sabato 5 novembre 2011

l’Unità 5.10.11
Oggi a San Giovanni la manifestazione del Pd: «Noi pilastro imprescindibile dell’alternativa»
Ci sarà anche il segretario della Cgil Camusso. Al via una sottoscrizione per le zone alluvionate
«Via il governo e l’Italia ce la fa» Dalla piazza la sfida di Bersani
Via Berlusconi, Pd pilastro dell’alternativa, e l’Italia ce la farà. È il messaggio che lancerà oggi da San Giovanni Bersani. «Essere sotto tutela ci toglie libertà e un po’ di dignità. Dal premier battute agghiaccianti»
di Simone Collini


«Con il cambiamento l’Italia ce la farà». Dal palco di San Giovanni oggi Pier Luigi Bersani lancerà parole «di fiducia», illustrando le proposte del suo partito per uscire dalla crisi e puntando a dimostrare non solo che un’alternativa al berlusconismo può già esserci, ma che il Pd ne è un «imprescindibile pilastro». Il leader dei Democratici sa che la prossima settimana si giocherà in Parlamento una partita decisiva, perché sembrano essersi create le condizioni per la caduta del governo ma anche perché a seconda di come si aprirà la crisi si capirà che direzione prenderà il dopo Berlusconi. E Bersani, che con Dario Franceschini sta valutando se presentare una mozione di sfiducia sia la mossa più conveniente per raggiungere l’obiettivo («certo, in un Paese normale non accadrebbe che in una situazione di crisi così grave si debba stare attaccati al voto di una o due persone»), sta lavorando perché il tutto non si risolva poi in «un ribaltone».
Se nel centrodestra c’è infatti chi lavora a un governo guidato da Gianni Letta che possa aprire all’Udc, il segretario del Pd ha messo in chiaro in tutti i colloqui avuti negli ultimi giorni che il suo partito sosterrà soltanto un esecutivo che segni una netta «discontinuità», poggi su un consenso «larghissimo» e sia composto da persone autorevoli in Italia e all’estero. Ne ha parlato anche con Pier Ferdinando Casini, con il quale il leader del Pd non dispera di chiudere quando sarà il momento un accordo elettorale, anche se è già stato messo a punto un piano B che prevede un patto di legislatura basato su pochi punti programmatici condivisi da far valere dopo il voto (lo stesso leader Udc non nasconde di volersi tenere le mani libere al voto perché poi «la nostra forza sarebbe quella di costringere il vincitore a venire a patti»).
DAL PREMIER BATTUTE AGGHIACCIANTI
Che si vada effettivamente verso un governo di transizione o che Berlusconi riesca a impedirlo e a portare il Paese alle elezioni anticipate, Bersani (convinto comunque che si voterà prima del 2013) oggi vuole mostrare da San Giovanni la forza organizzativa e programmatica di cui dispone il Pd. Dal palco tricolore, con alle spalle la scritta «Ricostruzione: un grande Paese merita un futuro migliore» e ai lati le parole «In nome del popolo italiano», il segretario Pd non solo attaccherà a testa bassa un premier che continua a negare la crisi facendo «battute che fanno rabbrividire, agghiaccianti» e un governo che con la sua mancanza di credibilità ci ha portato «sul fronte più esposto» della crisi. «Essere sotto tutela per un grande Paese come il nostro è un fatto che ci toglie libertà e anche un po’ di dignità», diceva ieri dopo i pronunciamenti di G20 e Fmi, e oggi ribadirà il concetto, dicendo che se ci sarà un cambio politico ci vorrà poco a recuperare la credibilità persa perché il Pd ha proposte alternative per superare la crisi e perché «il mondo ha capito che un conto è Berlusconi e un conto sono gli italiani».
In piazza dalle 12 ci saranno, oltre al gruppo dirigente del Pd (“rottamatore” Matteo Renzi compreso) anche esponenti dell’Idv (guidati da Antonio Di Pietro), di Sel, dei Verdi, associazioni come Articolo 21, il segretario della Cgil Susanna Camusso. Dal palco, dove suoneranno Roberto Vecchioni i Marlene Kuntz e altri, parleranno prima della chiusura di Bersani la portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) Laura Boldrini, l’assessore all’Ambiente del comune di Calice al Cornoviglio, in provincia di La Spezia, Alessandra Rossi (il Pd lancerà proprio da qui una sottoscrizione in favore delle zone alluvionate di Liguria e Toscana), il vicepresidente della Dc cilena Jorge Burgos e il leader della Spd tedesca Sigmar Gabriel, giunto a Roma ieri pomeriggio. Nella serata un impegno improvviso ha trattenuto invece a Parigi il socialista francese François Hollande, che ha registrato un videomessaggio che verrà trasmesso prima dell’intervento di Bersani.

l'Unità 5.11.11
Su Unita.it diretta video foto e tweet

La lunga giornata “democratica” sarà seguita passo passo da Unita.it. Il nostro sito racconterà l’iniziativa Pd a cominciare dalla mattina con l’arrivo dei manifestanti a Roma. Dalle 12.30 la manifestazione sarà coperta da una lunga diretta video (video.unita.it/tv/) che seguirà gli interventi politici dal palco e le esibizioni musicali. Su Unita.it continueranno per tutta la giornata aggiornamenti testuali dalla iniziativa, video esclusivi, immagini e gallerie fotografiche e interviste alla gente di Piazza San Giovanni e ai protagonisti sul palco. Ma ad essere protagonisti saranno direttamente i manifestanti democratici in arrivo a Roma da tutta Italia che avranno la possibilità di inviarci il loro racconto della giornata, le loro foto e i video girati in piazza inviando tutto alla nostra e.mail unisciti@ unita.it o condividendo sulla nostra pagina Facebook (http://www.facebook. com/unitaonline?sk=wall). Per twittare dalla Piazza o per leggere tutte i messaggi la parola chiave o hashtag sarà #cinque11 (http://twitter.com/#!/unitaonline). Sul nostro sito spazio anche agli sms dei giornalisti inviati in piazza e ai commenti dei tanti lettori che seguiranno la manifestazione da casa.
Diretta dalla manifestazione anche su Youdem, canale sky 808

La Stampa 5.11.11
Bersani in piazza:“Ora tocca a noi”


Sarà perché il suo animo emiliano lo fa restare ancorato con i piedi per terra che Pierluigi Bersani non riesce a sembrare intimamente certo di un crollo ad horas di Berlusconi, al punto da lanciare oggi da piazza San Giovanni il segnale ai militanti che il governo di emergenza sarebbe comunque solo un passaggio, ma l’orizzonte politico resta il voto. Altrimenti non si vede perché lo slogan forte del comizio odierno, sarà una sorta di «adesso tocca a noi», più bellicoso rispetto alla decantazione di «larghe intese» sempre poco allettanti per il popolo della sinistra.
Siamo alla crisi? «Mah, vedremo...», risponde cauto Bersani alla vigilia di una manifestazione che sarà ristretta nei tempi e nel folklore, per rispetto alle vittime di Genova e per il timore di acquazzoni sulla capitale.
E anche se la linea fissata resta quella trasmessa al Colle di una piena disponibilità ad un governo del Presidente, i paletti fissati dal leader Pd delineano un sì ben condizionato: «Un governo di transizione deve essere fatto innanzitutto da persone autorevoli in campo nazionale e internazionale», quindi niente governi a guida Pdl; secondo, «no a un ribaltone e a un governo che viva nel piccolo cabotaggio di uno o due voti», dice al Tg3 Bersani. Perché, dicono i suoi, «a un governo che sia una sommatoria di opposizioni e dissidenti del Pdl lui non ci sta». Per concludere infine che «se non c’è tutto questo si deve andare a votare prima del 2013». Facendo intendere di ritenere più probabili elezioni in primavera, anche se il Pd sostiene gli sforzi di Casini per raccogliere altri voti in grado di sostenere un’eventuale mozione di sfiducia. Intanto Bersani rassicura i mercati dicendo «siamo un grande paese, se dobbiamo fare sacrifici, sappiamo come farli», anche senza tutele e «la gente aspetta che qualcuno intervenga in modo equo, andando a prendere i soldi dove ci sono, con equità».

Repubblica 5.11.11
Il Pd in piazza per la spallata "Governo autorevole o voto"
Le condizioni di Bersani: servono misure eque
di Giovanna Casadio


ROMA Oggi è il giorno della piazza. Tricolore. Con migliaia di persone (organizzati 700 pullman, 14 treni, 2 navi). Con il pensiero alla tragedia della Liguria e della Toscana (sarà lanciata la sottoscrizione per aiutare gli alluvionati, e ridotta la festa annunciata). Con l´obiettivo di fare sentire la voce dell´Italia migliore. Con le parole d´ordine: «Cambiamento, fiducia e ricostruzione. O si cambia il governo o si anticipano le elezioni come hanno fatto altri governi in Europa. Berlusconi deve fare un passo indietro». Pierluigi Bersani difende la scelta del Pd di una grande manifestazione in piazza San Giovanni: «Chi dice che la manifestazione democratica è inopportuna, sbaglia». La piazza della protesta civile può essere una delle tessere della spallata a un governo in agonia, in uno dei momenti più drammatici per l´Italia. L´inizio della liberazione: sperano i Democratici, sicuri che «Berlusconi teme le Idi di novembre, a marzo non arriva». E nelle trenta cartelle di discorso, circa un´ora, che Bersani ha finito di limare ieri sera, c´è la sfida per il "dopo".
«L´Italia merita rispetto e un futuro migliore», ripeterà. Come già nello spot online della manifestazione preceduto dal filmato di Merkel e Sarkozy che ridono dell´affidabilità del premier italiano. Il Pd è certo che al 2013 questo governo non approda. Pronti a votare oppure ad appoggiare responsabilmente un governo tecnico. A condizione che sia «autorevole, composto da persone autorevoli in Italia e all´estero». Non ci sarà sponda insomma a un esecutivo di Gianni Letta o di Schifani. Insisterà quindi su un altro tasto, il segretario: l´equità. «Servono misure eque, nessuno pensi a fare macelleria sociale», è l´avvertimento. Quello che Di Pietro voleva sentir dire. Il leader di Idv sarà in piazza. Non ci sarà Vendola, ma presente una delegazione di Sel.
C´è l´incognita meteo (prevista pioggia in mattinata: per questo tra i gadget c´è anche il poncho impermeabile). Nel partito le polemiche scemano. Non ci sarà Follini, ma tutti presenti da Fioroni a Veltroni, D´Alema, Bindi e anche Renzi il "rottamatore". Enrico Letta accoglierà dalle 9,30 i manifestanti che arrivano alla stazione Termini. Alemanno ha proibito i cortei, ma saranno sfilate alla spicciolata. Hollande non ci sarà, manda un video. Bersani parla alle 16. Musica dalle 12,30, e alle 14,30 Boldrini; il leader Spd, Gabriel; poi ancora musica con i Marlene Kuntz e Vecchioni.

il Riformista 5.11.11
Il Pd in piazza misura le forze
di Ettore Maria Colombo

qui

l’Unità 5.11.11
Intervista a Siegmar Gabriel
«I Grandi hanno fallito Serve un mercato sociale con regole chiare»
Il presidente della Spd interverrà a San Giovanni: «I leader conservatori sono stati subalterni al radicalismo liberista che ha provocato questi danni»
di Paolo Soldini


Il G-20? Un fallimento. I leader dei paesi più industrializzati del mondo hanno prodotto tanta carta, ma non ci siamo avvicinati di un passo a quella severa regolazione dei mercati che invece, ormai, è assolutamente necessaria». Parte dall’attualità Siegmar Gabriel, il presidente della Spd, che parla a un gruppo di giornalisti nella sede della Direzione del Pd. Oggi sarà sul palco di San Giovanni insieme con Pier Luigi Bersani, a testimoniare una comunità politica che cerca unità e risposte da sinistra alla crisi che si sta mangiando l’Europa. Il G-20, dunque. «È uno scandalo: è come se la crisi del 2008-2009 non ci avesse insegnato nulla. I leader conservatori europei, a cominciare dalla cancelliera Merkel e dal presidente Sakozy, hanno perso 18 mesi prima di affrontare il problema Grecia. Ci hanno messo tutti in una situazione in cui dobbiamo decidere tra una soluzione cattiva e una peggiore. Questo perché ci si ispira ancora a quel radicalismo di mercato che ha provocato tutti i danni che vediamo. E che dovrebbero vedere pure loro, i leader del G-20. Dovrebbero capire che invece è arrivato il momento di tornare a sviluppare un’economia sociale di mercato»
Un concetto molto “tedesco”...
«Sì, però dobbiamo sviluppare un’economia sociale di mercato che non sia più a livello nazionale ma a livello europeo. Anzi, a livello europeo e internazionale, mondiale. Non si può continuare a fissare regole ciascuno nel suo paese. Così si produce solo carta. E invece si tratta di difendere il nostro modello di vita europeo, che deve essere sostenibile».
Ma chi deve proporre le regole? E’ un compito che spetta alla sinistra? Si può immaginare una piattaforma comune della sinistra in materia di regolazione dei mercati? Lei ha avanzato delle idee, per esempio la separazione delle banche d’affari dalle banche commerciali.
«Sì. Ma bisogna partire dal presupposto che a questo compito enorme debbono partecipare anche i partiti conservatori. Prima di venire qui a Roma sono stato a Londra. Ebbene, sulla proposta di separare le banche ho trovato consenso nella commissione di vigilanza sulla finanza. In un documento ufficiale, la relazione Vickers elaborata nel 2008, c’è scritto proprio questo. Non si tratta di distruggere le banche, ma di separare l’uso dei capitali dalla speculazione. Il rischio e la responsabilità debbono essere in una mano sola e non deve più accadere ciò che accade ora: si privatizzano i vantaggi e si socializzano le perdite. Adesso il mondo delle banche è come un casinò. Io non voglio chiudere il casinò, voglio però che chi va a giocare lo faccia a rischio proprio, non con i soldi degli altri e scaricando sulla collettività le proprie perdite. Questo, ripeto, non è interesse solo della sinistra. Perciò dico che il G-20 ha mancato ai propri compiti». Affrontiamo un tema delicato, quello del referendum. A quali condizioni lei pensa che sia uno strumento al quale ricorrere?
«Non si può fare un referendum sull’euro. Posso immaginare che si ricorra alla consultazione popolare se si cambia tanto, in Europa, da arrivare alla riforma dei Trattati. In quel caso, sì, è giusto far esprimere i cittadini. Ma alla fine del processo di riforma, non prima. La Corte di Karlsruhe, la nostra corte costituzionale, lo ha chiarito molto bene: l’eventuale riforma dei Trattati è “al confine” della nostra Costituzione. Se si passa quel confine, allora è necessario chiamare i cittadini a esprimersi».
Però c’è un referendum che era stato proposto, non in Germania ma in Grecia. La cancelliera Merkel è stata molto dura con Papandreou. Lo sarebbe stato anche lei? E il suo partito come pensa di affrontare il problema della legittimità democratica delle scelte che vengono prese dall’Europa per contrastare la crisi? «George Papandreou è un uomo coraggioso. Ha combattuto per 18 mesi cercando di correggere errori gravissimi che erano stati commessi dai governi precedenti. Uno dei peggiori governi era
stato quello dominato dal partito conservatore Nea Demokratia. Ora quel partito è all’opposizione e non ha fatto altro e non fa altro che aizzare la gente perché si ribelli e faccia cadere il governo, dicendo che poi torneranno al potere loro e otterranno condizioni più miti da parte dei leader europei che appartengono alla loro stessa parte politica. È un gioco infame. Se Merkel e Sarkozy avessero avuto a cuore le sorti dei cittadini greci avrebbero richiamato alla responsabilità il partito che appartiene alla loro stessa famiglia politica. Avrebbero spinto i suoi dirigenti ad assumersi l’onere della situazione. Magari avrebbero potuto chiedere loro di entrare nel governo. Invece sono stati al gioco di chi vuole farlo cadere. È stato un grande gioco a scaricabarile e alla fine Papandreou si è ritrovato con il cerino in mano: il suo partito esitava a sostenerlo e la destra boicottava i suoi sforzi. L’idea del referendum è stata l’ultima carta da giocare per cercare di farcela. Il problema del referendum, però, è che quello che è giusto per la democrazia può essere negativo per l’economia. Se si fosse tenuto, il referendum greco avrebbe messo in difficoltà gli altri paesi, a cominciare dall’Italia. Ora auspico che Merkel e Sarkozy si decidano a fare pressione sui loro confratelli di Nea Demokratia perché si giunga in Grecia a un governo di unità nazionale. Non vedo altre soluzioni». Pensa così anche per l’Italia? «L’Italia deve avere un governo che sia circondato da più fiducia. È una questione che non attiene solo all’economia. Riguarda il rispetto degli standard civili, l’obbedienza alle leggi, anche le modalità del rapporto tra il potere e l’opinione pubblica, la correttezza dell’informazione. Sono aspetti che fanno parte delle tradizioni italiane e sono la ragione per cui gli italiani sono amati nel mondo. Sarebbe bene che anche il governo rispettasse queste qualità. Oggi come oggi l’Italia viene trattata peggio di quanto vale. Però devo dire che in Germania nessuno confonde il vostro paese con il suo attuale governo e con Silvio Berlusconi».

l’Unità 5.11.11
«Basta con la politica dell’incomprensione. Investire sui giovani»
Il cantautore oggi sul palco di S. Giovanni: «Sarà la piazza della fiducia che vuole resettare gli anni bui del berlusconismo»
di Roberto Brunelli


Professor Vecchioni, lei sarà sul palco di San Giovanni. Quella piazza chiede il riscatto del Paese. Ci sarà, questo riscatto?
«Sì, sono ottimista. Il governo effetivamente è al capolinea: c’è voluto del tempo, ma era inevitabile che accadesse. Semplicemente non è possibile che una minoranza resistente del centrodestra nemmeno lo chiamerei centrodestra, per la verità tenga in vita un governo che fa ridere tutto il mondo mentre in un’Italia sempre più disperata tutte le categorie lavorative gli si rivoltano contro. Ci fossero solo gli operai e i precari, per dire, si potrebbe dire che è una cosa di parte... E invece no: la Confindustria, i commercianti, le parti sociali, tutti a ripetere che questo governo non ha più nessuna legittimità. Io credo che oggi questa piazza rappresenterà una parte molto grossa del pensiero della maggioranza italiana».
Intanto però c’è lo spettro dell’Europa. La Grecia è alla disperazione. L’Italia vi si sta avvicinando.
«Bisogna resettare. Abbiamo seguito politiche di incomprensione per anni e anni. Anche le sinistre non sono state eccezionali nel capire che fosse necessario un nuovo modo di pensare il presente, la società, il futuro. In questo, il nostro apporto ai giovani è stato piuttosto basso. Se davvero vogliamo cambiare la società, dobbiamo imparare a rischiare sui giovani. Fin dall’inizio, fin dai primi anni di vita, i giovani devono essere educati al prossimo, agli altri, al senso degli altri. In Italia abbiamo sempre avuto molto spiccato il senso di noi stessi, e abbiamo sempre avuto molta difficoltà ad agregarci, ad associarci, a sentire le altre persone uguali a noi. Troviamo più vantaggioso allearci con i simili: ci ritroviamo nei club, nelle congreghe, nelle sette. Raramente ha predominato il sentire civile in Italia. E invece i ragazzi lo devono imparare subito, sin dalle elementari. Deve essere una materia fondamentale».
Se n’è dibattuto molto in questi ultimi tempi: meglio andare a votare subito oppure è meglio andare ad un governo di transizione o, chiamiamolo così, di salvezza nazionale?
«Mah... io questo non lo so di preciso. Non sono un politico, sono un poetastro, uno scrittorastro, non so dire quali siano le cose migliori dal punto di vista politico. D’istinto mi viene di pensare che bisogna andare a votare subito. Però se il modo migliore per togliercelo di torno (Berlusconi, ndr) è un governo istituzionale o qualcosa del genere, va bene lo stesso».
Cosa ci rimarrà di tutti questi anni di berlusconismo? C’è chi pensa che il berlusconismo abbia attecchito anche in diversi ambiti della sinistra...
«C’era anche prima il berlusconismo. Non era aggregato, ma c’era: io, io io, il profitto, il guadagno, il potere, la deriva mediatica. Tutta roba da cui Paese si deve depurare. Dopodiché, il problema non è tanto lui, quanto quello che rappresenta: un mondo falso, un mondo di fiction, un mondo in cui l’unica cosa importante è comprare e vendere. È quel simbolo che va abbattuto. Guardi, è fondamentale che esista una destra, che esista un contraddittorio. Ma in Italia la destra non è Silvio, è Fini: quella è una destra storica con cui confrontarsi».
Intanto la crisi sembra avvitarsi intorno a se stessa, in una spirale autodistruttiva. Un meccanismo che pone molte domande intorno a cosa sia oggi la democrazia....
«È una domanda difficilissima. Grecia, Portogallo, Spagna: quando parliamo dell’oggi dobbiamo valutare gli errori fatti negli ultimi venti o trent’anni, le dimenticanze, le insensatezze, gli abbagli. Però la democrazia però non può, non deve essere messa in discussione. È l’unica possibilità che abbiamo di soppravvivere. Non è una scienza, non né perfetta, né vicina alla perfezione, ma non ne possiamo fare a meno. Se non ci fosse la democrazia, l’Italia oggi sarebbe in bancarotta. I tedeschi e i francesi stanno aiutando proprio perché c’è un senso comune della sopravvivenza, e un senso comune della democrazia».
Sul palco di San Giovanni ci sarà il capo della Spd tedesca Sigmar Gabriel, il francese Hollande manda un videomessaggio. In molti pensano che oggi, per rispondere alla gravità della crisi, l’unica possibilità sia «pensare europeo»...
«Certo che bisogna pensare europeo, ed è un trampolino per pensare mondiale. I Paesi del Vecchio continente, dal nord al sud, sono molto simili. Siamo quasi tutti indoeuropei o latini, e guardi quanto sono simili i nostri pittori, i nostri poeti... è la storia a renderci simili. Certo non possiamo rinchiuderci nella nostra piccola Italia. C’è addirittura che vuole dividerla, l’Italia: siamo alla follia. Non c’è bisogno nemmeno di commentare. Il presidente Napolitano ha già sottolineato il ridicolo».
Da New York a Roma, sembra che tutto il mondo stia manifestando. Si scende in piazza con proposte concrete. Pare quasi che sia in corso un diffuso cambiamento di mentalità... «Lo credo anch’io. Sono molto ottimista sul cambiamento: non si può andare avanti in un mondo in cui il 10% possiede tutto e il 90% quasi niente. Non è naturale. Non sono un economista, ma penso che le storture si possano riparare. Non solo nell’aldilà. Anche qui, nel presente. A cominciare da oggi».

Repubblica 5.11.11
Vecchioni atteso a San Giovanni: prioritario mandare via il premier
"Il mio messaggio dal palco perché la sinistra resti unita"
Berlusconi ha inventato un mondo di cose da vendere e comprare, senza valori, un mondo di apparenza veicolato dalle sue tv
di Carlo Moretti


ROMA Il premio è impegnativo, gliel´hanno assegnato perché lo considerano un "Testimone del tempo". La giuria lo impegna ancora di più: era formata da 500 ragazzi delle scuole medie superiori calabresi. Roberto Vecchioni ieri era ad Acri per ricevere il Premio "Vincenzo Padula" e per parlare ai ragazzi di "Realtà, sogno, emozioni": un dialogo che è durato oltre 3 ore. Oggi pomeriggio il professore della canzone italiana è atteso in piazza San Giovanni alla manifestazione del Pd: salirà sul palco per suonare e cantare, ma dirà anche qualcosa in linea con il messaggio chiave lanciato dal segretario Bersani.
Che cosa dirà, Vecchioni?
«Dirò che la sinistra deve essere unita, perché è fondamentale. E dirò che i giovani contano più di tutto. E poi che mandare via Berlusconi è la priorità: inviterò tutti ad indossare una spilla o qualcosa di arancione, il colore del movimento promosso anche da mia moglie, cui hanno già aderito in tanti. Non è una reazione contro la persona Berlusconi, per la sua condotta di vita o per il suo comportamento dittatoriale, ma piuttosto contro il mondo che ha inventato, un mondo di cose da comprare e vendere, senza valori. Il concetto di Berlusconi è il presente, "goditi il presente e fregatene del resto". Noi uomini normali pensiamo anche al futuro, lui vuole tutto e subito e a questo mondo di apparenze ha educato i ragazzi attraverso le sue tv».
Un danno irrecuperabile o c´è comunque una speranza?
«Io sono ottimista, la storia insegna che si può tornare indietro anche dalle distruzioni più grandi, che il cambiamento è sempre possibile. Anche questa non è una crisi irreversibile, l´importante è trovare accordi a sinistra, non so se ora c´è la forza per farlo ma sono sicuro che nel momento in cui Berlusconi cade, in tutti prevarrà uno spirito civico nazionale».
Perché ha deciso di partecipare alla manifestazione del Pd?
«Perché il Pd è il mio partito di riferimento, e perché se penso ad un mondo per come lo desidero dal punto di vista esistenziale, politico e civico, io vedo un mondo di sinistra e il Pd è il partito che meglio lo rappresenta, che accoglie più gente. Il Pd è la mia mamma e io faccio la chioccia al nipotino del Pci».
Si troverà nella stessa piazza in cui per un´altra manifestazione, il 15 ottobre scorso, si è scatenato il finimondo.
«C´è un limite alla sopportazione ed è stato superato. Meno male che la maggioranza dei ragazzi di fronte a questo attacco violento alla loro dignità ha reagito con il pensiero e la parola, manifestando civilmente».

Repubblica 5.10.11
I carnefici del territorio
di Carlo Pietrini


Il 4 novembre 1966 l´Arno invase Firenze. Dopo 45 anni nulla è cambiato. Si resta sgomenti. L´Italia non regge più ore e giorni di pioggia. Muoiono persone, e anche una sarebbe troppo. Muoiono bambini.
Non servono più gli allarmi se i sindaci non mettono in atto misure di prevenzione. Se il clima è cambiato, se a Genova in cinque minuti sono caduti 50 millimetri di acqua, dobbiamo cambiare anche noi. Altrimenti si continuerà a morire, nelle grandi città e nelle nostre case che crediamo sicure. A Genova il sindaco ha lasciato scuole e uffici aperti, e solo ieri sera ha proibito, per oggi, il traffico di auto. Troppo tardi.
Oltre alla profonda tristezza, da lacrime agli occhi, si resta increduli nonostante lo si sia detto troppe volte. Si denunciano lo scellerato consumo di suolo libero, la cementificazione selvaggia, l´incuria cui sono sottoposti i terreni demaniali in svendita, i boschi, le coste e i suoli che un´agricoltura in crisi come non mai non riesce più a curare. Lo Stato da anni taglia fondi e personale per la cura del territorio. Pensano alle grandi opere e non si preoccupano più delle piccole. Minime, ma che a volte salvano vite. Ci sono delle colpe. Gravi.
L´altro ieri il ministro dell´Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ammetteva il fallimento dell´impegno principale assunto sull´ambiente. Come ha dichiarato la ministro in commissione al Senato, il miliardo di euro stanziato con la Finanziaria 2010 per la messa in sicurezza del territorio non è mai stato reso disponibile. Con la legge di stabilità è stato anche ufficialmente cancellato e sostituito con un impegno del tutto generico, e non vincolante. Queste sono colpe, per cui un normale cittadino verrebbe condannato. Non c´è crisi che tenga di fronte alla cura del bene comune, il primo impegno che ogni Stato degno di questo nome dovrebbe avere.
Non c´è cura se non si cura la piccola agricoltura di qualità, che in molte zone ritenute "arretrate" ha salvato dal naufragio (umano nonché meteorologico) intere aree del Paese. Non c´è cura se si preferisce l´agricoltura dei grandi numeri, quella industriale che dicono «competitiva», che alla fine desertifica. Non c´è cura se c´è cemento ovunque. Non c´è cura se il soldo arriva a prevalere sul buon senso, quello che potrebbe salvare i nostri territori dalla bruttezza e dall´insicurezza più letale.
Smettiamola di dire che le alluvioni sono eventi eccezionali. Perché le abbiamo rese normali. Di fronte a cittadini ormai disabituati alla cura, lo Stato e la politica su questo fronte hanno colpe enormi. Sono anni che non si vede tra le priorità di un programma elettorale o di governo la difesa del territorio, nemmeno tra i riempitivi. Spero che mentre si contesta questo governo, visti i drammi recenti, i partiti inizino a pensarci seriamente, a programmare, a spendere parole e impegni forti, proprio a partire dalle adunate di piazza. Spero che ascoltino quella buona parte di società civile che lo chiede da tempo e già ci lavora con passione e sacrifici. O quegli agricoltori distrutti dai debiti che nonostante tutto lo fanno ogni giorno, nel proprio podere. Un poeta come Tonino Guerra un anno fa mi ha detto: «L´Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c´era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l´abitavano: i contadini. Dobbiamo riapprendere quella forza d´amore che avevano loro». Qui non è più sufficiente indignarsi, bisogna tornare ad amare per davvero questa terra. Vilipesa non soltanto nei comportamenti inqualificabili di chi governa, ma nell´indifferenza di fronte a scempi che non sono più tollerabili. Anche se non lo erano già ben prima di arrendersi allo sgomento di questi tristi giorni della nostra storia.

Repubblica 5.11.11
L’importanza della verità
di Adriano Prosperi


L´autunno italiano è triste, luttuoso, incerto. Gravano su di noi la maledizione della natura e l´irrisione del mondo intero. La lingua stessa sembra diventata di legno, equivoca, inservibile. Ma quando la usa il presidente della Repubblica tutti la capiscono. «Parliamoci chiaro, dice oggi Giorgio Napolitano nei confronti dell´Italia è insorta in Europa, e non solo in Europa, una grave crisi di fiducia. Dobbiamo esserne consapevoli e sentircene, più che feriti, spronati nel nostro orgoglio e nella nostra volontà di recupero». Dire la verità, dirla con chiarezza, con nettezza, in limpido italiano è il dovere d´ufficio che il capo dello Stato si è assunto. Oggi ne abbiamo avuto una nuova prova, tanto più importante quanto più amara è questa verità e più urgente la necessità che il Paese intero ne prenda coscienza. Da giorni, da anni, un altro uomo, uno che dice di governare l´Italia ma che è considerato da tutto il mondo un ostacolo alla credibilità di tutti noi come individui e come Paese, tenta di venderci la sua capacità di illusionista, mentre coi più meschini calcoli di potere personale rinvia le scelte necessarie e trascina sempre più in basso la credibilità del Paese avvolgendo nelle nebbie di messaggi vaghi la comunicazione con le istituzioni europee.
La parola di Napolitano giunge ancora una volta tempestiva in risposta alle incredibili dichiarazioni di un premier che cerca di raccontarci la sua favola preferita: quella dell´Italia paese ricco, dove abbondano i soldi e i consumi, dove i ristoranti e gli hotel traboccano di clienti, gli aerei di passeggeri. Dove se c´è qualche problema è per colpa dell´euro. A queste menzogne il Paese ha il torto di avere creduto nella sua maggioranza per troppi anni. Oggi scopre a carissimo prezzo di avere sbagliato: la voce dei pentiti non potrebbe essere più corale. E la verità è la medicina amara che deve prendere per guarire, per cessare di essere un burattino nelle mani di un manipolatore professionale dell´informazione.
Enorme è il conto che viene presentato all´Italia al risveglio dal suo lungo sonno. Ci vorranno generazioni intere per saldarlo – le generazioni dei nostri figli. Il nostro è oggi un Paese che va letteralmente in pezzi, giorno dopo giorno: qui se sono fatiscenti e abbandonati i ruderi del mondo antico, ancor più fragili sono le costruzioni recenti.
Mai come oggi l´idea che ci sia qualcuno che governa l´Italia appare surreale. È per questo che è necessario dire agli italiani che c´è una grave crisi di fiducia nel mondo che ci riguarda e che dunque tutti gli italiani debbono sentirsi chiamati a risalire questa china. Il Paese Italia resterà inaffidabile finché parlerà al mondo con la voce dell´attuale presidente del Consiglio. Dunque deve esserci un´altra voce che si faccia ascoltare e che parli a nome di noi tutti. Poi ci divideremo nella divisione dei debiti e nel conteggio di chi deve pagare. Ma non oggi.
Riconciliare le parole con la verità è il primo passo della ricostruzione che ci aspetta. Sarà una lunga fatica ma senza questo primo passo non si può nemmeno cominciare a rimboccarsi le maniche. Dunque è fondamentale che ci sia chi dice parole di verità: tanto meglio se lo fa con la garanzia di una credibilità che gli deriva non dalla sua pur altissima posizione istituzionale ma dal fatto di non avere mai mentito agli italiani e di avere saputo interpretare sentimenti e bisogni profondi del Paese. "La verità vi renderà liberi", si legge nel Vangelo di Matteo. "La verità è rivoluzionaria", scriveva Gramsci.

Corriere della Sera 5.11.11
Governo in bilico, caccia ai radicali
La maggioranza rischia «quota 306». Ma le contromosse pdl «arginano» la fuga


ROMA — Tra lunedì e martedì Bersani ha in agenda un incontro con i Radicali, segno che i sei deputati di Marco Pannella sono considerati decisivi nella partita finale. I leader delle opposizioni temono che una «pannellata» possa far saltare i conti e cercano di raggiungere numeri così ampi da disinnescare la mina. Ma se si sta alle parole di Pannella, che pure potrebbe chiedere ai suoi di astenersi sul rendiconto, non saranno i radicali a salvare Berlusconi. Il leader lo scolpisce su Twitter: «Discutiamo misure, ma voteremo no a fiducia».
I numeri della resa dei conti dicono che Berlusconi ha perso la maggioranza assoluta dei 316. Il passaggio di Alessio Bonciani e Ida D'Ippolito all'Udc ha portato l'asticella a 314 e lo strappo dei dissidenti dell'Hotel Hassler rischia di far precipitare tutto. Giustina Destro e Fabio Gava non avevano votato l'ultima fiducia, ma gli altri quattro sì e un loro spostamento nel campo avversario farebbe la differenza. Roberto Antonione ha sentenziato che non voterà mai più la fiducia, Giancarlo Pittelli viene dato per perso dal Pdl e così Isabella Bertolini. E Giorgio Stracquadanio? Non ha ancora deciso: «Il maxiemendamento alla legge di stabilità voglio prima vederlo». Senza il suo voto la maggioranza sarebbe a 310. Anzi no, perché la triste notizia della morte di Pietro Franzoso riporta Berlusconi a 311. Al deputato che a settembre era stato schiacciato da un cancello subentra Luca D'Alessandro, il portavoce di Verdini. L'uomo dei numeri non lo dice, ma nelle sue previsioni più cupe il governo può scendere fino a 306: l'abisso. Tanto che gli avvocati del premier stanno verificando la possibilità, assai remota, di far votare Alfonso Papa, agli arresti domiciliari.
E adesso spunta un altro documento di rottura, ideato da un esponente del governo e condiviso pubblicamente da una «inflessibile» Giustina Destro. Il sottosegretario Enzo Scotti chiede «l'immediata formazione di un nuovo esecutivo politico», Santo Versace si tira fuori ma con l'ex ministro dell'Interno firmano Luciano Sardelli e Antonio Milo. Il primo è il deputato—scrittore che ha lasciato il 14 ottobre la maggioranza e l'altro è uno degli onorevoli più corteggiati dai nemici del premier. Sardelli non voterà la fiducia neanche sotto tortura e, in cuor suo, si augura che Milo lo segua. E un certo interesse ha destato la nascita di una componente nel gruppo Misto formata da quattro ex finiani. Adolfo Urso, Andrea Ronchi, Antonio Buonfiglio e Pippo Scalia, hanno dato vita a «Fare Italia», il cui obiettivo dichiarato sono «le riforme necessarie al Paese». Ronchi conferma lealtà al governo: «Se non ci sono i numeri per mantenere gli impegni presi con l'Europa non c'è che una via, le elezioni anticipate». Nell'Udc sono convinti però che Buonfiglio non voterà la fiducia.
Il monito di Berlusconi sembra aver impresso una pausa alle grandi manovre parlamentari. I «ribelli» del Pdl progettano di votare martedì il rendiconto dello Stato (o al limite di astenersi) e guardano con preoccupazione al voto sulle misure che l'Europa ci chiede. E se davvero l'abbandono della maggioranza venisse interpretato come «un tradimento dell'Italia»? Per scongiurare un altro 14 dicembre, quando il ribaltone fallì per soli tre voti, i leader delle opposizioni stanno valutando l'ipotesi di una mozione di sfiducia da presentare prima del voto sulle misure economiche, forse già mercoledì. Una mossa che toglierebbe le castagne dal fuoco ai dissidenti dell'Hotel Hassler, che si sono fatti più cauti e cercano una via d'uscita tra la necessità di tenere il punto e il timore di una sconfitta parlamentare. Fabio Gava è rimasto colpito da una telefonata affettuosa di Cicchitto — «Ciao traditore, come stai?» — e prega che il voto di fiducia sia sganciato dalle richieste della Ue. «Prima il canovaccio di un programma di emergenza — è la sua proposta di mediazione — poi l'eventuale assetto di un nuovo governo».
Niente è ancora deciso. Ma intanto Fini fa smentire incontri con gli scontenti del Pdl. E Casini e Cesa, registi dei passaggi di campo, fanno sapere di essersi presi una pausa di riflessione nelle operazioni di reclutamento. Depistaggio? Chissà. Pippo Gianni del Pid è in grande sofferenza e non da oggi. Si dice che tornerebbe volentieri nell'Udc, ma chi ci ha parlato racconta che è in attesa di «certezze», che ancora nessuno può offrirgli. Maurizio Paniz, dopo alcune dichiarazioni che hanno allarmato il premier, giura «fedeltà» a Berlusconi. E Maurizio Scelli resisterà al corteggiamento dei dissidenti dell'Hassler: «Non sono uno che si vende al miglior offerente...».
Monica Guerzoni

«A meno di non arrivare a pensare, come nei corridoi si fa, che il nervosismo di Pannella si debba al desiderio di scongiurare in ogni modo un governo Monti, perché in quel caso le quotazioni di Emma Bonino come ministro salirebbero assai...»
l’Unità 5.10.11
I radicali: nessun voltafaccia «Ma Bersani ci dia un segnale»
di Susanna Turco


Spiega chi della materia s’intende che l’uscita di ieri di Rita Bernardini (la più pannelliana del gruppo) a proposito della disponibilità dei radicali a votare il maxiemendamento del governo purché contenga «tutti i punti della lettera del governo all’Europa» («li chiediamo da anni, perché mai dovremmo opporci?», ha spiegato al Fatto) non è da intendersi come il preannuncio o il segnale di un cambio di fronte della pattuglia di sei deputati eletti tra le fila del Pd. Per carità, quella di riaccordarsi prima o poi con Berlusconi è un’ultima tentazione sempre presente nella testa di Pan-
nella, ma oggi non più concreta di ieri, anzi. «Read my lips», leggete le mie labbra ha dichiarato il segretario Mario Staderini «alla fiducia voteremo no, come è sempre accaduto in questi anni». Altro discorso per i singoli provvedimenti sui quali, aggiunge Marco Beltrandi «ci confronteremo nel merito, come al solito».
Al di là dello stile di Torre Argentina, che ricorda quel film in cui la protagonista diceva «non siamo qui per farci voler bene» (la pagina Facebook di Pannella ieri è stata sommersa di critiche e insulti), il problema, spiegano tra i radicali «è politico». «Il comportamento parlamentare deve essere in armonia con quello politico», ha spiegato due giorni fa un radicale al capogruppo del Pd Dario Franceschini che chiedeva lumi sul futuro. Traduzione: alle prossime elezioni, il partito di Pannella vuole dal Pd l’apparentamento «come fu nel 2006 per la Rosa nel pugno e come Bersani ha già garantito ai socialisti di Nencini, ai Verdi e a Diliberto». Ma il segretario del Pd «non ha ancora chiamato, e Pannella sta aspettando», spiegano. Anche per questo i segnali di disagio, gli sgarbi, si sono moltiplicati: dopo l’astensione alla mozione di sfiducia su Saverio Romano, l’aver presenziato (unici di tutta l’opposizione) all’ultimo discorso di Berlusconi alla Camera e l’essere rientrati in Aula durante la prima chiama del voto di fiducia, quando il Pd sperava ancora di far mancare il numero legale.
Ciò non vorrà dire fare da stampella al governo, assicurano. «Votare Berlusconi sarebbe un inutile e politicamente suicida accanimento terapeutico», ha scritto ieri su Facebook Matteo Mecacci. S’attende dunque una «chiamata di Bersani», un segnale d’attenzione: quell’atteggiamento che Pannella, da politico della prima Repubblica, sa apprezzare, e che Berlusconi non gli ha mai lesinato nei tanti anni che si conoscono (anche l’altra sera l’ha ospitato a cena a Palazzo Grazioli). Solo così, a quanto pare di capire, il polverone s’attenuerebbe. A meno di non arrivare a pensare, come nei corridoi si fa, che il nervosismo di Pannella si debba al desiderio di scongiurare in ogni modo un governo Monti, perché in quel caso le quotazioni di Emma Bonino come ministro salirebbero assai...

La Stampa 5.11.11
Corte serrata del Pdl ai Radicali Pannella nicchia: Silvio ci ascolta
Spaventati gli alleati del partito democratico: si lavora a un incontro con Bersani
Rassegnazione Pd: «Scopriremo davvero come votano solo quando sfileranno in Aula»
di Francesca Schianchi


ROMA Cinque dei sei deputati radicali in aula il 13 ottobre durante il discorso del premier: per questo gesto sono stati aspramente contestati dall’opposizione
Il segretario Mario Staderini è lapidario: «I Radicali voteranno no alla fiducia chiesta dal governo». Il collega Matteo Mecacci conferma il no alla fiducia, ma aggiunge che «se ci trovassimo di fronte a misure convincenti, potremmo anche valutare di sostenerle». Mentre il presidente Silvio Viale sfuma il diniego in un più possibilista «mi sembra difficile» che Berlusconi possa ottenere la fiducia dai Radicali.
A pochi giorni dal ritorno in Aula del rendiconto dello Stato, dopo nuovi smottamenti nella maggioranza che intaccano il numero di sicurezza (316) agguantato lo scorso 14 ottobre, l’attenzione alla Camera si concentra su quello che farà la pattuglia dei sei Radicali. Che finora, come ci tengono a sottolineare, ha sempre votato coerentemente contro il governo Berlusconi: ma è altrettanto vero che ormai da mesi i seguaci di Pannella sono in forte sofferenza dentro il gruppo parlamentare del Pd, da cui si sono alzate richieste di espulsione. Di più: da quasi un anno i Radicali si sono autosospesi dal gruppo, in attesa di un colloquio con il segretario Bersani. Incontro che, novità, proprio in questi giorni si sta organizzando e potrebbe finalmente tenersi.
«In realtà, come voteranno lo sapremo solo quando sfileranno sotto i banchi del governo», sospirano rassegnati nel Pd, dove sperano però che un chiarimento a quattr’occhi con Bersani possa garantire il loro voto contrario. «Voteremo no alla fiducia», si sgolano i Radicali, ma da quando a fine ottobre c’è stata la famosa cena tra loro e Berlusconi («lui comunque ci ascolta, poi vedremo quello che accade...», commentò Pannella), il sospetto di una loro possibile defezione serpeggia tra i democratici.
Quello che potrebbe convincerli a fare un salto in maggioranza, cerca di analizzare un Pd che segue la questione, sarebbe un provvedimento forte sulla giustizia, l’amnistia tanto invocata. Una misura dirompente: è escluso che Berlusconi azzardi tanto. Meno di questo soluzioni tipo leggi sul lavoro le voterebbero senza però dare il loro sì al governo, una fiducia su cui almeno un paio di deputati sono assolutamente contrari e come loro anche Emma Bonino. E il democratico non crede nemmeno che il Cavaliere possa tentarli con il rinnovo della convenzione, in scadenza, per la trasmissione delle sedute del Parlamento su Radio Radicale: un appello per il rinnovo è stato firmato da 341 deputati, tra loro molti Pdl e anche leghisti, «c’è grande convergenza su questo, la convenzione non è in discussione».
Sulle prospettive future, poi, è tutto ancora da vedere. Di certo non sono sfuggiti agli ascoltatori più attenti di Radio Radicale alcuni riferimenti del vecchio leader a un altro irregolare come Beppe Grillo.
Detto ciò, per l’opposizione resta il timore dell’imprevedibilità della pattuglia pannelliana, protagonista di un paio di «incidenti» negli ultimi due mesi (in occasione del voto sul ministro Romano e dell’agguato per far mancare il numero legale). E dopo la cena con il premier, non passano inosservate le parole di Pannella, quando ad esempio al congresso della settimana scorsa ha elogiato Berlusconi ricordando la passata alleanza, dal ‘94 al ‘96. Ieri mattina, poi, su Radio Radicale, lo ha paragonato a Luigi Facta, ultimo presidente del Consiglio prima dell’avvento di Mussolini. Parallelo ardito: come dire, dopo di lui rischio fascismo?

Corriere della Sera 5.11.11
«Governo di scopo per la patrimoniale»

Vendola: transizione di pochi mesi, poi si vada alle urne
di Daria Gorodisky


ROMA — «A questo punto serve un "governo di scopo" per varare una patrimoniale pesante utile non soltanto come risorsa per il debito, ma anche per la crescita dell'economia». Anche Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia e leader di Sinistra, ecologia e libertà, guarderebbe con favore a un esecutivo di transizione. Certo, con tanti se e tanti ma; e con l'idea di «arrivare poi in pochi mesi, per la primavera, a elezioni anticipate». Ma tant'è.
È stato un sostenitore delle «elezioni subito». Ancora giovedì dichiarava che «non ci sono le condizioni per un governo tecnico», e che sarebbe solo «una foglia di fico».
«Bisogna aggredire il problema italiano che, come è ormai evidente anche a livello internazionale, è rappresentato da un altissimo debito e una bassissima crescita. E vanno affrontati entrambi i lati del problema. I tagli alle tutele, ai servizi e al reddito dei ceti medi e bassi fin qui prospettati e messi in atto non rappresentano una soluzione, ma, al contrario, sono un moltiplicatore della crisi. Oggi sono centrali la battaglia per l'equità sociale e quella per salvare l'Italia».
Con quale ricetta?
«Sono necessari interventi significativi per abbattere il deficit e ridurre le quote di debito. Ma, contemporaneamente, va sviluppata la crescita. Come dicevo, la ricetta è una patrimoniale pesante. Ma non quella che già c'è, cioè quella che Berlusconi ha imposto ai ceti medio bassi…»
Nessun altro provvedimento?
«Sì: una importante tassazione delle rendite e tagli alle spese militari. Punto».
Quanto crede che siano condivise queste soluzioni?
«Credo che saranno la bussola del nuovo Ulivo. E del resto, che cosa si dovrebbe appoggiare, la politica economica del centrodestra, la loro macelleria sociale? Per quattro anni la maggioranza ha nascosto la crisi, l'ha negata. Ci dicevano che era disfattismo… Ed eccoci a una crisi che non è un evento meteorologico imprevedibile, ma che è figlia della redistribuzione verso l'alto delle ricchezze: la crescita della rendita e l'impoverimento del reddito da lavoro».
Napolitano, dalla Puglia, ha invitato tutti a «un esame di coscienza collettivo». Si sente coinvolto?
«Il presidente della Repubblica rappresenta un faro e le sue parole vanno sempre ascoltate. Io, che incarno uno dei punti più lontani dal governo attuale e dal berlusconismo, sono anche l'esperienza incarnata del lavoro comune con alcune parti della maggioranza. In Puglia, per difendere il Sud ho stretto un patto molto forte con il ministro degli Affari regionali Fitto. Non si può vivere come se si fosse sempre in campagna elettorale. Sento la mia parte di responsabilità per contribuire a costruire il senso delle istituzioni e il rilancio del Paese».
La patrimoniale piace anche a Confindustria.
«Sì e va bene, purché non sia solo un sacrificio simbolico».
Chi vedrebbe a guidare questa fase transitoria, questo «governo di scopo»?
«Nomi? A me interessano i temi, e credo che quelli necessari a sanare la crisi siano contro natura per questo Parlamento».
Come immagina una vostra futura coalizione per l'alternativa di governo?
«Immagino un grande cantiere aperto non solo alle forze politiche che vogliono salvare e rilanciare il Paese, ma anche a soggetti sociali che criticano il berlusconismo. La politica non si esaurisce con i partiti, né con l'alleanzismo costruito nel teatrino».
In materia di tutele sociali e lavoro, si vede bene in un'alleanza con Matteo Renzi e Giorgio Gori?
«Dobbiamo imparare la convivenza tra differenti, e soprattutto essere in grado di ascoltarci reciprocamente. Però, per quello che anche con simpatia iniziale ho ascoltato nel discorso di Renzi, scorgo una continuità con gli errori più fatali che la sinistra ha commesso negli ultimi trent'anni. E non ho trovato nessuna analisi delle cause del berlusconismo, né alcuna soluzione per uscirne. La contrapposizione nonni/nipoti è una mistificazione. Quello che oggi serve al Paese è ricostruire la comunità di tutte le generazioni: non con la formula vecchi/giovani, ma con quella ricchezza/povertà».
Somiglia a qualcosa di antico...
«Dobbiamo passare dalla sbornia consumistica alla sobrietà. Voglio usare una parola religiosa: serve una conversione dell'economia».

sul tema oggi altre interviste e notizie anche su Libero e Il Tempo


l’Unità 5.10.11
Bibi, Barack e l’amico pavido
di Moni Ovadia


I l presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen prosegue nella sua lungimirante e pacifica attività diplomatica di fronte alla comunità internazionale. In attesa della risposta all’istanza di adesione della Palestina all’Onu come membro effettivo, ha fatto richiesta di adesione all’Unesco.
La richiesta è stata calorosamente accettata a stragrande maggioranza, con l’ovvia e miserabile opposizione del governo israeliano, di quella degli Stati Uniti e l’astensione prevedibile di alcuni pavidi europei fra cui brilla quella del nostro governicchio. Netanyahu ha definito l’ingresso della Palestina una tragedia, il presidente Obama si è totalmente appiattito sui desiderata del governo israeliano senza vergogna. I due, da bravi compagni di merende, hanno risposto all’unisono al pacifico atto di civiltà democratica dei palestinesi con squallide e vili rappresaglie improntate alla prepotenza spudorata del più forte.
Barack non verserà il finanziamento all’Unesco, Bibi ha decretato la costruzione di duemila unità abitative abusive a Gerusalemme est e ha sospeso il trasferimento delle entrate fiscali palestinesi all’Anp. Un comportamento davvero esemplare per la sedicente più grande democrazia del mondo e per la ancora più sedicente unica democrazia del Medioriente.
La lezione che si può trarre da questo episodio è che Bibi non considera il moderato, pacifico e democratico Abu Mazen un interlocutore ma predilige il «dialogo» bellico con le frange jihadiste perché non vuole una vera pace. Quanto a Barack si sta applicando per diventare uno dei peggiori presidenti della storia statunitense.

l’Unità 5.10.11
«È la difficile via araba verso la modernità, non l’inverno islamico»
Gilles Kepel, Olivier Roy, Tahar Ben Jelloun, Nasri al-Sayegh e Hisham Matar
si confrontano su «l’Unità» dopo la vittoria di Ennahda e l’attentato integralista ad un settimanale satirico: «Le nuove Tunisia, Egitto e Libia cercano stabilità»
di Umberto De Giovannangeli


La solidarietà è d’obbligo. Ma lo è ancor più riflettere sul messaggio che si voleva lanciare con l’attentato di due giorni fa al settimanale satirico Charlie Hebdo. I riflettori si riaccendono sulla Francia «islamica» e su una sfida mai smessa dai fautori del jihadismo nel cuore del Vecchio Continente. «Oggi in Europa vivono milioni di cittadini di origine musulmana. Questi nostri cittadini sono visti dai fautori di un islamismo radicale, politicamente militante come un enorme bacino di proselitismo. La sfida lanciata da costoro è chiara : edificare sul vecchio continente una cittadella interiore irrigidita nei suoi articoli di fede in piena “terra di miscredenza”».
La riflessione è di Gilles Kepel, uno dei più autorevoli studiosi dell’Islam radicale, docente all’Istituto di Studi politici a Parigi, dove dirige il programma di dottorato sul mondo arabo-musulmano. «Ma la maggioranza di questa popolazione aggiunge Kepel, autore di numerose opere tradotte in tutte le lingue, tra le quali, in italiano, Fitna. Guerra nel cuore dell’Islam, Jihad. Ascesa e declino del fondamentalismo islamico e il recente Oltre il Terrore e il Martirio pensa e agisce come “europei” di religione islamica. Il centro della loro identità è il sentirsi parte di un’Europa multietnica e multireligiosa. Di fronte alla sfida jihadista che prova ancora a investire l’Europa e le sue periferie, non c’è altra scelta che aprire le porte ad una piena partecipazione democratica della gioventù di origine musulmana alla vita sociale, civile, politica, attraverso gli strumenti – soprattutto educativi e culturali – che favoriscano la mobilità sociale e accompagnino l’emergere di nuove élite provenienti da questi ambiti: così questi potranno, al di là delle chimere del jihad e al di là dei confini d’Europa, incarnare il nuovo volto di un mondo musulmano riconciliato con la modernità».
Guardando alla Francia, Kepel rileva che «L’Islam è un rifugio per arginare il senso di abbandono, di ’’indegnità” sociale, politica ed economica’: tra Clichy e Montfermeil (dove scoppiarono violente sommosse analizzate da Kepel in una recente ricerca sociologica, ndr) si contano una dozzina di moschee che possono accogliere fino a 12.000 fedeli. I matrimoni endogamici islamici qui sono la norma. Il ramadam è seguito dalla grande maggioranza degli uomini.
Tutti i fast food propongono anche a volte esclusivamente menu e panini halal. «Queste rivendicazioni identitarie spiega Kepel sono un modo per chiedere l’integrazione nella società».
È la sfida dell’Islam laico e di quelle «rivoluzioni post islamiste», su cui ha concentrato i suoi studi Olivier Roy, direttore di ricerca alla Fondation nationale des Sciences politiques di Parigi: la laicità islamica è possibile, riflette Roy: «Guardando in profondità agli avvenimenti di questi mesi nel Nord Africa e Vicino Oriente, si può ben dire, senza eccedere in ottimismo, che il XXImo secolo sembra destinato a diventare il secolo di un Islam post-islamista che riprenderà veramente il corso della Grande tradizione dimenticata». «Del resto aggiunge lo studioso una “secolarizzazione islamica” si stava già compiendo nella maggior parte dei Paesi musulmani non arabi, ed ora si è estesa anche a una parte significativa del mondo arabo, abbastanza simile alle molteplici forme di “laicità cristiana” dell’Europa, degli Stati Uniti e dell’America latina».
In questa chiave, acquista una valenza simbolica il fatto che l’attentato incendiario contro il settimanale satirico francese sia avvenuto quando in edicola era il numero dedicato alla Tunisia.
Dopo la «Primavera araba» l’Occidente non deve temere nessun «Inverno islamista», osserva Roy. Perché le future classi dirigenti di Tunisia, Egitto e Libia sono «ben consapevoli della necessità di una stabilità politica che rassicuri investitori e alleati internazionali».
Roy non legge in chiave di «rivalsa islamista», il successo del partito islamico Ennahda nelle recenti elezioni in Tunisia, le prime dopo l’abbattimento del regime di Ben Alì: «La nascita della democrazia in Paesi come la Tunisia e l’Egitto – spiega implica per forza di cose il rientro nella vita politica dei partiti islamici che durante le dittature erano stati messi fuori legge, anche perché i soggetti politici laici, a differenza di quelli islamisti, spesso in questi Paesi non avevano alle spalle una tradizione partitica».
Una tesi rilanciata da Tahar Ben Jelloun: «La democrazia rimarca lo scrittore e saggista franco-marocchino nella sua rubrica su L’Espresso è una cultura, non un gadget. A convivere sulla base del rispetto reciproco si impara, e ciò richiede tempo: non si diventa democratici dall’oggi al domani». La «Primavera araba» conclude Ben Jalloun «prosegue e dalle rivolte si passa alle rivoluzioni. Niente è ancora deciso, tutto è possibile».
«In molti annota Gilles Kepel nel vivo delle rivolte in Tunisia ed Egitto, scrivevano che l’islamismo è scomparso, che gli arabi assomigliano agli europei o agli americani. La realtà, però, è più complessa. Gli arabi, infatti, stanno costruendo una modernità, esitante. Non è un caso che la prima rivoluzione araba sia avvenuta in Tunisia, e che lo slogan più celebre sia stato espresso in francese: "Ben Ali dégage", "vattene", ripreso fedelmente dagli egiziani in un Paese dove quasi nessuno parla più il francese. Gli egiziani l’hanno ascoltato su Al Jazira ed è divenuto uno slogan rivoluzionario. In Tunisia vi è un vero pluralismo culturale franco-arabo. Questo ci fa capire la vera natura delle rivoluzioni in corso: radicate nelle culture locali, e al tempo stesso nelle aspirazioni universali, con tutte le difficoltà che ciò comporta».
Una «modernità islamica», quindi. «La generazione dei giovani i quali sono usciti dalle loro case, dalle loro scuole, dalle loro università e dai loro luoghi di lavoro, oltre che dai mercati della disoccupazione, per demolire i regimi della tirannia, dello sfruttamento, della corruzione e della soppressione non era contaminata dal settarismo e dal confessionalismo, era esente dalla macchia del razzismo e dell’arroganza, e pura come il suo slogan: libertà, dignità e pane», annota Nasri al-Sayegh, saggista ed analista politico libanese.
«La primavera araba – rimarca su Internazionale lo scrittore libanese Hisham Matar è una reazione, potente ed esemplare, non solo all’epoca dei tiranni ma anche a quel che rimane dell’influenza imperiale. L’esito finale delle nostre rivoluzioni ammesso che la storia conosca esiti finali è ancora incerto. Potremmo non riuscire a costruire un futuro migliore. Ma nessuno può mettere in dubbio l’autenticità del nostro desiderio, o quanto siamo disposti a sacrificare pur di conquistare l’autodeterminazione, la dignità e la giustizia».

il Fatto 5.10.11
I conti con gli anni della dittatura militare
Dopo le condanne l’Argentina vuole ancora giustizia
di Horacio Verbitsky


Scrittore argentino, dirige il Centro studi giuridici e sociali (Cels). Tra i suoi venti libri “Il Volo” che riporta la confessione del capitano Scilingo sui voli della morte, e “L’Isola del Silenzio” che racconta come veniva gestito un campo di concentramento all’interno di una proprietà ecclesiastica.

Buenos Aires Tra il 1976 e il 1983 l’Argentina ha vissuto sotto la dittatura militare di Videla (1976-’81), Viola (marzo dicembre ’81), Lacoste (11-22 dicembre ’81), Galtieri (’81 giugno ’82), Saint Jean (18 giugno 1° luglio ’82), Bignone (luglio ’82 dicembre ’83). In quegli anni sono scomparsi 30mila dissidenti veri o presunti. Bastava un sospetto per rischiare i vuelos de la muerte; lanciati nel Rio de la Plata o nell’Atlantico col ventre squarciato: un “invito” per gli squali. Tra i condannati Alfredo Astiz (sotto, in una foto del 1984), ex ufficiale della marina, “angelo biondo della morte”: ergastolo per tortura, omicidio e sequestro di persona.
Sedici ufficiali e sotto-ufficiali della Marina militare, della Guardia costiera e delle forze di polizia sono stati condannati a pene variabili da 18 anni all’ergastolo per crimini contro l’umanità commessi nel 1976 e nel 1977 alla Scuola di meccanica della Marina militare, Esma, il celebre campo di concentramento clandestino della Marina argentina durante la dittatura militare terminata nel 1983.
Il processo era iniziato nel 1984, ma era stato sospeso nel 1987 in applicazione della cosiddetta legge della “obbedienza dovuta”, legge fatta approvare dall’ex presidente Raul Alfonsin dopo una clamorosa protesta dei vertici militari che chiedevano quella che gli alti comandi definivano “una soluzione politica” per i militari sotto processo. Nel 2001 su sollecitazione del Centro studi giuridici e sociali (Cels), un tribunale di prima istanza dichiarò la nullità della stessa legge. Nestor Kirchner salì alla presidenza nel 2003 e proclamò il suo pieno appoggio al documento “Memoria, verità e giustizia”.
NEL 2005 la Corte Suprema confermò che questa legge non poteva amnistiare i reati più gravi né introdurre termini di prescrizione in violazione dei trattati e delle convenzioni internazionali ratificati dall’Argentina che prevalevano sulla legge ordinaria nazionale. Questa sentenza ha chiuso definitivamente 56 processi. Altri quattordici sono ancora in fase dibattimentale. Sono stati condannati 229 imputati mentre altri 1547 sono sotto processo. Di questi 587 facevano parte dell’Esercito, 529 dei diversi corpi di polizia e 187 della Marina militare cui furono affidati dalla dittatura militare i principali compiti di repressione del dissenso e dell’opposizione. Sonostatirinviatiagiudizioanche185 civili tra cui il super-ministro dell’Economia Jose Alfredo Martinez de Hoz e il ministro della Giustizia della provincia di Buenos Aires, James Smart. Entrambi si trovano agli arresti domiciliari.
Nei due anni di dibattimento sono stati affrontati casi di enorme rilevanza politica: il sequestro e l’assassinio del grande scrittore e giornalista Rodolfo J. Walsh, del nucleo iniziale delle MadridiPlazadeMayocatturatedentrola chiesa di Santa Croce nel dicembre 1977 assieme a due monache francesi e di un gruppo di persone che nel 1979 furono trasferite dalla Esma alla villa di vacanza dell’arcivescovo di Buenos Aires, impiegata come campo di concentramento alternativo durante la visita in Argentina della Commissione interamericana dei diritti dell’uomo. Walsh era un militante dei Montoneros, autore di racconti memorabili come “Esa mujer” e “Un oscuro dia de Justicia”: nel marzo 1977 indirizzò alla giunta militare una lettera aperta destinata a diventare il documento fondamentale per studiare quegli anni della storia argentina. Le Madri e una delle monache furono gettate in mare dagli aerei e i resti furono recuperatiedidentificati28annidopo. Per crimini come questo dovranno passare il resto della vita in carcere personaggi conosciuti come Alfredo Ignacio Astiz che all’interno della chiesa baciò le Madri che voleva fossero sequestrate per indicarle ai suoi scherani.
Commosso dalla confessione di Adolfo Scilingo, l’ufficiale che ha ammesso di aver gettato in mare trenta persone, il fondatore del Cels, Emilio Mignone, sollecitò il diritto alla verità sulla sorte di sua figlia e aprì la strada che consentì di riaprire i processi sospesi su pressione delle forze armate. “Se una propaganda opprimente, riflesso deforme di quei malvagi, non avesse la pretesa di farci credere che questa giunta militare persegue la pace, che il generaleVideladifendeidirittiumanioche l’ammiraglio Massera ama la vita, si potrebbe persino chiedere ai signori comandanti delle tre armi di meditare sull’abisso nel quale stanno conducendoilPaesenell’illusionedivincere una guerra che, anche uccidendo l’ultimo guerrigliero, ricomincerebbe in forma diversa perché le ragioni che da oltre venti anni inducono il popolo argentino alla resistenza non scompariranno, anzi saranno rafforzate dal ricordo delle stragi causate e dalla scoperta delle atrocità commesse”, ha scritto Walsh in quella lettera.
Il comandante dell’Esma disse che la lettera era “un’arma di una guerra civile rivoluzionaria e terroristica” e l’ammirazione che, malgrado tutto suscita, dimostra che “la guerra non è finita”. Walsh sapeva benissimo di non poter chiedere agli autori di quegli atroci crimini di riflettere, di meditare. Impressiona però che la stessa incapacità di riflettere sulle atrocità commesse, quegli aguzzini l’abbiano dimostrata anche a 70 e persino 90 anni quando non erano più giovani ufficiali che ubbidivano agli ordini.
Astiz ha reagito quasi da buffone accarezzando una coccarda con l’immagine di Billiken (elfo portafortuna con leorecchieapunta, ndt) mentrealcuni familiari e amici dei marinai intonavano l’inno nazionale. Ma i figli di alcuni condannati piangevano e si abbracciavano in cerca di conforto. I loro padri sono i responsabili del dolore che oggi li colpisce. Speriamo che alcuni di loro comprendano quanto Walsh scrisse 34 anni fa. Né la lettera né il processo sono armi di guerra. I diciotto imputati hanno potuto beneficiare di tutti i diritti alla difesa e di tutte le garanzie che all’epoca della dittatura militare avevano negato alle loro vittime. Il tribunale è stato talmente imparzialecheunpersonaggiomalfamatocomeilcapitanodifregataJuanCarlos Rolon è stato assolto per insufficienza di prove anche se è in stato di detenzioneperaltrireati. Ilprocessoè stato pertanto una esemplificazione insuperabile della differenza che divide una dittatura senza legge da un, sia pur imperfetto, Stato di diritto.
DA UN SONDAGGIO realizzato il giorno delle elezioni presidenziali del 23 ottobre 2011 dalla facoltà di Scienze sociali dell’Università di Buenos Aires, è emerso che tra le politiche del governo nazionale che incontrano il maggior favore dell’elettorato, al primo posto si colloca la decisione di giudicare i crimini della dittatura.
Il 93% di quanti hanno votato per Cristina Fernandez de Kirchner e il 79% di quanti hanno votato per altri candidati, sono favorevoli a processare i responsabilidelleatrocitàdellagiunta militare. La società civile, possiamo ben dirlo, ha dimostrato di essere all’altezza di quelle parole di Walsh.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

il Fatto 5.11.11
Calamandrei, educazione italiana
di Silvia Truzzi


A chi si domanda perché riprendere in mano gli scritti dei vecchi, dei morti – invece che tenerli come santini in improbabili pantheon – sarà utile dare più di un’occhiata a “Lo Stato siamo noi” (Chiarelletere; 7 euro, 136 pagine) raccolta di scritti e discorsi di Piero Calamandrei. Giurista, azionista, padre costituente: perché Calamandrei oggi lo spiega Giovanni De Luna nella sua introduzione al volumetto, a proposito della fascistizzazione degli italiani. “Si era trattato, diceva Calamandrei, di un arido ventennio di diseducazione, passato sulle menti come una carestia morale’. Bisognava impedire che gli elementi essenziali di questa carestia transitassero intatti nella nuova Italia repubblicana”. Dice qualcosa? “Le macerie lasciate dal fascismo sono state quelle che ci hanno obbligato a riedeficare lo spazio pubblico con una religione civile”, spiega ancora De Luna. E tutti i comandamenti sono nella Costituzione. “La Carta è una cosa bellissima, però vive nella mente e nel cuore delle persone. Si deve incarnare nella concretezza di movimenti collettivi. Non è una conquista data una volta per tutte: va rinnovata in continuazione, attraverso la partecipazione politica”. Ma per sentirsi partecipi dello spazio pubblico della cittadinanza c'è bisogno di valori. Ci si domanda se alla bufera delle cricche, del potere e dell’individualismo, qualche forma di etica sia sopravvissuta. “Quello che è accaduto con la Seconda Repubblica”, conclude De Luna, “è stata una desertificazione dello spazio pubblico. Gli unici elementi di continuità sono stati gli interessi. Come se quella italiana fosse una sorta di cittadinanza bancomat. Una carta per accedere a beni, ricchezze, consumi, merci”. Bisogna ripartire. E bisogna ripartire da un’idea di democrazia che non è se non è inclusiva.
NEL LIBRO C’È un celebre discorso fatto da Calamandrei ai giovani. Parte dall’articolo 34 e dice: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nel-l’art. primo – «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» – corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale”.
Il testo è del 1955 eppure sembra scritto per i ragazzi della generazione mille euro che chiedono il diritto di essere, pienamente e non precariamente, persone. L’istruzione, il lavoro, l’uguaglianza sostanziale: ecco come avrete un’esistenza degna. Tutti: Calamandrei non dimentica mai gli ultimi. Come nel discorso in difesa – è proprio il testo di un’arringa difensiva pronunciata davanti al Tribunale di Palermo nel ’56 – di Danilo Dolci, accusato di manifestazione sediziosa e turbamento dell’ordine pubblico. Dolci aveva (addirittura) incitato al digiuno una comunità di pescatori, rimasti senza pesci nelle reti a causa del contrabbando. Digiunare vuol dire disturbare l’ordine pubblico. Ma l’ordine pubblico di chi? chiede Calamandrei ai giudici. E risponde: “L’ordine pubblico di chi ha da mangiare. Non bisogna disturbare con spettacoli di miseria e di fame la mensa imbandita di chi mangia bene”. Chissà che avrebbe detto dei “respingimenti”. Naturalmente nelle parole di questo libro ci sono anche il regime e la guerra civile. Quella frase diventata così famosa – “ora e sempre Resistenza” – è l’ultimo verso di un’epigrafe datata 4 dicembre 1952, scritta da Calamandrei per una lapide collocata nell’atrio del palazzo comunale di Cuneo, in protesta per la liberazione di Albert Kesselring, comandante delle forze di occupazione tedesche in Italia, condannato all’ergastolo nel 1947 ma liberato nel 1952 per “gravi” condizioni di salute. E ci sono anche i morti.
IN UN DISCORSO all’Assemblea Costituente, l’avvocato che elogiava i magistrati fa una domanda sui cittadini di domani: “Mi chiedo come i nostri posteri giudicheranno questa nostra Assemblea costituente. Se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi (...) che in questa nostra Assemblea, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Non dobbiamo tradirli”. Siamo in tempo?

Repubblica 5.11.11
La tirannia dell’individuo che consuma la società
di Franco Cassano


Chi desidera un bene oggi non deve seguire regole o principi, ma solo avere la somma necessaria all´acquisto
Frenare il predominio globale del profitto sarà possibile solo se impareremo a muoverci insieme agli altri
Il sociologo riflette sulla nostra epoca che non è più quella delle grandi crudeltà ma delle cattive azioni invisibili fatte per egoismo e solitudine

Esiste un tipo di male visibile e clamoroso, capace di catturare schiere di ammiratori o di artisti attratti dalla circostanza che esso, costituendo una violazione delle regole, è molto più affascinante del loro rispetto. Eppure, nonostante il clamore, questo tipo di male "spettacolare" è molto meno interessante di quel male "basso" che attraversa la nostra esistenza quotidiana, e che, come la lettera rubata di Poe, non riusciamo a vedere proprio perché è di fronte ai nostri occhi. Del resto è evidente che ogni "grande" male, per poter conquistare tutta la scena, deve poter contare su una larga complicità, saper attivare un virus latente all´interno della nostra vita di ogni giorno. E´ questo "basso continuo" che ci interessa, questo male diffuso ed intrecciato alla nostra connivenza, alla rassicurante apparenza della "normalità". Senza intercettare questi percorsi sottotraccia del male si corre il rischio di guardarlo da lontano, come se fosse estraneo a noi e alle nostre debolezze.
Ad Hannah Arendt va riconosciuto il merito di aver saputo cogliere, in un libro diventato famoso, questa dimensione "bassa" e normale del male, la sua banalità. Seguendo le sedute del processo ad Eichmann, Arendt rimase sorpresa: il massimo responsabile organizzativo dell´Olocausto non era una riproduzione in miniatura di quel campione del male che fu Hitler, ma un uomo scialbo ed insignificante, che si difendeva sostenendo di essersi limitato ad eseguire nel modo più solerte e scrupoloso ordini superiori. Il male non è lontano dalla normalità, ma spaventosamente intrecciato ad essa. Eichmann, dice Arendt, era un "cittadino ligio alla legge", costantemente teso a riscuotere l´approvazione dei suoi superiori. Ed è stato questo richiamo alla fedeltà all´ordine e agli ordini superiori che ha consentito a lui e ai suoi concittadini di occultare anche a se stessi il male che stavano facendo ad altri. Nello stato totalitario le grandi qualità dell´efficienza e dell´ordine si sono trasformate in incubatrici del male. Quest´ultimo, nel terzo Reich, "aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è la proprietà della tentazione". Il totalitarismo produce un inquietante rovesciamento delle parti; laddove il male è ordinario e banale è il bene che diventa una tentazione: "Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero essere tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa, (…) di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni" (156-157).
Ma per fortuna il totalitarismo, la dismisura dello Stato, almeno in Europa, è alle nostre spalle. Resta però da chiedersi: insieme con il totalitarismo è scomparso, come pretendeva Fukuyama, anche il male, oppure esso ha assunto un´altra forma, ugualmente invisibile e "banale", che non riusciamo a vedere perché è strettamente intrecciata alla nostra normalità? Del resto in questi anni non sta diventando sempre più evidente che alla dismisura dello Stato sta succedendo quella del mercato e del danaro? E se questo passaggio è realmente in corso, perché facciamo fatica a resistere ad esso, che cosa ci rende complici, o almeno collaborazionisti di questa dismisura?
La risposta, al fondo, è meno difficile di quanto si possa immaginare. Come a suo tempo ha sottolineato Marx e poi in modo più diffuso Simmel, tra l´espansione del ruolo del danaro e quella della libertà individuale esiste una correlazione fortissima. Il danaro possiede la straordinaria capacità di incrementare la libertà dell´individuo, perché chi desidera un bene oggi non deve più chiedere l´autorizzazione a nessuno, seguire regole o principi, ma solo possedere la somma necessaria per acquistarlo. L´individuo è la massima potenza relativistica, che si libera da tutte le soggezioni personali e normative consegnandosi all´unica soggezione del danaro. Espansione della libertà individuale ed espansione della forma danaro sono quindi due facce della stessa medaglia: da un lato il danaro favorisce la dissoluzione di tutti i legami che frenavano la libertà individuale, dall´altro l´espansione di quest´ultima richiede la smisurata estensione della forma danaro e del mercato.
Il mondo nel quale l´individuo e l´individualismo si diffondono è quindi lo stesso in cui un´area vastissima di relazioni, esperienze e prestazioni precedentemente escluse dalla sfera dell´universale scambiabilità (la cura, il corpo, gli affetti, l´attenzione per l´altro, ecc.) diventano merci. Anche in questo caso è la dismisura, lo strapotere di una forma, ad occultare la realtà: un mondo in cui tutto è in vendita altro non è che l´organizzazione quotidiana e sistematica della tentazione. La famosa massima di Oscar Wilde: "a tutto so resistere tranne che alle tentazioni" ha perso il suo carattere trasgressivo ed è diventata banale, la regola imperante in un mondo affollato da miriadi di piccoli Wilde.
Non può quindi destare meraviglia che in questo mondo di individui "liberi" il capitale finanziario divenga la forma universale di connessione sociale, il luogo di concentrazione di un potere capace di governare il destino di un´enorme massa di esseri umani. Individuo e capitale finanziario possono conoscere momenti di conflitto, ma, essendo, come si è detto, due facce della stessa medaglia, sono legati a filo doppio. Mentre l´individuo erode, dal basso, ogni legame non volontario, il moto perpetuo del capitale finanziario erode, dall´alto, tutte le istituzioni fondate su principi diversi da quello dell´incremento dei profitti. L´individuazione di questa connessione tra individualismo radicale e dominio del capitale finanziario, che sfugge a gran parte della cultura laica, ci fornisce un´indicazione anche se solo iniziale su come agire. Negli ultimi mesi e a partire dagli Stati Uniti, la necessità di riportare sotto un controllo comune il capitale finanziario sembra essersi fatta spazio nella coscienza dei movimenti giovanili. Ma il passaggio non sarà né facile né lineare: frenare il predominio globale del capitale finanziario sarà possibile solo se l´individuo saprà uscire dalla sua forma attuale ed imparerà a muoversi insieme agli altri individui, a costruire prospettive nuove e parametri alternativi rispetto a quelli dominati dalla connessione tra individuo e danaro, senza cadere in altre dismisure, nella trappola di comunità chiuse e contrapposte tra loro. E´ un processo lungo, impegnativo e difficile, che ci chiederà di guardare in modo diverso anche ciò che amiamo. Ma capire quanto intricato e doloroso sia il nodo che si vuole sciogliere è la premessa di ogni vero cambiamento.

La Stampa TuttoLibri 5.11.11
Marzano, la farfalla vola oltre l’anoressia
Nell’autobiografia della filosofa, la crescita di una donna tra paure e fragilità
di Marco Belpoliti


Michela Marzano VOLEVO ESSERE UNA FARFALLA Mondadori, pp. 210, € 17,50

Due gambe rosa che galleggiano nell’aria, mentre metà del corpo, avvolto da una veste bianca, guizza oltre il bordo della copertina. Non ci sono né testa né braccia. Lo slancio alla figurina disegnata da Gaia Stella Desanguine è dato tutto dalle gambe, nude, prive di scarpe. Una figura onirica che conferisce un che di leggero, aereo, impalpabile, al libro di Michela Marzano, Volevo essere una farfalla. La farfalla è lei, l’autrice, filosofa, docente universitaria, studiosa del corpo: «Mi ero convinta che se fossi riuscita a diventare leggera come una farfalla, tutto sarebbe andato a posto. Sarei diventata forte, indipendente, libera. E non avrei più avuto bisogno di nessuno». La leggerezza cui Michela Marzano sembra ambire è quella elegante della farfalla, insetto dal preciso significato simbolico. Le parole e il corpo sono i due elementi su cui si fonda questo libro, e che ritroviamo sulla copertina.
Ma l’argomento di cui parla Michela Marzano, l’anoressia, non è affatto leggero. E non sono neppure leggere le storie che l’autrice tratteggia nella propria autobiografia, nel lasso di tempo che va dal sé bambina sino all’affermazione come autrice e docente, un volo tempestato di episodi angosciosi, cadute, infelicità, paure, ma che la lingua e lo stile della Marzano tengono sempre sospeso, in volo. La scrittura icastica, frammentaria, composta di rapidi flash, solleva in alto la materia stessa del narrare, la sua intima felicità. Una ferrea volontà di dire e di raccontarsi in pubblico, di svelare se stessa, costituisce il bozzolo entro cui il bruco s’avvolge progressivamente, per poi lasciare spazio alla pupa, da cui emergerà la farfalla-Michela.
Quel bozzolo sono le parole che, secrete una dopo l’altra, diventano il luogo entro cui rifugiarsi e da cui, con un gesto improvviso emerge la figura altra: il lepidottero. Se il corpo è il protagonista del racconto, è tuttavia un corpo narrato che noi lettori scorgiamo attraverso le parole espulse poco a poco. In questo senso la figura che la graphic designer ha posto sulla copertina dà forma solo in parte a quello che si trova nel libro. Figura del sogno, la donna della copertina, s’oppone in modo deciso alla fotografia dell’autrice, nella quarta: sorriso largo là dove invece nel racconto sono state le lacrime a farla da padrona. Ma si sa che il sorriso è il gesto più etologicamente umano che ci sia. Anche con gli occhiali.

Corriere della Sera 5.11.11
Italiani da invasori a vittime
Grecia, Jugoslavia, Albania: la tragedia dei nostri militari
di Antonio Carioti


I tedeschi conducevano nei Balcani una guerra totale, senza remore. Gli italiani non capivano bene che guerra stessero combattendo. La differenza fu chiara sin dal 1941, e il Terzo Reich impose ben presto la sua egemonia. L'8 settembre, con il nostro esercito completamente travolto, segnò la conferma definitiva. È il primo dato generale che emerge dal libro di Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti Una guerra a parte (Il mulino). Un testo che ha il merito di richiamare l'attenzione su un teatro bellico finora trascurato e di ripercorrere zona per zona (Albania, Grecia, Slovenia, Croazia, Montenegro) tutte le diverse fasi del conflitto, compresi gli strascichi postbellici, con uno scavo documentario senza precedenti e un'impostazione decisamente innovativa.
In quella parte di Europa non vi furono grandi battaglie e i militari italiani non si coprirono mai di gloria. Erano invasori impegnati a reprimere con durezza una guerriglia spietata, in un contesto di violenti conflitti etnici e politici tra le popolazioni locali. E all'armistizio del 1943 seguì una rotta disastrosa, che vide i tedeschi acquisire il controllo di tutti i Balcani e catturare centinaia di migliaia di prigionieri. È comprensibile che a lungo quei fatti siano stati rimossi o edulcorati.
Aga Rossi e Giusti invece guardano in faccia la realtà, in primo luogo per denunciare l'irresponsabilità del governo Badoglio e degli alti comandi: «Alla minuziosa preparazione tedesca per l'eventualità di una resa dell'alleato — scrivono — corrispose una pressoché totale mancanza di direttive e di coordinamento da parte italiana». Nell'estate del 1943 i nostri vertici militari cedettero alla Wehrmacht varie posizioni di rilievo nei Balcani. E non fecero nulla per preparare il ritorno in patria delle truppe di stanza in quell'area: Badoglio era disposto a sacrificarle, pur di non insospettire i nazisti.
Solo alla vigilia dell'armistizio furono emanate «istruzioni spesso generiche e contraddittorie, che mostravano la totale ignoranza della gravità della situazione». Si cercò di riportare una parte delle truppe a difesa del confine orientale, ma il generale Gastone Gambara, cui era stato affidato questo compito, non fu avvertito che la resa era imminente. Addirittura nel caso della Grecia il comando locale ricevette l'indicazione, espressa solo a voce, ma confermata da testimonianze dei generali Cesare Gandini e Carlo Vecchiarelli, di «andare con i tedeschi», il che violava gli accordi appena conclusi con gli angloamericani.
Non c'è da stupirsi se ne derivò una catastrofe. Rari furono i casi di comportamento dignitoso, molto più frequenti gli episodi di sbandamento. I militari del Terzo Reich, dal canto loro, non esitarono a ingannare le forze italiane con false promesse, pur di ottenerne la resa: inferiori per numero, erano tuttavia pronti a tutto. Molti ufficiali italiani si fidarono, dimostrando di non aver capito che cos'era la guerra totale. I tentativi di resistenza, meno sporadici di quanto si sia a lungo ritenuto, vennero stroncati brutalmente, con diverse stragi, tra le quali spicca l'eccidio della divisione Acqui a Cefalonia. Su quel famoso episodio, oggetto di polemiche infinite, Aga Rossi e Giusti si esprimono con grande equilibrio: riconoscono al generale Antonio Gandin, comandante della Acqui, il merito di non aver ceduto le armi, pur rilevandone gli errori, e ridimensionano il conto dei caduti (in combattimento o trucidati dai tedeschi), che furono circa duemila, non i novemila di cui spesso ancora si sente parlare.
Altri aspetti del libro in contrasto con la retorica antifascista riguardano il numero notevole, benché ampiamente minoritario, dei militari che si schierarono con i tedeschi, la sorte tragica di coloro che finirono prigionieri dei partigiani e le gravi difficoltà incontrate anche dalle unità che scelsero di combattere al loro fianco. Jugoslavi e greci, assai diffidenti, riservarono infatti ai nostri soldati un trattamento rude, a volte spietato. Spicca nella vicenda il comportamento di Mario Palermo, sottosegretario comunista alla Guerra del governo Bonomi, che si preoccupò soprattutto di sviluppare la propaganda marxista tra gli italiani unitisi alle forze di Tito (la famosa divisione Garibaldi) piuttosto che di favorirne l'agognato ritorno in patria.
Un ultimo punto interessante riguarda i crimini di guerra del nostro esercito, sui quali di recente varie pubblicazioni hanno sollevato il velo. Aga Rossi e Giusti contribuiscono anch'esse a sfatare il mito consolatorio degli «italiani brava gente», ma trovano improprio equiparare i nostri militari ai nazisti. Le direttive dall'alto furono spesso analoghe, ma la loro applicazione fu meno sistematica e crudele. Anche nella repressione, la condotta italiana rimase indietro rispetto alla logica di annientamento sposata in pieno dai tedeschi.

Corriere della Sera 5.11.11
Kiš: io distruggo, quindi esisto
«Per l'artista bruciare un'opera è il supremo atto creativo»
di Danilo KIš


Abusando forse di un pensiero di Malraux, che avrebbe potuto essere un'epigrafe ideale per questi appunti, cercherò di portare alla luce una verità all'apparenza bizzarra. Le riflessioni di Malraux avevano un senso completamente diverso, ma una volta tolte dal loro contesto possono fungere per me da punto di partenza per alcune considerazioni intime su un altro problema: quello dell'artista, della creazione.
Malraux scrive che morire è passività, mentre il suicidio è un'opera. E che la morte in certi istanti è una suprema affermazione della vita.
Applicate all'artista, al creatore, queste parole suonano come la parafrasi di un imperativo categorico: «Se non sei un artista, se non sei un poeta, brucia i tuoi manoscritti e taci. Sì, se morire è passività, il rogo è un'opera. Bruciare i propri manoscritti, in certi istanti è una suprema affermazione dell'attività creatrice». È così che il pensiero di Malraux ha trovato un'eco in me — deformato dal mio punto di vista introverso, trasformato, trasferito in un altro campo, ma sempre attuale e preciso. Ho allora riflettuto sulle sue altre possibili variazioni. Qualcuno avrà in effetti potuto leggerlo come un argomento a favore del suicidio reale; è vero, un pensiero che dimostra la creatività dell'autodistruzione è pericoloso. Tuttavia, e dallo stesso punto di vista, il punto di vista dell'autodistruzione letteraria non enuncia forse una verità? Nessuno, che abbia un giorno gettato i propri manoscritti nel fuoco potrà trovare assurda o stravagante questa formulazione.
L'atto di distruggere con il fuoco accompagna ineluttabilmente ogni creazione. Si tratta di uno slancio o di una caduta? Di una manifestazione di depressione o di un atto creativo? Che cosa si nasconde dietro questa forma di autodistruzione sadica e allo stesso tempo sentimentale? Trovarsi davanti alle ceneri dei propri pensieri, davanti al proprio stesso rogo, come il Grande inquisitore, e guardare le fiamme nelle quali si consuma una parte di noi stessi. Sono, i roghi dello spirito — per quanto contraddittorio e assurdo ciò possa sembrare —, intervalli di lucidità nell'impeto creativo, folgorazioni dell'artista, istanti di ispirazione suprema e, allo stesso tempo, effetti della depressione e della follia; ma sempre momenti sublimi di creazione. Sono porti da cui si prende il largo diretti verso mari lontani. Un modo per liberare la mongolfiera dal suo peso superfluo e permetterle di spingersi ancora più in alto: verso la stratosfera, il nuovo, l'ignoto, il mai visto. Sono incroci di strade possibili, regolamenti di conti con se stessi e con il mondo. Con il mondo in noi e intorno a noi. Una morte e una nascita. Così come la vita porta in sé il germe della morte, la morte porta in sé il germe di una nuova vita. È l'eterno ritmo del mondo. La dialettica della creazione. A una poesia bruciata ne seguirà un'altra, migliore, oppure non ce ne sarà più nessuna. (...). Non avere la forza, a un certo punto, di accendere il rogo sotto i nostri piedi è un segno di passività. Significa morire. Ci sono istanti in cui la morte è la piu grande affermazione della vita.
Di colpo, allora, ho capito il vecchio Taras Bul'ba, che era sempre stato per me un personaggio incomprensibile e problematico: «Sono io che ti ho messo al mondo, sono io che ti ucciderò!». La sua amara e disperata voluttà mentre uccide il sangue del suo sangue, mentre osserva pensoso il cadavere del proprio figlio. «Sono io che ti ho messo al mondo, sono io che ti ucciderò!».
C'e una strana voluttà nell'amarezza dell'autodistruzione. Lo stesso Gogol' deve averlo sentito, mentre riattizzava la propria follia al calore del rogo delle Anime morte. Che mescolanza infernale: la compassione e il sadismo, le lacrime e il riso, la caduta e il trionfo. Chi non ha mai sperimentato questo atto creatore di autodistruzione? I poeti hanno bruciato le loro poesie «nell'eccitazione crescente della fragile vita, nei turbini profondi e nel fuoco dell'inferno» (Adi). I pittori hanno distrutto le loro tele, gli scultori hanno mandato in frantumi i loro busti in momenti di disperata impotenza (Michelangelo, van Gogh, Manet, Modigliani) come Oscar Wilde, l'artista che ha fuso il bronzo della Tristezza eterna per dar forma al suo monumento alla Voluttà effimera. Von Kleist brucia il manoscritto del suo Roberto il Guiscardo, Dostoevskij brucia i suoi Demoni, Joyce la prima versione del suo Ritratto dell'artista da giovane, mentre Kafka chiede all'amico Brod di distruggere tutti i suoi manoscritti. Marx abbandona coraggiosamente le ambizioni poetiche della giovinezza quando capisce un bel giorno di essere sulla strada sbagliata.
Questo tema non è forse mai stato così attuale quanto ai giorni nostri, nel nostro Paese. Anche condividendo l'idea di Diderot e di Heine che la poesia fiorisce con piu vigore dopo una rivoluzione, un richiamo all'autocritica non è superfluo, ed è anzi, credo, indispensabile. In questo contesto non posso dunque non citare un brano un po' più lungo di John Ruskin, che rappresentò per me, come la citazione di Malraux, una rivelazione: «Qualcosa di buono! Tutto deve essere buono, o non può esserci niente di buono. Se sperano (i poeti) di scrivere meglio un giorno, perché ci infastidiscono già oggi? Sarebbe preferibile che bruciassero tutto ciò che hanno scritto in attesa di giorni migliori».
Troviamo un esempio di un simile autore, allo stesso tempo onesto e ambizioso, nella Peste di Camus. Si tratta di quel povero Grand che per tutta la sua vita ha composto una sola frase, la prima di un testo futuro, e che prima di morire grida: «La bruci!».
«Il dottore esitò, ma Grand ripetè l'ordine con un accento sì terribile e con una tale sofferenza nella voce, che Rieux buttò i fogli nel fuoco quasi spento. La stanza s'illuminò rapidamente e un breve calore la riscaldò». Anche in agonia, Grand porta in sé una potenzialità creatrice che in quell'istante giunge a maturità. La fiamma del manoscritto bruciato rischiara la grandezza della sua anima. È in quel momento che ci convinciamo del fatto che Grand fosse un creatore e pensiamo che, se la peste non lo avesse portato via, il suo romanzo (o qualsiasi altra cosa stesse scrivendo) sarebbe stato scritto. (...).
Ecco perche bisogna ascoltare Andric quando consiglia, nei suoi Appunti per lo scrittore, di guardare a un manoscritto generato nel dolore non con «l'amore cieco dei genitori, ma freddamente e con crudele severità, senza pietà né per esso né per se stessi, senza risparmiare né le proprie forze né il proprio tempo». Bisogna riscaldare la propria anima a un simile rogo, temprare il proprio spirito a questo fuoco dell'inferno ed esclamare poi, come Flaubert quando annuncia a un amico di essersi «sgravato» del suo romanzo: «Vedi, vecchio mio, mi sono comportato da eroe».
(traduzione di Monica Fiorini)

Corriere della Sera 5.11.11
La scelta del figlio unico. Un buon investimento?
Risultati peggiori rispetto ai coetanei europei. Nuovi studi ne incrinano l'immagine di primo della classe
di Franca Porciani


Se i risultati, tanto lusinghieri, realizzati nella vita da Indro Montanelli, Galileo, Leonardo da Vinci e (perdonatemi l'accostamento) Gesù, trovassero la giustificazione primaria in un fatto molto semplice, nell'essere, tutti loro, figli unici? Nel corso dei due ultimi secoli il profilo intellettuale dell'only child (una rarità fino a metà degli anni Ottanta nel mondo Occidentale) è stato oggetto di molta curiosità. Con la tendenza a demonizzarlo (il primo a farlo fu lo psicologo americano Stanley Hall che lo descrisse incapace di comunicare, vanitoso e egocentrico) o a mitizzarlo. Angolazione secondo la quale sarebbe un soggetto privilegiato, più sicuro di sé grazie al surplus di attenzioni ricevute da parte dei «genitori elicottero» (come li definisce la psicologa americana Madeline Levine) pronti a far fronte a qualsiasi desiderio purché il pargolo abbia successo.
Alcuni studi fatti negli ultimi vent'anni parrebbero suggerire che il figlio unico riesca meglio a scuola e ottenga voti migliori: chi passa l'esame di ammissione nelle università americane, ad esempio, è nell'80 per cento dei casi uno a corto di fratelli. Va controcorrente — e non ci tira su il morale — quanto emerge da una ricerca realizzata da Daniela Del Boca, professore di economia politica all'università di Torino e direttore del centro interuniversitario Child, presentata a Roma a un convegno alla Banca di Italia. In questo momento l'Italia detiene il primato del tasso di fecondità più basso d'Europa, 1,4 bambini per donna contro una media europea dell'1,9, fecondità che da noi non ha ripreso a crescere, a differenza di quanto è avvenuto negli altri paesi, Francia in testa. D'altro canto alla nascita del figlio, più di un quarto delle donne lascia in lavoro. Perché non è supportata da strutture adeguate e la figura paterna latita (ancora oggi il 77 per cento del tempo dedicato al lavoro familiare è sulle spalle delle donne). «Un figlio solo e la mamma a casa, situazione tradizionalmente ideale per lo sviluppo del bambino — dice l'economista torinese —; invece, i dati di confronto fra i nostri adolescenti e quelli di altri 56 paesi ci rivelano che l'Italia ottiene uno dei peggiori punteggi nella valutazione delle competenze linguistiche e delle abilità matematiche». Insomma, il figlio unico «all'italiana» (unico, perché ormai la coppia non riesce ad arrivare al secondo, soprattutto per motivi economici) risente negativamente della mancanza degli asili nido, di una mamma a casa che, fuori dal mercato del lavoro, rischia di essere lei stessa priva di stimoli. Certo è che questi dati ci pongono di fronte alla questione cruciale di quanto il bambino per crescere bene abbia bisogno di socializzare con i pari e di vivere in un ambiente che lo aiuti a tirare fuori le sue potenzialità, ma non risolvono il quesito che ci siamo posti all'inizio: il figlio unico è più brillante sotto il profilo intellettuale di chi cresce in famiglie affollate o no?
Una risposta avrebbe potuto venire dalla popolazione cinese, dove a partire dal 1979 è stata attuata una politica demografica feroce per limitare le nascite. Ha condotto studi in Cina e negli Stati Uniti insieme alla collega Denise Polit, Toni Falbo, psicosociologa dell'università del Texas ad Austin che, forse perché figlia unica lei stessa, ha dedicato gran parte della sua vita allo studio di chi nasce in queste famiglie «corte». Preoccupandosi soprattutto di dimostrare che gli stereotipi sul figlio unico, egoista, poco capace di adattamento, malinconico, non hanno riscontro nella realtà, ma arrivando anche a scoprire che il tasso di intelligenza di queste persone è probabilmente un po' più alto. «D'altro canto anche i dati del programma Pisa rivelano una capacità di muoversi nel mondo reale utilizzando le competenze acquisite a scuola lievemente superiore nei figli unici» ci informa Brunella Fiore, sociologa ricercatrice all'università di Milano-Bicocca. Il Pisa, acronimo di Programm for international student assesment, è un ciclo di indagini promosso dall'Ocse, l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, per valutare le effettive competenze della popolazione quindicenne: condotto ogni tre anni, nel 2009 è arrivato a coinvolgere 57 Paesi. «Ebbene — aggiunge la ricercatrice — se poniamo a 500 il punteggio medio, il figlio unico arriva a 514, quello che ha un fratello si ferma a 492, chi ne ha più di uno 469». Più intelligente e forse anche più felice, almeno stando ad una ricerca condotta l'anno scorso dall'università di Essex su 2.500 giovani inglesi.

il Fatto 5.11.11
Vendola, i compagni e l’Irlanda laica

Il centrissimo-sinistra, con rottamatori e rottamandi che fanno la fila per ingraziarsi Sua ingerenza il Vaticano, fa rimpiangere a noi laici quel Zapatero dei diritti civili che nel 2006 si assentò coraggiosamente dalla messa di un papa a Valencia. Dopo che Nichi Vendola, poi, ha abolito la parola “compagni” dal vocabolario della Sinistra centripeta, viene da chiedersi quali saranno gli incipit degli imminenti comizi elettorali, visto che di programmi neanche a parlarne: con l'incenso che tira, possiamo azzardare un “fratelli e sorelle”? Per consolarci, una notizia arriva dalla verde, cattolicissima Irlanda: l'Eire del neoeletto Michael D. Higgins chiude la propria ambasciata presso il Vaticano. “Per motivi economici”, si affanna a spiegare il portavoce della santa sede Federico Lombardi, sentendosi in buona compagnia di altri Paesi come Iran e Timor est, dove l'Irlanda ha preso la stessa decisione. Motivi economici, senz'altro. Quando c'è il Vaticano di mezzo, i soldi c'entrano sempre… Oppure si deve fare un pensierino sui crimini di pedofilia della Chiesa irlandese, eh padre Lombardi? Oppure che alla guida di un Paese europeo sia arrivato un poeta, pacifista, sostenitore dei diritti umani e civili? No, non abbiamo detto Vendola. Abbiamo detto laico.
Paolo Izzo

il Riformista 5.11.11
Centro italiano e laica Irlanda

Gentile Macaluso,
il centrissimo-sinistra, con rottamatori e rottamandi che fanno la fila per ingraziarsi Sua ingerenza il Vaticano, fa rimpiangere a noi laici quel Zapatero dei diritti civili che nel 2006 si assentò coraggiosamente dalla messa di un papa a Valencia. Dopo che Nichi Vendola, poi, ha abolito la parola “compagni” dal vocabolario della sinistra centripeta, viene da chiedersi quali saranno gli incipit degli imminenti comizi elettorali, visto che di programmi neanche a parlarne: con l’incenso che tira, possiamo azzardare un “fratelli e sorelle”? Per consolarci, una notizia arriva dalla verde, cattolicissima Irlanda: l’Eire del neoeletto Michael D. Higgins chiude la propria ambasciata presso il Vaticano. «Per motivi economici», si affanna a spiegare il portavoce della santa sede Federico Lombardi, sentendosi in buona compagnia di altri Paesi come Iran e Timor est, dove l’Irlanda ha preso la stessa decisione. Motivi economici, senz’altro. Quando c’è il Vaticano di mezzo, i soldi c’entrano sempre... Oppure che alla guida di un Paese europeo sia arrivato un poeta, pacifista, sostenitore dei diritti umani e civili? No, non abbiamo detto Vendola. Abbiamo detto laico.
Paolo Izzo