l’Unità 28.4.12
Comunicati dell’Assemblea di redazione e dell’Azienda
Sono mesi che la redazione attende il rilancio del giornale con l’avvio del nuovo formato e una strategia adeguata di sostegno da parte dell’azienda. Da mesi è annunciato un percorso di risanamento di bilancio, con un’iniezione di risorse indispensabile per mettere in sicurezza l’Unità.
Siamo ancora in attesa che quel percorso si concluda. Un’attesa che mette a rischio l’Unità, pesando sui lettori e sulla redazione. Si ripropone una vecchia strada, già troppe volte utilizzata: quella dei tagli e delle contrazioni. La redazio-
ne è convinta, al contrario, che senza un rilancio in tempi definiti, con una data certa di avvio, nessun taglio verrà ripagato. I giornalisti ribadiscono il loro impegno per offrire un giornale forte e autorevole, che parli al popolo di centrosinistra, che costituisca un punto di riferimento importante nel dibattito politico. Ma non è con la politica di soli tagli che si esce dall’attuale situazione di crisi. La redazione è pronta a fare la sua parte, ma solo avendo prospettive chiare di sviluppo e di rilancio.
L’ASSEMBLEA DI REDAZIONE
L’attesa dei giornalisti è l’attesa dell’Azienda. Nel pieno di una crisi senza precedenti, che continua a erodere copie e ricavi al sistema editoriale italiano, lo squilibrio dei costi è la causa della chiusura di tante testate.
Per evitare una fine indegna per un giornale storico e autorevole come l’Unità, l’Azienda è impegnata in un difficile piano di rilancio e di risanamento.
Il rilancio è legato concretamente a novità che vedranno la luce tra pochi giorni; il risanamento, in atto da ormai 3 anni,
ha permesso a l’Unità di superare una tempesta tanto imprevedibile quanto devastante per il sistema.
Ben altre aziende hanno scelto strade di abbattimento dei costi con ricadute pesantissime sul fronte del lavoro e della capacità produttiva.
l’Unità ha, come sempre, scelto la strada del dialogo, della condivisione e, parola ardita, dell’ottimismo. Siamo davanti a una svolta e tutti, come sempre, faranno la loro parte.
L’AZIENDA
l’Unità 28.4.12
L’antifascismo non è un optional
di Moni Ovadia
L a ricorrenza del 25 aprile di quest’anno ha marcato alcune importanti precisazioni quanto mai opportune, particolarmente in quest’epoca politicamente confusa ed incerta segnata dalla più feroce crisi economica dopo quella
del ’29, crisi che è anche sociale e morale.
Le esclusioni di alcuni leader politici che rivestono ruoli istituzionali, come Renata Polverini e Gianni Alemanno, dalle celebrazioni della Resistenza Antifascista, organizzate dall’Anpi, possono apparire come ingiustamente discriminatorie solo a chi guardi al significato della liberazione dal nazifascismo in modo superficiale o peggio strumentale.
L’antifascismo non è un optional da indossare il giorno della festa. L’antifascismo è il pensiero fondativo della nostra democrazia, è l’humus in cui è stata concepita la nostra mirabile Costituzione. La Costituzione italiana e la Carta universale dei diritti dell’uomo, che su di essa venne modellata, sono libri sacri laici che proclamano ed edificano il patto per una nuova umanità di persone uguali, libere, affratellate da un comune senso di giustizia.
Gli articoli enunciati al presente implicano tuttavia una sollecitazione progettuale rivolta al futuro
perché i diritti vengano inverati nel tempo, incessantemente. Lo statuto dei lavoratori, per esempio, fa parte del solco tracciato dai padri costituenti. Non si può massacrare la giustizia sociale e poi millantare uno spirito antifascista.
Non si possono discriminare i gay, i rom, gli immigrati, affermare lo ius sanguinis come fondamento della cittadinanza, flirtare con i neonazisti e dire di condividere i valori dell’antifascismo. Era tempo di chiarirlo.
il Fatto 28.4.12
Resistenza sconosciuta
di Fulvio Abbate
Cosa avrò mai commesso di così terribile e mostruoso per essere ormai costretto a sognare, a godere, a volare, a sentire la pienezza del veleggiatore sul terreno della vera opulenza televisiva soltanto quando guardo Rai Storia? Ho confessato molte volte questa mia inarrestabile regressiva passione, tuttavia adesso il discorso mi sembra assai più pertinente. Un conto, infatti, è piazzarsi lì davanti per un puro piacere di fuga dall’orrore mediatico commerciale e dagli stessi talk-show appaltati ai politici, perdendosi, metti, dentro il bianco e nero dai bordi frastagliati come fotografia familiare, in attesa che appaiono i cari volti di un tempo, ben altro significato assume invece guardare quel canale durante la Festa Comandata Fondante la Cultura Democratica, Repubblicana e Antifascista, il 25 di aprile, giorno della Liberazione. Dal nazifascismo, appunto. Ho esitato un po’ prima di precisare il succo storico di quella data, alla fine ho però pensato che ormai nulla debba essere più dato per scontato, acquisito, soprattutto se, com’è noto, molti ragazzi, perfino nostri figli, ignorano perfino il “carissimo amico” della Resistenza. “E che è, si parla di Garibaldi? ”
“La memoria inquieta” è un documentario-perla-diamante realizzato da Giovanni De Luna e Guido Chiesa nel 1995, il suo tema è proprio la Resistenza, anzi, le sue celebrazioni: come queste sono mutate dai giorni di Milano liberata dai partigiani di Cino Moscatelli, o piuttosto della Torino che vede sfilare il comandante Pompeo Colajanni, “Barbato”, in piazza Vittorio con i suoi compagni dell’Oltrepò, fino al corteo milanese maledetto dalla pioggia del cinquantenario, una distesa nera di ombrelli, pipistrelli rovesciati tra bandiere, labari e striscioni che invitano a “non dimenticare”, lo stesso evento che il regista Nanni Moretti ha voluto incastonare, se non rammento male, nel suo “Aprile”.
Dico solo che la visione di quest’incunabolo comunque recente (magari insieme a un altro documentario del 1975 trasmesso in testa, come “I giorni dell’insurrezione”, dove c’era modo di ritrovare Riccardo Lombardi o Sandro Pertini) aveva il potere di sciogliere molti interrogativi. È bastato, infatti, osservare nei dettagli (dalle uniformi provvisorie dei comandanti delle brigate partigiane alle divise “ufficiali” dei generali dei giorni del Si-far, dall’entusiasmo popolare per la vittoria ai poveri bambini delle classi elementari “rastrellati” per partecipare d’ufficio all’evento pubblico) il modo in cui nel corso dei decenni si è trasformata la nostra celebrazione per sentire sciogliersi ogni dubbio sull’incompiutezza della nostra democrazia, comprese le stragi degli anni Sessanta-Settanta (impressionante a questo proposito il volto del presidente del Consiglio Mariano Rumor che promette giustizia in tempi rapiti su Piazza Fontana al telegiornale). Si dice sempre, prendendo in prestito le parole di qualche poeta improvvisato quanto sia necessario “fare luce” sui misteri del Palazzo magari in nome di una doverosa eppure invisibile legalità repubblicana, bene, le immagini trasmesse da Rai Storia sono fra le cose più prossime a questa rivelazione che personal-mente abbia mai visto. Che peccato, immaginare che in molti se le siano perse perché in quel momento sintonizzati, che so?, su Bruno Vespa.
La Stampa 28.4.12
Immigrati, dal panico al buonsenso
di Giovanna Zincone
La popolazione italiana è fatta sempre più di immigrati. E, come sappiamo, la nozione di abitante è sempre meno collegata a quella di cittadino.
I primi dati del Censimento 2011 ci dicono come l’Italia abbia raggiunto il massimo storico nel numero di abitanti l’anno scorso, sfiorando i 60 milioni, e tenendo quindi il passo con le altre grandi nazioni europee, come Francia e Gran Bretagna, che hanno varcato questa soglia nell’ultimo decennio. Ci dicono anche come la popolazione sia cresciuta maggiormente al Nord, e come due grandi città, Roma e Torino, abbiano invertito la tendenza alla decrescita, recuperando abitanti rispetto al 2001.
È uno scenario diverso da quello registrato 10 anni fa, e soprattutto è uno scenario del tutto difforme da quello che le migliori previsioni demografiche degli Anni 80 e 90 avevano ipotizzato. Rilevando la bassa natalità registrata tra la popolazione nazionale, prevedevano per il 2011 un’Italia più piccola - ben staccata dalla pattuglia di testa dei Paesi europei - e più vecchia, più meridionalizzata e de-urbanizzata. La variabile che ha cambiato radicalmente le carte in tavola, il singolo più importante fattore di mutamento ha un nome ben preciso: immigrazione.
Rispetto al censimento 2001 la popolazione straniera «abitualmente dimorante» in Italia è quasi triplicata: da circa 1.300.000 a circa 3.770.000 (un dato provvisorio). E il censimento, per quanto ci dia i dati più approfonditi, non è l’ultima foto scattata, e non può utilizzare né il grandangolo né il macro: molti italiani si sottraggono alla rilevazione, e a maggior ragione questo accade per gli stranieri. Se guardiamo ai dati Istat basati sulle rilevazioni anagrafiche, gli stranieri residenti in Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, sono 4.570.317, pari a circa il 7,5% della popolazione. Ma anche così aggiornata, la consistenza degli stranieri in Italia resta sottovalutata dai dati ufficiali.
Se ai residenti si aggiungono, secondo la stima del Dossier Caritas, le persone regolarmente presenti ma non registrate in anagrafe, e i veri e propri irregolari, la cifra sale ulteriormente e supera ampiamente i cinque milioni.
Non meraviglia quindi che una trasformazione così rapida e importante abbia suscitato una sensazione di spaesamento: tanti immigrati, così in fretta, e per di più tanti irregolari, non sono un fenomeno al quale ci si adatti con disinvoltura.
Soprattutto il carattere irregolare preoccupa, ma un po’ a ragione e un po’ a torto. A ragione, perché segnala un’immigrazione fuori controllo e potrebbe far supporre che le nostre frontiere siano porose. A torto, perché il grosso degli irregolari non è entrato clandestinamente pur di trovare una via di fuga da situazioni disperate. Gran parte degli irregolari entra legalmente, seppure da un uscio laterale: utilizzano cioè un permesso di soggiorno valido che poi scade, perché magari era stato rilasciato per improbabili motivi turistici, mentre i titolari volevano cercare lavoro e fermarsi. E, almeno finché la situazione economica non si è fatta dura, ci sono pure riusciti. Quegli immigrati di straforo sono diventati lavoratori in regola con il permesso di soggiorno.
Dal 1998 al 2012 ci sono state tre sanatorie, per un totale di circa 1.160.000 persone, ma non si è trattato di grandiose estrazioni di biglietti tutti vincenti. Per essere regolarizzati c’era bisogno di un contratto di lavoro. Quindi quel vasto universo, quelle impressionanti cifre che oggi registriamo di lavoratori immigrati, di decorose famiglie e di cari bambini che hanno origini straniere, hanno attraversato la porta stretta dell’irregolarità. Meglio ricordarselo, quando siamo presi dal panico di perdita di controllo.
Meglio consolarsi constatando che la stragrande maggioranza di chi entra, anche se di straforo, fa più bene che male al nostro Paese. E se si pensa che si debba contenere l’immigrazione, bisogna osservare che a dissuadere i potenziali immigrati a entrare, e a spingere quelli presenti a rientrare nella patria di origine, ben più della repressione sta cominciando ad agire la recessione. Gli immigrati continuano a crescere, ma di poco, a un ritmo più ridotto degli anni precedenti. La disoccupazione ha colpito in particolare i lavoratori immigrati. Il tasso annuale medio è passato dall’11,6% del 2010 al 12,1% del 2011, crescendo molto più di quanto non sia accaduto per gli italiani. E, se anche nel 2011 ci sono stati 170.000 lavoratori immigrati in più, il loro livello di occupazione è sceso dal 63,1% del 2010 al 62,3%, pur rimanendo comunque più alto di quello dei lavoratori italiani, che è al 56,6%.
Insomma, gli immigrati sono formalmente - come detto all’inizio - il 7,5% della popolazione, ma costituiscono il 9,4% della forza lavoro. La presenza degli immigrati, dei lavoratori immigrati non è dunque un’opzione che si può rifiutare, si può semmai governare con buon senso. Gli italiani sembrano averne. In un sondaggio comparato che include vari Paesi europei, gli italiani risultano i meno preoccupati della concorrenza degli immigrati nel mercato del lavoro. Due terzi (69%) non ritengono che portino via posti agli italiani e tre quarti (76%) affermano che gli immigrati vengono impiegati per mansioni che non potrebbero essere svolte altrimenti. Insomma gli italiani sono pronti ad augurare anche ai lavoratori immigrati un buon 1˚ maggio.
La Stampa 28.4.12
Gli immigrati
Così ci siamo trasformati in una nazione multietnica
di Fra. Pa.
Centocinquantun'anni fa, all’epoca del primo censimento, gli stranieri erano poco più d’un tocco esotico nella neonata Italia. Si parlò allora di 88.639 persone, uno 0,4% praticamente invisibile nella geografia degli abitanti ancora disabituati a considerarsi un popolo. Eppure gli ultimi dieci anni valgono più di un secolo e mezzo nella storia degli immigrati italiani, passati dai 1.334.889 del 2001 agli attuali 3.769.518 (6,34%).
Se l’identikit dei nostri nuovi connazionali è materia da sociologi, la statistica racconta parecchio della loro topografia mentale. Il 36% vive infatti prevedibilmente nelle regioni settentrionali maggiormente prodighe di lavori tradizionali. Ma, al tempo stesso, il numero degli stranieri residenti al sud è cresciuto del 192%, confermando l’alternativa alla crisi economica offerta ai migranti dalla richiesta di manodopera agricola.
Certo, con una media di 85,5 stranieri ogni mille abitanti, il nord continua a sperimentare le mescolanze più ardite. Come nel caso di Rocca de’ Giorgi, comune d’una settantina di abitanti in provincia di Pavia, contraddistinto da un rotondo 36,3% di rumeni, colombiani e domenicani e srilankesi.
La presenza straniera è un dato particolare, perchè in barba alla precisione matematica si presta a interpretazioni tutt’altro che oggettive. Così, per esempio, quello stesso 6.34% conferma alla responsabile immigrazione del Pd Livia Turco la necessità di rafforzare il welfare in funzione di una società multietnica mentre serve al sindaco di Roma Gianni Alemanno per sottolineare le 26.242 espulsioni d’irregolari effettuate a fronte delle 20mila promesse.
Corriere 28.4.12
Chi sono i nuovi italiani
di Dario Di Vico
Dai primi dati sul censimento 2011 illustrati ieri dall’Istat lo spunto più interessante riguarda forse la popolazione straniera. In dieci anni è quasi triplicata, ma in qualche maniera lo sapevamo.
Nel 2001 gli stranieri in Italia erano solo 1,3 milioni e in quest'arco di tempo in cui li abbiamo visti aumentare sono saliti ufficialmente a quota 3,77 milioni. È chiaro che a questa cifra bisognerebbe aggiungere un X rappresentato dagli immigrati clandestini, una variabile che per sua natura non si può stimare. Prendendo però il dato ufficiale possiamo dire che 3,77 milioni su un totale di 59,4 milioni di abitanti non è una cifra-monstre. È gestibile. Anche perché, come rilevano i dati Istat, tutto sommato gli arrivi non si sono concentrati sulle grandi città come invece è successo (negativamente) in molti altri Paesi europei. L'immigrazione si è in qualche modo adattata alla struttura molecolare dell'Italia dei mille campanili: lo testimonia il dato secondo il quale gli stranieri che vivono nelle città sopra i 100 mila abitanti sono in totale solo un milione, mentre 1,2 milioni risiedono in centri la cui popolazione è compresa tra i 5 a 20 mila abitanti. Più le nuove presenze si sono diluite sul territorio più il fenomeno è risultato governabile e sono entrate in gioco variabili positive come lo spirito comunitario tipico della piccola dimensione italiana. Sul piano degli arrivi l'Istat ci dice che gli incrementi maggiori si sono avuti nel Nord Est e nel Sud, dove però l'incidenza dello stock di stranieri è ancora modesta. I risultati del censimento ci servono dunque a dimensionare un fenomeno che in parallelo con l'incrudirsi della crisi economica è uscito dai radar politici. Se ne parla di meno e anche le forze politiche che ne avevano fatto un argomento centrale della loro iniziativa sembrano aver cambiato registro. Sicuramente la crisi ha ridotto l'appeal del nostro Paese agli occhi dell'immigrazione e forse ha generato anche qualche flusso di ritorno. Dunque da una parte è un bene che la materia «immigrazione» sia retrocessa nella scala delle priorità dell'agenda politica perché quantomeno segnala il superamento della fase emergenziale. Però è anche vero che, una volta rimosso il problema per i minori flussi di nuova immigrazione, la politica lo ha quasi totalmente dimenticato lasciando da parte tutta quella che dovrebbe rappresentare la pars construens.
L'impressione è che noi italiani qualsiasi problema includiamo nella testa di lista dell'agenda politica dimentichiamo che riguarda anche una quota di popolazione straniera. Sintomatico come nel lungo e appassionato dibattito sulla riforma del lavoro mai e poi mai sia subentrata l'idea di operare un approfondimento sulla condizione degli extracomunitari e sulle normative che ne regolano il lavoro in Italia. Eppure proprio perché l'emergenza sembra superata si potrebbe riflettere su alcune novità che stanno maturando. In primo luogo il consolidarsi di una «borghesia» straniera rappresentata da piccoli imprenditori che hanno avviato iniziative pienamente legali e che sono interessati allo sviluppo del loro business e quindi a una sempre maggiore integrazione. Stanno crescendo anche le seconde generazioni di immigrati e i problemi che pongono sono diversi da quelli dei loro genitori. In qualche caso, come quello della comunità cinese, i giovani si presentano addirittura come i possibili protagonisti di un'inedita politica di dialogo. Infine c'è il tema della rappresentanza. Fino a che punto è possibile coinvolgere le comunità etniche nella gestione dei problemi che riguardano la convivenza civile. Può suonare anche per loro la campagna della piena responsabilizzazione?
Dario Di Vico
La Stampa 28.4.12
I flussi
Gli abitanti totali in salita ma il merito è degli stranieri
di Francesca Paci
La popolazione cresce, cambia e diventa sempre più dinamica ma scopre sacche di disagio sociale e prova nuovi modelli di convivenza
Siamo aumentati, preferiamo la famiglia sia pur di soli due membri alla singletudine, abbiamo scuole multietniche a livelli europei, ma ci scopriamo anche più poveri di 10 anni fa. L’istantanea dell’Italia 2012 scattata dal 15° censimento restituisce l’immagine di un Paese di 59,5 milioni di abitanti che nel passaggio al XXI secolo ha visto triplicare tanto il numero degli stranieri residenti quanto quello degli indigenti costretti a vivere in baracche, roulotte o tende a fronte di 2.708.087 case vuote.
Certo, non tutti hanno collaborato alla buona riuscita della ricerca. Secondo le previsioni, che ci davano ben al di sopra quota 60 milioni (il triplo rispetto al 1861), mancano all’appello quasi un milione e mezzo di persone, in buona parte iscritti all’anagrafe ma «irrintracciabili». Gli altri però, nota il presidente dell’Istat Enrico Giovannini, raccontano un’Italia dinamica seppure suo malgrado: «È una popolazione in movimento: dopo quasi 20 anni di stagnazione, gli abitanti sono cresciuti di circa il 4,3%, anche se per effetto esclusivo degli stranieri».
Che n’è stato del popolo di santi, navigatori, eroi? Santi forse lo siamo davvero, a giudicare dalle 71 mila e rotte famiglie che tirano avanti facendo a meno di un tetto. Al richiamo del mare abbiamo preferito la stanzialità urbana, in particolare al Nord, dove risiede il 46% dei censiti e verso cui continuano a spostarsi gli immigrati interni in fuga dal Sud. L’eroismo, invece, si declina al femminile, con le donne che rappresentano il 52% della popolazione pur contando politicamente appena il 16.7%.
La Stampa 28.4.12
Il privato
Aumentano le famiglie e sono sempre più piccole
di R. Tal.
In Italia ci sono 2,7 milioni di famiglie in più, ma più piccole. Nel senso che diminuisce costantemente il numero medio dei componenti per singolo nucleo familiare. Il numero delle famiglie residenti in Italia è aumentato del 12,4% tra il 2001 e il 2011, passando da 21,8 milioni a 24,5, mentre il numero medio dei componenti per famiglia è passato da 2,6 persone nel 2001 a 2,4 persone nel 2011.
Diminuiscono le famiglie numerose, mentre crescono quelle uni-personali, anche in conseguenza del progressivo invecchiamento della popolazione. Il numero medio dei componenti per famiglia è minore nel Nord (2,3 persone) e nel Centro (2,4 persone), superiore nel Meridione e nelle Isole, dove è comunque diminuito, raggiungendo valori pari, rispettivamente, a 2,7 e a 2,5 persone. Una riduzione del numero dei componenti per famiglia che tra il 1951 e il 2011 è stata particolarmente accentuata nell’Italia Nord Orientale.
Negli ultimi dieci anni, invece, l’incremento del numero di famiglie è stato più elevato rispetto alla media nazionale nel Nord Est (15,1%) e nel Centro (14,7%). Secondo l’Istat, guardando ai dati degli ultimi sessanta anni, il numero delle famiglie residenti in Italia è più che raddoppiato.
Corriere 28.4.12
La generazione rassegnata
Se i genitori sono più istruiti dei loro figli
di Beppe Severgnini
Scrive Wall Street Journal: il nel corso della storia americana, i figli sono sempre stati più istruiti dei genitori. Oggi non è più così. Gli americani nati nel 1980, quando hanno compiuto 30 anni nel 2010, avevano studiato soltanto otto mesi più dei genitori. Un'inezia, destinata presto a scomparire.
Claudia Goldin e Lawrence Katz, gli economisti di Harvard University autori della ricerca, sostengono che questa tendenza avrà conseguenze pesanti. In un mercato globale competitivo, gli Stati Uniti si troveranno presto in difficoltà. «La ricchezza delle nazioni non dipende più dalle materie prime. O dal capitale fisico. Sta nel capitale umano» afferma Ms. Goldin.
Alcuni dei motivi del declino nell'istruzione appaiono decisamente americani: i costi del college (primo livello universitario); la scelta degli studenti di non indebitarsi, com'è stata finora la regola. Altre ragioni sembrano comuni a tutto l'Occidente, con poche fortunate eccezioni: il numero crescente di ragazzi che lasciano (drop out) durante le scuole superiori; il fatto che lunghi studi non garantiscano più maggiori guadagni; la fragilità psicologica di una generazione cresciuta in un lungo periodo di prosperità.
Un altro elemento che sta allontanando i giovani dagli studi potrebbe essere questo: la minore spinta dei genitori, restii ad avviare i figli verso studi che non procurano gli impieghi o il prestigio sociale di un tempo. L'ambizione delle famiglie asiatiche appare invece feroce, e accademicamente produttiva. Alcune università negli USA hanno dovuto introdurre un sistema di quote per garantire il posto ai ragazzi americani. Un accesso basato soltanto sul merito li avrebbe visti soccombere davanti ai motivatissimi asiatici, che già dominano le migliori università. Assistere a una lezione in un corso undergraduate di Harvard porta a chiedersi, davanti a tanti volti orientali: in che continente ci troviamo?
In Europa l'immigrazione è più recente (come in Italia) e, comunque, di origine diversa. Ma il cammino di una generazione sembra comunque segnato. Per motivi demografici ed economici, i giovani inglesi, spagnoli, francesi e italiani staranno peggio dei genitori. E sarà la prima volta che accade.
È un'inversione pericolosa per molti motivi. Il primo dei quali si chiama dipendenza. Dipendenza economica, culturale, psicologica. La generazione dei figli del boom (nati tra il 1946 e la fine degli anni 60) appare spesso egoisticamente felice di conservare il primato; ma dovrebbe comprenderne anche l'ingiustizia e valutarne i rischi. Veder ciondolare nella proprie case «la generazione rassegnata» non può costituire motivo di orgoglio: soprattutto in Italia, il paese più anziano d'Europa, quello dove il ricambio s'annunciava comunque più difficile. Cresce il numero dei giovani connazionali convinti che gli studi non servano a costruirsi il futuro. Le rigidità del mercato del lavoro, e gli egoismi generazionali mascherati da editti sindacali, non aiutano.
Per questo appare grave la vicenda denuncia ieri sul Corriere dall'on. Guglielmo Vaccaro. La legge «Contresodo/Italians», che concede benefici fiscali a molti connazionali di rientro, approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento nel 2010, è di fatto bloccata dalla mancata adozione di una circolare attuativa da parte dell'Agenzia delle Entrate (sempre solerte quando si tratta della nostra puntualità fiscale). Se non arriverà entro il 27 maggio, l'onorevole Vaccaro ha annunciato le proprie dimissioni, perché — ha detto — «ci ho messo la faccia di fronte a decine di migliaia di giovani italiani potenzialmente interessati al provvedimento».
Ma la faccia, davanti alle nuove generazioni, ce l'abbiamo messa anche tutti noi. Non solo verso i 300.000 italiani all'estero con una istruzione superiore (dato OCSE 2011), ma verso i milioni di giovani connazionali che — dovunque — aspettano un incoraggiamento e una prospettiva. Gli Stati Uniti d'America, se le università perdono iscritti e smalto, rischiano il futuro. Noi rischiamo subito: lo dicono il buon senso, l'osservazione e i numeri. L'ha detto anche Mario Monti, più volte, all'inizio del suo mandato, per giustificare i sacrifici richiesti: dobbiamo farlo per i nostri giovani. Speriamo se ne ricordi, il presidente del Consiglio: dei giovani, intendo. Dei sacrifici — lo abbiamo visto — il governo non s'è dimenticato.
Ma l'immagine del fiume che, di colpo, prende a scorrere in senso contrario è inquietante. E dovrebbe preoccupare tutti gli italiani adulti, non solo le istituzioni. Creare occupazione «slegando l'Italia» — come auspica Giuseppe Roma, direttore generale del Censis — porterebbe anche a questo: offrire posti di lavoro e retribuzioni che giustifichino anni di studi.
Lasciare a chi viene dopo di noi solo una montagna di debito pubblico e pensioni da sopravvivenza: non era quello che sognavamo a vent'anni, o sbaglio?
D di Repubblica 28.4.12
Nuovi cittadini
C’è posto per te
di Zita Dazzi e Carlotta Mismetti
qui
Corriere 28.4.12
Piazza Fontana, archiviata anche la «doppia bomba»
I pm: «Inverosimile». Si chiude l'ultima inchiesta
di Luigi Ferrarella
MILANO — Va in archivio l'ultima indagine segreta sulla strage di piazza Fontana. Quella che, sull'ordigno che il 12 dicembre 1969 uccise 17 persone e ne ferì 88 dentro la Banca Nazionale dell'Agricoltura, per due anni ha esplorato quattro nuovi spunti investigativi tra i quali anche la tesi della «doppia bomba», avanzata dal giornalista Paolo Cucchiarelli nelle 700 pagine del suo libro Il segreto di piazza Fontana, e sposata (seppure con diversa attribuzione delle responsabilità) dal film che al libro si è «liberamente ispirato», Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana: un ordigno dimostrativo, che un timer avrebbe dovuto far scoppiare a banca chiusa, e un'altra bomba invece a miccia, piazzata (ad insaputa del primo attentatore) proprio per uccidere.
Ma adesso la Procura mette la parola fine anche a quest'ultima inchiesta. In una lunga richiesta di archiviazione a carico di ignoti, ritiene di escludere che le nuove dichiarazioni di tre testimoni coltivate dal colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo possano avere un sia pur minimo valore processuale; e liquida con un giudizio di «assoluta inverosimiglianza» la teoria della doppia bomba. Proprio questo determina una seconda richiesta di archiviazione, quella per Cucchiarelli stesso, inizialmente accusato di «dichiarazioni reticenti» ai pm quando nel 2010 non aveva voluto rivelare l'identità di Mister X, cioè del misterioso neofascista che, chiedendogli l'anonimato, lo aveva introdotto alla doppia bomba.
I pm Armando Spataro e Grazia Pradella avevano due strade. Una era cercare di identificare Mister X lavorando sui contatti del giornalista (difeso dagli avvocati Luigi Vanni e Chiara Belluzzi) a forza di tabulati telefonici, intercettazioni, sequestri: ma i pm, nell'archiviazione che reca il visto del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, rimarcano di aver rinunciato a questa opzione per non aggirare indirettamente il sistema di protezione del carattere fiduciario delle fonti dei giornalisti contemplato dalla legge. La seconda strada era invece quella indicata proprio dalle norme, che ben avrebbero potuto consentire — se la notizia fosse stata «indispensabile ai fini della prova del reato» e se la sua veridicità fosse stata accertabile «solo attraverso l'identificazione della fonte della notizia» — di chiedere al «giudice» appunto di «ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni». Ma la Procura non ha ritenuto valesse la pena di nemmeno innescare questa procedura, perché argomenta di poter già trarre dalla montagna di atti dei passati processi la smentita, in termini di «assoluta inverosimiglianza», della tesi della doppia bomba così come della presenza di una miccia.
Le conclusioni della Procura sono peraltro severe sulle corpose informative nelle quali l'ufficiale dei carabinieri, che negli anni ha raccolto contatti e valorizzato confidenze di persone propostesi come depositarie di importanti segreti, ha riversato ai pm un materiale che però ora proprio quei pm giudicano inutile processualmente e discutibile perfino sul piano logico. Al punto da giungere a mettere nero su bianco che la Procura milanese trova «non condivisibile» il modo di operare dell'ufficiale.
La verità giudiziaria resta dunque la responsabilità dei neofascisti di Ordine Nuovo: il collaboratore Carlo Digilio ha ottenuto nel 2000 la prescrizione dopo aver confessato il proprio ruolo nella preparazione e ricostruito la catena di comando Usa che lo "gestiva" come collaboratore nascosto della Cia; e la Cassazione, nel confermare nel 2005 l'assoluzione in appello del trio Zorzi-Maggi-Rognoni condannato in primo grado nel 2000 all'ergastolo, ha scritto che con le nuove prove, emerse nelle inchieste successive allo «scippo» del processo milanese nel 1972 e alla definitiva assoluzione nel 1987 degli ordinovisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura, entrambi sarebbero stati condannati. Provati anche i depistaggi delle indagini: l'ex generale del Sid, Gian Adelio Maletti, e il capitano Antonio Labruna ebbero condanne definitive per aver fatto scappare all'estero protagonisti cruciali.
Repubblica 28.4.12
L’area dei delusi divide la sinistra Ginsborg: ora ci proviamo noi
Convention a Firenze. Spunta l´idea del "default controllato"
Letta : "Da due anni tentano di spaccare il Pd e unire le forze, hanno fallito in entrambi i casi"
Asor Rosa chiede "cattiveria" contro il neoliberismo L’attenzione di Sel e Italia dei valori
di Goffredo De Marchis
ROMA - Con la fiducia nei partiti crollata al 5 per cento e l´astensionismo vicino alla metà dei votanti, immaginare un´altra politica, «la buona politica», può aggregare un´area del «10-12 per cento». Lo dice Ugo Mattei, professore di diritto civile a Torino, estensore con Paul Ginsborg, l´assessore di De Magistris Antonio Lucarelli, Luciano Gallino, Marco Revelli e altri, di un manifesto che può farsi a sua volta partito. «Nell´arco di due legislature questo movimento può diventare la maggioranza del paese», si sbilancia Mattei. Oggi a Firenze il movimento per un "soggetto politico nuovo" organizza un´assemblea pubblica. Sceglierà un nome, quasi sicuramente "Lavoro e beni comuni". Da giorni il manifesto (il giornale) alimenta il dibattito. Ieri è intervenuto Alberto Asor Rosa suggerendo la necessaria «cattiveria» per dare forma e corpo alla protesta contro gli attuali partiti e il pensiero unico del neoliberismo. Prove tecniche di una corsa alle elezioni politiche, verrebbe da pensare.
L´unica certezza è che a sinistra crescono fermenti, disagi, contestazioni e che possono succhiare linfa al Partito democratico. Da Grillo a questa riedizione dei Girotondi, molto si muove. «Allora - ricorda il professore girotondino Ginsborg - abbiamo supplicato i partiti di cambiare direzione, di abbandonare un modello fallimentare, di aprire la politica alla partecipazione. Non lo hanno fatto». Così, a volte ritornano.
Li spinge il modello del referendum sull´acqua, bene comune per eccellenza, successo inaspettato e clamoroso, una sfida partita dal basso e arrivata con veemenza al traguardo, subito messa in discussione da sindaci e partiti che si rifiutano di prendere atto della volontà popolare. Com´è accaduto con il finanziamento pubblico. La battaglia per i beni comuni, il superamento di una società dedicata al solo Dio denaro, ha attirato anche la firma, tra le 4 mila raccolte finora, di Stefano Rodotà. Con qualche riserva. «L´obiettivo è un´organizzazione a rete, un sostegno alla politica lontanissimo dall´anti-politica. Ma guai a pensare a un partito. Guai a trasformarlo in un luogo che raccoglie tutti i reduci delle battaglie perse della sinistra. Il manifesto deve essere aperto. Attenzione al pacchetto chiuso».
Nel documento non manca la critica ai partiti, una critica severa. Per far nascere un partito nuovo, come vorrebbe il sindaco di Napoli De Magistris che scalpita per lanciarsi sul palcoscenico nazionale? Si vedrà. Ginsborg assicura che il movimento non vuole correre in maniera autonoma. «Sarebbe una follia pensare che possiamo fare tutto da soli». Cercherà alleati, connessioni. Già oggi Sel invierà una sua delegazione all´assemblea. Anche Di Pietro apprezza: «L´Italia dei valori cerca una piattaforma programmatica aperta a tanti soggetti. Del manifesto mi piacciono le firme e i contenuti. È arrivato il momento di scomporre e ricomporre tutte le realtà di oggi. E non chiamiamola anti-politica».
Un´ispirazione del "soggetto nuovo"? Cristina Kirchner, il presidente argentino che ha rilanciato il Paese e affronta a muso duro le multinazionali. Il nostro governo tecnico piace pochissimo. «Dobbiamo rinegoziare il debito. Avviare un default controllato e ripartire da zero», sogna Mattei. Questo tipo di argomenti preoccupano il Pd. «Una certa sinistra non riesce proprio a essere europeista», si lamenta Francesco Boccia. «Altro che rinegoziare il debito, dobbiamo accelerare sull´unità politica della Ue». Il vicesegretario Enrico Letta però prevede un nuovo fallimento. «Da due anni nell´area alla nostra sinistra provano a spaccare il Pd e unire le forze. Non sono riusciti a fare né l´uno né l´altro. Sono divisi e nascono sempre nuove sigle. Mentre il Pd in quel campo mantiene la sua egemonia». Non caso Letta sceglie la parola egemonia, nell´anniversario della morte di Gramsci. La provocazione del "moderato".
il Fatto 28.4.12
46 milioni di tagli per la Rai Al Tg3 quattro volte più che al Tg1
Bianca Berlinguer: “Servono sforzi equilibrati”
A rischio anche la sopravvivenza di RaiNews
di Chiara Paolin
Nulla cambia (per ora) in Rai, tranne il budget. Il direttore generale Lorenza Lei ha distribuito le cattive notizie: tagli per tutti, 46 milioni di euro che devono saltar fuori dalle reti e dai telegiornali risparmiando sui costi di produzione.
Ma i sacrifici non sono uguali a tutte le latitudini, specie confrontando le tre testate dei telegiornali. Il Tg1, che ha un budget annuale di 10,3 milioni di euro, dovrà tagliare 200 mi-la euro. Per il Tg2, che costa 8,2 milioni di euro all’anno, è prevista una diminuzione di 400 mila euro. Il Tg3, costo annuale di 6,7 milioni di euro, subisce la mazzata peggiore: 800 mila euro.
È LA TESTATA più sprecona, evidentemente: “Al contrario – risponde la direttrice Bianca Berlinguer –, siamo sempre stati apprezzati per la precisione con cui abbiamo rispettato il contenimento dei costi. Perché vale la pena di ricordare che già da tre anni ci tagliano il budget: un milione di euro solo l’anno scorso, adesso altri 800 mila euro”. E quindi, che succede a questo punto? La Berlinguer non sembra rassegnata: “Se bisogna tirare la cinghia noi faremo la nostra parte, come sempre. Ma serve uno sforzo equilibrato” dice prima di andare in onda. Senza contare che, per stabilire dove cadranno i tagli, nessuno ha pensato di valutare l’andamento degli ascolti. Il Tg1 è in fase di calo consolidato dalla gestione Minzolini in poi, eppure subisce la decurtazione più lieve (200 mila euro). Il Tg3 viene da una stagione record (memorabile il fattaccio dello scorso novembre, quando l’edizione serale segnò su Rai3 il 18 per cento di share contro il 16 del primo canale) e si vede privato di una somma elevata addirittura al cubo (800 mila euro). Come mai?
“I tagli decisi per il Tg3 sono pari alla somma dei tagli decisi per Tg1, Tg2 e TgR, ma nessuno azzardi interpretazioni maliziose” ha twittato ieri Nino Rizzo Nervo, consigliere dimissionario della Rai. Frecciatina cui ha replicato l’ex direttore di Canale5, Giorgio Gori: “In Rai nuovo piano di tagli da 46 milioni, anche questi per lo più sul prodotto. No interventi strutturali, solo progressivo impoverimento dell’offerta”. In effetti il problema più serio è questo. Le riduzioni non riguardano il personale, cioè non si licenzia nessuno, ma si rende più difficile il lavoro di documentazione. Inviare un giornalista a verificare in loco le notizie, pagare le trasferte per vedere coi propri occhi la realtà, realizzare reportage accurati su argomenti che non hanno successo nel rullo delle notizie quotidiane, diventerà di fatto un lusso poco sostenibile. Più facile sfruttare il precotto delle agenzie, le immagini regalate da chi ha interesse a distribuirle, con tanti saluti alla libertà di stampa e al ruolo del servizio pubblico.
IL TG3, molto mobile sul territorio, pagherà caro il cambiamento. “Ma anche per noi la situazione è gravissima – ha detto ieri il comitato di redazione di Rainews –. È in gioco la nostra sopravvivenza: la riduzione di 300 mila euro ci porta a un budget annuale di 5 milioni di euro. Di questi, 1,7 vanno spesi in materiali di agenzia. La produzione reale può contare quindi su 3,3 milioni. Cifra che, oltre alle ovvie spese per trasferte, troupe, mezzi per le dirette, va a coprire il pagamento delle maggiorazioni, indispensabili in un canale in onda in diretta 24 ore su 24. Le riduzioni certo non sono dovute alle performance di Rainews, che ha visto aumentare di oltre il 300% i suoi ascolti dal gennaio 2011”.
il Fatto 28.4.12
Manifesto per una nuova Rai
di Carlo Freccero
Pubblichiamo in anteprima la sintesi dell’intervento che Carlo Freccero terrà al Festival del Giornalismo di Perugia domani sera, quando lui e Michele Santoro si candideranno rispettivamente alla presidenza e alla direzione generale della Rai.
Da quando ha perso il suo ruolo pedagogico, la Tv servizio pubblico continua a interrogarsi sulla sua identità sino a dubitare della sua stessa utilità. Alcuni ritengono che il pluralismo dell’informazione possa essere semplicemente garantito da una molteplicità di emittenti private. Ma la televisione non è solo un’impresa economica e una molteplicità di emittenti commerciali non può sostituire il servizio pubblico, per diversi motivi. In primo luogo un’emittente privata è sotto-posta comunque totalmente alle leggi del marketing. Consegnare la televisione alle nude leggi del profitto, significa procedere a una mcdonaldizzazione, walmartizzazione dei gusti, che già si manifesta a livello produttivo. Che senso ha cambiar canale, se su tutti i canali è disponibile un unico prodotto? In Italia sia la sinistra che la destra auspicano una piena commercializzazione della Tv pubblica in vista di un suo possibile ingresso nel mercato. Mi riferisco a esempio al modello di Tv industriale, imposto da Celli alla Rai, in vista di una quotazione in Borsa mai realizzata. Dall’altro lato il presidente di Mediaset Confalonieri insiste su un modello di Tv pubblica, più aderente al modello tradizionale di servizio pubblico: una Tv di teatro, musica, balletti e promozioni culturali. Una Tv, chiaramente, destinata a un’audience minoritaria e, come tale, incapace di fare ombra al monopolio Mediaset. Secondo me, entrambi i modelli non sono proponibili.
Non è auspicabile ridurre la Tv pubblica a un clone della Tv commerciale, sia continuando a mantenerla in vita come un’entità autonoma, sia prevedendo una sua privatizzazione. Ma anche una gestione della Tv di Stato, come fossile vivente di un modello estinto di pedagogismo, riduce il servizio pubblico all’impotenza, alla marginalità, alla paralisi. Non a caso questa “nobile” soluzione è quella auspicata dalla concorrenza.
Dal capitale culturale al capitale intellettuale.
In una società in cui il consumo e la produzione restano gli unici valori riconosciuti, non c’è più spazio né attenzione per il capitale culturale. Ma un nuovo modello lo sostituisce: il capitale intellettuale. Siamo passati da una società in cui le élite detengono il capitale culturale, secondo la definizione di Bourdieu, a una società in cui prevale il capitale intellettuale inteso come creatività, logica, agilità mentale, prontezza di riflessi. Da queste premesse scaturisce l’esigenza di un nuovo modello di servizio pubblico.
La soluzione sta in una nuova forma di televisione che tenga conto dei mutamenti culturali intervenuti, che non si limiti alla sola valorizzazione del capitale culturale, ma sia in grado di spaziare tra culture diverse e soprattutto di esercitare il capitale intellettuale degli spettatori, la loro intelligenza. All’interno di un palinsesto più variegato, anche la cultura in senso tradizionale può essere reintrodotta, facendo ricorso alla creazione di “eventi” capaci di attirare l’attenzione dei media e quindi del pubblico. La cultura riesce ad attirare il pubblico quando si fa evento ed è capace di generare condivisione e discussione. Molti non hanno visitato la Pinacoteca della propria città, ma sono disposti a mettersi in viaggio per la mostra pubblicizzata dai media. Quando riesce a far parlare di sé la cultura è in grado di attrarre anche un pubblico di non specialisti. Ed è questo il nostro scopo. Non si può disinteressarsi dell’audience.
Il palinsesto della TV digital
È dal palinsesto della TV genera-lista che nasce la metafora del grande fratello, la capacità di persuasione della televisione e le sue possibili conseguenze perverse. Alla Tv generalista si contrappone quindi da tempo, a livello simbolico, il personal computer, come mezzo di comunicazione libero e individuale, e la Tv digitale. L’ipotesi di lavoro che voglio proporre è fondere gli aspetti di ciascuna per valorizzare entrambe. Le reti tematiche, pur fornendo a ciascuno quanto desidera, non riescono a decollare completamente. Per avere successo un’esperienza deve essere condivisibile.
E solo la presenza di un palinsesto garantisce la fruizione condivisa di un programma sino a farne un evento. Solo la televisione generalista può promuovere la circolazione di programmi a livello di massa. Se il futuro della televisione è nelle reti tematiche, la televisione generalista non rappresenta un mezzo obsoleto ma, al contrario, è in qualche modo la matrice potenziale di tutte le reti tematiche. Si dice che il palinsesto come organizzazione dei programmi, sia destinato a sparire, sostituito dalle scelte e dalle richieste individuali. Secondo me, al contrario, rappresenta una sorta di menu a cui attingere per un consumo più naturale del digitale.
Entriamo nel concreto
Abbiamo tre reti generaliste e una serie di Tv digitali. La prima cosa da fare è conferire un’identità alle reti generaliste. Rai1 è la rete per eccellenza, le compete il ruolo di spazio sociale in cui gli eventi mediatici trovano condivisione e comprensione. Rai1 è naturalmente lo spazio degli eventi: eventi storici, politici, sociali. Ma anche eventi mediatici, cinematografici, della società civile. È evento un film di grande impatto sul pubblico. Ma è evento anche un programma che si rivolge alla società civile come “Vieni via con me” di Fazio-Saviano. Infine l’archivio trova nella rete ammiraglia il suo ruolo di documento e di memoria storica del Paese.
Le reti collegate possono dedicare più spazio agli eventi, così come già avviene sulla Tv digitale satellitare tra Tg24 e i tasti “Active”.
A Rai2 potremmo conferire lo spazio dell’immaginario. Se Rai 1 è la rete civica e incarna lo spirito nazionale ed europeo, la cultura mainstream è una cultura per tutti, caratterizzata da quell’universalità del culto che è tipica della globalizzazione. L’immaginario universale, pratica i generi della cultura globalizzata, Hollywood, le reti pay-tv come Hbo, ma anche Bollywood, cultura dell’estremo oriente. E soprattutto il glocal, l’ibridazione tra culture locali e globali. (Mi raccomando, senza censura!). Per le reti digitali c’è solo l’imbarazzo della scelta. In primo luogo la fiction in tutte le sue declinazioni, poi la musica.
Rai3 ha già oggi e può conservare la sua vocazione di rete dell’informazione. Informazione in senso sociologico, economico, scientifico, d’inchiesta, di costume. E con la vocazione verso il nuovo e inconsueto a complemento della cultura mainstream.
il Fatto 28.4.12
Minacce a Ingroia. Il pm: “Colpa di chi urla toghe rosse”
“Morte al comunista” sui muri di Teramo e una lettera firmata “Forza Nuova”: Non siamo noi
di Enrico Fierro
Morte per Ingroia comunista”. La scritta è comparsa due giorni fa sui muri di Teramo, dove il procuratore aggiunto di Palermo doveva partecipare alla “Prima giornata della legalità”, organizzata dall’Ufficio scolastico provinciale e dalla Consulta provinciale degli studenti. Ne ha dato notizia la stessa organizzazione della manifestazione, sottolineando che “i fatti delle ultime ore hanno caricato di inquietudini, equivoci e tensioni la manifestazione”.
“CI AUGURIAMO di incontrare il dottor Ingroia a Palermo – prosegue la nota degli organizzatori – dove gli studenti teramani, il 23 maggio, parteciperanno alle iniziative organizzate dal Miur per il ventesimo anniversario della strage di Capaci”.
Dopo le scritte anche una lettera di minacce arrivata ieri: “Il giudice Antonio Ingroia è stato condannato a morte dal tribunale popolare”, si legge. “Il governo Monti servo delle banche prelude a un definitivo periodo di ingovernabilità in cui saranno messi a nudo l’impoverimento del Paese voluto dal capitalismo, l’aggravarsi del malcontento sociale e la subalternità della politica al potere mafioso. Ma la mentalità degli italiani è cambiata in vista di una rivoluzione epocale. I giudici servi del sistema saranno l’ultimo baluardo alla rivoluzione. Per questo, persone come il giudice Antonio Ingroia sono persone pericolose che vanno condannate ed eliminate per portare avanti il compito che la storia ci ha assegnato”, firmato Fronte Nazionale e Forza Nuova. La smentita dei dirigenti delle due organizzazioni, che annunciano anche iniziative legali contro ignoti, non è servita a rasserenare il clima, tanto che è stato lo stesso magistrato ad annullare l’incontro per “evitare disagi alle forze dell’ordine”. “Ci mancava solo il Fronte nazionale – dice il pm –, sia chiaro che ho annullato l’iniziativa non perché mi impressionino scritte e lettere di minaccia, ma per non creare disagi alle persone che si occupano della mia sicurezza. C’è però un dato sul quale occorre riflettere, questi insulti non nascono dal nulla. Se per anni si martella l’opinione pubblica con campagne stampa e tv sui magistrati toghe rosse, visti come un pericolo per la democrazia, alla fine qualcuno che ci crede, qualche fanatico che si eccita e passa all’azione si trova. Il problema quindi non sono le scritte, ma il substrato che le ha ispirate. Diciamo che più d’uno dovrebbe farsi un serio esame di coscienza. Detto questo, mi dispiace che agli studenti sia stato scippato un momento di riflessione e di libertà”.
ORAZIO Licandro, coordinatore della segreteria nazionale del Pdci, ha espresso solidarietà al procuratore Ingroia: “Le minacce ad Antonio Ingroia sono un’autentica vergogna e dimostrano quanto la battaglia contro le mafie sia parte della battaglia per la democrazia e per la difesa della Costituzione”.
il Fatto 28.4.12
Concorso esterno
Il reato che non vuole morire
di Gian Carlo Caselli
Dopo la dichiarazione di morte presunta del “concorso esterno” vigorosamente scandita dal pm Iacoviello nella sua requisitoria (si fa per dire...) nel processo Dell’Utri, molti erano ormai in trepida attesa dei funerali. Se-nonché, questa figura di reato non vuol saperne di tirare le cuoia. Essa infatti ha trovato nuova linfa proprio nella sentenza della Cassazione su Dell’Utri. Il succo della sentenza si trova alla pag. 129 delle complessive 146, là dove si legge che “in conclusione il giudice di merito (cioè la Corte d’appello di Palermo cui il processo è stato rinviato) dovrà esaminare e motivare se il concorso esterno sia oggettivamente e soggettivamente configurabile a carico di Dell’Utri anche nel periodo – 1978/1982 – di assenza dell’imputato dall’area imprenditoriale Fininvest – e se il reato contestato sia configurabile, sotto il profilo soggettivo, anche dopo il 1982, posto che – quanto all’elemento materiale – risultano pagamenti Fininvest in favore della mafia protratti con cadenza semestrale o annuale fino a tutto il 1992 (pag. 128 della sentenza) ”.
DUNQUE, accanto a vari interrogativi, due importanti certezze: la prima è appunto che il concorso esterno è vivo, in barba alla tesi bislacca che nessuno più ci crede. La seconda è che l’imputato Dell’Utri è responsabile – in base a prove sicure – del reato di concorso esterno con Cosa Nostra per averlo commesso almeno fino al 1978, operando di fatto come tramite di Silvio Berlusconi. Una realtà sconvolgente, di cordiali e proficui rapporti, non sporadici, con la criminalità mafiosa. E poiché le sentenze – emesse in nome del popolo italiano – sono motivate proprio perché il popolo possa conoscere e valutare i fatti che ne costituiscono la base, sarebbe lecito attendersi che si apra finalmente un serio dibattito su cosa mai sia successo in Italia in certi periodi. Altrimenti, facendo finta di niente anche per Dell’Utri (come già è avvenuto per Andreotti) potrebbero essere sostanzialmente legittimati – per il passato, ma pure per il presente e per il futuro – anche torbidi rapporti col malaffare mafioso.
Certo è che alla serietà del dibattito non contribuiscono le banalizzazioni, per esempio che il metodo giusto è quello che va dritto al risultato, altro che i processi alla Mannino e Carnevale... C’è invece da chiedersi perché – applicando sempre lo stesso metodo – i processi contro l’ala militare di Cosa Nostra si concludono regolarmente con robuste condanne, mentre quelli agli imputati “eccellenti” hanno esiti assai più controversi (talvolta condanne, talvolta assoluzioni; spesso pronunce contraddittorie lungo i tre gradi di giudizio). Dato di fatto da cui partire è che i pm sono gli stessi. Stessi uomini, stesso metodo di lavoro. Per cui, delle due l’una: o sono bravi quando si tratta di mafiosi “doc” e incapaci di fronte ad altri imputati, oppure la spiegazione sta altrove. Provare i delitti di mafia, prima di tutto, è relativamente più facile. Per quanto si tenti di occultarne le tracce, un omicidio ne lascia. Per le collusioni, invece, non ci sono dna, esami medico-legali, perizie e consulenze.
TUTTO, anzi, è protetto dalla segretezza più assoluta, perché qui sta la vera forza del potere mafioso. Dunque la prova è oggettivamente più difficile. E può anche darsi che i criteri di valutazione della prova non siano sempre gli stessi. Ma non bastano queste difficoltà per rinunziare all’unico strumento incisivo contro la “zona grigia”, accontentandosi di qualche “ vittoria” ottenuta giocando al ribasso. In ogni caso, per trovare la spiegazione dello scarto si dovrebbero studiare le sentenze – tutte, quelle di condanna come quelle di assoluzione – e non giocare sulla disinformazione. Si vedrebbe che si è sempre indagato con rigore su fatti gravi riconosciuti storicamente esistenti anche dalle sentenze assolutorie: per cui le accuse di aver costruito teoremi (che è poi l’essenza del “negazionismo” del concorso esterno, anche di quello che definisce perdita di tempo il farvi ricorso quando la strada è impervia) sono frutto di pigrizia se non peggio. E non si potrebbe far finta di dimenticare che il riconoscimento della bontà del suo operato il pm lo ottiene tutte le volte che vi è il rinvio a giudizio da parte del gip. È in quel momento che il giudice terzo riconosce che l’impianto accusatorio è consistente e va perciò sottoposto alla verifica dibattimentale. Ma in questo Paese si fa come se il gip neanche esistesse. Meglio prendersela con i pm, soprattutto se praticano strade che altri non imboccano perché scomode.
Repubblica 28.4.12
Già 54 donne uccise quest´anno "Il Parlamento affronti l´emergenza"
ROMA - Cinquantaquattro donne morte per mano di un uomo dall´inizio dell´anno a oggi. È il triste primato dell´Italia. Lo denuncia, parlando di "femminicidio", "Se non ora quando" (Snoq), la rete delle donne, in un appello che in poche ore ha raccolto sul Web più di mille adesioni, da Nadia Urbinati a Rosetta Loy. Nell´appello le donne chiedono che i «media cambino il segno dei racconti di quelle violenze, non li riducano a trafiletti, cancellando con le parole le responsabilità». «Il femminicidio non è solo un fatto criminologico ma ha una valenza simbolica del rapporto (arretrato) uomo-donna in Italia. Ecco perchè riguarda la politica», sottolinea Cristina Comencini di Snoq. Ed è per questo che Snoq chiede anche «agli uomini di aprire gli occhi e di camminare e mobilitarsi con le donne per porre fine a questo orrore». Telefono Rosa ha scritto al premier Monti: «Servono risorse economiche e una commissione straordinaria». Barbara Pollastrini del Pd ha chiesto un piano di sicurezza e la senatrice Adriana Poli Bortone ha annunciato che in Senato c´è un ddl per l´inasprimento delle pene contro il femminicidio. (a.b.)
Corriere 28.4.12
Per combattere la strage di donne bisogna cominciare dall’infanzia
di Lea Melandri
«Ma come si fa a uccidere una ragazza per un litigio?», si è chiesto il padre di Vanessa Scialfa, la giovane di Enna vittima del fidanzato. La domanda segnala l'incredulità di fronte al ripetersi quasi quotidiano di una violenza che inspiegabilmente esplode all'interno dei legami più intimi. Ma è proprio vero che le ragioni del perverso annodamento tra odio e amore, rabbia e tenerezza, presente da sempre nei legami di coppia e nelle relazioni familiari, sono insondabili? Se la pulsione aggressiva è così diffusa, tanto da poterla riportare al «millenario addestramento» dell'uomo a considerare la donna un suo naturale possesso, se ne deduce che il passaggio all'azione dipende solo dal grado diverso di intensità e di controllo del singolo. Dunque, se scartiamo l'ipotesi di una connaturata malvagità del sesso maschile, possiamo pensare che un cambiamento venga dalla cultura, dall'educazione, dalle leggi, da una conoscenza di sé e dell'altro più consapevole della barbarie che ci portiamo dentro, nostro malgrado. Il femminicidio si può fermare.
Purtroppo però neppure questa sembra, al presente, una strada facile da percorrere, come sa chi ha tentato di rimuovere dalla prima infanzia pregiudizi atavici, «differenze» di identità e di ruoli, precocemente interiorizzati, che costringono i maschi e le femmine a contrapporsi in modo astratto e deformante: da una parte la forza, la padronanza del mondo, dall'altra la docilità e la dedizione alla famiglia.
Un ostacolo viene dai bambini stessi, accomunati da stereotipi che portano i segni della cultura maschile dominante, ma fatta propria da entrambi i sessi. Non c'è niente di più diseducativo per le donne che rivestire il ruolo ambiguo, contraddittorio, di un genere umano che conta meno dell'altro, marginale nella sfera pubblica e sottomesso in quella privata, e che al medesimo tempo viene ritenuto responsabile della sua crescita, della sua felicità, della sua riuscita sociale. Le esperienze innovative fatte in alcune scuole primarie in Italia, e persino nella liberale Svezia, per promuovere relazioni tra i sessi meno condizionate dalle identità di genere, e dalle logiche di potere che vi sono connesse, dimostrano che siamo ancora lontani da quello che è stato il fattore primo e più duraturo del disagio della civiltà.
Lea Melandri
il Fatto 28.4.12
Ritorno al pugno nero
Le battaglie anti-razziste delle star sportive negli Usa Quando un canestro vale più di tre punti sul tabellone
di Angela Vitaliano
New York Possiamo far finta che lo sport non abbia nessun legame con la politica esattamente come possiamo far finta che non esista la forza di gravità se cadiamo da un aereo”. Parola di David Zirin autore di una rubrica che discute proprio di sport e politica, pubblicata dal Nation Magazine e per la quale è stato nominato fra i “50 visionari che stanno cambiando il mondo”. Zirin ha scritto, peraltro, tutta una serie di libri che tendono a convalidare la sua tesi secondo cui lo sport, in America, ha rappresentato, sempre, una spinta propulsiva e fondamentale per la politica e i cambiamenti sociali.
TANT’È che l’ultimo suo lavoro, pubblicato lo scorso ottobre, si intitola The John Carlos Story, sottotitolo “I momenti dello sport che hanno cambiato il mondo”. In copertina la foto storica di John Carlos, sul podio delle Olimpiadi di Mexico City del 1968, dove era arrivato terzo nella gara dei 200 metri, mano guantata e pugno chiuso, il gesto di protesta delle Pantere nere contro le discriminazioni razziali. Il gesto di Carlos, e del suo compagno di squadra, Tommie Smith, arrivato primo, suscitò grandi polemiche e discussioni, ma restò, nella memoria di tutti, come uno dei gesti più importanti in cui lo sport prende “posizione” e lo fa anche a muso duro. Ovviamente, quegli erano gli anni Sessanta e sembrava che nessuno potesse restare davvero estraneo alla “rivoluzione” e, dunque, non sorprende che proprio in quegli anni, un campionissimo di tutti i tempi divenne la “star” più politicizzata e combattiva di tutte, a cominciare dal nome: Cassius Clay, quello che lui definì un nome da “schiavo”, poi cambiato per Muhammad Alì.
ALÌ, metteva la stessa forza che lo caratterizzava sul ring, anche nel suo attivismo politico che lo portò a legarsi a Mal-com X e poi ad aderire alla Elijah Muhammad’s Nation of Islam; costante fu anche la sua opposizione alla guerra in Vietnam, rifiutò di arruolarsi: “Io non ho nulla contro i vietcong”. La sua “politicizzazione” scrive ancora Zirin, “divenne simbolica sul ring dove i suoi match erano visti come la resistenza della rivoluzione nera contro i suoi oppositori”.
Ma gli anni non sono stati tutti uguali e ci sono stati lunghi periodi della storia in cui le star dello sport non hanno mai, nemmeno involontariamente, legato il proprio nome ad una “causa”. Come Michael Jordan che, a differenza dei suoi colleghi Charles Barkley e Magic Johnson, è sempre rimasto “neutrale” e forzatamente indifferente ai fatti della politica. Recentemente il legame fra politica e sport sembra, però vivere un nuovo momento “d’oro” con atleti sempre più desiderosi di far sentire la propria voce a proposito di questioni politiche. Com’è accaduto, per esempio, dopo l’omicidio del quattordicenne Trayvon Martin, ucciso, in Florida, dalla guardia volontaria George Zimmerman. Trayvon, prima dell’omicidio, camminava indossando una felpa con il cappuccio alzato sulla testa. In seguito a quell’episodio, i giocatori di basket dei Miami Heat, decisero di farsi fotografare con indosso una felpa con un cappuccio. Un episodio significativo che conferma una tendenza emersa già negli ultimi anni e non solo “a sinistra” ma anche nelle file più conservatrici.
DUE ANNI fa, ad esempio, durante il Super Bowl, andò in onda uno spot anti-aborto con, testimonial d’eccezione, la star del football, Tim Tebow. Intanto, Tim Thomas, dei Boston Bruins, aveva rifiutato, in segno di protesta contro l’amministrazione, un invito alla Casa Bianca. La Lega di Baseball, poi, si è fatta promotrice di una campagna contro gli atti di bullismo a discapito dei gay e Ozzie Guillen, manager dei Miami Marlins, ha più volte accusato l’ipocrisia degli americani che “fanno affari con tanti dittatori ma poi respingono il governo cubano”.
Sebbene nessuno di questi episodi, sia indenne da forti attacchi polemici, sono in molti coloro che, invece, esprimono soddisfazione per il “ritorno al sociale” dello sport soprattutto in tempi problematici come quelli che il Paese sta attraversando. O, forse, la chiave di volta è proprio lì.
Quanto più importanti sono le istanze sociali e i pericoli che minacciano i diritti acquisiti da categorie sociali più deboli, tanto più gli sportivi sembrano ritrovare il senso dello sport come un eccezionale elemento didattico e simbolico di cui tutti possano beneficiare.
il Fatto 28.4.12
Il dissidente cieco che apre gli occhi alla Cina
Chen Guangchen fugge dagli arresti domiciliari
Aveva denunciato la politica degli “aborti di Stato”
di Simone Pieranni
A ottobre scorso non pochi cinesi, avevano deciso di metterci la faccia. Avevano postato su internet i propri autoscatti, indossando un paio di occhiali da sole scuri. Un gesto di solidarietà con Chen Guangcheng, attivista cinese non vedente, 40 anni, che dopo 4 anni di detenzione scontati fino all'ultimo giorno, era stato confinato in casa sua, circondato e controllato da polizia e teppaglia varia. Si tratta di quella che i cinesi definiscono “detenzione morbida”, un arresto che non lo è ufficialmente, una delle tante zone d'ombra della macchina legislativa repressiva riservata agli attivisti. E ieri Chen è scappato: una fuga probabilmente rocambolesca, annunciata dai messaggi on line e resa vivida infine da un video, postato sul sito boxun.com , gestito da esuli cinesi negli Usa, in cui Chen accusa il governo cinese di torture, aprendo di fatto una trattativa con le autorità. Il suo attuale nascondiglio è sconosciuto: secondo le prime voci si sarebbe recato nell'ambasciata Usa a Pechino, di sicuro non è più nello Shandong, la provincia dove era sorvegliato. Da Pechino nessuna comunicazione ufficiale; del resto se il governo ammettesse la fuga, significherebbe confermare una forma detentiva precedente che in teoria non è mai stata ufficializzata.
CHEN HA 40 ANNI, è soprannominato “l'avvocato” per il suo impegno civile. Era divenuto famoso in Cina quando la sua battaglia contro gli aborti forzati, aveva ottenuto una visibilità nazionale. Nella municipalità di Linyi, molte donne denunciarono le pratiche di sterilizzazione forzata. Procedure piuttosto comuni durante l'entrata in vigore della legge sulla pianificazione familiare e successivamente vietate, attraverso multe salate nei casi di figli in eccesso.
La politica di promozione dei funzionari locali, però, si basava anche sul raggiungimento degli obiettivi del controllo delle nascite, che aveva finito per dare vita, ancora una volta alle pratiche degli aborti forzati. Chen Guangcheng aveva organizzato le donne e attraverso una sorta di class action aveva denunciato almeno 130 mila casi di operazioni illegali. Era il 2005: la sua azione ricevette il plauso della commissione nazionale per la pianificazione famigliare, ma per Chen iniziarono i tempi duri. Le autorità dello Shandong lo imprigionarono più volte e con più accuse, fino a quando, nel 2006, venne condannato a quattro anni e tre mesi per aver danneggiato immobili e per aver organizzato una manifestazione che aveva bloccato il traffico. Una volta uscito di carcere, dopo aver scontato l'intera pena, era stato rinchiuso in casa e sorvegliato a vista. Molti attivisti, o semplici cittadini, che hanno provato ad andare a trovarlo sono stati malmenati dagli scagnozzi arruolati dalla polizia locale, non ultimo l'attore americano Cristian Bale, che tentò di recarsi a casa di Chen in occasione della sua visita in Cina per presentare il nuovo film del regista locale Zhang Yimou, Flowers of War. Bale venne allontanato con metodi poco gentili da un gruppetto di teppisti che lo aveva bloccato, prima di raggiungere casa dell'attivista non vedente. Anche dall'ambasciata Usa di Pechino, dove si era sostenuto avesse trovato riparo Chen, non è arrivata nessuna conferma. Dal suo account Twitter, Nicholas Bequelin di Human Rights Watch a Hong Kong, ha scritto che “può essere riuscito a fuggire, ma certamente non è in salvo. Né lo sono i suoi familiari o chi lo ha aiutato”.
La Stampa 28.4.12
Libri, documentari, mostre
Partito socialista 120 anni di liti
Da Turati e Gramsci a Craxi e Berlinguer, storia di un gruppo politico che ha la divisione nel Dna
di Marcello Sorgi
Libri (a cominciare dall’ultimo volume, 1992-94, dedicato agli anni di Craxi) documentari, mostre fotografiche, dibattiti. A centoventi anni dalla nascita e a venti dalla fine, se non dei socialisti, del partito craxiano, c’è un futuro per il socialismo in Italia? E’ questa in fondo la domanda al centro delle celebrazioni che stamane al Cinema Sivori di Genova aprirà il segretario del rinato Psi Riccardo Nencini e che si concluderanno in autunno a Roma con un convegno, a cui parteciperà anche il Presidente della Repubblica Napolitano, a cura del “Comitato per le celebrazioni del centoventesimo anno della nascita del Psi”. Al Comitato aderiscono le maggiori fondazioni culturali socialiste e, per la prima volta, novità da sottolineare, anche l’Istituto Gramsci, nato in area comunista. Un manifesto di inizio Novecento del partito socialista. Sopra uno dei fondatore Filippo Turati
In tempi di grande crisi dei partiti vecchi e nuovi, lo storico (non c’è altro modo di definirlo) anniversario dei centoventi anni del Partito socialista - celebrata oggi a Genova, nella stessa Sala Sivori in cui il 14 agosto del 1892 fu fondato da Filippo Turati, Anna Kuliscioff e Andrea Costa -, farà sicuramente molto discutere, anche per un paradosso: si parla della nascita del primo e per molti anni maggior partito della sinistra italiana, la cui morte è stata ufficialmente dichiarata nel 1994, con la caduta di Craxi dopo Tangentopoli. Da allora in poi sono stati molti i tentativi falliti di rianimarlo.
In Francia in dieci anni sono passati dalle stalle del ballottaggio Chirac-Le Pen, che sembrava preludere a un declino irreversibile, alle stelle di Hollande alle soglie dell’Eliseo. In Germania hanno vinto e perso con Schroeder e governato con la Merkel, cosa che sembra si accingano a rifare. E anche in Inghilterra, dopo la sconfitta postblairiana, il calvario dei laburisti all’opposizione sembra accorciarsi, grazie alla crisi dei conservatori. Solo in Italia, sia detto con tutto il rispetto per quelli che provano ancora a ricominciare, per i socialisti da venti anni è il tempo malinconico delle commemorazioni. «E delle divisioni, la malattia che il partito ha sempre covato al suo interno e ha esportato in tutto il campo della sinistra», aggiunge il senatore Gennaro Acquaviva, a lungo braccio destro di Craxi e con lui a Palazzo Chigi nei quattro anni del governo a guida socialista.
Al dunque, era scritta nel dna delle origini la grande frattura tra massimalisti e riformisti, anarchici, rivoluzionari e governativi, o se si preferisce tra Antonio Gramsci e Filippo Turati, che ha attraversato il secolo dei partiti dei lavoratori e ne ha deciso le sorti. Per Acquaviva, che come presidente della Fondazione Socialismo ora affronta il problema sul piano storico e culturale, l’ispirazione iniziale però era quella riformista. Andrea Costa, primo deputato emiliano, eletto alla Camera già nel 1882, dieci anni prima dell’avvento del partito, era andato a cercare i socialisti nei campi durante la trebbiatura e aveva ricostruito per loro un meccanismo di comunicazione e una simbologia dell’azione politica mutuati dalla Chiesa e dai cattolici: l’assemblea al posto della messa, il tesseramento come battesimo e perfino i matrimoni socialisti, perchè Costa, come officiante del nuovo culto laico, s’era spinto anche a consacrare certe unioni illegittime fatte di fame e ansie rivoluzionarie. Il vero Manifesto di quel partito era il libro Cuore, scritto dal socialista Edmondo De Amicis, e costruito sull’illusione di smontare il modello del capitalista lombardo cattivo e sfruttatore, convincendolo, almeno sul piano letterario, ad aprirsi alla comprensione dei problemi, delle sofferenze e della difficile sopravvivenza dei lavoratori, nell’Italia paleo-industriale di fine Ottocento.
Turati, l’intellettuale, verrà a dare veste teorica, oltre che leadership politica, a questa miscela di valori pre-sociali e umanesimo, in aperta concorrenza con i movimenti cattolici che devono ancora farsi partito, e in contrapposizione con uno Stato che tende a usare la maniera forte (la rivolta del pane del 1882 e le cariche di Bava Beccaris). Costa, il sindacalista dei contadini che nel 1867 aveva fondato con l’anarchico Bakunin la Lega internazionale dei lavoratori, è un politico nato con il talento del negoziato e della mediazione. Ed era un’ebrea russa inizialmente anarchica la Kuliscioff, ginecologa, intellettuale, compagna di vita di Turati, fondatrice con lui nel salotto della loro casa milanese di Critica sociale, la rivista teorica che precedette di un anno la nascita del partito, e prima ancora legata sentimentalmente a Costa, da cui avrà una figlia, Andreina, cresciuta nel fuoco della clandestinità semirivoluzionaria, e, forse anche per questo, fuggita verso un matrimonio e una condizione di vita borghesi e conservatori, con due figli, ironia della sorte, che si faranno prete e suora.
E’ da questo terzetto, e in aperta rottura con i massimalisti, che faticheranno prima di trovare in Arturo Labriola ed Enrico Ferri leader degni di competere, che nel 1892 nasce il partito, inizialmente «dei Lavoratori», e dal 1894, e per un secolo esatto, «socialista». La frattura delle origini, quasi trent’anni dopo, nel 1921, nel pieno del «biennio rosso» delle occupazioni delle fabbriche e alla vigilia del fascismo, porterà alla scissione di Livorno e alla nascita del Partito comunista. Turati e Gramsci si separano per sempre. Ed anche se il problema di un unico grande partito accompagnerà la sinistra italiana per il resto della sua storia, da Nenni e Togliatti (con la sola disastrosa eccezione del Fronte popolare del ’48), ad Amendola e Ingrao, a Craxi e Berlinguer, per arrivare, anche adesso che i socialisti non sono più in gioco, a Bersani e Vendola, le divisioni l’hanno sempre avuta vinta. E a causa delle divisioni, la sinistra ha visto sfumare tutte le grandi occasioni storiche che la riguardavano, comprese le più recenti.
In un excursus di oltre un secolo non può certo essere trascurato lo scenario internazionale. Il Psi nacque in fondo sul modello dei socialisti tedeschi con i quali i rapporti rimasero intensi e fecondi. Garibaldi fu un’icona protosocialista, non solo per gli italiani, ma anche per i laburisti inglesi, che lo accolsero in centocinquantamila al suo arrivo nel Regno Unito. Acquaviva suggerisce di guardare anche ad Est, alla Mosca comunista da cui per decenni venivano aiuti e incoraggiamenti ai partiti «fratelli» e anatemi per i riformisti «revisionisti»: «Una storia lunghissima - spiega il senatore che comincia quando Turati e Costa vanno a parlare con Lenin dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e, allibiti, si sentono dire: “Ne avevate uno buono, Mussolini, e l’avete cacciato! Ma perchè? ”». Va da sé che l’ex-socialista Benito era già il capo dei neonati fascisti.
Corriere 28.4.12
La lezione dei fatti e gli errori della filosofia
di Piero Ostellino
Che, per i marxisti, i liberali fossero dei ferri vecchi era nell'ordine delle cose e persino della storia. Dopo tutto, Marx aveva irriso alla democrazia liberale e a ciò che chiamava la «dittatura della borghesia» aveva opposto la «dittatura del proletariato» secondo una concezione del mondo del tutto opposta. Non c'era, però, animosità, da parte loro, e a testimoniarlo ci sono i dialoghi fra il comunista Palmiro Togliatti (Roderigo di Castiglia) e il liberale Norberto Bobbio, citati da quest'ultimo nel suo Politica e cultura. Mi sono chiesto perché ci sia, invece, molta animosità, nei confronti dei liberali, da parte di tanti intellettuali socialdemocratici. Cerco di dare qualche risposta. I socialdemocratici hanno una concezione (ultra)semplificata del mondo che consiste ideologicamente nella sua divisione in buoni e cattivi. I liberali — che ne hanno, se mai, una complessa — tendono, invece, a valutare, empiricamente, le cose mettendole a confronto con la realtà. Se le proprie idee si scontrano con la realtà, i liberali le cambiano. Se succede ai socialdemocratici, la loro reazione è «peggio per la realtà».
Credo che la differenza stia tutta nella diversa metodologia della conoscenza: per dirla con Giovanni Sartori, empirica (quella dei liberali); filosofica (quella dei socialdemocratici). I liberali si chiedono «come» (stanno le cose) e la risposta che si danno è, per dirla con Karl Popper, «falsificabile»; se dicono che piove, basta loro mettere la mano fuori dalla finestra per accertarsi se è vero o falso e, invece di prendersela col Padreterno, escono con l'ombrello. I socialdemocratici si chiedono «perché» (le cose stanno in quel modo) e la risposta che si danno, se non stanno come la loro (ultra)semplificata visione del mondo postula, è, per dirla con David Hume, il passaggio da una proposizione descrittiva (le cose come stanno) a una prescrittiva (le cose come dovrebbero stare). Fanno un salto logico, se la prendono col Padreterno e escono senza ombrello, infradiciandosi.
I liberali non raccapricciano all'idea di vivere in un'economia keynesiana (socialdemocratica), anche se pensano che quella liberale sia migliore. Per dirlo, si appellano «ai fatti». Poiché la soluzione (novecentesca) keynesiana pare loro responsabile dei guai nei quali ci troviamo — debito e spesa pubblica fuori controllo, tassazione oppressiva, statalismo e dirigismo eccessivi — essi si chiedono se non sarebbe migliore la soluzione liberale che lascia alla società civile e alle singole persone maggiori margini di libertà. I socialdemocratici — fedeli alla propria (ultra)semplificata visione del mondo — ne concludono che la colpa è tutta «della realtà» e ripropongono, pari pari, come rimedio al fallimento, la stessa soluzione keynesiana che l'ha prodotto. Se, poi, i liberali glielo fanno notare, i socialdemocratici se la prendono a male. È una questione culturale, prima che politica; politica, prima che personale.
Corriere 28.4.12
Sergio Luzzatto, «Presente storico»
Lo «storico vero» e gli attacchi a un revisionismo defunto
di Marco Gervasoni
Guardare al presente con le lenti dello storico: è questo che si prefigge Sergio Luzzatto nella terza raccolta dei suoi scritti giornalistici. (Presente storico. Nuovi interventi, Il Manifesto Edizioni). Come i due precedenti, anche questa è una silloge di recensioni di libri, di interventi e di riflessioni. Solo che qui l'effetto del presente, delle vicende politiche e culturali dell'Italia degli ultimi due anni, si fa sentire assai di più. Tanto che il volume potrebbe essere anche letto — e preso in considerazione da uno storico del futuro — come una cronaca della cultura italiana nel declino della seconda Repubblica, di come questa abbia guardato alla storia nazionale, e di come non vi si sia riconosciuta.
Numerosissime sono infatti le pagine dedicate ai 150 anni dell'Unità, e vibrante è la denuncia del sostanziale disinteresse con cui il precedente governo aveva, se così vogliamo dire, preparato l'evento. Luzzatto non è però così ingenuo da far ricadere tutto su Berlusconi e Bossi, che pure una loro responsabilità l'hanno. Con l'anniversario è ritornato allo scoperto un nervo dolente della identità nazionale italiana; un'identità debole e sempre cedevole, soprattutto quando l'autore, da studioso della Francia, paragona il nostro nation building a quello d'Oltralpe.
Il Luzzatto cronista della cultura è però, prima di tutto, un polemista dall'invettiva affilata contro il presente (Berlusconi e il suo governo ma più in generale la classe politica) ma anche contro il passato. Pochi si salvano: nella storia politica gli azionisti e i partigiani (ma non il Pci), Matteotti (dal ritratto un po' agrodolce), nel Risorgimento Carlo Cattaneo. A ben vedere tuttavia il bersaglio principale degli strali di Luzzatto sono quelli che egli chiama «storici della domenica», politici, giornalisti, ma anche accademici che piegano la storia ai bassi interessi, all'uso politico e strumentale.
C'e molta fiducia in Luzzatto nella missione dello storico «vero», un aggettivo che in lui ricorre spesso. Una fiducia che però poteva essere salda ai tempi di Marc Bloch e di Federico Chabod. Ma oggi? La crisi della storia come disciplina, sempre meno conosciuta dai cittadini e dalla classe dirigente, incerta nei suoi presupposti epistemologici, confusa con la memoria e via via marginalizzata nelle università (come si può vedere non solo in Europa ma anche in Usa) incrina le basi del piedistallo su cui l'autore erge la figura dello «storico vero». Ci sarebbe poi da discutere su chi, e su quali presupposti, sia titolato per assegnare le patenti di autenticità del mestiere.
Nel voler distinguere gli storici «veri» da quelli che per lui non lo sono, Luzzatto si fa infatti spesso coinvolgere dal proprio gusto per la provocazione. Come quando se la prende, un po' fuori tempo massimo, con i «revisionisti» e con i loro lettori, il «popolo delle partite Iva» che, del resto, secondo lui, non leggerebbe libri. Giudizi sommari e non così anticonformisti come sembrerebbero volere essere; così una certa scontata correttezza politica conduce l'autore a rivolgersi a un pubblico forse già convinto.
Non che Luzzatto blandisca i partiti della sinistra, che mostrano a suo avviso le stesse tare degli altri: azzeccatissimo quel passaggio in cui se la prende con la miseria del dibattito sul «Pantheon» del Partito democratico o quando dimentica (credo inconsciamente) di citare Veltroni tra i ministri dei Beni culturali. Solo che, volendo épater le bourgeois, gli obiettivi sarebbero altri, e non i «revisionisti» o il povero Giampaolo Pansa. Il Luzzatto più convincente è allora quello che, tra una denuncia e un'invettiva, fa uscire il suo profilo di acutissimo storico, che abbiamo conosciuto negli studi sul terrore giacobino, sul corpo di Mussolini e su Padre Pio. Emerge qui nei passaggi sui manoscritti di Robespierre, sul mito degli aviatori nell'Italia fascista, sui fratelli Cervi, sul match Italia-Germania 1970. In queste pagine Luzzatto è tra i migliori «storici totali» al mondo, di una storia delle immagini, dei corpi, dei rumori e degli odori, raccontata dallo storico come flâneur: che ci piace di più dello storico detentore di «verità».
Il libro: Sergio Luzzatto, «Presente storico. Nuovi interventi», Il Manifesto Edizioni, pp. 240, 22
Corriere 28.4.12
Cavani: il mio terzo Francesco
«Da laica mi sono ritrovata cattocomunista Tra gli attori ideali scelgo Rourke e Rampling»
di Paolo Conti
ROMA — Liliana Cavani, lei riceverà giovedì prossimo il David di Donatello alla carriera. Domanda ovvia: emozioni forti?
«Non saprei. Non sono abituata a certi riconoscimenti. Mi piace che venga da colleghi del cinema, da Gian Luigi Rondi».
Difficile incasellare il suo cinema, ogni pellicola ha una sua propria storia e identità. Etichettarlo è complesso. Ed è complicato definire anche la sua posizione politica...
«Etichettare mi pare antimoderno. Le cose cambiano continuamente. Il bisogno di "bollare" rileva uno stato di cose poco democratico. Vengo da un'educazione familiare laica e mi sono ritrovata come una cattocomunista. Figuriamoci. Mi "somiglia" il titolo del libro che ha scritto su di me Francesca Brignoli per "Le Mani": Cavani, Ogni possibile viaggio. Un saggio dell'Università di Princeton ha scelto il titolo Lo sguardo e il labirinto. Anche lì mi riconosco».
Parliamo di futuro. Di progetti. Di cosa si sta occupando?
«Sto inseguendo un terzo "Francesco". Le intenzioni sono sempre magmatiche poi si fa chiarezza. Non è un'ossessione ma una autentica necessità intellettuale per la centralità di quell'uomo. Per l'originalità e la modernità del suo talento».
Prima il "Francesco" del 1966, poi quello del 1989. E ora?
«Adesso mi interessano almeno due aspetti. Il suo concetto di fraternitas: lo realizza come un filosofo. E la sua povertà, tema così attuale nei nostri difficili giorni, diventa uno strumento di libertà. In un'era come la nostra, piena di incertezze, ho ripensato a lui che attirava tutti. Poi c'è il Francesco antesignano del dialogo tra religioni. Ho seguito molto gli scritti del cardinal Martini su questo tema. Ho volutamente parlato di talento perché, nel rapporto con Dio, è più necessario della teologia. Perciò Francesco mi ricorda Mozart: talento, libertà, generosità».
A proposito di fede, il suo «Galileo» non è mai stato trasmesso dalla Rai. Un caso davvero unico.
«Mai trasmesso. Venne prodotto nel 1968 proprio dalla Rai, da Leo Pescarolo e da Rizzoli che voleva distribuirlo. Ma non lo vide nessuno. Mimmo Scarano arrivò a Raiuno nel 1976, dopo la riforma, e mi telefonò: "Liliana, vorrei trasmettere il tuo "Galileo" ma è sparito tutto. I documenti legali, la copia". La difficoltà penso fosse legata all'immagine della Chiesa di quel tempo che nel film appare oscurantista, com'era. Per dire come le cose poi cambiano, recentemente ho letto un magnifico saggio di Benedetto XVI sul "grande Galileo": gli attribuisce il merito di aver usato il linguaggio della matematica "che è quello di Dio creatore". Parole dell'attuale Pontefice...».
Lei tra il 1961 e il 1966 realizzò molti documentari per la Rai: da «Storia del Terzo Reich» a «L'Età di Stalin» a «La donna nella Resistenza». Che peso hanno avuto nei suoi film?
«Un gran peso. Mi laureai in Lettere antiche, sapevo tutto su Alcibiade, nulla sul XX secolo. Studiai ore di filmati. Per "La donna nella Resistenza" intervistai una partigiana ex internata a Dachau: ogni anno passava dieci giorni di ferie lì per capire. Un obbligo interiore, un legame profondo. Lì affondano le radici di Portiere di notte. Sul film dedicato al Terzo Reich ricordo che andò in onda su Raidue, nel 1961 era il secondo programma culturale. La Rai avrebbe voluto ripeterlo su Raiuno per un pubblico più vasto. L'ambasciata tedesca fece sapere che non gradiva. Addio Raiuno».
A proposito: quali sono stati gli attori che ha più amato?
«Proprio Charlotte Rampling, dotata di una sensibilità tale che le impediva di ripetere due volte una stessa scena troppo intensa. Il magnifico Dirk Bogarde, che si divertiva sempre sul set anche quando non lavorava. Burt Lancaster, un amico dolcissimo. E Mickey Rourke, quanto di più lontano dallo stereotipo: in realtà un prodotto raffinato dell'Actors studio, dove per anni ha poi insegnato con dedizione».
Lei è stata consigliera Rai dal 1996 al 1998 sotto la presidenza di Enzo Siciliano. Come vede la Rai di oggi?
«Leggo liste di tagli al prodotto e trasecolo: è come se in una fabbrica di biscotti si riducessero le risorse per farli. Mi pare incredibile che non si punti su una enorme industria culturale davvero strategica per il nostro futuro, cioè cinema e tv, con un indotto da 230 mila addetti. Noi non siamo la Germania, non abbiamo una grande industria manufatturiera. E non si tratta solo di "produrre cultura". Come dimostra la strategia degli Stati Uniti, qui parliamo di una industria. Per di più legatissima alla nostra tradizione artigianale. Insomma, manovre fatte solo di tagli sono un grave errore».
Un premio alla carriera obbliga a un bilancio. Soddisfatta del suo cammino, del suo lavoro?
«Non mi sono mai posta questa domanda. Non lo so davvero...».
Corriere 28.4.12
Paolini, il successo della scienza in tv
Un milione e mezzo di spettatori. «Stupito anch'io dal fascino di Galileo»
di Emilia Costantini
ROMA — Era già successo con «Il racconto del Vajont». Ora con «ITIS Galileo», trasmesso in diretta dai laboratori sotterranei del Gran Sasso, Marco Paolini fa di nuovo il pieno di ascolti. Il suo nuovo capitolo di teatro civile, in onda l'altra sera su La7 (si replica il 1° maggio), ha registrato quasi un milione e mezzo di spettatori e oltre 4,3 milioni di contatti. Un altro record che si aggiunge ad altri successi dell'attore-autore-affabulatore bellunese, dal «Canto per Ustica» al «Milione».
«Il risultato stupisce anche me, perché i miei non sono esercizi di stile — esordisce —. Quando ho pensato di realizzare in teatro questo spettacolo su Galileo Galilei, non immaginavo che avrei fatto tante piazze. Così come, quando l'ho trasportato in tv, non credevo certo di fare tanti ascolti. Non faccio mai calcoli di questo genere. Grazie alla libertà che mi sono guadagnato, e grazie alla mia struttura produttiva, posso permettermi di compiere scelte difficili». Una scelta apprezzata dalla vasta platea televisiva. «Intendiamoci bene: io non sono un divulgatore scientifico, né tanto meno un insegnante. Mi piacciono molto i programmi alla Piero Angela, sono cresciuto con Asimov e Philip Dick, ma non mi metto in cattedra a fare lo scienziato raccontando Galileo, così come non ero un geologo raccontando la tragedia del Vajont... E se devo dirla tutta, al liceo, sono stato pure rimandato a settembre in fisica: sarebbe contento, adesso, il mio professore». Però è un bravo attore: «Trasformo in teatro ciò che teatro non è».
«ITIS Galileo» (Istituto tecnico industriale), che già dal titolo rimanda a un chiaro intento didattico, è un'approfondita analisi su un personaggio storico, una riflessione laica sulle contraddizioni del padre della scienza moderna. «Nutrivo dei forti dubbi sulla sua trasposizione televisiva. Scegliere i laboratori dell'Istituto nazionale di Fisica Nucleare è stata una sfida in tutti i sensi, che ha dato valore al progetto: un grande lavoro di squadra che ho condiviso con altre 87 persone. Trasmettere da 1.400 metri sotto terra non è cosa da poco... Abbiamo dovuto portare il segnale nelle viscere del Gran Sasso. E poi, mentre recitavo, c'era Icarus alle mie spalle, il rivelatore di neutrini realizzato dal premio Nobel Rubbia: chi ci guardava da casa non sentiva il rumore, ma io e gli spettatori avevamo per sottofondo il suo ronzio fastidioso, come quello di un gigantesco frigorifero».
Un luogo, insomma, tutt'altro che deputato a mettere in scena uno spettacolo. «La sua forza non risiede nella perfezione formale della sua realizzazione, ma nell'immediatezza dell'evento, come un incontro sportivo. Nel marzo scorso allo Stadio Olimpico di Roma c'erano circa 80 mila tifosi che hanno assistito con entusiasmo all'incontro della nazionale italiana di rugby contro la Scozia: un gioco pesante, meno popolare del calcio, eppure...».
Ma Galileo Galilei cos'ha di tanto speciale? «È vero, non era neanche tanto simpatico: non è un personaggio da stampare sulle magliette, come potrebbe essere Giordano Bruno. Non somiglia a un eroe: sul piano familiare pare fosse un disastro, un uomo pronto a passare come un rullo compressore su tutto e su tutti, ha commesso tanti errori, sia nella sfera personale, sia in quella professionale. Ma con tutte le sue contraddizioni ci somiglia di più, mostrandoci ciò che ci manca: l'ostinazione, la tenacia, la resistenza. Insomma, non è facile stare dalla parte di uno come lui, ma aiuta a non farci mettere la testa in pensione».
Repubblica 28.4.12
Le leggi del pensiero
"Così la mente veloce guida le nostre scelte"
Intervista al premio Nobel Kahneman, che spiega perché l’intuito prevale sulla riflessione "lenta"
“L’illusione della razionalità ha portato a decisioni politiche che danneggiano i consumatori"
"Ridurre la sofferenza umana è un obiettivo che tutte le società dovrebbero cercare di ottenere"
NEW YORK Uno psicologo che vince il premio Nobel dell´economia è già di per sé un evento insolito. Se poi questo psicologo ha fatto le sue prime esperienze "sul campo" nell´esercito israeliano, è ancora meno banale. Ora Daniel Kahneman ha aggiunto un´altra qualità rara: il celebre docente di Princeton si rivela un delizioso divulgatore. Il suo libro Pensieri lenti e veloci (l´edizione italiana esce il 30 aprile, da Mondadori) in America è un best-seller. Dopo che tanti altri hanno cercato di saccheggiare le sue teorie con più o meno bravura, Kahneman dimostra che la scienza può essere divertente senza perdere il suo rigore. Soprattutto se questa scienza ci rivela i meccanismi più profondi del nostro cervello. Il pensiero umano, spiega Kahneman, funziona in base a due sistemi. Il Sistema 1, o Pensiero Veloce, è inconsapevole, intuitivo e costa poca fatica. Il Sistema 2 è consapevole, usa ragionamenti deduttivi, richiede molta più concentrazione, ed è ovviamente Pensiero Lento. Noi c´illudiamo spesso di farci guidare dal Sistema 2, di prendere le decisioni dopo un´attenta riflessione, mentre in realtà è il Sistema 1 a controllare la nostra vita per la maggior parte del tempo. Anche perché il Pensiero Lento è "pigro", si affatica presto. Lui stesso, il Sistema 2, adora abbandonarsi al suo fratello veloce, i cui automatismi gli risparmiano un bel po´ di energie. Il premio Nobel evita però l´uso di termini negativi come "irrazionalità", riconosce anche al Pensiero Veloce delle qualità e dei meriti. «Il vero eroe di questo libro è lui», sostiene Kahneman. Se è indiscutibile che il Sistema 1 è all´origine della maggior parte dei nostri errori, è anche vero che produce tante "intuizioni esperte", i riflessi automatici che sono essenziali nella nostra vita, per prendere decisioni importanti in poche frazioni di secondo. Un chirurgo in sala operatoria, o un vigile del fuoco di fronte a un incendio, attraverso il Pensiero Veloce fanno scelte di vita e di morte per affrontare delle emergenze, e molto spesso prendono la decisione giusta in quei pochi attimi. Rientra nel Sistema 1 anche una certa intelligenza emotiva, la capacità di decifrare all´istante lo stato d´animo ostile o amichevole di chi ci sta di fronte. Il guaio del Pensiero Veloce è che non conosce i propri limiti. Ha tendenza a fare degli errori marchiani nella valutazione delle probabilità statistiche di un evento. Generalmente usando il Sistema 1 sottovalutiamo il rischio che avvengano "eventi rari" di tipo catastrofico; salvo invece sovrastimare la probabilità di un bis subito dopo che questi disastri sono accaduti. In questa intervista a Repubblica, Kahneman riassume le conseguenze della sua rivoluzione cognitiva: nel campo dell´economia, della politica… e della felicità umana.
La gloria accademica lei l´aveva già conquistata, perché si è deciso a scrivere un libro così poco élitario?
«Volevo diffondere un linguaggio che può aiutarci tutti, nell´affrontare il modo in cui prendiamo decisioni».
È dagli anni Settanta che lei iniziò a demolire il mito di un Homo Economicus perfettamente razionale. Eppure fino alla crisi del 2008 i massimi esponenti del pensiero unico neoliberista, per esempio il banchiere centrale Alan Greenspan, hanno continuato a comportarsi come se i mercati fossero il non plus ultra dell´equilibrio razionale, e quindi capaci di autocorreggere gli errori.
«Il lavoro che iniziai negli anni Settanta con il collega Amos Tversky (scomparso nel 1996, ndr) è stato ampiamente accettato dagli economisti, è materia d´insegnamento da Harvard a Berkeley, soprattutto in quella che si definisce economia comportamentale ("behavioral economics"). Nella crisi finanziaria hanno giocato aspetti d´irrazionalità, per esempio in coloro che hanno contratto dei mutui pur sapendo che non avrebbero mai potuto ripagarli. Altri attori della crisi invece hanno agito facendosi guidare dal proprio interesse. L´ex presidente della Federal Reserve Greenspan ha finito per ammettere la fragilità della sua ipotesi, cioè che le banche non avrebbero mai corso dei rischi inaccettabili. L´illusione della razionalità ha influenzato certe politiche economiche: per esempio convincendo molti che non è necessario proteggere il cittadino-risparmiatore dai suoi errori; oppure generando la certezza che chi ha firmato un contratto ne abbia davvero letto tutte le clausole. La mia interpretazione del pensiero umano sfocia su politiche più interventiste, nel senso che è bene proteggere i cittadini-consumatori».
Il Pensiero Veloce può far tesoro dei propri errori, e migliorare? Esiste una sorta di "evoluzione" nella qualità del pensiero umano che possa applicarsi alle collettività?
«Noi sappiamo come funziona l´apprendimento negli individui: attraverso un "feedback", un ritorno d´informazione, possiamo riconoscere rapidamente di avere commesso uno sbaglio. Lo stesso non si applica necessariamente per i mercati, o per le politiche dei governi: perché le conseguenze degli errori sono vaghe, le informazioni sugli sbagli tornano indietro lentamente. Ma anche a livello individuale, sono pochi coloro che riempiono bene tutti i requisiti per imparare dai propri sbagli».
Quali conseguenze politiche bisognerebbe trarre da questa scienza del pensiero umano? Lei è stato definito un "libertario paternalista", perché è in favore di un intervento pubblico a base di "nudge", ovvero una "spinta leggera", un incoraggiamento soft a base di incentivi e persuasione.
«Non tutti amano queste spintarelle, una parte della cultura politica di destra non le vuole. Però ho trovato un´apertura nel premier inglese David Cameron, forse il mio più grande successo politico da oltre vent´anni».
La sua scienza del pensiero umano sfocia anche in una scienza della felicità. Lei stesso usa un termine come "psicologia edonistica". Ha finito per interessare perfino dei governi, che si sono messi in cerca di un indice della Felicità Interna Lorda da sostituire al Pil. Come giudica questo interesse?
«È vero che sono stato fra i primi a occuparmi dell´argomento, e in modo più intenso nell´ultimo decennio. Mi preoccupa il fatto che questo movimento stia andando un po´ troppo veloce. Ho due timori. Il primo: abbiamo bisogno di un indice che sia davvero adeguato, guai a fare troppi compromessi con la qualità, si finirebbe per stare ancora peggio di oggi, perché rischieremmo di fidarci di misurazioni che sono fuorvianti. La mia seconda preoccupazione è questa: la felicità è una parola grossa. Io preferirei misurare la sofferenza umana. Ridurre la sofferenza è una responsabilità della società, ed è un obiettivo più accettabile da parte di tutti».
Tra Pensiero veloce e Pensiero Lento, a quale dobbiamo affidarci se vogliamo esprimere il massimo della creatività?
«Per come descrivo il Sistema 1 nel mio libro, è evidente che la creatività dipende da quello. Altri studi però hanno dimostrato quanto la disciplina e la perserveranza aiutino a diventare creativi. Nella misura in cui il Sistema 1 opera le associazioni d´idee, è essenziale per la creatività. Ma per la tenacia e la persistenza dobbiamo fare affidamento anche sul Pensiero Lento».
Repubblica 28.4.12
Quattro giorni di incontri, dibattiti e spettacoli. Lo ha annunciato Ezio Mauro al Festival del giornalismo di Perugia
In giugno a Bologna “La Repubblica delle idee"
di Andrea Iannuzzi
PERUGIA - L´appuntamento è a Bologna dal 14 al 17 giugno: si chiamerà «La Repubblica delle idee», una festa a cadenza annuale dedicata alla community del giornale, tra dibattiti e spettacoli, incontri con i giornalisti e con le firme del quotidiano. A dare l´annuncio è stato il direttore di Repubblica Ezio Mauro intervistato da Arianna Ciccone, sul palco del Festival internazionale del giornalismo. Sarà un´occasione di ritrovarsi per chi, lettore della prima ora o acquisito cammin facendo, rinnova ogni giorno la sua fiducia nella testata, in edicola, su internet o sui dispositivi mobili attraverso le applicazioni per tablet o telefonino.
Una comunità che ieri ha mostrato la propria anima digitale, monopolizzando il flusso di twitter durante l´ora e mezza di dialogo tra Mauro, la fondatrice del Festival e il pubblico: quello in sala e, con un esperimento inedito, quello collegato in rete.
«La cifra della nostra epoca è nella parola disuguaglianza», ha detto Mauro, «che rende plausibile lo slogan del 99 per cento» adottato dai movimenti come Occupy Wall Street. «Il primo impegno dei governi dev´essere il rigore, ma subito dopo vengono la crescita e la giustizia sociale, l´equità», aspetti sui quali l´esecutivo di Monti è ancora atteso alla prova dei fatti. Alla domanda se sia stato giusto affidarsi ad un governo tecnico, Mauro ha replicato: «È stato indispensabile, non c´era in Italia la percezione di quanto grave fosse la situazione, eravamo nel baratro e non ne siamo ancora usciti». Si è parlato della necessità di rinnovamento della classe dirigente e politica, della «montagna di disponibilità ed energia democratica sulla quale sono seduti i partiti della sinistra» e del pericolo rappresentato dall´antipolitica, che con la sua semplificazione è l´anticamera del populismo e mette a rischio la fiducia nella democrazia. In chiusura, a domanda precisa, Mauro ha dichiarato di essere favorevole all´abolizione dell´Ordine dei giornalisti.
il Fatto 28.4.12
Queste carceri, una cloaca sociale
Una “cloaca sociale”: così Emma Bonino ha definito le carceri italiane, perché ci finiscono principalmente quelle categorie di persone di cui lo Stato non sa e non vuole occuparsi: immigrati e drogati. Sono lì e ci resteranno, quei reietti che la società della “brava gente” non vuole vedere in giro, anche se il 40% di loro è in attesa di giudizio. Ma la cloaca non è solo questo. Senza dire delle condizioni igieniche e sanitarie in cui vivono, basti pensare che, qualunque reato abbiano commesso, tre quattro cinque esseri umani vivono in undici metri quadrati insieme alle loro poche cose, per 20 ore al giorno. Quando ai maiali destinati al macello sono concessi maggiori spazi e libertà di movimento, per direttiva europea… Sono solo alcune delle disastrose condizioni del sistema Giustizia nel nostro Paese, che instancabilmente i Radicali hanno ripetuto prima e durante la loro bellissima Marcia per l'Amnistia dello scorso 25 aprile.
Paolo Izzo