ANSA 09.05.2017
Uomini e ominidi si "incontrarono" 200mila anni fa
Scoperti nuovi scheletri Homo Naledi, sapeva fabbricare utensili Ominidi e umani probabilmente si sono 'incontrati'. Nello stesso periodo in cui circolava l'Homo Sapiens, circa 200.000 anni fa, anche l'Homo Naledi, l'antenato dell'uomo scoperto nel 2015, muoveva i suoi passi, mostrandosi capace di camminare, fabbricare utensili e avere comportamenti 'umani', pur non essendolo. Lo dimostrano gli scheletri scoperti in Sudafrica, descritti sulla rivista Elife dal gruppo guidato da Lee Berger, dell'università sudafricana di Witwatersrand. Nel labirinto sotterraneo della caverna Rising Star, la stessa dove sono stati trovati i resti del primo Homo Naledi, è stata infatti scoperta una seconda camera con i resti di un bambino di circa cinque anni e due adulti, di cui un maschio, con il cranio ben preservato. Fossili che sono stati datati in un periodo compreso tra 335 e 236.000 mila anni fa, cioè nello stesso posto ed epoca in cui è vissuto anche l'Homo Sapiens, circa 200.000 anni fa. È la prima volta che si dimostra che un'altra specie di ominide è riuscita a sopravvivere insieme ai primi esseri umani in Africa. La struttura delle mani dell'H. Naledi mostra che deve essere stato in grado di fabbricare utensili. "Questa specie di ominide è vissuta in un'epoca a cui risalgono molti strumenti trovati in Africa dell'Età della pietra. Il che implica che non possono essere stati solo i sapiens a farli", commenta Paul Dirk, uno dei 'papà' dell'H. Naledi. Questi nuovi esemplari sono stati trovati inoltre nella camera Lesedi, difficile da raggiungere (per arrivarci bisognava gattonare, arrampicarsi e schiacciarsi), e lontana 100 metri da quella con i fossili del 'primo' H. Naledi. Il che ha fatto pensare che questi volesse nascondere i suoi morti nell'oscurità, un comportamento che suggerisce una grande intelligenza e cura, in qualche modo 'umano'. Lo scheletro del maschio adulto, chiamato 'Neo', "è uno dei più completi mai scoperti, più anche di quello di Lucy", spiega Berger. Oltre alla testa, sono state trovate anche una clavicola completa e un femore quasi intero, che aiutano a calcolare dimensioni e statura di questo ominide, capace di camminare e arrampicarsi.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 13 maggio 2017
ANSA 12.05.2017
Con disturbi mentali il cuore è piu' a rischio
Soprattutto se sono affiancati ad obesità o sovrappeso
I pazienti che soffrono di gravi malattie mentali quali schizofrenia, disturbo bipolare e disturbo depressivo maggiore sembrano essere maggiormente esposte al rischio di malattia cardiovascolare. Sono i risultati dello studio condotto da un team di ricercatori dell'Università di Padova e di diversi Paesi (USA, Brasile, Gran Bretagna, Australia, Belgio) basato su una analisi su larga scala condotta su oltre 3 milioni di pazienti confrontati con 110 milioni di controlli per un totale di 92 studi. "Lo studio - spiega il dott. Marco Solmi, del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Padova, primo nome della ricerca insieme al prof. Correll - è stato condotto con la metodologia della meta-analisi su quasi 100 studi pubblicati che hanno fornito dati su un vasto campione di pazienti dell'età media di circa 50 anni osservati per un periodo di 8,4 anni. Nell'arco di questo tempo ben il 3,6% dei pazienti con malattia mentale grave (Smi) sviluppa una malattia coronarica, soprattutto se la Smi è affiancata da altri fattori di rischio come l'obesità o il sovrappeso". Dal lavoro molto accurato del team internazionale che ha esaminato popolazioni differenti di pazienti con SMI per un periodo di oltre 8 anni è emerso chiaramente un aumento del rischio di sviluppare una malattia coronarica del 54%, problemi cerebrovascolari del 64%, uno scompenso cardiaco del 110% fino ad arrivare a un aumento del rischio di morte legata a problemi cardiovascolari dell'85%.
Con disturbi mentali il cuore è piu' a rischio
Soprattutto se sono affiancati ad obesità o sovrappeso
I pazienti che soffrono di gravi malattie mentali quali schizofrenia, disturbo bipolare e disturbo depressivo maggiore sembrano essere maggiormente esposte al rischio di malattia cardiovascolare. Sono i risultati dello studio condotto da un team di ricercatori dell'Università di Padova e di diversi Paesi (USA, Brasile, Gran Bretagna, Australia, Belgio) basato su una analisi su larga scala condotta su oltre 3 milioni di pazienti confrontati con 110 milioni di controlli per un totale di 92 studi. "Lo studio - spiega il dott. Marco Solmi, del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Padova, primo nome della ricerca insieme al prof. Correll - è stato condotto con la metodologia della meta-analisi su quasi 100 studi pubblicati che hanno fornito dati su un vasto campione di pazienti dell'età media di circa 50 anni osservati per un periodo di 8,4 anni. Nell'arco di questo tempo ben il 3,6% dei pazienti con malattia mentale grave (Smi) sviluppa una malattia coronarica, soprattutto se la Smi è affiancata da altri fattori di rischio come l'obesità o il sovrappeso". Dal lavoro molto accurato del team internazionale che ha esaminato popolazioni differenti di pazienti con SMI per un periodo di oltre 8 anni è emerso chiaramente un aumento del rischio di sviluppare una malattia coronarica del 54%, problemi cerebrovascolari del 64%, uno scompenso cardiaco del 110% fino ad arrivare a un aumento del rischio di morte legata a problemi cardiovascolari dell'85%.
WIRED.IT 12.05.2017
L'Homo naledi era un nostro contemporaneo
La specie di ominide scoperta di recente in Sudafrica continua a stupire gli antropologi: è relativamente giovane e costringe, almeno in parte, a rivedere il modo in cui pensiamo all'evoluzione umana. Perché?
di Anna Lisa Bonfranceschi
È un parente speciale e il suo arrivo in famiglia, annunciato neanche due anni fa, era stato salutato come uno dei più grandi eventi del secolo nel campo dell'antropologia. Homo naledi, in effetti, ha da subito catalizzato l'attenzione degli antropologi da tutto il mondo, per quel misto di caratteristiche primitive e moderne che lo rendono unico. Ma prima ancora per l'enorme quantità di resti rinvenuti. Resti che sono ancora di più di quel che si credeva. Sulle pagine di eLife, infatti, oggi arrivano una serie di paper che annunciano il ritrovamento di altri fossili di Homo naledi – tra cui un cranio praticamente completo – in una camera (quella di Lesedi) diversa da quella che ha ribattezzato la specie (Dinaledi Chamber), sempre all'interno del labirintico sistema di grotte di Rising Star, presso la Culla dell'Umanità (Cradle of Humankind), in Sudafrica. Già questa di per sé è una notizia: rinvenire una grande quantità di resti fossili di ominidi non è un fatto comune. Ma c'è di più. Il team di Lee R. Berger della University of the Witwatersran, che firma altri due paper su eLife, è riuscito a datare anche la specie di Homo naledi. Nel 2015 l'età dei fossili della nuova specie era tutt'altro che chiara: sarebbe potuta risalire a oltre due milioni di anni fa come a centomila anni fa. Un arco temporale troppo grande per capire appieno il significato della scoperta. Oggi però sappiamo che Homo naledi risale a circa 200 mila anni fa (tra i 335 mila e i 236 mila anni fa). Un periodo importante nella storia dell'evoluzione umana, lo stesso in cui si sarebbero cominciati ad affermarsi, tra gli altri, gli antenati della nostra specie, gli uomini moderni Homo sapiens. In sostanza, con naledi siamo stati, almeno per un periodo della nostra storia evolutiva, contemporanei. Un dato che, secondo i ricercatori, porta a riconsiderare la storia dell'evoluzione degli ominidi. Perché? Lo abbiamo chiesto a Damiano Marchi, paleoantropologo del all'Università di Pisa, tra gli scienziati che hanno partecipato alla scoperta della nuova specie di ominide e autore, per Mondadori, de "Il mistero di Homo naledi".
Professor Marchi, perché i reperti di Homo naledi vanno considerati straordinari?
"I motivi sono diversi. In primo luogo l'eccezionale quantità di reperti che sono stati rinvenuti [John Hawks della University of Wisconsin-Madison, tra gli antropologi a capo degli studi, parla di circa 2000 campioni, nda]. Una ricchezza simile è stata rinvenuta solo presso una zona del sito archeologico di Atapuerca, in Spagna, dove però i resti sembrano essersi accumulati per caduta all'interno di una sorta di pozzo. In questo caso invece, l'accumulo di resti fossili sembra essere intenzionale, lasciando intendere abilità cognitive in qualche modo moderne per questa specie. Inoltre la straordinarietà dei reperti risiede anche nel fatto che abbiamo praticamente tutte le parte anatomiche del corpo di questa specie, con rappresentanti di diversa età, maschi e femmine. Una ricchezza che ci permette di tracciare con un buon grado di dettaglio le caratteristiche anatomiche e non solo di Homo naledi, scoprendo che si trattava di una specie molto omogenea, con poche variabilità inter-individuali e anche tra maschi e femmine".
Homo naledi va considerata una specie più moderna o più primitiva?
Uno degli aspetti più peculiari di questa specie è la presenza in contemporanea di caratteristiche tipicamente primitive con altre più moderne. Per esempio: il cervello era piccolo, con un volume di 500 centimetri cubici, una grandezza paragonabile a quella di un gorilla o della australopitecine sebbene con una morfologia moderna. Anche il torace, le dita curve della mano, il bacino, la forma delle spalle erano alquanto primitive, adatte a una specie abituata ad arrampicarsi. Eppure, allo stesso tempo, i polsi mostrano caratteristiche moderne che lasciano pensare – anche se non ne sono stati trovati – che Homo naledi utilizzasse utensili. Questo ominide aveva inoltre denti piccoli, a suggerire che probabilmente consumasse cibo processato, cotto. Le gambe sono snelle, adatte a camminare in posizione eretta per lunghe distanze. Quindi nel complesso Homo naledi non è né una specie strettamente moderna né primitiva". Gli ultimi dati però sembrano suggerire che Homo naledi fosse moderno, almeno da un punto di vista cronologico. Cosa significa?
“Sì, i dati pubblicati da Berger e colleghi collocano questa specie più o meno in contemporanea alla comparsa dell'Homo sapiens, grazie alla datazione dei sedimenti intorno ai fossili e dei denti dell'ominide. Questo significa che, circa nella stessa zona geografica erano presenti specie del genere Homo con caratteristiche molto diverse tra loro: da una parte quelli più moderni, come i primi sapiens, dall'altra individui come Homo naledi. Questo ci obbliga in parte a rivedere le dinamiche evolutive del genere Homo: tradizionalmente siamo abituati a considerare alcune delle caratteristiche che ci rendono umani moderni – come l'abbandono della vita arboricola, l'aumento della statura, l'adattamento alle lunghe camminate – come corollari rispetto all'aumento delle dimensioni cerebrali. Dovremmo ricordare sempre l'evoluzione del genere Homo come una storia a più rami: una direzione è stata quella marcata dal grande cervello, un'altra quella tracciata da specie come naledi, più primitive, ma con altre caratteristiche moderne non necessariamente corollari di un grande cervello".
Possiamo fare delle ipotesi sulle capacità intellettive di questa specie?
"La collocazione dei resti, in luoghi remoti, abbastanza difficili da raggiungere, suggerisce che la loro deposizione fosse intenzionale. Non stiamo affermando che Homo naledi avesse dei rituali funerari, ma che probabilmente deponesse i morti lontano dai luoghi dove si trovavano i vivi. Forse perché avevano capito che i resti a lungo andare avrebbero cominciato a marcire, puzzare, attirare i predatori. Un comportamento del genere – non veri e e propri rituali funerari – sarebbe stato plausibile anche per una specie con un cervello così piccolo come quello di Homo naledi. D'altronde, basta guardare agli scimpanzé, che hanno un cervello ancora più piccolo e che hanno fatto loro il concetto della morte come qualcosa di irreversibile. In quest'ottica, un cervello piccolo come quello di Homo naledi non è una limitazione a credere che i rappresentanti di questa specie deponessero i morti in luoghi lontani da quelli dei vivi".
L'Homo naledi era un nostro contemporaneo
La specie di ominide scoperta di recente in Sudafrica continua a stupire gli antropologi: è relativamente giovane e costringe, almeno in parte, a rivedere il modo in cui pensiamo all'evoluzione umana. Perché?
di Anna Lisa Bonfranceschi
È un parente speciale e il suo arrivo in famiglia, annunciato neanche due anni fa, era stato salutato come uno dei più grandi eventi del secolo nel campo dell'antropologia. Homo naledi, in effetti, ha da subito catalizzato l'attenzione degli antropologi da tutto il mondo, per quel misto di caratteristiche primitive e moderne che lo rendono unico. Ma prima ancora per l'enorme quantità di resti rinvenuti. Resti che sono ancora di più di quel che si credeva. Sulle pagine di eLife, infatti, oggi arrivano una serie di paper che annunciano il ritrovamento di altri fossili di Homo naledi – tra cui un cranio praticamente completo – in una camera (quella di Lesedi) diversa da quella che ha ribattezzato la specie (Dinaledi Chamber), sempre all'interno del labirintico sistema di grotte di Rising Star, presso la Culla dell'Umanità (Cradle of Humankind), in Sudafrica. Già questa di per sé è una notizia: rinvenire una grande quantità di resti fossili di ominidi non è un fatto comune. Ma c'è di più. Il team di Lee R. Berger della University of the Witwatersran, che firma altri due paper su eLife, è riuscito a datare anche la specie di Homo naledi. Nel 2015 l'età dei fossili della nuova specie era tutt'altro che chiara: sarebbe potuta risalire a oltre due milioni di anni fa come a centomila anni fa. Un arco temporale troppo grande per capire appieno il significato della scoperta. Oggi però sappiamo che Homo naledi risale a circa 200 mila anni fa (tra i 335 mila e i 236 mila anni fa). Un periodo importante nella storia dell'evoluzione umana, lo stesso in cui si sarebbero cominciati ad affermarsi, tra gli altri, gli antenati della nostra specie, gli uomini moderni Homo sapiens. In sostanza, con naledi siamo stati, almeno per un periodo della nostra storia evolutiva, contemporanei. Un dato che, secondo i ricercatori, porta a riconsiderare la storia dell'evoluzione degli ominidi. Perché? Lo abbiamo chiesto a Damiano Marchi, paleoantropologo del all'Università di Pisa, tra gli scienziati che hanno partecipato alla scoperta della nuova specie di ominide e autore, per Mondadori, de "Il mistero di Homo naledi".
Professor Marchi, perché i reperti di Homo naledi vanno considerati straordinari?
"I motivi sono diversi. In primo luogo l'eccezionale quantità di reperti che sono stati rinvenuti [John Hawks della University of Wisconsin-Madison, tra gli antropologi a capo degli studi, parla di circa 2000 campioni, nda]. Una ricchezza simile è stata rinvenuta solo presso una zona del sito archeologico di Atapuerca, in Spagna, dove però i resti sembrano essersi accumulati per caduta all'interno di una sorta di pozzo. In questo caso invece, l'accumulo di resti fossili sembra essere intenzionale, lasciando intendere abilità cognitive in qualche modo moderne per questa specie. Inoltre la straordinarietà dei reperti risiede anche nel fatto che abbiamo praticamente tutte le parte anatomiche del corpo di questa specie, con rappresentanti di diversa età, maschi e femmine. Una ricchezza che ci permette di tracciare con un buon grado di dettaglio le caratteristiche anatomiche e non solo di Homo naledi, scoprendo che si trattava di una specie molto omogenea, con poche variabilità inter-individuali e anche tra maschi e femmine".
Homo naledi va considerata una specie più moderna o più primitiva?
Uno degli aspetti più peculiari di questa specie è la presenza in contemporanea di caratteristiche tipicamente primitive con altre più moderne. Per esempio: il cervello era piccolo, con un volume di 500 centimetri cubici, una grandezza paragonabile a quella di un gorilla o della australopitecine sebbene con una morfologia moderna. Anche il torace, le dita curve della mano, il bacino, la forma delle spalle erano alquanto primitive, adatte a una specie abituata ad arrampicarsi. Eppure, allo stesso tempo, i polsi mostrano caratteristiche moderne che lasciano pensare – anche se non ne sono stati trovati – che Homo naledi utilizzasse utensili. Questo ominide aveva inoltre denti piccoli, a suggerire che probabilmente consumasse cibo processato, cotto. Le gambe sono snelle, adatte a camminare in posizione eretta per lunghe distanze. Quindi nel complesso Homo naledi non è né una specie strettamente moderna né primitiva". Gli ultimi dati però sembrano suggerire che Homo naledi fosse moderno, almeno da un punto di vista cronologico. Cosa significa?
“Sì, i dati pubblicati da Berger e colleghi collocano questa specie più o meno in contemporanea alla comparsa dell'Homo sapiens, grazie alla datazione dei sedimenti intorno ai fossili e dei denti dell'ominide. Questo significa che, circa nella stessa zona geografica erano presenti specie del genere Homo con caratteristiche molto diverse tra loro: da una parte quelli più moderni, come i primi sapiens, dall'altra individui come Homo naledi. Questo ci obbliga in parte a rivedere le dinamiche evolutive del genere Homo: tradizionalmente siamo abituati a considerare alcune delle caratteristiche che ci rendono umani moderni – come l'abbandono della vita arboricola, l'aumento della statura, l'adattamento alle lunghe camminate – come corollari rispetto all'aumento delle dimensioni cerebrali. Dovremmo ricordare sempre l'evoluzione del genere Homo come una storia a più rami: una direzione è stata quella marcata dal grande cervello, un'altra quella tracciata da specie come naledi, più primitive, ma con altre caratteristiche moderne non necessariamente corollari di un grande cervello".
Possiamo fare delle ipotesi sulle capacità intellettive di questa specie?
"La collocazione dei resti, in luoghi remoti, abbastanza difficili da raggiungere, suggerisce che la loro deposizione fosse intenzionale. Non stiamo affermando che Homo naledi avesse dei rituali funerari, ma che probabilmente deponesse i morti lontano dai luoghi dove si trovavano i vivi. Forse perché avevano capito che i resti a lungo andare avrebbero cominciato a marcire, puzzare, attirare i predatori. Un comportamento del genere – non veri e e propri rituali funerari – sarebbe stato plausibile anche per una specie con un cervello così piccolo come quello di Homo naledi. D'altronde, basta guardare agli scimpanzé, che hanno un cervello ancora più piccolo e che hanno fatto loro il concetto della morte come qualcosa di irreversibile. In quest'ottica, un cervello piccolo come quello di Homo naledi non è una limitazione a credere che i rappresentanti di questa specie deponessero i morti in luoghi lontani da quelli dei vivi".
La Stampa 13.5.17
Offensiva M5S contro Boschi
Pd in ansia per i sondaggi
Fico scrive a Boldrini: Gentiloni chiarisca in aula. Sarà presentata anche in Senato la mozione di censura contro la sottosegretaria, ma i bersaniani incerti se votarla
di Carlo Bertini Ilario Lombardo
Le banche. Ancora, loro. Per il M5S l’arma più potente contro Matteo Renzi, il cosiddetto “giglio magico”, e da ultimo il governo. In vista ci sono le elezioni amministrative tra meno di un mese, con i grillini in forte difficoltà, soprattutto nelle due principali città al voto, Genova e Palermo. Serviva qualcosa per rilanciare l’assalto al fortino renziano. Le rivelazioni dell’ex direttore del Corriere Ferruccio De Bortoli sono state tempestive. Come annunciato, il capogruppo grillino Roberto Fico ha inviato una lettera alla presidente della Camera Laura Boldrini per chiedere la calendarizzazione urgente del voto sulla commissione d’inchiesta sul sistema bancario e che il premier Paolo Gentiloni venga a riferire in aula sul caso Boschi. «Ed è anche pronta la mozione di censura per far sì che Boschi vada a casa, come del resto aveva promesso agli italiani prima del referendum». Non solo. L’ala più movimentista del M5S guidata da Fico non sta digerendo l’eccessiva disponibilità a trattare col Pd sulla legge elettorale del fronte governativo di Luigi Di Maio: e così ha proposto e ottenuto obtorto collo di lanciare una mozione di sfiducia al ministro Pier Carlo Padoan per la nomina di Alessandro Profumo, ex presidente Mps, al vertice di Leonardo-Finmeccanica.
Ma sarà comunque una capigruppo a decidere quando la mozione verrà calendarizzata, perché intanto va deciso quando verrà chiamato il governo in aula per l’informativa. Solo dopo verrà depositata la mozione, prima alla Camera e poi al Senato fanno sapere i grillini. Per il governo è chiaro che non c’è fretta, ieri in consiglio dei ministri non si è fatto cenno alla questione, neanche una parola. Boschi è apparsa tranquilla, ha spiegato i decreti legislativi sul lavoro senza mostrarsi in ansia.
È il Pd invece che aspetta con ansia i sondaggi che escono il lunedì: per vedere se il caso ha avuto qualche riflesso. Le ultime rilevazioni dopo le primarie avevano infatti registrato un rialzo dei consensi, con un sorpasso sui grillini di tre punti secondo Swg. L’ultimo sondaggio Ixè mostra un recupero del Pd, ma lo dà sempre sotto i 5stelle, con Renzi che però guadagna tre punti nell’indice di fiducia dei leader rispetto al mese precedente, salendo al 28%, seguito da Luigi Di Maio con il 22%.
Dunque per tenere alta la china i Dem sperano che il caso si sgonfi e si cullano nell’illusione-speranza che i 5Stelle non si accaniscano in Senato chiedendo un voto sull’esecutivo che potrebbe risultare insidioso. Gli uomini di Bersani sono piuttosto agguerriti nelle dichiarazioni sulla vicenda, ma per ora non si scagliano con particolare vigore contro il governo. «Noi abbiamo una posizione dura, ma formalmente non abbiamo attivato nessuna procedura parlamentare», conferma il senatore Fornaro. «Siamo ancora in attesa di chiarimenti, ad oggi Ghizzoni non smentisce nulla, la Boschi non può limitarsi a dire querelo: il Parlamento è il luogo dove un esponente del governo chiarisce, poi se uno esce convinto da cosa dice, è da vedere». Quindi i bersaniani, dopo che il loro leader aveva evocato le dimissioni di Boschi in assenza di un chiarimento, non si sbilanciano ancora sul voto della mozione grillina.
La Stampa 13.5.17
Serracchiani, frase choc sullo stupro
“Più grave se lo commette un profugo”
Fuoco incrociato sulla governatrice Pd. Lei replica: “Chi è accolto non tradisca la fiducia” Imbarazzo tra i democratici. Mattarella: sui migranti serve responsabilità e intelligenza
di Ugo Magri
Lo stupro è davvero più grave se a commetterlo è un profugo, accolto come un fratello? Debora Serracchiani, presidente «dem» del Friuli Venezia Giulia, è convinta di sì, tradire la fiducia costituisce senz’altro un’aggravante. E nonostante il putiferio che si è scatenato sui social, anzi a dispetto del diluvio di insulti ricevuti da tutti gli schieramenti politici, soprattutto da sinistra ma addirittura da Salvini, ha tenuto il punto fino in fondo. Alimentando così il dubbio che non si sia trattato di un lapsus, e l’esponente renziana (è stata vicesegretaria Pd) abbia studiatamente deciso di mettere le vele al vento di certi umori così diffusi nei confronti degli immigrati. Nel qual caso gli sdegni sopra le righe, anziché danneggiarla sul piano elettorale, finirebbero per darle scioccamente una spinta in vista delle Regionali che si terranno nel 2018. Ma sono solo dietrologie: lei giura di essere stata fraintesa. Ha trascorso l’intera giornata a chiarire che lo stupro è grave sempre, perfino se l’autore fosse un nostro compatriota.
Graduatoria fuori luogo
Tuttavia l’attenzione collettiva si è appuntata sul testo della dichiarazione resa l’altro ieri, dopo il tentativo di stupro commesso a Trieste da un richiedente asilo iracheno. Ed è stato lì che la Serracchiani s’è impiccata con le sue stesse parole. Argomentando che la violenza contro le donne è «un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro paese». Tra i più lesti a insorgere il giornalista e scrittore Roberto Saviano. Sarcastico: «Salvini saluta l’ingresso di Serracchiani nella Lega. Spero che la candidi lui». Solo che Matteo non la vuole nemmeno in fotografia perché «lei e il Pd sono complici di questa invasione»: chiaro l’obiettivo di difendere il suo recinto e di screditarla agli occhi dei lepenisti (della serie, non vi fate abbindolare da questa finta conversione). Per Roberto Fico, grillino, Debora si è espressa in maniera «razzista». Più indulgente (ma di poco) il sindaco milanese Giuseppe Sala: «Quella frase le è scappata». Orripilati i 9 consiglieri Pd a Palazzo Marino: «parole inaccettabili». Letteralmente infuriati quelli di Mpd, in gara tra loro nella condanna, e di Sinistra Italiana («Si vergogni»). E perfino dalle donne di Forza Italia si sono levate espressioni colme di biasimo.
L’auspicio di Mattarella
Praticamente nessuno (nemmeno la Serracchiani) ha sfiorato il tasto che maggiormente interessa a chi sta dalla parte dei profughi: la legalità come premessa dell’accoglienza. Pretendere una buona condotta da quanti ricevono aiuto non è di destra né di sinistra, ma semplicemente una regola di civiltà. L’unica voce a ricordare il concetto è rimbalzata dal Sud America. Interpellato dai cronisti a Montevideo, Sergio Mattarella ha segnalato che «il fenomeno dei migranti va governato con senso di responsabilità, con saggezza ma anche con intelligenza». Anche, e forse soprattutto.
La Stampa 13.5.17
Danese, biondo e con gli occhi azzurri
Così abbiamo comprato un papà su misura
Le banche del seme spediscono a domicilio il kit per l’inseminazione fai da te I prezzi: da 300 euro a 12 mila, dipende dal donatore. Ordini in crescita dall’Italia
di Gabriele Martini
Il sogno di diventare madre è racchiuso in una scatola di cartone che arriva dalla Danimarca. Dentro ci sono un contenitore di polistirolo pieno di ghiaccio secco, una fiala di sperma, una siringa e il libretto con le istruzioni per l’inseminazione artificiale fai da te.
Si ordina online e si riceve a casa, poi s’incrociano le dita. Nessuna visita, nessuna clinica, nessuna degenza. E - va da sé - nessun risultato garantito.
Ma tante speranze, almeno a giudicare dalle 500 italiane che nel 2016 si sono rivolte a Cryos International, una delle più grandi banche del seme al mondo nonché la prima a fornire il servizio che non richiede assistenza medica.
In Italia, a oltre tre anni dalla sentenza della Consulta che cancellò il divieto di fecondazione eterologa, solo tre Regioni (Toscana, Emilia e Friuli) forniscono la procreazione assistita con seme e ovociti estranei alla coppia. Due mesi fa l’eterologa è stata inserita nei nuovi «Livelli essenziali di assistenza», cioè il minimo comun denominatore delle prestazioni sanitarie. Significa che le Regioni dovranno attrezzarsi. Ma i problemi restano: carenza di fondi, lungaggini burocratiche e resistenze politiche. L’eterologa, inoltre, è consentita solo a coppie eterosessuali sposate o conviventi. Su Internet invece non ci sono vincoli: bastano un computer, qualche centinaia di euro e un po’ di pazienza. Il primo passo per le aspiranti madri è scegliere il donatore.
La voce del donatore
Navigando sul sito di Cryos, l’impressione è quella di essere su Amazon: con un clic si seleziona la razza, con un altro il colore degli occhi, la tinta dei capelli, il gruppo sanguigno. E poi altezza, peso e professione. Fin qui le informazioni di base. Pagando un costo extra si aprono però le porte dei cosiddetti profili «estesi». Alle caratteristiche estetiche si aggiungono informazioni sul carattere, la vita e la famiglia. Per ogni donatore il sito consente di passare al setaccio il percorso di studi, le foto di quando era bambino, hobby, aspirazioni e tratti della personalità. Poi ci sono il testo motivazionale scritto a mano che consente di valutare linguaggio e grafia, l’albero genealogico per indagare storie e longevità degli antenati e anche una registrazione audio per poterne apprezzare il timbro di voce. I donatori attualmente a catalogo sono 779. La quasi totalità (722) sono di razza «caucasica» e questo conferma anche il target dei compratori, tendenzialmente europei. «I nostri clienti cercano persone affini a loro sia fisicamente che a livello professionale», racconta il direttore della Cryos International, Ole Schou. «In un certo senso siamo simili a un club per appuntamenti. Le persone si incontrano, si conoscono e si scelgono. Proprio come avviene nella vita reale».
Consegna a domicilio
Scegliamo il seme del donatore numero 5388. Razza «caucasica», occhi blu, capelli biondi, 192 centimetri di altezza e 92 chilogrammi di peso. Il gruppo sanguigno è 0+, tutte le analisi mediche (dal test dell’Hiv a quello per la sifilide) negative. Non ci sono invece informazioni su carattere, hobby e propensioni. E nemmeno foto, voce né albero genealogico. Conosciamo però l’occupazione del donatore: ingegnere elettrico. Il prezzo del suo seme parte da 37 euro a fiala. A questi si aggiungono 174 euro per la spedizione e l’Iva al 25%, per un totale di 263,75 euro. Appena inviata la richiesta però la responsabile degli ordini per l’Italia, Katrine Falgaard, ci contatta per metterci in guardia e spiegarci che le quantità ordinate (0,4 ml) non sono sufficienti per il fai da te (il listino online è lo stesso utilizzato dalle cliniche per i trattamenti tradizionali). Ci invita quindi ad acquistare almeno 1 ml di seme e soprattutto ci consiglia di scegliere una motilità (l’indice che misura l’attività degli spermatozoi) più alta per aumentare la possibilità di successo, anche perché l’inseminazione in versione casalinga ha percentuali di riuscita inferiori rispetto alle tecniche utilizzate nei centri di procreazione medicalmente assistita. Da 263,50 euro il prezzo balza così a 477. Ma una fiala può arrivare anche a superare i 1600 euro (Iva esclusa) a seconda del profilo del donatore. Fino ai 12 mila richiesti per un «padre» in esclusiva. Scegliamo l’opzione low cost: l’ordine va a buon fine, non resta che attendere il pacco.
Dopo due giorni la confezione arriva via posta e contiene tutto il necessario per procedere all’istante. Le istruzioni, scritte in italiano, sono poche e semplici. Dieci minuti per lo scongelamento del seme, un taglio netto per aprire la fiala, un adattatore per riempire la siringa. A quel punto, recita il libretto, basta «inserirla in profondità dentro la vagina, il più possibile vicino all’ingresso della cervice, poi rilassarsi e iniettare il seme delicatamente e lentamente». Infine si consiglia di «lasciare la siringa per alcuni secondi, quindi rimuoverla lentamente e mantenere la posizione per i successivi 30 minuti».
Boom di richieste
Ma l’inseminazione fai da te è sicura? «Non è pericolosa. Però è una pratica desueta, che non viene più usata nel mondo scientifico. Le probabilità di successo sono più basse di quelle delle tecniche più moderne», spiega Elisabetta Coccia, direttrice del centro di procreazione assistita dell’ospedale Careggi di Firenze. Le spedizioni dalla banca del seme verso l’Italia sono in costante aumento anche se il mercato non è paragonabile a quello internazionale, che conta tra i 50 e i 100 ordini giornalieri. E per diventare donatori? Bisogna sottoporsi a esami medici, ma soprattutto garantire la disponibilità a recarsi almeno una volta alla settimana presso i laboratori dell’azienda ad Aarhus (città danese della penisola dello Jutland) per effettuare le donazioni. Non sono previsti pagamenti, ma solo un rimborso spese di 33 euro a seduta. «La loro è una vocazione». Nessuno, ci tengono a precisare da Cryos, «lo fa per soldi».
Corriere 13.5.17
Una (nuova) via della Seta per la Cina potenza globale
di Guido Santevecchi
Nella nostra memoria è un mito: la Via della Seta che ci riporta a Marco Polo. Ora, l’antica rotta delle carovane che dalla Cina arrivavano in Europa attraversando l’Asia e il Vicino Oriente è al centro del piano di diplomazia economica più ambizioso di Pechino. Si chiama «Una cintura una strada» ed è l’iniziativa di Xi Jinping per costruire una rete globale di infrastrutture lungo le quali far scorrere i commerci (cinesi anzitutto).
I progetti prevedono investimenti internazionali per 900 miliardi di dollari nei prossimi 5-10 anni; 502 miliardi in 62 Paesi entro il 2021, secondo i calcoli degli analisti di Credit Suisse. Questa montagna di denaro servirebbe a costruire porti, autostrade, linee ferroviarie ad alta velocità, reti elettriche soprattutto in Paesi in via di sviluppo. Un sogno fatto di ombre cinesi o una realtà già in marcia?
Domani e lunedì a Pechino Xi Jinping riunisce 28 capi di Stato e di governo, un centinaio di ministri, leader di 70 organizzazioni internazionali per il «Forum Belt and Road for International Cooperation». Arrivano tra gli altri il russo Vladimir Putin, il premier pachistano Nawaz Sharif, il filippino Rodrigo Duterte, la signora Aung San Suu Kyi del Myanmar. Manda una delegazione anche Donald Trump, che sta cercando di stringere nuove intese economiche con Xi. Può sorprendere la presenza di una delegazione da Pyongyang: la Nord Corea è il Paese più isolato del mondo e non c’è da credere che a breve sia possibile associarla a una Via della Seta, ma evidentemente gli emissari di Kim Jong-un sono a Pechino per discutere di come evitare uno scontro militare con gli Usa.
Xi Jinping ha parlato di nuova Via della Seta per la prima volta nel 2013. Sembrava solo una suggestione. Invece rapidamente i cinesi hanno spiegato di voler connettere Cina ed Europa con corridoi terrestri e marittimi attraversando l’Asia e toccando l’Africa: al momento ci sono sei percorsi tracciati sulle mappe. Quello marittimo potrebbe sboccare in Italia, come nei tempi epici dell’Antica Roma e della Dinastia Han (206 avanti Cristo-220 dopo Cristo). I romani peraltro pare non sapessero nemmeno se la seta fosse di origine animale o vegetale e l’attribuivano al Popolo dei Seri. La definizione Via della Seta fu coniata dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen nel 1877: Seidenstraße la chiamò il barone.
La collaborazione di Roma
L’Italia è rappresentata dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, unico leader di un Paese europeo del G7 presente a Pechino. Stiamo rincorrendo una partecipazione possibilmente di peso. Durante la visita a febbraio, il presidente Mattarella ha offerto i nostri porti di Genova sul Tirreno e Venezia-Trieste sull’Adriatico come terminali della via marittima: bisogna decidere in fretta, perché i cinesi si sono già insediati al Pireo. Vorremmo lavorare assieme ai cinesi anche per costruire infrastrutture in Asia centrale e Africa. Ieri sul China Daily , giornale governativo in lingua inglese, un’intera pagina presentava la partecipazione italiana: i cronisti cinesi hanno rintracciato a Montecarlo anche «l’ultimo discendente di Marco Polo».
Sarà firmato un memorandum per la costituzione di un fondo di investimento italo-cinese da 100 milioni di euro tra Cassa depositi e prestiti e China Development Bank per sostenere imprese nostre e loro impegnate lungo la Via della Seta.
Marco Tronchetti Provera, presidente del Business Forum governativo italo-cinese, porta a Pechino 70 piccole e medie imprese italiane che avranno l’opportunità di incontrare 170 aziende cinesi con le quali si punta a costituire intese. Tronchetti Provera ha già pilotato con successo Pirelli nella fusione con il gigante ChemChina. Insomma, grandi (e piccoli o medi) progetti globalizzati che possono rappresentare un’opportunità anche per il Sistema Italia.
Qualche perplessità
Non mancano dubbi e rischi. Questo grande esborso di capitali è possibile per la Cina che rallenta? In mandarino «Una cintura una strada» si dice «Yi Dai Yi Lu» e la frase qui è diventata ormai sinonimo di Apriti Sesamo per ottenere appoggio politico e fondi statali: già l’anno scorso gli investimenti di Pechino lungo la rotta asiatica hanno superato i 16 miliardi, che comprendono i fondi per l’acquisto del porto pachistano di Gwadar. Però, i corridoi commerciali e di infrastrutture debbono attraversare regioni instabili, come l’Asia centrale, il Pakistan, il Myanmar, il Golfo di Aden, l’Africa orientale e settentrionale. Solo per fare un esempio, il corridoio pachistano si scontrerebbe con la presenza di guerriglia talebana.
Niall Ferguson, storico e autore tra l’altro di Impero e Soldi e potere nel mondo moderno dice al Corriere : «Via della Seta è un nome romantico, ma dubito che i percorsi terrestri siano praticabili, troppa instabilità. La via marittima invece è possibile, però resta da vedere se la Cina non la userà come copertura per dotarsi di una Marina militare capace di sfidare la supremazia americana». Una sola certezza: Xi Jinping ha lanciato un nuovo grande gioco geopolitico per creare un mondo globalizzato nel quale tutte le strade portano a Pechino.
Repubblica 13.5.17
Il presidente Xi Jinping presenta domani il maxi progetto di investimenti in un “blocco” di 64 Paesi Porti, strade, un oleodotto: infrastrutture che attraverseranno tutta l’Asia. Con un impatto anche sull’Italia
La nuova Via della seta da 650 miliardi Pechino lancia il suo ordine mondiale
di Angelo Aquaro
PECHINO. Anche Marco Polo, nel suo piccolo, se lo domandò: “Come il Grande Kane conquistò il reame”? Il Gran Khan di oggi si chiama Xi Jinping, adesso come ieri il leader mondiale “più possente d’averi e di gente”. Ma stavolta altro che milione: 140 miliardi di budget iniziali, 650 miliardi che in 5 anni finiranno investiti in almeno 62 paesi. Ecco a voi i segreti della Belt and Road Iniziative, il super summit che da domani vedrà sfilare qui a Pechino una trentina tra capi di Stato e di governo, compreso Paolo Gentiloni: in rappresentanza dei 64 paesi che seguiranno la Cina sulla nuova via della Seta, ma anche degli altri 48 — come l’Italia — che pure non iscritti a questo “blocco” partecipano al progetto che coinvolge almeno 112 nazioni. Ma di che si tratta davvero? E che ci fa, per esempio, la Corea del Nord sull’antica strada tracciata dal nostro Polo?
La bulimia propagandistica cinese continua a sfornare nomi su nomi. Nuova Via della Seta. Obor, cioè One Belt One Road: una cintura una strada. Bri, cioè Belt and Road Initiative. Ma l’idea è semplicissima: la costruzione di un sistema di infrastrutture che leghi la Cina al resto del mondo. La prima volta che se ne parla è il 7 settembre del 2013, il luogo è Astana, Kazakistan, ed è qui che Xi Jinping, eletto da appena sei mesi, pone la prima pietra. «Shaanxi, la mia provincia, si trova proprio all’inizio della Via della Seta», dice, rievocando il viaggio di 2100 anni prima di un dignitario cinese lì nell’Asia centrale. «E oggi, riandando al passato, posso quasi sentire i campanacci del cammello echeggiare qui tra i monti».
Ne ha fatta di strada quel cammello: anche grazie ai 40 miliardi di dollari che Pechino ha investito. Occhio: il 2013 è anche l’anno del lancio di Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank, che con 100 miliardi di dollari di capitalizzazione è l’altra cassaforte dei carovanieri di oggi. E che si fa con tutti questi soldi? I cinque più grandi progetti tra i tanti che i cinesi hanno già messo a punto sono tutti da favola. Il treno che parte da Xian e arriva via Rotterdam a Londra. Il corridoio pachistano con il porto di Gwadar. La ferrovia che collega la Cina con l’-I-ran. L’oleodotto dell’Asia Centrale. Il centro di smistamento di Khorgos ribattezzato la Nuova Dubai: proprio lì nel Kazakistan dove la via della seta rinacque.
E l’Italia? Per la sua storia sarebbe la candidata naturale a raccogliere le ricchezze dell’Asia e rilanciarle in Europa. I cinesi, però, si sono comprati il porto del Pireo, anche se in tutte le loro mappe Venezia compare sempre: sperando che prima o poi diventi qualcosa di più dello specchietto da depliant. Certo non ci sono solo i porti: con 43 miliardi di esportazioni l’Italia è il quinto partner in Europa della Cina, che da noi ha investito 12 miliardi di dollari: Pirelli, Inter e Milan comprese. E poi mettersi in viaggio sulla nuova via della seta conviene: proprio nei giorni del meeting la Cassa Depositi e Prestiti lancia con China Development Bank il primo fondo comune, da 100 milioni di dollari, destinato alle piccole e medie imprese.
Certo: Xi Jinping l’ha detto a Davos che mentre Donald Trump pensa all’America First, prima all’America, la Cina è pronta a prenderne il posto alla guida della globalizzazione. Gli Usa proprio ieri, annunciando che manderanno perfino loro una delegazione al supermeeting, hanno siglato una piccola pace commerciale, primo frutto del “piano dei cento giorni” attrezzato da The Donald e il nuovo Mao a Mar-a-Lago: dalle carni alle credit card passando per la biotecnologia via libera all’export americano in cambio di una maggiore attenzione verso «gli investimenti diretti di compagnie cinesi». Per il presidente Usa è un voltafaccia dopo il viso duro mostrato in campagna elettorale: ma si sa che in questo momento si concede (quasi) tutto a Pechino che sta cercando di contenere l’atomica di Kim Jong-un. Per il Dragone è un ulteriore riconoscimento del nuovo ordine cinese. Ma non sarà allora che anche questa via della seta, questo gigantesco piano Marshall made in China, è solo il proseguimento della guerra (per l’egemonia) con altri mezzi? «C’è un detto cinese che dice: discutiamo dei problemi invece che della teoria. Ed è chiaro che la cooperazione economica incrocia la geopolitica », dice a Repubblica Zheng Liansheng, economista dell’Accademia di scienze sociali e esponente del think thank Pangoal. «Ma i nostri cari partner occidentali hanno forse un meccanismo migliore per promuovere la cooperazione internazionale? ». E no: di Marco Polo, nel suo piccolo, non ne abbiamo più.
E intanto arriva un accordo commerciale con gli Usa: banche, carne e biotecnologia Il piano.
Il presidente Xi Jinping presenta domani il maxi progetto di investimenti in un “blocco” di 64 Paesi Porti, strade, un oleodotto: infrastrutture che attraverseranno tutta l’Asia. Con un impatto anche sull’Italia
Repubblica 13.5.17
Parla la psichiatra californiana Elissa Epel: ottimismo e meditazione sono la cura per restare giovani e vivere bene la terza età
“Lo stress peggiora il Dna così i cattivi pensieri fanno invecchiare prima”
di Giuliano Aluffi
Attenti ai cattivi pensieri: ci fanno invecchiare più in fretta. Però, liberandoci da pessimismo e negatività possiamo cercare di prolungare il periodo d’oro della terza età, quello senza particolari malattie. In un articolo dal titolo esplicito ( I pensieri accelrano l’invecchiamento?) pubblicato sul blog della prestigiosa TED Conference lo sostiene Elissa Epel, psichiatra e direttrice dell’Aging, Metabolism and Emotions Center alla University of California, già autrice, insieme a Elizabeth Blackburn, premio Nobel per la medicina, del saggio La scienza che allunga la vita (Mondadori). Professoressa Epel, quali sono i pensieriche ci fanno invecchiare anzitempo? «Quelli costantemente negativi. Chi è depresso tende a subire i danni della vecchiaia prima degli altri, perché le sue cellule invecchiano più precocemente. La “colpa” è dei telomeri: estremità protettive dei cromosomi, che si riducono a ogni divisione cellulare e, quando sono esauriti, impediscono alle cellule di dividersi ulteriormente, facendole invecchiare insieme agli organi. Abbiamo trovato che i depressi tendono ad avere i telomeri dei leucociti più corti rispetto agli altri: ciò indebolisce il loro sistema immunitario e predispone a una vecchiaia piena di acciacchi ». Come si spiega? «Un’attività associata al pensiero depressivo, la “ruminazione” – ossia l’essere intrappolati in pensieri negativi ripetuti che riguardano episodi del passato – fa sì che il corpo non riesca a liberarsi dallo stress anche quando non c’è più motivo. Così l’ormone dello stress – il cortisolo – va in sovrapproduzione e riduce la telomerasi, enzima in grado di riparare e riallungare i telomeri. In uno studio riguardante donne che hanno cura di familiari malati cronici, io ed Elizabeth Blackburn abbiamo visto che stress e ruminazione sono associati a telomeri più corti e meno telomerasi nei linfociti T. Se dura più di sei mesi, la depressione è associata a un accorciamento dei telomeri irrimediabile». Lei però parla di “associazione”: significa che non c’è ancora certezza che il pessimismo o la depressione siano la causa dell’accorciamento dei telomeri? «Nel caso di malattie molto complesse, come la depressione, è difficile distinguere tra causa ed effetto. Ma dagli studi sullo stress – sia sugli umani che sugli animali – emergono elementi a sostegno di una causalità tra stress e telomeri più corti». A quali altri tipi di pensieri dobbiamo stare attenti? «L’ostilità cinica: è un’attitudine soprattutto maschile che predispone a ritenere gli altri animati da intenzioni malevole. Uno studio del 2012 mostra che questo tratto è associato a un rischio maggiore di malattie della vecchiaia e mortalità, e a telomeri dei leucociti più corti. Anche le fantasticherie legate a un giudizio negativo della realtà, come il desiderare di essere da un’altra parte o di essere un’altra persona, sono associate a telomeri più corti». Si può usare il pensiero per proteggere i telomeri? «La meditazione può aiutare, perché riduce lo stress cronico, che è l’unico davvero dannoso per la salute. Una tecnica efficace è chiudere gli occhi, rilassarsi e focalizzare la nostra attenzione sui pensieri mentre si susseguono, come guarderemmo passare le auto da una finestra. Così impariamo a riconoscere i pensieri negativi e a non farci dominare da loro. Nel 2013 abbiamo condotto uno studio su persone sottoposte a notevole stress cronico: i volontari che prestano assistenza ai malati di demenza senile. Abbiamo diviso il campione in due gruppi che svolgevano due diverse attività per un quarto d’ora al giorno per due mesi: meditare oppure ascoltare musica. Il gruppo che ha meditato aveva una telomerasi più attiva degli altri. Altri studi mostrano che tecniche yoga come il Kirtan Kriya possono aumentare di oltre il 40% la produzione di telomerasi»
Repubblica 13.5.17
L’ora di Kerenskij
Era figlio delle bizzarrie della storia, nato nella stessa città di Lenin, eterno nemico
di Ezio Mauro
San Pietroburgo Per un momento, quel mattino, tutto sembrò uguale a prima, come un trucco della storia, a partire dal sole di primavera che in nessun posto è ingannevole come in Russia, dopo il gelo dell’inverno. Era un martedì quando la sagoma nera e blu di una delle 56 automobili del parco imperiale (una Delaunay- Belleville modello 45) si presentò davanti al cancello principale della reggia di Zarskoe Selo, coi pneumatici di riserva appesi alla fiancata, come sempre. Ma quell’ingresso era chiuso da due settimane, le vetture di servizio passavano ormai dal portone più piccolo, sul viale laterale, tra il Palazzo e la chiesa, l’auto era stata requisita dal governo provvisorio per i suoi ministri e quel cancello segnava in realtà il confine tra il prima e il dopo, tra la rivoluzione e l’Impero. Tutti capirono che questa era una visita speciale, anche se organizzata all’improvviso, fuori da ogni protocollo e senza avvertire nessuno, nemmeno il Maresciallo di Corte che era rimasto al suo posto col monocolo innestato dopo l’abdicazione, come se le forme regali potessero sopravvivere senza il trono, la corona e l’Impero: senza lo Zar.
E invece il mondo immutabile per trecento anni della dinastia Romanov improvvisamente si era rovesciato, proprio qui fuori, dove adesso il vuoto cancella ogni segno del tempo e il silenzio copre la distanza del secolo. Dietro quelle finestre oggi socchiuse e buie, la Zarina cent’anni fa non riusciva ad accettare l’accaduto («il a abdiqué, il a abdiqué», ripeteva incredula aggirandosi per il suo appartamento appena avuta la notizia dal Granduca Pavel, due giorni dopo la rinuncia al regno), mentre nelle stanze al primo piano il precettore svizzero dello zarevic Aleksej faceva sedere in poltrona l’erede a un trono che non c’era più per informarlo poco alla volta, svelandogli l’inconcepibile nella camera dei giochi. «Sapete – disse un mattino alle 11 monsieur Pierre Gilliard – vostro padre non vuole più essere imperatore». «Come? E perché?». «Perché è molto affaticato e ha incontrato molte difficoltà, ultimamente ». Il ragazzo alzò lo sguardo, rimase in silenzio, quindi domandò: «Ma poi sarà di nuovo imperatore?». «Non lo so…». «Ma allora, se non ci saranno più imperatori, chi governerà la Russia?». In questa sospensione dei destini e in questa sostituzione dei rituali una Corte rimpicciolita e stordita continuava a recitare l’antico cerimoniale con una superstizione mimetica della regalità perduta, quasi fosse eterna e impermeabile agli eventi. Così quando il marinaio autista aprì la porta dell’auto e Aleksandr Kerenskij fece il saluto militare, il conte Benkendorf provò a chiedere a che cosa l’imperial Casa doveva l’onore della visita. «Vorrei vedere Nikolaj Aleksandrovic e la moglie e ispezionare il Palazzo, stanza per stanza», disse il nuovo ministro della Giustizia. Come se non fosse successo nulla intorno a lui, il vecchio conte fece finta di non aver sentito la bestemmia del nome reale pronunciato per la prima volta nudo e spoglio nell’eco della reggia, senza più il titolo imperiale. Accennò appena un inchino e prese tempo: «Riferirò a Sua Maestà ». Quindi salì le scale, da cui negli ultimi giorni erano scesi di corsa per andarsene per sempre valletti, dame di compagnia coi loro bauli, dignitari, cosacchi della Guardia, corrieri col berretto guarnito di piume, persino i medici dei ragazzi e l’infermiera. Un altro inchino al ritorno: «Sua Maestà ha gentilmente acconsentito a ricevervi».
In realtà “Sua Maestà” non aveva nessuna scelta. Il Primo Maresciallo sapeva, come tutti, che l’8 marzo il governo provvisorio aveva pubblicato un decreto per «privare della libertà l’imperatore abdicatario e la consorte» e aveva spedito quattro deputati a Mogilev per «prenderlo in custodia» e accompagnarlo alla residenza di famiglia: agli arresti nel Palazzo, dove gli aprirono le porte chiamandolo «signor colonnello », come mai era successo prima. Ma quello che nessuno sapeva è che nelle riunioni del Soviet Vjaceslav Molotov aveva predisposto un piano per arrestare l’ex Zar, la sua famiglia e tutti i Romanov, e rinchiuderli nel bastione Trubezkoj della fortezza di Pietro e Paolo, per un veloce processo che avrebbe con ogni probabilità portato all’esecuzione.
Lo stesso Kerenskij fu attaccato direttamente dagli operai del Soviet di Mosca, che volevano Nikolaj II in galera: «Perché è ancora libero? Perché può viaggiare tranquillamente per la Russia?». «Tengo a dirvi, compagni, che finora la rivoluzione russa non si è macchiata di sangue e non voglio che venga insozzata – rispose il ministro –. Non sarò mai il Marat della nostra rivoluzione. Tra breve l’ex Zar sarà imbarcato su una nave e inviato in Inghilterra sotto la mia personale responsabilità ». Non ci fu nessuna nave, perché il governo inglese si tirò indietro e perché il Comitato esecutivo del Soviet fece presidiare tutte le stazioni fino alla Crimea e diramò l’ordine di arrestare Nikolaj se si fosse avvicinato ad un treno. Anzi, un blindato si presentò il 9 marzo a Zarskoe Selo per prelevare il sovrano decaduto e portarlo al Soviet, ma non avendo un mandato di cattura dovette ripartire senza il prigioniero, salvato dall’eterna subordinazione russa alla burocrazia.
Il ministro che adesso saliva al primo piano, attraversava i lunghi corridoi, entrava per la prima volta negli appartamenti privati dei Romanov era dunque il carceriere e insieme il garante di quella libertà prigioniera del cittadino Romanov, come ormai lo chiamavano gli uomini di guardia. Non si erano mai incontrati prima. Ambizioso, uomo forte del governo, teatrale e demagogo Kerenskij aveva capito d’istinto che avrebbe potuto accrescere la sua autorità nascente incrociandola davanti ai soldati e alla Russia spettatrice con l’autorità declinante dell’imperatore, ormai nelle sue mani come Procuratore Generale del nuovo Stato.
Segue nelle pagine successive
La Zarina cent’anni fa non riusciva ad accettare l’accaduto “il a abdiqué” ripeteva incredula
Sapeva di essere il tramite attraverso cui la rivoluzione appena scoppiata incrociava per la prima volta la dinastia imperiale morente, la persona che impersonava, – in quel momento e in quel palazzo – il trasferimento fisico e simbolico di sovranità, il potere dei Soviet e della Duma che bussava alla reggia per decretarne il vuoto, controllando intanto che il trono fosse rovesciato davvero, in un Paese abituato da secoli a quella che Dostoevskij chiama «la legge della catena ».
Incredibilmente, non venne condotto in uno studio e nemmeno in un salotto. Quella che si aprì era la camera delle ragazze. C’era tutta la famiglia riunita attorno a un piccolo tavolo sotto la finestra, vicino alla chaise longue dell’ex Imperatrice. Come bisognava salutare quell’uomo in divisa militare, ancora con le mostrine imperiali, abituato agli inchini e ai rituali, adesso che non aveva più nulla della vecchia regalità? «Kerenskij, Procuratore», si annunciò semplicemente il ministro, tendendo la mano all’ex Zar: che la strinse afferrando così, per la prima volta, la nuova dimensione in cui era appena entrato e per la quale non c’era consuetudine e mancava un protocollo. In piedi, Kerenskij chiese se era passata la rosolia ai ragazzi, scambiò qualche notizia sulla guerra, comunicò che il comando del Palazzo era adesso affidato al colonnello Korovicenko, salutò Alix informandola che la regina d’Inghilterra aveva chiesto sue notizie, poi invitò Nikolaj a passare in un salottino accanto, dove entrò per primo, da padrone. «Voi saprete – disse a tu per tu – che sono riuscito a far abolire la pena di morte… Non preoccupatevi, dovete fidarvi di me». Ma quando il ministro (il primo della storia russa nominato senza il consenso dello Zar) se ne andò, la prigionia divenne ufficiale come un decreto. Il cancello del Palazzo si chiuse dietro a Kerenskij e davanti alla famiglia, che per la prima volta aveva assistito all’inedito di qualcuno che dava ordini allo Zar.
Figlio perfetto dell’impero e delle bizzarrie della storia (era nato a Simbirsk sul medio Volga, proprio come Lenin, i loro padri dirigevano due scuole in città, un’elementare e un liceo, e il professor Kerenskij diventerà addirittura tutore dei due ragazzi Uljanov, dopo la morte del genitore), il ministro di Grazia e Giustizia rappresentava perfettamente l’uomo nuovo generato dal Febbraio, a cavallo tra borghesia e rivoluzione, tra la Russia di ieri e quella di domani. Avvocato, ribelle, aveva gettato la croce del battesimo nell’immondizia di casa a quattordici anni, aveva ascoltato a sei anni la notizia che sconvolgeva tutta Simbirsk di Sasha Uljanov, il fratello di Lenin, arrestato mentre preparava un attentato allo Zar e impiccato, aveva visto coi suoi occhi la terribile carrozza di cui in città tutti parlavano, con le tendine verdi abbassate, che quasi ogni notte portava gli oppositori del regime nelle prigioni della gendarmeria: e tuttavia pianse quando seppe della morte di Alessandro III.
Da studente, aveva assistito di persona alla “domenica di sangue”, col massacro dei dimostranti guidati dal pope Gapon, e scrisse per protesta una lettera al comandante della Guardia. Poi cercò di entrare in contatto con il nucleo terroristico del partito socialrivoluzionario, che lo scartò dopo un incontro carbonaro sul ponte Anickov, ma finì in cella nella prigione Kresty per aver firmato un articolo sul giornale Burevestnik, accusato di far parte di un’organizzazione che preparava rivolte armate e voleva rovesciare il regime, finché nel 1912 fu eletto alla Duma nel partito del lavoro, i “Trudoviki”. In parlamento pronuncerà uno dei discorsi più duri verso la monarchia: «Il nostro compito storico è rovesciare immediatamente questo regime medievale, costi quel che costi, senza mezzi legali, con la forza». Nella vigilia febbrile e inconsapevole dell’insurrezione, quando tutti rumoreggiavano e il presidente della Duma gli chiese di chiarire meglio le sue intenzioni, lui si alzò in piedi: «Mi riferisco a ciò che fece Bruto ai tempi di Roma». La frase venne cancellata dal verbale della seduta.
Ma è il lampo del Febbraio a toglierlo dall’anonimato, proiettandolo nella storia russa del ’17, dove lo raggiungerà sopravanzandolo Lenin, il suo eterno avversario. Quel lunedì 27, che verrà ricordato come il giorno della rivoluzione, mentre ancora le mitragliatrici sparano sul Mojka Quai e sulla Sergievskaja, è infatti Kerenskij a precipitarsi ai cancelli della Duma invitando la folla a entrare, a chiamare i soldati perché disarmino la Guardia con un colpo di mano e difendano il palazzo Tauride. È lui a comparire davanti al presidente del Consiglio Imperiale Shcheglovitov, che sta cercando di far valere l’immunità parlamentare dopo essere stato fermato per strada e a dichiararlo in arresto, primo detenuto nel padiglione del Palazzo che Kerenskij trasforma in carcere provvisorio della rivoluzione.
Immediatamente popolare tra i soldati, oratore appassionato, quando nasce il primo governo provvisorio gli viene proposto il ministero della Giustizia. Ma il Soviet ha appena deciso di non partecipare, perché il governo «è borghese», e lui è vicepresidente del Soviet. A sorpresa entra nella sala del Comitato esecutivo, interrompe la seduta, sale sul tavolo e spiega che «è nell’interesse della Russia e degli operai che la democrazia rivoluzionaria abbia il suo rappresentante al governo, in modo che l’esecutivo sia in contatto permanente con la volontà del popolo». Urla, applausi, Kerenskij viene portato a spalle nei saloni della Duma e dentro il governo, mantenendo la vicepresidenza del Soviet, unico caso di doppio incarico per l’unico socialista del ministero Lvov.
Da quel giorno gli stivali militari di Kerenskij calpesteranno ogni angolo della rivoluzione. È seduto sul divano nel salotto della principessa Putjatin, il mattino dopo l’abdicazione dello Zar a Pskov, per convincere il Granduca Mikhail a rifiutare la corona, facendogli capire che nessuno potrà garantire la sua incolumità personale, nel malcontento popolare verso la dinastia. «Apprezzo profondamente la vostra decisione, assunta con nobiltà e da patriota», dirà dopo la rinuncia del Granduca, prima di tornare alla Duma con la firma sul foglio che scioglie per sempre il vincolo tra i Romanov e la Russia, procedendo tra la folla senza scorta, per raccogliere gli applausi alla repubblica che sta nascendo.
È vicino all’ex Primo Ministro Goremykin la notte in cui viene portato in carcere alla fortezza, si accorge che nasconde sotto la camicia la catena con dieci pietre preziose dell’ordine imperiale di Sant’Andrea apostolo ma non gliela requisisce, per compassione rivoluzionaria o per complicità borghese. È al telegrafo del ministero, quando dà l’ordine – come suo primo atto di governo – di far tornare con tutti gli onori dall’esilio siberiano la “nonna della rivoluzione”, Ekaterina Breshko-Breshkovskaja, che da ragazza aveva organizzato le “passeggiate tra il popolo” girando i villaggi con il fagotto di pezza infilato a un bastone sulle spalle per convincere i contadini a ribellarsi allo Zar: a 73 anni trova un picchetto d’onore che l’aspetta a Pietroburgo con la Duma e i ministri, Kerenskij che la fa ospitare in un appartamento a Palazzo d’Inverno, mentre il coro dei ragazzi schierati dal ministro la saluta con le strofe dei “difiramby”, i canti popolari dei contadini durante il raccolto e con l’inno del ringraziamento: «Noi ci inchiniamo di fronte a te, con una profonda gioia per la vittoria tanto attesa».
Nella vertigine di Pietrogrado – livida per l’elettricità che salta, la neve ormai sporca, il collasso del potere che si percepisce per strada – se c’è uno spettacolo della rivoluzione l’impresario statale è Aleksandr Fedorovic Kerenskij. Porta la mano infilata nella giacca al petto, dicendo che ha una ferita al braccio, in realtà perché ha il mito di Napoleone. Si fa fotografare in ufficio col colletto inamidato, il fiocco e il doppiopetto, con un foglio in mano. A ogni comizio raccoglie applausi parlando contro la pena di morte. Riceve i Granduchi, guidati da Kirill, che professano sottomissione alla Duma. Usa con perizia la polizia segreta, abituato fin da ragazzo ad avere due agenti davanti a casa con calosce, soprabito nero e l’ombrello in mano in qualunque stagione. Crea un super-gabinetto interno al governo con altri quattro ministri massoni, e lui lo guida: è iscritto alla Società dal 1912, in una loggia che ammetteva anche le donne, con il giuramento solenne di rispettare la disciplina e non rivelare mai il nome degli altri aderenti. Ubbidirà anche dall’esilio.
Ma è al fronte che Kerenskij unisce insieme la retorica militare, l’ideologia rivoluzionaria, la religione russa della patria e il culto fanatico di sé. Dal 2 maggio, con le dimissioni di Guckov, diventa ministro della Guerra. Trova una situazione disastrosa. La Germania, convinta che la Russia nel caos non sia più una potenza internazionale, invitava i soldati a incrementare il disfattismo, fraternizzando coi russi nelle trincee. Nelle strade delle due capitali, nei villaggi di campagna si rovesciava quasi un milione e mezzo di sbandati dal fronte. A Piter i marinai erano padroni del quartiere che va dal lungofiume inglese fin quasi al teatro Mariinskij, i più eccitati derubavano i passanti, sequestravano le persone chiedendo un riscatto. Intanto tre reggimenti della 163ma divisione sul fronte romeno si ribellano agli ordini, bisogna minacciarli con i cosacchi pronti ad aprire il fuoco. Ma altre unità della 12ma e 13ma divisione si rifiutano di avanzare. Gli agitatori bolscevichi (Semasko, Sivers, Krylenko, Dzevaltovskij) fanno propaganda tra le truppe per la pace, e gli uomini abbandonano i fucili: «Vi esortiamo a non morire per gli altri in guerra, ma a annientare i vostri nemici di classe interni».
Il ministro restituì subito agli ufficiali i poteri che Febbraio aveva tolto, primo fra tutti l’uso della forza sui subalterni per far rispettare la disciplina. «La patria è in pericolo – dichiarò solennemente – ognuno deve sventare questa minaccia, tutti i soldati e i marinai devono tornare al loro posto entro dieci giorni». Poi Kerenskij partì per due settimane di visita al fronte. Prima alla flotta pesante sul golfo finnico, poi allo schieramento sud-occidentale a Tarnopol, quindi a Odessa, ancora a Riga dal comando settentrionale, infine a Dvinsk dove operava la Quinta Armata. Fu un autoinganno. L’oratoria appassionata, emotiva e demagogica del ministro sollevò fiammate improvvise di entusiasmo tra i soldati, prima che il logoramento della lunga guerra, le speranze suscitate dalla rivoluzione tornassero subito a spargere la frustrazione ribelle tra le trincee. Ma Kerenskij si illuse di poter ribaltare lo stato d’animo, riaccendendo la voglia di combattere. Era esaltato, frastornato, con le truppe che gli lanciavano fiori sul Mar Nero, gli baciavano gli stivali in Lettonia, lo acclamavano piangendo in Galizia. L’estasi patriottico- militare contagiò anche Olga Lvovna, la moglie infermiera per qualche mese, che definiva un atto “religioso” lavare i piedi dei soldati.
Tutto questo portò Kerenskij a scatenare l’offensiva di primavera, cercando per via militare quella forza che il governo provvisorio non aveva per via politica, con i soviet che erano ormai quasi mille, i sindacati che si moltiplicavano, i bolscevichi che crescevano nelle fabbriche e nelle tessere, le Guardie Rosse che si organizzavano militarmente. Il ministro guidò personalmente l’attacco, aspettando l’“ora zero” sulle colline ucraine. Per due giorni l’esercito avanzò: il terzo giorno ripiegò, poi la ritirata divenne una fuga senza controllo, con la perdita del 35 per cento dei pezzi d’artiglieria e degli aerei. Kerenskij prova a dare la colpa ai bolscevichi infiltrati tra le truppe, scrive un telegramma agli ambasciatori alleati, denunciando l’invio da parte dei loro governi di forniture belliche difettose. Dal fronte, il comandante Denikin lo accuserà di “isterismo”.
L’insuccesso militare, il malcontento dei contadini, la deriva dei soldati in rotta gonfiavano di nevrosi Pietrogrado, una città irreale, isterica, sospesa in un passaggio doloroso tra il vecchio e il nuovo, la cornice urbana intatta, il cuore trapiantato e fortemente sollecitato. Così le parole d’ordine bolsceviche passavano da una strada all’altra con le venditrici di semi di girasole, con i distributori di kvas, la bevanda di pane fermentato, con le mogli dei soldati. Comizi spontanei e assemblee improvvisate si davano il cambio alla Fontanka, a due passi dal famoso parrucchiere Bogdanov, con l’insegna che diceva “maestro di taglio” al numero 80 del Nevskij, vicino al giornale di moda Chic viennese, che chiuderà a fine anno. Ma sul Nevskij si aprivano dieci cinema, prima che la notte diventasse insicura anche se bianca, dal Palais Cristall al Comic, al Piccadilly fino al fantastico Parisiana che aveva 800 posti e il soffitto che da maggio si apriva sul cielo. I prezzi continuavano ad aumentare. Bisognava sostituire lo zucchero che non c’era col miele, carissimo, l’oca saliva dai 70 ai 90 copechi al “funt” (meno di mezzo chilo), i polli volavano a più di tre rubli l’uno. Costavano molto meno i bordelli popolari: 50 copechi, mentre quelli di lusso arrivavano fino a 12 rubli. Le inserzioni sui giornali – 20 copechi alla riga – compravano e vendevano tutto, anelli d’oro e gemelli d’argento, ma anche denti spaiati, dentiere rotte, apparecchi di cuoio per correggere la linea del naso, «massaggi offerti da signora molto colta ». I quotidiani proponevano i libri rilegati dei grandi autori russi ma anche i cartamodelli. Man mano che gli abiti francesi sparivano dalle vetrine si fece strada il mestiere del “perelizovshik”, il rovesciatore, che rivoltava gli abiti usati per nascondere l’usura e guadagnare tempo. La povertà cresceva, con la fame e la disperazione.
«Il mio esperimento liberale è finito – dirà il Primo Ministro Lvov, ormai sono un pezzo di legno in balia della marea rivoluzionaria». Man mano che il governo e Kerenskij perdono terreno Lenin e il suo partito avanzano, come sulla scacchiera che il leader bolscevico tiene in salotto nell’appartamento della sorella in via Shirokaja, e ancora oggi è lì, col suo meccanismo segreto per nascondere le carte bolsceviche. I due non si vedevano da una funzione religiosa a mezzanotte di Pasqua quando il ministro, bambino, riceveva la comunione vestito di picché bianco con la cravatta rossa e sapeva che alle sue spalle – nelle due file di studenti più grandi con l’uniforme azzurra dai bottoni d’argento – c’era lui, Vladimir Ilic Uljanov, che diventerà Lenin.
Si incontreranno, tenendosi a distanza, una volta sola, al congresso panrusso dei Soviet. Sono andato a cercare i segni di quell’unico contatto, al vecchio numero 1 del palazzo dei cadetti, sull’isola Vasilievskij. Oggi qui c’è l’università con le stanze “na remont?”,in ristrutturazione, ma se si arriva presto si può immaginare l’eco dei passi e degli applausi nella grande sala deserta e vuota del mattino, all’ora in cui Lenin dalla tribuna propose l’arresto immediato di 100 capitalisti, Kerenskij si alzò accusandolo di preparare la strada a un dittatore e mentre lui parlava Ilic prese i suoi fogli e se ne andò da questa porta. Tutti li guardavano. Si sfideranno per tutto il ’17 con Kerenskij agitato che balza in piedi nel suo ufficio al ministero ogni volta che parla di Lenin, e Ilic che lo addita come il fantoccio della borghesia. Si studieranno, si controlleranno a vicenda, si inseguiranno sfiorandosi fino a correre dentro l’epilogo verde e bianco del Palazzo d’Inverno, a ottobre. Uno deve cavalcare un Paese imbizzarrito, provando a governarlo, l’altro può aspettare, puntando sulla pazienza e sulla costanza nella furia russa della primavera che da Piter ha incendiato il mondo, cent’anni fa. In fondo, per Lenin anche Kerenskij era poco più di un “perelizovshik”, che rivoltava l’abito rabberciato a un ex Impero in miseria. Il vero sarto della rivoluzione, nel suo ufficio di quattro metri alla “Pravda”, stava già prendendo le misure alla Madre Russia.
il manifesto 13.5.17
Una lingua meticcia ferita dall’Europa colonialista
Mediterraneo. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall'inferno
di Luciana Castellina
Sabir: basterebbe aver scelto questo nome a far capire cosa sia questo incontro del (non sul) Mediterraneo che per la terza volta si tiene in Sicilia,quest’anno a Siracusa. È il nome della lingua meticcia che da secoli i pescatori di questo mare usano per parlarsi, quelli che provengono dalla costa africana come quelli che provengono dalle coste europee.
Per comunicare oggigiorno bisogna fare un convegno, perché fra il sud e il nord del mare che si chiamava «di mezzo» proprio per far capire che si trattava di un’acqua di comunicazione fra terre che vi si sporgevano con le loro mille punte peninsulari e i loro arcipelaghi, si è scavato un solco. Sociale, politico, culturale, economico. Nemmeno il confine Messicano, lungo il quale Trump vuole erigere un muro, marca uno stacco così drammatico nella differenza procapite del reddito, nella circolazione della comunicazione. L’Europa, costruita 60 anni fa, porta la cicatrice, sanguinosa, non rimarginata di questa rottura. Che l’ha resa mostruosa, perché, come scriveva nel suo Breviario Mediterraneo un intellettuale della costa jugoslava che ci ha purtroppo appena lasciato – Peredrag Maktievich – «l’Europa senza il Mediterraneo è come un adulto privato della sua infanzia». Un mostro. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall’inferno.
E infatti appena le cose in uno dei nostri paesi meridionali vanno male c’è qualche signor ministro che dice: «oddio, stiamo precipitando nel Mediterraneo».
I nostri confini sono curiosi: il solo geograficamente davvero rilevante perché segnato addirittura da un grande oceano, l’Atlantico, ci separa dal paese cui in realtà siamo più appiccicati:gli Stati uniti. Il confine che è solo una pozza pari allo 0,7 % delle acque del globo, il Mediterraneo, ci separa da terre totalmente estranee. Le conosciamo solo per quanto sono state nell’antichità, ignoriamo quale sia la loro cultura moderna, sebbene noi si viva dell’eredità di quanto proprio lì – nel mondo arabo – si sia inventato in secoli non lontani. Per noi, nella modernità, quelle terre sono diventate solo colonie, e tali sono rimaste.
Questa nostra Sabir, promossa da Arci, Acli, Charitas e con la collaborazione di tantissime associazioni del sud e del nord, vuole ricominciare il dialogo interrotto, naturalmente provando a sanare la vergogna più grande, quella delle selvagge, inumane migrazioni. Ma vuole farlo per indicare all’Ue il suo errore più grave, esser stata incapace di pensarsi come la storia imponeva di fare: come un’area che non poteva “dimenticare” di essere una cosa sola con tutta l’area mediterranea, da cui ha preso tanto e che tanto ha danneggiato. Avrebbe dovuto pensare alla propria crescita assieme alla crescita di quest’area, con un progetto di co-sviluppo. Non, come invece è stato, come a una zona di ineguale commercio. Oggi, con i traumi delle migrazioni, di cui è responsabile, l’Europa paga i suoi errori.
Questo è quello che qui a Siracusa discutiamo in questi giorni, in decine di workshop e la sera assistendo a spettacoli musicali e teatrali. Dagli immediati drammatici problemi di chi arriva, o peggio di chi prova ad arrivare e non riesce, ai grandi problemi della prospettiva di lungo periodo. È il frutto del lavoro volontario, umanitario, di solidarietà e carità di tantissimi. Ma è anche di più: come ha detto papa Francesco quando recentemente ha ricevuto in Vaticano i movimenti sociali : la carità è importante, ma ci vuole la politica.
Mediterraneo. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall'inferno.
Il manifesto 13.5.17
Il fisco secondo Trump: 900 miliardi dai tagli alla sanità
Stati uniti. Il presidente: «Meno tasse eliminando l’Obamacare».I democratici: «Robin Hood all’inverso». I media criticano la cacciata di Comey e la Casa bianca li minaccia: basta press briefing
di Marina Catucci
NEW YORK Durante l’intervista con The Economist Donald Trump ha parlato di commercio, immigrazione, riforma fiscale e assistenza sanitaria e ha fatto alcune affermazioni particolarmente strane e dei curiosi parallelismi sulla qualità delle rose nel giardino della Casa Bianca e la spesa per le infrastrutture o gli schemi migratori degli uccelli migratori e le detrazioni fiscali.
Rompendo con le dichiarazioni dei collaboratori, Trump ha ammesso che il deficit potrebbe aumentare nel breve termine, due anni è la sua ottimistica previsione, ma che «non aumenterà a lungo».
«Bisogna innescare la pompa – ha detto – Mettere qualcosa prima di ottenere qualcosa e se non si farà aumentare il deficit non sarà possibile abbassare la pressione fiscale».
Il presidente ha anche aggiunto che, se al Congresso passerà la sua legge sulla sanità, il governo americano risparmierà «dai 400 ai 900 miliardi di dollari. Tutto sta nella riduzione delle tasse».
Il leader della minoranza, Nancy Pelosi, ha subito commentato che la legge sanitaria proposta da Trump è come un’azione alla «Robin Hood ma all’inverso, che ruba 600 miliardi ai cittadini poveri per passarli a quelli ricchi. Questo è l’obiettivo della loro manovra fiscale, hanno bisogno di questi fondi e li prenderanno dalla tua assistenza sanitaria».
Di opinione simile doveva essere l’intervistatore dell’Economist che ha affermato che chi otterrà maggiori benefici dal taglio fiscale sembra proprio saranno gli americani più ricchi. «Beh, non credo – si è limitato a replicare Trump – Stanno perdendo tutte le loro deduzioni fiscali».
Durante l’intervista Trump non è mai sembrato spaventato all’idea di smentirsi o contraddirsi: sul Nafta che non verrà cancellato ma rinegoziato con i presidenti di Canada e Messico che personalmente gli sono simpaticissimi; e su Xi Jinping, «fortissimo, bravissima persona», la Cina non è un manovratore di valuta, sono stati i media a pompare questa affermazione.
Riguardo le sue dichiarazioni dei redditi, Trump ha assicurato: «Prima o poi le renderò pubbliche. Forse quando avrò finito, perché ne vado molto fiero. Ho fatto un ottimo lavoro. Ma non saranno mai oggetto di trattativa. Non dimenticatevi che sono stato eletto anche senza rivelarlo».
Intanto però Trump deve affrontare le polemiche sorte dopo il licenziamento del direttore dell’Fbi James Comey, decisione impopolare che il 54% degli americani, secondo il sondaggio realizzato da Nbc News/Survey Monkey, ritiene inappropriata.
Il New York Times, citando due fonti anonime, ha fornito ulteriori dettagli: una settimana dopo il suo insediamento alla Casa Bianca Trump ha invitato a cena Comey, chiedendogli una promessa di lealtà a cui il capo dell’Fbi ha risposto dicendo di poter garantire solo «onestà».
Si era trattato di una cena privata a due e Trump, non soddisfatto della prima risposta di Comey, avanzò due volte il tema della lealtà chiedendo se poteva contare su «onesta lealtà», ottenendo finalmente una risposta affermativa da Comey.
La Casa Bianca ha contestato questa ricostruzione del New York Times: per la vice portavoce Sarah Sanders, il presidente «non lascerebbe mai intendere di aspettarsi lealtà personale, soltanto lealtà verso il nostro paese».
In una serie di tweet Trump ha poi deciso di mettere le cose a posto a modo suo: prima ironizzando sul fatto che i fake media avessero fatto gli straordinari, poi minacciando di cancellare il briefing con la stampa alla Casa Bianca.
«Forse la cosa migliore da fare sarebbe cancellare i futuri press briefing e inviare risposte scritte per aver maggiore accuratezza?», ha scritto su Twitter ed ha concluso, in risposta alle accuse di mancanza di precisione nella spiegazione sui motivi del licenziamento di Comey, sostenendo di essere troppo impegnato per essere anche preciso.
Ma più di tutto il presidente degli Stati Uniti su Twitter ha minacciato neppur troppo velatamente l’ex capo dell’Fbi: «James Comey farebbe bene a sperare che non esistano ’registrazioni’ delle nostre conversazioni prima che cominci a fare delle rivelazioni alla stampa». Poco dopo la Cnn, citando delle proprie fonti, ha affermato che Comey non teme i contenuti di alcuna registrazione.
il manifesto 13.5.17
Un palestinese ucciso e decine feriti da spari soldati israeliani
Cisgiordania. Prosegue lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane e con esso le manifestazioni popolari. Ma la risposta israeliana si fa più dura. La Croce Rossa ha visitato Marwan Barghouti in cella
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Saba Obaid, 20 anni, è arrivato in condizioni disperate all’ospedale di Salfit. I medici hanno fatto il possibile per rianimarlo ma il proiettile che lo ha colpito al pezzo mentre a Nabi Saleh, con altre decine di giovani palestinesi, lanciava pietre verso le jeep dell’esercito israeliano, non gli ha lasciato speranza. Il portavoce militare non ha confermato la sua uccisione. Si è limitato a comunicare che i soldati hanno usato i mezzi di “dispersione” a loro disposizione per respingere una folla palestinese che manifestava con “violenza”. E con quei mezzi di “dispersione” i soldati hanno ferito un’altra trentina di manifestanti a Nabi Saleh. Forti le proteste anche vicino Nablus dove in scontri sono rimaste ferite, pare tutte in modo leggero, almeno 60 persone. Decine di feriti anche a Beita, Kufr Qaddum, Beit Furik, Beit Ummar e in molte altre località.
A prima vista potrebbe apparire l’abituale conclusione di manifestazioni palestinesi uguali ad altre migliaia viste in 50 anni di occupazione militare israeliana. Invece l’uccisione di Saba Obeid e il ferimento di decine di dimostranti segnano una escalation nella risposta delle forze armate israeliane al crescere della protesta palestinese per le condizioni di (almeno) 1300 detenuti in sciopero della fame da 25 giorni nelle carceri israeliane. È il segnale della tensione che aumenta nei ranghi dell’Esercito per un digiuno che Israele, e non pochi palestinesi, pensavano destinato a concludersi presto con un fallimento e in una umiliazione per il suo promotore, il leader di Fatah in Cisgiordania Marwan Barghouti, in carcere in Israele dove sconta cinque ergastoli per “terrorismo”. Ora, dopo quasi un mese di digiuno e il peggioramento delle condizioni di salute di molti prigionieri, persino i settori di Fatah che mal digeriscono l’iniziativa di Barghouti, ora devono sostenerla, mentre vi aderiscono altre forze politiche – ma non il movimento islamico Hamas – a cominciare dai leader incarcerati del Fronte popolare (Fplp) che sottolineano il carattere “nazionale” della protesta, al di là delle motivazioni e degli obiettivi di Fatah.
La popolarità di Barghouti non è stata scalfita dalla vicenda delle “merendine”. Le immagini di un detenuto, ripreso dall’alto, che secondo le autorità carcerarie sarebbe il leader di Fatah mentre, in due occasioni, appare intento a mangiare delle merendine rompendo il digiuno, sono state giudicate un fake dai palestinesi e hanno addirittura rafforzato il sostegno all’organizzatore dello sciopero della fame. Intanto non è ancora trapelato nulla dalla visita che Barghouti ha ricevuto in cella due giorni fa da una delegazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa . «La delegazione del Cicr ci ha detto che, come da accordi presi con le autorità israeliane, non può dirci nulla sul’incontro» ci spiegava ieri Qassam Barghouti, uno dei figli del leader di Fatah, «perciò ora siamo più preoccupati, temiamo che le condizioni di mio padre si siano aggravate».
Offensiva M5S contro Boschi
Pd in ansia per i sondaggi
Fico scrive a Boldrini: Gentiloni chiarisca in aula. Sarà presentata anche in Senato la mozione di censura contro la sottosegretaria, ma i bersaniani incerti se votarla
di Carlo Bertini Ilario Lombardo
Le banche. Ancora, loro. Per il M5S l’arma più potente contro Matteo Renzi, il cosiddetto “giglio magico”, e da ultimo il governo. In vista ci sono le elezioni amministrative tra meno di un mese, con i grillini in forte difficoltà, soprattutto nelle due principali città al voto, Genova e Palermo. Serviva qualcosa per rilanciare l’assalto al fortino renziano. Le rivelazioni dell’ex direttore del Corriere Ferruccio De Bortoli sono state tempestive. Come annunciato, il capogruppo grillino Roberto Fico ha inviato una lettera alla presidente della Camera Laura Boldrini per chiedere la calendarizzazione urgente del voto sulla commissione d’inchiesta sul sistema bancario e che il premier Paolo Gentiloni venga a riferire in aula sul caso Boschi. «Ed è anche pronta la mozione di censura per far sì che Boschi vada a casa, come del resto aveva promesso agli italiani prima del referendum». Non solo. L’ala più movimentista del M5S guidata da Fico non sta digerendo l’eccessiva disponibilità a trattare col Pd sulla legge elettorale del fronte governativo di Luigi Di Maio: e così ha proposto e ottenuto obtorto collo di lanciare una mozione di sfiducia al ministro Pier Carlo Padoan per la nomina di Alessandro Profumo, ex presidente Mps, al vertice di Leonardo-Finmeccanica.
Ma sarà comunque una capigruppo a decidere quando la mozione verrà calendarizzata, perché intanto va deciso quando verrà chiamato il governo in aula per l’informativa. Solo dopo verrà depositata la mozione, prima alla Camera e poi al Senato fanno sapere i grillini. Per il governo è chiaro che non c’è fretta, ieri in consiglio dei ministri non si è fatto cenno alla questione, neanche una parola. Boschi è apparsa tranquilla, ha spiegato i decreti legislativi sul lavoro senza mostrarsi in ansia.
È il Pd invece che aspetta con ansia i sondaggi che escono il lunedì: per vedere se il caso ha avuto qualche riflesso. Le ultime rilevazioni dopo le primarie avevano infatti registrato un rialzo dei consensi, con un sorpasso sui grillini di tre punti secondo Swg. L’ultimo sondaggio Ixè mostra un recupero del Pd, ma lo dà sempre sotto i 5stelle, con Renzi che però guadagna tre punti nell’indice di fiducia dei leader rispetto al mese precedente, salendo al 28%, seguito da Luigi Di Maio con il 22%.
Dunque per tenere alta la china i Dem sperano che il caso si sgonfi e si cullano nell’illusione-speranza che i 5Stelle non si accaniscano in Senato chiedendo un voto sull’esecutivo che potrebbe risultare insidioso. Gli uomini di Bersani sono piuttosto agguerriti nelle dichiarazioni sulla vicenda, ma per ora non si scagliano con particolare vigore contro il governo. «Noi abbiamo una posizione dura, ma formalmente non abbiamo attivato nessuna procedura parlamentare», conferma il senatore Fornaro. «Siamo ancora in attesa di chiarimenti, ad oggi Ghizzoni non smentisce nulla, la Boschi non può limitarsi a dire querelo: il Parlamento è il luogo dove un esponente del governo chiarisce, poi se uno esce convinto da cosa dice, è da vedere». Quindi i bersaniani, dopo che il loro leader aveva evocato le dimissioni di Boschi in assenza di un chiarimento, non si sbilanciano ancora sul voto della mozione grillina.
La Stampa 13.5.17
Serracchiani, frase choc sullo stupro
“Più grave se lo commette un profugo”
Fuoco incrociato sulla governatrice Pd. Lei replica: “Chi è accolto non tradisca la fiducia” Imbarazzo tra i democratici. Mattarella: sui migranti serve responsabilità e intelligenza
di Ugo Magri
Lo stupro è davvero più grave se a commetterlo è un profugo, accolto come un fratello? Debora Serracchiani, presidente «dem» del Friuli Venezia Giulia, è convinta di sì, tradire la fiducia costituisce senz’altro un’aggravante. E nonostante il putiferio che si è scatenato sui social, anzi a dispetto del diluvio di insulti ricevuti da tutti gli schieramenti politici, soprattutto da sinistra ma addirittura da Salvini, ha tenuto il punto fino in fondo. Alimentando così il dubbio che non si sia trattato di un lapsus, e l’esponente renziana (è stata vicesegretaria Pd) abbia studiatamente deciso di mettere le vele al vento di certi umori così diffusi nei confronti degli immigrati. Nel qual caso gli sdegni sopra le righe, anziché danneggiarla sul piano elettorale, finirebbero per darle scioccamente una spinta in vista delle Regionali che si terranno nel 2018. Ma sono solo dietrologie: lei giura di essere stata fraintesa. Ha trascorso l’intera giornata a chiarire che lo stupro è grave sempre, perfino se l’autore fosse un nostro compatriota.
Graduatoria fuori luogo
Tuttavia l’attenzione collettiva si è appuntata sul testo della dichiarazione resa l’altro ieri, dopo il tentativo di stupro commesso a Trieste da un richiedente asilo iracheno. Ed è stato lì che la Serracchiani s’è impiccata con le sue stesse parole. Argomentando che la violenza contro le donne è «un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro paese». Tra i più lesti a insorgere il giornalista e scrittore Roberto Saviano. Sarcastico: «Salvini saluta l’ingresso di Serracchiani nella Lega. Spero che la candidi lui». Solo che Matteo non la vuole nemmeno in fotografia perché «lei e il Pd sono complici di questa invasione»: chiaro l’obiettivo di difendere il suo recinto e di screditarla agli occhi dei lepenisti (della serie, non vi fate abbindolare da questa finta conversione). Per Roberto Fico, grillino, Debora si è espressa in maniera «razzista». Più indulgente (ma di poco) il sindaco milanese Giuseppe Sala: «Quella frase le è scappata». Orripilati i 9 consiglieri Pd a Palazzo Marino: «parole inaccettabili». Letteralmente infuriati quelli di Mpd, in gara tra loro nella condanna, e di Sinistra Italiana («Si vergogni»). E perfino dalle donne di Forza Italia si sono levate espressioni colme di biasimo.
L’auspicio di Mattarella
Praticamente nessuno (nemmeno la Serracchiani) ha sfiorato il tasto che maggiormente interessa a chi sta dalla parte dei profughi: la legalità come premessa dell’accoglienza. Pretendere una buona condotta da quanti ricevono aiuto non è di destra né di sinistra, ma semplicemente una regola di civiltà. L’unica voce a ricordare il concetto è rimbalzata dal Sud America. Interpellato dai cronisti a Montevideo, Sergio Mattarella ha segnalato che «il fenomeno dei migranti va governato con senso di responsabilità, con saggezza ma anche con intelligenza». Anche, e forse soprattutto.
La Stampa 13.5.17
Danese, biondo e con gli occhi azzurri
Così abbiamo comprato un papà su misura
Le banche del seme spediscono a domicilio il kit per l’inseminazione fai da te I prezzi: da 300 euro a 12 mila, dipende dal donatore. Ordini in crescita dall’Italia
di Gabriele Martini
Il sogno di diventare madre è racchiuso in una scatola di cartone che arriva dalla Danimarca. Dentro ci sono un contenitore di polistirolo pieno di ghiaccio secco, una fiala di sperma, una siringa e il libretto con le istruzioni per l’inseminazione artificiale fai da te.
Si ordina online e si riceve a casa, poi s’incrociano le dita. Nessuna visita, nessuna clinica, nessuna degenza. E - va da sé - nessun risultato garantito.
Ma tante speranze, almeno a giudicare dalle 500 italiane che nel 2016 si sono rivolte a Cryos International, una delle più grandi banche del seme al mondo nonché la prima a fornire il servizio che non richiede assistenza medica.
In Italia, a oltre tre anni dalla sentenza della Consulta che cancellò il divieto di fecondazione eterologa, solo tre Regioni (Toscana, Emilia e Friuli) forniscono la procreazione assistita con seme e ovociti estranei alla coppia. Due mesi fa l’eterologa è stata inserita nei nuovi «Livelli essenziali di assistenza», cioè il minimo comun denominatore delle prestazioni sanitarie. Significa che le Regioni dovranno attrezzarsi. Ma i problemi restano: carenza di fondi, lungaggini burocratiche e resistenze politiche. L’eterologa, inoltre, è consentita solo a coppie eterosessuali sposate o conviventi. Su Internet invece non ci sono vincoli: bastano un computer, qualche centinaia di euro e un po’ di pazienza. Il primo passo per le aspiranti madri è scegliere il donatore.
La voce del donatore
Navigando sul sito di Cryos, l’impressione è quella di essere su Amazon: con un clic si seleziona la razza, con un altro il colore degli occhi, la tinta dei capelli, il gruppo sanguigno. E poi altezza, peso e professione. Fin qui le informazioni di base. Pagando un costo extra si aprono però le porte dei cosiddetti profili «estesi». Alle caratteristiche estetiche si aggiungono informazioni sul carattere, la vita e la famiglia. Per ogni donatore il sito consente di passare al setaccio il percorso di studi, le foto di quando era bambino, hobby, aspirazioni e tratti della personalità. Poi ci sono il testo motivazionale scritto a mano che consente di valutare linguaggio e grafia, l’albero genealogico per indagare storie e longevità degli antenati e anche una registrazione audio per poterne apprezzare il timbro di voce. I donatori attualmente a catalogo sono 779. La quasi totalità (722) sono di razza «caucasica» e questo conferma anche il target dei compratori, tendenzialmente europei. «I nostri clienti cercano persone affini a loro sia fisicamente che a livello professionale», racconta il direttore della Cryos International, Ole Schou. «In un certo senso siamo simili a un club per appuntamenti. Le persone si incontrano, si conoscono e si scelgono. Proprio come avviene nella vita reale».
Consegna a domicilio
Scegliamo il seme del donatore numero 5388. Razza «caucasica», occhi blu, capelli biondi, 192 centimetri di altezza e 92 chilogrammi di peso. Il gruppo sanguigno è 0+, tutte le analisi mediche (dal test dell’Hiv a quello per la sifilide) negative. Non ci sono invece informazioni su carattere, hobby e propensioni. E nemmeno foto, voce né albero genealogico. Conosciamo però l’occupazione del donatore: ingegnere elettrico. Il prezzo del suo seme parte da 37 euro a fiala. A questi si aggiungono 174 euro per la spedizione e l’Iva al 25%, per un totale di 263,75 euro. Appena inviata la richiesta però la responsabile degli ordini per l’Italia, Katrine Falgaard, ci contatta per metterci in guardia e spiegarci che le quantità ordinate (0,4 ml) non sono sufficienti per il fai da te (il listino online è lo stesso utilizzato dalle cliniche per i trattamenti tradizionali). Ci invita quindi ad acquistare almeno 1 ml di seme e soprattutto ci consiglia di scegliere una motilità (l’indice che misura l’attività degli spermatozoi) più alta per aumentare la possibilità di successo, anche perché l’inseminazione in versione casalinga ha percentuali di riuscita inferiori rispetto alle tecniche utilizzate nei centri di procreazione medicalmente assistita. Da 263,50 euro il prezzo balza così a 477. Ma una fiala può arrivare anche a superare i 1600 euro (Iva esclusa) a seconda del profilo del donatore. Fino ai 12 mila richiesti per un «padre» in esclusiva. Scegliamo l’opzione low cost: l’ordine va a buon fine, non resta che attendere il pacco.
Dopo due giorni la confezione arriva via posta e contiene tutto il necessario per procedere all’istante. Le istruzioni, scritte in italiano, sono poche e semplici. Dieci minuti per lo scongelamento del seme, un taglio netto per aprire la fiala, un adattatore per riempire la siringa. A quel punto, recita il libretto, basta «inserirla in profondità dentro la vagina, il più possibile vicino all’ingresso della cervice, poi rilassarsi e iniettare il seme delicatamente e lentamente». Infine si consiglia di «lasciare la siringa per alcuni secondi, quindi rimuoverla lentamente e mantenere la posizione per i successivi 30 minuti».
Boom di richieste
Ma l’inseminazione fai da te è sicura? «Non è pericolosa. Però è una pratica desueta, che non viene più usata nel mondo scientifico. Le probabilità di successo sono più basse di quelle delle tecniche più moderne», spiega Elisabetta Coccia, direttrice del centro di procreazione assistita dell’ospedale Careggi di Firenze. Le spedizioni dalla banca del seme verso l’Italia sono in costante aumento anche se il mercato non è paragonabile a quello internazionale, che conta tra i 50 e i 100 ordini giornalieri. E per diventare donatori? Bisogna sottoporsi a esami medici, ma soprattutto garantire la disponibilità a recarsi almeno una volta alla settimana presso i laboratori dell’azienda ad Aarhus (città danese della penisola dello Jutland) per effettuare le donazioni. Non sono previsti pagamenti, ma solo un rimborso spese di 33 euro a seduta. «La loro è una vocazione». Nessuno, ci tengono a precisare da Cryos, «lo fa per soldi».
Corriere 13.5.17
Una (nuova) via della Seta per la Cina potenza globale
di Guido Santevecchi
Nella nostra memoria è un mito: la Via della Seta che ci riporta a Marco Polo. Ora, l’antica rotta delle carovane che dalla Cina arrivavano in Europa attraversando l’Asia e il Vicino Oriente è al centro del piano di diplomazia economica più ambizioso di Pechino. Si chiama «Una cintura una strada» ed è l’iniziativa di Xi Jinping per costruire una rete globale di infrastrutture lungo le quali far scorrere i commerci (cinesi anzitutto).
I progetti prevedono investimenti internazionali per 900 miliardi di dollari nei prossimi 5-10 anni; 502 miliardi in 62 Paesi entro il 2021, secondo i calcoli degli analisti di Credit Suisse. Questa montagna di denaro servirebbe a costruire porti, autostrade, linee ferroviarie ad alta velocità, reti elettriche soprattutto in Paesi in via di sviluppo. Un sogno fatto di ombre cinesi o una realtà già in marcia?
Domani e lunedì a Pechino Xi Jinping riunisce 28 capi di Stato e di governo, un centinaio di ministri, leader di 70 organizzazioni internazionali per il «Forum Belt and Road for International Cooperation». Arrivano tra gli altri il russo Vladimir Putin, il premier pachistano Nawaz Sharif, il filippino Rodrigo Duterte, la signora Aung San Suu Kyi del Myanmar. Manda una delegazione anche Donald Trump, che sta cercando di stringere nuove intese economiche con Xi. Può sorprendere la presenza di una delegazione da Pyongyang: la Nord Corea è il Paese più isolato del mondo e non c’è da credere che a breve sia possibile associarla a una Via della Seta, ma evidentemente gli emissari di Kim Jong-un sono a Pechino per discutere di come evitare uno scontro militare con gli Usa.
Xi Jinping ha parlato di nuova Via della Seta per la prima volta nel 2013. Sembrava solo una suggestione. Invece rapidamente i cinesi hanno spiegato di voler connettere Cina ed Europa con corridoi terrestri e marittimi attraversando l’Asia e toccando l’Africa: al momento ci sono sei percorsi tracciati sulle mappe. Quello marittimo potrebbe sboccare in Italia, come nei tempi epici dell’Antica Roma e della Dinastia Han (206 avanti Cristo-220 dopo Cristo). I romani peraltro pare non sapessero nemmeno se la seta fosse di origine animale o vegetale e l’attribuivano al Popolo dei Seri. La definizione Via della Seta fu coniata dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen nel 1877: Seidenstraße la chiamò il barone.
La collaborazione di Roma
L’Italia è rappresentata dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, unico leader di un Paese europeo del G7 presente a Pechino. Stiamo rincorrendo una partecipazione possibilmente di peso. Durante la visita a febbraio, il presidente Mattarella ha offerto i nostri porti di Genova sul Tirreno e Venezia-Trieste sull’Adriatico come terminali della via marittima: bisogna decidere in fretta, perché i cinesi si sono già insediati al Pireo. Vorremmo lavorare assieme ai cinesi anche per costruire infrastrutture in Asia centrale e Africa. Ieri sul China Daily , giornale governativo in lingua inglese, un’intera pagina presentava la partecipazione italiana: i cronisti cinesi hanno rintracciato a Montecarlo anche «l’ultimo discendente di Marco Polo».
Sarà firmato un memorandum per la costituzione di un fondo di investimento italo-cinese da 100 milioni di euro tra Cassa depositi e prestiti e China Development Bank per sostenere imprese nostre e loro impegnate lungo la Via della Seta.
Marco Tronchetti Provera, presidente del Business Forum governativo italo-cinese, porta a Pechino 70 piccole e medie imprese italiane che avranno l’opportunità di incontrare 170 aziende cinesi con le quali si punta a costituire intese. Tronchetti Provera ha già pilotato con successo Pirelli nella fusione con il gigante ChemChina. Insomma, grandi (e piccoli o medi) progetti globalizzati che possono rappresentare un’opportunità anche per il Sistema Italia.
Qualche perplessità
Non mancano dubbi e rischi. Questo grande esborso di capitali è possibile per la Cina che rallenta? In mandarino «Una cintura una strada» si dice «Yi Dai Yi Lu» e la frase qui è diventata ormai sinonimo di Apriti Sesamo per ottenere appoggio politico e fondi statali: già l’anno scorso gli investimenti di Pechino lungo la rotta asiatica hanno superato i 16 miliardi, che comprendono i fondi per l’acquisto del porto pachistano di Gwadar. Però, i corridoi commerciali e di infrastrutture debbono attraversare regioni instabili, come l’Asia centrale, il Pakistan, il Myanmar, il Golfo di Aden, l’Africa orientale e settentrionale. Solo per fare un esempio, il corridoio pachistano si scontrerebbe con la presenza di guerriglia talebana.
Niall Ferguson, storico e autore tra l’altro di Impero e Soldi e potere nel mondo moderno dice al Corriere : «Via della Seta è un nome romantico, ma dubito che i percorsi terrestri siano praticabili, troppa instabilità. La via marittima invece è possibile, però resta da vedere se la Cina non la userà come copertura per dotarsi di una Marina militare capace di sfidare la supremazia americana». Una sola certezza: Xi Jinping ha lanciato un nuovo grande gioco geopolitico per creare un mondo globalizzato nel quale tutte le strade portano a Pechino.
Repubblica 13.5.17
Il presidente Xi Jinping presenta domani il maxi progetto di investimenti in un “blocco” di 64 Paesi Porti, strade, un oleodotto: infrastrutture che attraverseranno tutta l’Asia. Con un impatto anche sull’Italia
La nuova Via della seta da 650 miliardi Pechino lancia il suo ordine mondiale
di Angelo Aquaro
PECHINO. Anche Marco Polo, nel suo piccolo, se lo domandò: “Come il Grande Kane conquistò il reame”? Il Gran Khan di oggi si chiama Xi Jinping, adesso come ieri il leader mondiale “più possente d’averi e di gente”. Ma stavolta altro che milione: 140 miliardi di budget iniziali, 650 miliardi che in 5 anni finiranno investiti in almeno 62 paesi. Ecco a voi i segreti della Belt and Road Iniziative, il super summit che da domani vedrà sfilare qui a Pechino una trentina tra capi di Stato e di governo, compreso Paolo Gentiloni: in rappresentanza dei 64 paesi che seguiranno la Cina sulla nuova via della Seta, ma anche degli altri 48 — come l’Italia — che pure non iscritti a questo “blocco” partecipano al progetto che coinvolge almeno 112 nazioni. Ma di che si tratta davvero? E che ci fa, per esempio, la Corea del Nord sull’antica strada tracciata dal nostro Polo?
La bulimia propagandistica cinese continua a sfornare nomi su nomi. Nuova Via della Seta. Obor, cioè One Belt One Road: una cintura una strada. Bri, cioè Belt and Road Initiative. Ma l’idea è semplicissima: la costruzione di un sistema di infrastrutture che leghi la Cina al resto del mondo. La prima volta che se ne parla è il 7 settembre del 2013, il luogo è Astana, Kazakistan, ed è qui che Xi Jinping, eletto da appena sei mesi, pone la prima pietra. «Shaanxi, la mia provincia, si trova proprio all’inizio della Via della Seta», dice, rievocando il viaggio di 2100 anni prima di un dignitario cinese lì nell’Asia centrale. «E oggi, riandando al passato, posso quasi sentire i campanacci del cammello echeggiare qui tra i monti».
Ne ha fatta di strada quel cammello: anche grazie ai 40 miliardi di dollari che Pechino ha investito. Occhio: il 2013 è anche l’anno del lancio di Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank, che con 100 miliardi di dollari di capitalizzazione è l’altra cassaforte dei carovanieri di oggi. E che si fa con tutti questi soldi? I cinque più grandi progetti tra i tanti che i cinesi hanno già messo a punto sono tutti da favola. Il treno che parte da Xian e arriva via Rotterdam a Londra. Il corridoio pachistano con il porto di Gwadar. La ferrovia che collega la Cina con l’-I-ran. L’oleodotto dell’Asia Centrale. Il centro di smistamento di Khorgos ribattezzato la Nuova Dubai: proprio lì nel Kazakistan dove la via della seta rinacque.
E l’Italia? Per la sua storia sarebbe la candidata naturale a raccogliere le ricchezze dell’Asia e rilanciarle in Europa. I cinesi, però, si sono comprati il porto del Pireo, anche se in tutte le loro mappe Venezia compare sempre: sperando che prima o poi diventi qualcosa di più dello specchietto da depliant. Certo non ci sono solo i porti: con 43 miliardi di esportazioni l’Italia è il quinto partner in Europa della Cina, che da noi ha investito 12 miliardi di dollari: Pirelli, Inter e Milan comprese. E poi mettersi in viaggio sulla nuova via della seta conviene: proprio nei giorni del meeting la Cassa Depositi e Prestiti lancia con China Development Bank il primo fondo comune, da 100 milioni di dollari, destinato alle piccole e medie imprese.
Certo: Xi Jinping l’ha detto a Davos che mentre Donald Trump pensa all’America First, prima all’America, la Cina è pronta a prenderne il posto alla guida della globalizzazione. Gli Usa proprio ieri, annunciando che manderanno perfino loro una delegazione al supermeeting, hanno siglato una piccola pace commerciale, primo frutto del “piano dei cento giorni” attrezzato da The Donald e il nuovo Mao a Mar-a-Lago: dalle carni alle credit card passando per la biotecnologia via libera all’export americano in cambio di una maggiore attenzione verso «gli investimenti diretti di compagnie cinesi». Per il presidente Usa è un voltafaccia dopo il viso duro mostrato in campagna elettorale: ma si sa che in questo momento si concede (quasi) tutto a Pechino che sta cercando di contenere l’atomica di Kim Jong-un. Per il Dragone è un ulteriore riconoscimento del nuovo ordine cinese. Ma non sarà allora che anche questa via della seta, questo gigantesco piano Marshall made in China, è solo il proseguimento della guerra (per l’egemonia) con altri mezzi? «C’è un detto cinese che dice: discutiamo dei problemi invece che della teoria. Ed è chiaro che la cooperazione economica incrocia la geopolitica », dice a Repubblica Zheng Liansheng, economista dell’Accademia di scienze sociali e esponente del think thank Pangoal. «Ma i nostri cari partner occidentali hanno forse un meccanismo migliore per promuovere la cooperazione internazionale? ». E no: di Marco Polo, nel suo piccolo, non ne abbiamo più.
E intanto arriva un accordo commerciale con gli Usa: banche, carne e biotecnologia Il piano.
Il presidente Xi Jinping presenta domani il maxi progetto di investimenti in un “blocco” di 64 Paesi Porti, strade, un oleodotto: infrastrutture che attraverseranno tutta l’Asia. Con un impatto anche sull’Italia
Repubblica 13.5.17
Parla la psichiatra californiana Elissa Epel: ottimismo e meditazione sono la cura per restare giovani e vivere bene la terza età
“Lo stress peggiora il Dna così i cattivi pensieri fanno invecchiare prima”
di Giuliano Aluffi
Attenti ai cattivi pensieri: ci fanno invecchiare più in fretta. Però, liberandoci da pessimismo e negatività possiamo cercare di prolungare il periodo d’oro della terza età, quello senza particolari malattie. In un articolo dal titolo esplicito ( I pensieri accelrano l’invecchiamento?) pubblicato sul blog della prestigiosa TED Conference lo sostiene Elissa Epel, psichiatra e direttrice dell’Aging, Metabolism and Emotions Center alla University of California, già autrice, insieme a Elizabeth Blackburn, premio Nobel per la medicina, del saggio La scienza che allunga la vita (Mondadori). Professoressa Epel, quali sono i pensieriche ci fanno invecchiare anzitempo? «Quelli costantemente negativi. Chi è depresso tende a subire i danni della vecchiaia prima degli altri, perché le sue cellule invecchiano più precocemente. La “colpa” è dei telomeri: estremità protettive dei cromosomi, che si riducono a ogni divisione cellulare e, quando sono esauriti, impediscono alle cellule di dividersi ulteriormente, facendole invecchiare insieme agli organi. Abbiamo trovato che i depressi tendono ad avere i telomeri dei leucociti più corti rispetto agli altri: ciò indebolisce il loro sistema immunitario e predispone a una vecchiaia piena di acciacchi ». Come si spiega? «Un’attività associata al pensiero depressivo, la “ruminazione” – ossia l’essere intrappolati in pensieri negativi ripetuti che riguardano episodi del passato – fa sì che il corpo non riesca a liberarsi dallo stress anche quando non c’è più motivo. Così l’ormone dello stress – il cortisolo – va in sovrapproduzione e riduce la telomerasi, enzima in grado di riparare e riallungare i telomeri. In uno studio riguardante donne che hanno cura di familiari malati cronici, io ed Elizabeth Blackburn abbiamo visto che stress e ruminazione sono associati a telomeri più corti e meno telomerasi nei linfociti T. Se dura più di sei mesi, la depressione è associata a un accorciamento dei telomeri irrimediabile». Lei però parla di “associazione”: significa che non c’è ancora certezza che il pessimismo o la depressione siano la causa dell’accorciamento dei telomeri? «Nel caso di malattie molto complesse, come la depressione, è difficile distinguere tra causa ed effetto. Ma dagli studi sullo stress – sia sugli umani che sugli animali – emergono elementi a sostegno di una causalità tra stress e telomeri più corti». A quali altri tipi di pensieri dobbiamo stare attenti? «L’ostilità cinica: è un’attitudine soprattutto maschile che predispone a ritenere gli altri animati da intenzioni malevole. Uno studio del 2012 mostra che questo tratto è associato a un rischio maggiore di malattie della vecchiaia e mortalità, e a telomeri dei leucociti più corti. Anche le fantasticherie legate a un giudizio negativo della realtà, come il desiderare di essere da un’altra parte o di essere un’altra persona, sono associate a telomeri più corti». Si può usare il pensiero per proteggere i telomeri? «La meditazione può aiutare, perché riduce lo stress cronico, che è l’unico davvero dannoso per la salute. Una tecnica efficace è chiudere gli occhi, rilassarsi e focalizzare la nostra attenzione sui pensieri mentre si susseguono, come guarderemmo passare le auto da una finestra. Così impariamo a riconoscere i pensieri negativi e a non farci dominare da loro. Nel 2013 abbiamo condotto uno studio su persone sottoposte a notevole stress cronico: i volontari che prestano assistenza ai malati di demenza senile. Abbiamo diviso il campione in due gruppi che svolgevano due diverse attività per un quarto d’ora al giorno per due mesi: meditare oppure ascoltare musica. Il gruppo che ha meditato aveva una telomerasi più attiva degli altri. Altri studi mostrano che tecniche yoga come il Kirtan Kriya possono aumentare di oltre il 40% la produzione di telomerasi»
Repubblica 13.5.17
L’ora di Kerenskij
Era figlio delle bizzarrie della storia, nato nella stessa città di Lenin, eterno nemico
di Ezio Mauro
San Pietroburgo Per un momento, quel mattino, tutto sembrò uguale a prima, come un trucco della storia, a partire dal sole di primavera che in nessun posto è ingannevole come in Russia, dopo il gelo dell’inverno. Era un martedì quando la sagoma nera e blu di una delle 56 automobili del parco imperiale (una Delaunay- Belleville modello 45) si presentò davanti al cancello principale della reggia di Zarskoe Selo, coi pneumatici di riserva appesi alla fiancata, come sempre. Ma quell’ingresso era chiuso da due settimane, le vetture di servizio passavano ormai dal portone più piccolo, sul viale laterale, tra il Palazzo e la chiesa, l’auto era stata requisita dal governo provvisorio per i suoi ministri e quel cancello segnava in realtà il confine tra il prima e il dopo, tra la rivoluzione e l’Impero. Tutti capirono che questa era una visita speciale, anche se organizzata all’improvviso, fuori da ogni protocollo e senza avvertire nessuno, nemmeno il Maresciallo di Corte che era rimasto al suo posto col monocolo innestato dopo l’abdicazione, come se le forme regali potessero sopravvivere senza il trono, la corona e l’Impero: senza lo Zar.
E invece il mondo immutabile per trecento anni della dinastia Romanov improvvisamente si era rovesciato, proprio qui fuori, dove adesso il vuoto cancella ogni segno del tempo e il silenzio copre la distanza del secolo. Dietro quelle finestre oggi socchiuse e buie, la Zarina cent’anni fa non riusciva ad accettare l’accaduto («il a abdiqué, il a abdiqué», ripeteva incredula aggirandosi per il suo appartamento appena avuta la notizia dal Granduca Pavel, due giorni dopo la rinuncia al regno), mentre nelle stanze al primo piano il precettore svizzero dello zarevic Aleksej faceva sedere in poltrona l’erede a un trono che non c’era più per informarlo poco alla volta, svelandogli l’inconcepibile nella camera dei giochi. «Sapete – disse un mattino alle 11 monsieur Pierre Gilliard – vostro padre non vuole più essere imperatore». «Come? E perché?». «Perché è molto affaticato e ha incontrato molte difficoltà, ultimamente ». Il ragazzo alzò lo sguardo, rimase in silenzio, quindi domandò: «Ma poi sarà di nuovo imperatore?». «Non lo so…». «Ma allora, se non ci saranno più imperatori, chi governerà la Russia?». In questa sospensione dei destini e in questa sostituzione dei rituali una Corte rimpicciolita e stordita continuava a recitare l’antico cerimoniale con una superstizione mimetica della regalità perduta, quasi fosse eterna e impermeabile agli eventi. Così quando il marinaio autista aprì la porta dell’auto e Aleksandr Kerenskij fece il saluto militare, il conte Benkendorf provò a chiedere a che cosa l’imperial Casa doveva l’onore della visita. «Vorrei vedere Nikolaj Aleksandrovic e la moglie e ispezionare il Palazzo, stanza per stanza», disse il nuovo ministro della Giustizia. Come se non fosse successo nulla intorno a lui, il vecchio conte fece finta di non aver sentito la bestemmia del nome reale pronunciato per la prima volta nudo e spoglio nell’eco della reggia, senza più il titolo imperiale. Accennò appena un inchino e prese tempo: «Riferirò a Sua Maestà ». Quindi salì le scale, da cui negli ultimi giorni erano scesi di corsa per andarsene per sempre valletti, dame di compagnia coi loro bauli, dignitari, cosacchi della Guardia, corrieri col berretto guarnito di piume, persino i medici dei ragazzi e l’infermiera. Un altro inchino al ritorno: «Sua Maestà ha gentilmente acconsentito a ricevervi».
In realtà “Sua Maestà” non aveva nessuna scelta. Il Primo Maresciallo sapeva, come tutti, che l’8 marzo il governo provvisorio aveva pubblicato un decreto per «privare della libertà l’imperatore abdicatario e la consorte» e aveva spedito quattro deputati a Mogilev per «prenderlo in custodia» e accompagnarlo alla residenza di famiglia: agli arresti nel Palazzo, dove gli aprirono le porte chiamandolo «signor colonnello », come mai era successo prima. Ma quello che nessuno sapeva è che nelle riunioni del Soviet Vjaceslav Molotov aveva predisposto un piano per arrestare l’ex Zar, la sua famiglia e tutti i Romanov, e rinchiuderli nel bastione Trubezkoj della fortezza di Pietro e Paolo, per un veloce processo che avrebbe con ogni probabilità portato all’esecuzione.
Lo stesso Kerenskij fu attaccato direttamente dagli operai del Soviet di Mosca, che volevano Nikolaj II in galera: «Perché è ancora libero? Perché può viaggiare tranquillamente per la Russia?». «Tengo a dirvi, compagni, che finora la rivoluzione russa non si è macchiata di sangue e non voglio che venga insozzata – rispose il ministro –. Non sarò mai il Marat della nostra rivoluzione. Tra breve l’ex Zar sarà imbarcato su una nave e inviato in Inghilterra sotto la mia personale responsabilità ». Non ci fu nessuna nave, perché il governo inglese si tirò indietro e perché il Comitato esecutivo del Soviet fece presidiare tutte le stazioni fino alla Crimea e diramò l’ordine di arrestare Nikolaj se si fosse avvicinato ad un treno. Anzi, un blindato si presentò il 9 marzo a Zarskoe Selo per prelevare il sovrano decaduto e portarlo al Soviet, ma non avendo un mandato di cattura dovette ripartire senza il prigioniero, salvato dall’eterna subordinazione russa alla burocrazia.
Il ministro che adesso saliva al primo piano, attraversava i lunghi corridoi, entrava per la prima volta negli appartamenti privati dei Romanov era dunque il carceriere e insieme il garante di quella libertà prigioniera del cittadino Romanov, come ormai lo chiamavano gli uomini di guardia. Non si erano mai incontrati prima. Ambizioso, uomo forte del governo, teatrale e demagogo Kerenskij aveva capito d’istinto che avrebbe potuto accrescere la sua autorità nascente incrociandola davanti ai soldati e alla Russia spettatrice con l’autorità declinante dell’imperatore, ormai nelle sue mani come Procuratore Generale del nuovo Stato.
Segue nelle pagine successive
La Zarina cent’anni fa non riusciva ad accettare l’accaduto “il a abdiqué” ripeteva incredula
Sapeva di essere il tramite attraverso cui la rivoluzione appena scoppiata incrociava per la prima volta la dinastia imperiale morente, la persona che impersonava, – in quel momento e in quel palazzo – il trasferimento fisico e simbolico di sovranità, il potere dei Soviet e della Duma che bussava alla reggia per decretarne il vuoto, controllando intanto che il trono fosse rovesciato davvero, in un Paese abituato da secoli a quella che Dostoevskij chiama «la legge della catena ».
Incredibilmente, non venne condotto in uno studio e nemmeno in un salotto. Quella che si aprì era la camera delle ragazze. C’era tutta la famiglia riunita attorno a un piccolo tavolo sotto la finestra, vicino alla chaise longue dell’ex Imperatrice. Come bisognava salutare quell’uomo in divisa militare, ancora con le mostrine imperiali, abituato agli inchini e ai rituali, adesso che non aveva più nulla della vecchia regalità? «Kerenskij, Procuratore», si annunciò semplicemente il ministro, tendendo la mano all’ex Zar: che la strinse afferrando così, per la prima volta, la nuova dimensione in cui era appena entrato e per la quale non c’era consuetudine e mancava un protocollo. In piedi, Kerenskij chiese se era passata la rosolia ai ragazzi, scambiò qualche notizia sulla guerra, comunicò che il comando del Palazzo era adesso affidato al colonnello Korovicenko, salutò Alix informandola che la regina d’Inghilterra aveva chiesto sue notizie, poi invitò Nikolaj a passare in un salottino accanto, dove entrò per primo, da padrone. «Voi saprete – disse a tu per tu – che sono riuscito a far abolire la pena di morte… Non preoccupatevi, dovete fidarvi di me». Ma quando il ministro (il primo della storia russa nominato senza il consenso dello Zar) se ne andò, la prigionia divenne ufficiale come un decreto. Il cancello del Palazzo si chiuse dietro a Kerenskij e davanti alla famiglia, che per la prima volta aveva assistito all’inedito di qualcuno che dava ordini allo Zar.
Figlio perfetto dell’impero e delle bizzarrie della storia (era nato a Simbirsk sul medio Volga, proprio come Lenin, i loro padri dirigevano due scuole in città, un’elementare e un liceo, e il professor Kerenskij diventerà addirittura tutore dei due ragazzi Uljanov, dopo la morte del genitore), il ministro di Grazia e Giustizia rappresentava perfettamente l’uomo nuovo generato dal Febbraio, a cavallo tra borghesia e rivoluzione, tra la Russia di ieri e quella di domani. Avvocato, ribelle, aveva gettato la croce del battesimo nell’immondizia di casa a quattordici anni, aveva ascoltato a sei anni la notizia che sconvolgeva tutta Simbirsk di Sasha Uljanov, il fratello di Lenin, arrestato mentre preparava un attentato allo Zar e impiccato, aveva visto coi suoi occhi la terribile carrozza di cui in città tutti parlavano, con le tendine verdi abbassate, che quasi ogni notte portava gli oppositori del regime nelle prigioni della gendarmeria: e tuttavia pianse quando seppe della morte di Alessandro III.
Da studente, aveva assistito di persona alla “domenica di sangue”, col massacro dei dimostranti guidati dal pope Gapon, e scrisse per protesta una lettera al comandante della Guardia. Poi cercò di entrare in contatto con il nucleo terroristico del partito socialrivoluzionario, che lo scartò dopo un incontro carbonaro sul ponte Anickov, ma finì in cella nella prigione Kresty per aver firmato un articolo sul giornale Burevestnik, accusato di far parte di un’organizzazione che preparava rivolte armate e voleva rovesciare il regime, finché nel 1912 fu eletto alla Duma nel partito del lavoro, i “Trudoviki”. In parlamento pronuncerà uno dei discorsi più duri verso la monarchia: «Il nostro compito storico è rovesciare immediatamente questo regime medievale, costi quel che costi, senza mezzi legali, con la forza». Nella vigilia febbrile e inconsapevole dell’insurrezione, quando tutti rumoreggiavano e il presidente della Duma gli chiese di chiarire meglio le sue intenzioni, lui si alzò in piedi: «Mi riferisco a ciò che fece Bruto ai tempi di Roma». La frase venne cancellata dal verbale della seduta.
Ma è il lampo del Febbraio a toglierlo dall’anonimato, proiettandolo nella storia russa del ’17, dove lo raggiungerà sopravanzandolo Lenin, il suo eterno avversario. Quel lunedì 27, che verrà ricordato come il giorno della rivoluzione, mentre ancora le mitragliatrici sparano sul Mojka Quai e sulla Sergievskaja, è infatti Kerenskij a precipitarsi ai cancelli della Duma invitando la folla a entrare, a chiamare i soldati perché disarmino la Guardia con un colpo di mano e difendano il palazzo Tauride. È lui a comparire davanti al presidente del Consiglio Imperiale Shcheglovitov, che sta cercando di far valere l’immunità parlamentare dopo essere stato fermato per strada e a dichiararlo in arresto, primo detenuto nel padiglione del Palazzo che Kerenskij trasforma in carcere provvisorio della rivoluzione.
Immediatamente popolare tra i soldati, oratore appassionato, quando nasce il primo governo provvisorio gli viene proposto il ministero della Giustizia. Ma il Soviet ha appena deciso di non partecipare, perché il governo «è borghese», e lui è vicepresidente del Soviet. A sorpresa entra nella sala del Comitato esecutivo, interrompe la seduta, sale sul tavolo e spiega che «è nell’interesse della Russia e degli operai che la democrazia rivoluzionaria abbia il suo rappresentante al governo, in modo che l’esecutivo sia in contatto permanente con la volontà del popolo». Urla, applausi, Kerenskij viene portato a spalle nei saloni della Duma e dentro il governo, mantenendo la vicepresidenza del Soviet, unico caso di doppio incarico per l’unico socialista del ministero Lvov.
Da quel giorno gli stivali militari di Kerenskij calpesteranno ogni angolo della rivoluzione. È seduto sul divano nel salotto della principessa Putjatin, il mattino dopo l’abdicazione dello Zar a Pskov, per convincere il Granduca Mikhail a rifiutare la corona, facendogli capire che nessuno potrà garantire la sua incolumità personale, nel malcontento popolare verso la dinastia. «Apprezzo profondamente la vostra decisione, assunta con nobiltà e da patriota», dirà dopo la rinuncia del Granduca, prima di tornare alla Duma con la firma sul foglio che scioglie per sempre il vincolo tra i Romanov e la Russia, procedendo tra la folla senza scorta, per raccogliere gli applausi alla repubblica che sta nascendo.
È vicino all’ex Primo Ministro Goremykin la notte in cui viene portato in carcere alla fortezza, si accorge che nasconde sotto la camicia la catena con dieci pietre preziose dell’ordine imperiale di Sant’Andrea apostolo ma non gliela requisisce, per compassione rivoluzionaria o per complicità borghese. È al telegrafo del ministero, quando dà l’ordine – come suo primo atto di governo – di far tornare con tutti gli onori dall’esilio siberiano la “nonna della rivoluzione”, Ekaterina Breshko-Breshkovskaja, che da ragazza aveva organizzato le “passeggiate tra il popolo” girando i villaggi con il fagotto di pezza infilato a un bastone sulle spalle per convincere i contadini a ribellarsi allo Zar: a 73 anni trova un picchetto d’onore che l’aspetta a Pietroburgo con la Duma e i ministri, Kerenskij che la fa ospitare in un appartamento a Palazzo d’Inverno, mentre il coro dei ragazzi schierati dal ministro la saluta con le strofe dei “difiramby”, i canti popolari dei contadini durante il raccolto e con l’inno del ringraziamento: «Noi ci inchiniamo di fronte a te, con una profonda gioia per la vittoria tanto attesa».
Nella vertigine di Pietrogrado – livida per l’elettricità che salta, la neve ormai sporca, il collasso del potere che si percepisce per strada – se c’è uno spettacolo della rivoluzione l’impresario statale è Aleksandr Fedorovic Kerenskij. Porta la mano infilata nella giacca al petto, dicendo che ha una ferita al braccio, in realtà perché ha il mito di Napoleone. Si fa fotografare in ufficio col colletto inamidato, il fiocco e il doppiopetto, con un foglio in mano. A ogni comizio raccoglie applausi parlando contro la pena di morte. Riceve i Granduchi, guidati da Kirill, che professano sottomissione alla Duma. Usa con perizia la polizia segreta, abituato fin da ragazzo ad avere due agenti davanti a casa con calosce, soprabito nero e l’ombrello in mano in qualunque stagione. Crea un super-gabinetto interno al governo con altri quattro ministri massoni, e lui lo guida: è iscritto alla Società dal 1912, in una loggia che ammetteva anche le donne, con il giuramento solenne di rispettare la disciplina e non rivelare mai il nome degli altri aderenti. Ubbidirà anche dall’esilio.
Ma è al fronte che Kerenskij unisce insieme la retorica militare, l’ideologia rivoluzionaria, la religione russa della patria e il culto fanatico di sé. Dal 2 maggio, con le dimissioni di Guckov, diventa ministro della Guerra. Trova una situazione disastrosa. La Germania, convinta che la Russia nel caos non sia più una potenza internazionale, invitava i soldati a incrementare il disfattismo, fraternizzando coi russi nelle trincee. Nelle strade delle due capitali, nei villaggi di campagna si rovesciava quasi un milione e mezzo di sbandati dal fronte. A Piter i marinai erano padroni del quartiere che va dal lungofiume inglese fin quasi al teatro Mariinskij, i più eccitati derubavano i passanti, sequestravano le persone chiedendo un riscatto. Intanto tre reggimenti della 163ma divisione sul fronte romeno si ribellano agli ordini, bisogna minacciarli con i cosacchi pronti ad aprire il fuoco. Ma altre unità della 12ma e 13ma divisione si rifiutano di avanzare. Gli agitatori bolscevichi (Semasko, Sivers, Krylenko, Dzevaltovskij) fanno propaganda tra le truppe per la pace, e gli uomini abbandonano i fucili: «Vi esortiamo a non morire per gli altri in guerra, ma a annientare i vostri nemici di classe interni».
Il ministro restituì subito agli ufficiali i poteri che Febbraio aveva tolto, primo fra tutti l’uso della forza sui subalterni per far rispettare la disciplina. «La patria è in pericolo – dichiarò solennemente – ognuno deve sventare questa minaccia, tutti i soldati e i marinai devono tornare al loro posto entro dieci giorni». Poi Kerenskij partì per due settimane di visita al fronte. Prima alla flotta pesante sul golfo finnico, poi allo schieramento sud-occidentale a Tarnopol, quindi a Odessa, ancora a Riga dal comando settentrionale, infine a Dvinsk dove operava la Quinta Armata. Fu un autoinganno. L’oratoria appassionata, emotiva e demagogica del ministro sollevò fiammate improvvise di entusiasmo tra i soldati, prima che il logoramento della lunga guerra, le speranze suscitate dalla rivoluzione tornassero subito a spargere la frustrazione ribelle tra le trincee. Ma Kerenskij si illuse di poter ribaltare lo stato d’animo, riaccendendo la voglia di combattere. Era esaltato, frastornato, con le truppe che gli lanciavano fiori sul Mar Nero, gli baciavano gli stivali in Lettonia, lo acclamavano piangendo in Galizia. L’estasi patriottico- militare contagiò anche Olga Lvovna, la moglie infermiera per qualche mese, che definiva un atto “religioso” lavare i piedi dei soldati.
Tutto questo portò Kerenskij a scatenare l’offensiva di primavera, cercando per via militare quella forza che il governo provvisorio non aveva per via politica, con i soviet che erano ormai quasi mille, i sindacati che si moltiplicavano, i bolscevichi che crescevano nelle fabbriche e nelle tessere, le Guardie Rosse che si organizzavano militarmente. Il ministro guidò personalmente l’attacco, aspettando l’“ora zero” sulle colline ucraine. Per due giorni l’esercito avanzò: il terzo giorno ripiegò, poi la ritirata divenne una fuga senza controllo, con la perdita del 35 per cento dei pezzi d’artiglieria e degli aerei. Kerenskij prova a dare la colpa ai bolscevichi infiltrati tra le truppe, scrive un telegramma agli ambasciatori alleati, denunciando l’invio da parte dei loro governi di forniture belliche difettose. Dal fronte, il comandante Denikin lo accuserà di “isterismo”.
L’insuccesso militare, il malcontento dei contadini, la deriva dei soldati in rotta gonfiavano di nevrosi Pietrogrado, una città irreale, isterica, sospesa in un passaggio doloroso tra il vecchio e il nuovo, la cornice urbana intatta, il cuore trapiantato e fortemente sollecitato. Così le parole d’ordine bolsceviche passavano da una strada all’altra con le venditrici di semi di girasole, con i distributori di kvas, la bevanda di pane fermentato, con le mogli dei soldati. Comizi spontanei e assemblee improvvisate si davano il cambio alla Fontanka, a due passi dal famoso parrucchiere Bogdanov, con l’insegna che diceva “maestro di taglio” al numero 80 del Nevskij, vicino al giornale di moda Chic viennese, che chiuderà a fine anno. Ma sul Nevskij si aprivano dieci cinema, prima che la notte diventasse insicura anche se bianca, dal Palais Cristall al Comic, al Piccadilly fino al fantastico Parisiana che aveva 800 posti e il soffitto che da maggio si apriva sul cielo. I prezzi continuavano ad aumentare. Bisognava sostituire lo zucchero che non c’era col miele, carissimo, l’oca saliva dai 70 ai 90 copechi al “funt” (meno di mezzo chilo), i polli volavano a più di tre rubli l’uno. Costavano molto meno i bordelli popolari: 50 copechi, mentre quelli di lusso arrivavano fino a 12 rubli. Le inserzioni sui giornali – 20 copechi alla riga – compravano e vendevano tutto, anelli d’oro e gemelli d’argento, ma anche denti spaiati, dentiere rotte, apparecchi di cuoio per correggere la linea del naso, «massaggi offerti da signora molto colta ». I quotidiani proponevano i libri rilegati dei grandi autori russi ma anche i cartamodelli. Man mano che gli abiti francesi sparivano dalle vetrine si fece strada il mestiere del “perelizovshik”, il rovesciatore, che rivoltava gli abiti usati per nascondere l’usura e guadagnare tempo. La povertà cresceva, con la fame e la disperazione.
«Il mio esperimento liberale è finito – dirà il Primo Ministro Lvov, ormai sono un pezzo di legno in balia della marea rivoluzionaria». Man mano che il governo e Kerenskij perdono terreno Lenin e il suo partito avanzano, come sulla scacchiera che il leader bolscevico tiene in salotto nell’appartamento della sorella in via Shirokaja, e ancora oggi è lì, col suo meccanismo segreto per nascondere le carte bolsceviche. I due non si vedevano da una funzione religiosa a mezzanotte di Pasqua quando il ministro, bambino, riceveva la comunione vestito di picché bianco con la cravatta rossa e sapeva che alle sue spalle – nelle due file di studenti più grandi con l’uniforme azzurra dai bottoni d’argento – c’era lui, Vladimir Ilic Uljanov, che diventerà Lenin.
Si incontreranno, tenendosi a distanza, una volta sola, al congresso panrusso dei Soviet. Sono andato a cercare i segni di quell’unico contatto, al vecchio numero 1 del palazzo dei cadetti, sull’isola Vasilievskij. Oggi qui c’è l’università con le stanze “na remont?”,in ristrutturazione, ma se si arriva presto si può immaginare l’eco dei passi e degli applausi nella grande sala deserta e vuota del mattino, all’ora in cui Lenin dalla tribuna propose l’arresto immediato di 100 capitalisti, Kerenskij si alzò accusandolo di preparare la strada a un dittatore e mentre lui parlava Ilic prese i suoi fogli e se ne andò da questa porta. Tutti li guardavano. Si sfideranno per tutto il ’17 con Kerenskij agitato che balza in piedi nel suo ufficio al ministero ogni volta che parla di Lenin, e Ilic che lo addita come il fantoccio della borghesia. Si studieranno, si controlleranno a vicenda, si inseguiranno sfiorandosi fino a correre dentro l’epilogo verde e bianco del Palazzo d’Inverno, a ottobre. Uno deve cavalcare un Paese imbizzarrito, provando a governarlo, l’altro può aspettare, puntando sulla pazienza e sulla costanza nella furia russa della primavera che da Piter ha incendiato il mondo, cent’anni fa. In fondo, per Lenin anche Kerenskij era poco più di un “perelizovshik”, che rivoltava l’abito rabberciato a un ex Impero in miseria. Il vero sarto della rivoluzione, nel suo ufficio di quattro metri alla “Pravda”, stava già prendendo le misure alla Madre Russia.
il manifesto 13.5.17
Una lingua meticcia ferita dall’Europa colonialista
Mediterraneo. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall'inferno
di Luciana Castellina
Sabir: basterebbe aver scelto questo nome a far capire cosa sia questo incontro del (non sul) Mediterraneo che per la terza volta si tiene in Sicilia,quest’anno a Siracusa. È il nome della lingua meticcia che da secoli i pescatori di questo mare usano per parlarsi, quelli che provengono dalla costa africana come quelli che provengono dalle coste europee.
Per comunicare oggigiorno bisogna fare un convegno, perché fra il sud e il nord del mare che si chiamava «di mezzo» proprio per far capire che si trattava di un’acqua di comunicazione fra terre che vi si sporgevano con le loro mille punte peninsulari e i loro arcipelaghi, si è scavato un solco. Sociale, politico, culturale, economico. Nemmeno il confine Messicano, lungo il quale Trump vuole erigere un muro, marca uno stacco così drammatico nella differenza procapite del reddito, nella circolazione della comunicazione. L’Europa, costruita 60 anni fa, porta la cicatrice, sanguinosa, non rimarginata di questa rottura. Che l’ha resa mostruosa, perché, come scriveva nel suo Breviario Mediterraneo un intellettuale della costa jugoslava che ci ha purtroppo appena lasciato – Peredrag Maktievich – «l’Europa senza il Mediterraneo è come un adulto privato della sua infanzia». Un mostro. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall’inferno.
E infatti appena le cose in uno dei nostri paesi meridionali vanno male c’è qualche signor ministro che dice: «oddio, stiamo precipitando nel Mediterraneo».
I nostri confini sono curiosi: il solo geograficamente davvero rilevante perché segnato addirittura da un grande oceano, l’Atlantico, ci separa dal paese cui in realtà siamo più appiccicati:gli Stati uniti. Il confine che è solo una pozza pari allo 0,7 % delle acque del globo, il Mediterraneo, ci separa da terre totalmente estranee. Le conosciamo solo per quanto sono state nell’antichità, ignoriamo quale sia la loro cultura moderna, sebbene noi si viva dell’eredità di quanto proprio lì – nel mondo arabo – si sia inventato in secoli non lontani. Per noi, nella modernità, quelle terre sono diventate solo colonie, e tali sono rimaste.
Questa nostra Sabir, promossa da Arci, Acli, Charitas e con la collaborazione di tantissime associazioni del sud e del nord, vuole ricominciare il dialogo interrotto, naturalmente provando a sanare la vergogna più grande, quella delle selvagge, inumane migrazioni. Ma vuole farlo per indicare all’Ue il suo errore più grave, esser stata incapace di pensarsi come la storia imponeva di fare: come un’area che non poteva “dimenticare” di essere una cosa sola con tutta l’area mediterranea, da cui ha preso tanto e che tanto ha danneggiato. Avrebbe dovuto pensare alla propria crescita assieme alla crescita di quest’area, con un progetto di co-sviluppo. Non, come invece è stato, come a una zona di ineguale commercio. Oggi, con i traumi delle migrazioni, di cui è responsabile, l’Europa paga i suoi errori.
Questo è quello che qui a Siracusa discutiamo in questi giorni, in decine di workshop e la sera assistendo a spettacoli musicali e teatrali. Dagli immediati drammatici problemi di chi arriva, o peggio di chi prova ad arrivare e non riesce, ai grandi problemi della prospettiva di lungo periodo. È il frutto del lavoro volontario, umanitario, di solidarietà e carità di tantissimi. Ma è anche di più: come ha detto papa Francesco quando recentemente ha ricevuto in Vaticano i movimenti sociali : la carità è importante, ma ci vuole la politica.
Mediterraneo. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall'inferno.
Il manifesto 13.5.17
Il fisco secondo Trump: 900 miliardi dai tagli alla sanità
Stati uniti. Il presidente: «Meno tasse eliminando l’Obamacare».I democratici: «Robin Hood all’inverso». I media criticano la cacciata di Comey e la Casa bianca li minaccia: basta press briefing
di Marina Catucci
NEW YORK Durante l’intervista con The Economist Donald Trump ha parlato di commercio, immigrazione, riforma fiscale e assistenza sanitaria e ha fatto alcune affermazioni particolarmente strane e dei curiosi parallelismi sulla qualità delle rose nel giardino della Casa Bianca e la spesa per le infrastrutture o gli schemi migratori degli uccelli migratori e le detrazioni fiscali.
Rompendo con le dichiarazioni dei collaboratori, Trump ha ammesso che il deficit potrebbe aumentare nel breve termine, due anni è la sua ottimistica previsione, ma che «non aumenterà a lungo».
«Bisogna innescare la pompa – ha detto – Mettere qualcosa prima di ottenere qualcosa e se non si farà aumentare il deficit non sarà possibile abbassare la pressione fiscale».
Il presidente ha anche aggiunto che, se al Congresso passerà la sua legge sulla sanità, il governo americano risparmierà «dai 400 ai 900 miliardi di dollari. Tutto sta nella riduzione delle tasse».
Il leader della minoranza, Nancy Pelosi, ha subito commentato che la legge sanitaria proposta da Trump è come un’azione alla «Robin Hood ma all’inverso, che ruba 600 miliardi ai cittadini poveri per passarli a quelli ricchi. Questo è l’obiettivo della loro manovra fiscale, hanno bisogno di questi fondi e li prenderanno dalla tua assistenza sanitaria».
Di opinione simile doveva essere l’intervistatore dell’Economist che ha affermato che chi otterrà maggiori benefici dal taglio fiscale sembra proprio saranno gli americani più ricchi. «Beh, non credo – si è limitato a replicare Trump – Stanno perdendo tutte le loro deduzioni fiscali».
Durante l’intervista Trump non è mai sembrato spaventato all’idea di smentirsi o contraddirsi: sul Nafta che non verrà cancellato ma rinegoziato con i presidenti di Canada e Messico che personalmente gli sono simpaticissimi; e su Xi Jinping, «fortissimo, bravissima persona», la Cina non è un manovratore di valuta, sono stati i media a pompare questa affermazione.
Riguardo le sue dichiarazioni dei redditi, Trump ha assicurato: «Prima o poi le renderò pubbliche. Forse quando avrò finito, perché ne vado molto fiero. Ho fatto un ottimo lavoro. Ma non saranno mai oggetto di trattativa. Non dimenticatevi che sono stato eletto anche senza rivelarlo».
Intanto però Trump deve affrontare le polemiche sorte dopo il licenziamento del direttore dell’Fbi James Comey, decisione impopolare che il 54% degli americani, secondo il sondaggio realizzato da Nbc News/Survey Monkey, ritiene inappropriata.
Il New York Times, citando due fonti anonime, ha fornito ulteriori dettagli: una settimana dopo il suo insediamento alla Casa Bianca Trump ha invitato a cena Comey, chiedendogli una promessa di lealtà a cui il capo dell’Fbi ha risposto dicendo di poter garantire solo «onestà».
Si era trattato di una cena privata a due e Trump, non soddisfatto della prima risposta di Comey, avanzò due volte il tema della lealtà chiedendo se poteva contare su «onesta lealtà», ottenendo finalmente una risposta affermativa da Comey.
La Casa Bianca ha contestato questa ricostruzione del New York Times: per la vice portavoce Sarah Sanders, il presidente «non lascerebbe mai intendere di aspettarsi lealtà personale, soltanto lealtà verso il nostro paese».
In una serie di tweet Trump ha poi deciso di mettere le cose a posto a modo suo: prima ironizzando sul fatto che i fake media avessero fatto gli straordinari, poi minacciando di cancellare il briefing con la stampa alla Casa Bianca.
«Forse la cosa migliore da fare sarebbe cancellare i futuri press briefing e inviare risposte scritte per aver maggiore accuratezza?», ha scritto su Twitter ed ha concluso, in risposta alle accuse di mancanza di precisione nella spiegazione sui motivi del licenziamento di Comey, sostenendo di essere troppo impegnato per essere anche preciso.
Ma più di tutto il presidente degli Stati Uniti su Twitter ha minacciato neppur troppo velatamente l’ex capo dell’Fbi: «James Comey farebbe bene a sperare che non esistano ’registrazioni’ delle nostre conversazioni prima che cominci a fare delle rivelazioni alla stampa». Poco dopo la Cnn, citando delle proprie fonti, ha affermato che Comey non teme i contenuti di alcuna registrazione.
il manifesto 13.5.17
Un palestinese ucciso e decine feriti da spari soldati israeliani
Cisgiordania. Prosegue lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane e con esso le manifestazioni popolari. Ma la risposta israeliana si fa più dura. La Croce Rossa ha visitato Marwan Barghouti in cella
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Saba Obaid, 20 anni, è arrivato in condizioni disperate all’ospedale di Salfit. I medici hanno fatto il possibile per rianimarlo ma il proiettile che lo ha colpito al pezzo mentre a Nabi Saleh, con altre decine di giovani palestinesi, lanciava pietre verso le jeep dell’esercito israeliano, non gli ha lasciato speranza. Il portavoce militare non ha confermato la sua uccisione. Si è limitato a comunicare che i soldati hanno usato i mezzi di “dispersione” a loro disposizione per respingere una folla palestinese che manifestava con “violenza”. E con quei mezzi di “dispersione” i soldati hanno ferito un’altra trentina di manifestanti a Nabi Saleh. Forti le proteste anche vicino Nablus dove in scontri sono rimaste ferite, pare tutte in modo leggero, almeno 60 persone. Decine di feriti anche a Beita, Kufr Qaddum, Beit Furik, Beit Ummar e in molte altre località.
A prima vista potrebbe apparire l’abituale conclusione di manifestazioni palestinesi uguali ad altre migliaia viste in 50 anni di occupazione militare israeliana. Invece l’uccisione di Saba Obeid e il ferimento di decine di dimostranti segnano una escalation nella risposta delle forze armate israeliane al crescere della protesta palestinese per le condizioni di (almeno) 1300 detenuti in sciopero della fame da 25 giorni nelle carceri israeliane. È il segnale della tensione che aumenta nei ranghi dell’Esercito per un digiuno che Israele, e non pochi palestinesi, pensavano destinato a concludersi presto con un fallimento e in una umiliazione per il suo promotore, il leader di Fatah in Cisgiordania Marwan Barghouti, in carcere in Israele dove sconta cinque ergastoli per “terrorismo”. Ora, dopo quasi un mese di digiuno e il peggioramento delle condizioni di salute di molti prigionieri, persino i settori di Fatah che mal digeriscono l’iniziativa di Barghouti, ora devono sostenerla, mentre vi aderiscono altre forze politiche – ma non il movimento islamico Hamas – a cominciare dai leader incarcerati del Fronte popolare (Fplp) che sottolineano il carattere “nazionale” della protesta, al di là delle motivazioni e degli obiettivi di Fatah.
La popolarità di Barghouti non è stata scalfita dalla vicenda delle “merendine”. Le immagini di un detenuto, ripreso dall’alto, che secondo le autorità carcerarie sarebbe il leader di Fatah mentre, in due occasioni, appare intento a mangiare delle merendine rompendo il digiuno, sono state giudicate un fake dai palestinesi e hanno addirittura rafforzato il sostegno all’organizzatore dello sciopero della fame. Intanto non è ancora trapelato nulla dalla visita che Barghouti ha ricevuto in cella due giorni fa da una delegazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa . «La delegazione del Cicr ci ha detto che, come da accordi presi con le autorità israeliane, non può dirci nulla sul’incontro» ci spiegava ieri Qassam Barghouti, uno dei figli del leader di Fatah, «perciò ora siamo più preoccupati, temiamo che le condizioni di mio padre si siano aggravate».
Il Manifesto 11.05.2017
I bambini ci parlano
Sui graffiti rupestri dei Camuni
di Giuseppe Caliceti
Vi ho dato delle fotocopie. Mi dite cosa sono? Cosa vedete? «Io vedo che ci sono dei disegni». «Ci sono dei disegni in bianco e nero». «Io vedo degli animali: un maiale, mi sembra, un cavallo». «Ci sono anche dei cavalieri. Hanno una freccia in mano». «Non è una freccia. È una lancia». «Anche delle stradine, ci sono. Delle stradine e delle casine». «A me sembra che questo qui in alto è un recinto e dentro c'è uno stambecco. Anzi, no, forse è una capra». «A me sembra che non sono disegnati benissimo. Perché poi sono in bianco e nero. Non sono a colori». «Per me questa è la coda del cavallo e per me è molto bella». «Ci sono delle punte. Dei… Come si chiamano? Delle scale. Dei rastrelli». «A me sembra che questa è una casa perché c'è il tetto». «Non è una casa. E' una capanna». «Io vedo un fiume». «Io ci vedo anche una pecora, qui. E anche un'oca. E anche un'anatra ». «Secondo me questo è uno stambecco o un capriolo». «Questo è un uomo. Si vede. Con una lancia molto grande. Una lancia grandissima. Io non so neanche come fa a tenerla in mano, così grossa. Per me è grandissima, la lancia. Lui è piccolissimo e la lancia è grandissima». «A me sembra che… Anzi, questo sì, è un cervo. Anzi, sono tanti cervi ». «Qui fanno la caccia al cervo con le lance». «Qui c'è un cervo col suo piccolino». «Non è vero che questi disegni non sono belli, a me piacciono molto. Sono precisi. Sono belli». Secondo voi chi li ha fatti questi disegni? Guardiamo se indovinate… «Tu?» No. No. Io no. Provate a indovinare… «Forse dei bambini. Perché un po' sembrano dei disegni di bambini. Forse della scuola materna .O forse no, perché sono belli, sono difficili, disegnare un cavallo per me è difficile, forse anche delle scuole elementari». «Per me sono stati degli scolari che tu avevi in classe prima di noi, tanti anni fa». «Secondo me può essere stato un pittore. Perché i disegni importanti li fanno i pittori». Ma cosa raccontano questi disegni? «Raccontano come si viveva tanto tempo fa, quando non c'erano le automobili ». «Per me raccontano la caccia. Raccontano che andavano a far la caccia al cervo, però non solo con le lance, anche con l'arco, perché io qui vedo disegnato proprio un arco». «Sono bellissimi, per me, questi disegni, perché sono facili. Perché si capiscono bene i disegni». «Raccontano che loro allevavano dei maialini e dopo, quando diventavano grandi, forse li mangiavano». Da cosa capite che si tratta di disegni di tanti anni fa? Non di oggi? «Io lo capisco perché le case sono piccole. Non ci sono i grattacieli». «Per me se erano moderni, quegli uomini qui dei disegni, allora per uccidere il cervo usavano un fucile, una pistola, una bomba, invece se usano l'arco e le lance vuol dire che erano uomini un po' antichi». «Per me questi uomini si vede che sono antichi anche perché si vestono un po' anticamente, con delle collane, dei cappelli strani». «Per me però dovevano esserci anche delle donne, invece sono quasi tutti uomini. O sono uomini o sono animali». «A me questo sembra un pozzo ». «A me questa sembra una lavatrice. Questo invece sembra un razzo!». «Ma no, non è un razzo! E' un pesce! Un pesce siluro!». «Per me quella non è poi una lavatrice perché per me a quel tempo degli uomini di questo disegno, se non c'erano i fucili, non c'erano neppure le lavatrici o la lavastoviglie». «Le case erano su dei pali». «Questo per me è un cane». «Maestro, adesso ci dici se abbiamo indovinato?». Sì. Avete indovinato. Sono disegni primitivi. Di uomini primitivi. Li hanno fatti sulle rocce. Sono graffiti. Sono i graffiti della Val Camonica, una valle vicino a noi.
I bambini ci parlano
Sui graffiti rupestri dei Camuni
di Giuseppe Caliceti
Vi ho dato delle fotocopie. Mi dite cosa sono? Cosa vedete? «Io vedo che ci sono dei disegni». «Ci sono dei disegni in bianco e nero». «Io vedo degli animali: un maiale, mi sembra, un cavallo». «Ci sono anche dei cavalieri. Hanno una freccia in mano». «Non è una freccia. È una lancia». «Anche delle stradine, ci sono. Delle stradine e delle casine». «A me sembra che questo qui in alto è un recinto e dentro c'è uno stambecco. Anzi, no, forse è una capra». «A me sembra che non sono disegnati benissimo. Perché poi sono in bianco e nero. Non sono a colori». «Per me questa è la coda del cavallo e per me è molto bella». «Ci sono delle punte. Dei… Come si chiamano? Delle scale. Dei rastrelli». «A me sembra che questa è una casa perché c'è il tetto». «Non è una casa. E' una capanna». «Io vedo un fiume». «Io ci vedo anche una pecora, qui. E anche un'oca. E anche un'anatra ». «Secondo me questo è uno stambecco o un capriolo». «Questo è un uomo. Si vede. Con una lancia molto grande. Una lancia grandissima. Io non so neanche come fa a tenerla in mano, così grossa. Per me è grandissima, la lancia. Lui è piccolissimo e la lancia è grandissima». «A me sembra che… Anzi, questo sì, è un cervo. Anzi, sono tanti cervi ». «Qui fanno la caccia al cervo con le lance». «Qui c'è un cervo col suo piccolino». «Non è vero che questi disegni non sono belli, a me piacciono molto. Sono precisi. Sono belli». Secondo voi chi li ha fatti questi disegni? Guardiamo se indovinate… «Tu?» No. No. Io no. Provate a indovinare… «Forse dei bambini. Perché un po' sembrano dei disegni di bambini. Forse della scuola materna .O forse no, perché sono belli, sono difficili, disegnare un cavallo per me è difficile, forse anche delle scuole elementari». «Per me sono stati degli scolari che tu avevi in classe prima di noi, tanti anni fa». «Secondo me può essere stato un pittore. Perché i disegni importanti li fanno i pittori». Ma cosa raccontano questi disegni? «Raccontano come si viveva tanto tempo fa, quando non c'erano le automobili ». «Per me raccontano la caccia. Raccontano che andavano a far la caccia al cervo, però non solo con le lance, anche con l'arco, perché io qui vedo disegnato proprio un arco». «Sono bellissimi, per me, questi disegni, perché sono facili. Perché si capiscono bene i disegni». «Raccontano che loro allevavano dei maialini e dopo, quando diventavano grandi, forse li mangiavano». Da cosa capite che si tratta di disegni di tanti anni fa? Non di oggi? «Io lo capisco perché le case sono piccole. Non ci sono i grattacieli». «Per me se erano moderni, quegli uomini qui dei disegni, allora per uccidere il cervo usavano un fucile, una pistola, una bomba, invece se usano l'arco e le lance vuol dire che erano uomini un po' antichi». «Per me questi uomini si vede che sono antichi anche perché si vestono un po' anticamente, con delle collane, dei cappelli strani». «Per me però dovevano esserci anche delle donne, invece sono quasi tutti uomini. O sono uomini o sono animali». «A me questo sembra un pozzo ». «A me questa sembra una lavatrice. Questo invece sembra un razzo!». «Ma no, non è un razzo! E' un pesce! Un pesce siluro!». «Per me quella non è poi una lavatrice perché per me a quel tempo degli uomini di questo disegno, se non c'erano i fucili, non c'erano neppure le lavatrici o la lavastoviglie». «Le case erano su dei pali». «Questo per me è un cane». «Maestro, adesso ci dici se abbiamo indovinato?». Sì. Avete indovinato. Sono disegni primitivi. Di uomini primitivi. Li hanno fatti sulle rocce. Sono graffiti. Sono i graffiti della Val Camonica, una valle vicino a noi.
La radice della violenza non è la religione… ha a che fare con la nostra più profonda identità: noi siamo potenzialmente violenti… in quanto animali sociali… (sic)
La Repubblica 06.05.2017
La pace fra le tre grandi religioni è
l’unica ricetta contro il terrore:
il nuovo saggio di Jonathan Sacks
Amore o guerra, il bivio fatale della teologia
di Vito Mancuso
La questione al centro del nuovo libro di Jonathan Sacks - "Non nel nome di Dio", edito da Giuntina - ce la siamo posta tutti, ma, formulata da colui che fu per molti anni rabbino capo della "United Hebrew Congregations of the Commonwealth" e che è una delle voci più autorevoli dell'odierno dibattito teologico internazionale, assume una certa perentorietà. Eccola: «L'ebraismo, il cristianesimo e l'islam si definiscono come religioni di pace e tuttavia tutte e tre hanno dato origine alla violenza in alcuni momenti della loro storia». Come mai? Come spiegare il paradosso di religioni che vogliono la pace e che però producono guerra e terrorismo? La questione interessa tutti, non solo i credenti, perché la religione è tornata sulla scena mondiale e tornerà sempre più; anzi, per Sacks il XXI secolo è «l'inizio di un processo di de-secolarizzazione di cui la prova principale si chiama demografia: «In tutto il mondo i gruppi più religiosi hanno il più alto tasso di natalità», mentre «dove le comunità religiose scompaiono segue prontamente il declino demografico». La religione quindi sarà sempre più rilevante ed è per questo urgente scioglierne le ambiguità. E se alla violenza da essa prodotta si deve rispondere militarmente per arginarne l'effetto, per estirparne in radice la causa si deve rispondere teologicamente: «Non abbiamo altra scelta che riesaminare la teologia che porta al conflitto violento; se non facciamo questo lavoro teologico, ci troveremo di fronte al perdurare del terrore». Naturalmente la religione non è la causa diretta della violenza, visto che nessun secolo è stato meno religioso, e al contempo più violento, del Novecento. La radice della violenza non è la religione, la questione è molto più complicata, ha a che fare con la nostra più profonda identità: noi siamo potenzialmente violenti in quanto animali sociali. È cioè la nostra tendenza a formare gruppi a essere al contempo all'origine della civiltà e all'origine della violenza: «L'altruismo ci porta a fare sacrifici a vantaggio del gruppo e allo stesso tempo ci porta a commettere atti di violenza contro quelle che vengono percepite come minacce al gruppo». Quella volontà di relazione che positivamente genera coppie, famiglie, amicizie, comunità, altrove causa aggregazioni sotto forma di banda, branco, clan, brigata. Un'umanità senza gruppi è impossibile, ma un'umanità strutturata per gruppi è naturalmente violenta. E il punto è che la religione sostiene i gruppi in modo molto più efficace di qualsiasi altra forza: per questo appare come la maggiore generatrice di solidarietà e insieme di intolleranza. Contro questa ambiguità strutturale della natura umana manifestata dalla religione in sommo grado, Sacks propone «una teologia dell'Altro» il cui fine è generare un desiderio di immedesimazione verso chi, per l'istinto naturale, è solo un nemico: «Per guarire dalla violenza potenziale verso l'Altro devo essere capace di immaginarmi come l'Altro». Questa teologia dell'Altro opera a livello metodologico spingendo a uscire dalla logica istintuale Noi-Loro per abbracciare la prospettiva spirituale che sa leggere la realtà dal punto di vista altrui. È ciò che le religioni chiamano conversione. Il punto decisivo però è che le religioni capiscano che sono proprio loro, oggi, a doversi convertire per porre fine alla lotta reciproca simile a «rivalità tra fratelli». Le tre religioni monoteistiche infatti sono «fratelli in competizione» per accaparrarsi il ruolo di vero depositario della rivelazione divina. Per questo la relazione tra ebraismo, cristianesimo e islam è stata finora all'insegna del superamento reciproco: «Il più piccolo crede di aver prevalso sul più grande: il cristianesimo ha fatto così con l'ebraismo, l'islam lo ha fatto con entrambi». Il XXI secolo, però, «invita a una nuova lettura». Sacks dà l'esempio proponendo una "controlettura" di alcuni testi decisivi della Bibbia ebraica, perché «i testi stessi che si trovano alla radice del problema, se giustamente interpretati, possono fornire la soluzione». Tramite questa rilettura Sacks mostra in modo magistrale che ciò che i testi realmente dicono non è quanto recepito nei secoli passati all'insegna della differenza Noi/Loro e ancora oggi alla base della rivalità tra le tre religioni abramitiche, ma è il superamento di questa logica istintuale in vista della pace e della concordia. È decisivo notare però che il criterio di questa sua "contro-narrazione" è qualcosa di esterno al testo sacro. Non è la coerenza del testo in sé, né la tradizione interpretativa: è la pace il criterio decisivo. Per questo per Sacks il primato spetta all'etica, come nella migliore tradizione ebraica da Moses Mendelsohn a Hermann Cohen, da Martin Buber a Abraham Heschel, da Hans Jonas a Emmanuel Lévinas. Questa esigenza etica fa scoprire che «la Bibbia ebraica contiene non soltanto una narrazione ma anche una contro-narrazione» in base a cui «la nascita di Isacco non destituisce Ismaele» e «la scelta di Giacobbe non significa il rifiuto di Esaù». Non c'è quindi alcun posto privilegiato da contendersi, c'è invece la riscoperta di un Dio universale e padre di tutti. Ecco perché «la Genesi descrive due patti: il primo con Noè e tutta l'umanità, il secondo con Abramo e i suoi figli». L'essenziale è comprendere che il secondo patto particolare è in funzione del primo patto universale, e non viceversa come le religioni hanno sempre pensato. Questo è il cambiamento di paradigma che il nostro tempo impone: prima la fede era finalizzata al Noi, ora va finalizzata al Tutti: al Noi + Loro. Il problema è che i testi sacri delle tre religioni monoteiste contengono non pochi passi che, interpretati in modo letterale, producono violenza e odio. A tale riguardo scrive giustamente Sacks: «Possiamo e dobbiamo reinterpretarli». Occorre quindi una grande, onesta, bonifica dei testi sacri, segnalando quei brani che incitano all'odio e alla violenza, magari stampandoli in corpo minore, di certo accompagnandoli con adeguati commenti. È un dovere da cui la teologia e le istituzioni religiose non possono più esimersi. Questo processo virtuoso nel linguaggio laico si chiama autocritica, nel linguaggio religioso conversione, in ebraico "teshuvà". Il nuovo libro di Jonathan Sacks ne è un bellissimo esempio e non poteva venire che da parte ebraica. Saranno capaci il cristianesimo e l'islam, che a differenza dell'ebraismo si considerano religioni universali valide per tutti, di raccogliere la sfida?
La Repubblica 06.05.2017
La pace fra le tre grandi religioni è
l’unica ricetta contro il terrore:
il nuovo saggio di Jonathan Sacks
Amore o guerra, il bivio fatale della teologia
di Vito Mancuso
La questione al centro del nuovo libro di Jonathan Sacks - "Non nel nome di Dio", edito da Giuntina - ce la siamo posta tutti, ma, formulata da colui che fu per molti anni rabbino capo della "United Hebrew Congregations of the Commonwealth" e che è una delle voci più autorevoli dell'odierno dibattito teologico internazionale, assume una certa perentorietà. Eccola: «L'ebraismo, il cristianesimo e l'islam si definiscono come religioni di pace e tuttavia tutte e tre hanno dato origine alla violenza in alcuni momenti della loro storia». Come mai? Come spiegare il paradosso di religioni che vogliono la pace e che però producono guerra e terrorismo? La questione interessa tutti, non solo i credenti, perché la religione è tornata sulla scena mondiale e tornerà sempre più; anzi, per Sacks il XXI secolo è «l'inizio di un processo di de-secolarizzazione di cui la prova principale si chiama demografia: «In tutto il mondo i gruppi più religiosi hanno il più alto tasso di natalità», mentre «dove le comunità religiose scompaiono segue prontamente il declino demografico». La religione quindi sarà sempre più rilevante ed è per questo urgente scioglierne le ambiguità. E se alla violenza da essa prodotta si deve rispondere militarmente per arginarne l'effetto, per estirparne in radice la causa si deve rispondere teologicamente: «Non abbiamo altra scelta che riesaminare la teologia che porta al conflitto violento; se non facciamo questo lavoro teologico, ci troveremo di fronte al perdurare del terrore». Naturalmente la religione non è la causa diretta della violenza, visto che nessun secolo è stato meno religioso, e al contempo più violento, del Novecento. La radice della violenza non è la religione, la questione è molto più complicata, ha a che fare con la nostra più profonda identità: noi siamo potenzialmente violenti in quanto animali sociali. È cioè la nostra tendenza a formare gruppi a essere al contempo all'origine della civiltà e all'origine della violenza: «L'altruismo ci porta a fare sacrifici a vantaggio del gruppo e allo stesso tempo ci porta a commettere atti di violenza contro quelle che vengono percepite come minacce al gruppo». Quella volontà di relazione che positivamente genera coppie, famiglie, amicizie, comunità, altrove causa aggregazioni sotto forma di banda, branco, clan, brigata. Un'umanità senza gruppi è impossibile, ma un'umanità strutturata per gruppi è naturalmente violenta. E il punto è che la religione sostiene i gruppi in modo molto più efficace di qualsiasi altra forza: per questo appare come la maggiore generatrice di solidarietà e insieme di intolleranza. Contro questa ambiguità strutturale della natura umana manifestata dalla religione in sommo grado, Sacks propone «una teologia dell'Altro» il cui fine è generare un desiderio di immedesimazione verso chi, per l'istinto naturale, è solo un nemico: «Per guarire dalla violenza potenziale verso l'Altro devo essere capace di immaginarmi come l'Altro». Questa teologia dell'Altro opera a livello metodologico spingendo a uscire dalla logica istintuale Noi-Loro per abbracciare la prospettiva spirituale che sa leggere la realtà dal punto di vista altrui. È ciò che le religioni chiamano conversione. Il punto decisivo però è che le religioni capiscano che sono proprio loro, oggi, a doversi convertire per porre fine alla lotta reciproca simile a «rivalità tra fratelli». Le tre religioni monoteistiche infatti sono «fratelli in competizione» per accaparrarsi il ruolo di vero depositario della rivelazione divina. Per questo la relazione tra ebraismo, cristianesimo e islam è stata finora all'insegna del superamento reciproco: «Il più piccolo crede di aver prevalso sul più grande: il cristianesimo ha fatto così con l'ebraismo, l'islam lo ha fatto con entrambi». Il XXI secolo, però, «invita a una nuova lettura». Sacks dà l'esempio proponendo una "controlettura" di alcuni testi decisivi della Bibbia ebraica, perché «i testi stessi che si trovano alla radice del problema, se giustamente interpretati, possono fornire la soluzione». Tramite questa rilettura Sacks mostra in modo magistrale che ciò che i testi realmente dicono non è quanto recepito nei secoli passati all'insegna della differenza Noi/Loro e ancora oggi alla base della rivalità tra le tre religioni abramitiche, ma è il superamento di questa logica istintuale in vista della pace e della concordia. È decisivo notare però che il criterio di questa sua "contro-narrazione" è qualcosa di esterno al testo sacro. Non è la coerenza del testo in sé, né la tradizione interpretativa: è la pace il criterio decisivo. Per questo per Sacks il primato spetta all'etica, come nella migliore tradizione ebraica da Moses Mendelsohn a Hermann Cohen, da Martin Buber a Abraham Heschel, da Hans Jonas a Emmanuel Lévinas. Questa esigenza etica fa scoprire che «la Bibbia ebraica contiene non soltanto una narrazione ma anche una contro-narrazione» in base a cui «la nascita di Isacco non destituisce Ismaele» e «la scelta di Giacobbe non significa il rifiuto di Esaù». Non c'è quindi alcun posto privilegiato da contendersi, c'è invece la riscoperta di un Dio universale e padre di tutti. Ecco perché «la Genesi descrive due patti: il primo con Noè e tutta l'umanità, il secondo con Abramo e i suoi figli». L'essenziale è comprendere che il secondo patto particolare è in funzione del primo patto universale, e non viceversa come le religioni hanno sempre pensato. Questo è il cambiamento di paradigma che il nostro tempo impone: prima la fede era finalizzata al Noi, ora va finalizzata al Tutti: al Noi + Loro. Il problema è che i testi sacri delle tre religioni monoteiste contengono non pochi passi che, interpretati in modo letterale, producono violenza e odio. A tale riguardo scrive giustamente Sacks: «Possiamo e dobbiamo reinterpretarli». Occorre quindi una grande, onesta, bonifica dei testi sacri, segnalando quei brani che incitano all'odio e alla violenza, magari stampandoli in corpo minore, di certo accompagnandoli con adeguati commenti. È un dovere da cui la teologia e le istituzioni religiose non possono più esimersi. Questo processo virtuoso nel linguaggio laico si chiama autocritica, nel linguaggio religioso conversione, in ebraico "teshuvà". Il nuovo libro di Jonathan Sacks ne è un bellissimo esempio e non poteva venire che da parte ebraica. Saranno capaci il cristianesimo e l'islam, che a differenza dell'ebraismo si considerano religioni universali valide per tutti, di raccogliere la sfida?
Il Manifesto Alias Domenica 07.05.2017
Mo Yan, gloria alla carne
Romanzi cinesi. Pubblicato in Cina nel 2003,
«I quarantuno colpi» esce ora da Einaudi.
Tutto è eccesso in questo erede asiatico di Rabelais:
dall’appetito sessuale e di cibo ai trionfi orgiastici della parola
di Nicoletta Pesaro
Quando la rete di significati e di costumi legati al cibo diventa misura dell'etica, della coscienza politica, dell'identità culturale e nazionale di un paese, il comportamento degli uomini di fronte a ciò che si mangia stabilisce anche alcune traiettorie del destino, e a volte la chiave stessa delle relazioni personali. Dal Re degli scacchi di Acheng, a Vita e passione di un gastronomo cinese di Lu Wenfu fino a Il Paese dell'alcol di Mo Yan, sono numerose le opere che la narrativa cinese ha dedicato a questo tema, rendendolo non soltanto una griglia interpretativa originale della storia recente e delle radici culturali del paese, ma anche una incisiva metafora della sua contraddittoria modernizzazione. Nel suo romanzo pubblicato in Cina nel 2003, I quarantuno colpi, (ora tradotto per Einaudi da Patrizia Liberati, pp. 456, euro 22,00) Mo Yan rappresenta se stesso nello sbruffone affabulatore che è protagonista di una vicenda paradossale e profondamente «umanimale», e si serve abilmente del cibo per inscenare il suo consueto melodramma sui cambiamenti morali ed economici del mondo rurale. Con una narrazione episodica ed espiatoria che svela solo man mano, e a sorpresa, i fatti più drammatici, l'aspirante monaco Luo Xiaotong sciorina la vicenda di peccaminosi eccessi, di debolezza umana e umana hybris che ha luogo nel Villaggio dei Macellai. Destinatario del monologo-confessione è il vecchio monaco di un decrepito tempio, che diventa teatro del turbinoso avvicendarsi di scene simboliche, dotate di echi plurisensoriali. Non c'è cultura tradizionale più carnivora e onnivora di quella cinese, eppure la stretta convivenza millenaria con gli animali nelle campagne si traduce in Mo Yan in una radicale identificazione nelle bestie, vittime della violenza prepotente dell'uomo ma anche partecipi della sua sorte incerta. Intrecciata a questa visione buddhista della sostanziale identità tra esseri viventi, si insinua nel romanzo-confessione una nota ambientalista sulle innumerevoli violazioni alla sicurezza alimentare, causate da una perversa cupidigia. Alle immagini di irresistibile voluttà carnale si alternano aspirazioni alla astinenza e al superamento del desiderio: Xiaotong lascia scorrere davanti all'impenetrabile monaco il fiume della sua memoria, sottoponendosi contemporaneamente a una serie di barocche visioni tentatrici, in cui la sua (e la nostra) capacità di discernimento tra realtà e finzione viene messa continuamente alla prova. Il racconto iniziatico di Xiaotong è una forma di contrappasso per la sua formidabile ingordigia e per aver partecipato alla criminale produzione di carne adulterata, venduta nel suo villaggio. Nel suo pentimento si riflette l'immagine apologetica di una Cina (impersonata anche nella figura dell'ostetrica protagonista di Le rane, romanzo centrato sulla politica demografica) passata in pochi anni dalla fame alla bulimia. Ancora una volta al centro è la campagna cinese contemporanea, orfana del mitico investimento maoista sulla nobiltà del lavoro agricolo, e figlia - invece - del sogno denghiano di una facile prosperità materiale, salacemente descritta da un altro autore cinese amante del grottesco, Yu Hua, nel suo romanzo Arricchirsi è glorioso. Nel virtuosismo narrativo di Mo Yan la fabula è sempre costruita su vari livelli diegetici: qui la lunga confessione-racconto del giovane Xiaotong si svolge parallela a una fantasmagorica successione di visioni. La dimensione cronologica assume i contorni tradizionali di un tempo ciclico che racchiude in sé presente e passato senza soluzione di continuità. Intercalate a ogni capitolo, le allucinazioni carnascialesche e i doviziosi cataloghi rabelaisiani di pietanze stravaganti rallentano il ritmo degli eventi proiettati dai ricordi ora struggenti ora ironici di Xiaotong, per lasciare poi il posto a improvvise riaccelerazioni di repentini e irrimediabili coup de théâtre. Nell'orto della famiglia Luo, che prima del rapido arricchimento grazie alla vendita di carne si era sostenuta raccogliendo ferri vecchi, è piazzato un cannone: quarantuno sono i colpi (e altrettanti i capitoli del romanzo) della vendetta di Xiaotong contro il suo arcinemico Lao Lan, una vendetta tutta verbale. In cinese «cannonata» può significare «vanteria, smargiassata», ma in questo amplesso tra finzione e realtà, l'ultimo colpo riserverà a Lao Lan un finale vagamente calviniano. Se nel romanzo il buddhismo ispira il tema animalista, al tempo stesso offre una riflessione metanarrativa, peraltro consueta in Mo Yan, sul tema della verità e della sua inconsistenza. Una straordinaria quantità di oggetti capaci di stimolare torbide sensorialità e prefigurare turgidi universi abitano queste pagine del cantastorie cinese, che affonda a piene mani nel gusto del dettaglio iperrealistico, allestendo una teatrale messa in scena di bizzarre rassegne di animali e creature liminari fra reale e fantastico. L'«ossessione animale» di Mo Yan, che popola tutti i suoi romanzi, si realizza nella trama centrata sul Villaggio dei macellai e sulla fabbrica di carne – con una serie di episodi collaterali tra cui la tragicomica battaglia degli struzzi o il diabolico laboratorio per gonfiare d'acqua le bestie prime della macellazione; ma ancora più interessante è il linguaggio intriso di similitudini e metafore animalesche che riportano costantemente l'immaginazione del lettore a un mondo in cui sensazioni, emozioni e caratteristiche fisiologiche o morali dei personaggi segnalano la bestialità intrinseca all'essere umano. Una bestialità che non lo degrada ma lo riconduce piuttosto a uno zoomorfismo quasi religioso, comunque primordiale: la «religiosità» di Mo Yan, infatti, sembra alludere a una visione sacra e viscerale della natura. Sin dall'inizio, il tema della carne e della gola è dichiaratamente associato a quello della lussuria: se nel suo racconto Luo Xiaotong – campione di scorpacciate di carne – esibisce con quel cibo un rapporto amoroso di complice e sensuale identificazione, nell'ambiente monastico della sua confessione, invece, succulenti banchetti e seducenti corpi di donne e di uomini si materializzano allo scopo di eccitare i suoi appetiti per poi mortificarli. Tutto è eccessivo nel Villaggio dei macellai, le orribili manipolazioni sulle carni prodotte, l'appetito sessuale e di cibo; ma la vera orgia riguarda le parole, il fiume di storie e vanterie capaci di sfidare ogni senso comune. Anche in questo romanzo, dunque, Mo Yan si conferma l'erede asiatico di Rabelais: per la sua epica glorificazione della carne, per il gusto dell'esagerazione, per la salutare e crassa esaltazione delle funzioni corporali, per la gioiosa sacralità dell'atto del mangiare elevato a forma d'arte, per la parodia dei rituali religiosi (la cui spiritualità non è che l'altra faccia della carnalità interna al gesto quotidiano), e insomma per la sua abilità nel rappresentare il basso, il comico e la cultura popolare. Ogni romanzo di Mo Yan è sempre potentemente politico, e ritrae in maniera puntuale l'evoluzione complessa della società cinese, anche se qui non c'è traccia dei contadini oppressi e rivoltosi che popolavano Le canzoni dell'aglio, ambientato solo dieci anni prima. Alla ribellione sociale si sostituisce, nei Quarantuno colpi, una sfida individualista e postmoderna: il piccolo Xiaotong disdegna la scuola, consapevole di quante più cose abbia imparato raccogliendo i rifiuti del nascente consumismo del villaggio, e alla logica matematica antepone quell'istinto darwiniano di sopravvivenza, che, secondo il si nologo Kinkley, è la vera chiave del romanzo cinese contemporaneo, variante di una universale vena distopica.
Mo Yan, gloria alla carne
Romanzi cinesi. Pubblicato in Cina nel 2003,
«I quarantuno colpi» esce ora da Einaudi.
Tutto è eccesso in questo erede asiatico di Rabelais:
dall’appetito sessuale e di cibo ai trionfi orgiastici della parola
di Nicoletta Pesaro
Quando la rete di significati e di costumi legati al cibo diventa misura dell'etica, della coscienza politica, dell'identità culturale e nazionale di un paese, il comportamento degli uomini di fronte a ciò che si mangia stabilisce anche alcune traiettorie del destino, e a volte la chiave stessa delle relazioni personali. Dal Re degli scacchi di Acheng, a Vita e passione di un gastronomo cinese di Lu Wenfu fino a Il Paese dell'alcol di Mo Yan, sono numerose le opere che la narrativa cinese ha dedicato a questo tema, rendendolo non soltanto una griglia interpretativa originale della storia recente e delle radici culturali del paese, ma anche una incisiva metafora della sua contraddittoria modernizzazione. Nel suo romanzo pubblicato in Cina nel 2003, I quarantuno colpi, (ora tradotto per Einaudi da Patrizia Liberati, pp. 456, euro 22,00) Mo Yan rappresenta se stesso nello sbruffone affabulatore che è protagonista di una vicenda paradossale e profondamente «umanimale», e si serve abilmente del cibo per inscenare il suo consueto melodramma sui cambiamenti morali ed economici del mondo rurale. Con una narrazione episodica ed espiatoria che svela solo man mano, e a sorpresa, i fatti più drammatici, l'aspirante monaco Luo Xiaotong sciorina la vicenda di peccaminosi eccessi, di debolezza umana e umana hybris che ha luogo nel Villaggio dei Macellai. Destinatario del monologo-confessione è il vecchio monaco di un decrepito tempio, che diventa teatro del turbinoso avvicendarsi di scene simboliche, dotate di echi plurisensoriali. Non c'è cultura tradizionale più carnivora e onnivora di quella cinese, eppure la stretta convivenza millenaria con gli animali nelle campagne si traduce in Mo Yan in una radicale identificazione nelle bestie, vittime della violenza prepotente dell'uomo ma anche partecipi della sua sorte incerta. Intrecciata a questa visione buddhista della sostanziale identità tra esseri viventi, si insinua nel romanzo-confessione una nota ambientalista sulle innumerevoli violazioni alla sicurezza alimentare, causate da una perversa cupidigia. Alle immagini di irresistibile voluttà carnale si alternano aspirazioni alla astinenza e al superamento del desiderio: Xiaotong lascia scorrere davanti all'impenetrabile monaco il fiume della sua memoria, sottoponendosi contemporaneamente a una serie di barocche visioni tentatrici, in cui la sua (e la nostra) capacità di discernimento tra realtà e finzione viene messa continuamente alla prova. Il racconto iniziatico di Xiaotong è una forma di contrappasso per la sua formidabile ingordigia e per aver partecipato alla criminale produzione di carne adulterata, venduta nel suo villaggio. Nel suo pentimento si riflette l'immagine apologetica di una Cina (impersonata anche nella figura dell'ostetrica protagonista di Le rane, romanzo centrato sulla politica demografica) passata in pochi anni dalla fame alla bulimia. Ancora una volta al centro è la campagna cinese contemporanea, orfana del mitico investimento maoista sulla nobiltà del lavoro agricolo, e figlia - invece - del sogno denghiano di una facile prosperità materiale, salacemente descritta da un altro autore cinese amante del grottesco, Yu Hua, nel suo romanzo Arricchirsi è glorioso. Nel virtuosismo narrativo di Mo Yan la fabula è sempre costruita su vari livelli diegetici: qui la lunga confessione-racconto del giovane Xiaotong si svolge parallela a una fantasmagorica successione di visioni. La dimensione cronologica assume i contorni tradizionali di un tempo ciclico che racchiude in sé presente e passato senza soluzione di continuità. Intercalate a ogni capitolo, le allucinazioni carnascialesche e i doviziosi cataloghi rabelaisiani di pietanze stravaganti rallentano il ritmo degli eventi proiettati dai ricordi ora struggenti ora ironici di Xiaotong, per lasciare poi il posto a improvvise riaccelerazioni di repentini e irrimediabili coup de théâtre. Nell'orto della famiglia Luo, che prima del rapido arricchimento grazie alla vendita di carne si era sostenuta raccogliendo ferri vecchi, è piazzato un cannone: quarantuno sono i colpi (e altrettanti i capitoli del romanzo) della vendetta di Xiaotong contro il suo arcinemico Lao Lan, una vendetta tutta verbale. In cinese «cannonata» può significare «vanteria, smargiassata», ma in questo amplesso tra finzione e realtà, l'ultimo colpo riserverà a Lao Lan un finale vagamente calviniano. Se nel romanzo il buddhismo ispira il tema animalista, al tempo stesso offre una riflessione metanarrativa, peraltro consueta in Mo Yan, sul tema della verità e della sua inconsistenza. Una straordinaria quantità di oggetti capaci di stimolare torbide sensorialità e prefigurare turgidi universi abitano queste pagine del cantastorie cinese, che affonda a piene mani nel gusto del dettaglio iperrealistico, allestendo una teatrale messa in scena di bizzarre rassegne di animali e creature liminari fra reale e fantastico. L'«ossessione animale» di Mo Yan, che popola tutti i suoi romanzi, si realizza nella trama centrata sul Villaggio dei macellai e sulla fabbrica di carne – con una serie di episodi collaterali tra cui la tragicomica battaglia degli struzzi o il diabolico laboratorio per gonfiare d'acqua le bestie prime della macellazione; ma ancora più interessante è il linguaggio intriso di similitudini e metafore animalesche che riportano costantemente l'immaginazione del lettore a un mondo in cui sensazioni, emozioni e caratteristiche fisiologiche o morali dei personaggi segnalano la bestialità intrinseca all'essere umano. Una bestialità che non lo degrada ma lo riconduce piuttosto a uno zoomorfismo quasi religioso, comunque primordiale: la «religiosità» di Mo Yan, infatti, sembra alludere a una visione sacra e viscerale della natura. Sin dall'inizio, il tema della carne e della gola è dichiaratamente associato a quello della lussuria: se nel suo racconto Luo Xiaotong – campione di scorpacciate di carne – esibisce con quel cibo un rapporto amoroso di complice e sensuale identificazione, nell'ambiente monastico della sua confessione, invece, succulenti banchetti e seducenti corpi di donne e di uomini si materializzano allo scopo di eccitare i suoi appetiti per poi mortificarli. Tutto è eccessivo nel Villaggio dei macellai, le orribili manipolazioni sulle carni prodotte, l'appetito sessuale e di cibo; ma la vera orgia riguarda le parole, il fiume di storie e vanterie capaci di sfidare ogni senso comune. Anche in questo romanzo, dunque, Mo Yan si conferma l'erede asiatico di Rabelais: per la sua epica glorificazione della carne, per il gusto dell'esagerazione, per la salutare e crassa esaltazione delle funzioni corporali, per la gioiosa sacralità dell'atto del mangiare elevato a forma d'arte, per la parodia dei rituali religiosi (la cui spiritualità non è che l'altra faccia della carnalità interna al gesto quotidiano), e insomma per la sua abilità nel rappresentare il basso, il comico e la cultura popolare. Ogni romanzo di Mo Yan è sempre potentemente politico, e ritrae in maniera puntuale l'evoluzione complessa della società cinese, anche se qui non c'è traccia dei contadini oppressi e rivoltosi che popolavano Le canzoni dell'aglio, ambientato solo dieci anni prima. Alla ribellione sociale si sostituisce, nei Quarantuno colpi, una sfida individualista e postmoderna: il piccolo Xiaotong disdegna la scuola, consapevole di quante più cose abbia imparato raccogliendo i rifiuti del nascente consumismo del villaggio, e alla logica matematica antepone quell'istinto darwiniano di sopravvivenza, che, secondo il si nologo Kinkley, è la vera chiave del romanzo cinese contemporaneo, variante di una universale vena distopica.
Il Sole 24 Ore 10.05.2017
Un nuovo leader per la
Quarta rivoluzione industriale
di Stefano Carrer
Questa volta non solo gli elettori sudcoreani, ma i mercati finanziari hanno votato verso sinistra: l'affermazione del "liberal" Moon Jae-in è stata preceduta - con lui già in netto vantaggio nei sondaggi - da ripetuti record storici della Borsa di Seul, a dispetto del recente aggravamento delle tensioni geopolitiche. Un trend variamente giustificabile ma che appare legato anche a un voto di fiducia verso la prossima "Moonenomics" che dovrebbe assecondare i segnali di recupero dell'economia evidenziati dall'espansione oltre le attese del Pil del primo trimestre e dal balzo delle esportazioni (+24% in aprile). Così la nuova presidenza si avvia tra grandi attese e sfide insidiose. Sul piano politico, le valutazioni degli analisti sono divergenti. C'è chi ritiene che Moon sia il presidente adatto a cercare di evitare che le tensioni regionali vadano fuori controllo e chi paventa invece una eventuale linea morbida verso Pyongyang che cozzi contro gli orientamenti dell'Amministrazione Trump. Su un punto gli interessi degli investitori internazionali e le promesse di Moon coincidono: la promozione di riforme presso i grandi chaebol nel segno di una maggiore trasparenza e una migliore corporate governance, accompagnata al taglio dei rapporti collusivi con la politica. Elementi, questi, che significano più tutele per gli azionisti di minoranza. Non è un caso che i record di Borsa siano stati trainati da Samsung: non solo per i buoni risultati finanziari, ma per le aperture verso i soci minoritari. Anche se il colosso tecnologico non intende assecondare le richieste di alcuni fondi attivisti che vorrebbero la creazione di una struttura di holding, su altri fronti – dal dividendo al riacquisto o annullamento di azioni proprie - il cambio di passo nella gestione aziendale appare già evidente. Moon appare a molti ben posizionato anche per cercare di ricucire i rapporti con la Cina, messi in crisi dall'accelerato dispiegamento del sistema antimissilistico americano THAAD. In proposito, pochi credono che Moon voglia rimuoverlo, ma uno sforzo per placare la collera cinese avrebbe probabili effetti economici positivi: basti pensare che il semi-boicottaggio cinese in corso ha provocato un crollo dei turisti esteri e un calo complessivo del 65% delle vendite mensili di auto Hyundai e Kia in Cina. Secondo Lee Sun-hwa della Hi Investment and Securities, poi, «queste elezioni finiranno per dare una spinta alla fiducia dei consumatori, in anticipazione delle politiche della nuova amministrazione», dopo il prolungato stallo istituzionale provocato dall'impeachment della Park. A differenza di candidati nelle precedenti elezioni, Moon Jae-in non si è focalizzato sulla presentazione di obiettivi macroeconomici poi rivelatisi fantasiosi, ma su questioni più specifiche, salvo l'enfasi sulla promozione della cosiddetta Quarta Rivoluzione industriale: per pilotarla, ha annunciato la costituzione di un comitato presidenziale sotto un piano denominato "21st Century New Deal". A parte la riforma dei chaebol, alcune misure promesse appaiono vicine a una manovra di stimolo dell'economia, dal rialzo delle pensioni minime all'assunzione di 12mila nuovi dipendenti pubblici. Per contro, Moon appare aperto all'idea di un rialzo della corporate tax (scesa dal 25 al 22% sotto Lee Myung-bak), ma non è sicuro che succederà. Uno dei problemi sta nei dati segnalati dalla Korea Chamber of Commerce, secondo cui le imprese sudcoreane stanno ormai promuovendo crescita e posti di lavoro più all'estero che in patria: l'aumento del Pil non comporta più necessariamente una maggiore creazione di posti di lavoro. Ad ogni modo, il punto importante è che gli investitori salutino favorevolmente il ripristino di un governo nella pienezza dei suoi poteri e l'affievolirsi dei venti verbali di guerra che, tra l'altro, hanno portato alcune aziende italiane a disertare la partecipazione a fiere a Seul. Dice l'ambasciatore Marco della Seta: «Il messaggio mio ma anche quelli di tutti i colleghi europei è: business as usual. Non ci sono motivi per rimandare o cancellare visite di lavoro o di turismo».
Un nuovo leader per la
Quarta rivoluzione industriale
di Stefano Carrer
Questa volta non solo gli elettori sudcoreani, ma i mercati finanziari hanno votato verso sinistra: l'affermazione del "liberal" Moon Jae-in è stata preceduta - con lui già in netto vantaggio nei sondaggi - da ripetuti record storici della Borsa di Seul, a dispetto del recente aggravamento delle tensioni geopolitiche. Un trend variamente giustificabile ma che appare legato anche a un voto di fiducia verso la prossima "Moonenomics" che dovrebbe assecondare i segnali di recupero dell'economia evidenziati dall'espansione oltre le attese del Pil del primo trimestre e dal balzo delle esportazioni (+24% in aprile). Così la nuova presidenza si avvia tra grandi attese e sfide insidiose. Sul piano politico, le valutazioni degli analisti sono divergenti. C'è chi ritiene che Moon sia il presidente adatto a cercare di evitare che le tensioni regionali vadano fuori controllo e chi paventa invece una eventuale linea morbida verso Pyongyang che cozzi contro gli orientamenti dell'Amministrazione Trump. Su un punto gli interessi degli investitori internazionali e le promesse di Moon coincidono: la promozione di riforme presso i grandi chaebol nel segno di una maggiore trasparenza e una migliore corporate governance, accompagnata al taglio dei rapporti collusivi con la politica. Elementi, questi, che significano più tutele per gli azionisti di minoranza. Non è un caso che i record di Borsa siano stati trainati da Samsung: non solo per i buoni risultati finanziari, ma per le aperture verso i soci minoritari. Anche se il colosso tecnologico non intende assecondare le richieste di alcuni fondi attivisti che vorrebbero la creazione di una struttura di holding, su altri fronti – dal dividendo al riacquisto o annullamento di azioni proprie - il cambio di passo nella gestione aziendale appare già evidente. Moon appare a molti ben posizionato anche per cercare di ricucire i rapporti con la Cina, messi in crisi dall'accelerato dispiegamento del sistema antimissilistico americano THAAD. In proposito, pochi credono che Moon voglia rimuoverlo, ma uno sforzo per placare la collera cinese avrebbe probabili effetti economici positivi: basti pensare che il semi-boicottaggio cinese in corso ha provocato un crollo dei turisti esteri e un calo complessivo del 65% delle vendite mensili di auto Hyundai e Kia in Cina. Secondo Lee Sun-hwa della Hi Investment and Securities, poi, «queste elezioni finiranno per dare una spinta alla fiducia dei consumatori, in anticipazione delle politiche della nuova amministrazione», dopo il prolungato stallo istituzionale provocato dall'impeachment della Park. A differenza di candidati nelle precedenti elezioni, Moon Jae-in non si è focalizzato sulla presentazione di obiettivi macroeconomici poi rivelatisi fantasiosi, ma su questioni più specifiche, salvo l'enfasi sulla promozione della cosiddetta Quarta Rivoluzione industriale: per pilotarla, ha annunciato la costituzione di un comitato presidenziale sotto un piano denominato "21st Century New Deal". A parte la riforma dei chaebol, alcune misure promesse appaiono vicine a una manovra di stimolo dell'economia, dal rialzo delle pensioni minime all'assunzione di 12mila nuovi dipendenti pubblici. Per contro, Moon appare aperto all'idea di un rialzo della corporate tax (scesa dal 25 al 22% sotto Lee Myung-bak), ma non è sicuro che succederà. Uno dei problemi sta nei dati segnalati dalla Korea Chamber of Commerce, secondo cui le imprese sudcoreane stanno ormai promuovendo crescita e posti di lavoro più all'estero che in patria: l'aumento del Pil non comporta più necessariamente una maggiore creazione di posti di lavoro. Ad ogni modo, il punto importante è che gli investitori salutino favorevolmente il ripristino di un governo nella pienezza dei suoi poteri e l'affievolirsi dei venti verbali di guerra che, tra l'altro, hanno portato alcune aziende italiane a disertare la partecipazione a fiere a Seul. Dice l'ambasciatore Marco della Seta: «Il messaggio mio ma anche quelli di tutti i colleghi europei è: business as usual. Non ci sono motivi per rimandare o cancellare visite di lavoro o di turismo».
venerdì 12 maggio 2017
Migranti e ladri in casa se la politica offre solo il diritto alla vendetta
La Repubblica, 12.5.2007
La sicurezza dei cittadini non
sta nell’agenda della Politica
Di Roberto Saviano