sabato 14 gennaio 2012

il Fatto 14.1.12
Non staremo a guardare
di Paolo Flores d’Arcais


Quanto potrà durare la convivenza tra il governo “salva Italia” e la maggioranza parlamentare “salva camorra”? Qualche mese, ha stabilito lo sciagurato patto intercorso tra Bossi e Berlusconi: si vota tra maggio e giugno, io ti offro l’impunità per il tuo amico onorevole frequentatore dei “casalesi” e tu mi contraccambi non dando tempo a Maroni di organizzarsi per prendermi la Lega, questo in soldoni (è il caso di dirlo) il mercimonio tra i due Le Pen alla matriciana che da quasi un ventennio infestano il paese. En passant, un grazie di cuore agli altrettanto onorevoli deputati del partito di Pannella.
Che il governo Napolitano-Monti-Passera sia davvero il governo “salva Italia” è ovviamente tutto da dimostrare. Qui lo assumiamo per presupposto, e quando ci sarà da lottare contro le iniquità annunciate non staremo certo a guardare. Che la maggioranza parlamentare sia “salva camorra” è invece ormai conclamato, e anzi orgogliosamente, visto il carosello di applausi e felicitazioni che hanno salutato l’Impunito, prontamente invitato da Vespa come tronista del suo show di regime.
Quali siano le ragioni del vergognoso voto lo ha del resto confessato candidamente uno di loro: altrimenti quelli (sarebbero i magistrati!) ci vengono a prendere uno per uno! E perché mai? Solo chi ha commesso crimini parla così. Evidentemente i parlamentari “salva camorra” sanno quante illegalità hanno perpetrato, a cominciare dal loro boss Berlusconi. Noi possiamo solo immaginarlo, e puntualmente fantasia e satira si dimostrano inferiori alla realtà.
Dunque con ogni probabilità tra maggio e giugno si vota, poiché i patti scellerati sono quelli maggiormente rispettati, proprio da gente della risma dei due B, che le promesse agli elettori le valuta meno di certa carta. Le forze democratiche vogliono arrivarci di nuovo impreparate, e consentire così che si realizzi ciò che oggi sembra solo raccapricciante fantascienza, il ritorno al governo dei due, con le straripanti pulsioni fasciste a quel punto senza argini?
Perché si voterà con il sistema “Porcata”, inutile farsi illusioni. Con il quale i voti fuori dalle due coalizioni maggiori contano solo per partecipare alle spoglie della sconfitta. Dunque è necessario che nella coalizione repubblicano-costituzionale una parte cruciale la giochino una o più liste autonome di società civile, legate alle tematiche e alle passioni di dieci anni di lotte. E nessuna sirena centrista. Sarà bene lavorarci subito, discuterne fin da ora e operativamente su giornali e web, perché molto presto potrebbe già diventare troppo tardi.

il Fatto 14.1.12
La giustizia presa a sberle
di Gian Carlo Caselli


In Italia la Camera, per “salvare” dall’arresto un suo componente, prende a sberle la magistratura farfugliando di “fumus persecutionis” e altre amenità pur di rendere meno indigeste strategie che riducono la politica a baratto. In Italia la Camera, per “salvare” dall’arresto un suo componente, prende a sberle la magistratura farfugliando di “fumus persecutionis” e altre amenità pur di rendere meno indigeste strategie e alleanze che riducono la politica a mortificante baratto. Nello stesso tempo, a Londra, lord Phillips di Worth Matraves, presidente della Suprema Corte, ha stabilito che nella sua aula chiunque sarà libero di abbandonare gli antichi paramenti. Basta quindi con parrucche e forse anche con toghe e bavaglini di pizzo. La modernità contro una tradizione che risale al Seicento. Con la motivazione (così Andrea Malaguti su La Stampa) che “il processo va reso accessibile a chiunque”; – deve essere “un confronto tra uomini, non tra raffinati aristocratici scelti per rappresentare una plebaglia muta”.
NON PORTANO parrucche i deputati italiani che a maggioranza hanno “salvato” l’onorevole Cosentino e prima ancora avevano disinvoltamente approvato, tra l’altro, leggi “ad personam” finalizzate a sottrarre il processo al giudice naturale (legge Cirami), oppure ad allontanare indefinitamente nel tempo la celebrazione di un dibattimento (lodo Schifani). Ecco allora che anche senza una parrucca in testa si può essere “parrucconi”, cioè personaggi arroccati intorno ai propri privilegi, incapaci di corrispondere adeguatamente alla pretesa di equità e giustizia che i cittadini esprimono appellandosi al principio di legalità, della legge eguale per tutti. Finendo così per considerare i cittadini, invece che sovrani (la sovranità appartiene al popolo), appunto una “plebaglia muta”: da liquidare con stanchi ritornelli sui teoremi dei magistrati, sul loro accanimento persecutorio contro il politico di turno e via salmodiando all’infinito. Una politica, questa, che sembra amare il masochismo, perché non fa che gonfiare il discredito e la sfiducia che già dilagano nei suoi confronti. Si potrebbe persino essere tentati di chiedere ai parlamentari italiani di indossare proprio le bianche parrucche (rigorosamente di crine di cavallo) che in Inghilterra si vogliono abolire: per coerenza, vista l’atmosfera un po’ irreale e molto, molto vecchia (precostituzionale?) in cui certe decisioni della maggioranza della Camera vanno a incastonarsi. E chissà mai che le parrucche – per assurdo – non contribuiscano al recupero di alcuni valori.
PERCHÉ oggi è certamente roba da medioevo, ma storicamente quest’abbigliamento – a volte proprio con la sua ridondanza – ha avuto una funzione precisa: ricordare e riaffermare il noto paradosso del costituzionalista inglese, secondo cui l’esercito e la flotta dell’Inghilterra hanno una sola funzione, rendere possibile che il giudice emani le sue sentenze. Perché la legalità è il cemento della convivenza civile, è il freno a egoismi e onnipotenze, è il prevalere delle regole condivise. E con una parrucca in testa, forse, diventerebbe più difficile indulgere all’idea – terribilmente italiana – di una giustizia “à la carte” valida per gli altri ma mai per sé.

il Fatto 14.1.12
Il network che salva i casalesi
di Nando Dalla Chiesa


Ma è stato “solo” un istinto di casta quello che ha portato il Parlamento a sottrarre Nicola Cosentino alle leggi della Repubblica? A salvarne uno per completare il suicidio collettivo? Dietro, in realtà, c’è dell’altro. Ma è stato “solo” un istinto di casta quello che ha portato il Parlamento a sottrarre Nicola Cosentino alle leggi della Repubblica? A salvarne uno per completare il suicidio collettivo? Chi conosce un po’ storia e personaggi del Parlamento italiano sa quanto questo istinto sia potente. L’idea che domani possa capitare a me o a te, a qualcuno dei nostri. L’idea che la nostra dignità costituzionale ci ponga al di sopra delle leggi. L’idea che tutto questo si possa chiamare “garantismo”. Lo stesso a cui non per nulla si è appellata la Lega del cappio e di Roma ladrona. Ma dietro il caso Cosentino c’è altro. C’è la storia di lealtà e solidarietà che si radicano nelle fibre più intime del potere. Fibre invisibili, inconfessate. E forse, per iniziare a capire, conviene tornare a quella riunione segreta venuta a galla nel luglio del 2010 e che proiettò sull’Italia l’immagine di qualcosa di simile a una nuova P2; una P3, come si disse. In quella riunione a Roma si erano trovati in otto. Ripassiamo i nomi. C’era Denis Verdini, vero coordinatore del Pdl, referente della cricca dei costruttori. C’era Marcello Dell’Utri, ispiratore del progetto di Forza Italia e poi condannato in appello per concorso esterno in associazione mafiosa.
C’ERA FLAVIO Carboni, uomo P2, con la sgradevolezza di essere stato condannato in primo grado (ma poi assolto) per l’omicidio del “banchiere di Dio” Roberto Calvi. C’era il governo, nella persona del magistrato e sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo. C’era un altro esponente del ministero della Giustizia, nella persona di Arcibaldo Miller, capo degli ispettori ministeriali. Poi Antonio Martone, avvocato generale della Cassazione e già presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Infine c’erano due signori campani sconosciuti alla quasi totalità dei cittadini italiani. Uno era Pasquale Lombardi, l’altro Arcangelo Martino. Il primo autonominatosi giudice tributario, in quanto membro di commissioni tributarie, ed ex sindaco di un paese irpino. Il secondo “imprenditore” e piuttosto anonimo ex assessore socialista. Che cosa accomunava i due? Essere stati tra gli sponsor più intransigenti della candidatura di Cosentino a presidente della Regione Campania. Bene. Che ci facevano insieme persone tanto diverse? Note e sconosciute, interne ed esterne alle istituzioni? Secondo quanto sostengono i carabinieri, si stavano occupando di due cose: a) pilotare nel verso giusto la sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano; b) salvare la Mondadori dal suo spaventoso debito verso l’erario. Insomma, stavano lavorando per “Cesare”, come lo chiamavano, che sempre secondo i carabinieri era Silvio Berlusconi. Uno scenario inquietante: magistrati misti a personaggi che, direttamente o indirettamente, evocano comunque all’osservatore l’ombra, nell’ordine, della Cricca, di Cosa Nostra, della P2 e dei Casalesi. Tutti insieme per concordare come influenzare l’organo supremo della giurisdizione repubblicana. Ecco, i due sponsor di Cosentino fanno parte di quel ristrettissimo nucleo di persone che in quel momento (nemmeno due anni fa) rappresenta il potere politico vero, un gradino sotto Cesare. Ne spartiscono e ne custodiscono i segreti. È a queste stanze che bisogna andare per capire le ragioni del suicidio di una classe politica. Al network micidiale di poteri che opera a Roma all’ombra dei Palazzi istituzionali, con i quali ha frequentazioni continue (Lombardi era un vero accalappiatore di alti magistrati e consorti in convegni “scientifici” da officiare in località di lusso).
DI QUA gli ambienti più contigui alla sfera illegale del Paese. Di là una pletora di magistrati distaccati ai ministeri, consiglieri di Stato, magistrati Tar, che amministrano i poteri di governo assai più dei sottosegretari e di quasi tutti i ministri, unica eccezione quelli che possono incidere sulle loro carriere. Questi due mondi si incrociano di frequente, non tutti con tutti, si capisce. Non sempre per progettare o commettere reati, a volte solo, “innocentemente”, per sistemare un figlio o trovare una casa. Ma garantendo sempre la possibilità di passare facilmente da un estremo all’altro del network. Per capirsi: i Casalesi avranno anche dato un impulso formidabile alla fase della cosiddetta camorra-impresa, disseminando i loro capitali in attività economiche di ogni tipo in tutto il paese, da quelle immobiliari a quelle commerciali, e mescolandosi con ogni tipo di potere, accumulando un grande potere di ricatto. Ma è a quel network che bisogna andare. È quel luogo inafferrabile – abitato non dalle “multinazionali” ma da persone spesso mediocri e sconosciute – che unendosi allo spirito di casta ha rovesciato i pronostici salvando Cosentino. E ci ha consegnato questa terribile immagine dello Stato: carabinieri, polizia e magistrati (quelli regolarmente accusati dai colleghi del network di volere “far carriera”) che arrestano uno dopo l’altro tutti, ma proprio tutti, i capi dei Casalesi; e il Parlamento che mette in salvo il loro referente politico.

l’Unità 14.1.12
La furia dei militanti si sfoga al microfono
Continuano le proteste su Radio Padania e Radio Radicale dopo il voto che ha salvato dal carcere il coordinatore Pdl
di Natalia Lombardo


Radio Radicale è allenata alle libere maratone di liberi commenti senza rete alcuna che filtrasse i viscerali improperi degli ascoltatori indignati. La famosa «Radio parolaccia» che fu anche censurata dalle autorità di garanzia. Dopo il voto contrario all’arresto di Cosentino, l’etere si sta addensando per le telefonate di chi si non manda giù la fede garantista della Rosa nel pugno estesa al presunto camorrista. Anzi, sul profilo Facebook della radio la suddetta rosa si ritrova conficcata su un aggraziato lascito intestinale con la definizione «Radical shit». «A radicali...sti, fateve meno canne!», è uno dei commenti monotematici. E Mirko avvisa: «Troppo fumus fa male al cervello! Iconizzatevi che siete ridicoli...». Qualcuno crea un nuovo marchio: «Fumus padano». Realistico Pino: «Con questo voto vi siete persi l’occasione di mandare in onda le registrazioni del processo Cosentino».
Toni più torvi a Radio Padania, se non fosse che è ben più controllata e censoria. Tra le note del «Boss dei laghè», Davide Van der Sfroos, le telefonate sono accolte con una «buona Padania a tutti»; c’è chi rivede il vecchio neologismo sui «trinariciuti comunisti» (che non guasta mai per l’ottica “padanica”) trasformati da una signora in «trinariciuti capitalisti» in tempo di governo tecnico. Ma tra i vari «vergogna...» per il salvataggio del «terrone», i conti in Tanzania e la truffa delle CrediEuronord, entra in azione il conduttore sintonizzato sull’onda corta di Arcore: «Lei ce l’ha le prove?», della colpevolezza di Cosentino. «Be’, no...», risponde la povera donna, e allora... clik, «se si tratta solo di teoremi no, eh?!», conclude il conduttore che si dichiara «razzista». Il forum di Radio Padania Libera, infatti, è spento. Problemi tecnici, è la spiegazione, e sul sito si avvisa: mai esistito un profilo fb della radio. Della Lega esiste, così la rabbia si spande sul social network, dove Luterino Blissettoni moltiplica l’autore collettivo in un pattern di «mafiosi di m... Mafiosi di m...» all’infinito. Altro che Alberto da Giussano, per Gabriele «siete dei camorristi campani». Gli escrementi tirano, così la comparazione di Egidio: «Lega-Pdl=Montagna di m...». Argomenta meglio Silvio Brigante, che urla in due righe: «Anche le foglie degli alberi di Caserta sapevano che Cosentino era un affiliato dei casalesi...». Messaggi livorosi e il leit motiv razzista sbandierato sulla pagina fb della Lega che anche i più volenterosi non riescono a far togliere nonostante le denunce alla polizia postale: «Lega Nord Padania. Immigrati clandestini: Torturali! È legittima difesa».

l’Unità 14.1.12
Cgil, Cisl e Uil hanno definito il documento comune da portare al confronto con il governo
Elsa Fornero ha incontrato ieri Rete imprese Italia che chiede maggiore flessibilità
I sindacati per l’intesa «Ma l’articolo 18 resti fuori dal tavolo»
Raggiunta l’intesa tra i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil: «Noi siamo pronti, vediamo se anche il governo è pronto». L’assenza di eventuali modifiche all’articolo 18 è precondizione al confronto
di L.V.


MILANO Le premesse per un vero confronto sul mercato del lavoro ci sono tutte. Nella riunione conclusiva di ieri mattina, i segretari generali di
Cgil, Cisl e Uil hanno definito nei dettagli la piattaforma unitaria anticipata ieri sulle pagine di questo giornale con cui intendono presentarsi all’incontro con il governo sulla riforma del mercato del lavoro.
LA PIATTAFORMA DEI SINDACATI
Adesso la parola spetta al ministro Elsa Fornero e al premier Mario Monti che davanti a interlocutori uniti e desiderosi di entrare nel merito delle questioni con proprie proposte concrete dovranno dimostrare la reale volontà dell’esecutivo di pro-
cedere a modifiche legislative con il consenso delle parti sociali.
Il primo banco di prova, manco a dirlo, sarà l’assenza dai temi della discussione di qualsiasi modifica all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che le tre confederazioni sindacali continuano a porre come precondizione necessaria al dialogo. A cominciare dallo stralcio della bozza sul decreto liberalizzazioni che innalzerebbe da 15 a 50 dipendenti la soglia per la sua applicazione nelle imprese in caso di fusioni. «Il tema dell’articolo 18 non è tra i problemi veri da affrontare al tavolo» hanno avvisato i leader sindacali. E se l’esecutivo ne farà «un totem» ideologico, una questione di principio, allora i rapporti con i sindacati «rischiano il black out».
«Abbiamo opinioni identiche » ha spiegato il leader Cisl, Raffaele Bonanni, al termine del vertice di ieri, a cui martedì prossimo seguirà la riunione unitaria delle segreterie confederali dalla quale scaturirà un documento comune su crescita, mercato del lavoro, ammortizzatori sociali e pensioni da presentare a Palazzo Chigi. «Noi siamo pronti, adesso vediamo se lo è la politica».
Anche il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, si è augurato da parte dell’esecutivo un percorso coerente con le intenzioni dichiarate, perché «non vorremmo scoprire che alla fine l’unica cosa fatta sarà il disastro sulle pensioni». Gli auspici sono tutti per «una discussione trasparente, con il coinvolgimento di tutti», anche in tempi rapidissimi, ma soprattutto «in totale trasparenza, senza usare la tecnica delle indiscrezioni e dei documenti anonimi, che poi vengono più o meno smentiti a seconda delle convenienze».
Suona ancor più chiaro l’avvertimento della segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso: «Speriamo che il governo non voglia far fallire la trattativa prima di cominciare» e, a tal fine, «che la bozza che sta circolando in questi giorni, contenente anche un riferimento all’articolo 18, non sia confermata». Una trattativa, comunque, che Corso d’Italia non vuole preventivamente limitata nel merito: «Non vogliamo discutere solo del mercato del lavoro, ma anche di crescita e sviluppo», temi su cui il fronte sindacale si presenterà con «un’agenda condivisa».
GLI INCONTRI DEL MINISTRO
Intanto, non si fermano gli incontri preventivi del ministro del Welfare, Elsa Fornero, con le diverse parti sociali in vista della fase decisionale del confronto. Ieri è stata la volta dell’Associazione banche italiane, delle associazioni imprenditoriali di Rete imprese Italia, e delle Acli.
Al termine di un faccia a faccia durato un’ora e mezza, il primo ufficiale con il nuovo esecutivo, il direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, ha presentato al ministro l’esperienza del comparto bancario e assicurativo nel mercato del lavoro: «Il nostro settore ha infatti sperimentato, prima di altri, le soluzioni esaminate nell’ambito della riforma che il ministero si appresta a studiare».
Soddisfatto anche il presidente di Rete imprese Italia, Marco Venturi, secondo cui il confronto sulla riforma del mercato del lavoro «può e deve andare a buon fine, perché l’Italia in questa situazione di difficoltà ha bisogno di mettere tutti i tasselli a posto». In particolare, «abbiamo posto al centro i problemi del lavoro legati alle Pmi, ci vogliono quelle condizioni di flessibilità e opportunità per avere più occupazione nel Paese». Al proposito, anche la modifica circolata in questi giorni all’articolo 18 «può essere un’opportunità per favorire l’aggregazione, la capacità concorrenziale e la crescita dimensionale, quindi noi la giudichiamo positivamente».
Nei prossimi giorni, invece, il ministro Fornero proseguirà le consultazioni sulla riforma del mercato del lavoro con il mondo delle cooperative. Per lunedì pomeriggio sono stati infatti convocati i rappresentanti dell’Alleanza nazionale delle cooperative (che associa Confcooperative, Legacoop e Agci).

l’Unità 14.1.12
Cento giornali a rischio Appello a Monti in difesa del pluralismo


La Federazione della Stampa chiede al premier di intervenire subito
sul Fondo dell’editoria per evitare la chiusura di oltre un centinaio di testate
Pubblichiamo il testo dell’appello al presidente del Consiglio, Mario Monti, che oggi sarà pubblicato da oltre cento giornali in crisi per i tagli al Fondo per l’editoria

Ci troviamo costretti ad appellarci a Lei per segnalare la drammatica necessità di risposte urgenti per l’emergenza di un settore dell’editoria rappresentativa del pluralismo dell’informazione, un bene prezioso di cui si ha percezione solo quando viene a mancare.
Alla data di oggi, infatti, queste aziende non sono in grado di programmare la propria attività, rischiano di dover a fine mese sospendere le pubblicazioni e anzi alcune hanno già chiuso i battenti. Si tratta dei giornali gestiti in cooperative espressioni di idee, di filoni culturali politici, voci di minoranze linguistiche, di comunità italiane all’estero, no profit per i quali esiste il sostegno previsto dalla legge per le testate non meramente commerciali, ma per le quali oggi non ci sono garanzie sulle risorse disponibili effettivamente per il 2012. C’è inoltre un’urgenza nell’urgenza: la definizione delle pratiche ancora in istruttoria per la liquidazione dei contributi relativi all’esercizio 2010 che riguarda una trentina di piccole imprese.
In assenza di atti certi su questi due punti sta diventando pressoché impossibile andare avanti, mancando persino gli elementi per l’accesso documentario al credito bancario. Nell’ancora breve, ma intensa, attività del Suo Governo, non è mancata occasione per prendere atto della domanda di garanzie per il pluralismo dell’informazione, anche nella fase di transizione verso il nuovo quadro di interventi previsto a partire dal 2014. Siamo decisamente impegnati a sostenere una riforma. Col Sottosegretario in carica fino a pochi giorni fa, Professor Carlo Malinconico, era stato avviato un percorso di valutazione delle possibili linee di iniziative. È indispensabile riprendere questo dossier al più presto.
Il nostro è un vero Sos che riguarda sia le procedure amministrative in corso, da sbloccare, sia la dotazione definitiva per l’editoria durante il 2012.
Il Governo ha già preso atto dell’insufficienza dello stanziamento risultante da precedenti manovre sulla spesa pubblica e ha, perciò, condiviso una norma, approvata dal Parlamento, che include l’editoria tra i soggetti beneficiari del cosiddetto “Fondo Letta” della Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’integrazione di questa somma con un prelievo (cifra ancora indeterminata). Ritenevamo e riteniamo che il provvedimento sulle “Proroghe”, divenuto frattanto “proroghe”, possa e debba contenere le misure opportune per stabilire l’impegno finanziario dello Stato durante il 2012. Siamo dell’avviso che sia indispensabile la destinazione da tale Fondo di una somma non inferiore a 100 milioni di euro, al fine di assicurare alle testate del pluralismo dell’informazione non meramente commerciale le condizioni minime di sopravvivenza, nelle more di un riordino del sistema di interventi per il quale ci sentiamo solidamente impegnati.
Si tratterebbe di operare in una linea di equità, analogamente a quanto già fatto dal governo per Radio Radicale, verso l’indispensabile costruzione di un nuovo e più chiaro modello di intervento.
Condividiamo nettamente l’idea che i contributi debbano sempre più essere misurati sulla base dell’impiego dei giornalisti e dell’effettiva diffusione delle testate e che sia davvero “impensabile eliminare completamente i contributi che sono il lievito di quella informazione pluralistica che è vitale per il Paese”, come Ella ha recentemente dichiarato in sintonia con una risposta che il Capo dello Stato diede tre mesi fa a un appello dei direttori dei giornali.
Grati per l’attenzione d’intesa con Fnsi, Sindacati dei lavoratori, Associazioni di Cooperative del settore (come Mediacoop, Fisc e Federcultura/Confcooperative), giornali di idee, no profit, degli italiani all’estero, delle minoranze linguistiche Articolo21, e Comitato per la Libertà dell’informazione vogliamo aver fiducia che una puntuale e tempestiva risposta eviti la chiusura di molte delle nostre testate e la perdita di migliaia di posti di lavoro tra giornalisti e lavoratori del nostro sistema e dell’indotto. Se i nostri cento giornali dovessero chiudere nessuna riforma dell’editoria avrebbe, ovviamente, più senso.

Corriere della Sera 14.1.12
Schmitt, l'elogio dell'applauso
La «teoria dell'acclamazione» nazista contro la democrazia borghese
di Giuseppe Bedeschi


A Norimberga Carl Schmitt venne processato per il suo passato nazista: infatti, benché fosse caduto in disgrazia nel 1936 (a causa di un duro attacco sferratogli dalla rivista delle SS che gli rinfacciava la sua collaborazione con von Papen nel 1932), egli era stato una delle personalità culturali più prestigiose che avevano aderito al regime hitleriano. Era stato presidente dell'associazione dei giuristi nazionalsocialisti; aveva avallato con la sua autorità imprese efferate, come la «notte dei lunghi coltelli» del 30 giugno 1934 («l'azione del Führer — affermò allora — è stata un atto di autentica giurisdizione. Essa non sottostà alla giustizia, ma è essa stessa giustizia suprema»). Dal tribunale di Norimberga Schmitt venne prosciolto, ma fu dichiarato «persona non grata» nell'ambito delle istituzioni accademiche.
E tuttavia, benché messo al bando per il suo passato nazista, Schmitt continuò a esercitare un fascino notevole su personalità eminenti della cultura europea. Basti pensare a Raymond Aron — che stava certo agli antipodi, sia sul piano dottrinale sia su quello politico, del pensatore tedesco — il quale in una pagina delle sue Memorie (1983) ricordò di averlo conosciuto personalmente, di avere intrattenuto con lui rapporti epistolari, e poi ne diede questa ammirata caratterizzazione: «All'epoca della repubblica di Weimar Carl Schmitt era stato un giurista di eccezionale talento, riconosciuto da tutti. Appartiene tuttora alla grande scuola dei sapienti tedeschi, che vanno oltre la propria specializzazione, abbracciano tutti i problemi della società e della politica e possono definirsi filosofi, come, a suo modo, lo fu Max Weber». Aron aggiunse che «uomo di alta cultura, Schmitt non poteva essere un hitleriano e non lo fu mai». Affermazione certo azzardata, questa di Aron, eppure in un certo senso vera, in quanto il filosofo tedesco aveva maturato il proprio pensiero molto prima che il nazionalsocialismo conquistasse il potere in Germania. Ma è altrettanto vero che la sua adesione al partito di Hitler, lungi dall'essere opportunistica (come alcuni hanno sostenuto), era pienamente coerente coi motivi più profondi della sua riflessione.
Tale riflessione era maturata nella repubblica di Weimar, travagliata dalle discordie dei partiti, dall'aspro contrasto degli interessi, dalle spinte centrifughe, dalle minacce rivoluzionarie e «golpiste» (nel 1919 ci fu un tentativo di rivoluzione comunista, represso nel sangue; nel 1920 il Putsch di destra di Kapp, nel 1923 il fallito tentativo di colpo di Stato di Hitler). A questa situazione di sfacelo, tremendamente aggravata dalla crisi economica, che minacciava l'esistenza della nazione tedesca, Schmitt opponeva il suo concetto di popolo inteso come comunità coesa e organica (Gemeinschaft), che deve unificare completamente gli individui, e che è la base della «vera» democrazia. La quale non può essere confusa con la democrazia liberale, e con quella sua espressione caratteristica che è il parlamentarismo. Il liberalismo infatti si fonda, secondo Schmitt, sull'individuo isolato, sul privato egoista, dedito solo ai propri interessi. Ciò si vede anche, egli dice, nella procedura elettorale introdotta dal liberalismo, in cui il singolo esprime il proprio voto in una cabina, in una situazione di segretezza e di completo isolamento: sicché, proprio nel momento in cui si chiede al privato di diventare cittadino e di esercitare, col voto, una funzione pubblica, lo si relega nel suo ruolo di privato, di «borghese». (Questa critica ha avuto molta fortuna a sinistra: essa ritorna, nella sostanza, nella Critique de la raison dialectique di Sartre). Il risultato di tutto ciò è una maggioranza «puramente aritmetica», cioè nulla di coerente e nulla di stabile. La vera democrazia, per Schmitt, è tutt'altro. Essa deve essere espressione autentica della volontà del popolo, la quale si manifesta nel modo più alto attraverso l'«acclamazione». «La forma naturale dell'immediata espressione del volere di un popolo — egli dice — è la voce che consente o che rifiuta della folla riunita, l'acclamazione». Attraverso il proprio «grido» (Zuruf) il popolo approva o disapprova, acclama un Führer, si identifica con lui. Grazie a questa investitura popolare del Führer, il regime nazionalsocialista era una vera democrazia, in quanto poggiava sulla sostanza del popolo tedesco, sulla unità della sua stirpe.
Un altro importante filone della riflessione filosofica di Schmitt è stato quello della «teologia politica»: un'espressione con la quale il filosofo tedesco intendeva dire che per un verso i concetti politici derivano da quelli teologici, e per un altro verso presentano una analogia strutturale con essi. «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l'onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti. Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli». A questa idea schmittiana di «secolarizzazione» sono state mosse molte critiche. Hans Blumenberg ha obiettato che essa delegittima la modernità, e quindi non è in grado di capire lo sforzo di autofondazione che è proprio della politica moderna.
Esce ora in edizione italiana, presso Laterza, un libro che raccoglie tutta la discussione fra Blumenberg e Schmitt (L'enigma della modernità. Epistolario 1971-1978 e altri materiali, pagine 227, 20): una discussione profonda, in cui due grandi personalità, con una storia filosofica e politica completamente diversa l'una dall'altra, si misurano, con tolleranza e al tempo stesso con tormentata passione, sul futuro spirituale dell'Europa e, più in generale, del mondo moderno.

La Stampa 14.1.12
Nel Niger di Al Qaeda la tratta delle donne è il business dei tuareg
Gheddafi pagava bene i clandestini come “merce” per invadere l’Europa Ora Tripoli li ricaccia indietro. Ma i viaggi nel deserto del Sahel continuano
di Domenico Quirico

inviato a Agadez, Niger

Dieci km per un secchio d’acqua La scarsità di pozzi è uno dei problemi più gravi del Niger, settimo nella classifica dei Paesi più poveri del mondo. L’approvvigionamento di acqua è compito delle donne
Crocevia Agadez Preghiera del venerdì: i fedeli sono così tanti che neppure la Grande Moschea li contiene tutti. Città un tempo fiorente, ora in crisi per la guerriglia tuareg, Agadez è uno snodo del traffico legale e illegale
3.000 chilometri È la fascia del Sahel, il deserto che va dall’Oceano Atlantico al Corno d’Africa attraversando gli Stati dell’Africa Centro Settentrionale
I nomadi guerrieri Dopo la decolonizzazione le terre abitate dai tuareg sono passate sotto Stati diversi: di qui la lotta armata per l’indipendenza e l’autodeterminazione politica e culturale

1,7 milioni. È la stima dei tuareg che vivono in Niger, lo Stato dove sono più numerosi In tutto il Nord Africa sono circa 5 milioni"
1.594 morti. Secondo «Fortress Europe», questo è il numero minimo di vittime del passaggio clandestino verso Nord negli ultimi dieci anni"
11 ostaggi europei. Nelle mani di Al Qaeda ci sono attualmente cinque francesi, tre spagnoli, un olandese, uno svedese e la cooperante italiana Rossella Urru, rapita in Algeria il 23 ottobre In Niger il sequestro è diventato un’industria con un suo tariffario Al Qaeda «compra» gli ostaggi dai sequestratori: i più cari sono i francesi, il popolo più odiato

Alassan è un tuareg. Vede nel deserto cose che a me sfuggono, un filo di polvere nell’orizzonte che trema per la calura, pick-up che si muovono nella solitudine in cui i nostri occhi le hanno perdute, la luna che si leva quando il sole è ancora alto e chiaro. Alassan è musulmano, certo, crede in Allah, ma senza impegnarsi; il suo vero Dio è il vento, Adhou, che si leva ogni giorno preciso a metà mattinata e agita le tende con un rumore di vele di nave e niente lo ferma.
Alassan si farà seppellire nel sudario tessuto a maglie larghe perché la sab- Abia vi penetri e lo avvolga in un abbraccio. Ma non vive più nell’immensità delle sabbie, seguendo le vaghe tracce che lasciano a forza di secoli i rari passaggi degli uomini e delle bestie, o nella serie di tavole ciclopiche dell’Air, le sue colate di lava nera. Le «amministrazioni» hanno cambiato la vita di questi eterni raminghi: con le frontiere che hanno incatenato il deserto, e poi le siccità spaventose, nel 1963 e poi nel 1973 e ancora ogni dieci anni, come una maledizione, che fa piangere per la sete, asciuga pozzi millenari, uccide il bestiame e li ricaccia verso il Niger, le terre dei neri, che li considerano parassiti e terroristi e sperano che il deserto, un giorno li inghiotta.
Alassan vive ad Agadez, «la città» per i tuareg, sotto il minareto di sabbia, irto di travi, vecchio di cinquecento anni. Ma gli resta una malinconia lontana, un rimpianto di essere venuto, una tentazione di fuggire: «La città è un recinto». Anche il deserto non gli piace più, ne diffida, gli fa paura. Le piste a Nord verso Tamanrasset e a Est verso il Fezzan libico e l’immenso Ténéré, il deserto dei deserti, dove le dune sono alte tre metri e ti puoi perdere come in un labirinto, ma sono sempre state attraversate da traffici, il sale, l’oro, e poi ribelli, missionari di fedi spesso feroci.
Il secondo Jihad
Oggi però il deserto sta diventando sporco, losco, inquieto. Ci passano commerci sudici, droga, armi, uomini e donne resi schiavi della miseria e del bisogno; e poi scivolano tra le pietre e la sabbia marabutti di fanatismi nuovi di zecca e implacabili ben più di quelli che propagandava Telli, il marabuttostregone che teneva al collo, amuleto potentissimo, la mano secca del fratello che lui stesso aveva ucciso.
Il Sahel, i suoi silenzi inauditi, è la retrovia delle rivoluzioni arabe che sfrigolano laggiù, sul mare, e sembrano ritirate nel fondo di inapprezzabili lontananze. Invece in questa fascia di sabbia e di roccia che va dalla Mauretania al Ciad, tremila chilometri al di là di ogni proporzione umana, sino a spaventose vertigini, al Qaeda prepara il nuovo terreno di lotta, il secondo Jihad. Un altro Afghanistan, stavolta non remoto e inutile tra le montagne dell’Asia centrale; ma a un passo dall’Europa, nelle sabbie gonfie di petrolio, di uranio, d’oro.
Non ce ne siamo accorti. Queste sono terre già vietate a noi occidentali, non possiamo più venire qui, gli unici che puoi incontrare sono impegnati nella lotta al terrorismo o sono scortati dai militari. Il sequestro è diventato una industria: con le tariffe. «Tu sei italiano, vali poco – sogghignano soppesandoti con degnazione in un bar di Agadez -. Sono i francesi che rendono molto, al Qaeda li odia e li paga più degli americani». Ad Agadez arrivavano, un tempo, due aerei di turisti la settimana da Parigi per cercare nel deserto una specie di ebbrezza e di brivido della solitudine. Poi, dal 2007, quando divampò l’ultima rivolta dei tuareg e poi con l’irruzione di «Aqmi», al Qaeda del Maghreb, (la chiamano «l’insicurezza» con pudore) più nessuno.
All’hotel, nel palazzo che fu costruito in una settimana per accogliere il Garibaldi dei nomadi, Kaossen, venuto a cacciare i francesi mentre l’Europa distratta si suicidava nella Grande guerra, sono l’unico cliente, nel bar il cartello che suggerisce di «non mettere i piedi sui tavoli» predica nel vuoto. Anche le case, i negozi, come fossero morte di una millenaria vecchiaia, come il palazzo di fango secco dove vive il sultano, antico come la città, che ci riceve con gli occhi cisposi. E i suoi dignitari, grassi, accorati, rimpiangono i tempi i cui si riempivano le tasche favorendo le «udienze».
Le reti del terrorismo-mafia
Al Qaeda, maestra di trasformismi, si è insinuata nella vita del deserto, ne fa parte, si mescola ai suoi traffici, si confonde, eccita le rabbie dei tuareg vittime del colonialismo «interno» dei neri, propone jihad che attraggono genti che vogliono ascoltare. Qui il modello di Bin Laden, una Rete mondiale del terrore, è già dimenticato. Lavora e funziona e prospera un terrorismo-mafia, abilissimo ad allearsi a quelle che già esistono, a usarle per poi convertirle, con intelligenza carnivora, da uomini che vivono dell’uomo. Gli emiri delle «katibe» sahariane sono briganti che gridano la loro fede in dio e intanto reclutano non dei devoti alla guerra santa ma dei complici. E questi complici li cercano tra i tuareg.
Per leggere questa mutazione bisogna eludere i controlli militari, salire sulle montagne dell’Air, attendere nella polvere infinita delle piste. E qui, sotto un gigantesco vano di pietra, mentre sulle nostre teste i graniti a strapiombo e minacciosi si intingono ancora di sole, incontriamo «Papà», con i suoi camion. È «un agente di viaggio», ma nei cassoni di questi immensi Mercedes non trasporta terra o derrate, vi getta dentro uomini, porta i loro corpi stremati, le loro inutili speranze.
La via della droga
«Papà» ha vissuto vent’anni in Libia e ricorda i tempi di Bengasi con occhi lucidi di nostalgia. Un giorno la brusca polizia di Gheddafi arrivò, per arrestarlo. Delle ragioni lui parla malvolentieri: «Sai, quello era un Paese strano, un giorno ti salutavano e quello dopo ti mettevano le manette... ». In realtà «Papà» era a capo di una efficiente via della droga, faceva baiocchi e viaggiava con due auto gonfie di guardie del corpo. Lo condannarono a morte, quei despoti bizzosi, lui e altri 44 nigeriani del traffico. C’era scritta la pena sulla sentenza, non la data della condanna: così al mattino arrivano per portare uno dei condannati all’esecuzione e non sapevi quando sarebbe stato il tuo turno.
Soci in affari
«Papà» era l’ultimo, quando la rivolta contro il Colonnello aprì le porte della prigione, potè tornare ad Agadez. Portare i clandestini dell’Africa nera verso la Libia e l’Europa, prima lo faceva quando tornava in vacanza, per arrotondare. Ora è il suo lavoro, li preleva in Nigeria, Ghana, Senegal, Gambia e li trasferisce in Libia, ottanta per ogni camion, più di due terzi sono donne. «Papà» ha dei soci, sono i poliziotti del Niger e si fanno pagar cari.
Quando i camion arrivano ad Agadez, che è l’ultima tappa, versa diecimila franchi CFA a persona e altri duemila quando superano la barriera di uscita. Vuole portarci assolutamente a vedere le case in cui li nasconde in città, con l’orgoglio dell’industriale che mostra la fabbrica che lavora e fa buoni affari.
Entriamo, il volto nascosto dal turbante dei tuareg, l’ordine di non parlare: io sono un arabo interessato a controllare la merce.
Nei tuguri dell’attesa
In un fetore incredibile, dentro buie stanze di fango secco spuntano grandi occhi terrorizzati di ragazze ammucchiate come bestie, tutto il dolore sembra inabissarsi in quegli occhi, nel loro velluto nero e profondo. Fuori nel cortile, dove troneggia una immensa antenna, tra mucchi di rifiuti e rachitici cani famelici, una sudicia «madama» mescola in un pentolone una orrenda brodaglia per sfamare «le candidate all’esodo». I pochi clandestini maschi, unti e lerci, sono in strada, venditori di pubblicazioni oscene rubano loro gli ultimi soldi: «Non lo sanno ma i Libia i neri non valgono niente, sono spazzatura... ».
«Papà» ricorda con gioia i tempi della guerra in Libia: allora arrivavano gli emissari di Gheddafi, pagavano loro per prendere i clandestini, e li caricavano sui pick up per portarli via. Ne volevano migliaia, sempre di più, perché il Colonnello aveva promesso di seppellire di neri l’Europa: «Così prendevamo i soldi da due parti, dai libici e dai clandestini». Ma la fine della guerra ha portato nuovi problemi: il nuovo regime blocca le partenze, ricaccia indietro i clandestini. «Non lo riveliamo a questi forsennati, in fondo vogliono andare ad ogni costo – si sfoga incagnato -. Tornano a Agadez e vogliono essere rimborsati. Non li faccio incontrare con gli altri che salgono da Sud e così non scoprono la verità. Sono buono io, i soldi non li restituisco, ma pago loro il biglietto con il bus per tornare a casa, sono bravo, no? ».
L’ignobile inganno
Quelli che tornano: in Libia i trafficanti che li caricavano per portarli sulla costa, ora nel deserto della Sirte li fanno scendere, senza acqua, senza cibo, dietro una duna. «Camminate, dall’altra parte c’ è un villaggio dove vi attendono altri camion». E partono. Dietro la duna non c’è nulla.
Quello di «Papà» è un «businéss» di poveri, troppe le mazzette da pagare ai poliziotti, a ogni controllo, a ogni frontiera. Al Qaeda si tiene ai margini. Il «businéss», con cui è diventata ricca, è la droga.
(1. segue)

La Stampa TuttoLibri 14.1.12
Verrà la morte, nessuno si illuda
Un viaggio nel tempo con il filosofo Curi, da Prometeo a Kafka, da Eschilo a Rilke, da Euridice a Machado
di Augusto Romano


Mito Le strategie che l’uomo ha elaborato via via per sottrarsi al timore della sparizione
Umberto Curi VIA DI QUA Bollati Boringhieri pp. 236, 16,50
«Il calice del mistero», di Odilon Redon (1890)

Non siamo più abituati a parlare della morte. La società attuale l’ha resa indecente. Pensare che F. Kafka scrisse: «Uno dei primi segni che cominciamo a capire è che non ci vergogniamo più di dover morire». Invece oggi moribondi e morti sono tenuti nascosti. Giovinezza, salute, bellezza, seduzione vengono esaltati come valori assoluti, ma nessuno pensa che la morte e il suo alleato, il tempo, li ha in suo potere e lentamente li consuma. Il punto è che la cultura corrente ha operato una netta divaricazione tra morte e vita, considerandoli come termini opposti e inconciliabili, non diversamente da come tradizionalmente si dice del bene e del male. Cosicché sembra davvero che pochi si rendano conto di ciò che pure è sotto gli occhi di tutti: che vita e morte sono stretti in un unico plesso e che, senza la morte, la vita stessa sarebbe inconcepibile.
In questo libro denso e affascinante ma di grande chiarezza il filosofo Umberto Curi esplora l’universo mitico (fra i mitografi porremo anche filosofi e poeti) per illustrare le strategie che sin dall’antichità l'uomo ha elaborato per sottrarsi al timore della morte, mostrando come esse siano destinate all'insuccesso. Il mito di Prometeo è quello che meglio ci persuade dell’esito tragico di ogni progetto negazionista. Acclamato come promotore dello sviluppo della civiltà, in realtà il senso dell’azione prometeica è svelato da lui stesso quando, nella tragedia di Eschilo, afferma: «Ho posto in loro [negli uomini, nda] cieche speranze». Le cieche speranze riguardano il progresso generato dalla tecnica che, inducendo gli uomini a distrarsi volgendo altrove lo sguardo, promette a «queste larve di sogni» che noi siamo di dimenticare la morte. Prometeo sarà punito per il suo progetto eversore dell’ordine del cosmo, e soltanto dopo una lunga sofferenza imparerà ad amare la morte, che pone fine alle umane sciagure.
Spostarsi da un atteggiamento dissociativo a uno comprensivo significa accedere al modo simbolico, cioè a quel dispositivo psichico che permette di tenere insieme gli opposti. Così è dell’unità di morte e vita. La produzione di simboli potrebbe essere definita come il risultato, o la prefigurazione, di una ambivalenza vissuta e accettata, e il simbolo stesso come l'immagine di una pienezza non placata. Il simbolo non dà ricette, non prescrive, non significa niente se non la propria scandalosa paradossalità, e così istituisce una tensione in cui trovano posto la sua capacità di stimolare interpretazioniinesauribili e profonde emozioni, e il suo additare un'oscura verità non altrimenti dicibile. I sogni dei moribondi sono popolati di figure che nella loro irriducibile ambiguità sono fortemente simboliche. Immaginate la vecchia con la falce che improvvisamente si trasforma in una fanciulla misteriosa, con gli occhi colore del cielo, che procede danzando. I poeti non si stupirebbero. Rilke, che più di ogni altro ha messo in evidenza il legame organico di morte e vita («… potremmo mai essere noi, senza i morti? »), popola i suoi versi di serene figure di donne conquistate dalla morte. Euridice, che segue a malincuore Orfeo nell’impossibile ritorno alla luce. Non vi è in lei più alcun attaccamento alla vita: «il suo essere morta la riempiva come una pienezza», come un grembo che prepari la nascita. Euridice finalmente sa osserva Curi - «che la morte può donare una pienezza che neppure la vita è in grado di conferire».
Machado cantava: «…Nulla giammai sapremo / da arcano mar veniamo, a ignoto mare andremo…». Noi non sapremo mai se la morte è una fine o un transito. E naturalmente gli spiriti forti diranno che ogni elaborazione mitica non è altro che una fantasia di compensazione. Cosa importa? Il mito è qui con noi, e continua a commuoverci, senza per questo annullare la nostra umana sofferenza. Ha scritto Kafka: «Tutte queste similitudini dicono soltanto che l'Inconcepibile è inconcepibile». E' però anche vero che talvolta «la retorica persuade la necessità». Attraverso gli innumerevoli discorsi, i sogni, le metafore, i miti, i versi dei poeti noi ci prendiamo cura pazientemente, senza eroiche (o vili) illusioni, della nostra morte, ci familiarizziamo (mai abbastanza) con questa sconosciuta che continuamente ci viene incontro.

La Stampa TuttoLibri 14.1.12
Bonino, lo zibaldone della politica
di Jacopo Iacoboni


Libro-intervista Amicizie, battaglie referendarie l’orrida cucina di Pannella e le galanterie di Cossiga
Emma Bonino, Giovanna Casadio  I DOVERI DELLA LIBERTÀ Laterza, pp. 157, 12

Sarà magari scorretto ma è troppo forte, irresistibile, la tentazione di leggere queste pagine di Emma Bonino anche come un grande zibaldone, trentacinque anni di politica italiana; e osservati da un punto di vista non esattamente marginale. Sì, perché il libro di Emma Bonino (I doveri della libertà, a cura di Giovanna Casadio, per Laterza), tutto è tranne che il convenzionale libro-intervista di un politico, e dentro vi si ritrovano non Berlusconi D’Alema e Veltroni (tantomeno Papa e Cosentino), ma Pasolini, Sciascia, Pertini, Cossiga, ovviamente Pannella...
Naturalmente ci sono le mille battaglie dei radicali, i referendum, l’aborto (e il ricordo doloroso di un episodio autobiografico che però fu quello che la introdusse alla politica), il divorzio, lo stato di diritto negato, i casi Coscioni e Welby, il ruolo e il corpo delle donne; ed è nella consueta onestà stile-Bonino che si sostiene una tesi non proprio diffusissima, nella sinistra italiana (i radicali lo sono, sissignore): «Chi attribuisce la deformazione della nostra democrazia a un Silvio Berlusconi artefice di tutti i mali, innocentizza tutti gli altri. Anzi, fa un’analisi in definitiva autoassolutoria. Berlusconi è il risultato di ciò che va sotto il nome di Mani Pulite»; un insieme di passaggi che fanno parte, dice Bonino, della «fine dello stato di diritto».
E tuttavia è questo carattere di Zibaldone che rende poi alcune di queste pagine così gustose, imperdibili per i cultori del genere. La sfilata di idee incarnate in personaggi, vita, biopolitica, avrebbe detto Foucault.
C’è Pannella, al quale il libro è dedicato (il legame tra i due non s’è mai rotto, nonostante mille battaglie e anche diverbi), e il racconto della loro conoscenza, «ricordo la prima volta a casa di Marco, quando ci offrì pasta cotta nell’acqua dove aveva gettato anche due panetti di burro; da allora preferisco evitare la sua cucina». C’è Sciascia, collega all’Europarlamento nel ‘79, «che andavo a prendere quando arrivava all’alba con il treno alla stazione di Strasburgo, e che era talmente riservato da non accettare neanche un abbraccio». C’è Pasolini, e il testamento che scrisse per i radicali nel ‘75, molto meno ricordato degli scritti sui comunisti, ma i radicali sono sempre stati un cugino povero, anche nelle ricostruzioni iconografiche, nella sinistra all’italiana. C’è lo Stato incarnato da Cossiga (con o senza cappa), che quando Emma tiene alla Camera il suo primo discorso («ero emozionatissima»), alla fine che fa? Manda un biglietto da masculo, «lei oggi è proprio elegante»... «Mi sentii umiliata: parlava una donna, e dunque poco importava cosa avesse detto». C’è la lunga lotta contro un’Italia ancora assai bacchettona - quando Emma si presenta il primo giorno alla Camera in jeans e zoccoli, Ingrao la rimbrotta, ma lei ora dice «non volevo dissacrare, non avevo capito dove mi trovassi»; e Pertini, bonario, le manda la foto con dedica di lei in zoccoli, «al monello del Parlamento»...
È tutto andato, naturalmente, Adele Faccio e la Aglietta, Spadaccia e Cicciomessere, persino certa autoindulgenza per alleanze opportunistiche con Berlusconi (nel 1994), o tentativi (subito abortiti) di dialogo col diavolo, come nel 2000. Restano i radicali. Sciascia lo disse a Emma, «siete come una candela. Quando tutte le lampade sono accese, non solo non si vede ma è anche inutile. Però al primo cortocircuito la candela sarà indispensabile», e oggi in effetti è come se fossimo un po’ tutti al buio.
Emma Bonino sarà oggi, alle 16, al Circolo dei lettori (Via Bogino 9, Torino). Intervengono Elsa Fornero, Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Mario Calabresi, direttore «La Stampa», Luciana Littizzetto, Giovanna Casadio, Antonella Parigi

Repubblica 14.1.12
L’utopia frugale
La sfida di Latouche "Così si può costruire una società solidale"
di Marino Niola


Il teorico della decrescita felice ha appena pubblicato un nuovo saggio. Dove spiega come siano possibili modelli di vita alternativi
"Stiamo finendo le risorse naturali e dobbiamo porci il problema. Le vecchie teorie non servono più: occorre ripensare a tutto il sistema"
"Non sono per l´austerità: vorrei riuscire a sottrarre l´ecologia a chi la sta trasformando in una serie di tesi conservatrici"

«Un certo modello di società dei consumi è finito. Ormai l´unica via all´abbondanza è la frugalità, perché permette di soddisfare tutti i bisogni senza creare povertà e infelicità». È la tesi provocatoria di Serge Latouche, professore emerito di scienze economiche all´Università di Paris-Sud, universalmente noto come il profeta della decrescita felice. Il paladino del nuovo pensiero critico che non fa sconti né a destra né a sinistra sarà a Napoli (dal 16 al 20 gennaio), ospite della Fics (Federazione Internazionale Città Sociale) e protagonista del convegno internazionale "Pensare diversa-mente. Per un´ecologia della civiltà planetaria" organizzato dal Polo delle Scienze Umane dell´Università Federico II. Il tour italiano dell´economista eretico coincide con l´uscita del suo nuovo libro Per un´abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita (Bollati Boringhieri). Un´accesa requisitoria contro l´illusione dello sviluppo infinito. Contro la catastrofe prodotta dalla bulimia consumistica.
Cos´è l´abbondanza frugale? Detta così sembra un ossimoro.
«Parlo di "abbondanza" nel senso attribuito alla parola dal grande antropologo americano Marshall Sahlins nel suo libro Economia dell´età della pietra. Sahlins dimostra che l´unica società dell´abbondanza della storia umana è stata quella del paleolitico, perché allora gli uomini avevano pochi bisogni e potevano soddisfare tutte le loro necessità con solo due o tre ore di attività al giorno. Il resto del tempo era dedicato al gioco, alla festa, allo stare insieme».
Vuol dire che non è il consumo a fare l´abbondanza?
«In realtà proprio perché è una società dei consumi la nostra non può essere una società di abbondanza. Per consumare si deve creare un´insoddisfazione permanente. E la pubblicità serve proprio a renderci scontenti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. La sua mission è farci sentire perennemente frustrati. I grandi pubblicitari amano ripetere che una società felice non consuma. Io credo ci possano essere modelli diversi. Ad esempio io non sono per l´austerità ma per la solidarietà, questo è il mio concetto chiave. Che prevede anche controllo dei mercati e crescita del benessere».
Perché definisce Joseph Stiglitz un´anima bella?
«Stiglitz è rimasto alla concezione keynesiana che andava bene negli anni ´30, ma che oggi, anche a causa dello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, mi sembra impraticabile. Nel dopoguerra l´Occidente ha conosciuto un aumento del benessere senza precedenti, basato soprattutto sul petrolio a buon mercato. Ma già negli anni ´70 la crescita era ormai fittizia. Certo il Pil aumentava, ma grazie alla speculazione immobiliare e a quella finanziaria. Un´età dell´oro che non ritornerà più».
È il caso anche dell´Italia?
"Certo, il boom economico italiano del dopoguerra si deve soprattutto a personaggi come Enrico Mattei che riuscì a dare al vostro paese il petrolio che non aveva. È stato un vero miracolo. E i miracoli non si ripetono".
I sacrifici che i governi europei, compreso quello italiano, stanno chiedendo ai cittadini serviranno a qualcosa?
«Purtroppo i governi spesso sono incapaci di uscire dal vecchio software economico. E allora tentano a tutti i costi di prolungarne l´agonia, ma questo, lo sanno bene, non fa altro che creare deflazione e recessione, aggravando la situazione fino al momento in cui esploderà».
Lei definisce la società occidentale la più eteronoma della storia umana. Eppure comunemente si pensa che sia quella che garantisce il massimo di autonomia democratica. Chi decide per noi?
«Di fatto siamo tutti sottomessi alla mano invisibile del mercato. L´esempio della Grecia è emblematico: il popolo non ha il diritto di decidere il suo destino perché è il mercato finanziario a scegliere per lui. Più che autonoma, la nostra è una società individualista ed egoista, che non crea soggetti liberi ma consumatori coatti».
Qual è il ruolo del dono e della convivialità nella società della decrescita?
«L´alternativa al paradigma della società dei consumi, basata sulla crescita illimitata, è una società conviviale, che non sia più sottomessa alla sola legge del mercato. Che distrugge alla radice il sentimento del legame sociale che è alla base di ogni società. Come ha dimostrato l´antropologo Marcel Mauss, all´origine della vita in comune c´è lo spirito del dono, la trilogia inscindibile del dare, ricevere, ricambiare. Dobbiamo dunque ricomporre i frammenti postmoderni della socialità usando come collante la gratuità, l´antiutilitarismo. In questo concordo con gli esponenti italiani dell´economia della felicità, come Luigino Bruni e Stefano Zamagni, che si rifanno alla grande lezione dell´economia civile napoletana del Settecento di Antonio Genovesi».
Il capitalismo è l´ultimo pugile rimasto in piedi sul ring della storia?
«Non so se sia proprio l´ultimo pugile, perché non si sa mai in cosa è capace di trasformarsi, ci sono scenari ancora peggiori, come l´eco-fascismo dei neoconservatori americani. Certo è che siamo ad una svolta della storia. Se un tempo si diceva "o socialismo o barbarie" oggi direi "o barbarie o decrescita". Serve un progetto eco-socialista. È tempo che gli uomini di buona volontà si facciano obiettori di crescita».
Francis Fukuyama di recente ha riaffermato di ritenere che il modello liberal-capitalistico resti l´orizzonte unico della storia. Senza alternative. Cosa ne pensa?
«Che ha una bella faccia tosta. Prima si è sbagliato totalmente sulla fine della storia, e oggi ripropone la stessa solfa. La sua profezia è stata vanificata dalla tragedia dell´11 settembre che ha dimostrato che la storia non era per niente finita. Fukuyama chiama fine della storia quella che è semplicemente la fine del modello liberal capitalista».
A chi dice che l´abbondanza frugale è un´utopia lei risponde che è un´utopia concreta. Non è una contraddizione in termini?
«No, perché per me l´utopia concreta non significa qualcosa di irrealizzabile, ma è il sogno di una realtà possibile. Di un nuovo contratto sociale. Abbondanza frugale in una società solidale. Sta a noi volerlo».

Repubblica 14.1.12
Lacan, la battaglia legale vinta dagli eredi
di Anais Ginori


Parigi – Nel mondo francese della psicoanalisi non si parla d´altro. Il pensiero di Jacques Lacan, a trent´anni dalla sua scomparsa, è ancora violentemente conteso tra amici, parenti, discepoli e dissidenti - come già accadeva quando il fondatore della Scuola freudiana di Parigi era in vita. La storica e analista Elisabeth Roudinesco, autrice della biografia Lacan envers et contre tout e la casa editrice Le Seuil hanno appena subito una condanna per diffamazione in una querelle che oppone da mesi opposte fazioni. La colpa dell´autrice è di aver sostenuto che Lacan è stato "sepolto senza cerimonia e nell´intimità", mentre avrebbe chiesto un funerale cattolico. A intentare la causa è stata la figlia dello psicoanalista, Judith, col celebre marito Jacques-Alain Miller, designato a suo tempo curatore testamentario, sentendosi accusati di aver "tradito le volontà di un morto". Il tribunale di Parigi ha dato ragione alla famiglia Lacan riconoscendo l´affermazione lesiva per gli eredi e non sufficientemente comprovata. Roudinesco e l´editore, che hanno già annunciato di voler fare appello, sono stati condannati a versare un euro simbolico di indennizzo e a pagare seimila euro di spese legali. Durante il dibattimento era presente anche l´altra figlia dello psicoanalista, Sybille, schierata però con la Roudinesco. Che ha dichiarato: "C´è sempre un po´ di disaccordo tra la famiglia e i biografi, ma quando anche la famiglia è divisa allora diventa tutto più complicato". Si direbbe un gioco sofisticato di interpretazioni in perfetto stile lacaniano.

venerdì 13 gennaio 2012

l’Unità 13.1.12
Radicali decisivi nel voto in Aula Nuova rottura con il gruppo Pd
Con i sei voti radicali, Cosentino sarebbe andato in carcere per un voto di differenza. Rosy Bindi li accusa di scorrettezza. Enzo Carra rincara la dose. Ma i loro voti erano già contati alla vigilia tra i contrari all’arresto
di Claudia Fusani


Sei voti «determinanti» punta il dito il presidente del Pd Rosi Bindi contro la pattuglia radicale. «Ancora una volta sono stati scorretti, se avessero votato con noi le cose oggi sarebbe andate in maniera diversa» insiste.
Sei voti decisivi. Se i sei deputati radicali avessero votato a favore dell’arresto di Cosentino, secondo le indicazioni del Pd, i sì sarebbero stati 304 e i no 303. Il deputato di Casal di Principe sarebbe cioè andato in cella per un voto.
Ma non inaspettati. I sei voti radicali, infatti, erano già contati mercoledì sera, alla vigilia del voto, nel monte dei 298 voti a disposizione dell’ex coordinatore del pdl campano. Il punto quindi è capire da quale banco dell’emiciclo sono arrivati gli altri undici voti in più.
Tutto si può dire ma non che il no dei Radicali fosse inaspettato. Maurizio Turco, membro della Giunta per le autorizzazioni, è uno dei più profondi conoscitori del caso Cosentino e di Gomorra di Casal di Principe. E questa volta, così come nel dicembre 2009, Turco non ha mai avuto dubbi: «Cosentino potrà anche essere il referente politico nazionale dei casalesi» è la sintesi del suo ragionamento «ma questo non viene fuori dalle carte». E di carte Turco ne ha lette tante in questi anni. Non solo quelle arrivate in Giunta: si è procurato libri e più che altro gli atti dei processi Spartakus 1, 2 e quello al boss «Sandokan» Schiavone. Come se non bastasse, si è messo anche a seguire le udienze del processo in corso a Santa Maria Capua a Vetere dove Cosentino è imputato per associazione mafiosa, voto di scambio e altri favori ai clan.
Una scelta, quindi, fatta in piena coscienza che ha convinto anche gli altri cinque deputati radicali, Rita Bernardini, Matteo Mecacci, Farina Coscioni, Marco Beltrandi e Elisabetta Zamparutti. «Cosentino è già a processo. Il dibattimento è già incardinato. vediamo cosa succede. Che senso ha arrestarlo?» ha insistito Turco. E poi parole destinate soprattutto ai compagni di maggioranza, i deputati del Pd seduti lì sotto: «I Radicali non condividono le tesi della maggioranza. Noi non giudichiamo gli altri e voi non giudicate noi. Non criminalizzate decisioni diverse da quelle del conformismo imperante».
Non basta per evitare gli strali che subito dopo il voto si scatenano sulla pattuglia radicale. Quelli di Rosi Bindi, prima di tutto. E quelli di Enzo Carra: «Con il voto di oggi i radicali hanno contribuito a strappare Cosentino dal regolare corso della giustizia. Si tratta di una scelta scorretta e gravissima».
I Radicali hanno votato a favore dell’arresto di Papa, Milanese e Angelucci. Ma lo scontro più grosso con il Pd è stato il giorno del voto sul rendiconto di bilancio. Quando furono, allora sì, decisivi per far scattare il quorum che salvò ancora per un mese Berlusconi.

il Fatto 13.1.12
Parlamento malato
di Furio Colombo


Un deputato come noi”. Così l’on. Contento, a nome di tanti, ha concluso alla Camera la sua appassionata arringa in difesa dell’on. Nicola Cosentino, imputato (leggo dalle carte processuali) “di concorso in falso in atti pubblici, di concorso in falso bancario, di concorso nel tentativo di reimpiego di denaro di illecita provenienza, tutti reati aggravati dall’essere stati commessi per favorire le organizzazioni camorristiche di Casal di Principe”. È il ritratto perfetto.
Non di Cosentino, di cui la magistratura di Napoli chiede invano l’arresto. È il ritratto del Parlamento, che infatti è scattato in un applauso scrosciante, quando ha saputo che la Camera ha rifiutato l’arresto e vuole libero il suo camorrista.
È stato un applauso lungo, di vendetta e furore, come quando le donne di Napoli si precipitano in strada per strappare i loro uomini alla Polizia che li sta ammanettando.
A chi dici, a chi spieghi che la Camera dei deputati non è tutta così? Cosentino è restato o no, rispettabile, servito, se necessario, dai commessi, seduto in alto a destra in questa Camera del Parlamento della Repubblica, per volontà della maggioranza dei suoi deputati? Più in basso, vediamo vari imputati a piede libero (il più vistoso e imponente è l’on. Verdini) voltati verso la loro parte come direttori dell’orchestra e del coro.
Signore e signori, c’è poco da sbracciarsi a chiarire: il Parlamento è questo, e per forza non può avere rispetto. È un corpo malato che giace inerte immobilizzando e umiliando la Repubblica. E non serve che molti di noi ripetano: siamo perbene. Hanno vinto loro, anche ieri.
Ps: i sei voti radicali per Cosentino pesano, disorientano e portano tristezza. Tortora era innocente, non era un camorrista al potere. Tutta un’altra storia.

il Fatto 13.1.121
Ci pensano Bossi e i Radicali a salvare Cosentino
Alla Camera 309 deputati contrari 298 favorevoli
di Paola Zanca


Sul banco da deputato ha un farmaco contro l'influenza. È senza voce, febbricitante. Ma contro la tosse insistente che gli ha rovinato la giornata, per Roberto Maroni non c'è medicinale che tenga. Il primo attacco gli è venuto poco prima di entrare in Aula a votare sull'arresto di Nicola Cosentino. Non sapeva ancora come sarebbe andata a finire ma il groppo in gola è arrivato in anticipo. Marco Milanese, il deputato Pdl che al carcere preventivo è sfuggito quest'estate, lo ha braccato per una ventina di minuti. Ha provato in tutti i modi a convincerlo che mandare in galera un collega non ha senso, che i giudici non hanno prove contro di lui, lo vogliono solo far parlare. Ma l'ex ministro dell'Interno non ha cambiato idea.
VOTA SÌ, e lo fa con il dito indice, lo stratagemma che rende palese il voto. Ma è il solo a farlo: sui 309 che hanno detto no all'arresto del coordinatore del Pdl campano resterà il segreto. L'unica certezza è che tra loro ci sono i sei radicali. E che sono stati determinanti. Senza il loro “no”, ora, Cosentino sarebbe in carcere. “Scorretti”, li bolla Rosy Bindi, presidente del Pd, il partito entro le cui liste sono stati eletti. “Inaccettabile”, replicano i Radicali, che le nostre scelte siano “criminalizzate” solo perché “diverse” dal “conformismo imperante”. Su loro cala la rabbia, ma non il mistero: attorno ai 51 voti che hanno salvato Cosentino (al di fuori di Pdl, Responsabili, Noi Sud e parte del gruppo misto), invece, è un fiorire di congetture. Sicuramente lì dentro c'è la Lega, ma il peso che il Carroccio ha avuto nella decisione è tutto da vedere. Luca Paolini dice che ci sono almeno 25/30 camicie verdi che hanno votato “no”, come lui del resto: “Sono molti quelli che non se la sono sentita di dire sì alle manette. Molti di più di quelli che si vogliono far credere”. Avrebbero riflettuto sulle parole che Umberto Bossi (che al voto non si è fatto vedere) ha pronunciato solo poco prima, in una riunione convocata alle 11. A dir la verità, mentre Paolini illustra in Aula la sua arringa in difesa di Cosentino (cita perfino Mastella, per un leghista un tempo sarebbe stata un'eresia) dai banchi del Carroccio applaudono in pochissimi. Lui è di spalle, non vede i suoi compagni di partito, sente solo battere le mani. A un certo punto lo sveglia Roberto Simonetti: “Coglione! Non lo vedi che ti applaude solo il Pdl? ”. Maroni non alza la testa dal suo I-Pad. È visibilmente nervoso, dice che la base non capirà. Lo trattano da sconfitto, ma i suoi raccontano un'altra storia: “Cosentino l'hanno salvato i reguzzoniani (dal nome del capogruppo fedelissimo di Bossi, ndr) I nostri 'no' sono stati 42”. Quindi, chi lo ha salvato Cosentino? “I voti sono arrivati dall’Udc e dal Pd’', accusa Maroni in persona. Si sarebbero spaventati, spiegano dietro le quinte, perchè avevano paura che con l'arresto il Pdl avrebbe staccato la spina al governo Monti (lo aveva minacciato Fabrizio Cicchitto solo l'altro ieri). Casini e Bersani negano con forza: noi siamo stati compatti.
A MONTI, in verità, pare che del voto su Cosentino non interessi un granché. I banchi del governo, pieni fino a un paio di ore prima per l'informativa “europea” del premier, sono stati deserti per tutto il resto della seduta. Quelli del Pdl, al contrario, si sono riempiti solo quando Monti se n'è andato. Berlusconi è arrivato qualche minuto prima che si aprisse la votazione. Non ha partecipato alla processione di abbracci e pacche sulle spalle che ha sfilato per due ore sotto allo scranno di Cosentino quando ancora non si sapeva che fine avrebbe fatto: Amedeo Laboccetta, Bruno Cesario, Mariastella Gelmini, Nunzia De Girolamo, Maria Rosaria Rossi, Claudio Scajola, Francesco Pionati. Al microfono si sperticano le sue lodi: “Nicola Cosentino, eterno indagato mai processato”, dice il Pdl Maurizio Paniz. “Noi siamo amici di Nicola Cosentino”, scandisce Arturo Iannaccone di Noi Sud. Poi Gianfranco Fini dichiara aperta la votazione. Si alzano le mani di chi ha problemi con la tessera elettronica. Urlano “Io! ” “Qui! ”. In ballo c'è la libertà del loro collega. “Onorevoli colleghi, calma! C'è tutto il tempo! ”, si stupisce il presidente della Camera. Poi il tabellone si accende: 309 no, 298 sì. L'ex detenuto Alfonso Papa, che in Parlamento è tornato da due giorni, si commuove e corre ad abbracciarlo. Quattro deputati campani escono dall'Aula gongolando: “Anna' passà sul nostro cadavere! ”. Un altro capannello attorno a Denis Verdini: “Adesso che abbiamo i numeri possiamo tornare”. Roberto Maroni esce quasi per ultimo. Dice: “Non so se l’elettorato della Lega capirà”. Poi si allontana: “Scusate, sono senza voce”.

il Fatto 13.1.12
Da Radio Padania e Radicale
La base gli dice “venduti” e urla “vergogna”
di Elisabetta Reguitti


Chi l’avrebbe detto? Militanti radicali e leghisti insieme, uniti nella lotta nel-l’insulto dopo il “no” della Camera all’arresto di Cosentino. Lanciano improperi ai rispettivi leader di partito. Frasi “contro” pronunciate all’unisono rimbalzate ieri dalle frequenze di Radio Radicale così come da Radio Padania.
I leghisti, per la verità, stravincono per la qualità delle pittoresche frasi con le quali hanno dato del “venduto” al loro capo massimo Umberto Bossi come Franco da Bergamo che ha poi aggiunto un elegante: “Buffoni”.
Più diplomatici i radicali nella loro danza del malcontento. “Vergogna” scrive un utente. E ancora “vero che adesso Cosentino vi permetterà di trasmettere stereo in Campania? ” oppure ancora “complimenti, avete iniziato bene il 2012”, siete disgustosi”.
L’apice della prosa padana è però: “Il salvataggio di un altro mafioso! Stronzi, non vi voterò più” che farebbe il paio con il Giulio-pensiero da Milano che domanda: “Cosentino è un altro rospo per il federalismo? ” Ma torniamo alle voci. Carlo da Brescia irrompe sul conduttore di Che aria tira (costretto a difendere il voto-salvagente degli onorevoli leghisti). “Cosentino era da arrestare. Come capiterebbe a tutti gli altri poveri cristi. Altro che privilegio perché è un parlamentare”. Da Varese un giovane padano non ha dubbi: “Avete salvato un altro camorrista nonostante aveste letto le carte”.
Il commento suscita la reazione del “sobrio” conduttore di Radio Padania che chiede: “Scusi ma se vengo a cena con lei che è uno stronzo, divento uno stronzo pure io? ” (inteso come curioso caso di transfert visto che Cosentino sarebbe, tra l’altro, andato a cena con mafiosi).
Che il dissenso non fosse gradito in Lega era chiaro già da tempo ma ieri, in diretta radio, i militanti contrari alla scelta di “coscienza” per il non-arresto di Cosentino, uscita da via Bellerio (un cambio di indicazione avvenuto alla vigilia del voto, voluto dal “cerchio magico” e annunciato dallo stesso Bossi) si sono presi in ordine, prima dell’ignorante e poi del cretino.
Povera Lega salvata dal satellite (che secondo il conduttore ieri non funzionava bene) in grado però di interrompere quel rosario di parolacce. Solo Ciro da Napoli riesce a dire: “Ringrazio Bossi e il trota per aver salvato Cosentino”. Il partenopeo si prende del “cefalo” dal giornalista della radio padana che, alla fine, dopo avere trascorso un pomeriggio in difesa finalmente abbassa la guardia e stremato ammette: “Io sono solo contento che i vari Papa, Cosentino e Tedesco non facciano parte della Lega”. Ma come? Non erano solo degli onorevoli perseguitati dalla magistratura?

Corriere della Sera 13.1.12
Il sotterraneo mercato delle indulgenze
di Giovanni Bianconi


È andata com'era prevedibile andasse dopo l'indicazione del capo leghista Umberto Bossi, che pare aver ricompattato — a parte la fronda maroniana e qualche smagliatura  nei rispettivi schieramenti — l'ex maggioranza che sosteneva il governo Berlusconi.
Con una decisione presa più al mercato della politica che valutando la singola vicenda giudiziaria di un deputato inquisito per camorra; ciò che era immaginabile alla vigilia, l'ha dimostrato  il dibattito parlamentare che ha accompagnato il voto.
Chi ha detto no all'arresto dell'onorevole Cosentino, magari dopo aver detto sì in Giunta, poteva almeno provare a dimostrare che c'era un po' di fumus persecutionis nella seconda richiesta dei magistrati. Non limitarsi a dirlo come fosse, quello sì, un «teorema», magari citando più o meno a sproposito le poco comparabili vicende di Strauss-Kahn o di Enzo Tortora. Il quale, peraltro, fu eletto al Parlamento europeo nelle liste radicali dopo essere finito ingiustamente in carcere, non prima, e si dimise dalla carica pur di affrontare i suoi giudici al pari di un cittadino qualunque; ogni paragone con la vicenda Cosentino, per rispetto di tutti, sembra davvero improponibile. La Camera era chiamata a stabilire se la richiesta di cattura fosse commisurata alla gravità delle accuse mosse al parlamentare (fondate non solo su dichiarazioni di pentiti e intercettazioni, ma anche su fotografie e pedinamenti di chi utilizzava i «buoni uffici» dell'uomo politico considerato il «referente politico» del clan dei Casalesi), come se si trattasse di un indagato qualunque; oppure se, al contrario, ci sia stato nei suoi confronti un particolare accanimento derivante proprio dalla sua attività politica e dal ruolo che ricopre. Insomma, Cosentino perseguitato politico: per bizzarro che possa apparire, è quel che ha proclamato l'assemblea di Montecitorio. Qui non si tratta di recriminare perché una persona, deputato o meno, non è andata in galera prima dell'eventuale condanna. Anzi. Buon per Cosentino che l'ha scampata, a differenza del suo collega Papa che ha dovuto pagare lo scotto di un altro momento politico, di altre strategie e altri messaggi che la Lega volle mandare all'interno della ex maggioranza. Il mondo perfetto sarebbe quello dove la carcerazione preventiva non avesse ragione di esistere. Ma quel mondo purtroppo non c'è. E quello in cui ci tocca vivere sarebbe forse un po' meno imperfetto se un parlamentare indagato per concorso con la camorra non riuscisse a evitare l'arresto solo perché un gruppo di pari grado politicamente schierati dalla sua parte decidono di non mandarcelo, a differenza degli altri indagati nello stesso procedimento. Questo, invece, è quel che è accaduto. Un rappresentante del Pdl, di professione avvocato, s'è lanciato in un'arringa difensiva in cui ha sostenuto che sul conto di Cosentino non ci sarebbe l'ombra di una prova, mentre altri personaggi coinvolti «sono effettivamente delinquenti». Alla faccia del garantismo. Qui la vera garanzia che sembra essere scattata non è quella, sacrosanta, dell'inquisito Cosentino che ha diritto al giusto processo e prima a un'indagine svolta nel rispetto delle regole, bensì quella dell'onorevole Cosentino che ha potuto approfittare di una ricomposizione politica decisa per motivi e prospettive che poco o nulla hanno a che vedere con la sua posizione giudiziaria. Tutto questo non fa bene all'immagine della politica, e rischia di allontanare ancora di più i cittadini da chi rappresenta le loro istituzioni; i sondaggi televisivi di ieri, per quanto valgono, lo fanno già intendere. Non solo. Il voto di ieri rischia di riproporre l'estenuante e asfissiante conflitto tra politica e magistratura, che si sperava potesse finalmente superarsi col cambio di governo. Per come è maturata, la decisione della Camera che per la seconda volta ha negato l'arresto dell'indagato-onorevole Cosentino suona pure come una sfida ai pubblici ministeri e ai giudici che l'avevano sollecitato. E sa molto di delegittimazione.

Repubblica 13.1.12
Il patto scellerato
Io so quali sono i suoi interessi, quelli che sono più remunerativi del danaro perché portano obbedienza
Onorevole Cosentino, lei per me è colpevole di cose che vanno al di là della fedina penale
di Roberto Saviano


Non tiri un sospiro di sollievo, Onorevole Cosentino, trattenga ancora il fiato. Non creda che questa congiura dell´omertà che si è frapposta tra lei e le richieste della magistratura, possa sottrarla dal dovere di rispondere di anni di potere politico esercitato in uno dei territori più corrotti del mondo occidentale. Non tiri un sospiro di sollievo, Onorevole Cosentino, perché quel fiato non dovrà usarlo solo per rispondere ai giudici. Il fiato che risparmierà lo deve usare per rispondere a chi ha visto come lei ha amministrato – e lo ha fatto nel peggiore dei modi possibile – la provincia di Caserta, plasmando una forma di contiguità, i tribunali diranno se giudiziaria ma sicuramente culturale, con la camorra.
Onorevole Cosentino, per quanto ancora con sicumera risponderà che le accuse contro di lei sono vacue accuse di collaboratori di giustizia tossicodipendenti. I pentiti non accusano nessuno, dovrebbe saperlo. I pentiti fanno dichiarazioni e confessioni; i pm ne riscontrano l´attendibilità ed è l´Antimafia a formulare l´accusa, non certo criminali o assassini. Lei, ribadisco, non è accusato da pentiti, lei è accusato dall´Antimafia di Napoli.
Ma anche qualora i tribunali dovessero assolverla, lei per me non sarebbe innocente. E la sua colpevolezza ha poco a che fare con la fedina penale. La sua colpa è quella di avere, per anni, partecipato alla costruzione di un potere che si è alimentato di voti di scambio, della selezione dei politici e degli imprenditori peggiori, il cui unico talento era l´attitudine al servilismo, all´obbedienza, alla fame di ricchezza facile. Alla distruzione del territorio. La ritengo personalmente responsabile di aver preso decisioni che hanno devastato risorse pubbliche, impedito che nelle nostre terre la questione rifiuti fosse gestita in maniera adeguata. Io so chi è lei: ho visto il sistema che lei ha contribuito a produrre e a consolidare che consente lavoro solo agli amici e alle sue condizioni. Ho visto come pretendevate voti da chi non aveva altro da barattare che una "x" sulla scheda elettorale. Sono nato e cresciuto nelle sue terre, Onorevole Cosentino, e so come si vincono le elezioni. So dei suoi interessi e con questo termine non intendo direttamente interessi economici, ma anche politici, quegli interessi che sono più remunerativi del danaro perché portano consenso e obbedienza. Interessi nella centrale di Sparanise, interessi nei centri commerciali, nell´edilizia, nei trasporti di carburante, so dei suoi interessi nel centro commerciale che si doveva edificare nell´Agro aversano e per cui lei, da quanto emerge dalle indagini, ha fatto da garante presso Unicredit per un imprenditore legato ad ambienti criminali.
Onorevole Cosentino, per anni ha taciuto sul clan dei casalesi e qualche comparsata ai convegni anticamorra o qualche fondo stanziato per impegni antimafia non possono giustificare le sue dichiarazioni su un presunto impegno antimafia nato quando le luci nazionali e internazionali erano accese sul suo territorio. Racconta che don Peppe Diana sia suo parente e continua a dire essere stato suo sostenitore politico. La prego di fermarsi e di non pronunciare più quel nome con tanta disinvoltura. È un uomo già infangato per anni, i cui assassini sono stati difesi dal suo collega di partito Gaetano Pecorella, peraltro presidente della commissione bicamerale sulle ecomafie e membro della Commissione Giustizia. Perché non è intervenuto a difendere la sua memoria quando l´Onorevole Pecorella dichiarava che il movente dell´omicidio di Don Diana "non era chiaro" gettando, a distanza di anni, ancora ombre su quella terribile morte? Come mai questo suo lungo silenzio, Onorevole Cosentino? Sono persuaso che lei sappia benissimo quanto conti questo silenzio. È il valore che ha trattato in queste ultime ore con i suoi alleati politici. È questo suo talento per il silenzio a proteggerla ora. E´ scandaloso che in Parlamento si sia riformata una maggioranza che l´ha sottratta ai pubblici ministeri. Ma in questo caso nessuno, nemmeno Bossi - anche al prezzo di spaccare la Lega- poteva disubbidire agli ordini di un affannato Berlusconi.
Perché lei, Onorevole Cosentino, rappresenta la storia di Forza Italia in Campania e la storia del Pdl. E lei può raccontare, qualora si sentisse tradito dai suoi sodali, molto sulla gestione dei rifiuti, e sulle assegnazioni degli appalti in Campania. Può raccontare di come il centro sinistra con Bassolino, abbia vinto le elezioni con i voti di Caserta e come magicamente proprio a Caserta il governo di centro sinistra sia caduto due anni dopo. Lei sa tutto, Onorevole Cosentino, e proprio ciò che lei sa ha fatto tremare colleghi parlamentari non solo della sua parte politica. Sì perché lei in Campania è stato un uomo di "dialogo". Col centro sinistra ha spartito cariche e voti. Onorevole Cosentino, so che il fiato che la invito a risparmiare in questo momento lo vorrebbe usare come fece con Stefano Caldoro, suo rivale interno alla presidenza della Regione. Ha cercato di far pubblicare dati sulla sua vita privata. Ha cercato di trovare vecchi pentiti che potessero accusarlo di avere rapporti con le organizzazioni criminali. Pubblicamente lo abbracciava, e poi lanciava batterie di cronisti nel tentativo di produrre fango. Onorevole Cosentino, so che in queste ore sta pensando a quanti affari potrebbe perdere, all´affare che più degli altri in questo momento le sta a cuore. Più del centro commerciale mai costruito, più dei rifiuti, più del potere che ha avuto sul governo Berlusconi. Mi riferisco alla riconversione dell´ex aeroporto militare di Grazzanise in aeroporto civile. Si ricorda la morte tragica di Michele Orsi, ammazzato in pieno centro a Casal di Principe? Si ricorda la moglie di Orsi cosa disse? Disse che lei e Nicola Ferraro eravate interessati alla morte di suo marito. Anche in quel caso ci fu silenzio. Michele Orsi aveva deciso di collaborare con i magistrati e stava raccontando di come i rifiuti diventano soldi e poi voti e poi aziende e poi finanziamenti e poi potere.
Lei si è fatto forte per anni di un potere basato sull´intimidazione politica e mi riferisco al sistema delle discariche del Casertano che a un solo suo cenno avrebbero potuto essere chiuse perché la maggior parte dei sindaci di quel territorio erano stati eletti grazie al suo potere: il destino della monnezza a Napoli - cui tanto si era legato Berlusconi - era nelle sue mani. Onorevole Cosentino, non tiri un sospiro di sollievo, conservi il fiato perché le assicuro che c´è un´Italia che non dimenticherà ciò che ha fatto e che potrebbe fare. Non si senta privilegiato, non la sto accusando di essere il male assoluto, è solo uno dei tanti, ahimè l´ennesimo.
Lei per me non è innocente e non lo sarà mai perché la camorra che domina con potere monopolistico ha trovato in lei un interlocutore. Non aver mai portato avanti vere politiche di contrasto, vero sviluppo economico in condizioni di leale concorrenza e aver difeso la peggiore imprenditoria locale, è questo a non renderle l´innocenza che la Camera dei Deputati oggi le ha tributato con voto non palese. Onorevole Cosentino prenderà questo atto d´accusa come lo sfogo di una persona che la disprezza, può darsi sia così, ma veniamo dalla stessa terra, siamo cresciuti nello stesso territorio, abbiamo visto lo stesso sangue e abbiamo visto comandare le stesse persone, ma mai, come dice lei, siamo stati dalla stessa parte.

Repubblica 13.1.12
Monti prepara l´incontro con il Papa ecco la rete del Professore in Vaticano
Da Bagnasco a Bertone, i contatti favoriti dal "gruppo di Todi"
Il premier non gli bacerà l’anello né s’inginocchierà davanti al Pontefice
Gode dell’appoggio pieno di Ratzinger che lo ha definito "il capo del nostro governo"
di Marco Ansaldo


CITTA’ DEL VATICANO - «Mario Monti è cattolico. Molto cattolico. Va a messa, ma solo la domenica, giorno in cui preferisce lasciare il lavoro e riposare. Si confessa, fa la comunione, ed è più credente di quanto la gente sappia. Però, da "grand commis" europeo prima, e da uomo di governo ora, non è persona che ostenta la sua fede. Non lo farà mai. Né la userà in qualche modo per i suoi fini politici».
Domattina alle 10,55 l´auto italiana del presidente del Consiglio varcherà il portone di Sant´Anna, in Vaticano, salutata sull´attenti dalle guardie svizzere. Salirà lungo l´acciottolato che porta oltre il primo arco grande, fin dentro il cuore della Santa Sede. E una volta giunta nel cortile di San Damaso si fermerà davanti ai commessi pontifici. Monti verrà accompagnato al celebre ascensore che sale ai piani alti del Palazzo Apostolico, e uscirà a quello della Biblioteca vaticana. Ad attenderlo nella sala affrescata ci sarà un Benedetto XVI trepidante, che fonti dell´Appartamento papale descrivono finalmente felice di parlare a tu per tu con il nuovo capo del governo italiano. Anzi, del «nostro governo», come Joseph Ratzinger ha detto il 18 dicembre scorso alla messa nel carcere di Rebibbia, e davanti al ministro della Giustizia, Paola Severino. «Il nostro ministro», precisò il Pontefice.
E allora quello che spiega oggi una persona molto vicina al presidente del Consiglio, e che ne tratteggia bene tanto le caratteristiche di governo quanto quelle di indole personale e di fede, è da ritenersi una mappa sulla geografia dei rapporti del premier con il mondo cattolico, e di come si svolgerà il colloquio fra Ratzinger e Monti. «Due professori», si sottolinea. Che, dunque, si intenderanno anche per la comune origine accademica.
Il presidente del Consiglio non si inginocchierà davanti al Papa. Né tantomeno gli bacerà l´anello. «Perché - spiega chi lo conosce - è un uomo con un alto senso dello Stato che ha il massimo rispetto per la laicità dell´istituzione». Piuttosto, come ha già fatto nel primo informale incontro all´aeroporto di Ciampino il 16 novembre scorso, quando andò a salutare il Pontefice in partenza per l´Africa, parlandogli fitto per tre minuti, l´uno a fianco dell´altro lungo il tappeto rosso srotolato sulla pista fra l´elicottero pontificio e la scaletta dell´aereo, Monti farà un leggero inchino con il capo. Silvio Berlusconi da Ratzinger si lanciò nel 2008 in un baciamano, e poi in una raffica di battute. Massimo D´Alema da Giovanni Paolo II portò moglie e figli. Monti arriverà con la consorte Elsa, ma avrà con sé anche due ministri, quello degli Esteri, Giulio Terzi, e il responsabile delle Politiche comunitarie, Enzo Moavero.
Il Papa ha addirittura accelerato la procedura per l´udienza, concedendola dopo nemmeno due mesi dall´insediamento del governo. Il colloquio andrà sul concreto. Con il Pontefice, Monti parlerà di sostegno alle scuole cattoliche, di aiuti alle famiglie, di Italia ed Europa. Ma entrerà poi nelle misure anti-crisi, spiegando i provvedimenti economici previsti. Ed è probabile che affronti l´applicazione dell´Imu ai beni ecclesiastici, nel tentativo di regolare il nodo Ici-Chiesa, primo approccio di una questione che verrà dopo seguita dai tecnici.
Non parteciperanno all´udienza i ministri identificati come cattolici doc. Ma è noto quanto il presidente del Consiglio si fidi di quelli usciti dal convegno di Todi, come Corrado Passera, Andrea Riccardi, Lorenzo Ornaghi. Oppure del vicesegretario generale alla Presidenza del Consiglio, Federico Silvio Toniato, uomo dai solidi rapporti Oltretevere. O del ministro della Sanità, Renato Balduzzi. Alcuni di loro fungono da ufficiali mediatori con il mondo della Chiesa. I suoi rapporti con il mondo ecclesiastico sono ottimi. Diretti quelli con l´ex arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi. Il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, è solito telefonargli. Da monitorare il suo contatto con il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, relazione destinata a misurarsi e a rafforzarsi nei colloqui diretti. Monti trova qualche diffidenza nel mondo millenario della Chiesa, che nel suo predecessore aveva incontrato un interlocutore prono. E suscita attese. Ma gode del pieno appoggio del Papa, fornitogli a cominciare dalla telefonata partita dallo studio di Benedetto per incoraggiarlo durante la formazione dell´esecutivo. Più tardi, nel momento delle scelte sui sottosegretari, arriveranno quelle che ora vengono definite come «discrete pressioni partite qua e là dal mondo ecclesiastico».
Chi lo conosce è certo che Monti supererà l´esame brillantemente. C´è un esempio che dal passato gli assomiglia? Risposta: «Possiamo cercarlo in De Gasperi o in Einaudi. Ma non è un "cattolico adulto", alla Prodi. Piuttosto un laico cattolico o un laico realista. Soprattutto, non è uno che usa il Vaticano per fare politica. E, tantomeno, farà lezioni alla Chiesa».

l’Unità 13.1.12
Intervista a Giampaolo Di Paola
«Non solo gli F-35, rivedere tutti i programmi ma senza ideologie»
Il ministro della Difesa: «Data la crisi il taglio alle spese militari è doveroso Ma va affrontato sapendo che siamo la quarta economia dell’Unione europea»
di Umberto De Giovannangeli


Dalla contestata acquisizione di 131 F-35 al “rischio-stipendificio” per le nostre Forze Armate: temi spinosi a cui il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, non si sottrae. E in questa intervista esclusiva a l’Unità, difende e rilancia la sua idea di Difesa. «Attaccando»...
Signor ministro, partirei dalla questione al centro da giorni di un vivace dibattito e di aspre polemiche: il programma di acquisizione di 131 F-35. C’è chi la definisce una spesa eccessiva, chi un investimento velleitario, e chi sollecita un ripensamento, quanto meno nel numero dei cacciabombardieri acquistati. Cosa può dirci in proposito?
«Noi stiamo rivedendo lo strumento militare. L’ho detto in maniera chiara e inequivocabile, ben prima che iniziasse qualsiasi discussione. Rivedere tutti gli aspetti dello strumento militare e dunque anche i programmi, e quindi i mezzi, e i piani d’investimento. Occorre operare in tal senso innanzitutto perché una revisione d’insieme è doverosa, e poi perché la situazione di compatibilità finanziaria lo impone. Ma questa revisione, è bene ribadirlo, interessa tutti i programmi. Perciò ritengo che l’accanimento verso uno specifico programma sia espressione di visioni anguste, settoriali che non mi sento di condividere. Sia chiaro: quando parlo di una revisione di tutti i programmi intendo anche quello relativo agli F-35, e in questo quadro generale bisogna tener conto che c’è una esigenza fondamentale...». Quale?
«Lo strumento militare italiano ha bisogno di una capacità aereo tattica: questa capacità l’abbiamo e va rinnovata. E dal punto di vista operativo, l’F-35 è la risposta corretta a questa esigenza. Che tipo di configurazione complessiva questo programma debba avere, questo è oggetto della revisione, e siccome la revisione è in corso è inutile che mi si venga a chiedere se si può ridurre di uno, dieci, venti, cento... La Difesa è una cosa seria, così come lo sono i programmi e gli investimenti. Al termine di questa revisione, noi ne motiveremo gli esiti, ma che il programma sia di alta valenza operativa, su questo non ho dubbi. E per un ministro della Difesa, quella operativa è una componente importante. Come lo sono l’alta valenza tecnologica del programma in questione, la valenza industriale e occupazionale. Uno può rinunciare a tutto, pure ad avere una Difesa, però l’argomento va affrontato e gestito seriamente e non piegato a posizioni ideologiche o che magari nascondono interessi di parte».
C’è chi sostiene che gli F-35 sono strumenti offensivi, tali da delineare un ruolo dell’Italia che contrasta con la Carta costituzionale e l’articolo 11... «Questa è una visione fortemente ideologizzata che non mi appartiene e che non corrisponde alla realtà. Qualunque armamento è offensivo o difensivo a seconda di come lo usi. Non è che l’F-35 è offensivo, l’Eurofighter è difensivo, il carro armato è offensivo o difensivo. È l’uso che se ne fa che conta. È come noi abbiamo utilizzato, con l’approvazione del Parlamento e delle Nazioni Unite, gli AMX, i Tornado, gli AV-8B. Sì, delle Nazioni Unite, perché le operazioni in Libia e in Afghanistan sono state sancite, legittimate da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e in quelle azioni sono stati utilizzati gli aerei a cui ho fatto riferimento. Mezzi che vanno rinnovati, e non vedo perché l’F-35 di per sé sia offensivo. È chiaro che lo strumento militare viene considerato, in quanto militare, in violazione dell’articolo 11 della Costituzione, beh, allora io dico chiudiamo lo strumento militare. Ma lo strumento militare esiste da quando esiste la nostra Costituzione, e il suo articolo 11, il quale, peraltro, andrebbe letto nella sua interezza e non fermandosi alla sua prima riga. E a dirlo non sono io, ma qualcuno ben più autorevole: il presidente Giorgio Napolitano».
In una recente intervista a l’Unità, l’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Vincenzo Camporini, analizzando il bilancio della Difesa ha paventato il rischio che le nostre Forze Armate si trasformino sempre più in uno “stipendificio”. C’è davvero questo rischio?
«Vorrei dare una risposta più articolata, il che non significa evadere la sua domanda. Si dice: in Italia spendiamo un sacco di soldi per la Difesa, l’Italia è la decima potenza militare al mondo... Punto primo: l’Italia è la quarta economia dell’Unione Europea, tra le prime dieci economie del mondo, e va da sé che a questa dimensione economica corrispondano nei vari settori bilanci di un certo livello. Però, se si analizzano con onestà e correttezza i dati, la quota parte che l’Italia destina al bilancio della Difesa, è considerevolmente più bassa rispetto al rapporto Difesa/Pil di altri Paesi europei. Alle Forze Armate Esercito, Marina, Aeronautica e dunque alla Difesa, il bilancio per l’anno 2012 assegna 13,5 miliardi di euro, lo 0,84 del Pil. Mi permetta di fare alcuni raffronti con alcuni Paesi europei: la Francia destina alla Difesa, l’1,5 del suo Pil; la Germania 1,22%, Gran Bretagna 2,13%, la Svezia 1,3%, Polonia 1,3%. Non sto citando gli Usa... So benissimo che oggi e in futuro a medio termine non avremo un aumento quantitativo del nostro bilancio della Difesa, e non sto qui a dire: datemi l’1,5, l’1,3 come gli altri. Dico solo di essere realisti, e non posso non ribellarmi quando sento dire che spendiamo troppo per la nostra Difesa...». Resta lo «stipendificio»... «Indubbiamente si tratta di un grosso problema, non lo nascondo. Il bilancio della Difesa, oggi destina circa due terzi delle risorse al personale.
Ma c’è una ragione che lo spiega...».
E quale sarebbe questa ragione, signor ministro?
«Dieci anni fa, il Parlamento sovrano quando fece la riforma del modello della Difesa, disegnò un modello tutto volontario di una certa dimensione: 190mila uomini. Un sistema di queste dimensioni non si mantiene con le risorse che il Paese ha ritenuto nell’arco di 10 anni di destinare alla Difesa. Perseguendo quei livelli di dimensionamento, inevitabilmente le dinamiche del personale hanno determinato, come in ogni altro Paese del mondo, la crescita delle spese ad esso relative, comprimendo in maniera forte le altre due voci di bilancio, qualitativamente importanti: l’esercizio, vale a dire l’operatività delle Forze Armate e quindi la formazione, l’addestramento, la manutenzione, l’impiego e l’ investimento, la parte dedicata ai mezzi, al rinnovamento, al futuro. In questa situazione, non parlerei di rischio ma di realtà: la quota destinata al personale è talmente elevata che non siamo più in grado di mantenere, rendendolo utilizzabile, lo strumento militare nelle attuali dimensioni. Bisogna dunque ricalibrare lo strumento in base alle risorse che il Paese decide liberamente di destinare, il che comporta affrontare con serietà anche il discorso, che spesso produce levate di scudi, di un ridimensionamento degli organici. A questo impegno non mi sottraggo».
Un nuovo modello di Difesa non chiede più Europa, in termini di cooperazione integrata e di difesa condivisa? «Direi proprio di sì. Ma anche qui, occorre intenderci ed essere corretti. Sono convinto che l’Italia debba credere e spingere nella direzione di una sempre maggiore integrazione europea, e quello della sicurezza e difesa rappresenta una delle dimensioni fondamentali di questo percorso. D’altro canto, gli stessi partner americani ci incoraggiano in questa direzione, perché si rendono perfettamente conto che una politica europea più integrata rafforza la partnership Usa-Europa nel campo della sicurezza e della difesa. Ma più Europa, però, non vuol dire che l’Italia si sfila dalla Difesa. Più Europa significa che tutti quanti, noi europei, inclusa l’Italia, ci si muova con coerenza e convinzione su un percorso condiviso. Al mio Paese chiedo solo di essere in sintonia con l’operato di Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania, Polonia, Svezia, Olanda. Paesi che stanno lavorando a un disegno di difesa europea operativamente efficace, anche nell’investimento aereo-navale. Di questo disegno, l’Italia può e deve essere parte attiva, avendo la consapevolezza, peraltro, che un Esercito europeo non può prescindere da un Governo europeo».

l’Unità 13.1.12
Contratto d’ingresso e dopo tre anni l’articolo 18. «Larga convergenza» sul documento di Fassina
Critico Ichino: «Impuntura nominalistica priva di senso». Botta e risposta col responsabile Economia
Lavoro, c’è la proposta Pd Bersani oggi vede Monti
Ratificata la proposta del Pd sul mercato del lavoro: contratto d’ingresso e poi garanzia dell’articolo 18. Fassina: «Larghissima condivisione». Ichino critico: «Impuntura nominalistica». Bersani oggi vede Monti.
dio Simone Collini


Il titolo è «Per l’occupazione giovanile e femminile» e in dieci punti sintetizza la proposta di riforma del Pd sul mercato del lavoro. I vertici del partito ne parlano come di un «contributo» al confronto tra governo e parti sociali. E che oggi Pier Luigi Bersani porterà con sé all’incontro a Palazzo Chigi con Mario Monti, insieme ai «correttivi necessari» alla riforma delle pensioni («serve maggiore gradualità e bisogna tener conto dei casi particolari che oggi non hanno né lavoro né pensione») e alle 41 proposte di liberalizzazioni che avrebbero «effetto immediato» sul fronte delle professioni, dell’energia, dei trasporti, delle banche e delle assicurazioni.
ASSUMERE NON LICENZIARE
In particolare sul mercato del lavoro per Bersani (che vedrà il presidente del Consiglio dopo che a Palazzo Chigi saranno andati anche Alfano e Casini) va assicurata «flessibilità senza toccare l’articolo 18, perché oggi il problema è assumere, non licenziare, che è diventato molto facile». E la proposta ratificata ieri dopo quasi quattro ore di riunione del Forum Lavoro Pd è stata pensata in questo senso. Prevede «un contratto per l’ingresso dei giovani e per il reingresso dei lavoratori e delle lavoratrici deboli al lavoro stabile». Può durare dai sei mesi ai tre anni con retribuzione crescente. Per le aziende che stabilizzano ci sarebbero agevolazioni contributive e dopo tre anni i lavoratori avrebbero tutte le tutele, articolo 18 incluso. Durante la fase iniziale sarebbe invece possibile il licenziamento e il lavoratore riceverebbe «una compensazione monetaria crescente in riferimento alla durata del rapporto di lavoro».
Stefano Fassina, che ha lavorato alla proposta muovendosi «in coerenza» con quanto votato all’Assemblea nazionale Pd del maggio 2010 e alla Conferenza per il lavoro dell’estate scorsa, dice che al di là delle norme prospettate il messaggio che i Democratici vogliono mandare è anche di tipo politico, e cioè che ora «va giudicato centrale il percorso unitario tra i sindacati e un confronto vero tra governo e parti sociali». Il responsabile Economia e lavoro del Pd giudica positivamente la «larghissima condivisione» registrata sul documento con cui ha aperto i lavori. Nella sala Berlinguer di Montecitorio, oltre ai membri del Pd delle commissioni Lavoro di Camera e Senato, sono arrivati anche Guglielmo Epifani e il segretario generale Fisac-Cgil Agostino Megale, il vicesegretario Cisl Giorgio Santini, il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy. Tutti d’accordo sulla necessità, sottolineata da Fassina, di intervenire con emergenza sugli ammortizzatori sociali e di sostenere «lo sforzo unitario dei sindacati e l'intenzione del governo di farne un momento serio».
LE CRITICHE DI ICHINO
Molto critico con la proposta ratificata dal Forum Lavoro è invece Pietro Ichino, che ha presentato al Senato una proposta di legge favorevole all’introduzione della “flexsecurity”. L’idea della segreteria, per il giuslavorista, «è del tutto inadeguata rispetto agli obbiettivi programmatici enunciati dal premier Mario Monti» e così «si rischia di essere tagliati fuori dal processo di riforma del mercato del lavoro». Per il senatore Pd il testo ratificato «si discosta» anche dalla proposta Nerozzi-Marini e il contratto d’ingresso sarebbe «a termine». Per Ichino (sostenuto in questo da Salvatore Vassallo) nella difesa dell’articolo 18 c’è «una impuntatura nominalistica totalmente priva di senso, basata oltretutto su di un preteso “principio” che non ha alcun fondamento». La norma che impedisce i licenziamenti non per giusta causa, insiste il giuslavorista, «oggi si applica soltanto al 3 per cento della forza-lavoro complessiva dell' Unione europea e non può essere considerata come un diritto fondamentale immodificabile perché non ha carattere di universalità».
Critiche che non convincono Fassina, che fa notare come non sia specificato da nessuna parte che il contratto d’ingresso sia a termine. Né accetta di sentir dire che la battaglia in difesa dell’articolo 18 sia «nominalistica». Il Forum Lavoro ha ratificato e Bersani ha apprezzato, ma non è detto che dell’argomento non si torni a discutere all’Assemblea del Pd fissata per venerdì e sabato della prossima settimana.

Corriere della Sera 13.1.12
La frenesia cinese da grattacielo «È il sintomo del crac in arrivo»
Studio inglese: le bancarotte precedute dai boom edilizi
di Marco Del Corona


PECHINO — Le inaugurazioni sono faccende gioiose. I funzionari, i drappi rossi, i fiori, molte parole pompose. Il 19 settembre scorso, a Pechino, c'era pure una schiera di scavatrici ingentilite per l'occasione da delle specie di fiocchi, rigorosamente rossi. A due passi incombeva la sghemba sede della Cctv di Rem Koolhaas, che i pechinesi irridono come «i mutandoni»: lì, nel cuore del Central business district, si inaugurava la costruzione del grattacielo più alto di Pechino, il China Zun, 510 metri e 108 piani, che il gruppo Citic annuncia come un gioiello dell'ecologicamente corretto.
Sull'inaugurazione non si allungava ancora l'ombra delle fosche previsioni degli analisti di Barclays Capital: ogni boom di grattacieli precede un tonfo dell'economia, e dunque se la Cina (ma il discorso vale anche per l'India) vive questo gigantismo edificatorio, si prepari «entro 5 anni» a un altro boom, quello della bolla che scoppia.
Parla la storia. La New York che aveva innalzato l'Empire State Building e il Chrysler sprofondò nella Grande depressione. Il collasso finanziario di Dubai, due anni fa, ha inghiottito l'euforia che aveva accompagnato la costruzione del Burj Khalifa, appena sotto gli 830 metri. Si possono aggiungere la Chicago del '74 e la Malaysia del '97.
Se la lettura di Barclays Capital è corretta, la Cina — che da sola ospita più di metà dei grattacieli in costruzione nel mondo — si prepara allo scossone. La miscela tra prezzi dei terreni alti e accesso facile al credito, in un clima generale di ottimismo, secondo gli analisti è la premessa di un crollo: «I boom edilizi sono un segno di un eccesso di credito», ha sintetizzato Andrew Lawrence, l'analista che nel '99 ha formulato l'«indice dei grattacieli» che mette in relazione torri e crisi economiche.
Il China Zun prende nome da un antico contenitore per bevande alcoliche, di cui evoca la forma. Quasi un monumento all'ubriacatura immobiliare di un Paese. Sarà in 5 anni il più alto edificio di Pechino (ora lo è la terza fase del China World, non distante, 330 metri) ma non della Cina: se già adesso lo Shanghai World Financial Center raggiunge i 492 metri, cinque delle torri ora in costruzione supereranno il China Zun, con il Pingan International Finance Center di Shenzhen che toccherà i 660. L'India, che arrancava con solo due grattacieli esistenti, accelera con 14 in costruzione: la Tower of India di Mumbai sarà seconda solo al mostro di Dubai.
In realtà, il 2011 della Cina racconta un'atmosfera mista. Di gru scatenate ma anche di consapevolezza. E di preoccupazione. Grattacieli a parte, dopo che l'edilizia ha sostenuto per anni un Pil a due cifre, si è assistito a un arroventarsi del mercato che ha reso i prezzi delle abitazioni irragionevolmente alti. Dalla stretta al credito delle banche a limiti all'acquisto di terze e seconde case fino agli stanziamenti per alloggi di Stato e dunque accessibili, le autorità centrali hanno cercato di tamponare la bolla. E il congresso del Partito comunista che in autunno rinnoverà la leadership non consente sbagli. Ma quando i prezzi hanno preso a calare di pochi punti, e soprattutto i palazzinari hanno lanciato sconti per riempire appartamenti invenduti, chi si era svenato anche solo una settimana prima ha protestato.
E non è finita. Il calo dell'inflazione (4,1% a dicembre, dato di ieri, ma era a 6,5% in luglio) porterà a qualche ammorbidimento sul credito. Pechino è attesa da esercizi di equilibrismo acrobatico. Che solo sulla cima di un grattacielo si possono comprendere appieno.

il Fatto 13.1.12
Un nuovo studio neuronale
“Fatti” di Internet come di alcool e droga
di Federico Mello


Negli scorsi anni la materia ha visto contrapposti, l’uno contro l’altro di (pochi) argomenti armati, apocalittici e integrati. Dipendenza da web: questo il tema. Da una parte indignati di professione dicevano tutto il male possibile della Rete, di come questa svilisse i rapporti umani, assorbisse la “vita vera” e portasse all’isolamento (stessa accusa venne fatta al walkman negli anni Ottanta). Dall’altra parte, molti blogger e smanettoni in generale, decantavano le magnifiche e progressive sorti di Internet, di quanto questo avrebbe cambiato le nostre giornate e di come, presto, anche il sesso sarebbe passato attraverso soddisfacenti connessioni di bit.
Ora che Internet è pane quotidiano per moltissimi (secondo Audiweb la metà degli italiani è connesso) è tempo per discussioni più ragionate. Sempre più sono le pubblicazioni, gli studi, i saggi – anche di successo – su come la Rete influisce sulle nostre vite e su come, a volte, il nostro stato di connessione perenne ci sfugga di mano. Ora una nuova ricerca ha trovato riscontri importanti sulla dipendenza da Internet, questa volta facendo un salto scientifico, perché ciò che è stato osservato avviene a livello neuronale, non più psicologico.
Un gruppo di ricercatori cinesi, diretti da Hao Lei dell’Accademia cinese delle scienze di Wuhan (lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Plos One”), ha mappato il cervello dei 17 giovani – di entrambi i sessi, tra i 14 e i 21 anni – affetti da “Internet addiction disorder ”, dipendenza da web. Grazie a una speciale risonanza magnetica hanno rilevato per la prima volta alcuni cambiamenti nella materia bianca del cervello (la parte che contiene le fibre nervose). Hanno trovato, in particolare, segni di un’interruzione nelle connessioni delle fibre nervose che collegano aree cerebrali coinvolte in emozioni, processo decisionale e autocontrollo. “Nel complesso – ha spiegato Hao Lei – i risultati indicano che questa modernissima forma di dipendenza può generare crisi di astinenza paragonabili a quelle causate da alcool e droghe”. Gunter Schumann, titolare della cattedra di Psichiatria biologica al King’s College di Londra, ha spiegato alla Bbc che “simili riscontri si sono avuti anche nelle persone dipendenti dai videogame”.
BISOGNA però spiegare a cosa si riferisce il termine “webdipendenza”. Da un punto di vista clinico, il disturbo (riscontrato soprattutto per quanto riguarda pornografia, videogaming e giochi d’azzardo online), si registra in chi passa almeno 40-50 ore a settimana perennemente davanti a uno schermo. Inoltre, come tutte le altre malattie, la situazione diventa clinica quando condiziona le nostre abitudini quotidiane. Chi passa la giornata in ufficio davanti al computer, insomma, può stare tranquillo. Eppure la nuova ricerca indica anche una tendenza che, seppur a livelli più blandi, è presente nella nostra società: quella che ci porta ad un uso ossessivo delle connessioni. Questo è un tema che riguarda davvero tutti: basta che ognuno faccia un rapido calcolo di quante volte al giorno controlla la posta elettronica o il profilo Facebook, anche se non aspetta o non cerca nulla di particolare. Internet è tra noi, ma bisogna imparare a gestirlo, capire come il suo utilizzo si riflette anche su gesti, sensazioni e sentimenti. Questo, a parte i disagi clini, uno dei compiti per i prossimi anni.

il Fatto Saturno 13.1.12
Razzismi
Stranieri da Campiello
Niente cittadinanza linguistica per gli scrittori immigrati, anche se scrivono in italiano o sono nati qui. Ma la letteratura oggi è meticcia, come dimostrano Ben Jelloun e Kureishi
di Daniela Padoan


BENCHÉ tra una cinquantina d’anni, a detta dell’Istat, un quarto della popolazione residente in Italia sarà composta da immigrati, gli scaffali delle librerie continuano a essere divisi in autori italiani e stranieri: nel settore degli italiani alloggia, in ordine alfabetico, la vasta famiglia che va da Arpino a Vittorini, passando per la Brianza di Gadda e le Langhe di Fenoglio, mentre gli scrittori dai nomi esotici – non importa se di lingua italiana o addirittura nati in Italia – sono abitualmente collocati in ordine di appartenenza geografica sugli scaffali della letteratura straniera.
Ma cos’è, oggi, la letteratura italiana? Da quali materiali narrativi è composta? Che posto hanno, nel nostro immaginario, Younis Tawfik, giornalista e scrittore iracheno in esilio in Italia dal 1979, Anilda Ibrahimi, scrittrice albanese a Roma dal 1977, Igiaba Scego, giornalista e scrittrice nata in Italia da una famiglia di origine somala, Amara Lakhous, scrittore algerino a Roma dal 1995? L’elenco dei nostri “stranieri” è lungo; comprende il rumeno Mihai Mircea Butcovan, il persiano Hamid Ziarati, l’argentino Adrian Bravi, l’albanese Ornela Vorpsi – che continua a scrivere in italiano benché si sia trasferita in Francia – l’egiziana-congolese Ingy Mubiayi, e potrebbe andare avanti ancora.
Bijan Zarmandili, scrittore nato a Teheran ed esule in Italia da cinquant’anni – capace di usare la lingua italiana con tale libertà e raffinatezza da piegarla tanto alla sontuosità della poesia persiana che alla povertà mistica dei dervisci e dei sufi – fin dal suo esordio narrativo ha combattuto per essere considerato un autore italiano. «Tutti gli scrittori in esilio», spiega, «sentono voci provenienti dai luoghi della loro infanzia; voci dei tempi in cui erano in sintonia con altri volti, con gli affetti, gli odori, i colori, i rumori, persino i silenzi della propria origine. La trascrizione di tutto questo non può che dar luogo a una scrittura ibrida, bastarda nella forma e nel contenuto, perché, se pure nello scrittore che viene da un altro paese resta il tormento della provenienza, il paesaggio in cui si colloca è radicalmente mutato. È importante riflettere sull’ibridismo dell’autore esiliato, perché la letteratura d’immigrazione o, come preferisco dire, la letteratura dell’esilio, nasce da un immenso e straordinario movimento di massa: milioni di uomini e di donne che si spostano da un continente all’altro, dando luogo a una cultura fatta di elementi che impongono una metamorfosi a tutte le culture coinvolte nel processo. Questa umanità bastarda contiene, inevitabilmente, molteplici talenti poetici e intellettuali, ed è in grado di trasferire le proprie esperienze in opere letterarie che assumono sonorità e stratificazioni proprio nell’incontrarsi e nel confliggere delle lingue di provenienza e di quelle adottive; l’esito di un simile processo dialettico, tuttavia, non sta solo in una straordinaria e vitale produzione poetica, ma in una continua risignificazione dell’esistente. È per questo che, quando vengo presentato come uno “scrittore iraniano”, avverto un profondo disagio: ridurre l’identità di uno scrittore alla sua origine implica negargli il senso di questo movimento».
L’attribuzione di una piena cittadinanza linguistica agli scrittori di origine straniera – una sorta di ius soli per chi abbia avuto nascita alla scrittura nella nostra lingua – sembra l’ultimo tabù della nostra globalizzazione; la loro opera non ha ancora una nominazione condivisa, e le definizioni più usate (“letteratura migrante in lingua italiana”, “letteratura transnazionale”, “letteratura italofona”, “letteratura postcoloniale”) si tengono in un’ambiguità tra riconoscimento di valore letterario, giudizio politico e sguardo antropologico. «Quando la musica delle sillabe e la coerenza dei ritmi vengono utilizzate non dai poeti che hanno avuto maternità in una certa lingua, ma dai suoi figli illegittimi, confrontarsi con l’ibridismo di chi lavora con le parole diventa una vicenda complessa», dice ancora Zarmandili. «In Italia c’è sempre il rischio che questa scrittura venga ghettizzata, etichettata, risospinta verso la sua origine, ma è proprio la novità epocale costituita dall’immigrazione a dare nuova linfa all’Italia di oggi; a darci conto del caos di questo mondo che, meraviglioso e vivificante, si riflette su di noi, chiedendoci un pensiero estetico e politico».
Quindici anni dopo aver lasciato il Marocco per trasferirsi a Parigi, Tahar Ben Jelloun si vide assegnare il prestigiosissimo premio Goncourt, che ne fece uno scrittore di lingua francese a tutto tondo, e Hanif Kureishi, nato a Londra da padre pakistano e madre inglese, è considerato un autore inglese, non un pakistano anglofono. Un passo avanti potrebbe essere l’attribuzione di uno Strega, un Campiello a uno dei nostri autori ibridi, a sottolineare la loro piena appartenenza alla cultura, alla letteratura italiana.

il Fatto Saturno 13.1.12
Poesia e politica
Pound, fascista senza casa
di Nicola Gardini


ALL’INIZIO del prossimo novembre saranno passati quarant’anni dalla morte di Ezra Pound, il poeta più influente degli Stati Uniti. E il più scomodo. Disse, infatti, cose imbarazzanti sul suo paese durante la guerra, gridò il suo antisemitismo e si espresse con aperto consenso sul regime fascista italiano, a voce e per iscritto, privatamente e pubblicamente, con la poesia e con il proclama più prosastico. Per salvarlo dalla condanna a morte gli amici americani dovettero farlo passare per pazzo. La prigionia pisana, l’avvilente processo e la prolungata detenzione nell’ospedale psichiatrico St Elizabeths di Washington hanno ripulito la sua persona delle macchie che quei discorsi ci avevano lasciato sopra. La longevità, poi, gli ha permesso di navigare verso la fine da profeta, con quegli occhi stanchi, quel silenzio impenetrabile, quella corona di capelli bianchi simile a un’aureola che vediamo in alcune fotografie tarde. Quando è morto, Ezra Pound era un simbolo. Non di quello che aveva affermato, ma di quello che era diventato: un sopravvissuto alle confusioni della storia; un illuso di genio; insomma, un martire; e un martire fuori classe, che aveva alle spalle non tanto un’attività di filofascista, non una serie di errori, ma un’opera da poeta sommo, i Cantos, trionfo intramontabile. Oggi un centro sociale di estrema destra, nato a Roma, diffonde il nome del vate come una bandiera: “CasaPound”. Da molte parti sono salite le proteste, a partire dalla figlia dello stesso Pound, Mary de Rachewiltz. E comprensibilmente. Pound disse cose da fascista e da antisemita, e questo resta (molti e ben documentati gli studi critici sull’argomento), per quanto gli apologeti di sinistra si ostinino a evadere il problema. I fascisti, però, non devono confondere la poesia con la politica. La poesia di Pound non è fascista, neanche quando sembra applaudire a Mussolini; né tanto meno è un invito all’uccisione dello straniero. La poesia è poesia, non è mai propaganda per sua stessa natura. E il nome Pound significa poesia prima di qualunque altra cosa. Contrapporsi alle strumentalizzazioni onomastiche di CasaPound è un atto di giustizia che deve insegnarci non tanto a dimenticare le contestabili idee politiche dell’uomo che fu Pound nell’Italia della guerra (amnistie del genere, se rientrano nella logica della storia, comunque sarebbero assurde a così poco tempo dalla sua scomparsa) quanto a fornirci un’occasione per saper distinguere una volta di più la letteratura dal letterato. Quella – la letteratura – rappresenta la complessità del mondo, l’infinità dei punti di vista, il mistero dell’interiorità; e ha sempre ragione. Questo – il letterato – è un miope schiavo della complessità, nella quale si impiglia come un povero insetto; e, se sbaglia, ha torto.
Perché i membri di “CasaPound”, per avere una copertura ideologica certa, non hanno scelto di chiamarsi “CasaMussolini”?

il Fatto Saturno 13.1.12
Geografia antica
Il mostro Gerione fa i fanghi ad Abano
Un “Dizionario” ci guida nei luoghi della mitologia classica. Dall’India di Dioniso alle Terme padovane
di Giorgio Ieranò


PER PRIMA COSA andate alla voce “Nisa”. Nisa è una terra mistica, sacra a Dioniso, dove satiri e baccanti celebrano in eterno i riti orgiastici del dio dell’ebbrezza. Per i greci esisteva senz’altro, in qualche parte dell’universo, ma ciascuno la situava nei posti più diversi e impensati. Ecco alcune ipotesi registrate da Anna Ferrari nel suo Dizionario dei luoghi del mito: «Si ricorda un’identificazione di Nisa con un’area localizzata tra il fiume odierno Kabul (anticamente Cofen) e l’Indo; o con la città di Nagarahara/Dionisopoli presso l’odierna Jalalabad, o in un punto imprecisato del Nuristan». Così, in poche righe, il lettore ha già fatto un viaggio intorno alla propria stanza, alla maniera di Xavier De Maistre, perdendosi lungo le vie carovaniere dell’Oriente al seguito del corteo dionisiaco. E imparando che la geografia del mito greco non si racchiude nei confini della Grecia.
Sconfina, per esempio, nelle terre immense del-l’Asia, fin verso l’India, dove Dioniso e poi, sulle sue orme, Alessandro Magno si erano inoltrati inseguendo grandiosi sogni di conquista. Ma il favoloso si annida anche sotto casa. La prima voce del Dizionario è “Abano”, che è esattamente la non esotica località di Abano Terme, provincia di Padova. Qui, secondo alcuni testi antichi, abitava il mostro tricorpore Gerione, ucciso da Ercole in una delle sue Dodici Fatiche. Anche se altri dicono che questo Gerione non era un mostro ma una divinità benefica. Era il nume di quelle acque termali che guarivano gli uomini dai loro dolori: proprio da questo deriverebbe anche il nome di Abano (dal greco aponos, “senza dolore”).
La forma del lessico onomastico, o del catalogo delle meraviglie, scelta da Anna Ferrari per raccontare il mito, sarebbe piaciuta ai greci. Per i quali ogni mito era agganciato a un luogo così come ogni luogo era consacrato da un mito. È naturale, perché la mitologia greca nasce dall’aggregazione di tradizioni locali per lungo tempo trasmesse oralmente. E, sfogliando il dizionario (il cui sottotitolo è Geografia reale e immaginaria del mondo classico), si capisce subito che distinguere tra luoghi fantastici e luoghi reali non è facile. Vi sono località non segnate su alcuna mappa. Come Cobalusa, immaginata da Luciano nella sua Storia Vera: un’isola abitata da una razza di donne antropofaghe, con le zampe d’asino, che seducevano i naviganti di passaggio per poi divorarli. Ma in genere le terre immaginarie vanno in cerca di un ancoraggio su un suolo conosciuto. Mentre, viceversa, i luoghi fisici diventano, come lo specchio di Alice, una finestra aperta su sconfinati territori di favola. L’Olimpo è un monte che appartiene contemporaneamente al nostro e all’altro mondo, alla dimensione degli uomini e a quella degli immortali. Alcune terre sono divinità esse stesse, come la piccola Delo, ninfa e isola vagante per l’Egeo, finché Apollo non l’ancorò alla vicina Mykonos, grato per l’ospitalità offerta a sua madre Latona.
Esemplare il caso dei toponimi costruiti sulla radice della parola greca “leukòs”, che significa bianco. La tradizione conosceva una “Rupe bianca”, un luogo magico da cui saltavano in mare gli innamorati infelici, in un rito che serviva a liberarli dalle pene d’amore. Così avrebbe fatto, secondo la leggenda, anche Saffo, vittima di un amore non corrisposto per il barcaiolo Faone. Questa rupe incantata fu identificata con un promontorio dell’isola del Mar Jonio che ancora oggi si chiama Leucade. Ma la sua topografia continuò a essere
sempre in bilico tra mito e realtà. Il bianco, per i greci, era il colore del lutto e dei demoni della morte. Omero conosce una “Rupe bianca” che sorge tra le Porte del Sole e il Paese dei Sogni, all’ingresso degli Inferi. In una “Isola bianca”, Leuké, venivano accolte le anime degli eroi: qui, dopo la sua morte, Achille avrebbe trascorso l’eternità tra le braccia di Elena. Non l’aveva mai conosciuta da vivo: si sarebbe innamorato di lei soltanto sentendone parlare, come negli amori dei Trovatori provenzali. Alla fine quanto si scopre, viaggiando tra Abano e Nisa, Leucade e Cobalusa, è che il mondo non è mai solo ciò che appare.
Anna Ferrari, Dizionario dei luoghi del mito, Rizzoli, pagg. 1036, • 19,90

il Fatto Saturno 13.1.12
Fanon e la follia coloniale
di Marco Filoni


RACCONTA lo scrittore Tahar Ben Jelloun di una straordinaria insegnante che, nel suo liceo di Tangeri, un giorno portò in classe un libro destinato a diventare il manifesto di tutta la sua generazione. Il libro era I dannati della terra di Frantz Fanon, e si inseriva in un clima rovente nel Nord-Africa. Il volume compariva poche settimane prima della morte del suo autore, nel ’61, con una lunga prefazione di Jean-Paul Sartre. Lo psichiatra Fanon diveniva così un autore feticcio per Ben Jelloun e tutti quelli che come lui sentivano il bisogno di confrontarsi con il razzismo, l’uso della violenza per la liberazione, la lotta per la dignità dei popoli colonizzati. E con questi temi, dei quali era divenuto indiscusso portavoce, Fanon conobbe la popolarità e si trovò nel bel mezzo di accesi dibattiti: per alcuni era un anti-europeista e apologeta della violenza; per altri un classico della decolonizzazione e dell’autodeterminazione dei popoli – tanto che fu coniato il termine fanonisme come sinonimo della rivolta spontanea delle masse oppresse. Non durò a lungo. Morto a soli 36 anni di leucemia, nel 1961, il suo nome cadde presto nel dimenticatoio. Così come i suoi scritti: svanirono tanto velocemente quanto veloce fu il processo di pulitura delle coscienze occidentali dalle nefandezze coloniali. E a nulla è servito sapere che negli Stati Uniti il pensiero di Fanon è stato uno dei maggiori riferimenti della riflessione teorica che va sotto il nome di «post-colonial studies». Ancora qualche settimana fa, in occasione del cinquantenario della sua morte, di Fanon non si è parlato (salvo rarissime eccezioni). Va dunque salutata con molto interesse sia la raccolta Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale (ombre corte 2011), curata da Roberto Beneduce, sia l’inedito Introduzione ai disturbi della sessualità nei nordafricani pubblicato nel numero di dicembre della rivista «Alfabeta2» (accompagnato da un ineccepibile saggio di Cesare Bermani). Qui emerge una chiave interpretativa che rende inscindibile la lettura psichiatrica da quella politica. Quando nel 1953 arrivò all’ospedale di Blida, in Algeria, il giovane psichiatra si scontrò con una dura realtà. Anzitutto il “primitivismo”, la dottrina regnante in psicopatologia. Poi la guerra d’Algeria, con il clima di atroci violenze e torture. Fanon iniziò così a studiare e concepire gli effetti prodotti sulle coscienze dalla situazione coloniale, individuando una sorta di “depersonalizzazione” che questa realtà causava. Nel farlo rivoluzionò la pratica medica, andando all’ascolto dei malati e interessandosi alle «soggettività sofferenti». Rivendicando tutta una serie di diritti dei popoli nordafricani: un impegno che gli costerà la censura dei suoi libri in Francia e l’espulsione dall’Algeria. Rileggerlo oggi significa comprendere quelle istanze politico-sociali ricondotte alla psichiatria e al suo esercizio in Nordafrica negli anni Cinquanta. È passato molto tempo da allora. Ma se ai termini della realtà di Fanon, «oppressione coloniale», «terzo-mondo», «autodeterminazione dei popoli», sostituiamo «frattura sociale», «esclusione», «scarto fra Nord e Sud del mondo», riusciremo a intravedere un’attualità ancora viva: un bagliore delle nostre coscienze.
Frantz Fanon, Decolonizzare la follia, ombre corte, pagg. 173, • 16,00

il Fatto Saturno 13.1.12
Scienza e mente
Psicologi della domenica
di Yamina Oudai Celso


VOX POPULI, VOX DEI? Mai fidarsi del buon vecchio adagio che santifica stereotipi popolari e luoghi comuni, quando c’è di mezzo la scienza. Se poi la branca scientifica in questione coincide con una disciplina così pervasiva e apparentemente accessibile a tutti come la psicologia, il rischio di confondere evidenze e pregiudizi aumenta esponenzialmente a tal punto da aver indotto un pool di quattro psicologi americani a mettere nero su bianco una corposa rassegna di falsità, approssimazioni o cliché in cui spesso incorrono non solo i dilettanti della domenica ma talvolta anche gli studenti o addirittura qualche titolato addetto ai lavori. I grandi miti della psicologia popolare assume come bersaglio polemico le cosiddette psicomitologie della divulgazione mediatica, ovvero quella dei manuali di auto-aiuto, delle trasmissioni televisive di massa ma anche del repertorio cinematografico o letterario. Con un’ambizione pressoché esaustiva, il volume articola i cinquanta miti in altrettanti capitoli raggruppati per macro-aree tematiche, quasi a mo’ di manuale. Non limitandosi, però, a evidenziare i fraintendimenti comuni più grossolani, ma entrando anche nel merito – bibliografia sperimentale alla mano – di questioni assai più complesse e controverse tra gli stessi esperti della materia. Così, se da un lato si ammonisce il lettore a non confondere la schizofrenia con il disturbo da personalità multipla, a non coltivare l’illusione che un atteggiamento psicologico positivo possa apportare un contributo sostanziale alla cura del cancro, o che la cosiddetta macchina della verità riesca effettivamente a smascherare chi mente, riguardo ad altri argomenti il libro propone più che clamorose smentite o radicali capovolgimenti di prospettiva, una serie di rettifiche, approfondimenti o parziali aggiustamenti di rotta. Ad esempio, criticando la diffusa convinzione che la catarsi o altre analoghe pratiche di sfogo emotivo possano giovare alla gestione dell’aggressività, corre tuttavia l’obbligo di ammettere che «l’espressione della rabbia è utile solo se è accompagnata da un’attività costruttiva di risoluzione del problema che ha dato origine alla rabbia stessa». O ancora, a proposito delle differenze di approccio cognitivo e comunicativo tra uomo e donna gli autori, confutando il titolo del celebre best-seller di John Gray Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, giungono comunque alla conclusione che «è più probabilmente corretto dire che “gli uomini vengono dal Nord Dakota e le donne dal Sud Dakota”». A riprova del fatto che, ferma restando la lodevole verve smitizzante del volume, in realtà i tanto vituperati “miti” spesso e volentieri non sono altro che «esagerazioni di tesi contenenti un nocciolo di verità».
S. O. Lilienfeld, S. J. Lynn, J. Ruscio, B. L. Beyerstein, I grandi miti della psicologia popolare. Contro i luoghi comuni, Raffaello Cortina, pagg. 373, • 26,00

il Riformista 13.1.12
Paradossi del carcere e della malattia mentale
di Danilo Di Matteo


Gli ospedali psichiatrici, nati con ben altre intenzioni, finirono per somigliare a ghetti e a carceri, spesso per ergastolani. Ecco: og- gi si discute di sovraffollamento dei luoghi di pena, delle condi- zioni disumane nelle quali si trovano i detenuti, dei casi di suicidio che li vedono protagonisti. Sarebbe però opportuno riflettere con maggior lu- cidità sul mondo del disturbo psichiatrico e su quello carcerario.
Si tratta di realtà che viviamo come distanti. Eppure sia la giustizia che i problemi psico(pato)logici riguardano porzioni non piccole del- la popolazione. Non solo: se la psichiatria nacque anche per distinguere i folli dai criminali, una fetta significativa della popolazione reclusa presenta ad esempio disturbi di personalità. E la percentuale tanto ele- vata di tossicodipendenti negli istituti di pena è in sé la spia di un profondo malessere psicofisico. Per non dire del disagio degli agenti della polizia penitenziaria. Il muro di indifferenza che circonda i due mondi rappresenta forse il tentativo di esorcizzare le nostre paure di sempre: il timore di impazzire, ad esempio, quello del degrado, della miseria e della morte, il sospetto nei confronti del diverso, l’angoscia della solitudine e dell’isolamento. E talora, in effetti, i “reietti” insi- diano la nostra sicurezza e persino la nostra integrità fisica. Ma né il ghetto né il mito del territorio riescono a migliorare la situazione: i pro- blemi vengono solo elusi o spostati.
Il paradosso di fondo è un altro: disagio mentale e carcere sono specchio e metafora della nostra realtà quotidiana, eppure vorremmo ignorarli e rimuoverli, quasi a scacciarli dal campo visivo. Un tenta- tivo vano, inutile dirlo, che ci fa vivere tutti peggio.

La Stampa 13.1.12
Quelle signorine che incantavano Flaubert e Picasso
In un saggio di Giuseppe Scaraffia storie di artisti, letterati e prostitute
I bordelli. Quasi tutti gli scrittori furono assidui di tali istituzioni con entusiasmo o con imbarazzo
di Masolino D’Amico


Le ragazze di Avignone Les Demoiselles d’Avignon è uno dei più celebri dipinti di Pablo Picasso, realizzato nel 1907. È conservato al MoMA di New York. Mostra cinque prostitute in un bordello di calle Avignon, a Barcellona

Due cose che hanno in comune Gustave Flaubert, Alphonse Daudet, Lev Tolstoj e Gabriele d’Annunzio? Una, che tutti scrissero romanzi; un’altra, che tutti ebbero la prima esperienza sessuale, tra i tredici e i sedici anni a seconda dei casi, in un bordello. I sunnominati lo fecero di propria iniziativa, o istigati dai compagni; altri loro colleghi di penna vi furono spinti dai genitori, magari, come nel caso di Marcel Proust, senza troppo successo.
Le signore della notte di Giuseppe Scaraffia - sottotitolo, Storia di prostitute, artisti e scrittori - si presenta come una rassegna molto ampia sulla presenza di questo personaggio nella letteratura degli ultimi tre secoli, sia nella pagina sia nella vita personale degli scrittori. Alla meretrice come personaggio è dedicata tutta la seconda parte, che setaccia un materiale quasi sconfinato solo cinque autori, ma tra i sommi, nel Settecento, ma poi più di venti nell’Ottocento, e addirittura più di ottanta nel
Novecento. Nel Settecento campeggiano com’è doveroso Defoe ( Moll Flanders ), Cleland ( Fanny Hill ), e poi Voltaire, Diderot e il divino marchese, i quali tutti diedero vita a memorabili avventuriere e alle loro spregiudicate attività erotiche, mentre il bordello cominciava a diventare un luogo dove ambientare situazioni (a questo proposito si poteva forse aggiungere Richardson e la casa equivoca dove l’aspirante seduttore attira l’inconsapevole protagonista di Clarissa ). Nel secolo seguente sia la maison du plaisir sia le sue inquiline sono frequentati regolarmente dalla narrativa, e gli esempi come dicevo sono molteplici, da Dickens a Flaubert, da Hugo a Dostoevskij, da Zola a Huysmans a Cechov, quasi tutti peraltro quasi dei neofiti davanti all’esperto e insaziabile Maupassant. Nell’epoca moderna poi non c’è quasi autore di fiction che non abbia messo in scena, chi una volta chi addirittura ricorrentemente, dispensatrici dell’amore mercenario, spesso ritraendole nell’ambiente dove queste esercitano. Scaraffia elenca il catalogo con l’impassibilità di un Leporello, e in ordine cronologico, cominciando con Schnitzler, Wedekind e altri nordici trasgressivi e poi continuando tramite, ne cito solo alcuni, Mann, Joyce, Federigo Tozzi, Saint-Exupéry, Orwell, Vittorini, Pavese, Savinio, John fante, Malaparte, Salinger, Koestler, Steinbeck, Updike, Toulouse Lautrec, Picasso, Bassani, Primo Levi, Soldati, Simenon (of course), Vàzquez Montalbàn, Ghaham Greene, James Ellroy, Houellebecq, Coelho... Per ciascuno di questi e molti altri viene data sinteticamente solo una scheda relativa all’eroina in questione, con pochi elementi descrittivi, il che favorisce un’impressione di monotonia (i capelli rossi, relativamente rari tra le persone normali, sembrano invece molto comuni tra questo genere di femmine di romanzo). Ma proprio da tale ripetitività emerge, senza che Scaraffia lo sottolinei più che tanto, una sorta di impaccio dello scrittore davanti alla meretrice come creatura umana, come se la professione bastasse a caratterizzarla e non ci fosse bisogno di troppi altri elementi tranne quelli convenzionali (uno frequente è il fatidico cuor d’oro). Di norma un romanziere non si contenta di farci sapere che una sua creazione è, mettiamo, medico o architetto, ma dopo procede a dotarla di altri attributi. Della puttana però gli basta dirci che è tale. La sua attenzione va solo al di lei aspetto fisico, che può essere repellente (vecchia e patetica, giovane e macilenta) o appetitoso (gran seno).
Il che ci porta alla prima e forse più interessante parte del libro, una serie di brevi ed estrosi capitoli dedicati appunto a mignotte e casini ma autentici, e ovviamente raccontati in lettere, diari o simili). Quasi tutti gli scrittori furono assidui di tali istituzioni, a volte con entusiasmo, a volte con imbarazzo, a volte per curiosità (magari con accompagnatrici camuffate), a volte per necessità fisica. Qui non faccio i nomi, ma Scaraffia non li tace. Il materiale esaminato arriva alla fine del secolo scorso, ma in realtà l’argomento cessa con la chiusura delle case chiuse (scusate la tautologia), dopo la quale le cose continuarono in modo meno ordinato. Con la testa ancora immersa nei suoi narratori, complessati o un po’ troppo ansiosamente proclamanti di non esserlo, Scaraffia conclude domandandosi come mai anche nei nostri tempi permissivi la prostituzione «ispiri un oscuro ribrezzo», e il rapporto sesso-denaro continui a causare disagio. Qui mi frego gli occhi. Ma non vede i media? La escort non è forse diventata, oggi, un modello da ammirare e se possibile imitare? Altro che «Nouvelle lise des plus jolies femmes de Paris», ghiottamente pubblicato alla macchia nel 1891. Provate a andare su Internet.

La Stampa 13.1.12
Art Spiegelman: Il fumetto è come la memoria
Parla l’autore di Maus , in arrivo a Torino, che racconta in un nuovo libro la nascita della sua opera sulla Shoah
di Hillary Chute


MetaMaus è il nuovo libro di Spiegelman, uscito negli Usa a 25 anni di distanza da Maus (in Italia lo pubblicherà in primavera Einaudi): con una serie di vignette, estratti di taccuini, appunti e riflessioni, ricostruisce la nascita del celebre fumetto in cui raccontò la vicenda vera del proprio padre Vladek, internato ad Auschwitz, con gli ebrei raffigurati come topi e i nazisti come gatti. Un dvd allegato al volume raccoglie anche il racconto di Vladek Spiegelman, registrato dal figlio

Verso la fine degli Anni 70, quando aveva già cominciato a lavorare a Maus, Art Spiegelman, iniziando un nuovo taccuino, scriveva in apertura: «Perché un fumetto? ». E la risposta alla sua stessa domanda era: «Forse i fumetti, così popolari, semi-illetterati, disordinati, sono un modo appropriato per dire l’indicibile».
La pensi ancora così, Art?
«Non posso più farlo, perché il mondo è cambiato. Per prima cosa l’indicibile è detto in dieci minuti, e in secondo luogo i fumetti non sono più fumetti di una volta. Sono vecchio abbastanza per ricordare com’erano i fumetti, dominanti nella cultura dei mass media ma del tutto snobbati dalle librerie e dagli studiosi, che ora sono i più grandi alleati del graphic novel odierno. Così l’idea di quel mezzo si è evoluta e ha mutato di significato. Era difficile che avvenisse proprio in quel modo, ma ciò che ho iniziato a pensare più recentemente è: dopotutto Dante ha tratto l’italiano dal latino, i fumetti sono un linguaggio vernacolare».
Ora, per farti un’altra domanda più formale sui fumetti, in passato hai spesso parlato della relazione tra i fumetti e la memoria, dicendo anche che il fumetto è il mezzo perfetto per descrivere la memoria. Vogliamo approfondire?
«Certo, lo credo ancora. Non sempre concordo con me stesso, ma questo rimane centrale. Sai, se si pensa a una striscia a tre vignette, così come appariva sui quotidiani (che riposino in pace), ebbene, le vignette appaiono tutte insieme e prima di decodificarle uno le ha già viste tutti, perché sono in un unico spazio. Ma questo implica un passato, un presente e un futuro, che le tre vignette rappresentano in sequenza ma che sono tutte presenti allo stesso tempo. Ma il lettore può spaziare, saltando da una all’altra, leggendo prima una e poi l’altra. Questa è una vera mappa del tempo e inserisce la storia in un alternarsi di sequenze tra passato e presente: io posso vedere la vicenda globalmente prima di andare a cercare la parte del ricordo».
una particolare pagina di Maus che a me pare illuminante sul tema della memoria. È quella che racconta di tuo padre che dice di non ricordare un’orchestra ad Auschwitz e tu rispondi: non so, ma è tutto molto ben documentato. Potresti parlarci un po’ del tuo approccio a quella pagina?
«Ok, quella è una pagina che io sapevo di dover mettere da qualche parte nel libro, anche se non sapevo bene dove e come. Ma l’avevo in mente anni prima di disegnarla. A proposito, vorrei fare un inciso per dire che a volte sono molto diffidente verso gli accademici, ma il motivo per cui ho permesso a Hillary di entrare nella mia vita è stato leggere uno dei suoi primi scritti in cui, benché fosse solo una studentessa appena diplomata in letteratura, dimostrava di saper guardare alle cose in modo differente, senza usare un linguaggio in codice, e così era in grado di cogliere aspetti visivi in Maus che di solito sfuggivano alla gente che leggeva avidamente il mio racconto».
Grazie per questo complimento non previsto.
«Ma qui era necessario cercare di spiegare un rapporto tra me - che in quel caso ero l’intervistatore, la persona che stava creando e dando forma al libro - e mio padre, e il punto era che il ricordo è impreciso e parziale, perché è così che lavora la memoria. E avevo la necessità di usare con mio padre un argomento in qualche modo visivo per mostrargli come avviene, ed ecco, qui è scritto [mostra la striscia su uno schermo, ndr] “Ogni giorno, marciavo per andare al lavoro sperando di vedere di nuovo Mancie, era possibile che avesse notizie di Anna”, e si vede il flusso dei prigionieri che passa davanti all’orchestra, poi, passando al presente [indica la vignetta successiva, ndr], “Ho appena letto dell’orchestra da campo che suonava mentre voi uscivate dal cancello a passo di marcia", “Un’orchestra? " ribatte il padre. E poi, nella vignetta seguente: “No, non ricordo nessuna orchestra, solo che marciavamo. Dal cancello le guardie ci portavano al laboratorio. Come avrebbe potuto esserci un’orchestra? ”. “Non lo so, ma è molto ben documentato”. “No, al cancello io sentivo solo le urla delle guardie”. Così, questa era una situazione ben documentata, e quindi c’era un luogo in cui la cosa poteva essere contestualizzata.
«Quindi, nel primo quadro si vede l’orchestra nel suo insieme, per come ho capito, e questo esprime la mia opinione, poi si vedono i prigionieri che avanzano e nascondono l’orchestra, e questo in omaggio ai ricordi di mio padre, però mostro la cima di un violoncello, un paio di strumenti, come a dire, ehi lì c’era davvero un’orchestra, e poi ho fatto in modo che sullo sfondo la struttura degli assi di legno apparisse come un pentagramma. Ma questo non l’ha notato nessuno, tranne tu e io. E poi la marcia continua, fino alla vignetta successiva. E ciò porta a questo scontro di opinioni sulla memoria perduta, anche se ho capito che poteva essere semplicemente fuorviata quando, sempre a quel tempo, ho iniziato a studiare dove Vladek andava a lavorare: non doveva passare necessariamente dal cancello principale, poteva essere un cancello secondario per andare al laboratorio e in tal caso non sarebbe passato davanti all’orchestra. E quando è stato portato al campo non è arrivato con il treno, da dove si vedeva l’orchestra, ma su un camion, con appena una ventina di persone, la notte che venne arrestato.
«Così, è di certo possibile che non abbia mai visto nulla dell’orchestra, una bella combinazione. Ma io avevo necessità di avere quell’argomento, perché dovevo chiarire che stavo creando quell’opera. E una delle cose di cui sono grato a questo Meta-Maus è che tutto il libro è visto attraverso questo dvd che lo approfondisce e che permette, tra molte altre cose, di ascoltare le registrazioni delle conversazioni con mio padre e di sentirne la voce e ascoltare da lui la verità. E se io non posso togliere una volta per tutte la mia maschera da topo, lui può farlo e raccontare la storia con un’eloquenza che rappresenta la sua versione».
Copyright 92y Traduzione di Carla Reschia