Bellocchio (in giuria): «Macché complotto I nuovi registi non sono adatti ai festival»
Con me ci sarà anche il mio amico Michel Piccoli: bello trovare un volto conosciuto Come a scuola
di Giuseppina Manin
MILANO — «Mi spiace che non ci sia nessun film italiano in gara. Mi spiace davvero». Marco Bellocchio sospira sincero davanti al cartellone di Cannes. Dove il solo nome italiano presente nella sezione principale è il suo, ma stavolta dall'altra parte della barricata, nella giuria presieduta da Stephen Frears, che dovrà decidere l'ambito Palmarès. «No, non penso a nessun complotto, a nessuna presa di posizione antitaliana — prosegue il regista, habitué della Croisette, nel 2002 in competizione con L'ora di religione, l'anno scorso al Certain Regard con Il regista di matrimoni —. Ci sono anni in cui si va in gara, magari anche con più di un titolo, e anni che invece... Capita in qualsiasi festival. A volte resta fuori l'Italia, a volte tocca ad altri».
Resta però la delusione. «Sì — ammette —, anche perché si era detto e ridetto che questo era l'anno d'oro del cinema italiano». D'oro forse solo per il botteghino... «Confesso di non averne visti molti di quei film di cui si è tanto parlato e che hanno riscosso tanto successo di pubblico: Ho voglia di te, La notte prima degli esami, Manuale d'amore... Di certo credo gli si debba riconoscere il merito di aver dato respiro al nostro cinema, di aver giovato alla sua cagionevole salute».
«Però — aggiunge —, è anche vero che non sono film da festival. La nostra cinematografia non mi pare inseguire in questo momento modelli particolarmente originali. La ricerca di nuovi linguaggi mi sembra davvero poca. Le grandi stagioni del cinema italiano, quelle che tra gli anni '60 e '70 ci avevano portato ai vertici mondiali, restano ancora lontane. La speranza è che questa ripresa, questa maggior circolazione di capitali, aiuti a emergere nuovi talenti, magari più anticonformisti».
Intanto, per questa tornata va così. Eppure si era sentito dire di Luchetti, si era sentito dire di Olmi. «E in effetti ci sono tutti e due. Il primo nel Certain Regard, il secondo tra gli Hommages per il 60mo anniversario. Non ho ancora visto il film di Lucchetti mentre Centochiodi sì. Ammiro molto Olmi per la sua originalità, sincerità, la forza delle sue immagini. Pur se le mie idee sono lontanissime dalle sue, lui così rivolto alla religione, io ateo, davanti a lui, tanto di cappello. Capisco anche che da maestro schivo qual è, non abbia più voglia di gareggiare. A Cannes Olmi ha già vinto la sua Palma d'oro con L'albero degli zoccoli».
Di rado Bellocchio accetta di andare in giuria, ma stavolta l'idea di passare due settimane sulla Croisette a guardare film lo mette persino di buon umore. «Ma sì, mi pare quasi di andare in vacanza... Una volta che mi vedeva nicchiare davanti a un simile invito, Comencini mi disse: vai, è sempre una bella esperienza. Aveva ragione. Per un motivo o per l'altro, al cinema ormai vado sempre di meno e fare il giurato è l'occasione per una bella scorpacciata di film. Per di più con la garanzia di proiezioni eccellenti, nella loro lingua originale e, vista la severità della selezione, con scarsa probabilità di bidoni. Sulla carta il cartellone promette bene. Mi aspetto immagini di forza inedita, capaci di sorprendermi ed emozionarmi. La bellezza è sempre un grande stimolo, spinge all'emulazione. Insomma, quasi una terapia».
E poi in giuria c'è anche Michel Piccoli. Che nel 1980, proprio con un film di Bellocchio, Salto nel vuoto, vinse a Cannes il premio come miglior attore. «Un grande amico, l'idea di ritrovarlo mi dà un enome piacere e mi rasserena. Perchè entrare in una giuria dove spesso nessuno conosce l'altro è un po' come il primo giorno di scuola: mette un po' d'ansia». Tra tanta festa, uno scotto da pagare: lo smoking. «Già, i francesi ci tengono alla forma. Ne ho fatto uno tre anni fa, ma da allora non l'ho più messo. Spero di poterci entrare ancora».
l’Unità 20.4.07
Mussi al passo d’addio
«Piero, grazie lo stesso»
«Sarà il discorso più difficile della mia vita». Abbracci e commozione
«Ma la decisione è presa». Oggi il leader della minoranza Ds se ne va
di Simone Collini
UN APPELLO all’unità da parte del segretario se lo aspettava. Quello che Fabio Mussi non si aspettava è tutto il resto: il modo in cui Piero Fassino ha invitato chi è contrario al Partito democratico a non "separarsi" (e guardandosi bene dal pronunciare la parola "scissione"), il modo in cui la platea del Mandela Forum ha risposto, quell’applauso più forte e prolungato di tutti gli altri, e soprattutto il modo in cui lui stesso ha reagito. Lo sguardo che si alza dai fogli pieni di appunti e va dritto in platea, poi su sulle tribune, poi la mano che va a coprire la bocca, gli occhi che si fanno lucidi. Anche per questo l’intervento che farà oggi sarà, dice, "il più difficile della mia vita".
Ministro si è commosso?, gli domandano quando Fassino chiude il suo intervento. "Bè", guarda in alto, "insomma", guarda l’interlocutore, "siamo fatti di sangue e carne", e abbozza un sorriso. Quasi a scusarsi, perché i sentimenti non possono prendere il sopravvento sulle valutazioni politiche. E infatti è solo un attimo: "Ringrazio Fassino, il suo è stato un appello fraterno, che tocca corde profonde. Però deve prevalere la razionalità e l’assunzione di una responsabilità politica".
La razionalità gli dice che non può accettare che "si evapori la storia della sinistra italiana una storia piena anche di tanti drammi, ma gloriosissima", la responsabilità che sente di assumersi è di abbandonare i compagni di "una lunga militanza, di una vita" per dar vita a un movimento politico che lavori insieme ad altri per riunificare le forze di sinistra oggi divise. In poche parole: "Non ci sono le condizioni politiche per un ripensamento". Anche perché, se Fassino ha affermato "la necessità storica del Pd", Mussi questa necessità storica non la vede, né l’ha vista dimostrare dalla relazione del segretario: "Anzi, da come il congresso ha ascoltato, mi pare serpeggi più di un dubbio, e non solo tra le mozioni di minoranza". Ed è di nuovo la battaglia politica a conquistare la prima fila. La sfera degli affetti deve rimanere dietro, anche se nella scorza di indifferenza che si è portato dietro a Firenze le falle in alcuni momenti si vedono tutte. Come quando entra nel catino del Mandela Forum, scatta un applauso tutto per lui e dal primo piano che trasmette il maxischermo è evidente quanto sia emozionato. O quando va a sedersi al suo posto e non smette di stringere mani ai compagni che gli si fanno incontro, e che oggi lascerà per prendere un’altra strada: Marina Sereni, Anna Finocchiaro, Marco Minniti, Sergio Chiamparino, Pierluigi Bersani. Cerca di sdrammatizzare. "Ricordati - dice Mussi al ministro dello Sviluppo economico riprendendo una considerazione che aveva fatto nei giorni scorsi - che la sinistra esiste in natura". E quello: "Lo so. Non siamo così bravi da sradicarla". Sorrisi, pacche sulle spalle. Oggi è il giorno dell’addio. Non del solo Mussi.
I 250 delegati che hanno firmato la sua mozione sono con lui. La sera prima dell’apertura del congresso i delegati della seconda mozione si sono incontrati a Firenze per decidere la linea da tenere. Quattro ore di discussione, chiuse in piena notte con l’approvazione all’unanimità della proposta fatta da Mussi: non si partecipa ai lavori delle commissioni, non si entra negli organismi dirigenti eletti dal congresso, parla uno per tutti, poi via senza clamore. E Mussi parlerà oggi.
"Sarà l’intervento più difficile della mia vita", non nasconde. Ancora una volta è l’altalena tra sentimenti e razionalità a venire alla luce, come è inevitabile che sia in un momento come questo. "Con Fassino, D’Alema e altri c’è sempre stata un’amicizia al di sopra dei dissapori", raccontava l’altra notte in una pausa della riunione dei delegati. Con Fassino si sono abbracciati quando sono andati a sistemarsi al tavolo della presidenza. Con D’Alema ha scambiato varie battute durante l’intervento di apertura del segretario. "Io farò di tutto perché questo rapporto rimanga anche dopo". Del resto, l’operazione a cui pensa consiste nell’avvio di una costituente di "pari dignità" rispetto al quella del Pd, che ha l’obiettivo di costruire a sinistra dell’Ulivo una forza consistente, con consensi a due cifre. "Con il 30% non si governa", è il ragionamento che fa quando sente parlare del Pd come della soluzione alla governabilità del paese. "Perché il governo sia solido occorre lavorare all’unità della coalizione. La frammentazione? Capirei se l’ipotesi fosse la riunificazione delle forze più piccole, e invece qui si fondono le due più grosse. Che senso ha? Non cambia nulla".
l’Unità 20.4.07
«L’apertura di Fassino? Bene ma vedremo»
Angius raccoglie quanto detto dal segretario. Ma i suoi: «Non ci siamo ancora»
Parlerà questa mattina Gavino Angius, tra i promotori della terza mozione congressuale. Ieri, nell'intervento di apertura, Piero Fassino ha definito le proposte di correzione di questa mozione (coofirmata da Mauro Zani) "in buona parte condivisibili". Non solo. Ha continuato: "Intendiamo raccoglierle". Un'apertura che alle orecchie dell'uditorio è apparsa anche ampia: "Chiedo di far valere le loro proposte - ha detto il segretario dei Ds - nel cantiere del Pd. Lungo il percorso non mancheranno le occasioni per operare tutte le verifiche necessarie". E, ha anche aggiunto, "in caso, all'indomani dell'assemblea costituente, questa assemblea congressuale, che a norma di Statuto rimane in vita tra un Congresso e l'altro ed è la sede di decisione democratica più larga, sarà riunita per valutare l'andamento del processo costituente e assumere gli adempimenti successivi". A caldo Angius risponde ai giornalisti: "Occorre sciogliere alcuni nodi sui quali interverrò: quello della laicità e dell'appartenenza al campo del socialismo europeo". E ha eccepito, nel merito, ''Non mi piace che il nuovo partito sia fatto solo dai Ds e dalla Margherita e su questo bisogna lavorare molto''.
Nella riunione del pomeriggio, i delegati della terza mozione, hanno fatto il punto della situazione. E sono giunti ad una conclusione anche più battagliera. Il portavoce della mozione, Alberto Nigra illustra il dispositivo comune che dovrebbe uscire dai due congressi, e che è stato pubblicato sull’Unità. La pagina di giornale è sottolineata: "Tre dei sei punti proposti non ci convincono per niente", afferma Nigra. E spiega: "Il secondo, ad esempio, dice che Ds e Dl assumono il manifesto come orizzonte ideale. . A noi quel manifesto non piace, e non solo a noi. Il manifesto va riscritto con il contributo di tutti: dei socialisti, di Di Pietro e Bordon….". Non convince nemmeno il punto numero 4, il potere dato agli organi dirigenti durante la fase di transizione ("In questo caso, sul Pse, chiediamo a Fassino di farsi garante presso i Dl della nostra proposta"). E nemmeno il 6 che afferma come, all'atto di nascita del Pd, verrà conclusa l'attività politica di Ds e Dl. Gli esponenti della Terza Mozione hanno sempre chiesto che alla fine del processo costituente sia convocato un Congresso di scioglimento dei Ds. Per adesso, affermano, all'apertura politica espressa dal segretario non ha corrisposto un'apertura di fatto. E' stata, afferma maliziosamente qualcuno, "un'apertura congressuale". Alla quale oggi Angius risponderà.
l’Unità Roma 20.4.07
All’Auditorium la filosofia è di massa
Tutto pronto per la seconda edizione del festival dal 9 al 13 maggio
di Luciana Cimino
CONFINI Dal 9 al 13 maggio oltre 120 studiosi e personalità della cultura si cimenteranno con l’idea di confine, metafora in continuo movimento, nella seconda edizione del Festival della Filosofia. L’Auditorium Parco della Musica come una grande agorà animata da spirito laico e impegno civile. La formula ricalca quella vincente dello scorso anno (oltre 30 mila visitatori nel 2006): 18 tavole rotonde, 7 lectio magistralis, 6 incontri con pensatori di confine (panorama di autori borderline e figure di culto) e 4 con “voci di confine”, alla ricerca di una riflessione filosofica comune alle diverse culture, 5 caffe filosofici, la novità di quest’anno. E poi “Dentro e fuori”, rassegna di cinema a cura di Edoardo Bruno, fondatore della storica rivista “Filmcritica”, spazi per bambini, teoria e pratica di yoga. Oltre agli spettacoli: “Io, Charles Darwin”, una prima assoluta tra scienza e teatro con la partecipazione di Edoardo Boncinelli, Giulio Giorello, Pier Luigi Luisi su testo e regia di Valeria Patera, “Quattro cosmicomiche di Italo Calvino”, di e con Graziella Galvani, Mariano Mariani e Beatrice Pucci e, sempre in prima assoluta, “Il suono del Logos”, progetto originale commissianato dalla Fondazione Musica per Roma ad alcuni tra i più rappresentativi compositori di musica contemporanea. L’artista Gianfranco Baruchello, inoltre, nel foyer presenterà la mostra «Pieghe, flussi, pensieri in bocca», una raccolta di 15 opere realizzate dagli anni sessanta in poi, tra cui un quadro di circa 15 metri.
«All’Auditorium si formerà un nuovo tipo di sfera pubblica - ha commentato Giacomo Marramao, docente all’Università di Roma III, nonché, assieme a Paolo Flores D’Arcais e alla Fondazione Musica per Roma, organizzatore del festival - che raccoglie le questioni che la sfera pubblica italiana, ormai desertificata, non affronta». E dunque si discuterà di antitesi tra oriente e occidente, di religione, di illuminismo ed eutanasia, di confini della politica e delle città. Due i “quodlibeta”: un confronto tra Hanif Kureishi e Tariq Ramadam, due intellettuali musulmani molto diversi du “laicismo, secolarizzazione e religione” e “La volontà di Dio è compatibile con la democrazia?” in cui Paolo Flores D’Arcais e Giuliano Ferrara si confrontano sulla laicità. Negli altri appuntamenti: Marc Augè (il 10 maggio), Franco Cordero, Eugenio Scalfari, Piergiorgio Odifreddi, Umberto Galimberti, Gianni Vattimo, Fernando Savater. Gli studenti dei licei romani parteciperanno con il progetto dell’assessorato alle Politiche Scolastiche “Roma per vivere, Roma per pensare”. L’ingresso agli eventi è gratuito o ad un costo di 1-2 euro.
Corriere della Sera 20.4.07
FANTASMI SOCIALISTI
di Gian Antonio Stella
Non ha mai nominato, manco una volta, la parola operai, mai la parola fabbrica, mai la parola masse. Temi che un tempo incendiavano i militanti di quello che si vantava di essere il più grande partito comunista d'Occidente. Non ha mai citato, neppure una volta, quel Silvio Berlusconi il cui solo nome per un decennio riusciva magicamente a riaccendere anche le più ammaccate e tristi riunioni di piazza. E dopo aver rimosso le arie dell'«Internazionale» e «Bandiera Rossa» e perfino della «Canzone Popolare» o dell'ironica «Il cielo è sempre più blu», ha affidato la missione di scaldare i cuori al robusto inno di Mameli e a «Over the Rainbow», come non ci fossero più canzoni capaci di riassumere con parole italiane e comprensibili all'intera platea una fede buona per tutti.
Eppure nella sua appassionata relazione al quarto congresso dei Ds, così appassionata da fargli venire infine un groppo in gola, Piero Fassino è stato chiamato a fare i conti soprattutto con una parola antica: socialismo. E lì, ha dovuto tentare più acrobazie del mitico Giovanni Palmiri il giorno in cui fermò il fiato ai milanesi comparendo su un trapezio nel cielo di piazza Duomo.
Doveva infatti, lassù sul filo, reggere contemporaneamente in equilibrio quattro socialismi differenti. Il primo, ovvio, era il richiamo al socialismo che doveva rassicurare Fabio Mussi o almeno instillare qualche dubbio nei suoi fedeli, con un continuo rimando alla lunga storia della sinistra e un monito sulle scissioni del passato, «nessuna delle quali è stata foriera di maggiori opportunità». Il secondo doveva confortare Poul Rasmussen, George Papandreou, Kurt Beck e Martin Schultz, che certo non erano venuti a Firenze per essere smentiti dopo aver detto più volte di aspettarsi che il «partito nuovo» entri senz'altro nella grande famiglia socialista europea. Il terzo dovrebbe, se non subito almeno in un futuro ravvicinato, convincere i socialisti della diaspora a non vedere nel Partito democratico «una riedizione in scala minore del compromesso storico» ma piuttosto «la casa anche dei socialisti». Operazione complessa per l'erede di quell'Enrico Berlinguer che, al di là della rivendicazione di una diversità morale, marchiò Bettino Craxi come «un pericolo per la democrazia» e di quel Massimo D'Alema che ammiccava: «Diciamo che non son mai stato un socialista italiano. Sono diventato direttamente un socialista europeo».
L'esercizio più arduo, però, era il quarto: fare digerire questo continuo appello al socialismo, nominato e invocato nelle sue varianti 31 volte, a chi nella Margherita ha già detto e ridetto di non avere alcuna intenzione di entrare nel Pse e men che meno nell'Internazionale Socialista. Anche se per il segretario diessino «già oggi è costituita per quasi metà dei suoi 185 partiti da forze di ispirazione culturale diversa dall'esperienza socialista». Esempio? Il Partito del Congresso Indiano e il Partito dei Lavoratori di Lula. Due esempi, come dire, esotici.
Basteranno? Francesco Rutelli dice che risponderà oggi. Ma potete scommettere che da qui all'appuntamento fondante della prossima primavera, che appare lontana lontana, il tema sul tappeto resterà questo.
Corriere della Sera 20.4.07
Mussi, strappo con commozione «No a Piero, la sinistra evapora»
Oggi l'addio. «Ci terrei molto a mantenere i rapporti personali»
di Aldo Cazzullo
FIRENZE — Alla fine Berlusconi applaude. Lui no. Il mangiacomunisti batte convinto le mani a un discorso pieno di Camere del Lavoro, ruolo storico del Pci, compagne e compagni. Lui, «nato sotto un altoforno», «figlio della Piombino operaia», amico di Fassino e D'Alema fin dalla giovinezza, resta a braccia rigide. A Livorno, il giorno di quell'altra scissione del 1921, Bordiga avrà applaudito Turati? Probabilmente no. Nel dubbio, Fabio Mussi non applaude Fassino.
«Mussi segretario di partito! Il sogno di tutta una vita da impiegato, al prezzo di una piccola scissione!». La vignetta di Vincino, che sul Corriere lo punta da settimane, era impietosa. Mussi ieri si è ribellato: «La nostra non è una scissione». Sono loro, quelli della maggioranza Ds, che se ne vanno. «Stanno facendo un partito in cui non mi riconosco». Fassino si è commosso nel chiederle di restare. «Che c'entra? Anche io mi sono commosso». A dire il vero era apparso chino sul banco a prendere appunti. «Siamo fatti di carne. Fassino ha toccato corde profonde. Ma la razionalità ci impone di andare avanti. Del resto, qualche dubbio sulla sua relazione il congresso l'ha avuto: si respirava un'atmosfera sospesa, di attesa». Del suo intervento di oggi, è ovvio. L'unico dubbio resta se fare come i seguaci di Bordiga e Gramsci a Livorno, lasciare in massa il teatro subito dopo la conclusione del capo, che stavolta è lui. Lo è diventato ai tempi dei girotondi e all'ombra di Cofferati, ora altrove. Indimenticabile la sua relazione al culmine del «biennio rossiccio» (la definizione è di Peppino Calderola), in un convegno all'Ambra Jovinelli, in cui Mussi espresse tutta la sua calda fiducia nell'avvenire: «La destra ci trascinerà indietro in un medioevo delle istituzioni e dell'anima, popolato di latifondisti del video, soldati di ventura, bande tribali!».
Impiegato, proprio no. Mussi, invece, è personaggio di spessore. Vecchio Pci di Piombino, Fgci, Normale di Pisa, dove ha affinato appunto la razionalità e conosciuto D'Alema, sulle scale del pensionato per studenti. «Avevamo due borse a testa, una per mano. Sentimmo un frastuono. I fascisti avevano tentato di metter su una manifestazione per i colonnelli greci, quelli di sinistra avevano reagito. Mollammo le borse e ci precipitammo. Capitando in mezzo a un massacro infernale. Ci conoscemmo così, nel furore della battaglia. Massimo era asciutto come un'acciuga, aveva i baffetti appena accennati e una testa enorme tutta ricci. Io ero magro, portavo un gran ciuffo nero sulla fronte e non avevo ancora i baffi». Ieri Fassino l'ha abbracciato e baciato. D'Alema si limita a una pacca, poi gli indica il posto accanto a Reichlin. I mussiani precisano che respingeranno l'invito di Fassino a restare nel partito, ma eviteranno l'uscita in massa dal Palasport. L'intervento di oggi si annuncia ancora più ottimista di quello del Mussi girotondino: «Nello stadio tecnologico in cui si trova l'umanità, l'incremento del consumo di materia ed energia disegna una curva catastrofica!». A Firenze non è apparso altrettanto angosciato.
«In questi quarant'anni ho affrontato diversi momenti difficili, cambiamenti profondi, svolte. Ogni volta mi sono preso la libertà di dire quel che pensavo». Non è vero che è stato sempre all'opposizione. «L'ultima volta che ho votato la mozione di maggioranza, lo slogan era: "Una grande sinistra in un grande Ulivo". Oggi l'Ulivo è più piccolo e la sinistra ammaina le insegne. Evapora». In effetti Mussi è il più coerente con la stagione dei movimenti e della critica da sinistra alle segreterie dei partiti. Altri del Correntone che simpatizzarono per i girotondi, da Bassolino alla Melandri, non ci sono più. In serata quel che resta della sinistra del partito era riunita per una cena frugale, crostini di milza, ribollita e chianti, per decidere il da farsi. Si diffonde la voce che Fabio parlerà a mezzogiorno, sciogliendo l'imbarazzo: tutti i delegati, non soltanto i suoi, lascerebbero il congresso, ma per andare a pranzo. Potrebbe essere una delle ultime volte, a ricordare l'altra relazione di Mussi: «Qui si mette a rischio la biosfera, le condizioni basilari di produzione e riproduzione della vita!».
Irremovibile, si augura almeno di non perdere le amicizie. «Ci terrei molto a salvare i rapporti personali. Quando nel '94 ci fu il ballottaggio D'Alema-Veltroni, andai da Massimo a dirgli: ho deciso, voto Walter. Lui non mi ha mai portato rancore». Portare rancore a Mussi è quasi impossibile: anche gli avversari gli riconoscono correttezza, simpatia e talento per le battute, riservate negli ultimi tempi al partito democratico (la migliore: «Fondere cristianesimo e illuminismo era il grande problema irrisolto di Kant; ora ci provano Fassino e Rutelli»). Se ne accorse anche Berlusconi, che dopo averlo schernito — «la sua faccia è una via di mezzo tra Hitler e un salumiere» — lo invitò a cena. «Fu una serata memorabile, una gara di battute» ha raccontato Mussi. Ieri Berlusconi appariva rilassato e disponibile, alle riforme e all'intervento in Telecom. Più preoccupato Mussi, che ha il problema dell'approdo. La coerenza socialista lo porterebbe verso il rinato Psi, dove però troverebbe De Michelis e le insegne del garofano. Più probabile l'accordo con Bertinotti, che socialista non è. Alla festa della ribollita si decide che è meglio restare al congresso ed evitare sceneggiate: «Siamo gente seria, noi». Il capo è chiuso in albergo a limare l'intervento, che si annuncia denso, colto, ricco di citazioni. Quell'altra volta aveva evocato Krugmann, Albraith, Adorno («In gioventù a me molto caro»), Tversky e Kahnemann: «Il presente immediato è governato dal cieco caso. Si gioca a dadi; ma il tuo numero non esce mai».
Corriere della Sera 20.4.07
Nessun fischio al Cavaliere. Via al disgelo
Berlusconi a Firenze applaude Fassino: discorso serio. Condivido il 95%, quasi quasi mi iscrivo al Pd
di Marco Galluzzo
FIRENZE — Si avvicina il dalemiano Latorre e gli stringe la mano e parlottano per due minuti. Gli vanno incontro il senatore Franco Debenedetti, il tesoriere diessino, Ugo Sposetti, lo accolgono con un sorriso e un benvenuto. Lui si fa strada fra i delegati e nessuno lo fischia. Si accomoda in terza fila e un centinaio fra fotografi e cameramen lo assediano, mandando in tilt la sicurezza a lui dedicata (i portuali di Livorno), all'aria alcune sedie, rischiando di far cadere a terra Gianni Letta, trasformando il suo ingresso in un happening. «Un'accoglienza da star», dirà l'ex sottosegretario di Palazzo Chigi, che più di tutti lo ha voluto al congresso dei Ds.
Berlusconi applaude il discorso di Fassino seduto in terza fila, con accanto Paolo Bonaiuti e Gianni Letta. Batte le mani al passaggio sulla legge elettorale, poi di nuovo quando il segretario ds parla di riforme condivise, per un Paese più civile, dove «l'avversario non è più considerarsi un nemico» e l'Italia può considerarsi stabilizzata. Sembra di assistere a un fotomontaggio ma è realtà: il Cavaliere applaude più volte Fassino, i due si parlano senza parlarsi, lui arriva a dire che «il 95% delle cose che ho sentito sono condivisibili, quasi quasi mi iscrivo anche io al partito democratico».
Per il ministro Mastella l'atmosfera «è quella dell'inciucio, vogliono farci fuori, noi piccoli partiti». Per chi assiste all'evento, strette di mano, gesti e parole descrivono un dialogo istituzionale fra Forza Italia e Ds nel pieno del suo svolgimento. L'ex premier sceglie di fare outing su Telecom, comunica in modo ufficiale la sua disponibilità, proprio sull'uscio del Palacongressi fiorentino. Chi ha voglia di immaginare scenari può sbizzarrirsi: il Cavaliere sdoganato dai ds, ha tentato di fare un passo indietro in politica e uno avanti negli affari, il conflitto di interessi che scolora, un assetto istituzionale diverso in cui le riforme danno attuazione a un accordo sotterraneo.
È l'esegesi possibile di una cronaca che vede Berlusconi ancora circondato da cameraman e cronisti all'uscita dal congresso. Alfredo Reichlin sbotta indispettito: «La sua presenza è un fattore di disordine». D'Alema segue divertito, con gli occhi, la bolgia. Lui continua a parlare, senza sosta: «È stata una platea civile. È uno stimolo per noi, se fanno il partito democratico anche noi realizzeremo presto un mio sogno, quello del partito della Libertà. A Fassino in ogni caso faccio tanti e sinceri auguri, ha fatto un discorso serio, responsabile». Poi però avverte, alludendo anche alla legge Gentiloni: «Spero che alle parole seguano i fatti».
Fra gli ospiti c'è il socialista europeo Martin Schultz: l'ex premier lo definì kapò, ne nacque un caso internazionale. Oggi è acqua passata, è lo stesso Schultz a dire «mi fa piacere rivederlo in un clima diverso». Anche Berlusconi continua a ripetere che c'è «un clima di transizione», che esistono le opportunità che «i partiti comincino a confrontarsi senza eliminarsi a vicenda», che «il bipolarismo può fare un passo avanti».
Oggi l'ex premier sarà di nuovo in veste di ospite, al congresso della Margherita. Assisterà al discorso di Rutelli. Per Mastella e altri della maggioranza ci sarà di nuovo «aria di inciucio».
Corriere della Sera 20.4.07
Bertinotti, fine settimana sul Monte Athos
MILANO — Il viaggio era stato fissato per il 23 e il 24 febbraio. Poi la bocciatura della mozione dell'Unione sulla politica estera al Senato e la conseguente crisi di governo con tanto di avvio di consultazioni al Colle, lo avevano convinto a rinunciare. E a malincuore aveva ammesso: «Il richiamo al dovere mi ha fatto restare qui. Ma se avessi avuto coraggio ci sarei andato, dicendo che ci sarebbe stata una ragione in più». Ora però, il fine settimana di riflessione tanto atteso è arrivato e neppure i due congressi di Ds e Margherita intralceranno i piani del presidente della Camera: domani e domenica Fausto Bertinotti visiterà i monasteri della repubblica teocratica greco-ortodossa del Monte Athos, nella parte più orientale della penisola Calcidica, in Grecia.
Con al seguito una delegazione ristretta e formata da soli uomini (i monaci proibiscono l'accesso delle donne nella loro repubblica), Bertinotti arriverà intorno alle 13 a Karies, la capitale, dove risiedono gli organi direttivi. Prima tappa, il monastero di Vatopedi, uno dei più antichi. Nel pomeriggio prenderà parte alla celebrazione dei vespri. Domenica, la sua giornata di preghiera inizierà alle 5.45, con il rito religioso nella cappella del monastero. Poi visita ai monasteri della Grande Lavra e di Simonos Petra.
Corriere della Sera 20.4.07
«Aversa, situazione grave verifiche sui pazienti reclusi»
di Livia Turco e Clemente Mastella
Una catena di morti (tre suicidi, due vittime dell'Aids), sovraffollamento (300 reclusi in una struttura che può ospitarne 170), degrado: il dramma dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, uno dei sei in Italia, è stato al centro di un reportage pubblicato sul Corriere della Sera di mercoledì. Ecco l'intervento dei ministri della Salute e della Giustizia.
Gentile direttore, in qualità di ministro della Giustizia e di ministro della Salute siamo convinti che le informazioni pubblicate dal Corriere della Sera, a proposito della situazione dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, meritino la più sollecita attenzione.
Il problema delle condizioni e del ruolo degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari è oggetto di una seria riflessione da parte dei nostri uffici per riuscire a realizzare, al più presto, iniziative adeguate ad affrontare una situazione che è grave, sotto molti profili, ormai da lungo tempo.
Il primo e più urgente passaggio è costituito dalla piena attuazione del decreto legislativo 230/1999, che prevede il trasferimento integrale delle competenze in maniera sanitaria, ora assolte dall'Amministrazione penitenziaria, al Servizio sanitario nazionale e alle Regioni. In questo senso, concordiamo sulla necessità di accelerare, d'intesa con le Regioni, tutte le procedure utili allo scopo.
A nostro giudizio si impone, inoltre, una verifica rapida e puntuale della validità dei criteri che, per una quota degli attuali internati, determinano la permanenza negli Ospedali psichiatrici giudiziari.
Appare, infine, indispensabile affrontare la questione centrale dell'imputabilità degli autori di reato, che forma oggetto delle direttive, di prossima presentazione, da parte della Commissione per la riforma del Codice penale insediata presso il Ministero della Giustizia.
Cordiali saluti,
Ministro della Salute
Ministro della Giustizia
Ministro della Giustizia
il manifesto 20.4.07
Partiti nel vuoto
di Gabriele Polo
Un partito muore quando vengono meno i motivi per cui è sorto: forse questo devono aver pensato i dirigenti dei Ds. Un partito nasce quando dalla società ne emerge il bisogno: sicuramente a questo non hanno pensato i leader della Quercia avviandosi a sciogliersi nel nascente Partito democratico.
I due atti che vanno in scena a Firenze, morte e nascita, non conoscono soluzione di continuità, perché c'è da preservare la struttura (fuoriuscite a parte) e questo è già un giudizio di merito, insieme all'altro che - in realtà - è una constatazione: il futuro Pd avrà un consistenza elettorale che - nel migliore dei casi - sarà pari alla metà della somma delle due entità storiche che eredita, quella democristiana e quella comunista. Aritmeticamente è un disastro, ma è niente rispetto al prodotto di un pasticcio politico che viene rivendicato come balzo vero il futuro. Difficile spiegare simili incongruenze e tali masochismi se non con una constatazione e una riflessione.
La constatazione riguarda la genesi del binomio morte-nascita. Il Pd sarà il primo partito al mondo a nascere dal governo. Di solito avviene il contrario: si fa un partito, si pongono degli obiettivi e si cerca di portarli al potere. Qui, invece, il nuovo soggetto politico nasce dentro «il potere», per dare maggior stabilità al governo. E' il risultato di una concezione della politica per cui quest'ultima si può esercitare davvero solo stando al governo: chi è fuori non conta nulla. Una depravazione dell'agire pubblico, condita dall'oosessione della stabilità, che si è talmente impossessata dei professionisti della politica al punto da contagiare anche chi, all'estrema sinistra, finisce col pensare che la politica si possa fare solo dall'opposizione: governisti e oppositori sono vittime della una stessa logica, che esaurisce tutto nel «governo». Dimenticando quanto potere reale abbiano perso nell'era della globalizzazione le istituzioni rappresentative ed esecutive a scapito di poteri sovranazionali, dal mercato con le sue istituzioni alla cultura con i suoi cenacoli.
La riflessione (ma è soprattutto un terreno ricerca e di lavoro) è che la morte-nascita che si rappresenta a Firenze è solo un piccolo aspetto di una crisi cui manca una diagnosi. Crisi nel senso proprio del termine, momento di trasformazione profonda che non trova ancora uno sbocco chiaro: l'ingarbugliarsi guerrafondaio delle relazioni internazionali in quello che Wallerstein chiamava sistema-mondo, la riduzione del peso degli stati nazionali in assenza di nuovi organismi di governo reale, la dispersione sociale di ogni comunità, la preminenza del mercato incontrollato sul lavoro frammentato. Una tale «confusione» che porta un partito a sciogliersi perché chi lo compone non ne ritrova più il senso nel mondo cambiato e che porta alla nascita di un nuovo soggetto politico senza una qualsiasi barra. Così quel che resta è solo l'amministrazione confusa e un po' velleitaria di un presente che non sa scorgere futuro.
E' su quest'ultimo terreno - un campo fitto di individui ma privo di progetto, che si apre in Italia e nel mondo - che una futura sinistra dovrà lavorare. Per non ridursi all'essenza speculare del vuoto politico targato Pd.
il manifesto 20.4.07
Silvio applaude, Mussi no
Berlusconi è già innamorato: «Se il Partito democratico è quello tratteggiato da Fassino quasi quasi mi iscrivo». Fabio Mussi si commuove ma non ci ripensa, oggi l'addio dal podio
di Micaela Bong
«Siamo fatti di carne e sangue». Il segretario Piero Fassino ha terminato la sua relazione e Cesare Salvi esce subito dal palazzetto: «L'appello a restare? Vado a fumarmi una sigaretta e ci penso», risponde ironico. Ma Fabio Mussi, ancora in piedi all'estremità del palco, aspetta parecchi minuti prima di commentare. Verso l'uscita laterale del Mandela Forum di Firenze dove inizia il quarto e ultimo congresso dei Ds c'è ancora Silvio Berlusconi circondato da giornalisti, telecamere e fotografi che straparla e si concede a ogni inquadratura, a ogni microfono, a ogni taccuino. E il leader della sinistra diessina aspetta che torni la calma. «Siamo fatti di carne e sangue», dice allora a chi finalmente gli domanda se si è commosso quando il segretario si è rivolto a lui e a Cesare Savi nell'estremo appello a ripensarci. In quel momento sul maxischermo è apparso il ministro dell'università, un primo piano che sì, l'emozione la tradiva tutta. Ma prevalgono «la razionalità e la responsabilità politica». Nessun ripensamento dell'ultimo minuto, «non ci sono le condizioni politiche» e «qui si fa un partito che non sento mio, io ero per una grande sinistra in un grande Ulivo. Qui si fa un Ulivo più piccolo senza sinistra». Quello che una volta era il correntone uscirà. E anzi, anche dalla platea Mussi dice di aver sentito serpeggiare dubbi, la sensazione di uno «stato d'animo sospeso».
Strano congresso, in effetti questo. Fine di una storia, comunque la si voglia mettere, ma senza grandi entusiasmi. La parola d'ordine è futuro. I giovani, soprattutto i giovani in primo piano nei maxischermi che rimandano decine di «frame» di tg di tutto il mondo che poi lasciano il posto a altrettante facce, le persone in carne e ossa del Partito democratico. La ventiquattrenne Caterina, sciarpa lilla stile Gruber annodata al collo, che parla del muro di Berlino caduto quando lei aveva cinque anni, dei primi soldi guadagnati in euro e delle «grandi speranze» accese nei giovani con la vittoria dell'Unione. «La politica è un grande viaggio verso il futuro invece che una piccola stazione confinata nel passato», recita una voce fuori campo mentre sugli schermi scorrono a gran velocità le immagini di strade, campi, orizzonti indefiniti e Bob Dylan canta «Series of dreams», «stavo pensando a una serie di sogni dove niente arriva alla cima, tutto quanto sta giù dove è ferito e giunge a una sosta permanente». Non proprio il massimo, per il partito del futuro.
Giù, sotto una sorta di rampa da skate-board interrotta da uno schermo che da sopra il palco scivola verso il parterre, siedono le delegazioni dei partiti di maggioranza e opposizione. E siede Silvio Berlusconi, che entra quasi inosservato e appena si trova nella sala scatta il parapiglia. L'Udc D'Onofrio cerca di salvare il leader dalla valanga umana che gli si riversa addosso: «Faccio il servizio d'ordine», si dice da solo. Nessun applauso al Cavaliere, ovviamente, ma nemmeno fischi. Quando entra Piero Fassino, scatta l'applauso, ma non aria da ovazioni (l'applausometro dice: prima Finocchiaro, secondo Bersani). Il segretario saluta gli ospiti, ma quando Fassino stringe lungamente la mano a Berlusconi la scena si può vedere solo dal vivo e non su maxischermo come per gli altri. Una sapiente regia ha voluto evitare che il faccione del Cavaliere si tirasse dietro qualche fischio? Il «fair play» è comunque studiato. E i maliziosi pensano subito all'affare Telecom.
Ancora qualche minuto prima della relazione di Fassino. «Somewhere over the rainbow...», suona e risuona la colonna sonora del Mago di Oz mentre la strega cattiva dell'ovest, colui contro il quale l'Unione è riuscita per un soffio a vincere le elezioni siede tranquillamente tra i comunisti trasformandosi d'incanto nella strega del nord, la fata buona di Arcore. «Coraggioso», «responsabile» «serio», non si risparmierà il Cavaliere commentando l'intervento di Fassino. Mentre il segretario afferma che in politica non ci sono nemici, ma avversari, Berlusconi annuisce. Quando Fassino parla della necessità delle riforme, il leader forzista applaude.
Al Forum per ora Fabio Mussi aspetta. Aspetta di parlare, oggi, dal podio per il suo ultimo intervento da diessino. Sull'uscita laterale, Berlusconi è ancora lì a dire che il Partito democratico è «molto positivo», perché rafforza il bipolarismo. Il Cavaliere quasi quasi si iscriverebbe a questo Pd se non fosse che nella relazione di Fassino «non c'è stato alcun accenno critico al passato» e il segretario diessino «ha detto che porteranno le loro bandiere nel nuovo partito». Quelle bandiere per Berlusconi sono ancora un po' troppo. Per la sinistra della Quercia che fu sono invece troppo poco.
il manifesto 20.4.07
Quell'anarchico di nome Kafka
Un Kafka tutto politico contro la macchina dell'oppressione. Quella esercitata dallo stato e dalla legge e quella che infliggiamo a noi stessi. In un saggio di Michael Löwy la potenza ribelle dello scrittore praghese
di Mario Pezzella
Un uomo ribelle, ironico, con simpatie sovversive: questo l'inconsueto ritratto di Kafka, come emerge dal libro di Michael Löwy Kafka, sognatore ribelle (Eléuthera, pp. 136, euro 13). Löwy ricorda i contatti di Kafka con gli ambienti anarchici praghesi e la «passione antiautoritaria», da cui prende origine la sua opera letteraria. La sua ribellione contro l'autorità patriarcale possiede una dimensione storica e politica, presente anche nei romanzi maggiori. Il Processo - secondo Löwy -, oltre ad essere un resoconto di disperazione esistenziale, compie una critica radicale del potere burocratico, che domina lo stato del Novecento. L'autorità contestata da Kafka non è solo quella familiare e paterna, ma è l'impersonale e anonima burocrazia, che la sostituisce in forma sempre più radicale nel corso del secolo passato (come mostreranno gli studi sull'autorità e la famiglia della Scuola di Francoforte). Sembra che Kafka abbia affermato in una conversazione: «Le catene dell'umanità torturata sono di carta protocollo», riferendosi agli immani meandri e apparati amministrativi dello stato moderno, in cui l'individuo viene stritolato come una rondella insignificante. Il «Castello» dell'omonimo romanzo è il simbolo stesso di questa anonima impenetrabilità. Secondo Löwy, i romanzi di Kafka descrivono il passaggio epocale da un'autorità fondata sulla dipendenza personale, ad un potere astratto che si impone «come il meccanismo impersonale del congegno» (Löwy), destinato a uccidere i condannati nel racconto Nella colonia penale.
In realtà, più che ad una completa eliminazione del potere arcaico e personale assistiamo nell'opera di Kafka al suo inedito connubio con una tecnologia «sofisticata, moderna, esatta, calcolata, razionale» (Löwy). Il più arcaico e il più moderno si fondono nell'ottusa brutalità dei funzionari kafkiani, che sono nonostante tutto i rappresentanti di un'autorità astratta e insondabile. Come già aveva osservato Walter Benjamin nel suo saggio su Kafka, il diritto e la burocrazia sono le incarnazioni moderne del destino, che impedisce la libertà e l'autodecisione. La reificazione burocratica è un'espressione di quella generalmente imposta dal capitalismo, di cui sembra che Kafka abbia affermato: «Il capitalismo è un sistema di dipendenze che procedono dall'alto al basso e dal basso all'alto. Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è una condizione del mondo e dell'anima».
Una lettura così dichiaratamente politica dell'opera di Kafka non esclude tuttavia altri piani di lettura - teologico, esistenziale, psicoanalitico -, collocandoli in una prospettiva critica e non convenzionale. Così, la meditazione teologica di Kafka non ha nulla in comune con le rassicuranti interpretazioni del suo amico Max Brod, per cui il Castello rappresenterebbe la Grazia o il governo di Dio. Come già avevano intuito Adorno e Benjamin, quella di Kafka è una teologia radicalmente negativa, in cui ogni Legge ed ogni Chiesa positiva hanno perso intima vitalità e si sono trasformate in apparati astratti al servizio del potere. «La non-presenza di dio nel mondo e la non-redenzione degli uomini», caratterizzano secondo Löwy la teologia negativa kafkiana. Come Benjamin, egli crede tuttavia in una «debole forza messianica», che sarebbe rimasta in possesso dell'umanità e sosterrebbe la sua resistenza contro il male e l'apparato del dominio. Come Bloch, Scholem e lo stesso Benjamin nei primi due decenni del secolo, Kafka è incline a una sorta di paradossale «anarchismo religioso»: la redenzione messianica richiede la cooperazione dell'uomo e questa si manifesta innanzittutto nella distruzione degli apparati di costrizione e di potere: «Il Messia verrà solo quando non sarà più necessario», scrive in tal senso Kafka in un aforisma del 1917, «non all'ultimo, ma all'ultimissimo giorno».
Anche l'ebraismo di Kafka va considerato alla luce della sua passione antiautoritaria. E' probabile che nella stesura del Processo Kafka sia stato influenzato da alcune condanne per «omicidio rituale», e dall'antisemitismo morboso che ne era derivato (in particolare quella contro Mendel Beiliss, del 1913). Esse gli ponevano innanzi in modo inconfutabile la maledizione del paria, che poteva colpire alla cieca e in modo irrazionale ogni ebreo (questa nozione è al centro di un grande saggio di Hannah Arendt del 1944). Tuttavia, questa condizione viene da lui progressivamente universalizzata. K. nel processo rapresenta la condizione ebraica, eppure allo stesso tempo la sorte che sempre più frequentemente può toccare ad ogni individuo sottoposto agli apparati giuridici della modernità. I romanzi di Kafka sono scritti «dal punto di vista dei vinti» (Löwy) e descrivono la reificazione che invade ormai ogni piega dell'esperienza soggettiva, senza risparmiare quel «foro interiore», che perfino Hobbes riteneva intangibile dalla violenza del potere. La corruzione della più intima soggettività è l'aspetto più inquietante dell'opera kafkiana, che Arendt ha indicato come interiorizzazione della colpa e identificazione con l'aggressore.
Alla fine del Processo, K. si lascia uccidere quasi senza reagire, come rassegnato e convinto della propria colpa. In realtà, per quel poco che sappiamo della sua vita, egli non è colpevole per avere resistito o trasgredito a qualche legge, ma per aver partecipato senza protesta all'apparato anonimo e impersonale, che ora lo colpisce personalmente. Burocrate egli stesso, K. è solitario, narcisista e indifferente alla sorte degli altri. Egli ha compiutamente interiorizzato la legge dell'apparato, prima di subirne e comprenderne sul suo corpo la cieca violenza. Il male compiuto da K. è una «banale» pertecipazione all'indifferenza e alla passività collettiva, come quelle che poi realmente permetteranno la creazione dei totalitarismi e dei campi di sterminio. Il romanzo descrive il risveglio doloroso della sua coscienza e la sua tardiva decisione a lottare. Come spesso Kafka ripete nella sua opera, il rinvio e la sospensione indefinita conducono a perdere l'attimo propizio, che precipita inesorabilmente nel tempo mancato.
Uno stralcio dal discorso di Fassino del 19.4 al PalaMandela di Firenze:
«(...) C’è qui, dunque, un ampio appassionante terreno di ricerca, confronto e incontro che consente anche di aprire una nuova stagione del rapporto tra credenti e non credenti.
Ed è per questo che non guardiamo con ostilità al Family Day promosso da un gruppo ampio di associazioni cattoliche, con le quali ci interessa al contrario interloquire.
Così come – nel rispetto delle autonomie di pensiero e di ruoli – serve una nuova stagione di confronto tra fede e politica.
Né ci spaventa e ci preoccupa che il mondo cattolico, le sue istituzioni sociali, la Chiesa si manifestino con maggiore assertività.
Semmai tutto questo deve sollecitare la politica ad essere all’altezza delle sfide culturali e morali che anche dal mondo cattolico ci vengono poste.
Le nuove frontiere della scienza, della ricerca e delle tecnologie ci hanno condotto in un tempo in cui la vita, la morte, la riproduzione sono affidati sempre di più all’intervento dell’uomo e del suo sapere.
E ciò suscita – sia in Benedetto XVI, sia in un non credente come Habermas – interrogativi etici, culturali, antropologici a cui tutti siamo chiamati a dare risposte, promuovendo una nuova stagione di ricerca culturale e di dialogo tra culture e religioni.
Anche per questo serve un grande Partito Democratico, di donne e uomini liberi, credenti e non credenti, mossi dall’unico intento di affermare valori di uguaglianza, di giustizia, di solidarietà, di dignità.
Qui sta la vera difesa della laicità. Che non consiste nella riproposizione di antichi e anacronistici steccati. Ma nella comune ricerca di un nuovo umanesimo, di un pensiero nuovo, capace di suscitare comuni, innovative risposte alle grandi questioni che interrogano l’intelligenza e la coscienza dell’umanità contemporanea.
Solo la politica capace di alimentarsi a questa ricerca comune è una politica forte, autonoma e quindi laica.
E d’altra parte il rapporto con il mondo cattolico rappresenta una delle grandi costanti della politica italiana.
E le modalità con cui il mondo cattolico ha organizzato e realizzato la sua presenza politica ha sempre segnato la storia italiana, sia quando vi è stato un partito come la Democrazia Cristiana, fondato sul presupposto storico dell’unità politica dei cattolici, e sia quando, come oggi, quel partito non c’è (...)».
Corriere della Sera Roma 20.4.07
Filosofia, voci di confine
Diciotto tavole rotonde e due controversie sulla laicità
È dedicato al tema dei Confini il Festival della Filosofia, che quest'anno ha in progetto diciotto tavole rotonde, sette «Lectio Magistralis», due controversie, sei incontri su pensatori di confine, quattro incontri su voci di confine, cinque caffè filosofici. Nei numerosi appuntamenti si alterneranno pensatori, intellettuali e scrittori. Come Marc Augé, Marco Bellocchio, Remo Bodei, Andrea Camilleri, Luciano Canfora, Franco Cordero, Giulio Giorello, Hanif Kureishi, Piergiorgio Odifreddi, Tariq Ramadan, Fernando Savater. Curata da Paolo Flores d'Arcais e da Giacomo Marramao, docente all'Università Roma Tre, la rassegna affronta un tema che rappresenta un nodo nevralgico del nostro presente: il confine come luogo dell'emancipazione, «la soglia lungo la quale si può e si deve vivere l'esperienza necessaria e irrinunciabile dell'avventura umana, politica e civile».
Tra le novità di quest'anno, le due controversie filosofiche sul tema della laicità, che vedranno il 9 maggio Paolo Flores d'Arcais a confronto con Giuliano Ferrara e il 23 maggio Hanif Kureishi, scrittore e regista anglo-pakistano laico e contrario alle scuole religiose, dibattere con Tariq Ramadan, docente universitario svizzero e intellettuale islamico moderato. «Avremmo voluto organizzarne di più - ha annunciato Flores d'Arcais - ma abbiamo chiamato moltissimi cardinali, vescovi e biblisti e tutti ci hanno detto di no. Anche molti filosofi famosi non gradiscono il confronto, che invece dovrebbe essere il sale della filosofia. Ci teniamo a farlo sapere, per non essere poi accusati di laicismo fondamentalista».
Nuovo anche il concerto «Il suono del Logos», che verrà eseguito in prima assoluta la sera del 10 maggio nella sala Petrassi, con «cantate filosofiche» composte da sei musicisti contemporanei, da Luca Francesconi a Helmut Oeringh, ispirati ai volti e alle voci di altrettanti pensatori, da Norberto Bobbio a Oliver Sacks. Tra gli spettacoli, sono ancora da segnalare l'opera teatrale «Io, Charles Darwin, tracce e voci della mia vita», tratta dall'autobiografia dello scienziato che ha teorizzato l'evoluzione della specie, e le «Quattro cosmicomiche di Italo Calvino» con la narrazione recitata e concertata da Graziella Galvani.
Altra novità di quest'anno, l'entrata a pagamento: di due euro per il publico generico e di un euro per gli studenti. Decisa, come hanno spiegato il presidente di Musica per Roma Gianni Borgna e l'amministratore delegato Carlo Fuortes, per evitare «i problemi del troppo successo», come è accaduto per il Festival della matematica, quando fuori dalle porte dell'Auditorium si sono accalcati centinaia di studenti che alla fine non sono riusciti a entrare. Adesso i numeri sono contingentati e chi vorrà entrare potrà acquistare i biglietti già dai prossimi giorni e organizzarsi un palinsesto personale di eventi.
Organizzate sul tema di Confini anche le lezioni di yoga, le attività per i bambini programmate dall'assessore Maria Coscia, la rassegna di cinema con sette film scelti da Edoardo Bruno, la mostra di Gianfranco Baruchello che espone un'opera lunga quindici metri.
CONFINI. FESTIVAL DELLA FILOSOFIA. Auditorium Parco della Musica, tel. 06.80241281. Dal 9 al 13 maggio