sabato 12 ottobre 2013

il Fatto 12.10.13
Tutti in piazza
Costituzione da difendere per una nuova Italia
di Maurizio Landini


È sempre complicato, nel nostro Paese, portare avanti una discussione sul merito delle questioni. È facile che ogni ragionamento venga spostato su un terreno di scontro ideologico, e questo diventa il modo per non confrontarsi in maniera reale e concreta sui vari temi. Lo stesso tentativo è in atto sulla modifica della nostra Carta costituzionale voluta dal governo. Si dice che chi la vuole difendere è il conservatore, mentre chi sostiene la necessità di rivederla è l'innovatore. Troppo comodo. Noi oggi scendiamo in piazza perché pensiamo che questo Paese vada proprio cambiato, un cambiamento profondo, e che questo sia possibile solo attraverso la piena applicazione della Costituzione. Non è un baluardo, una bandiera da agitare per lasciare le cose invariate. Quei principi e quei valori sono assolutamente attuali e dobbiamo farli vivere perché rappresentano la chiave di volta per superare le troppe ingiustizie sociali che si sono determinate, per costruire un’Europa che non sia solo vincoli economici e diktat della Bce.
LA COSTITUZIONE recita, nel suo primo articolo, che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro. Oggi di lavoro ce n’è poco e lo sfruttamento ha raggiunto livelli insostenibili. Siamo al punto che chi lavora è povero. Prendendo come timone la nostra Carta costituzionale , bisogna che il governo ponga al centro delle sue politiche il lavoro, facendo investimenti per rimettere in moto l’economia reale. Grazie agli articoli 2, 3 e 39, ai lavoratori del nostro Paese, e non solo a quelli della Fiat, è stata restituita la libertà di scegliersi il proprio sindacato, di organizzarsi collettivamente per contrattare la propria condizione. La Costituzione ci parla della responsabilità sociale delle imprese, del fatto che non possano recare in alcun modo danno alla collettività. Pensiamo all’Ilva di Taranto e alla possibilità che sia tolta alla nefanda proprietà dei Riva per risanare il territorio e innovare i cicli produttivi per non inquinare. Parla del diritto alla salute e all’istruzione, che deve essere garantito dal pubblico a tutti i cittadini.
Nessuno dice che non abbia bisogno di manutenzione. Ma i cambiamenti che il governo vuole apportare sono sulla regola delle regole, il modo in cui si può cambiare la Costituzione. Questo vuol dire creare un precedente pericoloso e può valere per qualsiasi governo. Nessuno è contrario a ridurre il numero dei parlamentari o a superare il bicameralismo perfetto, ma ciò si può fare con un percorso ordinario, senza andare a intaccare l’articolo 138.
Oggi siamo in piazza perché crediamo che l’applicazione della Costituzione sia il vero processo di cambiamento di cui ha bisogno il nostro Paese.
*Segretario generale Fiom

il Fatto 12.10.13
Napolitano: “Cambiare la Carta”
Oggi tutti in piazza per dire NO
di Sandra Amurri


Ieri, alla vigilia della grande manifestazione in difesa di quella Costituzione che i senatori Violante del Pd e Quagliariello del Pdl definiscono “usurata” – che contrasta con ciò che, invece, attende di essere “applicato” – arriva il messaggio che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha inviato ai partecipanti al Forum italo-francese “Dalle riforme, la rinascita” a Cogne in Val d’Aosta, in occasione del 70° anniversario della Carta di Chivasso sull’autonomia dei popoli alpini. Parole di lode e di incoraggiamento, quelle del Garante della Costituzione, a chi si appresta a “manometterla”: “È ora possibile e necessario affrontare il compito di un sapiente rinnovamento del nostro ordinamento costituzionale, coerente con i suoi valori fondanti” dice dopo aver ricordato “il valore ancora attuale della Carta come strumento di indirizzo e stimolo in direzione di una Europa di pace e di progresso”, e conclude con l’auspicio “che dal confronto con i nostri amici e vicini francesi possa scaturire un utile arricchimento della riflessione in corso nel nostro Paese e delle proposte che sono sul tappeto”. Le proposte sono quelle partorite dai Saggi, che partono dalla modifica dell’articolo 138; azione giudicata “pericolosissima” dai cinque promotori dell’iniziativa di oggi poiché “rappresenta la creazione di un precedente che nel futuro potrebbe rivelarsi disastroso”.
QUELLO CHE inizierà alle ore 14 in piazza Esedra e si concluderà alle 15:30 a piazza del Popolo dove si svolgeranno gli interventi, infatti, segnerà il primo grande passo di un lungo cammino. Dal palco parleranno i cinque promotori Stefano Rodotà, Maurizio Landini, Lorenza Carlassare, Gustavo Zagrebelsky, don Luigi Ciotti, oltre a personalità impegnate nella difesa e per l’applicazione della Costituzione e il direttore del nostro giornale, Antonio Padellaro, con il vicedirettore Marco Travaglio, che “presenteranno” le 440 mila firme raccolte finora chiedendo che si costituisca un Comitato unitario per consegnarle ai presidenti di Camera e Senato. La manifestazione, essendo in difesa della Costituzione ma soprattutto avendo come obiettivo quello di rivendicarne l’applicazione, costituisce il primo momento di un impegno continuativo per “promuovere un'idea di società, divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e, ora, operano per manometterla formalmente”. Un “programma per un futuro da costruire in Italia e in Europa”. Più di 200 le adesioni di associazioni nazionali e locali da Faenza a Catania , comitati, movimenti come Peacelink, Legambiente, AssoPacePalestina, Psichiatria democratica, Arciragazzi, Fiom-Cgil, Libertà e Giustizia, Gruppo Abele, Arci, Rete della Conoscenza, Emergency, Comitati Dossetti per la Costituzione , Articolo 21, Flc-Cgil, Un ponte per il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, Voglio Restare, Papillon, Comunità San Benedetto al Porto, Attac, Agende Rosse, Associazione di Persone Immigrate e di Origine Straniera, Fondazione Teatro Valle Bene Comune, La Scuola di formazione politica Antonino Caponnetto, solo per citarne alcuni. Oltre ai partiti come Sel, Rc, Pdc, Italia dei Valori, il movimento Azione Civile mentre del M5S ha aderito soltanto il gruppo di Pescara. L'Anpi, come abbiamo scritto ieri, non ha aderito mentre lo ha fatto la sua vicepresidente, ex senatrice del Pci, Carla Nespolo che assicura: Io ci sarò con i partigiani nel cuore ” e spiega “Oggi in ballo c’è la difesa della Costituzione, e io credo che bisogna partecipare a ogni manifestazione che abbia questo come oggetto. Non c’è tempo né occasione da perdere. Il Parlamento ha già approvato in prima lettura la deroga all’articolo 138”. Oggi in piazza ci saranno donne, uomini logorati dalla crisi, smarriti dalla perdita di valori condivisi e da quella garanzia costituzionale che è il Bene Comune e che ancora credono che la Carta, scritta con il sangue di chi ha dato la vita per la libertà e la difesa dei diritti, sia la sola ancora di salvezza per non naufragare nel mare che accoglie solo forti, potenti e impuniti.

il Fatto 12.10.13
La Fiom ci sarà
Cgil spaccata, torna il gelo fra Camusso e Landini
di Salvatore Cannavò


La Cgil ha appena rinnovato il proprio sito nazionale. Quando lo si apre, subito a destra si può cliccare sul testo completo della Costituzione, a riprova di quanto questa sia il documento fondativo del sindacato. Eppure, oggi, a manifestare per la difesa della Carta, la Confederazione di Susanna Camusso non ci sarà. Ci saranno la Fiom-Cgil che, con il suo segretario generale, Maurizio Landini, è tra i principali sponsor dell’iniziativa. Ci sarà la Flc-Cgil, la categoria dei lavoratori della conoscenza (scuola, università e ricerca). Ci sarà l’area di minoranza interna, “la Cgil che vogliamo” coordinata da Gianni Rinaldini. Ma il primo sindacato italiano non ci sarà. “Normalmente, la Cgil non aderisce a manifestazioni di cui non è la promotrice” fanno sapere da Corso Italia, cercando di non dare troppa importanza alla divergenza. Il segretario generale, Susanna Camusso, insieme ai segretari di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, ha ricevuto nelle scorse settimane un invito formale a partecipare. La leader della Cgil, però, ha cortesemente risposto che dal punto di vista del metodo il sindacato che dirige non si è sentito “coinvolto”. Di fatto, ha poi condiviso le critiche che al corteo ha mosso anche l’Anpi: manifestazione troppo politica, finalizzata a “ricostruire un campo della sinistra”. Landini, Rodotà, Zagrebelsky, Carlassare e don Ciotti hanno ribadito più volte che non hanno nessuna intenzione di fondare un “nuovo soggetto politico”. Non hanno negato, però, che la manifestazione ha un carattere di opposizione rispetto al governo delle larghe intese. La divisione, quindi, è più di fondo, e riguarda Enrico Letta e, di fatto, anche il Quirinale.
LA VICENDA si intreccia al congresso che la Confederazione sta per avviare con il varo dei documenti nazionali. All’ultima assemblea nazionale dei delegati Fiom, che si è tenuta a fine settembre, era sembrato di assistere al riavvicinamento tra Susanna Camusso e Maurizio Landini. Il segretario Cgil è intervenuta all’assemblea ed è stata salutata dagli applausi. La nuova “gelata” politica, però, potrebbe rimettere tutto in discussione. Nei giorni scorsi, ad esempio, è iniziata la discussione attorno a un documento organizzativo di revisione delle regole interne in cui si parla esplicitamente di maggiore centralizzazione delle decisioni e di maggior rispetto della disciplina interna. Una minaccia per quel-l’autonomia rivendicata da categorie come la Fiom.
Sulla manifestazione di oggi, inoltre, si registrano altre divisioni e polemiche. La Fiom, ad esempio, dovrà registrare la non adesione della principale componente della Cgil, lo Spi, il sindacato dei pensionati. Carla Cantone, che lo dirige, non sarà in piazza e ha ritenuto necessario avvisare personalmente Landini per assicurarlo che non si tratta di uno “strappo”. Nei mesi scorsi, però, proprio Cantone e Landini sembravano aver avviato un’intesa molto solida anche ai fini dei rapporti interni alla Cgil. Critica, ma da un altro versante, è poi la “sinistra” interna della Rete 28 aprile che proprio ieri ha annunciato la propria adesione a un’altra manifestazione, quella dei movimenti sociali, tra cui i No Tav, del 19 ottobre e “l’apprezzamento” verso lo sciopero dei sindacati di base del 18 ottobre.

l’Unità 12.10.13
Ancora una strage nel mare
Cinquanta migranti annegati. Un altro barcone si rovescia nel Canale di Sicilia, a 61 miglia dalla costa. I soccorritori riescono a salvare 200 persone
Quanti sono gli immigrati in Italia?
di Marco Rovelli


QUALCHE GIORNO FA HO SCRITTO, SUL MIO PROFILO FACEBOOK, UNO STATUS CHE È STATO POI CONDIVISO MOLTE VOLTE IN RETE: «Anche stamani supplenza in una classe, e la solita domanda: “Secondo voi quanti sono gli immigrati, in percentuale, sul totale della popolazione italiana?”. E ancora una volta la risposta egemone è: il 50%. Che gran lavoro hanno fatto i mass media in questi anni: veri scienziati della manipolazione. Poi, dopo aver detto le reali dimensioni del fenomeno, chiedi ai ragazzi quale paese in Europa ha il maggior numero di immigrati: l’Italia, rispondono; e ancora una volta reagisci a furia di realtà; e poi, ancora, in che modo arrivano i più? Con i barconi! Eh no! Terzo colpo assestato a certezze che parevano naturali: li vedi barcollare, vacillare, qualcosa è scardinato, almeno adesso, una piccola lacerazione, chi sa, magari si allarga». Insomma, che la percentuale degli stranieri sia attorno al 10/11% (considerando la presenza degli irregolari, che è solo stimabile) lascia basiti. Peraltro a me ha lasciato basito questa sovrarappresentazione iperbolica delle presenze degli immigrati, che appunto non può che essere frutto di un lavoro radicato e costante sull'immaginario da parte dei media. Ma altre cose vanno sapute, e non solo da parte dei ragazzi. In particolare, in relazione al nostro cimitero mediterraneo che si è fatto visibile nella tragedia dei trecento, appare primaria la questione di quelle genti in fuga da guerre e dittature che avrebbero il diritto di chiedere asilo e non possono farlo: e bisognerebbe sapere che l’Italia nel 2012 ha avuto 15.715 richieste di asilo, mentre la Germania ne ha avute 77.540, la Francia 60.560, la Svezia 43.865, la Gran Bretagna 26.175. Anche Belgio e Austria ne hanno avute più dell’Italia. La quale peraltro ha concesso lo status di rifugiato solo in 9.270 casi, mentre la Germania lo ha concesso in 22.165 casi, e la Francia in 14.325. La politica europea va certamente rivista, e in senso radicale, ma l’Italia, dalla sua posizione, come può chiederlo?

il Fatto 12.10.13
Non solo Lampedusa
Morti, lacrime e impotenza
di Bruno Tinti


Non è la sconfitta che pesa; è l’impotenza. L’anno prossimo a Gerusalemme, dicevano gli ebrei. Ma quando si sa che un anno prossimo non ci sarà, che non si può fare niente, che i 300 morti di Lampedusa e quelli di ieri saranno 3.000 domani; è allora il momento più buio: quando non si vede nemmeno più un barlume di luce.
Eppure l’obiettivo è chiaro; ed è anche condiviso da tutti: mai più. Mai più morti in mare, su una barca che li porta a una terra promessa di cui tante Lampedusa sono la porta. Mai più campi di concentramento, pudicamente nascosti sotto sigle diverse (Cie, Cpt), dove detenere in condizioni inumane gli scampati al mare. Mai più processi per reati assurdi giuridicamente e inaccettabili eticamente quali il soggiorno illegale nel territorio dello Stato. Mai più questa vergogna. Certo, mai più. Tanto le parole non costano niente. E poi la gente le beve con avidità: un fastidioso senso di colpa è molto diffuso. E dirsi “che vergogna” aiuta a liberarsene, a pensare ad altro. Ho fatto quello che potevo, ho preso posizione, mi sono indignato. Certo, adesso faranno qualcosa, non possono non farla. Cosa?
SI POSSONO impedire le migrazioni? Lo si può impedire a gente che vive in condizioni tali rispetto alle quali costituisce alternativa accettabile lavorare come bestie per anni per pagarsi un viaggio allucinante tra montagne e deserti, in barconi semidemoliti, senza cibo né acqua, con donne e bambini, perfino con donne incinte? Ovviamente no. E infatti non ci si riesce.
   Si possono stipulare accordi con gli Stati da cui questa gente proviene per evitare la migrazione? Ovviamente no. Come si può pensare di accordarsi con Assad, Gheddafi, Mubarak, i capitribù che hanno sostituito il primo e gli integralisti musulmani e i militari che hanno sostituito il secondo? Si possono stipulare trattati con Mali, Sudan, Etiopia, Eritrea e Paesi simili? E se anche si inviassero risorse economiche per migliorare le condizioni di vita di questi Paesi (il che, del resto, già avviene con i cosiddetti aiuti umanitari), si può pensare che di esse non si approprierebbero i vari tiranni che se ne sono appropriati finora?
   Allora è ovvio che la migrazione continuerà; anzi aumenterà fino a diventare inarrestabile, come è sempre successo, fin dall’alba dell’uomo. Dunque bisognerà disciplinarla, organizzarla, assorbirla. Come?
   Certo, non accettando (sperando, forse?) che affoghino e chiasso finito. Bisogna soccorrere, ospitare, inserire, garantire vita e lavoro. In Italia? Dove c’è un tasso di disoccupazione del 12 % e del 40 % per la disoccupazione giovanile (cioè sotto i 35 anni!)? In Europa, ovviamente quella del Nord, quella ricca, privilegiata? Sì d’accordo, ma poi? Quella non li vuole. Ringrazia Dio ogni giorno perché le porte del Mediterraneo sono in Italia, Spagna, Grecia. Fatti loro. Che vergogna, 300 morti, l’Italia (l’Italia) deve fare qualcosa. Mandiamo un po’ di soldi per la sezione italiana del Frontex (European Agency for the Management of Operational Cooperation at the External Borders of the Member States of the European Union), nome altisonante per un’organizzazione impotente.
MA FORSE 300 morti sono un argomento forte. Forse la vergogna arriva fino al Baltico, magari anche nell’Oceano Glaciale Artico. D’accordo Italia, seleziona, dividi i migranti politici da quelli economici e dai delinquenti e terroristi. Tieniti i politici che hanno diritto di asilo; metti in carcere i delinquenti e i terroristi; e poi studieremo come dividerci quelli che restano. Sia chiaro, non l’ha ancora detto nessuno. Ma proprio nessuno. Ma supponiamo che, rossa per la vergogna, la Ue pensi che qualcosa si deve pur dire. E supponiamo che dica questo; che altro potrebbe dire? E a questo punto cosa si fa? È ovvio, per prima cosa si costruisce un gigantesco Cie, anzi, chiamiamolo con il suo nome, un campo di concentramento. Anzi, parecchi, perché i migranti non arrivano solo dal mare; anzi, da lì arriva solo il 15%; gli altri arrivano con visti turistici o comunque via terra. Quindi bisognerebbe “rastrellarli” tutti (la parola fa venire i brividi), metterli nei campi, identificarli, separarli etc. Identificarli? Come? Niente documenti (vero o no che sia), documenti falsi, dichiarazioni dubbie: vengo dalla Siria, dal Marocco, dalla Somalia, mi chiamo... Impronte digitali, richieste al presunto Paese d’origine... Quando risponderanno? Ma poi, risponderanno? E comunque, quanto tempo ci vorrà? E intanto?
NEI CAMPI di concentramento naturalmente. Altro che i 18 mesi previsti dalla legge, qui l’unità di misura sarebbero gli anni. In Italia ci sono circa 700.000 immigrati irregolari e aumentano al ritmo del 2 % all’anno (Istat 2010). Dunque dovremmo tenere in campo di concentramento circa un milione di persone per una media di 2 anni a testa, se va bene uno e mezzo. E, a parte ogni altra considerazione, parlandone come se non fosse una cosa ripugnante, chi paga? La detenzione (cosa altro è?) costa 113 euro al giorno per ogni detenuto (ministero Giustizia). I campi di concentramento ci costerebbero più di 41 miliardi di euro all’anno. E io sospetto che la Ue si quoterebbe volentieri per pagarceli.
Impotenza. Ma anche rabbia. Non contro i migranti, naturalmente. Contro chi parla di solidarietà, di umanità, di morale; e che si ferma lì: cosa fare non li riguarda. Contro chi se la prende con la legge. Che è scritta male, ovviamente; ma chi è in grado di scrivere leggi adatte a regolamentare la storia? Contro tutti, alla fine. Che è un modo ancora più doloroso di sentirsi impotenti.

l’Unità 12.10.13
La rivolta dei senatori 5 Stelle
E Grillo finisce in minoranza
I senatori confermano: giusto abolire il reato di immigrazione clandestina. Venerdì l’incontro con il leader e Casaleggio
di Claudia Fusani


Un leader politico delegittimato. E un guru commerciale che comincia a essere sospettato di eccesso di cinismo. Qua e là il dubbio che Grillo e Casaleggio, in costante tensione elettorale, annusino l’aria e abbiano capito che stavolta i voti i Cinquestelle li possono raccattare più a destra che a sinistra. Dove l’iniziativa di abrogare il reato di immigrazione clandestina risulta indigeribile. Nonostante le cronache di tragedie quotidiane.
È quello che rimane nelle riflessioni dei cittadini-parlamentari pentastellati il giorno dopo la sconfessione pubblica, via blog, di Grillo e Casaleggio dei senatori Cinquestelle che hanno avuto l’idea di cancellare il reato di immigrazione clandestina trovando l’appoggio politico di Pd, Scelta civica e Socialisti.
Giovedì sera l’assemblea parlamentare dei grillini è stata più veloce del previsto, prima delle 23 tutti a casa, tre ore scarse. Nessuno strappo interno e totale sostegno all’emendamento di Andrea Cioffi e Maurizio Buccarella. Semmai il giorno dopo emergono «stupore» per un leader politico «che esterna senza sapere come hanno lavorato le sue truppe». E «posizioni diverse», per non dire «ideali opposti» rispetto al Grillo pensiero. Per evitare dannose piazzate, l’assemblea non ha votato e ha rinviato a un incontro con Grillo e Casaleggio che avverrà «entro la prossima settimana» (è probabile venerdì) e nella solita «località segreta» perché i panni sporchi vanno lavati in casa e in un orario che non danneggi l’attività parlamentare. Ma l’incontro di cui sopra rischia di arrivare troppo tardi. Non tanto perché il provvedimento che cancella il reato di immigrazione clandestina possa diventare legge prima di venerdì. Bensì perché la cronaca incalza, il canale di Sicilia consegna cadaveri e barconi di disperati. E i Cinquestelle non possono permettersi di indugiare su un provvedimento come questo per le bizze e/o i ripensamenti del Capo.
Insomma, stavolta Grillo sembra averla fatta grossa. E la sua ossessione di stare «contro» e «fuori da tutto» (voto contrario anche ieri mattina sulla legge contro il femminicidio) rischia di diventare insostenibile per i parlamentari. Soprattutto per i senatori, la squadra che ha perso più pezzi in questi sette mesi di legislatura (cinque su 53, tre di loro Anitori, De Pin, Gambaro, da ieri hanno dato vita a una nuova componente nel gruppo misto, il Gap, gruppo azione popolare). Andrea Cioffi è tra i più integralisti tra i grillini. Eppure non ha avuto dubbi nello smentire pubblicamente il suo leader. «Sono sereno perché l’emendamento è stato condiviso da tutti i senatori», ha detto mostrando il verbale della riunione a palazzo Madama. S’aggira una domanda. Più che pertinente: «Come mai Grillo non ne sapeva nulla visto che un suo uomo fidatissimo come Claudio Messora è responsabile comunicazione proprio qui al Senato?».
TUTTI DISSIDENTI
Cioffi e Buccarella non mollano il punto. Non hanno cioè alcuna intenzione di ripensarci. Così i loro colleghi senatori sembrano delle stessa idea. «Prima di essere un parlamentare sono un attivista e quindi una persona. Voto secondo le indicazioni dei cittadini ma penso in proprio, secondo coscienza», scrive su Facebook il senatore Francesco Campanella. Che continua: «È criminale respingere donne e uomini che cercano di fuggire da fame, guerra, malattie. Non cercate di mettere poveri contro poveri. Chi impoverisce i nostri cittadini non sono i migranti ma i billionairs che si stanno arricchendo anche adesso mentre i nostri giovani emigrano». Ancora più chiara la senatrice Elisa Bulgarelli, che boccia l’assemblea dell’altra sera come «un’occasione sprecata», il momento per affrancarsi dal Capo. Avanti con l’emendamento e appoggio ai colleghi, ma, dice, «avrei preferito una discussione più aperta per arrivare a una decisione a fine riunione. Invece ci siamo limitati ad avallare la scelta di aspettare il confronto promesso con Beppe Grillo, troppo poco».
Quello che ha fatto infuriare i senatori grillini è stato il contenuto e il tono dei due post di Grillo. «Sicuramente promette decisa Bulgarelli chiederò spiegazioni su una frase del post che non condivido: quella sulle percentuali di voto da prefisso telefonico. Il Movimento 5 Stelle non è mai andato a caccia del consenso elettorale fine a se stesso. Mai. Lo aveva ribadito lo stesso Grillo la scorsa primavera, quando i sondaggi ci davano in calo». Contestare il capo è esercizio di democrazia. Finora nei Cinquestelle ogni divergenza è stata punita. Con l’espulsione e la messa al bando. Questa volta sembra un po’ difficile. Si ribella anche un altro purista di Grillo, il senatore Mario Giarrusso. «Il post di Grillo è inesatto dice perché dice che i senatori non sapevano quando invece tutti noi sapevamo. Il fatto è che nessuna persona intelligente può pensare che una multa di 3-4 mila euro, fatta a una persona nullatenente costituisca un deterrente a non venire in Italia». Un Capo quindi, non solo poco informato ma anche ideologico. Perché? E per conto di chi?
Critica persino un fedelissimo come Alessandro Di Battista: «Quello di Grillo è stato un post eccessivamente di pancia». E si ribella il senatore Luis Orellana, un tempo in predicato per diventare capogruppo: «Inopportune posizioni autoritarie fanno perdere autorevolezza. Peccato». Un tweet che ha il sapore del rimpianto.

il Fatto 12.10.13
Metodo 5 Stelle I guru pronti a dare una lezione
La prossima settimana vertice con Grillo e Casaleggio
Gli eletti ottengono il chiarimento richiesto ma i due verranno a spiegare che hanno ragione loro
di Paola Zanca


“Gianroberto, ne dobbiamo parlare di persona”. “Si certo, non c’è problema, venite su quando volete”. “No, forse non ci siamo capiti: mi sa che è meglio che vieni giù te”. La telefonata è dell’altro ieri. Tarda mattinata. Maurizio Buccarella, autore dell’emendamento sull’abolizione del reato di immigrazione clandestina, ha appena letto sul blog la scomunica dei due fondatori del Movimento. Chiama Casaleggio e gli spiega che è ora di finirla con questa storia di fare politica da Milano. Mario Giarrusso glielo aveva detto qualche ora prima: “Dovete prendervi un ufficio a Roma, non si può più andare avanti con questa storia”. E poi, giovedì sera, l’assemblea che per la prima volta ha visto uniti talebani e dissidenti, chiusa con una richiesta all’unanimità: venite qui, scendete a vedere che cosa facciamo. Così, la prossima settimana, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio sbarcheranno nella Capitale per “soddisfare il reciproco desiderio di incontrarsi urgentemente”. Li muovono sentimenti diversi. Gli eletti hanno bisogno di sentirsi considerati, di non sentirsi liquidati con quattro righe sul blog, di conoscere - molti di loro non lo ha mai visto - il milanese guru della comunicazione. I due leader, invece, hanno voglia di guardare tutti in faccia e chiarire una volta per tutte il principio cardine del M5S: voi 163 (o quanti ne siete rimasti) non siete nessuno.
NON SARÀ, ovviamente, un discorso così brutale. Sarà una “lezione sul metodo Cinque Stelle”, un “chiarimento di alcuni punti che si erano dati per scontati”. Entrambi sanno che durante l’assemblea di giovedì è emersa “molta confusione”, addirittura “disinformazione” sui princìpi del M5S. A cominciare da quello per cui le questioni di “grande rilevanza sociale” non contemplate dal programma non possono essere presentate dai singoli portavoce. A Genova e a Milano, ieri, c’era un po’ di “scontento nel vedere che molti non hanno ben capito qual è il loro ruolo”, un discreto malumore nel sapere che il post sulle regole del M5S è stato bollato come “scritto da un informatico senza logica”. L’arrabbiatura feroce di due giorni fa però è passata. Il post di scomunica ha raggiunto l’obiettivo voluto: ribaltare i titoli dei giornali che, al mattino, aprivano sul “reato di clandestinità abolito grazie ai 5 Stelle”. Milioni di voti persi, nella logica di Grillo e Casaleggio. Che hanno scritto quel post in maniera “lucida e razionale” proprio nella speranza di vedere i titoli dei giornali tornare su un punto fermo: “Diktat di Grillo contro i clandestini”. Una “operazione chirurgica, matematica”, la definiscono a Milano, per riequilibrare il danno comunicativo (e la fuga di elettori) del giorno prima. “Contano i cittadini , la massa - ripetono - Le opinioni dei 160 eletti si possono sacrificare”. Sono certi che saranno in grado di convincere deputati e senatori che il metodo viene prima di tutto. “Si farà la pace”, sono tutti in debito di riconoscenza con Grillo, “si scannano, urlano, ma alla fine capiscono”. Deve esserne consapevole Elisa Bulgarelli, senatrice emiliana, che ieri si disperava: l’assemblea di giovedì è stata una occasione sprecata, bisognava “andare fino in fondo” invece hanno “rimandato” tutto al confronto con Grillo e Casa-leggio. I toni accesi degli ortodossi sono già tornati nei ranghi. Alessio Villarosa, capogruppo alla Camera, due sere fa dava a Grillo dell’ “impulsivo”. Ieri se la prendeva con il titolo de l’Unità che parla della legge “Bossi-Grillo”. C’è chi è disposto a giurare che davanti ai due leader - non è ancora chiaro se l’incontro si terrà in un agriturismo fuori Roma o in Parlamento - come al solito nessuno oserà alzare la mano. Sempre che l’appuntamento non venga rinviato. È già successo con gli incontri mensili, con l’avvio della piattaforma, con le conferenze stampa milanesi, forse perfino con il V-day del 1 dicembre a Genova. Già ieri il blog ha archiviato l’argomento. Ha chiesto l’impeachment di Napolitano,attraverso un post di Paolo Becchi: si deve dimettere perchè ha “snaturato il senso politico e morale della figura del Capo dello Stato”.

l’Unità 12.10.13
La democrazia del puparo
di Michele Ciliberto


FRA PAOLO SARPI, UN GRANDE ITALIANO, DICEVA CHE NEL NOSTRO PAESE NON È POSSIBILE VIVERE SENZA PORTARE UNA MASCHERA. Aveva, penso, ragione e sarebbe interessante cercare di capire le radici di questa doppiezza che, nel migliore dei casi, diventa dissimulazione (su cui ha scritto pagine di singolare acume Rosario Villari)
Se le crisi hanno un merito non sempre e, certo, non necessariamente è proprio quello di spingere gli individui a togliersi la maschera, e a mostrare, per una volta, il loro vero volto, quello che effettivamente sono. È accaduto, nei giorni scorsi, con il Pdl che, sotto i colpi della crisi, si è, in sostanza, diviso in due tronconi, che a fatica riescono a stare ancora insieme; sta accadendo in queste ore con Grillo e Casaleggio, i quali hanno mostrato che cosa effettivamente si celi dietro il loro lessico pesante e volgare: una violenza, un rifiuto del diverso, una intolleranza che assume addirittura toni razzisti, fino al punto di suscitare il consenso di un personaggio come Bossi. E tutto questo proprio quando sarebbe necessario lavorare a un nuovo concetto di nazione che spezzi il nesso moderno, e ormai insostenibile, tra nazionalità e territorio. Questa caduta delle maschere, e la riduzione all’essenza dei volti e dei comportamenti, è uno degli aspetti, al tempo stesso, più grotteschi e più moralmente tragici della stagione che ci è toccato in sorte di vivere. Ma è anche credo, molto positivo; aiuta a fare chiarezza e a farci uscire dalla palude in cui stiamo, ormai da anni, e senza una bussola. Su questi problemi l’Unità ha però già insistito a sufficienza, e non mi si pare sia il caso di insistere ancora.
Vorrei invece sottolineare un punto venuto alla luce in questi giorni in cui si annida un processo distruttivo della democrazia rappresentativa. In sintesi, Grillo ha sostenuto, in polemica con i suoi stessi parlamentari, che essi devono tenersi lontano, non prendendo posizione, da tutti i problemi che non sono stati oggetto del «contratto» elettorale. Ha, cioè, trasformato i «rappresentanti» del popolo in «delegati», tenuti in quanto tali, a una rigida osservanza dell’oggetto della «delega», senza alcun autonomia. Per riprendere i termini del dibattito che ci fu alla Costituente, e da cui è nata la nostra Costituzione, ha sostituito alla concezione della democrazia come «indirizzo» quella della democrazia come «mandato». Con una conseguente dissoluzione, da un lato, della democrazia rappresentativa; dall’altro, della funzione di controllo che il popolo continua a esercitare sul Parlamento e sul governo, anche dopo le elezioni, attraverso la pluralità di strumenti di cui è dotata la vita democratica di un Paese, di una Nazione.
Pupi, nelle mani di un puparo, che sarebbe il «popolo» chiamato, come una statua egizia, a emettere sentenze solo nei giorni stabiliti. Esito davvero paradossale per un movimento che ha teorizzato il primato della «democrazia diretta», alla quale viene, in effetti, sostituito una forma di populismo leaderistico, che si configura come una variante delle moderne forme di dispotismo. Rousseau, che certo di democrazia diretta se ne intendeva e che sulla democrazia non ha bisogno di lezioni, nel Contratto sociale critica proprio quelli che pensano di risolvere la democrazia nell’andare, periodicamente, a votare. La democrazia, in effetti, è un’altra cosa. Ma fare un nome così impegnativo di fronte ad atteggiamenti tanto miseri non ha molto senso: qui siamo fuori dalla democrazia; qui l’unica cosa che conta è il risultato elettorale, cui, con cinismo, viene sacrificato anche il totem della democrazia diretta, aizzando gli istinti, e i risentimenti oggi così violenti e così diffusi, degli italiani: come buttare benzina su una casa che brucia.
Sarebbe, però, sbagliato, lo voglio dire, non comprendere il travaglio che si è aperto nel Movimento 5 Stelle, che non è casuale, ma viene anzi da lontano, e ha a che fare con i limiti e le insufficienze della iniziativa politica delle forze riformatrici e di sinistra. L’errore più grave sarebbe quello di non prendere sul serio quanto sta accadendo e non cercare di stabilire un rapporto positivo, e non strumentale, con queste forze. Non per dirigerle, tanto meno per annetterle, ma per cercare di individuare temi e problemi ai quali continuare a lavorare in modo solidale. Non ho mai creduto, e non credo ora, che sia venuta meno la differenza tra destra e sinistra; ma la sinistra, e di questo invece sono convinto, oggi si manifesta in forme nuove ed è alla ricerca di «legami» di tipo nuovo e di nuove forme di protagonismo e di partecipazione.
Alla base del travaglio attuale nel Movimento 5 Stelle ci sono anche questo bisogno e l’esigenza di andare oltre i vecchi confini. Di tutto questo le forze riformatrici devono avere consapevolezza, e lavorare in modo lungimirante.


Corriere 12.10.13
«Il diktat del capo? Prende più voti di quanti ne perde»
Corbetta: «Grillo è riuscito a fermare l’abbraccio dei suoi con la sinistra»
di Emanuele Buzzi


MILANO — «Beppe Grillo che sconfessa i suoi senatori? Una mossa non inattesa, c’era da aspettarsela a mio avviso. Grillo ha solo ribadito quelle che sono le sue posizioni da sempre — rigide e restrittive — in tema di immigrazione». Secondo Piergiorgio Corbetta, sociologo, membro del consiglio direttivo dell’Istituto Cattaneo, autore con Elisabetta Gualmini del saggio Il partito di Grillo (Il Mulino), la presa di distanze del leader Cinque Stelle è quasi un passaggio obbligato, poco importa se ciò comporta anche la perdita di qualche elettore per il Movimento.
«Sono concetti già noti da tempo, anzi, mi hanno sorpreso i parlamentari. Il saldo per i Cinque Stelle sarà comunque attivo, i voti che acquista sono più di quelli che perde».
Come mai ne è convinto? Che conseguenze avrà sull’elettorato dei Cinque Stelle?
«La protesta accomuna mentre la proposta divide. E il partito di Grillo ha un elettorato interclassista, che va da una sinistra radicale a una destra populista moderata. Un’ala molto forte presente già da tempo, anche se nel caso del Movimento le categorie sono difficilmente applicabili. In campagna elettorale non si era mai espresso su certi argomenti, ora l’ha fatto e questo creerà delle variazioni».
Quali?
«Perderà consensi a sinistra, ma allo stesso tempo ne guadagnerà nel centrodestra. E non soltanto lì».
Perché?
«Per diversi motivi. Anzitutto, l’argomento immigrazione in politica è bollente e molto pagante dal punto di vista elettorale. Gli italiani hanno un parere fortemente negativo verso gli immigrati. Una posizione presente soprattutto nel centrodestra, ma c’è anche una componente di gente che vota a sinistra, preoccupata dalla crisi, che è disposta ad appoggiare politiche di contenimento».
E per gli altri elettori di sinistra? Ma non è stata una mossa avventata nei loro confronti?
«No. Grillo ha ragione quando parla di percentuali da “prefisso telefonico”. Anzi, ha già riconquistato consensi».
In che senso?
«Nel momento in cui i Cinque Stelle si stavano stendendo verso l’abbraccio della sinistra, Grillo con la sua sortita è riuscito a riposizionarsi in mezzo agli altri e a recuperare gli elettori sfiduciati».
Ma il post ha mostrato anche dei limiti del Movimento?
«Nulla di nuovo. Si tratta di un partito leaderistico, questo lo si vede ogni giorno».
Un deficit, quindi?
«La situazione politica attuale è talmente sconclusionata che il Movimento ne potrebbe giovare. Siamo di fronte a un centrodestra in crisi profonda e a un centrosinistra in preda a una ricerca di identità: molti delusi dai due schieramenti potrebbero far confluire le loro preferenze verso i Cinque Stelle».
Saranno in grado di ripetere l’exploit di febbraio alle Politiche?
«Se si vota nel giro di un periodo breve, sei mesi-un anno, è possibile. Nel lungo periodo, invece, se continua su questa strada, il Movimento mi sembra destinato a perdere consenso».
Come mai?
«Il voto di protesta è un voto che fluttua e per mantenere percentuali così alte serve un consolidamento, anche istituzionale, che ora non c’è. Il Movimento è ancora troppo Grillo-dipendente».

Corriere 12.10.13
Già sparito l’«effetto crisi»: centrodestra di nuovo avanti
Pd in calo di oltre 4 punti
di E. Bu.


Operazione sorpasso: questa, in estrema sintesi, è la novità più rilevante del sondaggio Swg per il Corriere della Sera sulla credibilità dei partiti, la fiducia nel governo e le intenzioni di voto. Dopo le dimissioni dei ministri, la crisi annunciata e la bagarre in Senato, il centrosinistra (36,4%) aveva superato il centrodestra (34%) nel termometro elettorale. Ora, a una sola settimana di distanza, le parti si sono di nuovo invertite. Il Pd cala di oltre 4 punti percentuali, passando dal 31,2 al 27, e la coalizione si attesta — grazie anche a un passo in avanti di Sel al 5,1 — al 32,9. Il centrodestra recupera quasi un punto e mezzo e arriva al 35,4 (era al 34), tornando ai livelli pre-voto, nonostante un Pdl ancora in lieve flessione al 24,6%. Tra gli altri partiti, i Cinque Stelle ritornano ai valori di inizio ottobre, intorno al 20%, mentre i centristi recuperano qualche decimale, arrivando al 6,3% (con Scelta civica al 5,1%). Anche per quello che concerne la fiducia nell’esecutivo si ripropone un ritorno ai livelli pre-voto di fiducia, con valori che si attestano intorno al 48%: «Si ripropone il tema di una soluzione governativa che raccoglie un gradimento legato soltanto alla preoccupazione del salto nel buio ma continua a convincere poco l’opinione pubblica». Anche la credibilità dei partiti è in calo. Il Pd, da dicembre 2010 a oggi, «ha due momenti positivi in concomitanza dell’avvento del governo Monti, ritenuto più lontano dal centrodestra in quanto sostituiva Berlusconi, e all’avvio del governo Letta», il Pdl «segnala un calo che si interrompe con il risultato elettorale, superiore alle attese, ma si aggrava con le vicende recenti», i Cinque Stelle, dopo il picco toccato in aprile (quando insidiavano il Pd), torna ai valori di dodici mesi fa, mentre «la Lega Nord presenta un calo, e nell’ultimo anno una stabilizzazione in una posizione debole».


l’Unità 12.10.13
Morto Priebke, negò l’Olocausto fino alla fine
Il boia delle Fosse Ardeatine è deceduto a Roma all’età di 100 anni
Il suo testamento: «Le camere a gas non c’erano, solo cucine. Le prove furono inventate dagli americani»
L’Anpi: «Assassino mai pentito»
di Gigi Marcucci


«Io ho conosciuto personalmente i lager. L'ultima volta sono stato a Mauthausen nel maggio del 1944 a interrogare il figlio di Badoglio, Mario, per ordine di Himmler. Ho girato quel campo in lungo e in largo per due giorni. C'erano immense cucine in funzione per gli internati e all'interno anche un bordello per le loro esigenze. Niente camere a gas». Nazista fino all’ultima intervista, e probabilmente fino all’ultimo dei suoi respiri. Convinto, nonostante documenti e qualche milione di testimonianze, che la verità e Dio militassero sullo stesso versante della barricata che nel lontano 1933 lo aveva visto schierarsi con Hitler e, pochi anni dopo, indossare la divisa delle Ss. Erich Priebke, l’uomo agli ordini di Herbert Kappler che coordinò personalmente il massacro delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine, è morto ieri a mezzogiorno nella sua abitazione romana, dopo aver doppiato la boa dei 100 anni. Immediato e laconico il commento del centro direttore del centro Wiesenthal, Efraim Zuroff: «L'età avanzata raggiunta da Priebke ci ricorda quanto sia importante perseguire i criminali nazisti ancora in vita. Molti di essi godono anche avanti negli anni di una salute robusta, per questo è giusto condurli davanti ad un tribunale».
«Per gli strani appuntamenti che la storia combina sottolinea Emanuele Fiano la morte di Priebke cade a poche ore dal settantesimo anniversario della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma», ricorda Emanuele Fiano. «Furono i colleghi di Priebke a strappare al ghetto 1023 ebrei romani per deportarli ad Auschwitz ricorda . Solo 16 di loro sopravvissero».
Lo “svizzero” rifugiatosi per molti anni in Argentina, a Bariloche, grazie alla complicità di alcuni sacerdoti in contatto con Odessa, la rete che permise a molti criminali nazisti di sottrarsi a processi e punizioni, è morto nel suo salotto. Consunzione dovuta all’età, hanno attestato i medici. «È stato trovato sul divano», dice il suo avvocato Paolo Giachini. «Io l’avevo sentito in mattinata. La sua morte non sembrava così imminente, ma in due o tre giorni ha avuto un crollo, quasi improvviso. Si è spento di vecchiaia ed è stato lucido fino alla fine», dice il legale, che parla di «dignità» del suo assistito, «nonostante la persecuzione subita». Persecuzione che evidentemente non ha impedito all’ex capitano delle Ss di affermare, in una sorta di videotestamento, che l’Olocausto è il prodotto di «una sottocultura storica appositamente creata e divulgata da televisione e cinematografia», che «si sono manipolate le coscienze lavorando sulle emozioni», che «le nuove generazioni, a cominciare dalla scuola, sono state sottoposte al lavaggio del cervello, ossessionate con storie macabre per assoggettarne la libertà di giudizio». Se il perseguitato «avesse mostrato segni di pentimento, avrebbe ottenuto le attenuanti generiche. Me lo disse il gup del tribunale militare», ha rivelato ieri l'avvocato Paola Severino, che, all'epoca del processo per il massacro delle Fosse Ardeatine, rappresentava come legale di parte civile l'Unione delle Comunità Ebraiche. «Nelle fasi successive del processo spiega l'ex ministro della Giustizia si è poi potuta constatare questa volontà di Priebke di non pentirsi». «Non potrò mai dimenticare conclude Paola Severino la voce di quei familiari ancora rotta dal pianto quando parlavano delle torture cui erano stati sottoposti i loro parenti in via Tasso o di come le Ss li avevano caricati sui camion per portarli alle Fosse Ardeatine».
Priebke era nato a Hennigsdorf il 29 luglio 1913. Al partito nazionalsocialista aderì quando aveva 20 anni.Finita la guerra fuggì da un campo di prigionia vicino a Rimini e si rifugiò in Argentina. Fu estradato in Italia nel 1995 e al termine di un lungo processo. Nel 1998, fu condannato all'ergastolo, ma vista l'età avanzata aveva già 85 anni fu mandato ai domiciliari. Nel 2009 ha ottenuto il permesso di lasciare la sua casa «per fare la spesa, andare a messa, in farmacia» e affrontare «indispensabili esigenze di vita».
Recentemente abitava in una strada tra via Boccea e via Aurelia. «Aveva il ghiaccio negli occhi dice Lucia che abita nel palazzo di fronte a quello in cui è morto Priebke quando andava a passeggio era altero. Quando lo incontravo provavo disagio e fastidio».
Forse quello sguardo gelido l’avevano incrociato molti prigionieri dei fascisti repubblichni quando Priebke lavorò a Brescia, come ufficiale di collegamento con Guardia nazionale repubblicana.
Fu lì che diede un forte impulso alle perquisizioni e alle azioni di rastrellamento, allo scopo di individuare le cellule cittadine di supporto ai partigiani che presidiavano le montagne bresciane. Centinaia di arrestati, appartenenti alla resistenza o semplici sospetti, furono catturati e rinchiusi nella prigione di Canton Mombello, per poi essere condotti nel quartier generale delle Ss, dove Priebke svolgeva, spesso personalmente, gli interrogatori. Una palazzina in stile liberty , lontana da orecchie e sguardi indiscreti.

l’Unità 12.10.13
Esteban Buch. Storico e musicologo intervistò il nazista nel 1989
Nel libro uscito nel 1991 la rivelazione che il criminale di guerra viveva a Bariloche
in Argentina
«Sicuro dell’impunità mi raccontò l’eccidio»
intervista di Jolanda Bufalini


ROMA Esteban Buch è a Roma per la messa in scena, ieri sera al Palladium nell’ambito di Romaeuropa Festival, di «Aliados» con il musicista Sebastian Rivas. «Aliados» è un opera di teatro musicale e politico contemporaneo. Gli alleati del titolo altri non sono che il generale August Pinochet e Margaret Thatcher. Esteban Buch continua il lavoro avviato con il libro «Il pittore della Svizzera argentina», nel quale, intervistato, compare Erich Priebke. È da quelle pagine che ha inizio la lunga storia che portò alla estradizione e alla condanna del criminale nazista. Quelle pagine furono, infatti, la fonte della serie televisiva della statunitense Abc «I nazisti di Bariloche» che nel 1994 suscitarono l’indignazione dell’opinione pubblica italiana. Ha sentito? Erich Priebke è morto proprio oggi, a 100 anni. Che impressione le fa?
«Sono abbastanza sconvolto, ho appena appreso la notizia, penso alla atrocità delle Fosse Ardeatine e, anche, che un po’ di giustizia è stata fatta».
Come conobbe Priebke?
«Lo conobbi nel 1989 a Bariloche. Non soltanto era libero ma si sentiva molto sicuro, lo intervistai e lui raccontò spontaneamente la vicenda delle Fosse Ardeatine. Il libro è uscito nel 1991, il resto lo sapete, l’apertura dell’inchiesta, l’estradizione».
Non aveva la percezione che rivelare quella atrocità sarebbe stato pericoloso per lui?
«Viveva ormai in una logica da pensionato e, anche, come esponente della comunità tedesca di Bariloche, era convinto di godere di una sorta di impunità». Come nacque il libro “il pittore della Svizzera argentina”?
«Erich Priebke non è il protagonista del libro, che è un altro nazista. Un collaborazionista di origine belga, anche lui rifugiato a Bariloche. Si chiamava Antoon Maes e faceva il pittore. Bariloche è una città del sud dell’Argentina che viene paragonata alla Svizzera. Mi interessava mettere in luce cosa ci fosse dietro questa immagine da cartolina. Lo scopo del libro era chiedere come fosse
possibile che questi personaggi vivessero indisturbati lì da 40 anni».
Lei è uno storico e anche un musicologo, uno studioso d’arte. Come si è creato il legame fra queste sue specializzazioni e la «caccia» ai nazisti?
«Mi interessava Bariloche e questa comunità tedesca nella quale vivevano alcuni nazisti. Quando si decise l’estradizione a Bariloche Priebke ebbe molte solidarietà. Mi interessava su un piano personale, civile. Antoon Maes era pittore e, così, nacque il soggetto che mi consentiva una riflessione fra arte e nazismo».
C’è un nesso fra questo suo impegno e la situazione dell’Argentina di allora? «Senza alcun dubbio, sentivo la vicinanza fra la vicenda dei rifugiati nazisti, la dittatura argentina e il sentimento di impunità che nutrivano i militari argentini».
Ha affrontato lo stesso argomento con “Aliados”?
«Assolutamente, la storia del rapporto fra Pinochet e Margaret Thatcher è un altro capitolo della stessa ricerca sulla memoria dei crimini e la giustizia».

il Fatto 12.10.13
Incontrato in carcere
Un severo robot del Male nazista
di Furio Colombo


Ho incontrato Erich Priebke in una cella spaziosa e appena imbiancata di Regina Coeli. Quattro brandine, ma lui era solo, dalla parte in cui arrivava una striscia di luce. Era in maglietta bianca, pantaloni da camminata in montagna, un militare che si è appena tolto la divisa. Si è alzato, forte, sano, molto alto. Sarebbe stato strano stringergli la mano e lui non ha fatto il gesto. Ha aspettato, senza l'ombra dell'impaccio o della timidezza, le braccia lungo il corpo, in attesa. Il mio compito di parlamentare in visita era di accertare le condizioni fisiche, le modalità di detenzione,il trattamento . Lui non era il tipo che si offre di parlare e io a lui non avevo niente da chiedere. Ho sentito, dallo scambio di battute tra l'ufficiale e il direttore del carcere entrato in cella con me, che il suo italiano – sia pure in tre o quattro parole – era buono. C’erano libri, due, sullo sgabello di legno accanto al letto, con le copertine foderate con cura di carta a fiori, c’era acqua in un bicchiere di plastica e niente altro, salvo indumenti piegati con cura sulla brandina più lontana. Qualche minuto di silenzio, e il direttore ha preso l'iniziativa di guidarmi a uscire. C'è stato un saluto a voce. Il suo “buonasera” quasi non accentato. La porta è stata chiusa, senza rumore. E allora mi sono accorto che il rumore che non finisce mai, neppure nel cuore della notte, nella macchina carceri, qui non si sentiva. C'era l'impressione di una pausa, non di una fermata per sempre. C'era un’immagine di sicurezza che gli veniva, ripenso adesso, dal vedere tutto e sempre da un lato solo della realtà, un lato che non cambia mai. Sicurezza non è la parola. Piuttosto decoro, nel senso di una scuola o accademia militare, dove l'ordine di ogni cosa, dalla posizione del corpo alla ripiegatura delle coperte, è il valore più alto. Eppure non è il sapere chi è e che cosa ha fatto che ti dice di più di questo prigioniero speciale, responsabile di un frammento atroce di guerra, condotto nome per nome, persona per persona, scrivendo, includendo, lavorando a rifinire le liste, fino al momento, preciso e ordinato, di cominciare a sparare uccidendo a grappoli, uccidendo a raffica, non è da questa tremenda e incancellabile sequenza che capisci meglio la storia (la sua e la nostra). È lui, la persona, avvolta nella grandezza del suo delitto, dalla precisione impeccabile con cui ha svolto il mandato, la figura che ingombra la scena. Occupa molto spazio e questo ingombro va decifrato. Qualunque cosa abbia mostrato o detto nel video e nel testo che ha lasciato per i suoi posteri o discendenti che aspettavano da lui una parola, Erich Priebke dimostra, contro la persuasione di Hannah Arendt (formata su Eichman e la sua vita impiegatizia al servizio dello sterminio) che il male non è banale. È intenzionale, intensamente partecipato, è vissuto come lo scopo stesso della propria esistenza, è la certezza della propria identità e della propria vita nel momento in cui diventa missione. Quella missione non avrà esitazioni, tentennamenti, non avrà mai un solo secondo pensiero. Di qui l'orgoglio, che è una sorta di compiaciuta superbia. “Fo ss e Ardeatine? Io l'ho fatto. Io, il capitano Priebke”. In questa esplorazione che adesso tento di fare sul reperto di memoria che mi resta, come entra l'identificazione di Erich Priebke, che istintivamente si presenta come ufficiale e gentiluomo, con la rozza e potente macchina nazista della morte, che non è la guerra, ma è un progetto a parte, fondato su un prolungamento dell'esercizio estremo del potere su ogni essere umano? Teniamo presente il nodo della tremenda vita italiana e romana della stagione di Priebke: l'ossessione razzista che considera la guerra agli ebrei e agli oppositori più importante di quella su cui si gioca la vita e la morte della Germania. Quegli ufficiali gentiluomini che, si suppone, si toglievano i guanti di pelle solo alla mensa, e a ogni incontro scattavano nel saluto del braccio teso e dei tacchi (non mi riferisco ai film ma alla memoria) hanno rubato oro agli ebrei di Roma, fingendo e mentendo in una sorta di farsa anche più spregevole delle due tragedie romane: la razzia del 16 ottobre 1943 (la deportazione di 1017 ebrei romani di tutte le età, compresi i neonati e i morenti) , e le Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944. il capolavoro – delitto per delitto – del capitano Priebke. L'orgoglio di quella missione compiuta non lo aveva mai abbandonato. Priebke era un soldato clonato – sentimenti e onore compresi – dalla intensa produzione di assassini dell'officina nazista. Nel suo caso, la produzione perfetta, del tutto priva di pensieri e ripensamenti, è durata a lungo. E noi sappiamo che lascia brutti segni e tragici eredi.

il Fatto 12.10.13
Il Centrio Wiesenthal
Caccia a quell’ultima sporca sessantina
di Alessandro Oppes


A ragione l'hanno chiamata “Operation Last Chance”, ultima opportunità. Perché il tempo, quello anagrafico, quando sono trascorsi ormai quasi settant'anni dalla caduta del III Reich, rende sempre più difficile ritrovare ancora in vita i criminali di guerra nazisti. Novantenni, alcuni quasi centenari. Magari non più tantissimi, però di sicuro ce ne sono ancora, che si nascondono sotto falso nome rifacendosi una vita anche grazie a colpevoli complicità politiche nei convulsi anni post-bellici. Per questo il Centro Simon Wiesenthal, che non ha mai gettato la spugna portando avanti per decenni il suo monumentale lavoro di documentazione e di denuncia, ha lanciato l'ultima campagna all'insegna dello slogan “È tardi, ma non troppo tardi”. Avviata in Austria, Polonia, Ungheria, Croazia, Romania e nei paesi baltici, l'operazione è poi in Germania, accompagnata dall'appello “aiutaci a portarli davanti alla giustizia” e dall'offerta di una ricompensa di 25mila euro a chi fornisca informazioni utili a scovare i criminali fuggiaschi.
Secondo Efraim Zuroff, erede del defunto Wiesenthal alla guida del Centro, in Germania ce ne sono tra i 60 e i 120. E portarli davanti a un tribunale è diventato molto più facile da quando, nel 2011, i giudici di Monaco di Baviera processarono e condannarono John Demjanjuk, considerato responsabile di complicità nella morte di 28mila ebrei uccisi nel campo di sterminio di Sobibor, in Polonia, di cui era guardiano volontario. A questo punto, è sufficiente aver lavorato in un lager per poter essere sottoposto a giudizio. La caccia non è più limitata ai principali responsabili dell'Olocausto, a chi dava direttamente gli ordini che portavano al massacro di migliaia di prigionieri nei campi di concentramento tedeschi o dei paesi occupati.
   I nomi di maggior spicco, quelli che circolano da decenni e sulle cui storie di fuggiaschi braccati la realtà a volte si mescola col mito, sono sempre gli stessi. Dopo la morte, due mesi fa in un ospedaledi Budapest, di Laszlo Csatary (scovato lo scorso anno da un reporter del quotidiano The Sun, era in attesa di processo), in testa alla lista dei super-ricercati c'è Alois Brunner, braccio destro dell'ideologo della soluzione finale Adolf Eichmann, che fu catturato 50 anni fa dal Mossad a Buenos Aires e impiccato in Israele. Brunner, accusato dello sterminio di 128mila ebrei, fu visto l'ultima volta nel '92 a Damasco. Se ancora in vita, avrebbe oggi 100 anni. Incerta anche la sorte di Aribert Heim, il “dottor morte” di Mauthausen, che dopo una lunga fuga per diversi paesi sudamericani, si stabilì in Egitto con il nome di Tarek Farid Hussein. Nel 2005 è stata segnalata la sua presenza sulla Costa Brava spagnola.
   Il sottotenente della 16esima divisione corazzata delle Ss, Gerhard Sommer, ha 93 anni e vive ad Amburgo. Nel 2005 è stato
   condannato in contumacia per il massacro di 560 civili a Sant'Anna di Stazzema, ma la Germania ha negato l’estradizione. Theodor Szehinskyj, membro dei battaglioni della morte delle Ss a Gross Rosen, Sachsenhausen e Varsavia, fu rintracciato nel 2000 dalle autorità Usa, che lo privarono della cittadinanza. Washington ne ordinò la deportazione, ma finora nessun paese ha accettato di accoglierlo.

l’Unità 12.10.13
Femminicidio, c’è la legge
Vita dura per gli stalker
Le norme prevedono nuove aggravanti, risorse per un piano d’azione antiviolenza, una rete di case-rifugio e l’estensione del gratuito patrocinio
di Franca Stella


l disegno di legge a tutela delle vittime di maltrattamenti e violenza domestica è diventato legge. Il Senato ha approvato il testo definitivo con 143 i sì, 3 voti contrari e nessun astenuto. Il ddl sul femminicidio non punta solo sulla repressione, ma prevede anche risorse per finanziare un piano d’azione antiviolenza, una rete di case-rifugio e l’estensione del gratuito patrocinio. Il permesso di soggiorno potrà essere poi rilasciato anche alle donne straniere che subiscono violenza. Ecco i punti principali del testo.
Relazione affettiva. È il nuovo parametro su cui tarare aggravanti e misure di prevenzione. Rilevante sotto il profilo penale è da ora in poi la relazione tra due persone a prescindere da convivenza o vincolo matrimoniale (attuale o pregresso).
Nuove aggravanti. Il codice si arricchisce di una nuova aggravante comune applicabile al maltrattamento in famiglia e a tutti i reati di violenza fisica commessi in danno o in presenza di minorenni o in danno di donne incinte. Quanto all’aggravante allo stalking commesso dal coniuge, viene meno la condizione che vi sia separazione legale o divorzio. Aggravanti specifiche, inoltre, sono previste nel caso di violenza sessuale contro donne in gravidanza o commessa dal coniuge (anche separato o divorziato) o da chi sia o sia stato legato da relazione affettiva.
Querela a «doppio binario». Il dilemma revocabilità-irrevocabilità della querela nel reato di stalking è sciolto fissando una soglia di rischio: se si è in presenza di gravi minacce ripetute, ad esempio con armi, la querela diventa irrevocabile. Resta revocabile invece negli altri casi, ma la remissione può essere fatta solo in sede processuale davanti all’autorità giudiziaria, e ciò al fine di garantire (non certo di comprimere) la libera determinazione e consapevolezza della vittima.
Ammonimento. Il questore in presenza di percosse o lesioni (considerati «reati sentinella») può ammonire il responsabile aggiungendo anche la sospensione della patente da parte del prefetto. Si estende cioè alla violenza domestica una misura preventiva già prevista per lo stalking. Non sono ammesse segnalazioni anonime, ma è garantita la segretezza delle generalità del segnalante. L’ammonito deve essere informato dal questore sui centri di recupero e servizi sociali disponibili sul territorio.
Arresto obbligatorio. In caso di flagranza, l’arresto sarà obbligatorio anche nei reati di maltrattamenti in famiglia e stalking. Allontanamento urgente da casa. Al di fuori dell’arresto obbligatorio, la polizia giudiziaria se autorizzata dal pm e se ricorre la flagranza di gravi reati (tra cui lesioni gravi, minaccia aggravata e violenze) può applicare la misura dell’allontanamento con urgenza dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Braccialetto elettronico e intercettazioni. Chi è allontanato dalla casa familiare potrà essere controllato attraverso il braccialetto elettronico o altri strumenti elettronici. Nel caso di atti persecutori, inoltre, sarà possibile ricorrere alle intercettazioni telefoniche.
Obblighi di informazione. A tutela della persona offesa scatta in sede processuale una serie di obblighi di comunicazione in linea con la direttiva europea sulla protezione delle vittime di reato. La persona offesa, ad esempio, dovrà essere informata della facoltà di nomina di un difensore e di tutto ciò che attiene alla applicazione o modifica di misure cautelari o coercitive nei confronti dell’imputato in reati di violenza alla persona.
Case-rifugio. Finanziamenti in arrivo anche per i centri antiviolenza e le case-rifugio. Nel 2013 10 milioni di euro, 7 nel 2014 e altri 10 all’anno a partire dal 2015.
Soddisfatto il presidente del Consiglio Letta: «È un giorno davvero importante». Mentre per il telefono rosa è solo un «primo passo».

l’Unità 12.10.13
Un decreto per cominciare
di Valeria Fedeli, Anna Finocchiaro


A GIUGNO ABBIAMO RATIFICATO LA CONVENZIONE DI ISTANBUL E IERI ABBIAMO APPROVATO LA CONVERSIONE IN LEGGE DI UN DECRETO CHE SARÀ UTILE PER CONTRASTARE IL FENOMENO DELLA VIOLENZA DI GENERE. Inutile negare che lo strumento del decreto legge e l’inserimento della normativa che riguarda la violenza contro le donne nel pacchetto sicurezza hanno fatto inizialmente percepire l’adozione delle misure più come risposta all’allarme sociale che come costruzione di una politica di prevenzione e contrasto del fenomeno strutturale e a lungo termine. Sarebbe stato meglio, si è detto, procedere con un progetto di legge che tenesse subito conto degli aspetti culturali e sociali della violenza contro le donne, perché è un fenomeno da contrastare proprio agendo prima di tutto sulle cause economiche, sociali e culturali.
Il decreto legge però, incide su una materia molto delicata, che deve tenere conto della normativa internazionale, in particolare della direttiva 2012/29/UE, relativa alle norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, e della Convenzione di Istanbul. In questa prospettiva, dunque, il Governo ha mantenuto l’impegno di un primo livello di attuazione della Convenzione e lo ha fatto con rapidità, cogliendo l’urgenza che deriva dalla nuova e maggiore consapevolezza del fenomeno della violenza di genere e dalla drammatica realtà che la cronaca ci consegna ormai quasi tutti i giorni.
In considerazione di questa urgenza, e dei tempi stretti di conversione del decreto, tempi che scadono il 14 ottobre, abbiamo scelto al Senato di approvare il testo arrivato dalla Camera senza ulteriori modifiche e rinunciando anche ad intervenire in Aula durante la discussione. Siamo consapevoli che il decreto è imperfetto ed è solo un primo passo e sappiamo che è necessario e decisivo poi agire su tanti altri fattori: culturali, economici, del lavoro, educativi, relativi sia al superamento delle discriminazioni, sia agli stereotipi e linguaggi di cui la violenza si alimenta.
Ma da questo decreto dovremo ripartire per attuare compiutamente la convenzione di Istanbul.
Dovremo, inoltre, in questo senso, continuare il lavoro di ascolto e condivisione con le associazioni, i centri antiviolenza e tutti i soggetti istituzionali che si occupano di violenza e prevenzione. È un lavoro che già ha permesso di modificare positivamente il decreto nella discussione fatta alla Camera : sul piano dei finanziamenti, sul potenziamento delle forme di assistenza, sul coinvolgimento degli enti locali e delle Regioni al fine di rendere omogenei gli interventi su tutto il territorio. E questo lavoro si è svolto attraverso la collaborazione tra deputate e deputati, ma anche attraverso una interlocuzione con quel ricco mondo che opera in questo campo fuori il Parlamento.
Approvato il decreto, l’obiettivo prioritario resta ora quello della soluzione dei conflitti nei rapporti uomo-donna attraverso il coinvolgimento della scuola, dei media, dei servizi territoriali, oltre che quello della previsione di azioni di recupero dei soggetti maltrattanti. Un obiettivo, quest’ultimo, che è stato condiviso da tutti nella discussione del decreto, permettendo di circoscrivere i limiti che erano emersi e di assumere una diffusa responsabilità per una pianificazione integrata e reticolare degli interventi da condividere tra istituzioni pubbliche, enti, presidi sanitari, associazioni, forze dell’ordine, operatori e operatrici sull’unico terreno davvero efficace, quello della formazione e della prevenzione.
Il confronto, l’ascolto, ma anche l’assunzione di responsabilità da parte del Parlamento, ci fa quindi dire che oggi è un altro buon giorno per le donne del nostro Paese e che abbiamo messo un ulteriore importante tassello per l’attuazione della Convenzione di Istanbul.
Abbiamo fatto un altro piccolo passo per eliminare tutti gli ostacoli che impediscono alle donne di non subire più violenze e discriminazioni e di godere dei diritti fondamentali alla vita, al rispetto della propria libertà e autonomia, all’integrità psicofisica, alla libertà di scelta, all’accesso alla giustizia, anche penale. Per adempiere all’obbligo istituzionale e morale di non considerare le donne vittime di violenza soggetti «deboli», ma soggetti «vulnerabilizzati» dalla violenza subita: le donne sono forti e dalla loro forza e libertà dipende un pezzo decisivo del futuro di tutti.
Per poter vivere in un paese civile, un paese davvero per donne e per uomini e, quindi, migliore per tutti.

Corriere 12.10.13
«Non beatificate i preti franchisti»
di Andrea Nicastro


In Spagna non hanno più né ascolto né fondi, così le associazioni per la memoria delle vittime della dittatura franchista escono dai confini nazionali e si rivolgono a Papa Francesco. Attenzione, scrivono in una lettera aperta, la beatificazione di massa annunciata per domenica dalle gerarchie ecclesiastiche spagnole nasconde la celebrazione politica degli aguzzini del passato regime. «Con il dovuto rispetto ci rivolgiamo a Lei per esigere che la Chiesa Cattolica chieda perdono agli spagnoli per aver appoggiato e legittimato la dittatura di Franco, appoggi le vittime del franchismo perché ottengano giustizia e verità, sospenda la beatificazione di domenica».
La firma è della Piattaforma per la Commissione della Verità, un cartello di oltre cento associazioni di vittime del regime e della Guerra Civile. Secondo la loro analisi, tra i 522 «martiri della fede» che dovrebbero essere beatificati domenica a Terragona ci sono esclusivamente vittime della parte franchista cadute «por Dios y por España». Gli altri, coloro che si schierarono contro il colpo di Stato del generalissimo o che furono uccisi nei 40 anni del suo regime, ne sono esclusi. Lo scontro che dissanguò la Spagna negli anni Trenta del ’900 vide destra contro sinistra, latifondisti e Chiesa contro contadini anarchici e atei comunisti. Fu quello che oggi si definirebbe una proxy war , guerra per procura, tra l’asse nero di nazismo e fascismo e il gigante rosso sovietico. Ci furono atrocità da parte di tutti i contendenti. Vennero bruciate le chiese e torturati i parroci così come trucidati braccianti e intellettuali.
La beatificazione arriva in un momento difficile per chi dal ritorno della democrazia negli anni 70 ha cercato di rendere omaggio ai caduti di sinistra. L’attuale governo del Partido Popular, senza rumore, ha cancellato la politica del precedente esecutivo socialista. E’ bastato chiudere i rubinetti delle sovvenzioni alle varie associazioni che raccoglievano testimonianze, che chiedevano lo scavo di fosse comuni, la riesumazione di cadaveri dimenticati perché l’intero processo di ricostruzione storica si fermasse. Non è che i risultati fossero stati eclatanti. In otto anni di governo di sinistra la scoperta di vittime del regime aveva più che altro riaperto rancori tra famiglie. In questi giorni, poi, Madrid ha rifiutato di collaborare con un tribunale argentino che chiede l’estradizione di alcuni torturatori del regime. Per le associazioni anti-franchiste un’ulteriore delusione. Da qui la richiesta a un Pontefice che gli ecclesiastici locali osservano con freddezza. Per Papa Francesco un problema in più.

Corriere 12.10.13
Il convegno su Hitler e l’Italia nel giorno della memoria
di Paolo Valentino


ROMA — Non è chiaro a chi l’idea sia venuta in mente. Fortunatamente (e un po’ tardivamente) chiara è apparsa però la sua portata contundente e offensiva. Una conferenza sui 75 anni del viaggio di Hitler in Italia, programmata a Roma il 16 ottobre, lo stesso giorno in cui la città si appresta a commemorare solennemente il settantesimo anniversario della razzia nazista nel ghetto, la retata degli ebrei romani del 1943, cui fece seguito la loro deportazione verso i campi di sterminio.
Con scarsissimo senso della Storia e inesistente sensibilità verso la memoria della comunità israelita e dell’intera città, il Guarini Institute for Public Affair della John Cabot University e il Festival della Diplomazia avevano proposto all’Istituto Italiano di Studi Germanici di Villa Sciarra di organizzare insieme il seminario dedicato alla celebre visita del Führer in Italia proprio mercoledì prossimo, ricevendone l’assenso. Ospitare convegni storici fa parte delle attività accademiche dell’Istituto. Ma, all’evidenza, nell’occasione c’è stata una mancanza di preparazione storica e nessuno ha fatto attenzione alla coincidenza con la data della razzia del ghetto e le commemorazioni in programma.
«Ammetto che non me ne sono reso conto e che la scelta della data è una disgrazia», ci ha detto con franchezza il Professor Giorgio Manacorda, vicepresidente dell’Istituto, che ha ereditato il dossier dal presidente, il germanista Fabrizio Cambi, dimessosi pochi giorni fa. Di fronte alla protesta indignata di autorevoli esponenti della comunità ebraica, Manacorda, che avrebbe dovuto aprire il seminario con un saluto, ha annunciato ieri pomeriggio che il suo istituto si è chiamato fuori dall’organizzazione del convegno: «Ho fatto sapere ai nostri interlocutori della John Cabot e del Festival della Diplomazia che non siamo più interessati a ospitarlo». L’evento è stato subito cancellato dal sito internet dell’Istituto di Studi Germanici.
«Scegliere quella data per parlare, anche criticamente, della visita di Hitler in Italia — ci aveva detto ieri mattina Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma — ci sembra bizzarro e quantomeno inopportuno. Fra tante date possibili, il 16 ottobre è quella più infelice». Pacifici ha ricordato che il viaggio del capo del nazismo in Italia, nel maggio 1938, non fu soltanto una visita celebrativa e di cortesia: «Fu una tappa decisiva verso le leggi razziali, che vennero promulgate due mesi dopo, in luglio ed entrarono in vigore a novembre. Detto altrimenti fu la visita che pianificò l’alleanza nazi-fascista anche nella persecuzione, nella deportazione e nello sterminio degli ebrei, reso possibile grazie alla complicità dell’Italia di Mussolini». Pacifici aveva lanciato un appello agli organizzatori perché prendessero «coscienza del particolare significato del 16 ottobre per gli ebrei di Roma, cancellando o spostando la conferenza a una data più neutrale dal punto di vista storico ed emotivo».
Anche Leone Paserman, Presidente del Museo della Shoah, si era detto «sconcertato e senza parole» di fronte alla scelta della data del convegno su Hitler in Italia, «anche perché penso che sia l’Istituto di Studi Germanici sia gli altri organizzatori si occupino abitualmente di queste cose e dovrebbero conoscere bene date, ricorrenze e significati». Di più, aveva aggiunto, «non vedo cosa ci sia da ricordare di quella visita sciagurata».
Non è chiaro adesso se dopo la defezione annunciata da Manacorda, la John Cabot University e il Festival della Diplomazia manterranno in calendario l’evento, che avrebbe dovuto svolgersi a Villa Sciarra-Wurts e al quale sarebbero dovuti intervenire il Professor Federico Argentieri del Guarini Institute, lo storico Harmut Bens e la saggista Mirella Serri.
La giornata del 16 ottobre si aprirà con la visita alla Sinagoga del presidente della Repubblica e proseguirà nel pomeriggio con l’inaugurazione al complesso del Vittoriano di una mostra dedicata alla retata nazista, ricca di fotografie e documenti inediti. Il giorno dopo, sull’Aurelia Antica, si svolgerà un convegno sulla razzia, organizzato congiuntamente dalla Comunità ebraica e dal Deutsches Historisches Institut di Roma.

Repubblica 12.10.13
L’Europa senza qualità
di Barbara Spinelli


ESISTE un gioco che a molti esperti pare astruso, o perché superfluo o perché poco serio e fuorviante. È il gioco della storia che si fa con i se:che ha dunque come oggetto non solo il mondo com’è stato fatto – come ci sta davanti – ma come avrebbe potuto essere, se invece di imboccare una strada ne avesse presa un’altra.
Declinato al presente è più di un gioco: è un esercizio intellettuale che mette il pensiero in movimento, un metodo per guardare all’oggi come a una storia che possiamo scrivere in un modo o nell’altro, non dipendendo il suo svolgimento da forze impersonali ma dalla persona che ciascuno di noi è.
Così per l’Europa. L’Europa può andare in una direzione oppure un’altra, affatto diversa. È tutta piena di questa congiunzione ipotetica – il se – e nuove e impreviste possono essere le risposte alle domande che ci facciamo: di quale Europa stiamo parlando? Come definire la sua necessità, il suo dover essere? Qual è il patrimonio che si vuol difendere? E soprattutto, da qualche anno: come trasformare la rabbia che sta suscitando prima in bisogno («qualcosa mi manca» – «per ottenere quel che voglio occorre passare di lì»), poi in progetto? Sia detto per inciso: l’Europa non sarebbe stata pensata in un certo momento – nel mezzo d’una guerra, mentre la Germania piegava il continente – se qualcuno non avesse cominciato a immaginare un «se» ritenuto improponibile e fuorviante dai più. Il metodo, oggi, consiste nel chiedersi come sarebbe il mondo che viviamo, se la crisi che ha lambito l’Europa, cinque anni fa, fosse stata affrontata in modo differente.
In genere, gli storici guardano con un certo disprezzo a questi esercizi mentali: la storia, dicono, non essendoci contemporanea non si fa con i se. Non esiste la storia virtuale.
Studiare isedella storia è utile, per capire qualcosa di fondamentale. È esistito sempre (esiste sempre) un attimo, un punto di svolta e d’incertezza, in cui l’alternativa era possibile, in cui gli eventi avrebbero potuto prendere un’altra piega: perché la storia è fatta dipieghe,e le pieghe ci interessano quasi più della cronologia, che ci presenta un tessuto già stirato a puntino dai posteri o dai vincitori.
Nella Germania prehitleriana si poteva fare una politica antirecessiva, al posto dell’austerità applicata dal governo Brüning, e forse Hitler non avrebbe ottenuto nel ’33 consensi così spettacolari. Oppure: gli americani avrebbero potuto rifiutare accordi con la mafia siciliana, quando liberarono il nostro paese dal fascismo, e la storia italiana del dopoguerra sarebbe stata diversa, forse non staremmo ancora a parlare di patti fra Stato e mafia. E via ipotizzando e usando i se, i forse, i congiuntivi, i condizionali.
L’Europa com’è andata sviluppandosi dal 2008 in poi si presta assai bene a quest’esercizio mentale. I modi in cui la crisi viene ormai da anni gestita – dai governi in primis, e dalle autorità di Bruxelles che tendono a esprimere le volontà non dell’intera area che rappresentano ma dei paesi più forti – sono molto singolari: è come se non stessimo facendo la storia, ma vivessimo conficcati dentro una storia predeterminata. È questo che rende così insopportabile il mantra che sentiamo ripetere: «Non c’è alternativa ». È una locuzione adeguata agli eventi quando sono trascorsi, e scritti in un certo modo. Quando si condensano in una narrazione teleologica, finalistica, e tutti i «se» vengono scartati come futili o idealisti. Nulla si può cambiare, neanche lontanamente sono ipotizzabili alternative. E non a caso è così in voga questa parola: Narrazione. La Narrazione è predefinita, l’autore può magari tenerci con il fiato sospeso – per esempio quando scrive un giallo – ma lui sa come andranno a finire le cose, chi è il colpevole e chi il vincitore o l’innocente o l’eroe. Mentre noi no, queste cose non le sappiamo: per nostra fortuna possiamo prenderci la libertà di sbizzarrirci e questa virtualità è una nostra fortuna.
Così la Narrazione della nostra crisi: gli autori del giallo europeo hanno iscritto nella scaletta le cure di austerità, la divisione fra centro (Germania essenzialmente) e periferie sud, anche il disfarsi della democrazia e delle costituzioni nazionali, visto come ineluttabile danno collaterale di una stabilità politica eretta a nuovo valore etico incondizionato (questo significa la locuzione «valore assoluto », recentemente impiegata dal Presidente del Consiglio). La frode è questa scaletta, che non solamente è inconfutabile ma ha la pretesa di raggiungere una vetta (l’Europa politica padrona di sé) con mezzi rigorosamente inadatti a scalarla. La frode è quest’hegeliana certezza che il presunto razionale sia reale, e il presunto reale razionale. La storia non la stiamo fabbricando con le nostre mani, perché già è messa nero su bianco. Questo vero e proprio assassinio del possibile è la principale caratteristica dell’Europa quale oggi esiste, e si può capire l’indignazione che suscita, e anche la rabbia e il rigetto. Chi si arrabbia, chi perde la pazienza e «non ci crede più» – gli euroscettici è il nome che hanno avuto per un certo tempo, oggi si parla di populisti – sono i soggetti della storia in cui forse c’è da sperare. Se non esistessero – se non esistesse una crisi che si acuisce – non staremmo a interrogarci sul bisogno o non bisogno d’Europa. La rabbia dei cittadini è un’opportunità che ci viene data, come è un’opportunità lo spread. La rabbia stessa è spread, non finanziario ma umano: è scarto fra i cittadini e l’idea di Europa, fra popoli e istituzioni democratiche, sia nazionali che europee. È reazione a un patto sociale violato, a un patrimonio negato. Quando penso a questo tipo dispread, mi torna in mente l’Uomo senza Qualità descritto da Musil alla luce crepuscolare di un’altra grande idea che stava degenerando: quella dell’impero austro-ungarico. Ulrich, l’Uomo senza Qualità, definisce se stesso un Möglichkeitsmensch, un uomo della possibilità – un possibilitario – che non smette d’innervosirsi davanti al cosiddetto senso della realtà, della «cose come sono». Vorrei citare il passaggio in questione, perché nell’ordine dei verbi toglie il monopolio all’indicativo, restituendo dignità ai condizionali, ai congiuntivi, al controfattuale: «Chi è dotato del senso della possibilità non dice ad esempio: “Qui è accaduto, accadrà o deve accadere questo oppure quello”, bensì: “Qui potrebbe o dovrebbe accadere un certo evento”. E se, di una cosa qualsiasi, gli si spiega che è come è, allora penserà: “Certo, ma potrebbe benissimo essere diversa”. Quindi, il senso della possibilità è addirittura definibile come la capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere, e di non ritenere ciò che è più importante di ciò che non è (...). La vita di questi uomini della possibilità è tessuta, si potrebbe dire, con un filato più sottile, un filato fatto di fumo, immaginazione, fantasticherie e congiuntivi; quando un bambino manifesta una simile tendenza, gliela si fa passare con metodi energici e, davanti a lui, quegli individui vengono definiti visionari, sognatori, codardi e saccenti o criticoni. Chi vuol lodare quei matti, li definisce anche idealisti».

il Fatto 12.10.12
Radio Maria
Parli male del Papa? E io ti licenzio
di Nello Trocchia


È impresa ardua, in questi tempi, trovare credenti, ma anche semplici osservatori critici nei confronti del pontificato di Francesco, il Papa che ha rivoluzionato schemi e consuetudini, iniziato il repulisti  – a cominciare dalla banca vaticana –, in connessione sentimentale con masse crescenti di fedeli. Eppure c'è chi alza il dito, isolato, ed esprime legittimo dissenso. Un dissenso costato l'allontanamento. È la storia di due giornalisti dell'emittente Radio Maria, una colonna portante dell'etere celeste, capace di irradiare il segnale anche nei pertugi di montagna, con l'obiettivo dichiarato di evangelizzare.
OLTRE IL SEGNALE divino quello che conta è che Alessandro Gnocchi e Mario Palmari, qualche giorno fa, sul quotidiano Il Foglio di Giuliano Ferrara hanno osato l'impensabile. Hanno firmato un articolo dal titolo “Questo Papa non ci piace”. Apriti cielo. La risposta di Radio Maria non si è fatta attendere: licenziati, anzi a dire il vero, esautorati. Dopo dieci lunghi anni al servizio dell'emittente, il direttore Padre Livio Fanzaga li ha silurati con una motivazione semplice: non si può condurre a Radio Maria e criticare il Papa. “Noi eravamo volontari – spiega Mario Palmari – non si tratta di un licenziamento. Padre Livio ci ha comunicato che non avremmo più condotto le trasmissioni di bioetica e letteratura che curavamo da tempo”.
Insomma niente di sindacale, quello che fa male ai giornalisti è l'addio consumato in pochi minuti. “Spiace – continua Palmari – perché non posso nascondere che ero consapevole delle possibili reazioni alla nostra sortita, ma non avrei immaginato questo esito. Sapevamo della difficoltà di criticare un Papa che gode di una popolarità enorme”. Palmari spiega le critiche che hanno portato alla inaspettata rottura. “Abbiamo evidenziato le nostre perplessità. In particolare di natura formale, certi gesti rischiano di svuotare il pontificato della ritualità che gli è propria, ma anche di natura sostanziale. Certe frasi, contenute in alcune interviste di papa Francesco, sono in conflitto con i pensieri dei suoi predecessori”. Troppo per Padre Livio che ha comunicato al telefono l'impossibilità di continuare la collaborazione. I giornalisti sperano si possa aprire un dibattito, al momento, sostengono, compresso dall'onda di popolarità che connota il papato di Bergoglio. Un dibattito che di certo non troverà voce sulla radio di Maria.

Repubblica 12.10.13
Le detenute contro la Franzoni: “Privilegiata”
In canonica per il lavoro esterno, Annamaria divide ancora. Lei: “Voglio tornare a respirare”
di Lorenza Pleuteri


BOLOGNA — Lei, Annamaria Franzoni, dice al prete che l’ha presa a lavorare nello studio-sartoria della canonica di fianco alla parrocchia di Sant’Antonio da Padova: «Voglio tornare a respirare». Loro, le madri e le nonne che portano i figli all’asilo e alle elementari di fronte alla chiesa, oscillano tra commenti neutri o postivi e posizione giustizialiste o estreme. «Chi siamo noi per giudicare?». «Tutti hanno diritto ad avere una occasione di riscatto». «I benefici e le misure alternative le devono dare a un numero maggiore di detenuti, non a poche persone». «Non dovrebbe più uscire di galera». «Chi si fiderebbe a lasciare una così da sola, in una stanza, con un bambino? ».
Aveva spaccato in due l’Italia dei plastici e dei dibattiti, divisa tra innocentisti e colpevolisti. E continua a dividere, la mamma di Cogne, anche adesso che la mattina può uscire dal carcere bolognese della Dozza e andare a lavorare in canonica, quattro ore a tagliare stoffe e confezionare borsette e accessori di abbigliamento, il pranzo con gli altri ospiti, il penitenziario a meno di un chilometro di distanza. “Lavoro esterno”, si chiama. Ed è un beneficio concesso dalla direzione, con l’avallo del giudice di sorveglianza, all’interno del piano di trattamento elaborato dietro le sbarre. Ad aspettarla al varco, ieri mattina, ci sono telecamere e taccuini. Alle 9.40, jeans e capelli sciolti, scende dalla vecchia Panda bianca guidata dal volontario che la va a prendere e la riporta indietro, costretto a farle da bodyguard, e senza fermarsi supera il cancello della parrocchia e attraversa il sagrato, in silenzio, lo sguardo che non sembra essere cambiato.
Parla invece il prete che la ospita, sacerdote di frontiera e di battaglia con il titolo di monsignore, don Giovanni Nicolini. Prima attacca: «Questo assalto dei media è un orrore. Anche la signora Franzoni stamattina è dispiaciuta per l’assedio, che pure avevamo messo in conto, e sembra un po’ stanca. Ma in questi primi giorni da noi non mi è parsa depressa». Poi ripete che «è necessario che il lavoro esterno e le misure alternative alla detenzione siano concesse a un maggior numero di persone». Infine di lei qualcosa rivela: «Non parliamo di quello che è successo. Discutiamo del presente e del futuro ». L’omicidio del figlio Samuele data 30 gennaio 2002. Il fine pena per ora è fissato al 22 marzo 2020. L’indulto e l’amnistia, sempre che ci si arrivi, potrebbero tagliare altri tre dei 16 anni di condanna, dopoi tre già caduti per il precedente condono. E le riduzioni per la buona condotta, 45 giorni ogni sei mesi, alleggerirebbero ulteriormente la detenzione ancora da scontare.
Annamaria Franzoni divide anche all’interno del carcere. Sta sulle sue. Ha smesso di frequentare la biblioteca, dove rimaneva in un angolo. Le compagne del femminile la considerano una privilegiata e non da ora. «Per i lavori interni retribuiti prima c’era la rotazione. Quando è arrivata lei, è saltato tutto. Le hanno fatto fare la “spesina”,addetta alla distribuzione dei prodotti che si possono comprare allo spaccio interno, il sopravvitto». E i numeri del carcere confermano, al di là di invidie, cattiverie o malignità, che è un’eccezione, non la norma. Le detenute della Dozza in questi giorni sono 70. Oltre a lei, solo un’altra è ammessa al lavoro esterno. Ma non esce dal perimetro dei muraglioni. Fa le pulizie in direzione. Le “dipendenti” dichiarate dalla cooperativa “Siamo qua”, compresa la mamma di Cogne, sono tre.
«Il suo solo privilegio — sostiene don Nicolini — è l’avere una famiglia che da sempre la protegge e le sta vicina». Ieri pomeriggio, attraversando “il circo mediatico”, il marito, i due figli e due familiari sono tornati a trovarla in parrocchia, con l’autorizzazione ad avere qui i colloqui previsti. «E la seconda volta che vengono — spiega il parroco — Lei, alla prima occasione, mi ha presentato tutti e mi ha chiesto: “Ha visto come sono belli i miei ragazzi?”».
Tentativo di cominciare una nuova vita, guardando avanti. La voglia di respirare a pieni polmoni, avere davanti agli occhi alberi e prati, conoscere nuove persone. Le difficoltà a recuperare il senso dello spazio e la percezione delle distanze, «perché in carcere — ricorda il prete — si hanno problemi di vista, disturbi sensoriali». E una grana economica in arrivo. L’ex avvocato difensore Carlo Taormina ha citato in giudizio Anna Maria Franzoni e il marito, al tribunale civile bolognese, per chiedere che siano condannati a pagargli parcelle e spese arretrate, 771 milaeuro.

il Fatto 12.10.13
Israele e l’atomica “democratica”
di Massimo Fini


INTERVISTATO dal Corriere, Yuli-Yoel Edelstein, portavoce del Parlamento israeliano, ha affermato: “Quando si parla dei diritti dell’Iran ad avere un’industria nucleare, sento dire da ogni parte: ma voi israeliani non avete firmato questa convenzione (Il Trattato di non proliferazione nucleare, ndr). Francamente un paragone che non regge. Vista la storia del regime iraniano è come se un serial killer dicesse: ‘Che c’è di strano se porto una pistola?’. Ci sono Paesi democratici e affidabili e Paesi che non lo sono”. L'Iran degli ayatollah non ha mai aggredito nessuno, caso mai è stato aggredito, dall'Iraq del dittatore Saddam Hussein e in quell'occasione “i Paesi democratici e affidabili”, Stati Uniti in testa, appoggiarono non l’aggredito ma l’aggressore fornendogli anche le armi chimiche che Saddam usò a man bassa (100 mila morti) sui soldati iraniani (mentre Khomeini proibì l'utilizzo di queste armi perché contrarie alla morale del Corano) e in seguito sui curdi (Halabya, 1989, tutti i 5000 abitanti di quel villaggio ‘gasati’ con la complicità occidentale). Non è neanche vero che “i Paesi democratici e affidabili” siano sempre pacifisti e quelli dittatoriali sempre guerrafondai. Per esempio tutte le dittature sudamericane sono state tendenzialmente pacifiste. Ma per restare alla storia più recente sono “i Paesi democratici e affidabili”, sempre con gli Stati Uniti in testa, a essere costantemente all'attacco. Hanno aggredito nel 1999 la Serbia per una questione che non li riguardava affatto. Nel 2001 hanno invaso e occupato l'Afghanistan e ancora si ostinano a occuparlo anche se se ne stanno per uscire sconfitti nonostante la loro schiacciante superiorità tecnologica.
NEL 2003 hanno invaso e occupato l'Iraq, con una motivazione inesistente, provocando dai 650 ai 750 mila morti e, ora che se ne sono andati, una feroce guerra civile fra sunniti e sciiti che causa decine e a volte centinaia di vittime al giorno. Nel 2006/2007 hanno aggredito, per interposta Etiopia, la Somalia che con le Corti islamiche, che avevano sconfitto ‘i signori della guerra’ locali, aveva trovato almeno un po’ d'ordine, hanno imposto un governo fantoccio a Mogadiscio, provocando così un'inevitabile guerra civile le cui conseguenze si rovesciano anche sulle nostre coste (e per le quali si grida ‘orrore’ e ‘vergogna’ senza però analizzarne mai le vere cause). Nel 2011 hanno aggredito la Libia provocando altri sconquassi.
Adesso che gli iraniani si mostrano molto disponibili sul nucleare civile, che è un loro sacrosanto diritto, gli israeliani, che hanno l'Atomica e che non avendo sottoscritto il Trattato non hanno l'obbligo di sottoporsi a nessuna verifica (del resto loro sono “democratici e affidabili”) fanno il muso duro. Ciò che vorrebbero è puramente e semplicemente che l'Iran non arricchisse l'uranio, nemmeno al 20% che è la soglia minima e massima per ottenere il nucleare civile, insomma che rinuncino in toto al loro programma. Motivazione: che bisogno hanno gli iraniani del nucleare quando hanno già il petrolio? La BP ha calcolato che entro il 2050 il sottosuolo petrolifero sarà esaurito. Ma a parte questo avrà o no un Paese il diritto di diversificare le proprie fonti di energia o deve chiedere il permesso a Tel Aviv? In realtà uno dei principali pericoli alla pace del mondo viene proprio dal “democratico e affidabile” Israele con i suoi missili (atomici) pronti a partire dal deserto del Negev e con i suoi piani, mai negati, anzi esibiti come minaccia, di colpire i siti nucleari iraniani con ‘atomiche tattiche’ (come un'Atomica, cioè una reazione nucleare a catena, possa essere ‘tattica’ qualcuno me lo dovrebbe spiegare).

l’Unità 12.10.13
Bakunin all’Italia unita
«Che triste questa democrazia» Ecco cosa pensava di noi
In una raccolta a cura di Lorenzo Pezzica emerge il giudizio complessivo che il leader aveva del nostro Paese
di Anna Tito


«UNO STATO DISASTRATO E DISASTROSO CHE SI MANTIENE A STENTO SOLO SCHIACCIANDO IL PAESE SOTTO IL “PESO DELLE IMPOSTE»: così scriveva Michael Bakunin, che giunse in Italia nel 1864 poco dopo l’unificazione a opera di Garibaldi e Cavour e dopo aver viaggiato, anche in manette, per inseguire le rivoluzioni d’Europa, anche in manette.
Nel triennio 1864 – 1867, cruciale per il nostro Paese, osservò l’Italia reale e colse gli elementi essenziali delle questioni legate alla recente unificazione: un sistema fiscale vessatorio e inefficace, una gestione personale e disinvolta del potere, una diffusa «questione morale», lo strapotere della burocrazia e della consorteria, «la casta statale per eccellenza», a suo dire, una vasta congrega di persone «integerrime» dedite a depredare con sistematicità la povera Italia, la presenza invasiva della Chiesa. Parole tutte che popolano il nostro vocabolario attuale. Ne emerge innanzitutto il praticismo politico, un’espressione attraverso cui Bakunin definisce un qualcosa ancora senza no-
me, ma destinata ad avere grande spazio nella storia italiana, di allora e di adesso: il trasformismo. Sì, la società italiana descritta da Bakunin appare divisa in caste impermeabili al cambiamento e restie ad allontanarsi dal potere.
Prima amico e poi nemico giurato di Karl Marx, nonché fondatore dell’anarchismo moderno, l’anarchico russo visse a Napoli, Firenze e Ischia prima di ricominciare le sue peregrinazioni per l’Europa e infine morire nel 1876 in Svizzera, all’età di 62 anni, e finire seppellito, lui che per tutta la vita aveva combattuto la proprietà, come rentier, su iniziativa di un assai disorientato funzionario svizzero.
Fu per decenni la «bestia nera» delle polizie europee: «bisogna avere il diavolo in corpo» diceva, e lui l’aveva, nel corpo e nello spirito. Nelle sue vorticose peregrinazioni, da «braccio pratico» della rivoluzione libertaria e suo «instancabile commesso viaggiatore», ora per sfuggire a un arresto, ora per partecipare a un’insurrezione, Bakunin fu attratto dalle bellezze del Paese, ma vi soggiornò con il principale obiettivo di «incendiare l’immaginazione delle masse povere italiane per fondare una società di liberi ed eguali».
«Italiani! Gli eventi precipitano. La bancarotta dello Stato si avvicina da un lato, e dall’altro la rivoluzione avanza inesorabile»: tra una cospirazione e l’altra osservò acutamente i mali di un Paese appena unificato e già afflitto da quei vizi con cui facciamo i conti ancora oggi: un meccanismo di prelievo fiscale vessatorio e inefficace, l’uso personale del potere da parte degli amministratori della cosa pubblica, lo strapotere della burocrazia, il ruolo invasivo della Chiesa... Insomma, lo sguardo di volta in volta divertito e indignato del rivoluzionario russo mette in luce l’Italia odierna. Sembra quasi che lo Stato unitario si sia ripetuto uguale a se stesso nel corso dei decenni, riproponendo nel tempo i tanti vizi e le scarse virtù che già Bakunin coglieva un secolo e mezzo orsono. Bakunin descrive una società italiana divisa in caste impermeabili al cambiamento e restie a lasciare il potere.
Dalla raccolta Viaggio in Italia, curata dallo storico e archivista Lorenzo Pezzica (Eleuthera, 144 pp., 12 euro), che raccoglie saggi brevi e lettere private, oltre che una più che esauriente biografia di Bakunin, emerge il quadro complessivo del giudizio del leader anarchico sull’Italia, quello di «uno Stato che si mantiene solo schiacciando il Paese sotto il peso delle imposte», nonché dalla democrazia a dir poco «misera» e agli albori: «Che triste è questa democrazia italiana! Se si radunano tutte le sue risorse intellettuali, forse si riuscirà a partorire una sola idea».
Bakunin imputa in gran parte i disastri dell’Italia appena unificata agli eredi del «mazzinianesimo», per il quale «popolo» è un termine astratto che indica tutti gli abitanti, senza un programma capace di coinvolgere le masse popolari, che predica la rivoluzione ma che non la vuole; ma il rivoluzionario Bakunin accusa anche un Paese
che «non sa trovare una propria collocazione e un proprio equilibrio, in cui le classi povere si affidano alla Chiesa perché è l’unica presenza autorevole sul territo-
rio».

Filosofo, fu tra i fondatori dell’anarchismo
Nato in una famiglia aristocratica, Michail Bakunin (1814 1876), rivoluzionario e filosofo russo, è in principali fondatori dell'anarchismo. Visse prevalentemente in Svizzera, Francia e Italia, nonché in Germania, alla cui cultura si formò studiandone la filosofia, specie il pensiero degli idealisti Fichte e Hegel. In seguito alla partecipazione ai moti francesi del 1848 e all’insurrezione di Dresda del 1849, fu arrestato, estradato in Russia e condannato alla pena di morte, poi commutata nella detenzione a vita, e dunque incarcerato e confinato in Siberia. Riuscì a fuggire in maniera rocambolesca e a tornare in Europa, passando per il Giappone, la California e New York. Il suo modello di rivoluzione fa leva su due elementi centrali: le masse diseredate e degradate, quali le plebi contadine; e un’avanguardia intellettuale declassata, emarginata dagli strati sociali superiori. Sul piano organizzativo Bakunin rimase sempre fedele alla formula della setta clandestina, mentre su quello politico la sua rivoluzione, molto simile alle jacqueries contadine e al «banditismo sociale», avrebbe dovuto immediatamente abolire lo Stato e ogni altra autorità. È autore di molti scritti.

Corriere 12.10.13
Il corpo a corpo con le parole che rivela le fratture dell’io
«Ero plurimo. Non come Pessoa, forse come Hölderlin»
di Andra Zanzotto


Quando scrivevo il Galateo in Bosco alcuni componimenti di Fosfeni e di un’altra raccolta (che costituirà Idioma , ndr) già si stavano scrivendo: si stavano cioè scrivendo componimenti che avrebbero dovuto far parte dei successivi «momenti». Come se mi trovassi di fronte a tre percorsi che sarei stato obbligato a seguire simultaneamente. Un percorso, vorrei dire, a turbine involutivo, determinato da un forte peso di gravitazione verso l’interno, che descrive uno spazio chiuso, per quanto fratto, che è quello del Galateo in Bosco . Un secondo percorso, giusto il contrario di quello ora descritto, è quello compiuto in Fosfeni . Lo si intravedeva già allora: io avrei voluto seguirlo in stretta contemporaneità con la direzione intrapresa; esso mi spingeva, invece, verso una negazione continua di quanto si andava affermando nel Galateo... Di frase in frase, di parola in parola, di fonema in fonema, quasi, avrei voluto negare quello che avevo detto prima e aprire lo spazio per qualche cosa che sarebbe venuto dopo (...). Ed esisteva una terza parte che si stava componendo allora, più collegata a un’idea di stasi e quotidianità e riposo (...). Il terzo momento di tale «trilogia» voleva essere costituito proprio da un discorso non dico piatto, ma quotidiano, in cui il linguaggio acquisisse anche il valore (sempre da me «sentito male» o «mal sentito»...) che poteva corrispondere alla necessità quotidiana del linguaggio.
Mi si presentavano, insomma, quasi tre diversi «momenti» del linguaggio. Due estremamente dinamici e, appunto, in fuga. Un terzo momento, invece, quasi collassato e, possibilmente, rilassato, corrispondente alla terza parte della «trilogia» (...). Avrei dovuto spostarmi in continuazione su tre tavolini diversi, quasi devolvendo la mia stessa realtà a tre personalità diverse.
Certo la mia situazione non era assimilabile agli esempi terribili e grandiosi di reale plurificazione della personalità, come quello rappresentato dal caso di Pessoa, il quale tranquillamente — anzi, tutt’altro che tranquillamente — accettò di essere un ortonimo in sempre più numerosi eteronimi. Non voglio paragonarmi a una personalità eccelsa come quella di Pessoa, che rappresenta un’intera letteratura, non un autore soltanto. Intendo dire, piuttosto, che oggi l’avvertire simultaneamente tanto le fratture della realtà, attraverso le fratture di quell’io che in qualche maniera la rispecchia e ne è coinvolto o ne è l’espressione (non potremmo dir meglio), quanto le consapevolezze, sempre più conturbanti, che provengono dalle scienze umane a proposito della natura del linguaggio, tende a trasformare l’atto dell’espressione letteraria, e massimamente di quella poetica, in un qualche cosa che verrebbe a corrispondere alla dinamica secondo cui si pongono personalità diverse in libri diversi. Non si tratta tanto di momenti diversi di una medesima personalità, quanto, piuttosto, dell’affiorare di una discontinuità tale per cui, appunto, le persone che in ogni libro si esprimono risultano estranee l’una all’altra. Fortunatamente, operazioni di questo genere riescono forse a salvare uno dalla tragedia che potrebbe comportare una reale scissione della personalità. Si può dire che ancora una volta il linguaggio viene ammazzato sull’altare sacrificale perché si salvi l’io, in qualche maniera.
Mi riferivo a Pessoa, perché questo poeta, senza dire di essere Tizio, Caio, Sempronio, ammetteva di avere un ortonimo: quello di Pessoa, appunto. Quando si chiamava col nome di Pessoa, ciò che egli scriveva avrebbe dovuto corrispondere a un’idea di orthótes , di rettitudine, di corrispondenza tra le parti, di equilibrio. Poi, però, nell’assumere come nome uno qualsiasi dei suoi famosi eteronimi (Álvaro de Campos, Alberto Caeiro, Ricardo Reis), egli assumeva, ogni volta, la personalità di un poeta dotato di idealità e mondi interiori peculiari. Forse, analizzando il tessuto della poesia di Pessoa, si potrebbero riscontrare profonde omologie proprio là dove egli avvertiva delle spaccature; lo dimostrerebbe il gioco dell’anagramma che si riscontra tra gli eteronimi, così come tra questi e l’ortonimo (...). Insisto sul fatto che l’atto della nominazione, nel suo caso, indica la definizione di un punto fermo della personalità. Chiamarsi Álvaro de Campos o in altro modo significava, per lui, fissare un punto fermo attraverso il nome proprio, che rappresenta l’ultimo limite, irraggiungibile, corrispondente quasi al nome segreto, al nome nascosto, al nome forse impronunciabile.
A dire il vero, questa oscillazione tra eteronimi e ortonimo non riguarda fenomeni del tutto inediti. Molto si dovrebbe dire, in relazione agli pseudonimi scelti dai diversi autori (...). È però da notare quanto tali fenomeni si siano oggi radicalizzati. Hanno avuto l’esempio forse più terrificante nel momento centrale di quello che è stato il passaggio, il movimento, di tutto il nostro tempo, tra Settecento e Ottocento, cioè quando Hölderlin nomina se stesso Scardanelli, nel periodo della follia. Oggi, però, si dubita che egli fosse veramente pazzo come voleva apparire: è nota la polemica che si sta conducendo in relazione alla follia di Hölderlin. Forse, dietro il presunto folle Hölderlin c’era un uomo che aveva scelto il silenzio di fronte alla catastrofe di una storia che ritornava su se stessa: al posto della rivoluzione, infatti, si verificava la restaurazione. Questa tesi non mi convince molto: in Hölderlin c’è già un super-acuto, un super-furbo, direi, che ammicca e che allude, insieme con un uomo piombato nel silenzio e nell’impossibilità del dire. Sembrerebbe impossibile che questi due stati riescano a convivere. E invece...

Repubblica 12.10.13
La Babele democratica
Intervista allo storico dei libri Robert Darnton che spiega i collegamenti tra la cultura del Settecento, i testi digitali e le possibilità aperte dall’“open access”
di Massimiano Bucchi


Le fiabe terrificanti della tradizione contadina; un massacro di gatti perpetrato da un gruppo di tipografi parigini; i rapporti di un ispettore di polizia su scrittori pericolosi per il regime; la classificazione e suddivisione dei saperi nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert. Queste le singolari chiavi di accesso che Robert Darnton sceglie per ricostruire i “modi di pensare” nella Francia del Settecento.
Il grande massacro dei gatti.,ripubblicato in questi giorni da Adelphi e tradotto in una ventina di lingue, è uno dei suoi libri di maggior successo. Storico delle idee con un breve ma significativo background giornalistico – un’esperienza giovanile alla cronaca nera delNewYork Times che talora affiora nelle sue vivide narrazioni – Darnton insegna ad Harvard dove dirige anche la biblioteca universitaria, la più grande biblioteca accademica e sistema bibliotecario privato del mondo.
Come responsabile della biblioteca di Harvard lei si è espresso spesso a favore del cosiddetto open access. Vede un rapporto tra queste posizioni e il suo lavoro di studioso dell’Illuminismo e delle varie forme di circolazione del sapere?
«C’è sicuramente una connessione, anche se non è arrivata intenzionalmente. Come studioso dell’Illuminismo sono sempre stato attratto dall’idea di “Repubblica delle lettere”: una Repubblica senza confini, aperta a tutti, egalitaria. È un’idea che forse precede addirittura l’Illuminismo, centrale per il modo in cui l’Illuminismo vedeva se stesso. Oggi con i media digitali abbiamo la possibilità di realizzare quella che all’epoca era forse un’utopia. Così, quando mi sono trovato a capo della biblioteca di Harvard, con i suoi 17 milioni di volumi, ho cercato di fare il possibile per mettere a disposizione questo patrimonio non solo a docenti e studenti,ma a tutto il mondo, cercando di evitare che fosse monopolizzato da colossi come Google. Ci vorrà ancora molto tempo, e ci sono ancora molti problemi da risolvere, ma con il progetto Digital Public Library of America (www.dp.la) oggi siamo già in grado di offrire libero accesso a oltre 4 milioni di contenuti digitali».
Che cosa sono i modi di pensare, gli “stili culturali” che il libro cerca di ricostruire?
«L’ambizione è quella di far emergere i modi in cui l’esperienza è organizzata attraverso schemi concettuali, incluso il linguaggio. C’è una tonalità negli scambi sociali che è peculiare a una certa società o ad un gruppo sociale in un certo periodo e luogo, un certo “idioma” per così dire. Naturalmente la pretesa del libro non è quella di ricostruire definitivamente la “visione del mondo” dei contadini fran-cesi dell’epoca attraverso le fiabe che si raccontavano, ma introdurre a un certo modo di fare storia, mettere insieme diverse informazioni in un disegno che si avvicini il più possibile all’originale».
Esiste dunque una specificità dei modi di pensare, degli stili culturali? Uno stile francese diverso da quello tedesco o italiano?
«Naturalmente non si possono sottovalutare le differenze regionali, a partire dal fatto che molti francesi dell’epoca che io studio non parlavano nemmeno il francese! Tuttavia già autori come Delarue parlavano di una “francesità” che emerge ad esempio confrontando le fiabe popolari con quelle tedesche dello stesso periodo. In un libro più recente mi occupo di come le forze dell’ordine francesi, a metà Settecento, davano la caccia agli autori di poesie e canzoni popolari ritenute sediziose, seminando di spie le sale da caffè. Queste composizioni si sentivano dappertutto e facevano probabilmente la funzione di notiziari per l’epoca; esse rivelano un tono, un inconfondibile idioma comune, anche nella parte musicale. Questi poeti e musicisti di strada, oggi completamente dimenticati, formavano una vera e propria subcultura che non era disconnessa dalla “cultura alta”; alcuni di loro erano amici di Diderot e lui stesso fa riferimento a questa tradizione, ad esempio in Jacques le fataliste.La cultura orale non era isolata da quella degli intellettuali, le correnti culturali si muovono continuamente verso l’alto e verso il basso…».
La specificità di stili culturali e modi di pensare resiste anche oggi, in un’epoca di intensa comunicazione globale?
«Direi di sì, seppure con prudenza… oggi è facile parlare di “villaggio globale” ma un’immagine scattata da uno smartphone in Egitto è un oggetto culturale mediato da una specifica sensibilità. Tutto il mondo può condividere un repertorio di immagini, suoni ed eventi; le correnti culturali viaggiano in tutto il mondo così come nel Settecento viaggiavano tra i caffè letterari e le campagne. Questo non significa che tutto si sia appiattito e certamente non cancella le specificità culturali…».
Pensa che il suo metodo possa essere applicato anche all’epoca contemporanea? Ad esempio, si può ricostruire l’ambiente e lo stile culturale della Germania orientale a partire dai documenti della Stasi?
«Per l’appunto ho appena terminato un libro sulla censura che prende in esame, tra l’altro, proprio il caso della Germania Est nel periodo comunista. L’idea è di comprendere che cos’era in effetti lacensura dal punto di vista operativo, analizzando gli interventi materiali e i cambiamenti apportati alle opere da autori, editori e autorità, ad esempio ricostruendo come gli stessi poeti cercavano di negoziare con la censura. Noi tendiamo ad averne uno stereotipo astratto, ma nella pratica la censura è fatta di negoziazione, di complicità, di andirivieni tra produttori e controllori».
Da un certo punto di vista, quindi, si potrebbe parlare dei censori come coautori delle opere in questione?
«Esattamente, è proprio questo il punto. Un esponente della censura tedesca scrive: “Su questo manoscritto ci ho lavorato più io dell’autore!”. Un’opera come un libro è sempre il risultato della collaborazione di autori, tipografi, editori, e in certi casi perfino di censori».

Il grande massacro dei gatti di Robert Darnton, Adelphi pagg. 422, euro 28 Darnton, storico, è anche direttore della biblioteca della Harvard University