezione di altre zone di particolare valore ambientale. Tuttavia, nella giungla tropicale, l’impatto più grave non sono tanto i segni lasciati in loco dalle miniere quanto la costruzione di arterie di comunicazione che finirebbero per attirare migliaia di «campesinos», contadini senza terra che comincerebbero a estirpare grandi porzioni di bosco per lavorare il legname e poi stabilire parcelle per il loro sostentamento. Dopo questa colonizzazione arriverebbero anche le aziende di allevamento su vasta scala simili a quelle che, in passato, hanno introdotto la loro produzione di carne in altre zone dell’Amazzonia.
Non dobbiamo ingannarci ancora: l’esperienza internazionale degli ultimi decenni ci insegna che la costruzione di autostrade e altre infrastrutture necessarie per l’estrazione mineraria e petrolifera porta all’inevitabile distruzione e degrado sia degli ecosistemi sia delle culture e comunità indigene. I governi dovrebbero affrontare con trasparenza la questione della ricchezza naturale nell’Amazzonia: fin dove sfruttare le sue risorse e fin dove conservare la sua biodiversità e i suoi ecosistemi, di vitale importanza per la regione, l’umanità e la stabilità nel pianeta?
Evidentemente, vista l’ultima decisione dell’amministrazione brasiliana, i governi regionali sembrerebbero essere convinti che vale la pena correre il rischio di sacrificare tutta questa ricchezza in cambio del miraggio di essere trascinati dalla locomotiva dell’estrazione mineraria verso la terra promessa della prosperità economica.
(Testo raccolto da Pablo Lombò)

La Stampa 25.8.17
Theodor Herzl, il sogno diventato start-up
Nell’agosto 1897 si riunì a Basilea il Primo Congresso Sionista. Ispirandosi al Risorgimento italiano, il suo animatore guardava alle radici bibliche per forgiare l’ebreo nuovo, non più disposto a subire violenze e disprezzo
di Lea Luzzati


«Se lo volete non sarà un sogno» è la frase che ne disegna la storia: una proposizione ipotetica che in principio aveva tutti i connotati dell’utopia assurda, ma che a poco a poco prese corpo, sostanza, realtà. «Se lo volete non sarà un sogno», disse Theodor Herzl in occasione del Primo Congresso Sionista, 120 anni fa, nella quieta Basilea, e lo ripeté sino alla fine della sua breve vita.
Nato a Budapest in una famiglia ebraica assimilata e profondamente acculturata, il fondatore del movimento risorgimentale ebraico si ritrovò giovane corrispondente per la Neue Freie Presse a Parigi, nella tempesta dell’infame processo Dreyfus che, se condannò il povero e fedele ufficiale francese all’esilio, regalò invece a lui una disincantata folgorazione: l’antisemitismo è inguaribile e si radica anche nelle società evolute, a dispetto dei Lumi e dei diritti civili quasi universalmente riconosciuti. Per gli ebrei l’unica soluzione di sopravvivenza e dignità è la conquista di una «completezza» nazionale e di una autonomia politica. Il ritorno a una patria. I figli d’Israele dovevano diventare «un popolo come gli altri», riavere tutto ciò che definisce una nazione: terra, bandiera, autodeterminazione. A questo obiettivo Herzl dedicò il resto della propria vita - ma morì a soli 44 anni, nel 1904, senza fare in tempo a vedere nella Shoah la più drammatica conferma del suo pessimismo e nella nascita dello Stato d’Israele, dove dal 1950 riposano le sue spoglie, la realizzazione di quello che non rimase un sogno.
Tempi di pogrom
Cento e venti anni fa a Basilea il movimento sionista si riunì con l’obiettivo di dare una autonomia politica e civile al popolo ebraico disperso ai quattro angoli del mondo e vittima in quegli anni di sfoghi di violenza e persecuzioni: i pogrom che imperversavano nell’impero zarista mietevano vittime e costringevano alla fuga migliaia di anime. Come bene esempla il titolo del libro di Herzl che teorizza seppure in forma narrativa la nascita del futuro Stato - Altneuland, «nuova vecchia terra» - il sionismo guardava al passato remoto, tornava alle radici bibliche della storia, a quando gli israeliti avevano un regno sulla propria terra. Ma per contro aveva come obiettivo quello di forgiare un ebreo nuovo, non più disposto a chinare la testa passivamente davanti alla catena di avversità, odio e disprezzo che avevano segnato gli ultimi duemila anni. Un ebreo nuovo capace di riprendere - in primo luogo fisicamente con il lavoro manuale - il contatto con la terra.
E in fondo tutta la storia del sionismo, che prende il nome da una collina di Gerusalemme, Sion, evocata con nostalgia dagli esuli della prima Diaspora deportati in Babilonia, è un cammino sul filo in equilibrio tra passato e futuro. Da Theodor Herzl, che aveva nel Risorgimento italiano il suo primo e fondamentale modello politico, a David Ben Gurion, padre della patria che sempre propugnò il cammino verso Sud, verso il deserto del Negev dove secondo lui stavano il futuro del popolo e le risorse materiali e mentali per edificare la storia, tutta l’epopea del sionismo è segnata sia da un richiamo alle radici lontane sia dalla ricerca di un futuro libero, aperto.
Il Primo Congresso Sionista, tenutosi a Basilea dal 29 al 31 agosto 1897, avvia un processo interno ebraico: si creano organizzazioni, si definiscono i lineamenti di una educazione alla rinascita nazionale. Theodor Herzl e gli altri esponenti del movimento si dedicano a una fervida attività politica e diplomatica in cerca di un focolare nazionale per i figli d’Israele. Il sionismo è dunque un insieme di iniziative politiche, culturali ed economiche volte alla rinascita nazionale per il popolo ebraico. È anche e forse soprattutto un insieme di ideali intrinseco all’ebraismo, cui la modernità può dar voce. Nulla di artificiale, anzi: è l’autentico spirito dell’ebraismo che si confronta con la storia.
Lo Stato d’Israele
Cinquant’anni esatti dopo il Primo Congresso Sionista, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite approvano a maggioranza una risoluzione che prevede la creazione di due Stati «palestinesi»: uno ebraico e uno arabo. Nella Palestina sotto mandato britannico c’era infatti da generazioni una società ebraica strutturata, attiva, consapevole: uno Stato di fatto, dotato di istituzioni politiche, sistema educativo, servizi. Nel maggio del 1948 nasce lo Stato d’Israele. Da allora esso vive il conflitto. Ma ancora una volta, al di là delle questione politiche e fermo restando il diritto dei palestinesi arabi a un’autonomia nazionale, la storia ebraica si è caricata del solito «sovratesto» distorto per colpa del quale «sionismo» è diventato una parolaccia, la definizione di un’ideologia del male, sinonimo di razzismo, come è detto nella risoluzione Onu 3379 del novembre 1975.
Un ideale ancora vivo
Se è vero che dal 1897 in poi, e anche prima, il movimento sionista ha conosciuto diverse espressioni, lo è altrettanto l’evidenza che col razzismo non c’entra per nulla. Da Martin Buber a Zeev Jabotinsky, da Rav Kook a Abraham Yehoshua - e con loro tantissimi intellettuali e uomini di politica - in tutte queste voci il sionismo si configura come un ideale di «normalizzazione» ebraica capace di conservare quel portato umanistico che si trova espresso nella Bibbia e in tutta la tradizione d’Israele.
Lo Stato ebraico esiste da quasi 70 anni, è una realtà costruita su un ideale. Eppure, malgrado abbia raggiunto il suo scopo, l’ideale sionista è ancora vivo. Non solo nel guidare le recenti immigrazioni di ebrei (dalla Russia, dalla Francia, dall’India), non solo nella memoria di quei fondatori sparsi per il Paese (come ad esempio il nucleo italiano di molti kibbutzim storici, da Netzer Sereni a Ruchama), ma anche nel suo essere la più autentica declinazione dell’ebraismo contemporaneo. Nel quotidiano confronto, non sempre liscio ma sempre costruttivo, tra Diaspora e realtà nazionale israeliana. Nel paradosso che fa oggi di questo paese dalle radici ancestrali in cui si parla la stessa lingua dei Profeti e dei Patriarchi la «start-up nation» proiettata verso le più avveniristiche tecnologie. Nel suo essere parte dello scacchiere politico e culturale del presente, con le sue energie intellettuali, con la sua spinta di vita.

Repubblica 25.8.17
La festa teatrale a Cetona per i “90 anni di solitudine” “Mi ha telefonato Mattarella, sarà uno scherzo?”
Il non-compleanno di Guido Ceronetti
di Laura Montanari


CETONA (SIENA) Gli scappa un sorriso quando dice: «Non me li aspettavo gli auguri del presidente». È così esile, così fragile dentro questi suoi novant’anni, Guido Ceronetti. La camicia gli sta larga, i pantaloni pure, il corpo è magrissimo e spigoloso, la pelle quasi trasparente. «Non credevo proprio che mi telefonasse Mattarella ». Fa una pausa e, raggiunto da un dubbio improvviso, strizza gli occhi per la luce che entra nel suo studio come un fastidio: «Speriamo non sia uno scherzo… a me sembrava proprio il presidente della Repubblica».
Suona il telefono, suonano alla porta. Entrano ed escono amici e conoscenti dalla casa di Cetona, paese della campagna senese fra gli ulivi e i casali: «Sono venuto qui trentaquattro anni fa». “Qui” è una piccola strada del centro, a due passi dalla piazza. Una piccola anticamera e subito lo studio e una brandina: «Permesso, auguri Guido» gli dice un’amica che arriva da Pistoia. Lui si muove a fatica, con un deambulatore, sorretto da altre mani e braccia, fa soltanto i passi necessari nelle stanze zeppe di libri e di fotografie. «Prima facevo lunghe passeggiate e scrivevo, scrivevo. Adesso per muovermi ho bisogno degli altri e mi pesa tantissimo tutto questo: alla fine della giornata conto i passi che ho fatto e sono quelli per arrivare fino alla Posta o al massimo fino al panificio». Tutto lì, quasi un cortile. «Scrivere scrivo ancora, ma con fatica. E mi ripeto… è passato il tempo dell’ispirazione, insomma non mi piaccio».
Cetona ha festeggiato ieri questo poeta, scrittore, drammaturgo, giornalista che un giorno ha lasciato la sua Torino per ritirarsi nel borgo toscano. Cetona gli ha organizzato una festa di compleanno senza clamori, con uno spettacolo messo in scena dal Teatro dei Sensibili che fondò con la moglie Erica Tedeschi negli anni Settanta. Un gruppo di attori - il nucleo principale è quello che ha incrociato nel 2002 al Piccolo di Milano - è venuto apposta in Toscana per festeggiare il maestro. E Ceronetti non solo ha scelto personalmente i testi, le poesie, le ballate, tratti dalle sue raccolte Deliri disarmati, Trafitture di tenerezza e Ballate dell’Angelo ferito, ma quando è arrivato, fra gli affreschi e i blocchi di travertino della cinquecentesca piccola chiesa della Santissima Annunziata, ha chiamato a raccolta gli attori e cambiato la scaletta: «Questo sì, questo no» con una penna e un tavolo pieno di fogli. Ha scelto i testi più ironici, quelli in cui si ride amaro. Posti tutti occupati, ingresso libero, un centinaio di persone dentro la chiesa, altre fuori in piedi, per un reading dal titolo: 90 anni di solitudine.
Le locandine erano affisse nei negozi, al bar, alla mescita di vini, alla vetrina del fioraio. Non c’è un teatro da queste parti, Cetona si arrangia con quel che ha. «Non voleva una vera e propria festa di compleanno - spiega Luca Mauceri del Teatro dei Sensibili - allora abbiamo pensato a uno spettacolo alla Ceronetti mescolando parole e musica». E qualche brano recitato dallo stesso scrittore. Un titolo, 90 anni di solitudine, pieno di tristezza: «In parte è un calembour per ricordare i cent’anni di solitudine di García Márquez - racconta il festeggiato - in parte è per ricordare che la solitudine è quella di ciascun uomo, eterna, immutabile. È difficile da capire quando si è giovani, ma è una condizione dolorosissima, anche fatale. È il fardello con cui si nasce».
Niente torta, niente pranzo di compleanno, solite verdure, pasto frugale vegetariano e biodinamico. Per regalo ha ricevuto un mazzo di fiori dal Comune, rose bianche e gli abbracci della gente: villeggianti e del paese. Sulla porta di casa ha affisso un biglietto: «L’ospite più gradito è quello che meno fa uso di cellulare ». Durante lo spettacolo legge un inedito: «Non c’è più un pazzo che sia un vero saggio. Un normale che sia un vero pazzo…». Parla della tecnologia come di un’invasione molesta: «Scrivo da sempre a mano, poi siccome a volte io stesso fatico a capire la mia calligrafia, mi aiuta una collaboratrice che ribatte i miei testi al computer. Non amo però la tecnologia, i cellulari ci portano sempre in un altrove e mi pare che siamo tutti meno liberi, più rintracciabili, più controllati». Fra le sue battaglie, un cruccio resta quello per l’ambiente: «La Terra è caduta in mano all’uomo che è l’animale più nocivo che esista - dice con il pessimismo che lo accompagna in questo tempo - Così tutto finisce in un tragico, ineludibile oltraggio alle cose. Stiamo facendo danni che non siamo in grado di riparare. Come fare non lo so, non ho soluzioni ». Ha ricevuto tanti auguri nel giorno dei suoi 90 anni, ma lui stesso che augurio si fa? Ci pensa un momento, alza gli occhi piccoli, azzurri: «Soltanto quello di una fine dolce».

Il Fatto 25.8.18
I treni bidone scartati in Ue presi da Ferrovie per l’Italia
Affaroni. Belgio e Olanda si fecero ridare da Ansaldo Breda la caparra annullando il contratto perché difettosi. Trenitalia ne ha presi 17 (su 19)
I treni bidone scartati in Ue presi da Ferrovie per l’Italia
di Mattia Eccheli


Trenitalia ha approfittato di un saldo di fine corsa ad alta velocità. O che almeno sembra tale. Perché i 19 Fyra V250 prodotti dalla Ansaldo Breda e ripudiati dalla High Speed Alliance olandese e dalla Sncb belga che li avevano ordinati da oltre 40 mesi si trovano all’Interporto di Prato dove rischiano di arrugginire. Il costo della transazione è top secret, ma 17 dei convogli della partita rifiutata dalle società del Nord Europa entrerebbero in servizio a costi “stracciati”. Sul supplemento della Gazzetta Ufficiale europea dell’11 agosto si legge di un “acquisto di opportunità effettuato approfittando di un’occasione particolarmente vantaggiosa ma di breve durata, ad un prezzo sensibilmente inferiore ai prezzi di mercato”.
I convogli contestati saranno destinati alle linee nazionali esclusivamente su quelle rotte dove le condizioni lo consentono (binari con poche curve e pianeggianti) e quindi, almeno fino a quando non saranno terminati i lavori appena appaltati sulla Napoli-Bari, sembra escluso l’utilizzo in Puglia. Il colosso guidato da Barbara Morgante conta di implementare il servizio provando anche rilanciare il Made in Italy: i Fyra V250 dispongono delle omologazioni per circolare in tutta Europa. Secondo la Railway Gazette entro il giugno del 2018 i primi quattro elettrotreni dovrebbero cominciare a circolare.
Trenitalia non commenta, ma nei forum circolano cifre attorno ai 6 milioni di euro a convoglio, ovvero 102 milioni. Una cifra più verosimile appare quella vicina ad un terzo del valore del contratto da 450 milioni stipulato e poi disdetto nei Paesi Bassi ed in Belgio perché i convogli avrebbero perso pezzi e si sarebbero arrugginiti precocemente.
Secondo alcuni dei protagonisti dell’epoca lo smacco fu soprattutto politico, perché il governo italiano non difese la propria società. E, infatti, la Ansaldo Breda spiegò che “il disservizio (contestato per via di una manutenzione non corretta, ndr) è stato il pretesto per bloccare la fornitura”. Col senno del poi già la data fissata per l’entrata in servizio del primo Fyra V250 sembra infelice: il primo aprile del 2007. Slittata di due anni, la prima consegna non viene accompagnata da grandi applausi, perché in Olanda si riscontrano problemi tecnici ed il “recapito” definitivo viene posticipato a fine 2012. La breve storia degli elettrotreni dura qualche settimana: dopo meno di 40 giorni arriva la decisione del ritiro definitivo. Quei convogli, per i quali la Ansaldo Breda (nel frattempo ceduta alla Hitachi Rail Italy, che ha perfezionato la cessione) è costretta a restituire la caparra, Trenitalia li ha acquistati senza una gara d’appalto. Un affare, insomma. Che include la manutenzione per 5 anni, che si può prorogare per un altro lustro. I restanti due Fyra del lotto ripudiato verranno utilizzati per gli eventuali pezzi di ricambio.
I Fyra sono già stati testati nel Belpaese nel 2014, in particolare sulla linea Milano-Torino. Adesso dovrebbero potenziare i collegamenti ad alta velocità. Tra le molte cose da capire ci sono rotte, denominazioni (Frecciargento o Frecciarossa) e aggiornamenti.
L’acquisto estivo di Trenitalia non sarà disponibile immediatamente, anche se i tempi di attesa sono ridotti rispetto a quelli “abituali”, che oscillano fra i 3 ed i 4 anni. A parte i primi quattro elettrotreni, attesi per il prossimo giugno, gli altri 13 potrebbero iniziare a circolare nell’estate del 2019.
Fabbricati a partire dal 2004, arrivano sulle rotaie 15 anni dopo. Realizzati con specifiche per i paesi del Nord Europa, i convogli dovranno venire adattati alle esigenze italiane. Il loro aspetto definitivo, anche degli interni con i livelli di servizio (pare tre: standard, premium e business), potrebbe venire esibito a Milano fra il 3 ed il 5 ottobre a Expo Ferroviaria. Fra le modifiche che Trenitalia avrebbe in mente, riferisce il Railjournal, ci sarebbero quelle al “muso”, dei pantografi e del sistema europeo di controllo (Ects). Probabile anche un intervento sugli impianti di condizionamento, che erano tarati per climi diversi da quello dello Stivale.

il manifesto 28.8.17
Sinistra e legge elettorale, partiamo dai fondamentali
di Alfiero Grandi


La sinistra che cerca una prospettiva unitaria dovrebbe partire dai fondamentali. Se c’è accordo su questi il passo avanti è possibile. Partiamo dal referendum del 4 dicembre 2016.
Nel 2013 la sinistra ha pagato un prezzo per non avere raccolto la spinta dei referendum vittoriosi del 2011. Grillo capì l’errore e si intestò la vittoria più di quanto non avesse meritato sul campo.
La vittoria del No ha impedito la manomissione della Costituzione. Il problema ora non è se si era schierati per il No, quanto riconoscere che andava sconfitto un disegno accentratore e autoritario.
Partire dal referendum è importante perché riguarda il futuro democratico del nostro paese, la sua qualità, il diritto di avere diritti come scrisse Rodotà, contro la normalizzazione pretesa dai processi di globalizzazione.
È un errore sottovalutare la spinta potente alla base del tentativo di modifica della Costituzione. Ci sono centri di potere finanziari e politici che chiedono da anni di cambiare le Costituzioni dei paesi del sud Europa e dell’Italia in particolare, perché troppo influenzate dalla sinistra. I documenti sono noti. Banche di affari, centri di decisione finanziaria ed economica, multinazionali, ritengono la partecipazione democratica, forse la stessa democrazia, una perdita di tempo. E premono affinché le decisioni che a loro interessano siano adottate con le stesse modalità delle aziende. Ci sono settori politici che si adeguano, ma la sinistra deve opporsi.
La globalizzazione vera è questa: decisioni planetarie adottate in pochi e ristretti centri di potere economico. La pressione per modificare la Costituzione ha questo retroterra di poteri e di cultura e punta ad adottare decisioni rapide e inappellabili. Per questo l’attacco è destinato a tornare malgrado il voto del 2016 e sarà più determinato, più incisivo di quello tentato da Renzi. Si parla apertamente di cambiare non solo la seconda parte della Costituzione (Galli della Loggia) ma anche la prima (Panebianco). Finora era mancato il coraggio di prendere di petto l’insieme della Costituzione. Ora non più. Per questo la legge elettorale è centrale e deciderà del nostro futuro democratico. Nella Costituzione non c’è la legge elettorale. Questo ha costretto la Corte a intervenire più volte per ridare coerenza costituzionale alle leggi elettorali. È una garanzia che non ci ha impedito di votare tre volte con il Porcellum prima che venisse dichiarato incostituzionale. Nel 2018 si tornerà a votare ma non si sa con quale legge. Allo stato si voterà con due leggi che sono il risultato di due diverse sentenze della Corte su leggi diverse. Il parlamento, eletto con una legge incostituzionale, dovrebbe sentire il dovere di approvare una legge elettorale coerente per camera e senato. Purtroppo è un parlamento composto da nominati dai capi partito. I partiti sono ridotti a dependance dei loro capi. Un disastro che ha già reso il parlamento debole, senza credibilità. È evidente che in un nuovo parlamento di nominati, imbelle e subalterno, riprenderanno disegni neoautoritari, presidenzialisti, tali da ridurlo a sede di ratifica. Mentre oggi la nostra Costituzione mette il parlamento a fondamento dell’assetto democratico.
Per evitare questa regressione e per garantire che i principi della prima parte vengano attuati e non svuotati è necessario che i parlamentari vengano scelti direttamente dagli elettori.
È inaccettabile che i capi partito decidano da soli se e quale legge elettorale approvare. La camera il 6 settembre riprenderà l’esame della legge elettorale. Occorre un’iniziativa forte per impedire che vengano usati nuovi pretesti per fare saltare tutto e per evitare che torni dalla finestra quello che il referendum ha bocciato. Il 2 ottobre abbiamo convocato un’assemblea nazionale alla camera per lanciare, come l’11 gennaio 2016 per il No, una campagna di informazione e di mobilitazione per impedire anzitutto il sequestro delle decisioni. L’attenzione dell’opinione pubblica sulla legge elettorale non è paragonabile a quella sulla Costituzione, anche per un’opera di depistaggio e di informazione confusa. La sinistra alla ricerca di una sintesi dovrebbe farne un punto centrale, superando posizioni subalterne verso le forze che oggi sono maggiori anche perché il loro ruolo non viene messo in discussione.
*Vice presidente Coordinamento democrazia costituzionale