sabato 2 giugno 2018

Il Sole 2.6.18
Piazza Affari +1,49%, spread a 233

Dal voto virtualmente perso un miliardo al giorno
I mercati «aprono» all’Esecutivo

Reazioni positive dai mercati al varo del governo: sfuma il rischio di un esecutivo a tempo e di nuove elezioni. Piazza Affari sale dell’1,49% e azzera le perdite da inizio anno; lo spread BTp-Bund è sceso a 233 punti. Intanto si fa il bilancio della crisi politica e dei rischi in prospettiva: nei tre mesi trascorsi dal voto perso valore per quasi un miliardo al giorno tra titoli di Stato e Borsa.

La Stampa 2.6.18
Italia, la crisi che inquieta le democrazie
Quel vuoto nel cuore della politica che mostra le debolezze dell’Italia
di Bill Emmott


Diciamolo. Nel resto del mondo la crisi politica italiana tipicamente è vista così: la situazione è drammatica ma non è seria. Questo spiega forse perché tanto i mercati finanziari come gli organi di informazione stranieri abbiano prestato così poca attenzione al voto del 4 marzo. Secondo me è stato un grave errore perché questa crisi è davvero seria. La scusa migliore per un errore del genere, tuttavia, è che la vera crisi è di lunga data, non un qualcosa creato all’improvviso dai politici o dai partiti.
Molte delle reazioni di questi commentatori ricordano il famoso test delle macchie di Rorschach: quello che vedono nella drammatica ambiguità della crisi italiana, più che con il Paese ha a che fare con ciò che avviene nelle loro teste. In Gran Bretagna, i difensori della Brexit interpretano la disputa su Paolo Savona come la prova della bontà della decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione europea. A Bruxelles, eminenti commissari europei la citano a riprova della necessità del patto di bilancio per l’ eurozona. Secondo il filantropo George Soros dimostra che la Ue sta attraversando una «crisi esistenziale».
I mercati finanziari
In contrasto con i commentatori e i politici, le reazioni dei mercati finanziari sono state abbastanza calme. Mi ha sorpreso che lo spread tra i titoli di Stato italiani e tedeschi sia aumentato così poco dopo il 4 marzo, visto il risultato. È cresciuto in modo più sensibile quando la realizzazione del governo Di Maio-Salvini sembrava imminente, e in particolare durante il conflitto istituzionale di questi ultimi giorni, ma non è mai diventato cosi allarmante come appariva nel 2011.
A mio avviso questa è una grave sottovalutazione della situazione politica ed economica dell’Italia. I mercati finanziari e i governi stranieri dovrebbero essere molto più preoccupati.
Il vuoto che si è creato
Dovrebbero esserlo da un punto di vista politico perché il risultato del voto di marzo e le manovre post elettorali hanno messo a nudo l’enorme vuoto che si è creato nel cuore della politica. È una situazione simile a quella che si è creata in Francia tra il 2015 e il 2017 quando entrambi i grandi partiti istituzionali, i Socialisti e i Repubblicani, sono apparsi screditati e per colmare il vuoto è sorto un nuovo partito, En Marche. Ma nel mondo politico italiano non c’è un Emmanuel Macron.
Il partito democratico è allo sbando e Forza Italia sembra un dinosauro. In cambio le idee politiche che hanno tenuto banco durante la campagna elettorale vanno dall’azzardato all’insensato: molte facevano balenare promesse irresponsabili di spese pubbliche impossibili da mantenere, altre prevedevano schemi avventurosi tutti da elaborare.
La crisi e cosa non è chiaro
Il punto non è che il mondo dovrebbe essere terrorizzato dalle politiche del nuovo governo, quanto piuttosto allarmarsi perché si è dedicato così poco tempo a mettere a punto una proposta politica coerente. Non è ben chiaro cosa vogliano i 5 stelle e la Lega; la loro identità è definita piuttosto da ciò a cui si oppongono.
Questo è inquietante perché la crisi economica e sociale dell’Italia dura da almeno vent’anni. È la crisi delle istituzioni pubbliche, del ruolo della legge, del funzionamento del sistema giudiziario. È la crisi di un’economia troppo rigida che ha impedito lo sviluppo di nuove idee e la crescita di nuovi imprenditori. È la crisi di un mercato del lavoro diviso e sclerotizzato che ha lasciato senza speranza, né opportunità un gran numero di persone, soprattutto giovani, costringendo all’esodo tanti brillanti laureati.
È una crisi, ancora, da cui ci si sarebbe aspettati che nascessero idee e progetti sul da farsi, insieme a un grande senso di urgenza. E sicuramente queste idee esistono. Ma sembrano stranamente scollegate dalle politiche e dai programmi dei partiti che invece sembrano tirati via alla bell’ e meglio.
L’horror vacui
In natura vige l’horror vacui, dicono gli scienziati, la natura riempie gli spazi: se c’è un vuoto politico, un vuoto di idee, arriverà qualcosa o qualcuno a colmarlo. E questo davvero dovrebbe preoccupare dell’ Italia. Se mancano coerenza e consenso, si possono intraprendere pericolose avventure, affidate a pericolosi avventurieri. E il dramma potrebbe diventare ancora più serio e aggravarsi sempre di più.
Traduzione di Carla Reschia)

il manifesto 2.6.18
Il populismo senza popolo al potere
Disordine nuovo. È il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Non ci sono più il «popolo di sinistra», né il «popolo padano», né più quello del «vaffa»
di Marco Revelli


«Disordine nuovo» titolava il manifesto del 29 maggio scorso. E fotografava perfettamente il carattere del tutto inedito del caos istituzionale e politico andato in scena allora sull’ «irto colle» e diffusosi in un amen urbi et orbi.
Ma quell’espressione va al di là dell’istantanea, e non perde certo attualità per la nascita del governo Conte.
Con la sua doppia allusione storica (all’ordinovismo neofascista ma anche all’originario Ordine Nuovo gramsciano) ci spinge anzi a riflettere da una parte sul potenziale dirompente del voto del 4 marzo, reso assai visibile ora che è esploso fin dentro il Palazzo provocandone una serie di crisi di nervi.
Dall’altra sul carattere anche questo «nuovo» del soggetto politico insediatosi nel cuore dello Stato: sull’ircocervo che sta sotto la bandiera giallo-verde e che per ora è difficile qualificare se non in forma cromatica. Perché quello che è andato abbozzandosi «per fusione» nei quasi cento giorni di crisi seguita al terremoto del 4 di marzo, e infine è diventato «potere», forse è qualcosa di più di una semplice alleanza provvisoria. Forse è l’embrione di una nuova metamorfosi (potenziata) di quel «populismo del terzo millennio» su cui dalla Brexit e dalla vittoria di Trump in poi i politologi di mezzo mondo vanno interrogandosi. Forse addirittura è una sua inedita mutazione genetica che, fondendo in un unico conio vari ed eterogenei «populismi», farebbe ancora una volta del caso italiano un ben più ampio laboratorio della crisi democratica globale.
SBAGLIANO QUANTI liquidano l’asse 5Stelle-Lega con le etichette consuete: alleanza rosso-bruna, coalizione grillo-fascista, o fascio-grillina, o sfascio-leghista, e via ricombinando. Sbagliano per pigrizia mentale, e per rifiuto di vedere che quello che va emergendo dal lago di Lochness è un fenomeno politico inedito, radicato più che nelle culture politiche nelle rotture epocali dell’ordine sociale. Altrimenti dovremmo concludere che (e spiegare perché) la maggioranza degli italiani – quasi il 60% – è diventata d’improvviso «fascista». E sarebbe assai difficile capire come e per quale occulta ragione l’elettorato identitario della Lega si è così facilmente rassegnato al connubio con la platea anarco-libertaria grillina, e viceversa come questa si sia pensata compatibile con i tombini di ghisa di Salvini…
È DUNQUE per molti versi un oggetto misterioso quello che disturba i nostri sonni. E in questi casi, quando si ha di fronte un’entità politica che non ci dice da sé «chi sia», è utile partire dall’indagine delle cause. Dalla «eziologia», direbbero i vecchi padri della scienza politica, prendendo a prestito il termine dalla medicina, come se appunto di malattia si trattasse. Da dove «nasce» – da quale sostrato, o «infezione», prende origine -, questa «cosa» che ha occupato il centro istituzionale del Paese, destabilizzandolo fino al limite dell’entropia?
UNA MANO, FORSE, ce la potrebbe dare Benjamin Arditi, un brillante politologo latino-americano che ha usato, per il populismo del «terzo millennio», la metafora dell’”invitado incomodo”, cioè dell’ospite indesiderato a un elegante dinner party, che beve oltre misura, non rispetta le buone maniere a tavola, è rozzo, alza la voce e tenta fastidiosamente di flirtare con le mogli degli altri ospiti… È sicuramente sgradevole, e «fuori posto», ma potrebbe anche farsi scappare di bocca «una qualche verità sulla democrazia liberale, per esempio che essa si è dimenticata del proprio ideale fondante, la sovranità popolare». È questo il primo tratto identificante del new populism: il suo trarre origine dal senso di espropriazione delle proprie prerogative democratiche da parte di un elettorato marginalizzato, ignorato, scavalcato da decisioni prese altrove… Son le furie del (popolo) Sovrano cui per sortilegio è stato sfilato lo scettro il denominatore comune delle pur diverse anime. E queste furie (confermate purtroppo dalle recenti improvvide esternazioni istituzionali) attraversano la società in tutte le sue componenti, sull’intero asse destra-sinistra.
IL SECONDO FATTORE è lo «scioglimento di tutti i popoli». Può sembrare paradossale, ma è così: questo cosiddetto populismo rampante è in realtà senza popolo. Anzi, è il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Nella marea che ha invaso le urne il 4 di marzo non c’è più il «popolo di sinistra» (lo si è visto e lo si è detto), ma neppure più il «popolo padano» (con la nazionalizzazione della Lega salviniana), e neanche il «popolo del vaffa» (con la transustanziazione di Di Maio in rassicurante uomo di governo): c’è il mélange di tutti insieme, sciolti nei loro atomi elementari e ricombinati. Così come ci sono ben visibili le tracce di tutti e tre i «populismi italiani» che nel mio Populismo 2.0 avevo descritto nella loro successione cronologica (il telepopulismo berlusconiano ante-crisi, il cyberpopulismo grillino post-Monti e il populismo di governo renziano pre-referendario), e che ora sembrano precipitare in un punto solo: in un unico calderone in ebollizione al fuoco di un «non popolo» altrimenti privo di un «Sé».
PER QUESTO CREDO di poter dire che siamo lontani dai vari fascismi e neofascismi novecenteschi, esasperatamente comunitari in nome dell’omogeneità del Volk. E nello stesso tempo che viviamo ormai in un mondo abissalmente altro rispetto a quello in cui Gramsci pensò il suo Ordine Nuovo fondando su quello l’egemonia di lunga durata della sinistra. Se quel modello di «ordine» era incentrato sul lavoro operaio (in quanto espressione della razionalità produttiva di fabbrica) come cellula elementare dello Stato Nuovo, l’attuale prevalente visione del mondo trae al contrario origine dalla dissoluzione del Lavoro come soggetto sociale (si fonda sulla sua sconfitta storica) e dall’emergere di un paradigma egemonico che fa del mercato e del denaro – di due entità per definizione «prive di forma» – i propri principii regolatori. È appunto, nel senso più proprio, un «disordine nuovo». Ovvero un’ipotesi di società che fa del disordine (e del suo correlato: la diseguaglianza selvaggia) la propria cifra prevalente.
A QUESTO MODELLO «insostenibile» il soggetto politico che sta emergendo dal caos sistemico che caratterizza la «maturità neoliberista» non si contrappone come antitesi, ma ne trasferisce piuttosto lo statuto «anarco-capitalista» nel cuore del «politico». Non è il corpo solido piantato nella società liquida. È a sua volta «liquido» e volatile. Continuerà a quotare alla propria borsa l’insoddisfazione del «popolo esautorato», ma non gli restituirà lo scettro smarrito. Continuerà a prestare ascolto alla sua angoscia da declino e da marginalizzazione, ma non ne arresterà la discesa sul piano inclinato sociale (scaricandone rabbia e frustrazione su migranti, rom e homeless secondo la tecnica consumata del capro espiatorio). Condurrà probabilmente una lotta senza quartiere contro le attuali «oligarchie» (per sostituirsi ad esse) ma non toccherà nessuno dei «fondamentali di sistema». È pericoloso proprio per questo: per la sua adattabilità ai flussi umorali che lavorano in basso e per la sua simmetrica collusione con le logiche di fondo che operano in alto. E proprio per questo personalmente non farei molto conto sull’ipotesi che a breve tempo il loro governo vada in crisi per le sue contraddizioni interne. O per un conflitto «mortale» con l’Europa, che non saranno loro ad affossare con un’azione deliberata e consapevole (sta già facendo molto da sola, con la sua tendenza suicida).
SE VORREMO combatterli dovremo prepararci ad avere davanti un avversario proteiforme, affrontabile solo da una forza e da una cultura politica che abbia saputo fare, a sua volta, il proprio esodo dalla terra d’origine: che sia preparata a cambiarsi con la stessa radicalità con cui è cambiato ciò che abbiamo di fronte. Non certo da un fantasmatico «fronte repubblicano», somma di tutte le sconfitte.

Il Fatto 2.6.18
Quel “contratto” e i pirati della carta
Dal premier “esecutore” a Savona - Le ultime torsioni di una “fantacostituzione”: ora bisognerà vigilare sul nuovo governo. A partire dalla difesa “sempre legittima” propugnata da Salvini
di Salvatore Settis


Cambiare la Costituzione in Italia è molto complicato. Anzi no, è facilissimo. Lo Statuto Albertino (1848) sopravvisse cent’anni. Mussolini cercò di cambiarlo nominando una “Commissione dei Soloni”, antesignana delle commissioni di “saggi” per la modifica costituzionale di questi ultimi anni.
Ma le modifiche proposte dai Soloni erano così tenui che il duce preferì soprassedere, e alterare l’ordinamento con una raffica di fascistissime leggi ordinarie, contando sul fatto che lo Statuto non lo vietava espressamente e sulla complicità del Re. I saggi di nuova generazione ci hanno propinato soloneggiando la riforma costituzionale Renzi-Boschi, bocciata dal referendum: perché, per nostra fortuna, la Costituzione repubblicana prevede una procedura rigorosa. Ma le voglie di cambiar tutto non si sono spente. C’è chi (come Renzi) sogna di rilanciare modifiche simili a quelle appena naufragate. C’è chi finge di dimenticare articoli cruciali della Carta, devastando la spesa sociale, la cultura, la sanità, la scuola, il diritto al lavoro (che in Costituzione ci sono) in nome dell’ossequio ai mercati (che in Costituzione non c’è). E c’è chi rispolvera adattandola ai tempi l’opposizione, formulata ai tempi dello Statuto Albertino, fra Costituzione formale e “Costituzione materiale”. La cosiddetta Costituzione materiale sembra ridursi ormai alla presa d’atto di una prassi di governo, quasi che ogni azione del Capo dello Stato, dei partiti, del Parlamento o dei governi, pur se difforme dalla Costituzione vigente, ne prendesse il posto autolegittimandosi sull’istante. Diventando “precedente” di forzature simili, sempre pronte dietro l’angolo. Si tenta così, senza dirlo, di trascinare la Carta in regime di common law, che si fonda sulla consuetudine e sui precedenti giurisprudenziali.
Alla luce di questa aberrazione strisciante la crisi istituzionale dei giorni scorsi rivela il diffuso ripudio della difesa della Costituzione che sembrò unire il Paese nel referendum del 4 dicembre 2016, e la riscrittura di una fantacostituzione a propria immagine e somiglianza da parte di molti attori politici e istituzionali. Di qui le crescenti e contrapposte anomalie della crisi dopo il 4 marzo. Per esempio (lo ha scritto sul Fatto Tomaso Montanari) “l’irresponsabile percorso di privatizzazione delle istituzioni repubblicane, culminato nel contratto fra Lega e Cinque Stelle”. Tale testo ripropone sì i consueti accordi fra partiti, che però non presero mai la forma notarile del contratto fra alleati che diffidano l’un dell’altro. Ma senza questa diffidenza non si capisce come mai al ruolo di presidente del Consiglio sia stato designato non (come vuole l’art. 95 della Costituzione) un responsabile in prima persona della politica generale del governo, bensì un “esecutore” di voleri altrui. Il dialogo fra presidente del Consiglio incaricato e Presidente della Repubblica (previsto dall’art. 92 della Costituzione) ne risultava compromesso. Da un lato un premier uno e trino, dall’altro un Capo dello Stato riluttante ad accettare la situazione.
In questo scontro non di forze, ma di debolezze, la prova data dagli alleati giallo-verdi e da Mattarella con l’impuntatura sul nome di Paolo Savona è l’episodio più singolare. Nel governo Conte ci sono ministri assai discutibili, come Salvini che vorrebbe armare gli italiani e deportare i migranti. Ma è su Savona che abbiamo visto scontrarsi due opposte “Costituzioni materiali”: quella di chi nega al Capo dello Stato il diritto di discutere la scelta dei ministri che deve nominare e quella di un Presidente che invoca i mercati per sigillare un suo veto, che poi si rimangia spostando Savona di una casella sulla scacchiera del governo. E perché mai il Capo dello Stato dovrebbe impedire che un nuovo governo apra un negoziato sulle politiche di bilancio e di austerità in Europa? Contro queste politiche si sono pronunciati molti nostri governanti, anche l’allora presidente del Consiglio Renzi; ma senza trarne le conseguenze. E l’unica possibile interpretazione del risultato elettorale è che su questo fronte un altissimo numero di italiani si aspetta un governo capace non di uscire dall’euro, ma di negoziare un’Europa più giusta, essendone l’Italia non un servitore o una colonia, bensì uno dei principali componenti.
Ma perché mai fermare sul nascere un governo uscito dalle urne per sostituirlo con un governo tecnico di brevissima vita avrebbe dovuto “tranquillizzare i mercati”? Provando a spedire Cottarelli in Parlamento per una inevitabile crocifissione, Mattarella inchiodava se stesso a una decisione che imprime al ruolo del Capo dello Stato “una torsione inaudita” (Montanari). Sorprende che un uomo dal curriculum impeccabile come Mattarella non abbia previsto le conseguenze del suo gesto: oltre all’improponibile impeachment (per fortuna rientrato), abbiamo visto crescere sull’istante due tesi opposte. A un estremo, la compressione del ruolo del Presidente della Repubblica a una servile presa d’atto della lista dei ministri. All’altro estremo, la rivendicazione di una repubblica presidenziale. La conversione a U dell’ultimo minuto, la momentanea convivenza in pectore di due premier incaricati, il responsabile distacco di Cottarelli da un’avventura che lo avrebbe travolto hanno corretto il tiro, ma introducendo nella prassi nuove varianti che la Carta non prevede.
Il 4 dicembre 2016 fa abbiamo difeso la Costituzione da una pessima riforma. Oggi quei valori sono messi in discussione dal ribollire di una “Costituzione materiale” a cui istituzioni e politici collaborano anche senza volerlo. Nel 2013 si ignorò il responso delle urne, perdendo poi un’intera legislatura in miserevoli conati. Nel 2018 era necessario un governo politico, in cui le forze disposte a farlo mettano se stesse alla prova. E ora dobbiamo vigilare, mentre si aspetta il nuovo governo alla prova della Costituzione. Dato che il cosiddetto “contratto” è una bizzarria extra-costituzionale, che cosa ci dirà il presidente Conte nel suo discorso programmatico? Si limiterà a copiare il compito, o mostrerà l’indipendenza di giudizio e la leadership prescritte dall’art. 95 della Costituzione? Che posto darà a temi, come la cultura e la scuola, che il “contratto” affronta di striscio e senza idee? Propugnerà, come il “contratto”, una difesa domiciliare “sempre legittima”? Raccoglierà dal suo ministro dell’Interno Salvini l’idea che un italiano su due debba essere armato? Queste e altre domande premono. Dal Capo dello Stato e dal governo abbiamo il diritto di aspettarci un pieno impegno a rispettare la Costituzione vera, l’unica che abbiamo. Se non accadrà, sappiamo chi sarà la prima vittima: la nostra democrazia.

Repubblica 2.6.18
La festa della Repubblica
2 giugno, italiani contro italiani
di Michele Ainis


La Costituzione è un pezzo di carta: ci vuol poco a stracciarla. Specie se ciascuno la tira dal suo lato, opposto al lato altrui. Se ogni fazione ne prospetta una lettura partigiana, confondendo la parte con il tutto. Se infine quel vecchio documento normativo, scritto per unire, alimenta nuove divisioni.
Ecco, è esattamente questa l’eredità della nostra lunga, lunghissima crisi di governo. Una rissa furibonda sulle regole, che in ultimo chiama in causa la regola più alta, quella costituzionale. E il suo primo garante, ossia il capo dello Stato. Di volta in volta accusato d’aver lasciato passare troppo tempo prima d’assumere qualche iniziativa, oppure messo in croce per le proprie iniziative. Contestato per non avere immediatamente incaricato né Salvini né Di Maio, benché entrambi pretendessero le chiavi del governo, in virtù d’una legge elettorale che premia sia le liste, sia le coalizioni. Infine bersagliato da una freccia avvelenata, l’impeachment, che mette i due garanti della Costituzione ( il presidente e la Consulta) l’uno contro l’altro, l’uno giudice dell’altro.
E perché mai? Di nuovo per l’interpretazione di una regola, quella fissata nell’articolo 92 della Carta. Dove la nomina dei singoli ministri avviene “su proposta” del presidente del Consiglio incaricato, sennonché nel caso di Savona la proposta è stata rifiutata. Da ciò l’impeachment, risuonato per un attimo e poi caduto nell’oblio, in questo tempo nevrotico e confuso. Ma la confusione scava come un tarlo anche nel linguaggio che usiamo tutti i giorni, nelle nostre parole. Davvero avrebbe senso formulare una proposta vincolante? “Ci faccio un’offerta che lui non può rifiutare” è un detto del padrino, della mafia. Tuttavia non si tratta di un’offerta bensì di una decisione, o meglio d’una prevaricazione. Sicché celebriamo il 2 giugno — festa della Repubblica — divisi in due trincee, italiani contro italiani. Entrambi in nome d’una regola, che però non è la stessa regola. E festeggiamo manifestando, cioè mettendo le mani sulla festa. Ieri la manifestazione del Pd, in difesa della democrazia. Oggi quella del Movimento 5 Stelle, sempre in nome della democrazia, ma concepita in altre forme. E ancora, la manifestazione della Lega, per coniugare la democrazia al futuro, una democrazia presidenziale. Nei giorni scorsi manifestazioni contrapposte in varie città italiane, pro o contro Mattarella. Sarà che il Parlamento è muto, sarà che inoltre è mutilato (mancano le commissioni permanenti), dunque il contenzioso fra i partiti si consuma nelle piazze. Ma non è politica, è solo una piazzata.
Infine quest’onda si rovescia sulla Carta costituzionale, anch’essa teoricamente in festa, dato che nel 2018 si celebra il suo 70° compleanno. Troppe candeline sulla torta, dicono i suoi detrattori; dimenticando che la Costituzione americana è vecchia di due secoli e passa, però da quelle parti nessuno la mette in discussione. Sennonché in Italia la baruffa sulle regole ne offusca l’autorità, ne depotenzia il ruolo. Da qui l’eterna resistenza di ogni minoranza ad accettare la legittimità di chi si trovi in maggioranza, nonché della maggioranza ad accettare il responso dei garanti, dei contropoteri. Da qui, in ultimo, la negazione della regola non scritta, in aggiunta alla contestazione delle regole scritte.
Perché nella nostra Carta c’è un non detto, sopra e sotto il dictum. Questo: in uno Stato liberale il potere si divide, tuttavia i poteri divisi vanno condivisi. Altrimenti s’uccidono a vicenda, in una lotta barbara, ferina. “Leale collaborazione”, così la chiama la Consulta. Vale per le istituzioni, ma vale pure per noialtri. Se l’amministratore del nostro condominio non ci piace, proviamo a rimpiazzarlo, ma senza dar fuoco alla casa.

La Stampa 2.6.18
Salvini: pronti a fermare l’assalto dei migranti
“Proveranno a mettermi in ginocchio subito Ma non uso la ramazza, il Viminale funziona”
di Amedeo La Mattina


Sarebbe andato direttamente al Viminale, Matteo Salvini, senza passare per i giardini del Quirinale per la festa del 2 giugno. «Devo cominciare a studiare i tanti dossier - dice mentre scende a piedi dal Colle per raggiungere Palazzo Chigi - e la prima cosa che mi incuriosisce è vedere come sono gestiti i beni confiscati alla mafia. Voglio coinvolgere di più i comuni». La valorizzazione degli enti locali è il suo chiodo fisso. Gli è stato però consigliato di ritornare sul Colle dopo l’insediamento del governo a Palazzo Chigi. Non esserci sarebbe stato uno sgarbo al capo dello Stato e non era proprio il caso il primo giorno, quello del giuramento. Il nuovo ministro dell’Interno ha cominciato a rispettare i protocolli ai quali è allergico e a rassicurare il vertice della polizia e i capi dipartimento che incontrato nella Sala Roma. Dall’altra parte del tavolo, Franco Gabrielli. Per la verità sono sembrate rassicurazioni di maniera.
Salvini vuole prima verificare il grado di collaborazione che riceverà, ben sapendo che il suo arrivo al vertice di quel dicastero è visto come un’incognita. È il secondo leghista che siede su quella delicatissima poltrona. Prima di lui Roberto Maroni che gli ha suggerito come muoversi e affrontare questioni e persone. Il nuovo leader del Carroccio però ci arriva con posizioni molto più radicali e prese di posizioni sull’immigrazione roboanti che lo hanno portato ai massimi del consenso popolare. Adesso però che è entrato nella stanza dei bottoni e si subito tolto la giacca e arrotolato la camicia bianca dovrà passare dalle promesse ai fatti. E la sua prima grande preoccupazione sono gli arrivi dei migranti attraverso il Mediterraneo. «Adesso il mare è mosso, ma appena si calmerà temo l’ondata, magari un’invasione fatta apposta per mettermi subito alla prova. Qualcuno pensa di mettermi subito in ginocchio, ma dovremo subito reagire. Vediamo come funziona il ministero», confida ai suoi più stretti collaboratori. Calma e gesso. Per il momento non si tocca nulla. Anzi solo valutazioni positive. Con qualche punto interrogativo. Su Gabrielli dice che lo vedrà in serata, lo ascolterà. «Farò le mie valutazioni, ma certamente abbiamo una squadra che ha lavorato bene. Arrivo al Viminale in punta piedi, non con la ramazza. C’è una macchina che funziona - ha precisato nel suo ufficio del Viminale - e comunque c’è una struttura efficiente ed efficace. Cercheremo di capire come migliorarla ulteriormente. Non ci annoieremo».
Lo dice mentre si gira tra le mani alcune cartelle con dentro i primi dossier da studiare. Si occuperà subito di sicurezza, di minori, dell’organico delle forze dell’ordine. «Ogni anno vanno in pensione 3500 poliziotti e ne vengono inseriti solo una minima parte. O si lavora per rinfoltire e ringiovanire gli organici o tra quindici anni ci sarà un problema». Poi c’è un tema che ha sempre visto la Lega molto sensibile, negativamente, ed è quello dei prefetti. E su questo delicatissimo tema Salvini cita Luigi Einaudi che scriveva «via i prefetti perché là dove c’è il prefetto non c’è democrazia». Poi si corregge. «Ovviamente è passato un po’ di tempo e penso che l’Italia debba avviarsi verso una struttura sempre più vicina ai territori, alle comunità, alle autonomie, alle regioni. Ci sono prefetti molto in gamba. Cercherò di incontrarli tutti, ma un Paese moderno e federale punta tutto sui sindaci».
Con le comunità cattoliche «lavoreremo insieme». Intanto va a guardare di persona i luoghi degli sbarchi e dove vengono trattenuti i migranti. Domenica andrà in Sicilia in per la campagna elettorale (vuole continuare a fare il capo della Lega): Catania, Modica, fino a Pozzallo. E tanto per far capire come intende muoversi, annuncia la posizione contraria dell’Italia alla riforma del trattato di Dublino che verrà discussa la prossima settimana al vertice dei ministri europei dedicato ai migranti.

Corriere 2.6.18
La linea sui rimpatri è unirsi ai falchi Ue I dubbi al Viminale: non si può fare tutto
di Marco Cremonesi e Fiorenza Sarzanini


roma Rimpatri, legittima difesa, certezza della pena: continua a concentrarsi su questi tre dossier l’attenzione di Matteo Salvini nel primo giorno da ministro dell’Interno.
Il clima di preoccupazione che si respirava nelle stanze del Viminale dopo gli annunci delle scorse settimane di interventi drastici su migranti e sicurezza, è stato in parte stemperato dopo l’insediamento di ieri sera e l’incontro con i capi dipartimento. Ma adesso si attendono le prime mosse, soprattutto sulla scelta degli uomini che faranno parte della sua squadra. Consapevoli che non sarà facile conciliare i proclami con le soluzioni pratiche.
I colloqui avuti la scorsa settimana e nelle ultime ore, primo fra tutti quello con il capo della Polizia Franco Gabrielli, si sono concentrati proprio sulle priorità da affrontare. Al prossimo appuntamento con l’Europa, fissato martedì a Strasburgo, dove si continuerà a discutere delle modifiche all’accordo di Dublino sui richiedenti asilo, Salvini non ci sarà. Ma la linea sembra tracciata: se il trattato non sarà cambiato, l’Italia potrebbe allinearsi agli Stati del blocco di Visegrad — Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia — che mirano a far saltare il tavolo, accusando così l’Europa di non voler fornire alcuna assistenza concreta a chi si trova in prima linea rispetto agli arrivi degli stranieri.
La vera emergenza rischiano di essere gli sbarchi nelle prossime settimane e mesi e dunque si dovrà stabilire quale direzione prendere nei rapporti con il governo libico. «Devo studiare», risponde Salvini a chi gli chiede se l’accordo con il libico Al Sarraj sarà rinnovato. È certamente anche su questo che si gioca la scommessa del nuovo governo, perché la gestione di Marco Minniti ha portato a una diminuzione di arrivi pari al 78% rispetto al 2017, ma con una programmazione di investimenti e aiuti dei Paesi africani di provenienza che adesso si dovrà decidere se confermare.
Prima di essere nominato ministro, Salvini aveva annunciato di voler effettuare decine di migliaia di rimpatri e ne ha parlato nei colloqui informali dei giorni scorsi. Le resistenze dei Paesi di origine continuano però a essere fortissime, senza il rinnovo di accordi che prevedano nuove forme di cooperazione sarà impossibile riportare gli stranieri a casa.
Un altro dei temi da affrontare è quello della sicurezza urbana. Ieri Salvini ha detto di voler «far prevalere i sindaci rispetto ai prefetti» provocando non poche agitazioni al Viminale. Anche perché in campagna elettorale aveva annunciato di voler «radere al suolo i campi rom» e il timore è che possano emergere contrasti tra chi è delegato alla gestione delle emergenze e chi governa le città.
Questione da affrontare è anche la scelta dei sottosegretari. Tra le persone vicine a Salvini c’è Gianni Tonelli, l’ex segretario del Sap — il sindacato di destra della Polizia — eletto alla Camera proprio con la Lega. Qualcuno ipotizza che potrebbe essere nominato nonostante le recenti posizioni critiche che ha assunto nei confronti degli attuali vertici della pubblica sicurezza.

La Stampa 2.6.18
Fontana, il ministro della Famiglia
“Purtroppo nel Contratto la stretta sull’aborto non c’è”
di Alberto Mattioli


Il nuovo governo non aveva ancora giurato ed era già partita la prima polemica. Oggetto: il ministro per la Famiglia e le Disabilità, il leghista Lorenzo Fontana, un cattolico contrario all’aborto, alle nozze gay, alla «teoria gender» e così via. Ma Fontana è un personaggio più complesso e più influente. Veronese, 38 anni, ex eurodeputato, ammiratore di madame Le Pen, Trump e Putin, è stato l’ideologo della svolta sovranista della Lega, discussa a lungo con Matteo Salvini quando passavano la notte sui due divani letto nel salotto dell’appartamentino di Fontana a Bruxelles. Le sue due lauree, in Scienze politiche a Padova e in Storia a Roma, ne fanno il ministro più intellettuale di un gabinetto sintatticamente non molto attrezzato.
Fontana, cosa fa il ministro per la Famiglia?
«A me quel che interessa di più, la priorità assoluta, è invertire il drammatico calo demografico che colpisce il nostro Paese, come del resto è previsto dal Contratto di governo. Che il calo delle nascite sia un guaio l’ha detto, poco tempo fa, anche il professor Cottarelli. È a rischio la tenuta sociale».
Addirittura.
«Sì, perché si sta invertendo la piramide fra anziani e giovani. Anche economicamente, la situazione è insostenibile. Si dice che l’Europa che invecchia abbia bisogno di immigrati. Io credo invece che abbia bisogno di rimettersi a fare figli».
Fin qui il problema. E le soluzioni?
«Alcune idee le ho, spero di trovare nel governo la sensibilità per attuarle. In Europa sono molti gli esempi di politiche demografiche. In Francia, c’è una detrazione fiscale proporzionale al numero dei figli; in Finlandia ogni bébé riceve alla nascita un box-culla pieno di prodotti per l’infanzia, e così via. Si potrebbe pensare a un aumento degli assegni familiari o alla riduzione dell’Iva sui prodotti per i neonati. Oppure, visto che vogliamo la flat tax, applichiamola subito ai nuclei con almeno tre figli».
Però lei è un ministro senza portafoglio. E in quello del governo i fondi per finanziare tutto quel che si è promesso non ci sono.
«Cercherò di farmi valere. La politica di sostegno alla famiglia è prevista dal Contratto di governo. Ci siamo impegnati con gli italiani a farla».
Altri italiani temono che lei voglia restringere il diritto all’aborto.
«È un tema che nel Contratto non c’è. E credo anche che nella maggioranza non esista una sensibilità di questo tipo».
Sembra quasi che lei voglia aggiungere: purtroppo.
«A mio modo di vedere, sì. Non rinnego le mie idee perché sono diventato ministro. Sarei già soddisfatto se le nostre politiche di sostegno facessero cambiare idea a qualche donna che pensa di non poter tenere il suo bambino».
Quando parla di aiuti alle famiglie intende solo quelle tradizionali?
«Più che di aiuti alle famiglie io parlerei di aiuti alla natalità. Viva le mamme».
Si batterà per abolire il matrimonio per tutti?
«Nel Contratto non c’è nulla al riguardo, quindi no».
Di adozione per le coppie gay, ovviamente, non si parla.
«Le rispondo allo stesso modo: nel Contratto non c’è. Quel che vogliamo fare è quel che abbiamo scritto».
Intanto sui social la stanno sbranando. L’accusa è: omofobia.
«Di fobie non ne ho e non odio nessuno. A me più che i social interessa che questo Paese si garantisca un futuro. E credo che sulla questione demografica ci sia un ampio consenso. Idem sulle politiche per i disabili».
L’altra metà della sua delega: progetti?
«La questione economica è fondamentale. Gli assegni, specie quelli per i disabili gravi, sono troppo bassi, quasi derisori. Sono problemi che lo Stato ha sempre affrontato con superficialità. Adesso si cambia. Sono certo che le risorse si troveranno».
La sua linea sovranista trionfa. Ma non trova che l’alleanza con il M5S per la Lega sia innaturale?
«Il governo nasce dall’intesa fra due forze politiche che hanno molte differenze che restano tutte, ma che si sono messe d’accordo su una serie di punti ben chiari».
Al giuramento era emozionato?
«Emozionato, no. Sentivo forte la responsabilità, questo sì».
I suoi sono venuti ad assistere?
«Certo: mia moglie e mia figlia di due anni. Siamo una famiglia».

Corriere 2.6.18
«Le famiglie gay? Non esistono Ora più bambini e meno aborti»
di Alessandra Arachi


ROMA Lorenzo Fontana, lei ha appena giurato come ministro della Famiglia e della Disabilità...
«Eh, sì, dovrò abituarmi a questo ruolo, sono contento».
Un dicastero importante, delicato più che altro.
«Mi impegnerò».
È stato accolto da qualche polemica. Ha letto le frasi che le attribuiscono contro i gay? Quelle dove dice che vogliono dominarci e cancellare il nostro popolo...
«Ma no, non erano contro i gay».
E contro chi?
«Contro un modello culturale relativista. Un modello della globalizzazione fatto dai poteri finanziari che disegna un mondo dove non esistono le comunità, e quindi la famiglia che è la prima e più importante comunità della nostra società».
Allora non è vero che lei è contro i gay?
«Ma va. Ho tanti amici omosessuali, del resto ho vissuto a Bruxelles tanti anni dove ci sono anche nelle istituzioni. E poi la questione non è nel contratto di governo, non me ne occuperò».
E quale sarà il primo punto all’ordine del giorno del suo dicastero?
«La natalità. Voglio lavorare per invertire la curva della crescita che nel nostro Paese sta diventando davvero un problema. Lo ha detto anche Cottarelli».
Carlo Cottarelli? Che ha detto?
«Lo ha scritto nel suo libro che questa demografia in Italia fa calare il Pil. Bisogna intervenire».
In che modo?
«Ci sono in agenda tanti provvedimenti, prima però bisogna verificare le coperture».
Può fare l’esempio di uno di questi provvedimenti?
«L’idea è di abbassare l’Iva per tutti i prodotti che riguardano l’infanzia. Ma metterò in atto anche delle politiche per cercare di ridurre il numero degli aborti. Hanno detto anche che io avrei dichiarato che le donne non possono abortire».
E invece?
«Non l’ho mai detto».
Cosa pensa di fare quindi contro l’aborto?
«Voglio intervenire per potenziare i consultori così di cercare di dissuadere le donne ad abortire. Sono cattolico, non lo nascondo. Ed è per questo che credo e dico anche che la famiglia sia quella naturale, dove un bambino deve avere una mamma e un papà».
Eppure adesso in Italia ci sono tante famiglie diverse. Ha visto quanti tribunali hanno riconosciuto genitori omosessuali?
«Alcuni tribunali hanno riconosciuto, altri no».
Ma anche le anagrafi adesso registrano i bambini figli di genitori dello stesso sesso. A Roma addirittura hanno registrato la bimba di due padri senza nemmeno aspettare l’intimazione del tribunale...
«Si, ma una legge in proposito non esiste».
E quindi?
«Se non esiste una legge dobbiamo decodificare cosa significa quello che sta succedendo».
Lei punta all’aumento della natalità nel nostro Paese. Anche le coppie omosessuali contribuiscono alla crescita della natalità. Come si comporterà verso questi bambini?
«Ah, per carità, verso i bambini non ci sarà mai nessun tipo di discriminazione. Quando verranno presi provvedimenti in favore dell’infanzia saranno estesi a tutti i bambini, indistintamente e indipendentemente dai genitori».
Lei però è il ministro della Famiglia, non il ministro dei bambini. Come pensa di comportarsi nei confronti delle famiglie arcobaleno?
« Perché esistono le famiglie arcobaleno?».
Si, esistono e sono tante in Italia...
«Ma per la legge non esistono in questo momento».

Repubblica 2.6.18
Lorenzo Fontana
Su gay e aborto l’ombra di proclami neofascisti
di Paolo Berizzi


Dicono che il matrimonio racconti l’uomo. Lorenzo Fontana, “veronese e cattolico”, si è sposato con doppio rito: tridentino, celebrato da don Wilmar Pavesi, sacerdote pre-conciliare vicino ai tradizionalisti cattolici, e civile, celebrato dall’ex sindaco di Verona Flavio Tosi con Matteo Salvini testimone. Tutto il resto è curriculum: dal libro “La Culla vuota della civiltà. All’origine della crisi” scritto con l’ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi dove spara contro le unioni omosessuali, la legge 194, la globalizzazione, i flussi migratori e il “sostituzionismo” (vedi la bufala del piano Kalergi), fino al resto, le tesi antiabortiste, la fascinazione per Putin e Marine Le Pen (“sono stato tra gli artefici dell’alleanza con la Lega”), la difesa della “famiglia naturale”. E poi gli svaghi, il tifo per l’Hellas Verona ovvero la «squadra a forma di svastica», cantano gli ultrà “neri” della curva Sud dello stadio Bentegodi dove il neoministro alla Famiglia e alla Disabilità è presenza fissa. Quali saranno le politiche targate Fontana? Andate per intuizione.
«La famiglia naturale è sotto attacco. Vogliono dominarci e cancellare il nostro popolo», verga sul suo sito. Loro, e “noi”.
Da una parte i gay, la comunità Lgbt, i “pride” ma anche gli immigrati e i terroristi; dall’altra lui, ministro e vicesindaco di Verona, e i difensori delle “tradizioni”. Che nell’incubatore della città scaligera sono un mix di ultracattolici e neofascismo sponda Lega. «La famiglia è una sola: uomo donna e figli», ribadì Fontana nel 2014 contestando il patrocinio concesso dalla Regione Lombardia al Pride. A Verona doveva ancora arrivare il “Bus per la Libertà” con la scritta “Non confondete l’identità sessuale dei bambini”. Ad accoglierlo era con il sindaco Federico Sboarina, presenti anche al “Festival per la vita” (organizzato da Pro Vita, onlus vicina a Forza Nuova). Eccolo, il Fontana pensiero: «L’indebolimento della famiglia, la lotta per i matrimoni gay, la teoria gender nelle scuole, l’immigrazione che subiamo: sono fattori che mirano a cancellare la nostra comunità».
38anni, laurea in scienze politiche. Un predestinato della politica alla quale si avvicina a 16 anni. A 22 anni è consigliere di circoscrizione, a 27 in Comune e a 29 nel Parlamento Europeo dove viene rieletto (due mandati) nel 2014 quando la Lega entra nel Gruppo Enf con il Front National.
Il “più a destra” del governo, come l’hanno già definito. Uomo pragmatico e piglio deciso. Tra una marcia per la vita e i convegni dei neofascisti di Fortezza Europa, è a Orbàn e alla Russia di Putin che guarda Fontana. «Se 30 anni fa, sotto il giogo comunista, era ciò che più lontano si possa immaginare dalle idee identitarie, oggi è il riferimento per chi crede in un modello identitario di società».
Sono arrivate dal neoministro le promesse di epurazione verso eventuali leghisti a sostegno dei diritti omosex. Dalle parole ai fatti. A Bruxelles Fontana si è opposto alla Relazione Lunacek «che apre alle nozze gay e chiede corsi di educazione sessuali pro Lgbt per bambini». A novembre 2017 — come raccontato da Repubblica — Fontana è invitato a una tavola rotonda sulla legittima difesa organizzata proprio da Fortezza e valida per crediti formativi forensi. Il moderatore?
Emanuele Tesauro, front man (con sigla della Rsi tatuata sul braccio) della band musicale “Hobbit” nota per i testi che inneggiano al fascismo e alla violenza negli stadi. Il tifo, la politica, la Lega, l’ultradestra, la Famiglia. E ora un ministero.

La Stampa 2.6.18
Salvini: “Esiste solo la famiglia tradizionale”. La preoccupazione della comunità gay: “Chi ci difenderà?”
In una lettera Gianni Reinetti lancia un appello al presidente Mattarella e alla sindaca Appendino: «Preoccupati per i nostri diritti con questo governo»
di Letizia Tortello

qui


Il Fatto 2.6.18
Trenta e l’ombra dei contractor: la prof. guerriera
Carriere - Insegna Intelligence alla Link e lavora per gli Esteri e la Cooperazione: i legami con società che usano mercenari
di Stefano Feltri e Carlo Tecce


Perché Elisabetta Trenta, su indicazione dei Cinque Stelle, è ministro della Difesa? Può stare sia in divisa con la mimetica dell’esercito, capitano di riserva selezionata, che in cattedra con la vicedirezione di un master in Intelligence alla Link Campus University di Vincenzo Scotti, dove studiano – e talvolta insegnano – gli agenti segreti.
Può stare in missione in Iraq per la Farnesina e in Libano per le Nazioni Uniti. Ovunque nel ruolo di altissimo dirigente (program manager) con la cooperazione di SudgestAid, una società senza scopo di lucro – in orbita ateneo Link, e di recente al centro di scambi di quote fra la pubblica Formez e Consedin – e che promuove la ricostruzione anche burocratica in Paesi devastati dai conflitti bellici.
Quattro anni fa, la prima commessa per la formazione dei dipendenti nel governatorato di Dhi Qar – dove l’Italia ha la base di Nassiriya – fu attribuita a SudgestAid, che coinvolse la Link. Per anni presidente, adesso Trenta è membro del comitato direttivo di Consortium for research on intelligence and security services, che per gestione e personale è organica ancora alla Link di Scotti, fucina di collaboratori e suggeritori di Luigi Di Maio. Il consorzio Criss – formato da una dozzina di società – opera sempre nel settore della sicurezza. Il settimanale francese Le Point insinua che SudgestAid abbia “reclutato mercenari in Medio Oriente”. E la Trenta smentisce sdegnata. Che c’entrano i mercenari con la carriera di Trenta? Il legame è Gianpiero Spinelli, ex paracadutista della Folgore, che di mestiere fa il contractor, il combattente in zone di guerra per società private. I quattro militari italiani sequestrati in Iraq nel 2004 erano colleghi di Spinelli. Tre furono liberati, il quarto era Fabrizio Quattrocchi, che fu ammazzato con una brutale esecuzione ripresa in un celebre e tremendo video. Spinelli ha più volte spiegato che i militari privati rappresentano l’azione esterna di un esercito: “L’11 Settembre, quando ho visto gli aerei che si conficcavano nelle Torri, mi sono detto: non posso più stare a guardare. Ognuno deve fare la sua parte”.
Oggi Spinelli frequenta la Link e – come SudgestAid o la fondazione Icsa che fu guidata dall’ex ministro Marco Minniti – è presente nel consorzio Criss con Stam, soluzioni terrestri, aeree e marittime. Cosa fa Stam di Spinelli? “Intende offrire al mercato un modello di approccio alla sicurezza completo e integrato. L’offerta è rivolta a molti: governi, forze armate, forze dell’ordine, organismi non governativi e multinazionali”. Tra i clienti di Stam: Link Campus, Esercito italiano, Marina e Polizia brasiliana, governo libico e SudgestAid. In una biografia pubblicata sul proprio portale, Spinelli racconta di un appalto in Libia per SudgestAid: “Grazie all’alto livello raggiunto a cavallo tra il 2012 e il 2014 partecipa con Stam a un contratto gestito dalla società italiana SudgestAid sotto l’egida del Ministero degli Esteri, dell’Unione Europea, del governo libico e del Lprd (Libyan Program for Reintegration and Development), riguardo le operazioni di selezione e formazione di 120 ex combattenti che integreranno le file della futura polizia turistica, all’interno del programma per il disarmo”.
Ultima annotazione per completare il profilo del ministro: il marito è un colonnello dell’Esercito al vertice di Segredifesa.
La nomina di Elisabetta Trenta alla Difesa pone un paio di questioni: ora è costretta – senza indugi – a lasciare gli incarichi in SudgestAid, nel consorzio Criss e in ogni progetto di Link University per allontanarsi dal conflitto di interessi che i Cinque Stelle contestano ai concorrenti politici. Dopo l’articolo di Le Point, gli avversari della maggioranza gialloverde sono già scatenati in cerca di prove di faccende compromettenti, passate o future. Il ministro Trenta, contattata dal Fatto Quotidiano, non ha risposto alla richiesta di chiarimenti.

La Stampa 2.6.18
Passa la mozione della Lega: a Savona Tari più alta per chi affitta appartamenti ai migranti
Il Comune ha già fatto partire il censimento degli alloggi. Artico (Arci): proposta intimidatoria
di Elena Romanato

qui

Repubblica 2.6.18
Marco Bussetti ministro alla Istruzione
Il nodo dei precari poi l’assalto alla Buona scuola
Laureato in Scienze motorie, punta a dare più risalto alla ginnastica anche alle primarie: “Pari ruolo con le altre materie”
di Corrado Zunino


ROMA Nato nella Varese di Giancarlo Giorgetti, che lo ha inventato nel ruolo di ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, 56 anni, aveva raggiunto l’apice di una carriera tutta scolastica nell’aprile 2015, quando era stato nominato dirigente dell’Ufficio X dell’Ufficio scolastico Lombardia.
Provveditore delle scuole di Milano, ecco. E da provveditore, un po’ come il suo competitor grillino Salvatore Giuliano, aveva parlato bene della Buona scuola
renziana. In una videointervista a
Sempione news — che in un istituto di Bollate gli chiedeva un commento sull’Alternanza scuola lavoro — il 31 marzo 2017 Bussetti rispose: «È un’ottima legge» e «l’alternanza in provincia di Milano è stata partecipata». Della Legge 107 a volte ha criticato, rigorosamente in ufficio, la farraginosa fase di arruolamento dei docenti, poi l’ha applicata da civil servant. La questione che si apre con la sua scelta è questa: il programma di governo Lega-M5s sulla Buona scuola è semplicemente tranchant. Dice: abolizione della chiamata diretta dei docenti da parte del dirigente scolastico e abolizione dell’alternanza scuola-lavoro.
Bussetti non è mai stato tranchant.
Si è preoccupato, laureato in Scienze motorie, di spingere per l’ampliamento delle ore di ginnastica nelle scuole, anche alle primarie. «La motoria deve avere pari riconoscimento culturale».
Amicale nei modi — chiede facilmente il “tu” all’interlocutore — Marco Bussetti è stato coach della squadra di basket di Gallarate e ha collezionato ventiquattro pubblicazioni sul tema sport e scuola. Parlano, per esempio, di “Flessibilità e forza addominale dei giovani studenti”.
È da sempre attento alle scuole paritarie. Prima di affrontare lo smantellamento dei poteri del preside (è stato dirigente all’Istituto comprensivo superiore Corbetta di Milano), il ministro ha davanti a sé una serie di emergenze da affrontare. La grande questione del precariato tra i docenti, innanzitutto, e in particolare la rivolta delle maestre diplomate dopo la sentenza plenaria del Consiglio di Stato che le ha tolte dalle graduatorie per l’assunzione (le Gae). Sono 43.534, più 5.665 già in cattedra. La Lega spinge per un decreto salva diplomate prima delle nomine dei supplenti di luglio: «Abbiamo un dossier pronto con tutte le possibili soluzioni, ma non dovremo fare leggi che risolvono problemi aprendone nuovi», dice Mario Pittoni, vicino all’ex provveditore. Le maestre d’infanzia storiche e le laureate di Scienze della formazione — controparti — chiedono che le diplomate affrontino con coraggio i concorsi. Il nuovo Miur proverà a mettere mano a due bandi già approvati: il concorso per dirigenti scolastici può essere fatto in un anno invece che in due e il “Fit”, che porterà in cattedra a breve docenti precari, ha diversi problemi: «Innanzitutto quello per cui un supplente pagato 1.400 euro il mese, per essere assunto dovrà fare un anno di prova a 400». Ancora, la Lega chiede corsi per abilitare i “precarissimi”, oggi in Terza fascia: abbandonati dal Pd, sono diventati serbatoio per la Lega. E poi c’è una legge già depositata da Pittoni in Senato: prevede una graduatoria privilegiata per gli insegnanti con 36 mesi di supplenze che oggi o vincono un concorso o vanno a casa. Più avanti, alzata la testa dalle scadenze a ridosso dell’estate, il ministro Marco Bussetti sarà chiamato ad applicare un cavallo di battaglia della Lega: i concorsi su base regionale con graduatorie a scorrimento. Serve per eliminare i trasferimenti di docenti dal Sud al Nord del Paese.

Repubblica 2.6.18
Il partito di Putin esulta
Russia Unita rilancia l’asse con la Lega
di Rosalba Castelletti


MOSCA, RUSSIA Le congratulazioni di Vladimir Putin al nuovo presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte sono arrivate pochi minuti dopo il giuramento.
«Spero che il suo lavoro come capo del governo aiuti a portare avanti una cooperazione russo-italiana costruttiva in vari ambiti, così come gli sforzi comuni per risolvere efficacemente problemi chiave regionali e internazionali», ha auspicato il presidente russo nel suo messaggio.
Seppure in silenzio «per scongiurare eventuali accuse d’interferenze», la Russia ha osservato con attenzione le trattative per la formazione del nuovo governo italiano. Come ha confermato a Repubblica il consigliere del Cremlino sulla politica estera Serghej Markov, Mosca nutre indubbia «simpatia» per le due forze anti-establishment al governo e, in particolare, per la Lega che può vantare rapporti di lunga data con Russia Unita, il partito al potere.
I primi contatti di Matteo Salvini con la Russia risalgono infatti già al congresso di Torino dell’allora Lega Nord nel dicembre 2013. Tra il pubblico, accanto a vari esponenti dei partiti anti-establishment ed euroscettici in seno all’Ue, c’era anche Viktor Zubarev, esponente di Russia Unita.
Seguono una lunga serie di contatti e visite reciproche che, il 6 marzo 2017, culminano con la sigla a Mosca di un accordo sulla collaborazione e cooperazione tra Lega e Russia Unita. Salvini e Serghej Zheleznjak, delegato alle Relazioni internazionali del partito russo, s’impegnano a scambiarsi «informazioni su temi di attualità», «relazioni bilaterali e internazionali, «esperienze del partito», «lavoro organizzato», «politiche per i giovani» e «sviluppo economico». Per promuovere lo scambio, si legge nel documento, promuoveranno regolari scambi di delegazioni, riunioni di esperti, anche a livello regionale, nonché seminari e convegni. Nel pomeriggio Salvini incontra anche il ministro degli Esteri russo Serghej Lavrov. Un faccia a faccia inusuale, non annunciato alla stampa, durato 35 minuti. Si parla di Libia, intervento russo in Siria contro l’Isis e, infine, di sanzioni.
«Abbiamo condiviso – spiega Salvini in un’intervista a Il Populista – la necessità di arrivare al più presto a una definitiva eliminazione». Una promessa che il leader leghista, ora che è al governo, ha tutta l’aria di voler mantenere.
L’alleato Luigi Di Maio concorda. Non è un caso che qualche media russo abbia iniziato ad apostrofare i due come “gli amici di Putin”. Senza troppi entusiasmi, tuttavia.
L’esperienza Trump insegna.

Repubblica 2.6.18
Pessimismo e frecciate Da Germania e Austria più agenti al Brennero
di Roberto Brunelli


«Un chiaro nì all’euro», titola provocatoriamente lo Spiegel on line. Al nostro paese il settimanale dedica il servizio di copertina anche nell’edizione in edicola: «Ciao amore. L’Italia si autodistrugge. E trascina con sé l’Europa». L’immagine è quella di uno spaghetto che pende da una forchetta a mo’ di cappio. Per Handelsblatt, invece, «i problemi sono solo all’inizio», con «la voglia di fare nuovi debiti senza alcun freno» del Bel Paese. Analisi accompagnata dall’immagine dello Stivale per metà affondato nel Mediterraneo. «Populisti al potere» è la sintesi del sito della Sueddeutsche Zeitung anche se il quotidiano sottolinea come «la Ue ovviamente debba ripensare ai suoi errori... perché l’Italia non è stata sufficientemente sostenuta nella crisi dei migranti». Proprio la questione migranti comincia a essere molto calda: le “vicine” Germania e Austria ieri hanno rafforzato i controlli sulle frontiere e sul Brennero, inviando più pattuglie di polizia per fermare l’immigrazione clandestina. La misura, diramata due giorni fa, è entrata in vigore nello stesso giorno del giuramento del governo Conte, i cui vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno annunciato misure dure sull’immigrazione. Al Brennero operano da tempo pattuglie composte da agenti italiani, austriaci e tedeschi, ora rafforzate. Dal canto suo, la cancelliera Merkel parla di “apertura” nei confronti del governo Conte. Ma i timori, a Berlino, superano le speranze.

Corriere 2.6.18
La Lega al 28,5% tallona il Movimento
Il Carroccio guadagna 11 punti rispetto al 4 marzo, il M5S scende al 30,1
Forza Italia ancora in calo, è al 9 per cento. Pd in lieve crescita (19,2%)
di Nando Pagnoncelli

Il «governo del cambiamento» prende avvio al termine di una settimana densa come non mai di cambiamenti: di scenario, di premiership, di candidati ministri, di composizione del possibile esecutivo, di dichiarazioni roboanti seguite da comportamenti contraddittori. E sullo sfondo si era perfino fatta molto concreta l’ipotesi di elezioni anticipate, da svolgere addirittura a fine luglio. Il tutto seguito in diretta da tutti, in una sorta di Truman show della politica.
Tutto ciò ha determinato una forte radicalizzazione delle opinioni, più influenzate dall’animosità che dal merito delle questioni, sia che si trattasse delle prerogative costituzionali del presidente della Repubblica oppure dei motivi e delle conseguenze dell’aumento dello spread.
In questo contesto chi si rafforza e chi si indebolisce in termini di orientamenti di voto a tre mesi dalle elezioni del 4 marzo? Il sondaggio odierno, realizzato tra mercoledì e giovedì, fa registrare innanzitutto un aumento del 4,3% dell’area grigia costituita da indecisi e astensionisti: si tratta di oltre due milioni di elettori con ogni evidenza disorientati o delusi dalle vicende delle ultime due settimane. Al primo posto in graduatoria si conferma il M5S con il 30,1%, in calo di 2,5% rispetto alla metà di maggio e per la prima volta in flessione rispetto al risultato elettorale. A seguire la Lega, che fa segnare un’ulteriore crescita, attestandosi al 28,5%, 11 punti in più di quanto ottenuto alle politiche. La serie storica dei sondaggi evidenzia l’aumento costante del partito di Salvini che ormai si colloca a 1,6% di distanza dal Movimento. A seguire il Pd con il 19,2%, in lieve crescita, e Forza Italia, oggi al 9% in calo del 3% rispetto al precedente sondaggio e del 5% rispetto alle elezioni.
Assistiamo quindi a una mobilità di voto inusuale a soli tre mesi dalle elezioni. L’analisi dei flussi elettorali mostra che la Lega beneficia di una elevata fedeltà di voto — il 92% di chi ha votato il partito di Salvini oggi conferma la propria scelta — e rappresenta il principale catalizzatore dei voti in uscita dagli altri partiti. Il M5S può contare su una fedeltà di voto inferiore, ma tutt’altro che trascurabile, pari al 76% ed è penalizzato dall’uscita di elettori in direzione dell’area grigia (16%) e della Lega (5%). I dem presentano un livello di fedeltà in linea con i pentastellati (77%) e la quota prevalente dei delusi si dichiara indeciso o astensionista (13%) oppure sceglie M5S (4%) o Lega (3%). L’elettorato di Forza Italia appare più disorientato: solo il 55% confermerebbe il proprio voto al partito di Berlusconi, il 22% si colloca nell’area grigia e il 17% sceglie la Lega. Da ultimo, coloro che si sono astenuti alle politiche in larga misura riconfermerebbero la propria scelta (70%), mentre il 12% tornerebbe a votare scegliendo Lega, il 6% Pd e il 5% M5S.
I flussi determinano non solo le variazioni nelle intenzioni di voto ma anche un cambiamento della composizione interna delle singole forze politiche lungo l’asse destra-sinistra. Nel M5s da sempre si registra una quota elevata (oggi al 34%, in aumento di 7 punti) degli elettori che non si collocano lungo questo asse; è interessante osservare che rispetto al 4 marzo diminuisce di 10 punti la quota di coloro che si considerano di destra o centrodestra (oggi rappresentano il 15%), mentre è stabile la quota degli elettori di sinistra o centrosinistra che costituisce il 37% dei pentastellati. Tra i dem si registra una diminuzione di coloro che si collocano nel centrosinistra (58%, in calo di 8 punti) e il concomitante aumento (+ 5 punti) della componente di sinistra (27%).
Insomma, il nuovo governo giallo-verde è sostenuto da un elettorato leghista che si colloca sempre più a destra/centrodestra nonché da quello pentastellato la cui componente prevalente si dichiara di sinistra/centrosinistra oppure non si colloca. Si tratta di elettorati complementari che, come evidenziato nel sondaggio della scorsa settimana, esprimono bisogni e interessi differenti. Si tratta di un amalgama il cui collante è rappresentato dalla promessa di cambiamento.

La Stampa 2.6.18
Tomaso Montanari
“Alla sinistra serve una stagione di semina”
di Domenico Agasso Jr


Professore, come definirebbe il neonato Governo Lega-Movimento Cinque Stelle guidato da Giuseppe Conte?
«Un Governo di centrodestra. Bloccato dalle garanzie di sistema imposte da Sergio Mattarella all’Economia e agli Esteri (che vanificano la sana carica anti-sistema del voto Cinque Stelle) e invece senza limiti nella repressione xenofoba di Matteo Salvini, all’Interno. Il rischio è che le cose cambino solo per i più deboli: e in peggio».
Quali sono le priorità del Paese che il nuovo Esecutivo deve affrontare immediatamente?
«La povertà: e il reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle (molto più timido e meno democratico per esempio di quello proposto da Libera) sarà invece archiviato dal ministro Giovanni Tria, liberista e lanciato verso la Flat Tax, costosa e anti-costituzionale. E poi il lavoro e i diritti: chiudere col Jobs Act e combattere il precariato».
Che tipo di opposizione serve con questo Governo in questa fase storica e politica così particolare?
«L’opposizione parlamentare non è credibile. Il Pd ha costruito diseguaglianza e ingiustizia sociale, alzando le vele al vento di destra che ora lo ha rovesciato. Dunque un’opposizione sociale, mutualistica, culturale, di idee. Una stagione di semina della sinistra, che cambi il senso comune e metta prima o poi fine a questo inverno».
E quali sono i passi necessari che deve compiere il Partito democratico?
«Liberarsi dell’oligarchia renziana, ma soprattutto rompere con la dittatura del mercato che il Presidente della Repubblica domenica ha drammaticamente svelato. Rompere con il blairismo di Veltroni e D’Alema: ricominciare a voler cambiare il mondo e a costruire giustizia e uguaglianza. Tornare dalla parte dei deboli, insomma».

Repubblica 2.6.18
Ci vuole un altro stile per fare opposizione
di Nadia Urbinati


Il populismo è un termine vuoto e ambiguo. La vuotezza è la sua forza perché lo rende permeabile a tutte le strategie e le narrative, capace di adattarsi alle esigenze del momento. Il populismo è il trionfo del contingentismo. Il suo opportunismo radicale può giustificare tutto per soddisfare le esigenze di quel che dice essere il “suo” popolo. L’ambiguità è la sua forza, ha scritto con soddisfazione Ernesto Laclau, che ammirò del populismo la capacità di costruire il soggetto collettivo ( il popolo) con il solo strumento della retorica. Ed è vero, poiché i leader populisti possono con narrative spregiudicate unificare tante e diverse richieste come i partiti tradizionali cercano di fare con meno successo, perché hanno ancora confini identitari (anche quando cercano di superarli). Questi caratteri sono una guida per capire sia il populismo come movimento che il populismo al potere.
Fino a quando i populisti sono movimento di opposizione, la loro retorica “ anti” ha buon gioco, perché chi è libero dal potere può con successo denunciare chi sta al potere. Le cose cambiano quando il populismo si fa governo. Il potere conquistato può infatti essere rischioso poiché può facilmente farne un nuovo establishment. Di qui viene l’attenzione quotidiana e quasi parossistica dei governi populisti a presentarsi come esenti dal male dell’establishment, a rassicurare di essere sempre con e come il suo popolo. Questo sforzo può avere successo a patto di generare una permanente campagna elettorale. I populisti non possono semplicemente governare. Devono in primo luogo prepararsi a giustificare quel che non potranno fare o faranno male: per questo, si sollevano dalla responsabilità dei propri fallimenti attribuendola al “nemico” che sta fuori. I pregi saranno opera solo sua; i difetti saranno solo opera degli avversari. I quali, in tutti i governi populisti, hanno per questo una voce flebile e colpevolizzata. Essere e fare opposizione in una democrazia populista è un’impresa difficile. Prima di tutto perché la strategia propagandistica del governo acquista una prominenza tale da rendere silenziosa l’opposizione senza reprimerla: il populismo al potere non è fascismo. Per usare una metafora che descriva questa forma di maggioritarismo estremo, si potrebbe dire che il populismo al potere soffoca per troppo parlare, rendendo nana l’opposizione, non solo perché resa oggetto di sospetto ma perché non ha altrettanto forti megafoni.
E c’è un pericolo aggiunto: il populismo rischia di rendere gli avversari simili nello stile, ed è comprensibile poiché il ragionamento riflessivo non è né attraente né roboante. La trappola del populismo al potere è di indurre l’opposizione ad adottare il suo stesso stile, di diventare a sua volta populismo di movimento. È il rischio maggiore per la democrazia: che il populismo permei del proprio stile tutto il discorso politico e l’opinione generale. È una delle ragioni per cui i governi populisti rischiano di generare altri governi populisti ( un esempio che ci viene dall’America Latina). L’onere e il compito dell’opposizione è doppio e doppiamente difficile: combattere punto su punto in Parlamento e nell’opinione le politiche del governo populista; ma farlo senza cadere nella trappola populista, senza farsi a sua volta populista. Con una metafora, è come chi, non essendo astemia e anzi amando bere bene, deve riuscire a restare sobria in una cantina di ottimo vino.
Nadia Urbinati è docente nel Dipartimento di Scienze Politiche alla Columbia University. Ha scritto “Articolo 1. Costituzione italiana” (Carocci, 2017) e “La sfida populista” (Feltrinelli e-book, 2018)

Il Fatto 2.6.18
Marine Le Pen, la donna che voleva essere Salvini Il Front sognava il governo ma ha fallito: ora diventa Rassemblement National
di Luana De Micco


E bravo Matteo Salvini, avrà pensato, magari con una certa invidia, Marine Le Pen guardando l’alleato al Parlamento europeo mentre prendeva le nuove funzioni di ministro dell’Interno. “Nulla impedirà il ritorno dei popoli sulla scena della Storia”, ha scritto su Twitter la leader dell’ultradestra francese, congratulandosi con la Lega mentre si annunciava la formazione del governo di coalizione con i Cinque Stelle. E poi: “È una vittoria della democrazia sulle intimidazioni e sulle minacce dell’Unione europea”.
Salvini è riuscito a realizzare in Italia quello che Marine Le Pen rincorre da anni in Francia. Il suo obiettivo le era sembrato raggiungibile appena poco più di un anno fa, arrivando al ballottaggio delle elezioni presidenziali contro Emmanuel Macron, giovane leader di un movimento appena nato, la République en Marche.
Ma era scivolata con tutta la sua incompetenza sul dibattito televisivo che la opponeva allo sfidante per l’Eliseo, più abile con la parola e più preparato di lei. Per quella figuraccia gli elettori l’hanno sanzionata alle urne e da allora Le Pen (che pure aveva raccolto 10 milioni di voti) ancora non si è ripresa. I francesi le hanno chiuso le porte del potere e a lei non resta che stare a guardare l’amico transalpino di 45 anni (5 meno di lei) che invece ha bruciato le tappe. Salvini ha ripreso nel 2013 le redini della Lega Nord (nata nell’89), nel 2017 ha fatto cadere la parola “Nord” dal simbolo elettorale e da ieri è ministro e vicepremier. A Le Pen tocca aspettare e sperare che questo successo porti qualche beneficio anche a lei. La sua strada ora è tutta in salita. La sconfitta nella corsa all’Eliseo ha segnato una brusca frenata, e anzi ha innescato la retromarcia, nel movimento di imborghesimento (“de-diabolizzazione”, si direbbe in Francia) del partito paterno, il Front National, ereditato nel 2011.
Escludere dalla formazione i militanti delle fasce più xenofobe e antisemite e liberarsi del vecchio e scomodo padre, Jean-Marie Le Pen, non le è bastato a fare del FN un partito credibile per governare. Per poter ripartire in vista delle elezioni europee del 2019, Marine Le Pen è convinta che occorre “rifondarlo”. Il 9 maggio aveva dunque lanciato un referendum interno tra i circa 45mila tesserati FN per dire ‘sì’ o ‘no’ a un nuovo nome al partito. L’80% ha votato ‘sì’. Da ieri il FN è diventato l’RN, il Rassemblement national.
La fiamma del logo, ispirata a quella del Movimento sociale italiano, invece è rimasta. Né è mutata la linea conservatrice in materia di immigrazione e sicurezza. Per il padre-patriarca aver cambiato il nome del partito da lui fondato nel 72 è stato un atto di “tradimento”. Al contrario per la figlia Marine, che ieri ha riunito un consiglio nazionale di partito a Lione, questa novità servirà ad attirare nuovi militanti e aiuterà a creare nuove alleanze. Un pensiero ad apertura di congresso lo ha dedicato a Matteo Salvini “che è stato nominato ministro degli Interni e alla Lega, che ha 7 ministri importanti. Tutto questo è per noi motivo di orgoglio”.
Ha già chiesto di far lista comune con lei per l’Europa a Nicolas Dupont-Aignan, il presidente di Debout la France che l’aveva appoggiata l’anno scorso contro Macron.
Ma non è detto che Dupont-Aignan voglia ritentare la disastrosa alleanza. Le Pen ha riaperto le porte alla giovane nipote che sembra voler tornare in politica, anche se Marion Marechal nel frattempo si è scrollata di dosso il peso del secondo cognome, Le Pen, e fa ombra alla zia da quanto ha lanciato una nuova scuola di scienze economiche e politiche, appena aperta a Lione. Stando alla stampa francese, la leader dell’ultradestra, spossata dai fallimenti elettorali e indagata per falsi impieghi al Front National, potrebbe anche decidere di non candidarsi alle europee. E allora, per la prima volta nella storia del partito di estrema destra, potrebbe non figurare un Le Pen come capolista.

il manifesto 2.6.18
Il governo passa a Sánchez, verso il monocolore socialista
Spagna. Battuto Rajoy: con 180 Sì, 169 No e un’astensione, per la prima volta nella storia del Paese passa una mozione di sfiducia. Stamattina l’incarico, in contemporanea con l’esecutivo catalano. Sinistre in cerca di nuovi equilibri politici
di Luca Tancredi Barone


BARCELLONA Game over. Sembrava impossibile, eppure persino l’inamovibile Mariano Rajoy è crollato, affondato dal fango della corruzione che persegue il Pp da quando è tornato al potere nel 2011. Il socialista Pedro Sánchez lo ha già sostituito nel palazzo della Moncloa. Un rilievo lampo a cui gli spagnoli non sono abituati.
IERI MATTINA Sánchez ha ottenuto nel Congresso 180 voti, 10 in più di quelli che riscosse Rajoy due anni fa nel difficile voto di investitura che aveva lacerato lo stesso partito socialista. Voto che – vendetta della storia – aveva provocato le dimissioni dello stesso Sánchez da deputato. Lui, che si era rifiutato di astenersi, come gli aveva ordinato il suo partito per permettere a Rajoy di continuare come capo dell’esecutivo, partito dal quale era stato appena defenestrato, preferì dimettersi. La storia gli ha dato la ragione.
Come cambia la politica in soli due anni. Appena la presidente del Congresso Anna Pastor ha dato lettura dei risultati del voto a chiamata nominale (alla fine contro Sánchez hanno votato solo Pp e Ciudadanos, 169 voti in totale, 1 astenuto), gli 85 deputati socialisti si sono stretti attorno al loro leader, applaudendolo e mettendo da parte le lotte intestine di questi anni. Dai banchi di Podemos hanno intonato «Sí, se puede».
La seduta è trascorsa tranquilla: dopo la maratona di ieri, mancava solo il turno di socialisti e popolari, i due gruppi più grandi della camera. A sorpresa, pochi minuti prima del voto, è riapparso Rajoy, che ieri mattina aveva lasciato la camera e aveva sfidato l’ironia generale passando 8 ore rinchiuso in un ristorante. In un ultimo sussulto di dignità, ha chiesto la parola per un minuto. Ha ringraziato dell’«onore» di essere stato presidente, e voleva «essere il primo» ad augurare buona fortuna al suo successore. Come Gentiloni nel suo tweet, anche Rajoy si congeda dicendo di lasciare un paese migliore di quello che aveva trovato. «Spero che il mio sostituto possa dire lo stesso, glielo auguro per il bene della Spagna», ha aggiunto rivolto a Sánchez.
Nel pomeriggio, Pastor è stata ricevuta dal capo di stato, il re Filippo VI, cui ha comunicato il risultato della votazione perché il re potesse effettuare la nomina.
CURIOSAMENTE, il nuovo presidente del governo spagnolo prenderà possesso dell’incarico stamattina. Contemporaneamente, lo farà anche il nuovo governo catalano, la cui nomina è stata sbloccata dalla pubblicazione in gazzetta ufficiale della nuova lista di ministri di Quim Torra. È una potente metafora: in Catalogna e in Spagna sono cambiati gli interlocutori, e la speranza di molti è che si sblocchi la crisi incancrenita dall’immobilità politica di Rajoy. Ma la speranza è anche un’altra. Durante l’intenso dibattito parlamentare, gli equilibri politici che finora hanno retto il paese si sono rotti definitivamente.
LE SINISTRE del Psoe e Unidos Podemos si sono parlate come interlocutori, e non come competitori. Era la prima volta che in sede parlamentare Iglesias e Sánchez si riconoscevano reciprocamente la necessità di lavorare assieme per vincere. Non è detto che alle parole seguano i fatti, ma è diventato chiaro che – pur con accenti diversi – le forze di sinistra possono parlarsi con rispetto. Il governo Sánchez probabilmente sarà un monocolore socialista. Ma la sua debolezza e la necessità di dover tessere accordi parlamentari, se Sánchez e Iglesias saranno abili, potranno essere armi vincenti. Fra un anno esatto si celebreranno le europee e le amministrative, e non molto più in là, Sánchez dovrà convocare anche le politiche. Se le sinistre riusciranno davvero a vincere la tentazione di scontrarsi tra di loro e si ispireranno al vicino Portogallo, potrebbe davvero aprirsi una finestra di opportunità per una nuova stagione.
CHI PERDE, più ancora del Pp, che mantiene il suo forte radicamento nel territorio rurale, è Ciudadanos. Convinti di essere a un passo dal superare il Pp, avevano puntato tutto sulla sopravvivenza di Rajoy per logorarlo. Invece sono stati superati dagli eventi e l’abile Albert Rivera non ha saputo smarcarsi. Li hanno attaccati duramente non solo Podemos e i socialisti – con cui nel 2016 erano persino arrivati a firmare un accordo di governo – ma anche e soprattutto il Pp, che non perdona a Rivera l’ambizione di superarli. A nulla dunque è servito essere in questi due anni l’unico fedele sostegno di un Pp corrotto che ha permesso a Rajoy di continuare come capo dell’esecutivo.

Repubblica 2.6.18
Duecento milioni per quattrocento vittime
Preti pedofili, la Chiesa paga maxi risarcimento negli Usa
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO Un’altra strabiliante vittoria da parte di Jeff Anderson, il noto avvocato americano che ha difeso con successo diverse vittime della pedofilia del clero. L’arcidiocesi di St. Paul e Minneapolis, infatti, ha annunciato un accordo di 210 milioni di dollari con 450 vittime di abusi sessuali commessi da preti. Si tratta del secondo risarcimento più alto nella storia dopo quello di Los Angeles del 2007 — 508 vittime per un totale di 660 milioni di dollari esborsati — e che porterà non solo a dover effettuare raccolte di fondi nelle parrocchie, ma soprattutto costringerà alla vendita di diversi immobili ecclesiastici.
È stato proprio Anderson, che iniziò difendendo le vittime di padre Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo, e fra loro di uno dei figli biologici di Maciel, Raúl González Lara, a spiegare nelle scorse ore che i soldi andranno in un fondo per pagare i sopravvissuti degli abusi che sono stati perpetrati contro minori da sacerdoti nei decenni passati.
Nella diocesi di Minneapolis si parla da tempo di questi crimini. Nel 2015, dopo che Francesco esternò la volontà di istituire un tribunale che avesse il compito di giudicare i presuli insabbiatori, si dimise l’arcivescovo John Nienstedt. Se ne andò dopo le forti critiche da parte di Jennifer Haselberher, ex vicerettore per gli affari canonici, che aveva accusato la diocesi di aver usato un sistema di archiviazione che consentiva di coprire informazioni di preti colpevoli che rimanevano in carica.
Al posto di Nienstedt arrivò un amministratore apostolico, il reverendo Bernard A. Hebda, arcivescovo assistente di Newark in New Jersey. Ieri Hebda ha spiegato di essere grato alle vittime che hanno avuto il coraggio di denunciare: « Riconosco che l’abuso ha rubato così tanto a voi, alla vostra infanzia, innocenza, sicurezza, fiducia e, in molti casi, alla vostra fede », ha detto rivolgendosi direttamente a chi ha subìto abusi. «Siamo andati dappertutto per raccogliere fondi per questo accordo. Faremo tutto il possibile per accelerare », ha assicurato invece Thomas Abood, presidente del consiglio delle finanze della diocesi, aggiungendo che la speranza è che il processo possa essere completato nei prossimi mesi.
Anche se i casi di abuso si sono verificati anni fa, il dossier pedofilia resta ancora oggi una spina nel fianco per Francesco. Ieri, a Casa Santa Marta, erano previsti nuovi incontri con le vittime di pedofilia del Cile, questa volta un gruppo di sacerdoti. Ed è proprio in Cile che la situazione resta particolarmente calda. Nelle scorse ore alcune senatrici hanno chiesto di togliere la cittadinanza al cardinale Ricardo Ezzati, arcivescovo di Santiago, di origine italiana, ma da anni naturalizzato nel Paese latinoamericano. È accusato dalle vittime di aver coperto gli abusi di padre Fernando Karadima: la sua cittadinanza non risponderebbe più, secondo le senatrici che hanno fatto la proposta, a quei criteri di merito per i quali si può concedere.

La Stampa 2.6.18
Zodiac e il mostro di Firenze
La pista dell’unico serial killer
La procura riesamina gli atti. Lo storico pm dell’indagine: “Un depistaggio”
di Marco Menduni


Il mostro delle sedici vittime colpisce l’ultima volta nel settembre 1985 nella campagna di San Casciano Val di Pesa vicino a un cimitero. Uccide due francesi, il musicista Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, infierisce sul corpo della donna, la mutila come ha fatto sempre. Nei laboratori della polizia i reperti del delitto sono i più intatti: la tenda, un fazzolettino stretto intorno a guanti da chirurgo, la busta con un lembo di seno inviata per sfida ai magistrati. Anche le cartucce Winchester serie H, compatibili con l’arma degli omicidi, una Beretta 22, mai trovata.
Il procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, ha deciso di far tirar fuori tutti gli oggetti dagli archivi e ricominciare tutto da capo: esami del Dna, perizie balistiche. Come fosse un cold case. Perché l’inchiesta sul mostro non si è mai conclusa e tanti esami, all’epoca, non si erano potuti effettuare perché mancavano le tecniche. È morto Pacciani, prima che un iter processuale sull’ottovolante si concludesse: ma l’ultima sentenza è di assoluzione, sia pure annullata dalla Cassazione. Sono morti il Lotti e il Vanni, i compagni di merende, loro sì condannati. Ma alla fine, nessuno è stato mai convinto che quegli sciagurati semianalfabeti abbiano fatto tutto da soli. Il loro Dna c’è. C’è anche, perché sono ancora in vita, quello di un ex legionario di Prato, Giampiero Vigilanti, 87 anni, e del suo medico, il coetaneo Francesco Caccamo, iscritti sul registro degli indagati. Sono finiti tardivamente nel tritacarne dei sospetti o c’entrano davvero qualcosa?
C’è una nuova sfida investigativa e un nuovo diluvio di rivelazioni choc. Seduto nel suo ufficio di procuratore capo di Pistoia il magistrato Paolo Canessa, lo storico pm dell’indagine, sospira: «Sembra quasi che ci sia qualcuno che le costruisce». La storia dell’inchiesta è anche fatta di depistaggi, alcuni per mitomania, altri in cui ha fatto anche capolino la mano dei servizi. Partiti i nuovi accertamenti, arrivano due storie incredibili che sembrano essere messe sul piatto, cotte e servite, per scompaginare le poche certezze. Dice Hercule Poirot nell’Assassinio sull’Orient Express: «Vale una sola coincidenza». Due no. Prima Angelo Izzo, il massacratore del Circeo, si attribuisce un altro delitto, quello di Rossella Corazzin, 17 anni, e tira in ballo il giovane medico di Foligno Francesco Narducci.Il suo nome fu accostato al Mostro di Firenze, morì in circostanze misteriose nel 1985, non c’è mai stata la certezza che il corpo recuperato nel lago Trasimeno (vicino al quale Izzo dice fu seviziata e uccisa la giovane) fosse il suo. Le due inchieste non hanno mai trovato riscontri di un suo ruolo nei delitti di Scandicci.
Poi arriva la bomba nucleare. Chi è Zodiac? Un serial killer che alla fine degli anni Sessanta uccide cinque persone (altre due sono sopravvissute) negli Stati Uniti, mutila le donne, poi continua a sfidare gli inquirenti con una lunga serie di lettere al San Francisco Chronicle: «Ho ucciso 37 volte». Indovinelli, giochi di parole. Dura fino al 1974, poi il silenzio.
Negli ultimi giorni arriva alla procura di Firenze un documento. Indica il nome di un militare americano, Joseph B. Sostiene che lo stesso si sarebbe tradito in una telefonata, ammettendo di esser lui il mostro di Firenze dopo essere arrivato in Italia per divenire il direttore del Cimitero americano a Falciani (FI). Ci sono suggestioni di peso. Il primo delitto del mostro, del 1968, per molti è un’altra storia, non fa parte della serie, che inizia invece nel 1974, quando l’uomo arriva vicino a Scandicci. Joseph, poi, fu anche testimone nel processo a Pacciani perché aveva visto per l’ultima volta i francesi uccisi. Si presentò come ufficiale dell’esercito Usa, rifiutò le riprese tv. Cadde anche in una contraddizione: «Sentii la notizia alla radio alle 6.30». Ma i corpi furono trovati solo molte ore più tardi. Joseph però contrattacca: «Mai fatto nessuna confessione, non ho mai commesso alcun delitto». Così si perpetua il sospetto che, dietro un’inchiesta che non finisce mai, si continui a giocare un’incomprensibile partita di caos.

Corriere 2.6.18
I tre minori che hanno violentato la 12enne
Fermati ieri a Napoli. La vittima tradita dal suo amico che l’ha portata in trappola. I video dello stupro
di Titti Beneduce


Napoli Il più violento del gruppo è anche il più piccolo: a 14 anni, si legge nel decreto di fermo della Procura per i minori di Napoli, non solo ha violentato l’amica dodicenne, ma ha anche provato a estorcerle denaro per non divulgare i filmati. Una settimana dopo la sconvolgente denuncia fatta dalla ragazzina alla polizia è arrivata la svolta nelle indagini sullo stupro di gruppo avvenuto a Castellammare di Stabia lo scorso aprile.
Il pm minorile ha disposto il fermo di tre adolescenti: c’era, infatti, il «concreto pericolo che si rendessero irreperibili». Hanno 14, 15 e 16 anni e da ieri, in attesa della convalida del fermo, sono nel centro di prima accoglienza del Tribunale per i minorenni, in viale Colli Aminei a Napoli. Due dei tre sono imparentati con una famiglia di camorra della zona stabiese. Tra i gravi indizi di colpevolezza ci sono proprio i filmati dello stupro fatti con un cellulare, che il perito informatico ha individuato.
A rintracciare e fermare i tre ragazzi sono stati gli agenti del commissariato di Castellammare e quelli della squadra mobile. I fatti risalgono a metà aprile, alcune settimane prima della denuncia. La dodicenne, che si fidava dell’amico, è stata attirata in una trappola e «ceduta» ad un altro ragazzo, mentre il terzo filmava la scena. Un’esperienza terribile, che la protagonista è riuscita, sia pure con difficoltà, a riferire ai genitori e poi alla polizia: un giorno che si è sentita male a scuola a causa dello stress e dell’angoscia si è decisa a rivelare il suo segreto. Tramite l’avvocato che li assiste, Roberto Chiavarone, i genitori fanno sapere che a loro, ora, interessano solo l’equilibrio e la serenità della ragazzina: «Niente trionfalismo, niente giustizialismo».
I tre adolescenti fermati sono amici inseparabili, come si comprende guardando le loro pagine Facebook («Ci sono persone che non finiscono mai di volersi bene semplicemente perché ciò che le lega è più forte di ciò che le divide»). Tante le foto scattate insieme e poi postate, con commenti che in alcuni casi fanno pensare. Uno dei tre, per esempio, scrive: «Dio mi creò, il diavolo si fece la croce»; «Fuori come i panni siamo i peggio bastardi. Sì, bravi ragazzi ma stai attento a toccarci»; «Chi non ha il coraggio di prendersi dei rischi, non raggiungerà mai nessun obiettivo nella vita»; «Alle vostre lezioni di vita io mi siedo all’ultimo banco a lanciare aeroplani di carta»; «La giungla non ci fa paura, siamo noi i leoni. In cielo come aquile, buchiamo gli aquiloni».
Non è da meno un altro dei tre indagati: «Se aspettate che crollo resterà un vostro sogno», scrive, attribuendo la frase al defunto capo di Cosa nostra Totò Riina. Quello stesso giorno dello scorso febbraio il ragazzino cambia foto di copertina, postandone una tratta dalla serie «Gomorra» in cui uno dei personaggi della fiction, ‘o Track, punta la pistola alla fronte di Genny Savastano. La foto riceve diversi commenti di approvazione da amici e amiche. Scrive ancora l’adolescente: «Preferisco essere un re all’inferno che un servo in paradiso».
Sul fermo intanto è intervenuta Maria Luisa Iavarone, la mamma di Arturo, il ragazzo aggredito e gravemente ferito il 18 dicembre scorso in via Foria, nel centro storico di Napoli. «Bisogna porre subito un argine, stare accanto a questi ragazzi: pensano che tutto sia consentito. Serve una strategia che preveda percorsi di repressione e anche di prevenzione e avere la consapevolezza che dietro un minore che sbaglia c’è sempre qualcosa che non ha funzionato. Anche quello della violenza — ha concluso Iavarone — è un linguaggio la cui grammatica noi abbiamo il dovere di correggere».

Corriere 2.6.18
I docenti under 30 che insegnano il latino ad Amman
Roma, l’accordo tra un centro studi e l’università giordana. «Niente inglese, si userà solo la lingua classica»
di Paolo Conti


Una volta tanto, nessun giovane cervello italiano in fuga ma solo in trasferta. Dal 30 giugno al 2 agosto la University of Jordan ad Amman organizzerà per 80 studenti un corso intensivo di latino full immersion senza ausilio né dell’arabo né dell’inglese grazie a un accordo con l’Istituto italiano di studi classici di Roma, in via Cosenza 7, fondato nel 2010 da due giovani studenti, Federico Pirrone e Antonio Giulianelli. Oggi è una vivace realtà di corsi di latino e greco antico realizzati col metodo induttivo-contestuale: «parlando» subito in latino e greco, scoprendo vocaboli e regole strada facendo.
Il sistema affascina ragazzi, adulti, anziani, stranieri ed ecclesiastici (dal 3 settembre partirà un corso speciale). Nel 2017 due docenti di Amman scoprirono il Centro. Di qui l’accordo per portare dopo secoli, come si legge sul sito dell’università giordana, «il primo corso intensivo di latino nel Mondo arabo destinato a riportare lo studio dei Classici latini nel sistema universitario giordano».
Per Amman partiranno solo docenti under 30: il presidente dell’Istituto, Federico Pirrone, 29 anni, che insegna latino alla Pontificia università della Santa Croce, Alessandro Agus, 29 anni, direttore scientifico, laureato in Filosofia, Daphne Grieco, 23 anni, da Salerno, laureata in Scienze storiche, e Leonardo Chiocchetti, 23 anni, a un passo dalla laurea magistrale in Filosofia.
Rimarranno a Roma i grecisti Flavia Farina, 27 anni, da Pescara, un dottorato in Filosofia antica, e Giovanni Tobia De Benedetti, 22 anni, studente di lettere classiche.
Il greco non è nell’accordo ma l’obiettivo è porre le basi per fondare un Centro di studi classici ad Amman dove l’Istituto potrebbe insegnare le due lingue. I corsi saranno densi: 120 ore settimanali dal sabato al giovedì dalle 9 alle 13.30 più «diverse visite culturali nei siti archeologici giordani ricchi di presenza romana, leggeremo brani classici in latino», annuncia Daphne Grieco. Dice Alessandro Agus: «Nessuno pensa di far rivivere il latino come lingua d’uso. Puntiamo a farne uno strumento di accesso all’immenso patrimonio che rappresenta. Imparando 1.800 vocaboli si ha accesso all’85% del lessico usato nella letteratura classica».
Per Leonardo Chiocchetti «nel metodo classico ci si sofferma troppo solo sulla grammatica, sottraendo il piacere dell’accesso alla letteratura». L’augurio per i giovani latinisti è inevitabile: Ad maiora.

Repubblica 2.6.18
Ricorsi
I fantasmi dei due imperi eredi di Roma
Per conoscere l’origine degli scontri di potere nella regione euroasiatica bisogna risalire alla storia di Bisanzio e di Mosca
di Silvia Ronchey


Per conoscere l’origine degli scontri di potere nella regione euroasiatica bisogna risalire alla storia di Bisanzio e di Mosca. Perché, come ricostruisce il nuovo saggio di Franco Cardini, sultani e zar somigliano a Erdogan e Putin
Secondo una profezia che ha circolato ininterrottamente dalla caduta dell’impero bizantino nel 1453 a quella dell’impero ottomano nel 1922, Costantinopoli-Istanbul sarà riconquistata e restituita al suo credo e al suo ruolo da “genti bionde”: i russi, nell’interpretazione data già da un testimone oculare della conquista turca, Nestor-Iskander, con gioco sulle parole rusyj, “biondo”, e ruskyj, “russo”. Questa profezia oggi è tornata a circolare nei siti internet e nei blog del fondamentalismo panortodosso, e non a caso. Nello scacchiere politico attuale, da molti accostato a quello della prima guerra mondiale, sono tornati a confrontarsi il sultano e lo zar, come annuncia il titolo dell’ultimo libro di Franco Cardini ( Il sultano e lo zar. Due imperi a confronto,
Salerno). Non si tratta tanto, o non solo, dei due autocrati, Erdogan e Putin, che oggi perpetuano, in qualche modo e sotto nomi diversi, i due antichi ruoli. Ad affrontarsi, e a mettersi in crisi a vicenda, sono i fantasmi dei due imperi eredi, dopo la caduta di Bisanzio, della sua tradizione politica, erede a sua volta di quella romana. Capitolata in mano ai turchi quella che per undici secoli era stata chiamata la Seconda Roma, il gran principe di Mosca Ivan III — che già si fregiava del titolo bizantino di “cesare”, dal greco kaisar, da cui czar — legittimerà il nome di Terza Roma dato alla sua capitale non solo in chiave ideologica, propugnandola unica ammissibile erede dell’ortodossia, ma anche per diritto dinastico, sposando, con geniale mediazione del Realpolitiker bizantino Bessarione, l’ultima erede della famiglia imperiale costantinopolitana, Zoe/Sofija Paleologhina, e rivendicando così la successione giuridica dell’estinto impero di Bisanzio. Il nipote di Zoe sarà Ivan IV Groznyj, il “Grande”, meglio conosciuto come Ivan il Terribile, che formalizzerà l’imprinting bizantino dell’impero zarista nelle celebri lettere al principe Andrej Kurbskij, rifonderà la dottrina dell’autocrazia universale, soffocherà il potere dei boiari, riorganizzerà l’amministrazione imperiale secondo i princìpi dello statalismo centralista di Bisanzio e farà così nascere la Russia moderna. A lui si ispirerà Stalin, che riattualizzerà l’ideologia e le radici bizantine del nuovo impero sovietico, insieme esaltate e stigmatizzate da Sergej Ejzenstejn nella trilogia cinematografica che gli costerà la vita. Dal canto suo, sempre a partire dal XV secolo, il conquistatore ottomano continuerà a fregiarsi del titolo di “sultano di Roma” e nel suo impero la sopravvivenza della cultura romano-bizantina sarà apertamente assicurata (ancora oggi, quando i proclami dell’Isis parlano di conquistare Rûm, non è certo alla Roma dei papi che si riferiscono, ma alla Turchia, detentrice dell’ultimo titolo califfale). Mehmet II Fatîh il “Conquistatore” e i suoi eredi non soltanto applicheranno il diritto romano in quanto diritto consuetudinario dei popoli cristiani soggiogati, ma mutueranno con rispetto e precisione strutture amministrative e fiscali dell’impero di Bisanzio. Se nel 1453 venne meno l’osmosi culturale con l’Europa occidentale, non si estinse dunque, in quelle due propaggini nord e sud-orientali, la vocazione imperiale di mediazione tra le etnie. Nel suo prorompente libro Cardini non solo ricostruisce le origini ma ripercorre con storiografica minuzia le vicissitudini della lunga lotta euroasiatica per il controllo dei grandi spazi ingaggiata tra impero zarista e islam sultaniale per mezzo millennio e protratta ancora oggi nell’esplicito o implicito duello tra Russia e Turchia senza considerare il quale non si decifra lo scenario bellico del nuovo secolo. «Gli eventi degli ultimi anni», scrive Cardini, «ci hanno insegnato che una partita straordinariamente importante si sta giocando in un quadrante compreso tra Mediterraneo Orientale, Mar Rosso, Golfo Persico, area delle sorgenti del Tigri e dell’Eufrate, Iran, repubbliche turco-mongole transcaucasiche ex sovietiche, Russia e Caucaso». Ora, va segnalato che si tratta dello stesso
quadrante in cui un grande intellettuale francese, Fernand Braudel, ha individuato l’entità geostorica che ha chiamato Mediterraneo Maggiore: la «zona spaziodinamica, che rievoca un campo di forze magnetico o elettrico», ha scritto Braudel, estesa alle pianure della Sogdiana e della Battriana, al Mar Rosso, al Golfo Persico, all’Oceano Indiano da un lato, al Caucaso, alla Transcaucasia e all’antica Rus’ dall’altro, in cui la civiltà mediterranea si è irradiata, dopo esserne stata in precedenza irradiata a sua volta. Una civiltà che, secondo Braudel, si misura da questi irradiamenti, poiché «il destino della civiltà mediterranea è più facile a leggersi nei suoi margini esterni che non al centro».
È una nozione utile da tenere presente quando parliamo oggi, a proposito dei conflitti in corso, di “scontro di civiltà” tra oriente islamico e occidente cristiano. È piuttosto il frantumarsi di un’unica e sola civiltà imperiale transconfessionale, di derivazione romano-bizantina, a ridestare gli scontri fra etnie che hanno segnato il turbolento esordio del ventunesimo secolo nello spazio che Cardini chiama il “cuore geopolitico del mondo”, in cui si è svolto fin dal Seicento il Grande Gioco degli imperi, in cui si è consumata la lotta per l’egemonia della massa continentale euroasiatica tra il sultanato ottomano e l’impero zarista: l’immensa ricchezza energetica di gas e petrolio rende lo “spazio dinamico” del Mediterraneo Maggiore di Braudel se possibile ancora più strategico oggi per l’occidente. Afghanistan, Caucaso, Balcani; Iraq, Anatolia, Siria, Nordafrica. La disgregazione dei due eredi di Bisanzio, ottomano e russo-sovietico, rispettivamente all’inizio e alla fine del Secolo Breve, ha revocato la composizione, da loro garantita quando non imposta, dei conflitti etnici. Ha creato “un mondo senza più imperatori”, come lo definisce Cardini, dove a trovarsi contrapposti non sono quindi tanto i rappresentanti della tradizione bimillenaria che innalza, per usare la definizione di James Hillman, “l’unicità sopra la molteplicità”, quanto i fantasmi della pluralità. Faglie di attrito antichissime, preromane e prebizantine, hanno ricominciato a entrare in moto complesso, provocando un unico macroscopico sussulto tellurico nella geografia postcoloniale. È uno sciame sismico di conflitti asimmetrici quello che la psiche occidentale tenta di interpretare come un “unico” scontro frontale.
È come se la comprensione della reale e plurale natura del conflitto, delle sue cause prime, fosse preclusa alla memoria dell’occidente dal riaffiorare di antichi complessi o traumi collettivi: i sensi di colpa del colonialismo, certo, ma prima ancora le contraddizioni e le violenze del processo di formazione delle identità nazionali europee, e prima ancora di questo, forse, la memoria “infantile” della multietnicità perduta, dei suoi antichi tabù, degli attriti di sepolte identità tribali, complesse e multiple.
Riconquisteranno le “genti bionde” quel che resta dell’impero ottomano? Difficile che l’antica profezia si avveri. Ma la mezzaluna, “arcano segno protettore di Costantinopoli passato a Istanbul e ai sultani-califfi ottomani” ancora oggi fieramente accampato al centro dello sventolio di bandiere della repubblica di Erdogan, e l’aquila bicipite bizantina adottata ufficialmente dal gran principe di Mosca al momento del transfert tra Seconda e Terza Roma, simbolo del potere russo che ancora oggi campeggia al centro del volante della limousine di Putin, continuano a contendersi, dal quindicesimo secolo al nostro, la custodia di quell’istmo, reale o figurato, che divide, o unisce, oriente e occidente.

venerdì 1 giugno 2018

Repubblica 1.6.18
“La politica è cultura” La scuola secondo Gramsci
Il filosofo: “Tutti devono avere la possibilità di diventare uomini”
di Simonetta Fiori


Nella Gramscimania che dilaga dall’Oceano Pacifico all’Atlantico, la riflessione sulla scuola è rimasta incomprensibilmente sullo sfondo. E il merito del saggio di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli è aver orientato un fascio di luce su questo aspetto ignorato anche dalla più recente letteratura pedagogica (Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere,
L’asino d’oro, con una prefazione di Marco Revelli).
La grande intuizione di Gramsci fu comprendere che dalla scuola si misura il livello di civiltà di un Paese. E certo non deve sorprendere il peso da lui affidato alla più importante istituzione culturale, motore di quella conoscenza a cui il pensatore sardo attribuiva un ruolo fondamentale nel processo di crescita personale e collettiva.
Grazie a un’accurata ricerca in un materiale sterminato - tra scritti giornalistici, Quaderni, lettere dal carcere e prima del carcere – i due autori sono riusciti a restituire organicità a una riflessione frammentata, ricomposta lungo un percorso che parte dall’analisi del pensiero critico come chiave del cambiamento del mondo per arrivare al centro della questione che investe non solo l’istituzione scolastica ma anche i buoni e cattivi maestri incontrati da Gramsci nel corso della sua vita studentesca e il Gramsci educatore, l’intellettuale naturalmente vocato alla formazione proprio perché capace di ascoltare. Ed è da questo itinerario che affiorano i vari elementi che interpellano il lettore contemporaneo. A cominciare dall’irrinunciabile binomio di politica e cultura che in questi decenni è andato dissolvendosi. Gramsci era convinto che i politici dovessero studiare e gli intellettuali far politica. Ma “sapere” e “comprendere” implicano anche “sentire”. Chi sa senza sentire è un pedante e un ipocrita. Chi sente senza comprendere è un settario travolto da cieca passione. Premessa indispensabile allora, e drammaticamente evocativa oggi.
Altra questione molto attuale è la difesa di «una scuola disinteressata», sottratta al raggiungimento di un fine pratico. Gramsci intuisce il pericolo che «la scuola professionale diventi una incubatrice di piccoli mostri aridamente istruiti per un mestiere, senza idee generali, senza cultura generale, senza anima, ma solo dall’occhio infallibile e dalla mano ferma». La scuola deve dare a tutti «la possibilità di diventare uomini, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere». Invece accadeva allora – e accade ancora oggi – che «la scuola educativa» fosse privilegio di pochi, mentre le scuole professionali finiscono per cristallizzare le diseguaglianze sociali.
Per chi avversa il liceo classico sono consigliabili le pagine sulle lingue morte. Gramsci incoraggia lo studio del latino perché permette di acquisire «un’intuizione storicistica del mondo e della vita»: si studia un fenomeno che si è concluso, quindi nella sua interezza. Ed è questo studio “disinteressato” che consente di esercitare il pensiero tra astrazione e realtà, tra generale e particolare, tra teorie e individui concreti. Senza alcuna concessione «all’illusione della scuola facile». La scuola è «fatica», «coercizione», «impegno», costrizione fisica davanti a un tavolino. «Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza».
Un’idea diventata clamorosamente inattuale in un’epoca che chiede agli insegnanti un rutilante esercizio di entertainment.
Nella loro introduzione Benedetti e Coccoli, un professore e una giornalista che hanno a cuore il destino della scuola, ricordano che le opere di Gramsci non rientrano nei programmi fissati dal ministero. All’autore delle Lettere dal carcere non viene riconosciuta la stessa dignità di Machiavelli o di Leopardi. Eppure pochi altri scritti hanno la stessa forza come lettura di formazione: la parola come tramite di conoscenza, di vita, di resistenza.
La regista Licia Sanesi ha passato anni a raccoglier interviste su cosa colpisca di questo intellettuale un secolo dopo. «Per noi è importante perché ci parla del futuro, delle persone che saremo», è la risposta d’un ragazzo di un istituto tecnico.
Tenere Gramsci fuori dalla scuola? Niente di più insensato.

Repubblica 1.6.18
Letture La lectio di Carlo Rovelli ai Lincei

Carlo Rovelli terrà una lectio all’Accademia dei Lincei sul successo empirico della relatività generale e le sue implicazioni filosofiche (domenica, Roma, via della Lungara 10, ore 11)

il manifesto 1.6.18
Portogallo, i comunisti votano con i cattolici: no all’eutanasia
110 sì, 115 contro. Il parlamento boccia la proposta di depenalizzazione della somministrazione della morte assistita
di Goffredo Adinolfi


LISBONA Eutanasia sì o no? Il parlamento portoghese dice no e boccia di stretta misura (110 a favore 115 contro) tutte e quattro le proposte di depenalizzazione della somministrazione della morte assistita nei confronti di chi sia in una condizione di «sofferenza estrema causata da una malattia incurabile».
A favore si sono espressi Bloco de Esquerda (Be), Partido Socialista (Ps), Partido Ecologistas Verdes (Pev) e Pessoas Animais e Natureza (Pan). Diviso il centro-destra Partido Social Democrata (Psd) e contrari il Centro Democrático e Social (Cds/Pp, di matrice cattolica) e, cosa che ha destato notevoli polemiche, il Partido Comunista Português (Pcp).
Semplificando si potrebbe pensare di essere di fronte a una frattura ideologica molto novecentesca che ha diviso e divide formazioni materialiste e post materialiste. Però forse c’è qualche cosa di più complesso che va al di là sia del credo religioso, nonostante le apparenze il Portogallo è un paese profondamente cattolico, che di quello politico.
I comunisti non sono refrattari in sé e per sé ai diritti civili, in passato hanno votato a favore alla legalizzazione dell’aborto e al matrimonio e all’adozione tra coppie dello stesso sesso.
Una posizione contraria all’eutanasia giustificata dal fatto che, spiega Antonio Filipe deputato del Pcp, «non si possa affrontare la vita umana in funzione della sua utilità, degli interessi economici o di discutibili modelli di dignità sociale» anche se, prosegue FIlipe «continueremo a batterci per il diritto di tutti di rifiutarsi a pratiche mediche che prolunghino artificialmente la vita».
Per Jerónimo de Sousa, segretario generale del Pcp, la questione ha un valore che, all’interno della categoria dei diritti civili, assume una natura molto più delicata e del tutto differente dagli altri temi. Va dopotutto ricordato che oggi in Europa la questione è controversa e dibattuta, lo è certamente in Portogallo dove in queste settimane ci sono state manifestazioni a favore e contro.

Repubblica 1.6.18
Abusi sessuali, diocesi Usa pagherà 210 milioni di dollari di risarcimento alle vittime
Avviata procedura fallimentare. I soldi verranno divisi tra 450 persone molestate dal clero di St. Paul e Minneapolis. Si tratta di una delle più imponenti cifre versate da un'organizzazione cattolica
qui

Il Fatto 1.6.18
«Un filosofo è come il matto di corte, lo si può lasciar parlare»
«Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male (Simone Weil)»
Il Colle ha fallito? Dipende da noi
di Roberta de Monticelli


Un filosofo è come il matto di corte, lo si può lasciar parlare. C’è chi vuole far processare per alto tradimento il presidente della Repubblica e chi lancia hashtag in suo sostegno. Ci sono giuristi pronti ad affermare che non ha fatto che il suo dovere (Flick) e altri radicalmente critici (Villone e Carlassare), come ce ne sono di molto perplessi (Onida). Ci sono commentatori che in mancanza d’altre idee attribuiscono lo sconquasso al “circo mediatico giudiziario” che ci avrebbe per troppo anni lavato il cervello facendoci credere che in Italia corruzione e impunità siano maggiori che altrove (Panebianco) – ma non vedono che il lavaggio non è bastato, visto che nessuno (neppure il capo dello Stato) s’è fatto un baffo della circostanza che il candidato ministro dell’Economia da ex presidente dell’Impregilo era incorso in inchieste giudiziarie ben motivate dalle intercettazioni, che gli avrebbero sbarrato in ogni altro Paese civile la porta di quel ministero.
C’è chi sostiene con assoluta convinzione che il gesto del Presidente ha salvato la democrazia assediata dai populismi e chi con convinzione altrettanto assoluta sostiene che ha soffocato la domanda democratica di cambiamento, per asservire lo Stato alla tecno-plutocrazia europea, o peggio al diktat tedesco. Nota a margine: non si percepisce traccia di simili congiure e diktat da quassù – il regno del fool è il vuoto celeste, dove le linee aeree franco-canadesi forniscono una massa di giornali nelle principali lingue europee, e neppure un angolino contiene un commento su queste indebite pressioni, nonostante i titoli ridondino di “crisi istituzionale in Italia” e “l’Italia mette a processo l’Europa”.
Ed ecco lo sragionamento del fool, per chi volesse conoscerlo. Che il gesto del presidente della Repubblica sia o non sia stato un tragico errore, dipende da noi. Nel senso che non sarà stato un errore, e forse sarà stato invece uno di quegli attimi che le generazioni future ricorderanno con ammirata gratitudine, solo se d’ora in poi gli uomini e le donne di buona volontà non si daranno tregua a costruire in due mesi la Parte della Speranza Progressista e Civile, per farla trovare pronta alle elezioni, con a capo i migliori cavalieri delle buone cause sconfitte nell’ultimo quinquennio… Quanti ce ne sono, e come saranno bravi se somigliano alle idee per cui furono silenziati, in materia di anticorruzione e legalità, di taglio alla spesa, di politica industriale e del lavoro, di lotta alla disuguaglianza, allo scempio dell’ambiente e del paesaggio, di vera politica della scuola, dell’università e della ricerca. Non contro ma verso gli Stati Uniti d’Europa. Il programma di questa Parte? Sarà buono se si procederà con infinita attenzione ai veri tagli. “Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male” (Simone Weil).
È questo il taglio sottile da operare, o il groviglio da dirimere. Guardate se non torna, lo sragionamento. Tutto il male che ci circonda viene da questo groviglio! Vorresti difendere, certo, la bandiera italiana dal disprezzo di chi ci tratta da gente che non sa stare ai patti, ma poi guardi quelli che la levano ora sulla piazza e ti accorgi che è sporca, lordata dall’uso che ne fece il demagogo lombardo predecessore dell’attuale. Vorresti accorrere, certo, a difesa della Repubblica e del suo presidente, allinearti a quei poveri corazzieri in alta uniforme, ma ti si stringe il cuore solo a guardarli, tanto svilita è l’idea che difendono, che solo il ricordo di quell’adunata di ceffi e mammole che presiedettero all’elezione del precedente presidente al suo secondo mandato ti riempie di vergogna, come quello delle innumerevoli forzature di un governo che da incostituzionalmente eletto si fa costituente senza averlo mai avuto in alcun programma. Vorresti ripetere anche tu, lo stesso, “sto col presidente”, perché dall’altra parte c’è la prepotenza di chi “se ne frega” di qualunque vincolo etico e giuridico in nome di folle senza volto, di chi addirittura non si vergogna a ripetere “chi si ferma è perduto”. E ti accorgi che il solo sostegno al governo del presidente verrà dai responsabili di tutte quelle forzature che hanno svilito l’uniforme dei miei corazzieri, e anche dal ghigno trionfale di un signore politicamente appena riabilitato, ancora prima che si sia quietato l’effetto di rivolta emetica indotto dalle immagini di Sorrentino in Loro 1 e Loro 2…
Il fool nella sua follia si rivolge anche a molti elettori Cinque Stelle: avete lottato – lo so perché ero con voi – per preservare un po’ di bellezza dove interessi biechi la sconciavano. Ma la bellezza non è un valore, è il nome di tutti i valori, compresa la (pari) dignità di tutte le persone. Come potete ora sostenere anche la bruttezza di parole e gesta di chi la nega? Non sta lì il primo nefasto miscuglio?

Repubblica 1.6.17
Gli hikikomori
Il ragazzo del buio “La mia vita in una stanza”
Paolo, 16 anni, e la scelta di isolarsi dal mondo “Oltre le finestre c’è gente che non mi piace”
di Maria Novella De Luca


ROMA Nella sua stanza-rifugio Paolo non alza mai le tapparelle. Vetri schermati, odore di chiuso, tende tirate. «La luce mi disturba. Meglio il buio.
Tanto non ho orari. Gioco tutta la notte. C’è silenzio. Soltanto noi in Rete. Oltre quelle finestre c’è gente che non mi piace. In questa grotta mi sento tranquillo». Nella sua camera di adolescente in cui si è autorecluso da oltre due anni, Paolo, 16 anni, si sfida con cento flessioni al giorno. «Seguo i video dell’esercito, così resto in forma, mi stanco e dormo». Non fanno così anche detenuti in cella? Paolo ammette ironico: «Sì, sono come un carcerato». Il tirassegno, le scarpe in giro, i vestiti sul letto, i fumetti, ma anche il fucile e il giubbotto per “Softair” conservati con cura. Tutto è in ombra, ammassato. Dove mangi? «Mio padre mi passa il vassoio, lo appoggio qui, vicino al computer». Perché non siedi a tavola con lui?
«Perché ci sarebbe un silenzio di tomba». Ma un sogno ce l’hai?
«Vorrei far volare i droni». Come fossero aquiloni.
Una villetta di Roma Sud, Paolo, nome di fantasia, occhi neri e capelli scuri, aria gentile e lineamenti delicati, apre la porta della sua prigione senza sbarre di ragazzo “hikikomori”. Nome giapponese per indicare uno degli oltre centomila adolescenti italiani che hanno scelto di confinare il loro cielo in una stanza. Ragazzini che si isolano dalla famiglia, dagli amici, abbandonano la scuola e restano in contatto unicamente con l’universo virtuale del web.
Confondono il giorno con la notte, consumano i pasti da soli, si trasformano in eremiti domestici, ma sono campioni di gaming e di giochi in Rete.
Epidemia silenziosa di disagio sociale, il primo a codificarla è stato lo psichiatra giapponese Tamaki Saito negli anni Ottanta, nel Sol Levante gli “hikikomori” sono un milione, un’emergenza nazionale. Valicare la frontiera delle loro prigioni casalinghe è quasi impossibile, ma Paolo, incredibilmente, per un pomeriggio la sua porta l’ha aperta. E ha anche accettato, seppure schermato, di farsi fotografare. Come se in fondo, da qualche parte, il suo cuore volesse saltare oltre l’ostacolo.
Il letto incassato nell’armadio è sfatto, ci sono gli scatoloni di un trasloco recente, la postazione del computer è invece linda e ordinata. «Ecco, io vivo qui, mio padre sta di là, con il nostro cane.
Non esco da due anni, da quando ho lasciato la scuola. Il mondo esterno non mi interessa, non mi dà stimoli. Anzi un po’ mi fa schifo. A noi giovani dicono sempre che non c’è futuro, non c’è lavoro. E allora a che serve studiare? Ma ho invece un sacco di amici di tutto il mondo in Rete, facciamo tornei anche con squadre di 50 giocatori, l’altra notte sono andato a dormire alle cinque ma abbiamo vinto».
Un lutto grave nella sua vita di bambino, ma poi un’infanzia serena, un papà che rimasto vedovo si dedica anima e corpo al suo unico figlio. Ma qualcosa in Paolo si rompe all’ingresso nella scuola superiore, istituto tecnico informatico. Anche se per Paolo, come per molti “ hikikomori” la vera origine dell’autoreclusione resta misteriosa. Ma il dato comune è il rifiuto della prestazione. Scendere dal treno in corsa. La voglia di ritirarsi da una società che corre, dove chi non è al passo è “ sfigato”.
Seduto sul suo letto, mentre mostra con orgoglio il fucile con cui andava a giocare a “ Soft Air”, ( simulazione dal vivo di tattiche di guerra), perfetta ricostruzione di “ M4” in dotazione alle forze speciali Usa, Paolo prova a guardare dentro la sua prigione.
« In classe ero a disagio, mi annoiavo, sempre solo nel mio banco, non avevo legato con i compagni, i miei amici d’infanzia erano in scuole diverse. E poi un computer io lo so già smontare, rimontare, potenziare, delle altre materie non mi importava nulla.
Bullismo? No, del resto non ho mai dato fastidio a nessuno, però nessuno mi cercava. Anche i prof mi ignoravano, era come se fossi invisibile » .
Nella sua stanza- grotta Paolo ascolta le colonne sonore di Hans Zimmer, divora film e fumetti, gioca a “ Countstrike”. « Tra noi gamers ci sono rispetto, onore, siamo una squadra sempre in contatto, anche la notte, con loro sono felice, mi danno stimoli, mi fanno sentire vivo. Per questo vorrei entrare nell’esercito: per ritrovare questa emozione » .
Chissà. Per adesso il cielo di Paolo sembra ancora ben chiuso nella sua stanza di hikikomori. « Non so spiegare perché ma piano piano ho avuto un rifiuto di quella classe, non studiavo più, non volevo uscire la mattina, ero felice soltanto quando tornavo a casa e potevo chiudermi con il mio computer. Mio padre era al lavoro, mia nonna non diceva niente, il mio ritiro è cominciato così » . Carlo, papà di Paolo, è un uomo affranto che grazie all’associazione “ Hikikomori Italia” fondata dallo psicologo Marco Crepaldi, si è unito ad altri genitori e ha ritrovato la forza di lottare. « Spero sempre che la sua porta si apra. Quindici giorni fa ha accettato di venire con me a trovare la nonna. In auto si guardava intorno, parlava... Allora è possibile, mi dico, che torni il mio ragazzo allegro e pieno di vita, Come altri genitori, mi chiedo ogni giorno: l’ho lasciato troppo solo? È colpa dei videogiochi? Poi la smetto di tormentarmi e cerco di portarlo per mano a uscire dalla prigione » .
Racconta Marco Crepaldi: « Avevo studiato gli hikikomori nella mia tesi di laurea, è bastato aprire un blog per capire che il fenomeno stava esplodendo anche in Italia.
Attenzione però, non è la Rete che porta all’isolamento, semplicemente i “ ritirati” si affratellano sul web. Curarli? La scuola può fare moltissimo, così il sostegno psicologico e l’auto- aiuto tra genitori. La nostra pagina Facebook ha migliaia di contatti, tra cui tanti ragazzi auto- reclusi » .
Paolo richiude la stanza. « Uscire?
Ci vorrebbe una spinta, Ehi, se mi date un lavoro smetto di fare l’hikikomori... » . Ride. Ha di nuovo sedici anni. E farà volare i droni.
Paolo vive a Roma e ha accettato di farsi fotografare nella sua “tana”: tutto è in disordine, tranne il tavolo del computer

http://www.hikikomoriitalia.it/

Repubblica 1.6.17
L’esecutivo gialloverde
Nuova destra al potere
di Claudio Tito


Il governo gialloverde nasce già vecchio. Logorato da un balletto inverecondo e con novità sbiadite. I dicasteri- chiave sono in mano a uomini del passato. Da Moavero, ex ministro del governo Monti, a Tria, che faceva parte del gruppo di lavoro che ha scritto il programma di Forza Italia di qualche anno fa. E poi Savona, già in carica con l’esecutivo Ciampi del ‘93. Tutte le altre figure, a partire dal premier, semplici ancelle del rito Salvini-Di Maio. Su questa compagine, dunque, gravano già diversi macigni. Compresa la natura dichiaratamente di destra.
È il risultato del gioco di veti incrociati, ripicche, bassa lotta per il potere e per le poltrone durato tre mesi. Solo domenica scorsa Giuseppe Conte ha rinunciato al suo primo incarico. Cosa è stato fatto che non si potesse fare cinque giorni fa? Paolo Savona è stato dirottato dal ministero dell’Economia agli Affari europei. Il Quirinale già si era dichiarato disponibile a nominarlo con una delega diversa. Perché si è dovuto aspettare? Perché si sono dovute esporre le istituzioni, il Paese e i nostri conti pubblici a una continua fibrillazione? L’M5S ha addirittura minacciato l’impeachment nei confronti di Mattarella. Lo stesso Savona, probabilmente dimentico delle responsabilità che gli derivano dai tanti incarichi ricoperti in passato, ha ingaggiato uno sgangherato duello verbale con il Colle. Un inutile psicodramma.
La motivazione di tutto è purtroppo semplice: la paura di perdere l’occasione e il potere. Lo sconquasso avvenuto martedì scorso sui mercati finanziari ha spinto Di Maio e Salvini a rivedere le loro posizioni. Il rischio di dover affrontare nuovamente le urne, magari in piena estate, li ha indotti a non sottoporsi a una eventualità: lasciare sul terreno una parte dei consensi conquistati il 4 marzo scorso. Per i grillini — e in particolare per il loro capo politico — l’ultima settimana è stata vissuta come se la porta del governo non dovesse mai più riaprirsi. Hanno sostanzialmente accettato tutte le richieste della Lega. Che sta capitalizzando elettoralmente il suo movimentismo sapendo però che il 29 luglio quella capitalizzazione si sarebbe dispersa nei luoghi di villeggiatura delle regioni del nord. Meglio, allora, le poltrone.
Una squadra scolorita assume però il tono di un governo di destra. Nella storia repubblicana mai nessun esecutivo ha spostato il baricentro fino a questo punto. Il suo programma è di destra — nel cosiddetto contratto non sono mai citate le parole “diritti civili” — e i suoi atteggiamenti sono di destra. L’ingresso a Palazzo Chigi viene intepretato non come un cambio di governo, ma come un cambio di regime. Descrivono ogni scelta con una visione palingenetica, come se tutto dovesse cambiare in quell’istante. Si affidano a un sorta di dittatura del malumore dei cittadini, anziché rispondere a quello stesso malumore. Gli attacchi, poi parzialmente ritirati al presidente della Repubblica, sono un elemento di questo schema. Hanno bisogno di colpire la massima istituzione per provocare una grande suggestione: il cambiamento totale, appunto. Giustificare un governo con le riforme non basta più, serve un non meglio identificato “cambiamento”.
E forse non è un caso che Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, abbia deciso improvvisamente di trasformare il suo voto negativo in astensione accettando il ruolo di stampella destrorsa. Tenendo presente che i numeri esigui di questa maggioranza al Senato troveranno un notevole corroborante nell’astensione, visto che il nuovo regolamento di quell’aula non la considera più un voto contrario come accadeva fino a due mesi fa.
Anche il M5S dunque ha buttato la maschera. La sua trasversalità elettorale viene bruciata da questa alleanza. Si sta così formando un nuovo blocco sociale con la sovrapposizione e l’unione delle due rispettive basi elettorali. Questo esecutivo sarà il laboratorio pratico di questa nuova destra sovranista e antieuropea. I primi esperimenti ci saranno già a giugno con l’assestamento del bilancio e in autunno con la legge di bilancio. Le promesse sconsiderate fatte in campagna elettorale si misureranno in quelle due occasioni con il principio di realtà. E le rassicurazioni europeiste, apparse posticce, subiranno un test probante.
I quattro “tecnici”, da Conte a Moavero, dunque, sono solo una sorta di trucco estetico. Le chiavi di questa vettura lanciata verso la deriva orbaniana sono in mano a Di Maio e soprattutto a Salvini. E il premier rischia di non essere l’avvocato degli italiani, ma il semplice notaio verbalizzante del contratto gialloverde.

Repubblica 1.6.18
La festa del 2 giugno
La democrazia a un bivio
di Guido Crainz


Mai come quest’anno il 2 giugno ci costringe a interrogarci sul nostro essere nazione e sulla tenuta della nostra democrazia, ed è difficile sfuggire alla sensazione di essere di fronte a un bivio. Mai infatti, neanche nelle fasi più aspre, questa data ha cessato di essere la festa di tutti gli italiani: il momento in cui ribadiscono i fondamenti culturali, politici e civili del proprio vivere collettivo. Mai qualcuno aveva pensato di utilizzare il 2 giugno per contestare le nostre regole costituzionali. Mai, neanche per un attimo, era stata proposto di lacerare questa giornata con una manifestazione di parte volta a colpire proprio quelle regole, assieme alla figura istituzionale che ne è garante ( e il vulnus resta, anche se la miserevole proposta è crollata grazie alla alta e necessaria fermezza del presidente della Repubblica, SergioMattarella).
Non avvenne neppure nel clima teso della Guerra fredda, nonostante le profonde divisioni e contrapposizioni di allora. E non avvenne negli anni cupi della strategia della tensione e del terrorismo degli anni Settanta: la centralità del 2 giugno verrà appannata semmai dalla smemoratezza degli anni Ottanta, nel prolungarsi dell’abolizione della festività decisa nel 1977 (discutibile conseguenza di esigenze di “austerità”).
Quell’appannarsi era in realtà il sintomo dell’indebolimento civile del Paese, malamente mascherato dalle euforie di quel decennio, e alla vigilia del crollo della “ prima Repubblica” Giorgio Bocca evocava a contrasto, su queste pagine, l’Italia uscita dalla guerra: eravamo divisi in fazioni, scriveva, in un Paese distrutto, eppure «uniti nel vivere, liberali, cattolici, monarchici, comunisti, padroni, operai, tutti certi di essere padroni del nostro destino. Ma questa voglia di avere un’identità, di essere noi, sembra esserci uscita dal corpo. Che Paese siamo? Che cosa significa essere italiani? » . In quella crisi il valore centrale del 2 giugno sembrò offuscarsi ancora e la sua decisa riaffermazione fu parte integrante della pedagogia civile avviata con forza dal presidente Ciampi e proseguita dai suoi successori.
Fu parte integrante del loro impegno a rifondare il “ patriottismo repubblicano” nella coscienza collettiva, collocandolo nella più ampia appartenenza europea e rafforzandone al tempo stesso i momenti simbolici e le date fondative. In primo luogo, appunto, la festa del 2 giugno, ripristinata da Ciampi nella sua interezza e accompagnata da una parata che poneva ora al centro l’impegno dell’esercito nelle calamità civili e nelle missioni di pace. Ciampi stesso ha ricordato: andai a quella prima, rinnovata sfilata «in una vettura scoperta, con al fianco il ministro della Difesa, Sergio Mattarella. Eravamo circondati da una folla festosa che mi diceva di andare avanti, mi ringraziava, era contenta » . Quella ispirazione è andata via via arricchendosi e sono ancora vive le immagini di un anno fa, con la folta presenza di sindaci e con quell’enorme tricolore che calava sul Colosseo.
È forte dunque la sensazione di essere oggi di fronte a una possibile, inquietante divaricazione, e nei giorni scorsi lo abbiamo compreso in maniera traumatica: in essi infatti il fantasma del populismo è uscito definitivamente dal limbo delle definizioni astratte o da territori ancora lontani. È diventato forza corposa e devastante, con la lacerante contrapposizione fra una “ sovranità del popolo” arbitrariamente interpretata e le istituzioni che la fanno realmente vivere, svilite e calpestate assieme alle loro regole. Questo abbiamo vissuto e viviamo, e quelle lontane parole di Giorgio Bocca sembrano di nuovo drammaticamente attuali.

Il Fatto 1.6.18
Caro Recalcati, Renzi rimane il capo dei Proci
di Daniela Ranieri


Ammiratori sfegatati quali siamo del professor Recalcati, fresco della sua trasmissione su Rai3 in cui da una sedia al centro della scena, avvolto da un’aura di fascinosa lacanianità, lancia agli adepti perle quali “Il compito primo di ogni maestro non è quello di trasmettere il sapere ma quello di portare il fuoco” e “Per essere un giusto erede bisogna essere sempre eretici”, non potevamo perderci l’ultima sua lezione su Repubblica sulle analogie tra l’Odissea e la situazione politica attuale. Ci eravamo appena ripresi dalla bella lavata di capo che la psico-star col ciuffo ci fece dal palco della Leopolda pre-referendum: Renzi era Telemaco, il “figlio giusto” in cerca del padre, mentre noi antirenziani eravamo masochisti, conservatori e paternalisti.
La storia si è incaricata di contarci: 20 milioni al referendum (soprattutto giovani), poi, alle elezioni, una legione che ha rispedito al mittente la baldanzosa promessa di felicità del giovinotto toscano e della sua corte dei miracol(at)i.
Ora Recalcati, questo Farinetti del lettino, torna sul tema per aggiornarlo, piegando il mito all’evolversi dello storytelling: se “anagraficamente Salvini e Di Maio appartengono alla generazione che avevo battezzato Telemaco”, riflette, politicamente essi “sembrano assomigliare di più ai Proci”, i giovinastri che “esigono di possedere la regina Penelope e di insignorirsi del trono decretando Ulisse morto”.
Va da sé che nello schemino del carismatico guru Renzi è sempre Telemaco; noi siamo il “popolo” che appoggia i Proci – qui Recalcati se la deve un po’ aggiustare: “Una differenza sostanziale differenzia (sic) i nuovi Proci dai vecchi. I nuovi hanno ottenuto democraticamente il consenso del popolo per governare la polis”, mannaggia; mentre il “padre” è Mattarella, al quale farà piacere essere paragonato a Ulisse, un avventuriero fedifrago e bugiardo che fa morire tutti i suoi compagni.
Verrebbe proprio da fare sì con la testa, tant’è l’evidenza cristallina di questa lettura, sennonché già l’anno scorso, sul Fatto, nell’articolo Renzi, un Narciso a capo dei Proci, ci prendemmo la briga di smontare la trovata della “generazione Telemaco” con la quale Recalcati (poi messo a capo di una scuola politica del Pd intitolata al povero Pasolini) cercava di far passare un rampichino come Renzi per il protagonista di un’epica grandiosa, sembrandoci egli semmai più simile al capo dei Proci, che saccheggia per pura brama di potere.
Oggi, alla luce dei fatti, l’analogia (la nostra) ci pare ancora più corretta. Telemaco si reca a Pilo e a Sparta a farsi dare notizie del padre. Il suo è un “pellegrinaggio contrassegnato dalla devozione” (sono parole di Giorgio Manganelli), tra “i grandi di un’altra generazione”. Non risulta che Renzi abbia mai compiuto la sua Telemachia; al massimo è andato in California a parlare della vita su Marte. È partito, con enfasi annichilente, come rottamatore del passato. Nella sua “narrazione” la Legge è sempre stata un freno, così come l’autorità (i “professoroni”), occhieggiante e censoria. Renzi è quello del “ce ne faremo una ragione”, del “costi quel che costi”, del “si discute ma poi si decide”: formule liquidatorie, non eretiche.
Telemaco è solo; Renzi è a capo di una corte. Telemaco è malinconico (Omero dice “afflitto nell’animo”); Renzi è garrulo, gaglioffo, ilare, spesso aggressivo. Telemaco soffre per l’assenza di padri; Renzi voleva rottamarli. Telemaco ascolta e, per quanto goffo e spaccone, impara dai suoi errori; Renzi per i suoi fallimenti dà sempre la colpa a qualcun altro, persino al popolo che non ha compreso il suo genio. I Proci invece sono gli estranei che sfondano le porte, ma non con la violenza, piuttosto con una “strana qualità magica” (sempre Manganelli), “una malattia, che inutilmente gli dèi ammoniscono”. La malattia è il nichilismo di chi pretende il potere e viene ridotto all’impotenza dalla sua inettitudine rapinosa.
Ci riserviamo di capire meglio chi siano Di Maio e Salvini, ma Renzi è inequivocabilmente Antinoo, il capo dei Proci che distrugge la casa della sinistra condannandosi al nulla. O, se proprio deve esser Telemaco come vuole lo psico-guru pop organico, valgano per lui le parole che il Poeta fa dire a Atena: “Pochi figli risultano uguali al padre; i più sono peggiori, e solo pochi migliori”.

Il Fatto1.6.18
Cuperlo, Re Giorgio e il ministro al buio
di Ma. Pa.


Gianni Cuperloè uomo di candore disarmante. Ieri, per dire, ospite de L’aria che tira su La7, nel tentativo di difendere Sergio Mattarella dall’accusa di aver travalicato il suo ruolo, ha commesso il più classico fallo di reazione violando il più classico dei “si fa ma non si dice” istituzionali. L’uomo che con nobile gesto ha rifiutato la candidatura alle ultime Politiche (Claudio De Vincentis, che prese il suo posto, può però ringraziarlo fino a un certo punto: non è stato eletto) ha scolpito quanto segue: “Credo che il presidente del Consiglio Matteo Renzi abbia conosciuto Pier Carlo Padoan dopo che gli era stato indicato come ministro dell’Economia del suo governo” (indicato dal presidente Giorgio Napolitano, s’intende). Insomma, il niet per reato di opinione a Paolo Savona è “una situazione del tutto ordinaria”. La prassi, si sa, ha questa sua caratteristica di sembrare eterna, eppure questa in particolare pare una violazione della Costituzione mica da poco: “Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”, dice l’articolo 92. E come lo avrà proposto Renzi a Napolitano se non sapeva neanche chi fosse? È l’ordinarietà della politica extra-costituzionale, luogo in cui – come ci ha svelato Mattarella – il ministro dell’Economia deve avere la fiducia dei mercati, non dei partiti.

Il Fatto1.618
“Savona fu molto amico del Gran Maestro Corona”
Ombre. Le voci sulla presunta affiliazione alla massoneria e le frequentazioni dell’economista sardo tra i “fratelli”
di Fd’E


Più o meno velatamente, la voce rimbalza da una decina di giorni, da quando cioè al Quirinale è scattato l’allarme sul suo nome, fino alla drammatica crisi istituzionale di domenica sera, 27 maggio, con il veto del capo dello Stato sulla sua nomina a ministro dell’Economia.
Parliamo ovviamente di Paolo Savona, l’ottuagenario economista che con le sue critiche all’euro è passato d’emblée da un solido ruolo d’establishment a quello di amico rivoluzionario del popolo gialloverde.
Un bel salto, appunto, nonostante le voci su una sua presunta affiliazione alla massoneria che ieri sono deflagrate grazie a un’indiscrezione riportata dal Corriere della Sera. Questa: Luigi Di Maio avrebbe detto a Carlo Cottarelli (che però smentisce) che Savona farebbe parte della massoneria americana. Tout court. Intendiamoci, essere iscritti a una loggia non è reato ma nel contratto di governo tra M5S e Lega c’è un’esplicita norma anti-massonica.
La leggenda, chiamiamola così, di Savona massone, dal prodigioso curriculum istituzionale e politico, comincia più di quattro decenni fa. L’economista frequentava il Pri di Ugo La Malfa, prima, e di Giovanni Spadolini poi. L’Edera repubblicana è il simbolo del secondo partito più antico d’Italia fondato alla fine dell’Ottocento (il primo fu il Partito socialista).
Laici e spesso massoni, tra i repubblicani di rango degli anni Settanta e Ottanta c’era il sardo Armando Corona detto Armandino, corregionale di Savona. I due erano amici e Corona nel 1982 fu chiamato a un compito severo e per certi versi immane. “Ripulire la massoneria dalla P2 di Licio Gelli”, come disse anni dopo un altro sardo d’élite, Francesco Cossiga.
Corona fu infatti eletto Gran Maestro del Goi, la maggiore obbedienza dei massoni italiani (più di ventimila affiliati oggi), dopo lo scandalo piduista che come un virus aveva contagiato politica, giornali, forze armate, servizi segreti, finanza e imprese (compreso l’imprenditore Silvio Berlusconi).
Dice il senese Stefano Bisi, attuale Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia: “Non mi risulta un’affiliazione di Savona però era vicinissimo ad Armandino Corona, questa è una cosa nota”.
Fin qui la parte visibile, meglio, ufficiale su Savona massone.
Indi ci sono i sospetti su logge più “coperte” e di sapore internazionale. Di qui il presunto riferimento alla massoneria americana attribuito a Di Maio.
Quello che è certo è che dopo gli anni repubblicani, Savona fu vicino al “gladiatore” Cossiga, cultore appassionato di grembiuli a cavallo tra la Chiesa e il Tempio massonico. È l’esclusivo mondo della cattomassoneria (teismo più deismo dal punto di visto speculativo) oggi ancora attiva e in prima linea nella guerra al nuovo corso di papa Francesco (ma questa è un’altra storia).
L’esponente più famoso di questa filiera, un tempo potentissimo, è stato l’ex piduista, nonché grande amico di Savona, Giancarlo Elia Valori. E non è un caso che in questi giorni, l’economista non voluto da Mattarella sia stato difeso sul Tempo da Luigi Bisignani, altro cattomassone ed ex piduista di vaglia.
Bisignani ha accusato Mario Draghi di essere il vero nemico di Savona e ha fatto un perfido riferimento a due “confraternite”: “Sono da sempre di due confraternite opposte in politica economica: keynesiano Draghi, neo-monetarista Savona”.
L’esatto opposto, però, di quanto sostenuto dai massoni progressisti di Gioele Magaldi, il Grande Oriente Democratico (God): “La guerra a Savona è opera di fratelli controiniziati, aristocratici e anti-keynesiani”. Chi ha ragione?

La Stampa 1.6.18
Il popolo leghista brinda
“I clandestini inizino a tremare”
di Emilio Randacio


il raduno , organizzato da tempo, diventa questa sera la festa nella festa, con lo sfondo delle ciminiere delle acciaierie di Dalmine che da domani, forse, soffriranno per i dazi «trumpiani». Ma questa stasera , nella landa bergamasca che si avvicina alle montagne, si brinda alla vittoria: il Capo è al governo, ministro della Polizia; clandestini «e delinquenti» possono iniziare a tremare. Sul tavolino del self service campeggia l’invito: «Firma per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica » e la data di questo weekend. Sopra, campeggia la foto in giacca scura e un sorriso interminabile del nuovo ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Tra una porzione di casoncelli - ripieno tipico della Bergamasca-, e uno stracotto d’asino, tra vini rossi densi e birre alla spina serviti in bicchieri di plastica, si consuma la festa della Lega di Dalmine. Due tensostrutture impiantate nei prati, musica anni settanta in sottofondo, decine di persone che mangiano in allegria e lo spazio per la pista di una serata che si promette danzante e anche la tombola. «Prima il Nord», recita un cartello, «Sì all’autonomia» fa eco un altro. Un altoparlante invita il numero 32 a ritirare le patatine fritte. «Pronte per essere mangiate!».
Roma è lontana
Le notizie da Roma, sembrano lontane. Nessuno esulta più di tanto. «Salvini ministro dell’Interno? E una settimana che non accendo la televisione, ma vengo qui a lavorare», dice un tipo con l’aria di essere il capo di questa sagra di paese in salsa leghista. Più che parlare, l’uomo sorride sotto imponenti baffoni, tradendo la soddisfazione. Non vuole dire nemmeno il suo nome, indica con le sue manine solo a chi rivolgersi. Tra i banconi di «Dalmine in festa», molti indossano magliette verde padano, ma non amano le chiacchiere. «Contenti? Ma, io non parlo». E indica Fabio Facchinetti., 42 anni, «iscritto alla Lega dal 1991», dice con orgoglio. Quattro anni fa ha perso la corsa da primo cittadino, «per colpa dell’onda lunga di Matteo Renzi». Da allora, qui, poco distanti dallo stabilimento Tenaris, dalle sue ciminiere, il sindaco è di centrosinistra. Ma garantiscono che gli hanno reso la vita difficile. «Voleva eseguire gli ordini del prefetto - spiega Facchinetti, con l’immancabile divisa verde di addetto alle griglie e alla carne alla brace -. Voleva mettere gli immigrati in una struttura pubblica, ma ci siamo opposti. Noi quel posto lo volevamo per la città ». E come è finita? «Li hanno messi in alcuni appartamenti». Erano molti? «Per me anche troppi, una decina di ragazzini». E adesso, cosa succederà? «Per noi basterebbe che Matteo facesse anche solo la metà di quello che ha promesso, per me saremmo a posto».
Per il sindaco mancato di Dalmine, «Matteo è un bravo ragazzo e si sta muovendo bene. È venuto qui, ci ha sempre dato una mano». Ma cosa vi aspettate da lui? Facchinetti sorride e, poi, spiega. «Alfano delle cose che ha promesse non ne ha fatte il 90%. Minniti ne ha fatte la metà, di Matteo ci fidiamo...» Fabio precisa, «siamo sempre in una coalizione », ma è ottimista. «Speriamo solo che non ci sia un Casini di turno, oppure un Fini. Quando stavamo per realizzare il nostro programma, gente così, si è messa in mezzo e ha mandato tutto al diavolo». «Prima c’era Berlusconi che metteva il nostro programma in bella, attraverso il suo impero, ora no...». E il presidente Mattarella, come si è comportato? «Noi abbiamo dimostrato che non siamo un Paese ricattabile, come gli Stati Uniti, che di fronte a un ricatto, non si sarebbero mai piegati». Fabio sorride ancora, ma ora deve proprio andare. Gli spiedini sulla carbonella si stanno bruciando, lui li deve girare. L’altoparlante, intanto, avverte i numeri per la tombola che vengono estratti.

La Stampa 1.6.18
Tra i migranti che ora temono
“Per noi l’aria diventa pesante”
di Lodovico Poletto


I primi carretti con i rottami di ferro arrivano alle 8 di sera. E i ragazzoni sfatti da questo pomeriggio di afa scaricano davanti al garage quel poco che sono riusciti a trovare in ore di ricerca: una lavatrice, pezzi di giochi per bambini. Una vecchia tv. Preziosissima, perché contiene rame, il metallo che fonderie pagano meglio.
Benvenuti al Moi, le ex palazzine costruite per le Olimpiadi invernali del 2006 e diventate casa della più grande concentrazione di migranti di Torino, un tempo soltanto industriale e oggi in trasformazione. Mille e 200 persone da almeno 20 Paesi. Una piccola città dentro la città che ha conosciuto tutte le migrazioni dell’ultimo secolo. Quelle dal Sud d’Italia, quando le ciminiere delle fabbriche fumavano nero e c’era fame di operai, e dai Sud del mondo, in questi ultimi anni. Arriva Salvini al Viminale e torna in mente quando durante la campagna elettorale il leader leghista era andato nel più grande campo rom di Torino per visitarlo e dire alla gente che abita in zona: «Dobbiamo restituire vivibilità al territorio. Qui come altrove». E l’altrove era il Moi.
Permesso e buon senso
Bram Hema Kone, è un omone di origini ivorane, 46 anni, permesso di soggiorno in tasca e tanto buon senso in testa. Ha vissuto al Moi. Oggi fa parte del Movimento Rifugiati e migranti, e nel suo italiano quasi perfetto dice: «Avevamo capito che l’Italia stava cambiando atteggiamento nei confronti dei migranti». Scusi Kone, che cosa intende? «Che i migranti non erano più amati come un tempo. E se adesso, con l’arrivo di Salvini è chiaro: noi stranieri avremo qualche problema».
Kone è un uomo che media, che si spende per la gente del Moi e non soltanto. Sa che quei ragazzi che raccolgono il ferro lo fanno per fame. Che i soldi qui sono pochi. E che le famiglie che hanno occupato l’ultima palazzina al fondo, quella azzurra, sono qui perché non hanno alternativa. E sa pure che il Moi non è soltanto questo. È lo spaccato dell’immigrazione: nel bene e nel male, con la povera gente da un lato e chi delinque dall’altro. E che in quelle case, fino a qualche tempo fa, c’erano anche una banda di pusher con quintali di erba. Poi un giorno sono arrivati gli agenti della Squadra mobile della questura di Torino e se li sono portati via in manette. Mentre la gente per bene guardava dalla finestra. E tirava un sospiro di sollievo.
Ecco, Kone sa. E ha intuito «che l’aria adesso si farà pesante» dice. «Ne abbiamo parlato con le comunità di diversi Paesi: gli ivoriani, i senegalesi, i maliani. Sappiamo che potrebbe esserci un cambio di passo». Che cosa significa, nel dettaglio, però non lo sa neppure lui. Espulsioni più facili? Forse. Regole più strette per i permessi di soggiorno? Può essere. Altro? «Torino è sempre stata una città accogliente con i migranti. Ma è certo che qualcosa accadrà anche qui, anche a Torino» ripete Kone. E poi c’è la questione Moi, nel suo complesso. Con il solito carico di problemi e di significati. Perché mille e 200 migranti concentrarti in poche case, in uno dei quartieri più popolosi della città, è ovvio che qualche tensione l’hanno creata. Ma i mugugni e un diffuso senso di insofferenza tra residenti e commercianti sono sentimenti più reali. Nonostante i progetti di integrazione. E quelli di «svuotamento dolce» delle palazzine. Kone adesso sorride. Che farete? «Ne parleremo ancora. La gente per bene non può pagare per chi non si comporta come dovrebbe».
Alle nove di sera il Moi è ancora in fermento. Ragazzi in ciabatte che entrano ed escono. Luci dentro le palazzine delle famiglie. Il buio in quella arancione. Quella delle camerate. Dei ragazzi da soli. Quella sopra i garage diventati magazzino di rottami e piccoli tesori.

Repubblica 1.6.18
Lavoro
L’occupazione ai massimi più donne, crescono i precari
Ad aprile record storico con 64 mila nuovi assunti I contratti a tempo sfiorano i tre milioni L’inflazione sale all’1,1%
di Rosaria Amato


Roma Il mercato del lavoro torna a correre ad aprile, con 64 mila occupati in più nel giro di un solo mese. Un contesto economico dinamico, accentuato anche dall’accelerazione dei prezzi: a maggio, rileva l’Istat, l’inflazione arriva all’ 1,1% annuo, l’aumento maggiore da settembre, mentre nell’Eurozona è all’ 1,9%. A fronte però di diverse tendenze incoraggianti, a cominciare dal calo degli inattivi, scesi ormai al minimo storico, continua un travaso tra lavoro stabile e lavoro precario. Con una novità significativa: per il secondo mese di fila cresce l’occupazione tra gli indipendenti, in calo perlomeno dall’inizio delle “ serie storiche” dei dati mensili sul lavoro dell’Istat, che risalgono al 2004. Da allora si registra infatti una tendenza di calo dapprima moderato e poi sempre più veloce: nel 2017 il numero dei lavoratori autonomi è calato dell’1,9%, certifica la Relazione annuale di Bankitalia.
Eppure, adesso, nel giro di due soli mesi, marzo e aprile, c’è stato un forte recupero, che ha fatto tornare il numero degli autonomi ( 5 milioni 354 mila) quasi ai livelli di un anno fa. Presto per trarne delle conclusioni, considerato che in Italia tra le file degli autonomi ci sono anche molte situazioni anomale, di parasubordinazione se non veri e propri rapporti di lavoro dipendente mascherati.
A crescere sono soprattutto le occupate donne ( 137.000 in più in un anno), e si conferma con forza la tendenza che vede la riduzione degli occupati permanenti ( in un anno se ne sono persi 112 mila) e l’aumento di quelli a termine ( 329 mila in più nello stesso periodo, 41 mila solo tra aprile e marzo). Un dato che fa dire ai senatori del Movimento Cinque Stelle che il governo uscente ha ben poco di cui vantarsi: « Non comprendiamo le reazioni esultanti del Pd » , obiettano, replicando a Matteo Renzi che rivendica i dati: «C’è chi fa aumentare lo spread e c’è chi fa aumentare l’occupazione». Critici anche i sindacati: Cgil e Cisl fanno notare come ormai da tempo a crescere sia solo l’occupazione a termine, mentre la disoccupazione giovanile è di nuovo in rialzo. In effetti gli occupati della fascia 15- 24 anni crescono dello 0,5%% rispetto a marzo, ma quelli della fascia successiva, 25- 34, calano dello 0,4%. È l’effetto di incentivi “a esaurimento”?. Ma a trovarsi in una situazione difficile, fa notare Francesco Seghezzi, analista di Adapt, sono anche i più anziani: per effetto delle riforme infatti crescono gli occupati over 50, ma c’è anche un aumento annuo del 7,5% dei disoccupati della fascia 50-64 anni. Potrebbe essere la spia di un disagio: archiviati una serie di ammortizzatori sociali, molti over 50 sono costretti a cercare di nuovo lavoro, ma con scarso successo.

il manifesto 1.6.18
Finisce l’era Rajoy, sepolta dagli scandali. È il turno dei socialisti
Spagna. La mozione di sfiducia presentata dal leader Psoe ha i numeri. Pedro Sánchez promette un governo «paritario ed europeista»
di Luca Tancredi Barone


BARCELLONA La Spagna oggi avrà un nuovo governo a guida socialista. Dopo i due tentativi falliti di Pedro Sánchez di diventare il capo dell’esecutivo spagnolo nel 2016, lo storico voto che lo incoronerà come il nuovo presidente del governo avverrà nel corso della giornata di oggi. È la prima volta che in Spagna una mozione di sfiducia viene approvata: quella di oggi, presentata dai socialisti una settimana fa, dopo la dura sentenza sul caso di corruzione che condanna esponenti di primo piano del partito popolare, è la quinta della storia democratica di questo paese.
L’ultima, l’aveva presentata Unidos Podemos un anno fa: allora i socialisti si astennero. Oggi invece, a fianco dei socialisti e dei deputati di Unidos Podemos e alleati – che dal primo momento hanno regalato a Sánchez il voto senza chiedere nulla in cambio pur di allontanare il Pp dalle leve del potere – si schiereranno i nazionalisti catalani del PdCat e di Esquerra Republicana, i nazionalisti baschi del Pnv e una manciata di altri deputati. I Sì si assesteranno sui 180, 4 in più della maggioranza assoluta necessaria.
IL QUADRO POLITICO si è andato chiarendo ieri durante il dibattito parlamentare. Sia il PdCat che Esquerra hanno offerto i loro voti per «sfrattare» Rajoy, «principale responsabile della crisi catalana». Ma il sì chiave è arrivato dai baschi, che con i loro 5 deputati hanno fatto pendere l’ago della bilancia dalla parte di Sánchez. Una settimana fa, era stato il loro voto a salvare il bilancio 2018 di Rajoy.
LA PRESENTAZIONE della sfiducia al Congresso da parte di un portavoce socialista – Sánchez non è più deputato da quando si dimise per non votare il Sì a Rajoy che un Psoe diviso decise nel 2016 – è iniziata ieri con la durissima lettura della sentenza del cosiddetto caso Gürtel. Una volta presa la parola, il candidato Sánchez ha attaccato Rajoy: «Incapace di assumere in prima persona le responsabilità politiche». Il discorso del candidato è stato attento: per evitare l’accusa di sete di potere da parte del Pp, è stato Sánchez stesso a proporre che Rajoy si dimettesse per bloccare tutto. Se l’avesse fatto – l’ipotesi è circolata tutto il giorno – il re avrebbe dovuto iniziare un giro di consultazioni. Forse Sánchez avrebbe potuto ottenere l’incarico ma si sarebbe aperto un periodo incerto, anche se in questo caso per Sánchez sarebbe stato più semplice ottenere i voti (in seconda votazione non serve la maggioranza assoluta).
Sánchez è stato abile verso i futuri alleati: a sinistra, ha promesso che avrebbe ripreso le leggi e le mozioni approvate dal congresso e che il governo del Pp non ha applicato, come la legge per cambiare la guida della radiotelevisione pubblica (che sarà chiave per le prossime elezioni), la riforma della durissima legge bavaglio, la cancellazione della tassa sull’energia solare, la reintroduzione dell’universalità del sistema sanitario (il Pp aveva lasciato fuori i migranti), una legge sull’uguaglianza salariale fra uomini e donne, l’applicazione del patto di stato sulla violenza di genere, il rilancio del sistema nazionale sulla scienza e sulla tecnologia. Ai catalani ha promesso di «tendere ponti», che difenderà la «Spagna plurale» di zapateriana memoria e ha addirittura riconosciuto che «ci sono territori che si sentono nazioni». E soprattutto ha promesso al Pnv che non salterà la finanziaria del Pp appena approvata (che dà ampi benefici economici ai baschi): a oggi, manca l’approvazione definitiva al senato (dove il Pp ha la maggioranza assoluta).
RAJOY HA RISPOSTO con durezza a Sánchez, con un tono rassegnato più da leader dell’opposizione che del governo. Ma potrà ancora mettere i bastoni fra le ruote: Pp con Ciudadanos hanno ancora la maggioranza della presidenza del Congresso. Dopo un botta e risposta con Sánchez, l’ormai ex presidente del governo, in un ultimo gesto di spregio, lasciava l’emiciclo dove non si è più presentato per il resto del dibattito. Chi perde, oltre al Pp, è chiaramente Ciudadanos che si è trovato spiazzato. Rivera ha implorato nuove elezioni, dopo aver sostenuto Rajoy. Ma oggi entrambi hanno perso la partita.
Se c’è una cosa su cui tutti gli altri partiti sono d’accordo è proprio bloccare l’ascesa degli arancioni.
Il nuovo governo, dice Sánchez, sarà «paritario» e «europeista», ma per ora non sappiamo null’altro. A parte che sarà difficile duri i due anni che mancano di legislatura.

La Stampa 1.6.18
Il gay pride di Tel Aviv
Israele pronta per l’evento dell’anno
di Elena Loewenthal


C’è anche chi, con buona dose di sterile sprezzo, lo definisce «pink washing»: il politicamente corretto della libertà sessuale, che in Israele sarebbe il modo per distogliere dal conflitto con i palestinesi l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Sta di fatto che Tel Aviv è ormai universalmente nota come la città più gay friendly del mondo, dove il rispetto delle scelte individuali si esercita su una vasta piattaforma che va dall’abbigliamento ai gusti sessuali alla creatività artistica. Qui tutto è sempre aperto, un po’ come l’orizzonte sconfinato sul mare.
La settimana del gay pride è da queste parti uno degli eventi più al top dell’anno, forse il più clamoroso – anche se quest’anno dovrà giocarsi il primato con l’avvio del Giro d’Italia, qualche settimana fa. Sta di fatto che a pochi giorni di distanza dalla gay parade che l’8 giugno prossimo fermerà il traffico della città e la riempirà di colori sgargianti, musica, performance d’ogni sorta, tutta Tel Aviv e piena di bandiere arcobaleno che sventolano per le strade, appese ai balconi delle case, dentro i negozi. Ovunque dei cartelli stradali indicano i luoghi fulcro della settimana del gay pride, che prevede eventi ludici ma anche incontri e dibattiti. Ristoranti, locali, alberghi e spiagge offrono pacchetti d’accoglienza creati apposta per l’evento. Il palazzo del municipio in piazza Rabin si appresta a tingersi dei colori dei gay pride in un gioco di luci più allegro che mai.C’è insomma un coinvolgimento totale della città che, come scandiscono i suoi slogan preferiti, «non dorme mai» e «non sta mai ferma»: ed è proprio così, più che mai in questo 2018 – settantesimo compleanno dello stato ebraico – quando per curiosa coincidenza la settimana del gay pride si accavalla a quella del Taglit, il «viaggio scoperta» fatto apposta per i ragazzi ebrei della Diaspora, che sono arrivati qui a migliaia.
Ma la cosa più stupefacente di questa settimana dell’orgoglio omosessuale a Tel Aviv è la sua normalità, che è lo specchio di quello che la città è giorno dopo giorno, nella sua quotidianità: coppie di genitori dello stesso sesso ai giardinetti con il passeggino, alti ufficiali dell’esercito che fanno coming out senza per questo occupare pagine di giornale. Certo, Tel Aviv non è tutto Israele e Israele è un insieme di mondi diversi, a volte opposti fra di loro. Ma è pur vero che qui la settimana del gay pride ha dalla sua il fatto di essere ormai parte della città in un modo così pregnante che quasi tutti i cittadini sentono queste giornate come qualcosa che appartiene a Tel Aviv, che sta dentro il suo cuore.

Corriere 1.6.18
Elzeviro Il libro di Claudio Colombo
Lo Schindler del calcio che sfidò le SS
di Francesco Cevasco


Che occuparsi del gioco del calcio non sia soltanto inseguire con lo sguardo ventidue ragazzi che corrono in mutande dietro a un pallone è già ampiamente dimostrato da grandi scrittori di tutto il mondo. Che il gioco del calcio e i suoi protagonisti, calciatori, allenatori, abbiano avuto un ruolo nelle vicende storiche un po’ meno. Poi ci sono libri come questo, Niente è stato vano. Il romanzo di Géza Kertész, lo Schindler del calcio (Meravigli edizioni, pagine 144, e 15). Lo ha scritto Claudio Colombo («Corriere d’Informazione», «Gazzetta dello Sport», «Corriere della Sera», oggi direttore di «Il Cittadino» di Monza).
Si comincia a leggerlo per seguire la traccia di un non-grandissimo giocatore di calcio ungherese «emigrato» in Italia con la famigliola per diventare allenatore. E lo diventa. Anche in questo secondo mestiere non sarà una superstar (in serie A allenerà Roma e Lazio senza fare sfracelli). Ma è il più bravo a conquistare promozioni a raffica dalle serie minori.
Siamo negli anni Venti e la nostra storia durerà fino a una data tristemente precisa: il 6 febbraio 1945. Se restiamo agli anni Venti e Trenta e ai primissimi Quaranta, Kertész può essere più che soddisfatto. E lo è: dopo una breve parentesi di allenatore-giocatore (lo Spezia) fa soltanto il trainer. È bello, alto, elegante, poliglotta, simpatico. Piace ai presidenti delle squadre di calcio, piace ai tifosi e i calciatori si fidano di lui anche se è un po’ troppo esigente: sarà lui a inventare «il ritiro», cioè a ritrovarsi in un albergo alla vigilia delle partite importanti senza mogli, fidanzate, amici, distrazioni di ogni genere.
Intanto arriva, cresce, si allarga il fascismo. Kertész non si turba più di tanto. Come la maggioranza dei calciatori e degli allenatori si sente «apolitico». Allenerà, in un momento di scarso successo, persino il «Littorio», squadretta fascista di serie C. Ma...
Ma arriva il ’43. A Roma, dove Kertész vive, piovono troppe bombe degli Alleati per campare tranquilli. Lui pensa alla famiglia e s’illude che tornare nella sua Budapest sia ritrovare la pace. Oltretutto, con la fama che s’è fatta in Italia, ha già un ingaggio per una panchina importante, quella dell’Újpest, uno dei club più prestigiosi della capitale. E anche qui c’è un altro ma...
Ma Budapest non è la città del ricordo, della pace, della tolleranza che Géza conservava in mente. Sono arrivati i nazisti, nella triste primavera del ’44.
Dopo una vita dedicata al calcio, il trainer capisce che la sua vita può avere un senso soltanto se si oppone, per quello che può e può molto, alla barbarie. Entra in un gruppo clandestino chiamato Dallam (in italiano Melodia, nome dolce rispetto al suono violento della crudeltà nazista). Arriva al punto di travestirsi da ufficiale tedesco per salvare la vita agli ebrei perseguitati. Arriva a portarsi a casa una coppia di giovani ricercati per la sola colpa di esistere. Arriva al punto di scommettere una vita — la sua — per salvarne mille altre.
Come andrà a finire, in quel 6 febbraio ’45, si può leggere nel libro Niente è stato vano. Abbiamo cominciato a parlare di calcio. Abbiamo finito a parlare di storia. Merito di un libro che ha saputo tenere insieme calcio e storia.

il manifesto 1.6.18
Europa, le contraddizioni della competitività
«Chi non rispetta le regole?», il libro di Sergio Cesaratto edito da Imprimatur
Mira Oosterweghel, Precarious Life (2016)
di Michele Prospero


Il nodo di una valutazione storico-realistica dell’esperienza dell’eurozona pare ormai ineludibile. Una riconsiderazione la impone anche il duello distruttivo in corso tra tecnocrazie, che scontano una crisi di consenso sociale sempre più accentuata verso la stagione neoliberista, e populismi, che con simbologie ingannevoli si proclamano gli autentici interpreti del vero sentire delle comunità invase da religioni altre e oppresse da burocrati privi di ogni legittimità.
Quello che manca nel dibattito pubblico contemporaneo, proprio mentre i paesi più fragili precipitano sull’orlo di una grave crisi costituzionale, è una riflessione disincantata sul rendimento effettivo della architettura dell’Europa e, con essa, una chiara indicazione dei pilastri essenziali della riprogettazione di un altro modello politico e sociale.
Lo sforzo che Sergio Cesaratto porta avanti nel suo recente volume (Chi non rispetta le regole?, Imprimatur, pp.125, euro 14) ha il pregio di coniugare le categorie di un pensiero economico critico e le indicazioni di un approccio politico attento alle suggestioni del realismo che evita di assumere come plausibili mitici punti zero. In questo quadro, che è insieme critico e realistico, egli assume le regole sul serio, e ciò serve per svelare le ambiguità costitutive del modello, le aporie che ne scandiscono la genesi, e per mostrare il funzionamento distorto che esse hanno conosciuto per lunghi anni.
ADOTTATE originariamente con una certa dose di azzardo, riguardo l’effettiva ricaduta di taluni principi che imponevano ai diversi paesi una comune disciplina del vincolo esterno, le regole del gioco hanno mostrato nella loro esperienza empirica che l’eurozona doveva vedersela con il peso delle differenziazioni, del plusvalore di singole aree o nazioni. Cesaratto ritiene che i dati obiettivi rendano possibile indicare la sussistenza di regolarità funzionali ineludibili. Sotto il velo di ignoranza, che sempre accompagna il progetto delle origini, si nasconde la maturazione con il tempo di un rapporto asimmetrico in base al quale la confezione dei trattati e l’adozione della moneta unica si imbatte assai diversamente sulle compatibilità delle diverse economie e sul grado effettivo di influenza che la riserva agli Stati o alle economie più solide.
Il principio di potenza condona a taluni paesi la violazione di regole esistenti con la possibilità di reiterati scostamenti dai parametri che ad altri sono preclusi da una idolatria dei numeri sacri. E rende accettabile la condotta eccentrica del paese che impone ad altri sistemi economici un selettivo e costoso Berlino Consensus (mistica del rigore fiscale, politiche di bilancio restrittive) e che per sé ritiene opportuno convivere con un surplus di bilancio lucrato in esplicita contraddizione con i paletti concordati.
SU QUESTA REALE antinomia che vede la coesistenza di paesi centrali e di paesi periferici, i sovranisti inscenano i donchisciotteschi moti populistici. Al di là delle formule pittoresche, la realtà per Cesaratto è che «il modello tedesco è destabilizzante per le altre economie, le condanna a una eterna deflazione per evitare di essere sommerse dalle esportazioni tedesche e dai conseguenti debiti».
La proposta del libro è quella di sondare la riformabilità delle istituzioni comunitarie minate da una contraddizione scaturita dalla difficoltà di conciliare la realtà della «super competitività» tra le economie (dumping salariale) e il richiamo alla possibilità di momenti di cooperazione (politica economica, fiscale e monetaria). La necessità di un ripensamento delle regole del mercato della concorrenza operante in un quadro di istituzioni minime è rimarcata ormai da tutti.
C’è chi si limita ad adattamenti funzionali, con il completamento delle istituzioni della moneta unica, con fasi di ingegneria per l’unione bancaria e il monitoraggio dei fondi pubblici, per l’assicurazione sui depositi. Secondo Cesaratto occorre invece un «rinnovato riformismo progressista» che accantoni il «surreale Fiscal Compact» e determini politiche economiche continentali per il «recupero della domanda aggregata». L’alternativa è secca: o un «nuovo patto sociale per lo sviluppo» o l’implosione dell’eurozona.

il manifesto 1.6.18
La strada sul Danubio che divide romani e barbari
Mostre di archeologia. Ad Aquileia, una rassegna narra la storia della regione dell’Illirico, corrispondente all’attuale Serbia. Seicento anni di guerre, conquiste e invasioni ma anche di fruttuosi scambi culturali
di Valentina Porcheddu


Là dove il Danubio attraversa le cosiddette Porte di Ferro e segna il passaggio dai Monti Carpazi meridionali ai Balcani, la possente roccia che pure sembra affiorare dall’acqua, conserva la traccia di un’antica strada. L’iscrizione nota come Tabula Traiana, incisa nel 100, ne ricorda il rifacimento per iniziativa dell’imperatore che vinse i Daci. Nel I secolo d.C. il Danubio non era solo un fiume ma parte del limes, il confine che separava i territori sottomessi a Roma dalle genti barbariche.
Una mostra ospitata presso Palazzo Meizlik ad Aquileia (fino al 3 giugno) racconta la storia della regione romana dell’Illirico corrispondente all’attuale Serbia. Tesori e Imperatori. Lo splendore della Serbia romana (catalogo Gangemi) è promossa dalla Fondazione Aquileia, dal Museo nazionale di Belgrado e dalla Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio del Friuli Venezia Giulia in collaborazione con il Polo museale del Friuli Venezia Giulia, il Comune di Aquileia e l’Associazione nazionale per Aquileia.
CURATA DA UN TEAM internazionale – Bojana Boric-Breškovic, Ivana Popovic, Deana Ratkovic, Cristiano Tiussi, Monika Verzár e Luca Villa –, riunisce sessantadue oggetti provenienti dal Museo nazionale di Belgrado, di Zajecar e di Niš e dai musei di Požarevac, Novi Sad, Sremska Mitrovica e Negotin oltre a un calco storico della Colonna Traiana (1861) prestato dal Museo della Civiltà Romana.
Nell’allestimento sobrio ed elegante progettato dall’architetto Enrico Smareglia e accompagnato dalle suggestive foto di Gianluca Baronchelli, emergono seicento anni di guerre, conquiste e invasioni ma anche di fruttuosi scambi culturali. Il diploma militare di Taliata (Donji Milanovac), costituito da due tavolette bronzee e datato precisamente al 28 aprile del 75 d.C., testimonia la presenza dei soldati in servizio lungo il Danubio e riveste un interesse particolare per essere il più antico reperto di questa tipologia.
La Tabula Traiana sul Danubio. Foto di Gianluca Baronchelli
All’ambito militare appartengono anche gli elmi e le maschere da parata cronologicamente collocati tra II e IV secolo d.C. I primi, rinvenuti a Berkasovo, sono formidabili esempi del ridondante stile dell’epoca, con le paste vitree incastonate in una calotta dorata, a imitare pietre preziose. Le maschere, specialmente quella proveniente da Vinceia/Smederevo, emanano tutto il mistero dei fulgidi sguardi che dovettero animarle in occasione delle giostre equestri. Significativo per le confluenze artistiche è, invece, il Tesoro in argento di Transdierna/Tekija del I secolo d.C.: malgrado i gioielli rivelino somiglianze stringenti con ornamenti daci, i recipienti – patera e simpulum –, gli elementi di cintura e le iconcine con raffigurazione della Magna Mater (o Proserpina) e Giove – furono realizzati in Italia.
L’IMPORTANZA STRATEGICA delle province balcaniche, porta d’accesso alle ricchezze dell’Oriente, determinò la carriera di alti ufficiali dell’esercito, i quali – originari di queste aeree – si erano distinti nei combattimenti contro i Barbari. A metà del III secolo, molti di essi furono proclamati imperatori. La rassegna in corso a Palazzo Meizlik mette in evidenza soprattutto il periodo della Tetrarchia, quando Diocleziano – per affrontare meglio il problema della difesa dei confini e della soppressione delle rivolte locali – proclamò Massimiano coreggente e scelse poi come Cesari Costanzo Cloro e Galerio. Da questo momento, i ritratti imperiali divennero rigidamente frontali, con la forma della testa tendente al cubico e grandi occhi spalancati. Le figure, private di qualsiasi caratteristica individuale, dovevano trasmettere l’idea di uguaglianza tra gli Augusti e i Cesari, loro «figli».
TALE VOLONTÀ POLITICA trovò espressione nel porfido rosso, la più dura fra le pietre, che ben rappresentava i valori della forza e della dignità. Tra i frammenti scultorei esposti si distingue la testa di Galerio da Felix Romuliana (Gamzigrad) sormontata da una corona trionfale a medaglioni, abbellita con busti di divinità come nelle corone indossate dai sacerdoti. In porfido rosso è anche una statuetta votiva di Igea, dea della salute, scoperta in una villa a Mediana.
L’ESERCITO fu il principale mezzo di diffusione della religione romana, sia nelle strutture militari che negli abitati sorti lungo le vie d’acqua del Danubio e della Sava. In mostra non poteva mancare, dunque, una sezione dedicata ai culti: alle radiose teste in marmo di Ercole e Venere si affiancano i rilievi del dio Mitra da Transdierna /Tekija e Vinceia/Smeredevo: in entrambe le lastre è rappresentato il rito del sacrificio del toro (tauroctonia) dal quale prendeva luce questa divinità misterica adorata dagli oppressi.
Degno di menzione, infine, il Cammeo di Belgrado, piccolo capolavoro che – attraverso le sfumature policrome – esalta le virtù di un personaggio a cavallo: si tratta probabilmente di Costantino il Grande, nato a Naissus e autore del celebre editto del 313 che «legalizzò» il cristianesimo.
DOPO IL CICLO dell’«Archeologia ferita», che ha portato ad Aquileia reperti di paesi colpiti da guerre e terrorismo, con Tesori e Imperatori. Lo splendore della Serbia romana, la Fondazione Aquileia – per il tenace impegno del suo presidente Antonio Zanardi Landi – offre al pubblico l’occasione di conoscere un paese con un patrimonio archeologico di notevole impatto e una sponda protesa all’amicizia fra i popoli.

La Stampa 1.6.18
Il Prozac svela uno dei suoi segreti e i nuovi psicofarmaci sono più vicini
Ma è polemica sugli antidepressivi: “Prescritti con superficialità”

qui