sabato 15 dicembre 2012

Corriere 15.12.12
E ora Bersani cura le alleanze con i progressisti europei
Il Pd in attesa delle mosse del premier. L'affondo di Vendola
di Monica Guerzoni

ROMA — Nel tweet che Dario Franceschini ha lanciato sul web c'è tutto il nervosismo dei democratici per il possibile impegno del premier in politica. «Tra le tante idiozie e cattiverie che circolano in rete l'ultima è la più ridicola e offensiva insieme: lascerei il Pd per andare con Monti!» ha scolpito sul social network il capogruppo del Pd. Una presa ufficiale di distanza dai movimenti di truppe al centro, che rischiano di spaccare il partito.
Il nervosismo al vertice è destinato a crescere ancora, visto il timore che il professore possa sciogliere la riserva scombinando i piani di Pier Luigi Bersani. Il segretario ha invitato Monti a star fuori dalla mischia e, sul Corriere, Massimo D'Alema ha esplicitato il concetto con una certa verve: definendo «illogico» e «moralmente discutibile» uno scenario che vedesse il capo del governo scendere in campo contro «la principale forza politica che lo ha voluto e lo ha sostenuto». Parole forti, che al Quirinale non devono essere sfuggite visti i toni con cui Umberto Ranieri, un democratico in grande sintonia con Giorgio Napolitano, ha stigmatizzato il monito del presidente del Copasir: «Una forzatura politica violenta, incomprensibile da ogni punto di vista». Bersani si aspetta che il premier faccia presto chiarezza, che dica agli italiani se intende candidarsi oppure no. La scelta di andare a sorpresa alla riunione del Ppe ha a dir poco stupito il segretario, che ne ha ricavato l'impressione di un impegno imminente. E ora al leader del Pd non resta che aspettare le mosse del professore, mostrandosi non troppo interessato al futuro di colui che le più importanti cancellerie internazionali vorrebbero a Palazzo Chigi, anche nel 2013. Ieri sera, mentre lasciava il Nazareno per recarsi alla cena con i leader dei partiti progressisti, i cronisti hanno provato a estorcergli un ragionamento sulla totocandidatura di Monti, ma Bersani ha glissato: «Se ne dicono tante...». Non certo un incoraggiamento a rompere gli indugi. I rapporti con Palazzo Chigi rischiano di farsi ruvidi, tanto che nel pomeriggio è girata la voce di una telefonata di chiarimento tra il premier e il segretario. Notizia presto smentita dall'ufficio stampa del governo: «No, non si sono sentiti».
È ormai chiaro che, se potesse scegliere, Bersani vedrebbe bene il capo del governo come successore di Napolitano. Come ha detto D'Alema, «sarebbe meglio se Monti preservasse la sua figura di super partes al servizio della Repubblica». Una formula che molti hanno letto come un avvertimento esplicito al premier: se dovesse schierarsi, l'appoggio del Pd per il Quirinale verrebbe meno...
Oggi Bersani chiuderà a Roma la «Progressive Alliance Conference», un evento organizzato per mostrare al mondo che il centrosinistra gode di una solida rete di rapporti con i leader dei partiti progressisti. «Non è solo Monti ad avere appoggi internazionali», rivela l'obiettivo il responsabile Esteri, Lapo Pistelli. L'urgenza di accreditarsi presso le cancellerie europee porterà mercoledì il segretario a Bruxelles per incontrare Junker e Van Rompuy, ma intanto il leader del gruppo Ue dei Socialisti e democratici, Hannes Swoboda, garantisce che Bersani è il leader del «più convinto» partito europeista: «È il nostro candidato». Alla conferenza parlerà anche Nichi Vendola, che non vede l'ora di succedere a «un governo di estremisti di destra». Su Twitter il leader di Sel ironizza: «Quando ho visto Monti entrare al Ppe, tempio del conservatorismo Ue, ho pensato al libro Va' dove ti porta il cuore...».

La Stampa 15.12.12
“Monti contro Bersani? Noi socialisti europei stiamo con Pierluigi”
Il capogruppo Swoboda: “È il suo momento”
di Marco Zatterin

A Strasburgo Hannes Swoboda, austriaco, guida i Socialisti & Democratici della Ue
«Se si dovesse andare a un match Bersani contro Monti, noi non avremmo dubbi: saremmo con Pierluigi». Il punto di arrivo per l’analisi di Hannes Swoboda, capo dei Socialisti & Democratici del Parlamento europeo, è preciso. La strada per cui ci arriva è naturalmente più complessa. L’attuale premier, assicura l’austriaco, potrebbe essere un alleato del Pd al governo, lo vedrebbe anche al Quirinale, «sarebbe un buon affare», assicura. L’alternativa è che diventi un nemico politico. Alla vigilia della Conferenza internazionale dei Progressisti, che si svolge oggi a Roma, l’eurodeputato concede comunque gli ha fatto un certo effetto vedere il Cavaliere e il Professore allo stesso tavolo in occasione del vertice dei leader popolari di giovedì. «È molto strano che fossero entrambi lì - ammette l’eurodeputato -. È chiaro che il Ppe sta cercando di salvare la posizione in Italia, vuole trovare una leadership per la destra e i moderati. Sanno che se va avanti Berlusconi sarà un disastro».
Pensa che Monti debba restare fuori dalla politica?
«Anzitutto, ora la politica deve tornare a interpretare la sua parte. Berlusconi l’ha resa impopolare in Italia, ma questo non vuol dire che abbia perso la sua ragione di essere. È necessario il recupero del confronto fra diversi partiti politici con opinioni, idee e valori differenti. Bersani è la guida del centrosinistra, è lui che rappresenta l’alternativa, lui che deve riportare i temi sociali al centro dell’agenda. Per Monti non sarebbe possibile. È stato un “commissario” per l’Italia nella fase di transizione in cui ci si doveva liberare di Berlusconi. Non penso che sia il futuro del Paese o dell’Europa».
Lei crede che Monti voglia scendere in campo a destra?
«C’è pressione perché lo faccia. Però io credo che sia sufficiente per il Ppe dire che non vogliono Berlusconi e lasciare che il centrodestra italiano scelga il proprio leader».
Un mossa avventata, la colazione di giovedì?
«È stato un intervento di cattivo gusto. Monti ha il sostegno del centrosinistra per fare le riforme. È stato cacciato da Berlusconi ed è strano pensare che diventi il leader del centrodestra, in queste condizioni. Darebbe l’impressione che non hanno nessuno da mettere in campo, il che magari è vero».
Vede un Monti affiancato a Bersani e al Pd?
«Se non prende il posto di Berlusconi, in quanto vero uomo di centro, potrebbe esserci un’opportunità».
E un ticket Bersani-premier e Monti-presidente?
«Sarebbe un buon affare. Al momento non si è ancora sbilanciato e credo che sarebbe una buona cosa se continuasse a non farlo. Dovrebbe mantenersi, così come ha fatto da primo ministro, figura super partes».
Le primarie hanno rafforzato Bersani?
«Sì, hanno creato le premesse perché il paese abbia un leader forte sulle riforme e sul sociale. Il Consiglio Ue ha appena detto che bisogna fare di più in questo settore. È un aiuto per Bersani perché questa è la sua partita. È stato eletto e non nominato per prendere il posto di qualcun altro».
Un governo di centro sinistra in Italia sarebbe l’inizio di un’alleanza italo-francese che, con Belgio e Austria, potrebbe sostituire l’asse franco-tedesco che da sempre governa l’Europa?
«Non so se possa sostituirlo. Ma potrebbe limitare l’influenza tedesca in modo sensibile. Un’alleanza forte sui temi sociali faciliterebbe un cambiamento delle politiche in Europa e mostrerebbe i limiti di quelle della Merkel».

il Fatto 15.12.12
Monti non ascolta il Pd e si candida “per l’Europa”
Il successo del vertice di ieri ha tolto i dubbi al professore: gli equilibri tra i Paesi richiedono un suo impegno. A destra
di Stefano Feltri

Il risultato del Consiglio europeo che si è chiuso ieri a Bruxelles ha tolto a Mario Monti ogni dubbio residuo: si deve candidare. Per il bene dell’Europa, nell’interesse degli Stati Uniti e, anche, perché avere un premier che domina la politica europea è l’unico modo per tutelare l’Italia. Lo ha lasciato intendere anche con una frase delle sue, allusiva, durante la conferenza stampa conclusiva: “Qualsiasi cosa farò e di cui parlerò è difficile che eluda temi europei”. Nella delegazione italiana ieri c’era un clima di profonda soddisfazione per l’esito del Consiglio, oscurato dalle polemiche sull’investitura da parte del Partito popolare europeo di Monti al posto di Sivlio Berlusconi come riferimento italiano del centrodestra. L’Italia, nei negoziati gestiti soprattutto dal ministro per gli Affari europei Enzo Moavero, ha contribuito a far partire in tempi più rapidi del previsto il processo che porterà all’Unione bancaria (sia pure in una versione soft che accontenta la Germania), ha ottenuto che si considerino gli investimenti produttivi prima di giudicare eccessivo il deficit di un Paese. Nelle conclusioni del vertice Moavero ha anche ottenuto che ci fosse un riferimento al “dialogo sociale” e alla “dimensione sociale” della Unione economica e monetaria del dopo crisi (che nel gergo brussellese significa: mai più un’altra Grecia).
LA LINEA EUROPEA montiana si è ormai affermata: il risanamento non può essere solo contabile, l’approccio tedesco punitivo è superato. Nella delegazione italiana circola questa considerazione: “Monti e François Hollande hanno un’alchimia perfetta, uno riesce a parlare il linguaggio del rigore, per convincere la Merkel, l’olandese Rutte, il finlandese Katainen e anche la Gran Bretagna di Cameron, l’altro si rivolge ai progressisti. Ricordano Helmut Kohl e François Mitterrand”. Questo spiega anche perché Monti abbia accettato l’investitura del Ppe, lasciando per la prima volta il ruolo di tecnico imparziale per accettare una connotazione politica più marcata.
Chi ha parlato con Monti riferisce che lui è consapevole che abbandonare lo status di tecnocrate ha forti controindicazioni, che significa dire agli elettori che non si agisce nell’interesse di tutti ma di una parte. Ma la necessità lo richiede. Monti è convinto che l’Italia potrebbe sopravvivere alla sua uscita di scena, l’Europa no. Ai giornalisti ha detto di non aver neppure letto l’intervista al Corriere della Sera con cui Massimo D’Alema, a nome del Pd, gli chiedeva di accontentarsi di tornare a fare la “riserva della Repubblica”, magari con la promessa del Quirinale. A Monti non interessa: pensarsi ancora a palazzo Chigi implica uno confronto diretto, e uno scontro, con il Pd. E Pier Luigi Bersani da sostenitore diventa l’avversario. Ma il professore deve anche liberarsi dell’abbraccio imbarazzante di Silvio Berlusconi, che continua a ripetere “faccio il tifo per Monti, sono felicissimo se lui si candida”.
A BRUXELLES il ragionamento che circolava ieri era che di italiani con il profilo tecnico giusto per dare dall’Italia un contributo all’Europa ce ne sono tanti, ma di Monti ce ne è uno solo. Non serve un tecnico, tipo Giuliano Amato ai tempi della Convenzione europea. Serve un Monti primo ministro con pieni poteri. Visto da palazzo Chigi il senso del vertice del Ppe e delle dichiarazioni di stima di Hollande, ma anche dei tre presidenti, Schulz (socialista, Europarlamento) e Barroso (Commissione) e Van Rompuy (Consiglio Ue), non era un’imposizione all’Italia, considerata inaffidabile e sotto tutela. Ma un riconoscimento al suo ritrovato ruolo strategico legato, per ora indissolubilmente, alla figura di Monti. I montiani citano sempre anche gli Stati Uniti: “Hanno capito che il destino dell’Unione monetaria è cruciale per loro, quindi hanno cercato un partner alternativo alla Gran Bretagna, fuori dall’euro, e lo hanno trovato nell’Italia”.
La volontà c’è, ora Monti deve trovare i voti. Sta pensando a un discorso in Parlamento per vedere poi chi aderisce, partiti e parlamentari. Intanto conferma per il 21 dicembre la conferenza stampa di fine anno per un bilancio del suo primo governo.

La Stampa 15.12.12
Il nuovo muro sul traguardo di Bersani
di Federico Geremicca

Provate a mettervici voi, come sta s u cce d e n d o a Bersani, nei panni del ciclista che dopo tanto pedalare - vede finalmente lo striscione del traguardo, è sicuro di aver vinto e invece qualcuno gli sposta lo striscione chilometri e chilometri più in là. Il ciclista si infuria, naturalmente. Se poi, dopo la nuova fatica, il giochino viene ripetuto una seconda volta, allora davvero non ci sono parole per descriverne la delusione, la rabbia e infine l’incredulità.
A Pier Luigi Bersani questo scherzetto è già stato fatto una volta quando, nel novembre 2011 - dopo le dimissioni di Berlusconi - invece che le elezioni (che probabilmente avrebbe vinto) al Paese fu regalato il governo di Mario Monti. Il leader Pd abbozzò, capì che la scelta aveva un senso e si impegnò perché il lavoro dei tecnici centrasse gli obiettivi che erano fissati. Ora, però, qualcuno sta provando a rispostargli lo striscione del traguardo lontano chissà quanto: e poiché anche la pazienza dell’uomo paziente non è infinita, si può esser certi che a Bersani questa faccenda non va e non andrà affatto giù.
Non vanno giù, naturalmente, certe «ingerenze» europee (Merkel in testa, ma perfino Hollande l’ha deluso) circa l’opportunità che visto il persistere della crisi - anche il prossimo governo sia guidato da Monti: cosa che, per altro, quasi pone Bersani sullo stesso piano dell’«indesiderato» e inaffidabile Berlusconi. Non vanno giù certe reticenze e certe sorpresine dello stesso Monti che, guarda un po’, si materializza all’improvviso al vertice del Ppe per riceverne l’investitura (inattesa? imprevista?) a futuro capo del governo. E non gli va giù - umanamente - che tutto il lavoro fatto fin qui vada in malora sull’altare di un giudizio di inaffidabilità (o parziale affidabilità) che Bersani sente di non meritare.
Quest’ultima, in particolare, è una contestazione che gli appare inaccettabile: e si può capire meglio lo spessore del disappunto se si ricorda da dove arriva il leader Pd, cioè dal vecchio partito comunista. Per decenni, infatti - all’epoca del Muro - l’accesso al governo di dirigenti comunisti è stato negato in nome di una sorta di «inaffidabilità democratica» impossibile da aggirare. Crollato il Muro, quella discriminante cadde. Il sospetto, ora, è che qualcuno stia provando a imporne un’altra: una nuova «inaffidabilità» - questa volta economica - che Borse, banche e agenzie di rating (a volte col sostegno di questo o quel leader estero) vogliono cucire addosso alla sinistra italiana e, talvolta, non solo italiana. Conta poco ricordare che Roma nell’euro c’è entrata con Prodi e con Ciampi. I muri, si sa, sono muri: fatti apposta per non vedere e non sentire...
Pier Luigi Bersani ha vinto le primarie (2009) per diventare segretario del Pd, poi ne ha rivinte altre (un mese fa) per legittimarsi come candidato-premier, ha riportato il suo partito oltre il 30 per cento e ha un passato da ministro non contestato e - anzi - apprezzato: ciò nonostante, sembra esser finito (e non spiega tutto, forse, l’alleanza con Vendola) al centro di un accerchiamento che ha come obiettivo dichiarato impedirgli di guidare il governo, magari se anche vincesse le elezioni. Si intende bene, dunque, come tutto questo debba apparirgli indigeribile: soprattutto se parte attiva nella «congiura» dovesse essere quel Monti che Bersani ha sostenuto fino alla fine in mezzo a critiche e difficoltà.
Tra pochi giorni le scelte di SuperMario saranno note. I più ottimisti nel Pd (pochi) pensano che deciderà di «sponsorizzare» il nuovo gruppo di centro di Montezemolo e Casini per poi, magari, entrare come superministro dell’Economia in un governo guidato dal leader del partito che vincerà le elezioni. Può essere. Ma quel partito, secondo ogni sondaggio, è il Pd; e il suo leader è Bersani. Che non crede affatto, però, alla favoletta di SuperMario che rinuncia al grado di generale per accettare quello di semplice tenente...

La Stampa 15.12.12
Il Pd teme l’effetto Monti Bersani: “Dica cosa farà”
Casini: una sua lista con Berlusconi ? Come un Ufo alla Camera
di Carlo Bertini

L’unico a non dar mostra di essere spaventato è Bersani, «Monti dica cosa vuol fare, i cittadini hanno diritto ad avere un quadro chiaro, a soli due mesi dal voto noi siamo l’unica realtà in campo». Per il resto, garantiscono i suoi uomini, «nessun timore di una discesa in campo: come potrebbe diventare referente di tutto il centrodestra? Gli elettori del Pdl non lo vedono come loro leader, ma come usurpatore. E in ogni caso nessuno si aspetti che siccome gli abbiamo sempre votato la fiducia, il Pd poi si acconci a sostenere Monti...».
E se questo avvertimento urbi et orbi è certo un segnale di nervosismo del vertice, il resto del partito è scosso dai tremori: messo alla prova da una guerra sotterranea per le primarie di lista che rischiano di asfaltare le varie correnti, tranne gli ex Ds. Al punto che già si prevede uno smottamento verso l’area centrista dei montiani doc, di frotte di parlamentari che non ce la faranno a superare la prova dei gazebo locali schiacciati dagli apparati. E nelle segrete stanze i maggiorenti combatteranno sulle regole fino alla Direzione di lunedì. I due temi del futuro di Monti e dell’esito di queste primarie dunque in qualche modo si intrecciano.
Sul primo punto, non è solo la benedizione del Ppe a Monti a creare allarme; anche le parole di elogio di Hollande hanno fatto drizzare le orecchie ai Democratici, specie agli ex Dc. Ieri il capo dei Socialisti e Democratici europei, Hannes Swoboda, prima di incontrare Bersani alla vigilia del mega-convegno dei progressisti di mezzo mondo, ha dovuto ribadire il sostegno del suo gruppo al leader del Pd come «nostro unico candidato».
«Ma lo scenario è cambiato, il segnale è che l’Europa, oltre a Berlusconi, sembra scaricare Bersani. E ora anche quei moderati che guardano ad un’alleanza col Pd nel nome di Monti dovranno forse rivedere i piani»: in una Camera deserta, due deputati ex Ppi riportano questo clima di sconcerto che regna a sinistra e al centro. E’ l’incubo di uno scenario che «cambia nel bel mezzo della corsa, mentre il Pd è impegnato nelle sue primarie»; e che dà l’immagine di una «gioiosa macchina da guerra ormai isolata con Sel»: che forse dovrà vedersela con il professore nel ruolo di «antagonista».
Insomma un annuncio di terremoto che fa lievitare voci di imminenti fuoriuscite degli ex Dc, anche se uno dei maggiori indiziati, Beppe Fioroni, non sembra scalpitare, «ogni aggregazione al centro alternativa a Berlusconi dovrebbe essere guardata con interesse dal Pd». E va da sè che anche i centristi siano in subbuglio, malgrado Casini non creda alla prospettiva, «che ci sia alle prossime elezioni una lista Monti-Berlusconi è come credere a un Ufo che atterra a Montecitorio». I sondaggi hanno il loro peso e quelli su una lista in nome di Monti «non sembrano premere granché per un successo alle urne», fanno notare i bersaniani. Fatto sta, ragiona uno spirito critico come Arturo Parisi, che la discesa in campo di Monti sarebbe inevitabilmente nel segno di un bipolarismo centrodestra-centrosinistra e a quel punto la partita diventerebbe «apertissima». Discorsi che riecheggiano dal mattino in molte telefonate tra i big; che dopo aver letto l’intervista al Corriere con cui D’Alema attacca Monti definendo «moralmente discutibile» una sua candidatura, si interrogano sulle conseguenze dell’endorsement dei leader europei al professore.
E non sono tutte in sintonia con D’Alema le reazioni, anzi i «montiani» di rito veltroniano e i renziani di varia estrazione mostrano un approccio ben diverso al problema. «Quella di D’Alema è una forzatura politica violenta, incomprensibile da ogni punto di vista», dice Umberto Ranieri, ex Ds ma sostenitore di Renzi alle primarie. «Monti? Deciderà lui cosa fare», risponde Veltroni, convinto che l’evoluzione del sistema politico sarà verso «un bipolarismo fondato su un centro democratico e un centrosinistra riformista, e sarebbe un fatto positivo».

Repubblica 15.12.12
L’incubo scissione agita i democratici la tentazione dell’operazione centrista
Dagli ex popolari di Fioroni ai montiani “qualcuno può lasciare”
di Giovanna Casadio

ROMA — Sembrava una marcia trionfale per il Pd di Bersani, consacrato dalle primarie. Un avvicinamento alla vittoria elettorale del 2013, che le esibizioni scomposte di Berlusconi non avrebbero certo potuto fermare. Ma il giorno dopo l’investitura politica del Ppe a Mario Monti, a Largo del Nazareno si respira tutt’altra aria. Terreno minato e rischio di smottamenti del Pd sono concreti come mai prima d’ora.
Da un lato Fioroni e il suo drappello di Popolari, parlamentari (Ginefra, Bocci, Pedoto, D’Ubaldo) ma soprattutto ammini-stratori locali, che non parlano per ora di diaspora, però riconoscono l’attrazione centrista e moderata. Dall’altro, ci sono i “full Monti”, quel nucleo di Democratici che a luglio firmarono un appello per l’Agenda Monti: Morando, Ceccanti, Gentiloni, Ranieri, Tonini, Negri, Ichino, Peluffo, per dirne alcuni. Poi, tanta acqua è passata sotto i ponti: correnti sono state spazzate via (i veltroniani); nuovi fronti sono nati (di appoggio a Renzi alle primarie). Però resta un punto fermo: completare il lavoro di Monti, mantenere la continuità con le politiche del Professore. Tanto che i montiani del Pd avevano organizzato un incontro con Monti il 13 gennaio, e adesso pensano sia il caso di anticiparlo. Pronti allo strappo? Paolo Gentiloni spiega: «Io non ho nessuna intenzione di lasciare il Pd ma non escludo che individualmente qualcuno possa fare questa scelta». Essendo candidato a sindaco di Roma, dice di non volere polemizzare, tuttavia si sfoga: «Se la frana di Berlusconi procede e il Pd non arruola in pieno Renzi, non intercetteremo un bel nulla e la frantumazione del centrodestra sarà un vantaggio solo per Monti e i centristi. Lo scenario in cui il Pd aveva una maggioranza certa sia alla Camera che al Senato è scomparso, non c’è più».
Monti politicamente in campo (o il suo marchio in franchising), con un Ppe che gli tira la volata, la Chiesa che lo appoggia, la Merkel e persino Hollande che lo richiedono a gran voce, «cambia il piano di gioco». Antonello Giacomelli, franceschiniano, si toglie la soddisfazione di una frecciata: «Pur nella diversità, ma noi restiamo di sinistra, mi pare che ora si capisca meglio cosa vuole essere Monti». Proprio quello che vuole fare Monti invece sta a cuore a Stefano Ceccanti. Se Monti farà appello a un fronte ampio e costituente, per completare le sue riforme, troverà molti supporter: è il ragionamento del senatore democratico. Che aggiunge: «Certo le reazioni arrabbiate, come quelle di D’Alema, non penso aiutino». Il D’Alema che rimbrotta Monti perché «moralmente discutibile una sua candidatura», è derubricato a «stizza inopportuna», dai montiani del Pd. Al Nazareno però l’irritazione è di tutta la segreteria. «Servirebbe un po’ di chiarezza. Cosa bolle nella pentola centrista, forse liste personali?», è il commento dei bersaniani.
Bersani tesse la rete internazionale. Oggi con Vendola e Nencini presenzia il vertice dei progressisti affrontando le questioni dell’economia globale (con Pascal Lemy), della crescita economica e delle politiche per lo sviluppo. Enrico Letta, il vice segretario, è stato mandato in missione a Wall Street per incontrare alcuni capi di hedge funds, banche d’affari e d’investimento e per convincerli che il centrosinistra continuerà su una linea europeista e di tenuta dei conti pubblici. Che quindi non devono avere paura. Basta a soddisfare i montiani del Pd?
E poi c’è l’incognita Renzi. Il sindaco di Firenze ha ripetuto fino alla nausea che davvero la discesa in campo di Monti e i progetti politici del Professore non gli interessano nemmeno per sbaglio. Annuncia anzi la sua presenza alla direzione del Pd, lunedì. Una direzione convocata per votare il regolamento delle primarie per i parlamentari, a che sarà riconvertita alla discussione politica. Per arginare il rischio smottamenti del partito, appunto. Fioroni a domanda su cosa farà se Monti scende in campo con un progetto Popolare, prende tempo: «È come se mi si chiedesse, cosa succede se il 21-12-2012, finisce il mondo?». Solo questione di giorni e sapremo.

Repubblica 15.12.12
L’allarme del Pd sulla “corsa” di Mario “Si rischia uno scontro con Bersani”
Marini: discutibile una sua candidatura. Vendola: è un conservatore
di Annalisa Cuzzocrea

ROMA — Non l’ha presa bene, Pier Luigi Bersani, la visita di Mario Monti alla riunione del Ppe a Bruxelles. In pubblico ostenta indifferenza. A chi gli chiede cosa pensi, di un’eventuale candidatura del premier, dice solo: «Se ne dicono tante». E aggiunge: «Mi sto occupando di altri problemi, problemi internazionali», riferendosi alla conferenza internazionale dell’alleanza dei progressisti che si terrà oggi a Roma, di cui ieri ha incontrato i principali esponenti.
Con i suoi però il segretario pd è molto più esplicito: «Monti può anche candidarsi, ma deve sapere che lo farebbe contro di me. Deve sapere che in questo modo perde la sua neutralità». E ancora, a chi gli parla di strategie: «Per noi non cambia niente. Andiamo avanti. Abbiamo fatto le primarie, e a quelle ci atteniamo». La linea è sempre la stessa: un’alleanza con i progressisti aperta alle forze moderate. Le possibili fughe dal Pd, con i filomontiani pronti valigia in mano a trasferirsi in un replay postmoderno della democrazia cristiana, per ora, non lo preoccupano. «Non siamo tutti D’Alema - dice sarcastico un dirigente - stiamo lavorando perché questo non avvenga. C’è un dialogo in corso, e non è il caso di danneggiarlo con dichiarazioni fuori luogo e fuori tempo». A largo del Nazareno, pare che le ultime dichiarazioni di Massimo D’Alema non siano piaciute. È la locuzione «moralmente discutibile», detta in riferimento a una possibile
discesa in campo del professore, che ha messo più in allarme la segreteria. Ritenuta troppo forte. Pericolosa, in un momento come questo. Benché ancora ieri Franco Marini dicesse chiaro: «Monti è entrato in una posizione sopra le parti in un momento molto difficile per il Paese. È stato sostenuto da una maggioranza impensabile e siamo andati avanti per un anno. La sua candidatura sarebbe discutibile». Per l’ex presidente del Senato, il professore sarebbe invece un ottimo presidente della Repubblica.
Anche su questo, è difficile che sia d’accordo Nichi Vendola. Il leader di Sel ha messo in chiaro tutti i dubbi che nelle ultime ore scuotono il centrosinistra. «La partecipazione di Mario Monti alla riunione del Ppe mi rassicura - ha scritto sulla sua pagina Facebook
- perché è evidente che il premier ha aderito al campo conservatore. Finalmente un elemento di chiarezza». E ancora, da Bari, parlando con alcuni giornalisti a margine di un incontro, il governatore pugliese è se possibile più tagliente: «Quando ho visto Monti spogliarsi dell’aureola di tecnico ed entrare nella sede del partito popolare europeo, cioè nel tempio del conservatorismo culturale e politico europeo, ho pensato al titolo del libro di Susanna Tamaro: “Va’ dove ti porta il cuore”». In realtà, rinchiudere il montismo nell’asse del centrodestra fa il gioco di chi come Vendola vuole spostare più a sinistra possibile l’asse del Pd. Non è il gioco di Bersani, però, quello di farsi schiacciare a sinistra. La partita è appena cominciata. La squadra democratica avverte: resta poco tempo, il quadro dell’offerta politica va definito immediatamente. Monti scelga in fretta cosa fare.

il Fatto 15.12.12
Il Professore in campo disorienta il Pd
Bersani tace, D’Alema parla di scelta “moralmente discutibile”, Veltroni Benedice, i renziani valutano
di Wanda Marra

Noi andiamo avanti come un treno sulla nostra strada”. La strategia del Pd - anzi, meglio - del Pd targato Bersani non si mette in discussione, Monti o non Monti: c’è un polo di progressisti “aperto” con la testa (la definizione è dello staff del segretario), che comprende Nichi Vendola (esternazioni anti - montiane o no) e che - ovviamente - prova a vincere le elezioni. D’altra parte, Bersani è il vincitore delle primarie. Punto. E il Pd è l’unico partito che ha chiarito leader e coalizione. Si prova così ad esorcizzare il fatto che la candidatura del Professore cambia non poco le carte e i pesi in gioco. E il disorientamento causato da una serie di variabili: come e con chi il premier deciderà di mettersi in campo?
“IL MONITO”, durissimo, ieri era arrivato da Massimo D’Alema con un’intervista al Corriere della Sera. “Trovo che sarebbe illogico e in qualche modo moralmente discutibile che il Professore scenda in campo contro la principale forza politica che lo ha voluto e lo ha sostenuto nell'opera di risanamento”. Il lìder Maximo era arrivato ad avvertirlo di un rischio di logorare la sua immagine. Sullo sfondo l’offerta che il Pd fa - in maniera èiù o meno esplicita - da mesi al Professore: il Quirinale. Monti non sembra aver preso in considerazione né queste pro-offerte, nè gli avvertimenti di D’Alema. La candidatura è quasi certa. Con buona pace del segretario che ieri sera andando alla cena con i leader progressisti che oggi partecipano alla “Progressive alliance conference” (il primo di una serie di appuntamenti europei con cui lavora al suo profilo internazionale), ancora glissava: “Se ne sentono tante... ”. Sull’argomento, dopo aver chiarito di essere pronto a collaborare con i moderati in Europa, tace. Dice ancora Stefano Fassina: “Io sono sulla linea D’Alema. Noi avevamo dato il nostro sostegno a Monti perché ci aveva garantito che sarebbe stato super partes, una figura di garanzia. Quello che dovrebbe ancora essere”. Difficile percorso quello di Bersani tra l’impegno a rispettare gli impegni europei, un Vendola principale alleato (pure unico, se Monti scende in campo con Casini tra i primi sostenitori) che non fa altro che assumere posizioni contrarie (“ci vogliono commissariare”) e l’originale voluto e sostenuto dal-l’Europa, in corsa ufficiale. C’è da essere disorientati. Soprattutto se nel partito la forzata pace anti- Renzi tra big e capi correnti vari, tramortiti dalla netta vittoria dal segretario alle primarie, vacilla. Ecco le parole di Veltroni: “Monti deciderà quello che vuol fare. Io ho detto e confermo che secondo me se l’evoluzione del sistema politico italiano sarà verso un bipolarismo non fondato sul Berlusconi e l’anti berlusconismo, ma fondato su un centro democratico e su un centrosinistra riformista, sarà un fatto positivo per l'Italia”. Come dire: altro che moralmente discutibile, candidarsi è nel suo pieno diritto. “Il problema è il programma, mi auguro - ha spiegato l’ex segretario del Pd - che ci sia un programma riformista”. Esegesi dei fedelissimi: se Bersani si ostina a tenere come principale alleato Vendola, sbaglia. Come ha sbagliato a dire che lui organizzava il campo dei progressisti, e qualcun’ altro quello dei moderati. Se questo qualcun’altro poi è Monti, con tutto ciò che ne consegue, poi non si può lamentare. Se non a Veltroni direttamente, a qualcuno dei suoi l’idea di un governo di unità nazionale, magari con l’occasione di un pareggio al Senato, proprio non dispiace.
“UNA FORZATURA politica violenta, incomprensibile da ogni punto di vista”, definisce Umberto Ranieri - da sempre vicinissimo a Napolitano - l’intervista di D’Alema. Nei Democratici c’è la consueta fibrillazione, con un Fioroni - che nega, ma che è tra i più montiani del partito - dato già in uscita insieme a un manipolo di suoi e con un Dario Franceschini, capogruppo alla Camera, che, in difficoltà con i suoi per la questione primarie, è costretto a chiarire su Twitter: “Tra le tante idiozie e cattiverie che circolano in rete l'ultima è la più ridicola e offensiva insieme: lascerei il Pd per andare con Monti!”.
E poi c’è il capitolo deputati renziani, già montiani: un nutrito drappello, composto - tra gli altri - da Paolo Gentiloni, Piero Ichino, Enrico Morando, Tonini, Salvatore Vassallo, Stefano Ceccanti. Che ne sarà di loro? Alcuni stanno anche pensando di non fare le primarie, consapevoli di non avere i voti. E qualcuno spera in uno schema che veda Monti candidato non della destra, ma dei centristi, che chiede a Renzi di dargli una mano. Pronto a seguirlo. Il sindaco di Firenze però permane nel suo ostinato ritiro: non risponde all’offerta di D’Alema di un ministero, ad andare con il Professore non ci pensa proprio.

il Fatto 15.12.12
Noi giovani mantenuti dal Pd?
Sono i vecchi a temere l’uscita
La senatrice Magistrelli attacca i quarantenni del partito che rispondono:
sappiamo lavorare con o senza la politica
di Chiara Paolin

A chi pensava che lo scontro generazionale fosse stato archiviato con il fair play kennediano di Matteo Renzi nella notte della sconfitta, la senatrice Marina Magistrelli fa sapere che i giochi nel Pd sono solo all’inizio.
E non si tratta di un gioco da ragazzi: sessantenni contro quarantenni rischia di essere il tema più scottante nella concitata corsa verso le primarie superfast. La Magistrelli, simpaticamente, definisce i giovani turchi “polli da batteria”. Parassiti che il partito nutre e alleva fin dalla più tenera età trovando il modo di portarli avanti almeno fino alla pensione: come parlamentari, sindaci o consiglieri di non si sa bene che. “La Magistrelli dice una gran fesseria” attacca Matteo Ricci, 38 anni, presidente della Provincia di Pesaro Urbino, talento ufficiale del Pd marchigiano cui la stessa Magistrelli appartiene da ‘ancunitana’ colta e verace.
GUERRA DI CAMPANILE
dunque? Due precandidati in lotta per lo stesso seggio? “No, perché io alle primarie non partecipo” spiega Ricci, accusato dalla senatrice di “non aver mai lavorato un giorno in vita sua”. Lui se la ride. Forse perché da ragazzo faceva “il manovale e il cameriere pur di finire gli studi”. Forse perché è convinto ci sia una motivazione poco nobile dietro le unghiate della conterranea. “È semplicissimo – dice Ricci – la Magistrelli vuole difendere il terzo mandato di Rosy Bindi, sua referente al Senato. Noi giovani invece siamo contrari. Faccio notare che la signora sta da 12 anni in Parlamento incassando regolarmente lo stipendio. Quando parla dei funzionari, dei parassiti, offende i ragazzi che lavorano anche per lei, per tenere in piedi il partito nei circoli, nei paesi, nei quartieri. Guadagnando mille euro al mese”.
Oppure un po’ di più, come Matteo Orfini, responsabile cultura del Pd, bollato pure lui come fardello a vita per la collettività. “Marina sa benissimo che io ho un contratto a tempo determinato, scade al prossimo congresso” dice Orfini il precario. “No, quella parola no – s’oppone –. Guadagno 3.200 euro al mese e oggi i precari sono tutta un’altra cosa. Ma se non dovessi essere confermato dovrei per forza trovare un’altra soluzione. Ho fatto l’archeologo, poi il manager per un’associazione, mi interessano i beni culturali e lì vorrei restare”. Però il tentativo di entrare in aula c’è eccome: “Ho chiesto ai vertici del partito di organizzare le primarie per tutti e mi auguro sia così. Bersani a parte, è bene che ogni seggio sia attribuito dai nostri elettori scegliendo tra proposte diverse. Mi piacerebbe partecipare, vediamo cosa succederà lunedì quando verranno definite le regole”.
NON PENSA alla competizione frontale Matteo Renzi. Altro tipico prodotto della birocratija di partito, secondo la Magistrelli. “Ma dai, su, non vale neanche la pena di risponderle” si smarca Roberto Reggi, alter ego di Renzi. Del resto, la storica antipatia tra il sindaco di Firenze e la Bindi giustifica di per sé l’uscita anti-rottamazione. “Però evitiamo di dire cose a casaccio” prega Stefano Fassina, 44 anni, esperto economico del Pd, insistentemente indicato come ministro dell’Economia nel futuribile governo Bersani. “Ho fatto tante cose in vita mia fuori dal partito – risponde lui –. Non credo si possa procedere al rinnovamento della nostra leadership ignorando la qualità delle persone. Spero che la Magistrelli voglia prendere informazioni la prossima volta che parla”.
Insomma si parla a Marina perché presidente Rosy intenda: lunedì, sulle famose regole, gli schieramenti sono già belli carichi.
REGGI NON VUOLE fare il solito guastafeste: “Mi auguro solo che si permetta a tutti di partecipare al voto. Sennò, non servono a nulla”. Ricci mette lì un punticino in più: “Bisogna assolutamente stabilire dei paletti, delle indicazioni chiare, perché con questi tempi così stretti sta succedendo che tanti si buttano avanti così, senza preavviso, pur di cercare uno spazio. Invece chi ha un ruolo ufficiale, un incarico istituzionale, dovrebbe prima portare a termine il suo lavoro per bene. Questa sì che sarebbe una rivoluzione”. E c’è già chi la chiama regola anti-Renzi. O anti-furbi. ANTIROTTAMATRICE
Sul Fatto di ieri, la senatrice Pd Marina Magistrelli ha accusato i giovani colleghi di vivere a carico del partito.

Corriere 15.12.12
Primarie, i timori dei big. Si muove Renzi
Il sindaco candida i suoi uomini in Toscana ed Emilia-Romagna Bindi pronta a non chiedere deroghe
di M. T. M.

ROMA — Mal di primarie per il Partito democratico: sono sempre di più i parlamentari che contestano le regole e la data scelte per il voto.
Arturo Parisi strenuo sostenitore di questo strumento è convinto che quelle di fine dicembre non siano primarie vere. Sebastiano Vassallo e Filippo Civati, che la pensano come lui, chiedono uno slittamento al 13 gennaio. Ma da Largo del Nazareno Matteo Orfini risponde picche. Intanto i vari peones del Pd sono entrati in fibrillazione perché hanno capito che molti di loro verranno fatti fuori. E anche i maggiorenti del partito sono inquieti. Infatti con la proposta delle primarie Pier Luigi Bersani ha spazzato via quasi tutte le correnti: i veltroniani (che ora sono alla ricerca di voti che non posseggono), i bindiani e gli ex popolari di Beppe Fioroni. Il segretario ha avuto delle trattative solo con Enrico Letta e Dario Franceschini. Per il resto, ha delegato tutta la faccenda al suo capo della segreteria Maurizio Migliavacca, che però risponde al cellulare il meno possibile per non farsi coinvolgere nelle crisi di nervi dei parlamentari che temono di non essere rieletti.
Beppe Fioroni è in una situazione di forte disagio ed è tentato di intraprendere l'avventura del centro montiano. In forte imbarazzo anche la Bindi, che sta meditando di non chiedere la deroga, a questo punto, perché per come si sono messe le cose, la sua richiesta potrebbe essere addirittura bocciata. Walter Veltroni invece non ha nascosto neanche ai giornalisti di non essere stato coinvolto da Bersani in questa vicenda. Del resto, il segretario in questi giorni parla con un numero molto limitato di persone: il presidente della giunta regionale dell'Emilia-Romagna è uno dei pochi fortunati. Lui e Bersani si sentono (o si vedono) ogni giorno.
Sono in agitazione anche i renziani perché temono di venire scaricati. Ma il sindaco di Firenze si sta dando da fare: ieri è partito alla volta di Bologna per parlare con Matteo Richetti, presidente del consiglio regionale dell'Emilia-Romagna, suo fedelissimo della prima ora. Uno dei giovani su cui il primo cittadino del capoluogo toscano punta per il futuro. Lo scopo di questo faccia a faccia conviviale? Convincere Richetti a candidarsi alle primarie. Renzi infatti ha più che mai bisogno di parlamentari a lui legati da mandare a Roma per tenere in vita il suo movimento. Richetti si è dato due giorni per riflettere. E vi saranno candidati di Renzi anche in Toscana, dove il sindaco ha un notevole bacino elettorale. Alla fine Bersani dovrà trattare anche con lui per evitare di dare troppo l'impressione di un Pd tutto spostato a sinistra. Impressione che, come si è visto in questi giorni, rischia di essere controproducente sullo scenario europeo e internazionale.
Nel Lazio intanto è scoppiato un «caso». In tutte le altre regioni verranno esclusi dalla competizione i componenti delle assemblee elettive in carica. Ma i consiglieri regionali del Lazio sono dimissionari e non potranno candidarsi alle prossime regionali. Il che significa che potrebbero scendere in campo per tentare la sorte nelle primarie di fine dicembre. Si tratta di esponenti del Pd che hanno consistenti pacchetti di tessere e molti consensi e quindi sono degli avversari temibili per i deputati e i senatori eletti nel Lazio che sperano di tornare in Parlamento il prossimo anno.
Nonostante i dubbi, i sospetti e le polemiche la macchina delle primarie va avanti. A sovrintenderla, come sempre, il responsabile organizzativo del partito Nico Stumpo. Secondo le prime stime i candidati dovrebbero essere 1500. Questa volta si voterà più nelle sezioni che nei gazebo, mentre saranno gli stessi volontari delle primarie per il candidato premier del centrosinistra a occuparsi dell'organizzazione delle consultazioni.
Da registrare infine la proposta di Roberto Giachetti di far votare anche i detenuti.
M. T. M.

La Stampa 15.12.12
Il premier non sottovaluta le resistenze del Pd
di Marcello Sorgi

Il giorno dopo l’endorsement europeo del Ppe a favore della sua permanenza alla guida del Paese, Mario Monti preme il pedale sul freno. Della sua possibile candidatura, come federatore di un largo fronte moderato, non vuol parlare. Commenta rispettosamente l’intervista con cui Massimo D’Alema lo ha invitato a tenersi fuori da una campagna elettorale che lo vedrebbe contrapposto al Pd, che ha fin qui sostenuto il suo governo, e, almeno nei desideri di Berlusconi, rappresentare anche il Pdl, cioè il partito che lo ha portato alle dimissioni.
In realtà Monti non ha molta voglia di prendere partito. Le manifestazioni di stima venute dai leader popolari europei gli hanno fatto piacere, specie in questi giorni difficili. Ma la campagna elettorale non lo interessa più di tanto, ne vede anzi i rischi rispetto al fragile equilibrio economico dell’Italia. Ieri, ad esempio, il debito pubblico ha superato la soglia dei duemila miliardi di euro, grazie anche a una nuova ondata di spese che vengono dalle provincie, la cui riduzione, prevista in uno degli ultimi decreti, quasi certamente dovrà slittare per la conclusione anticipata della legislatura.
La pressione che si sta concentrando sul presidente del consiglio potrebbe spingerlo più facilmente a rifiutare, che non ad accettare, la candidatura alla premiership, per varie ragioni. Innanzitutto Monti è convinto che la pesantezza delle misure anticrisi, che dovranno necessariamente continuare anche nel 2013, consiglierebbe una prosecuzione dell’esperienza della larga coalizione, piuttosto che un governo realizzato da una sola parte e per giunta ipotecato dall’appoggio indispensabile di forze politiche radicali, come ad esempio il centrosinistra alleato con Vendola, o un centrodestra allargato, e tornato ai suoi confini storici, con dentro Berlusconi e la Lega. Il Cavaliere non è in grado di valutare quanto Monti abbia considerato grave la decisione, presa dalla sera alla mattina, di far passare il Pdl all’astensione, aprendo di fatto la crisi. Casini ieri ha detto che un governo Monti con dentro Berlusconi gli sembrerebbe un marziano atterrato a Montecitorio.
Inoltre, come s’è visto ieri dalle sue laconiche risposte nella conferenza stampa di Bruxelles, Monti sta valutando con attenzione le resistenze del Pd all’ipotesi della sua candidatura, e non ha dimenticato il monito venuto dal Capo dello Stato, anche lui contrario all’ingresso in campo del premier. La sensazione è che, almeno fino all’approvazione della legge di stabilità e alla conferenza stampa di fine anno, prevista per venerdì 21, il professore si limiterà a riflettere.

Corriere 15.12.12
Mosse e dubbi del professore
di Massimo Franco

Le incognite su un impegno più diretto di Mario Monti in campagna elettorale sono ancora intatte. Eppure qualche punto fermo comincia a intravedersi: in negativo e in positivo. Intanto, è inverosimile che il presidente del Consiglio possa accettare la proposta di Silvio Berlusconi di trasformarsi nel leader di un centrodestra in macerie: non è immaginabile Monti al timone della scialuppa di salvataggio dei naufraghi della Seconda Repubblica. Non è pensabile neppure che possa accettare un'alleanza, formale o di fatto, col segretario del Pdl, Angelino Alfano: è l'uomo che col suo discorso alla Camera ha indotto il premier ad annunciare le dimissioni.
Ma soprattutto, l'ottica di Monti è sempre stata quella di smontare gli schieramenti che per diciotto anni hanno ingessato l'Italia senza darle stabilità; e di ricomporli su basi nuove, cambiando e mescolando le identità e le barriere politiche. Per questo i movimenti centristi, per quanto gracili, in attesa di una leadership convincente e schiacciati dalla mancata riforma elettorale, diventano i suoi interlocutori principali. Sono il terreno naturale e insidioso del tentativo di cambiare la logica di un bipolarismo logoro, che viene riproposto al Paese come conseguenza del fallimento di un sistema dei partiti incapace di qualunque rinnovamento istituzionale.
Il problema è come offrire loro un programma riconoscibile, ben definito, chiaro, senza compromettere il ruolo super partes svolto finora dal presidente del Consiglio. E come continuare a parlare il linguaggio crudo e impopolare della verità, senza essere condizionato dalle urne. Il tifo dei «grandi elettori» europei non basta da solo a legittimare Monti. Ne sottolinea il prestigio, e conferma la credibilità ritrovata dall'Italia a livello internazionale. Ma una candidatura colonizzata dalle istituzioni di Bruxelles potrebbe provocare, se non un rigetto, certamente perplessità e polemiche diffuse nell'opinione pubblica italiana; e a ragione.
Questo non significa ignorare il riferimento ai valori del Partito popolare europeo: tanto più nel momento in cui il Ppe mette in mora il populismo berlusconiano e conferma l'appoggio al governo dei tecnici. Tuttavia, l'impressione è che Monti rifiuti l'identificazione con schieramenti così contrapposti, nella traduzione italiana, da avere reso impossibile il controllo della crisi economica; e minato i presupposti della crescita. Rimane da capire se opterà per una presenza relegata sullo sfondo della competizione; o se permetterà ai sostenitori di chiedere esplicitamente il voto in suo nome. In entrambi i casi, però, bisogna sapere che il risultato sarà intestato a lui: magro o grasso che sia.
E da quel momento i consensi si conteranno, non si peseranno. Anche per questo, qualunque decisione Monti prenda sarà piena di spine. Gli inviti ruvidi a stare alla larga dalle elezioni probabilmente lo spingono a partecipare. Ma deve prescinderne; e sperare che dopo il voto di febbraio, se come sembra si chiederà ancora a Giorgio Napolitano di dare l'incarico per formare il governo, l'Italia trovi un equilibrio: al di là dei numeri di maggioranze che in passato si sono rivelate schiaccianti solo sulla carta.
Massimo Franco

il Fatto 15.12.12
L’eterna anomalia
Il premier incaricato come un esorcista
di Furio Colombo

Si possono dare varie interpretazioni a ciò che è accaduto, dove Monti è stato convocato per esorcizzare Berlusconi e impedirne, persino fisicamente, il passaggio. Ingerenza? Lo ha detto Enrico Mentana nel Tg La 7 scandendo drammaticamente le parole: “Un golpe europeo”. Ora chiamare golpe la corsa di responsabili leader europei per fermare Berlusconi, che in soli due giorni ha detto, negato, insultato, blandito e mentito più ancora che nel passato, sarebbe come chiamare sequestro di persona l’arrivo di una ambulanza. Chiunque abbia sentito alla Camera il discorso di rottura, violento, offensivo e falso, fatto leggere ad Alfano, sa che non è stato un evento politico normale. E non può far finta che la sequenza Berlusconi-Monti-Berlusconi sia una normale alternanza fra persone confrontabili per stabilità e affidamento. É vero, la presa di posizione europea porta un danno improvviso e ingiusto al Pd e a Bersani. Ma su questo punto ci saranno altri spostamenti drammatici di pezzi del gioco. Uno però era essenziale: cercare di salvare un Paese Ue dal gioco demente del “ritorno in campo” dell’autore di tutta la rovina. L’Europa non è ancora una federazione, ma il fatto che venga espressa con forza una comune visione politica è importante. Non si tratta di essere d’accordo su Monti. Non era lui il protagonista, è stato chiamato come esorcista. Quel lavoro, rivelare chi è Berlusconi e quale pericolo sia per l’Italia e per l’Europa, un gesto che tanti Pierluigi Battista in Italia ancora non si azzardano a fare, Monti lo ha fatto bene ed è naturale che l’Europa gli sia grata.

il Fatto 15.12.12
Dopo 14 anni
Scaricato B. Era ora, ma è il baratro
di Barbara Spinelli

La prima cosa che viene in mente è: meglio tardi che mai! Per 14 anni il Partito popolare europeo ha digerito Berlusconi senza patirne. L’ha legittimato, ininterrottamente protetto. Ben venga dunque il ravvedimento; i pochi stravaganti che nel ’98 provarono a ostacolare l’ingresso di Forza Italia nella Dc europea (penso a Karl Lamers, consigliere di Kohl), e che Casini zittì con tanto fervore, sono stati infine ascoltati. Il tardivo ravvedimento ha però un sapore strano. Il Ppe non reclama solo la non candidatura di Berlusconi (di espulsione non si parla). Giunge sino   a indicare il premier che gli italiani dovrebbero eleggere: Monti, e nessun altro.
Non è stato Monti, d’altronde, a dire che i Parlamenti vanno   “educati”? Educhiamo quindi anche i popoli. Già è avvenuto con Atene: Papandreou cadde perché inviso all’Europa, che impose al suo posto il tecnico Papademos. Poi in Grecia si votò, e gli europei non si limitarono a screditare Syriza, partito quasi vincente e per nulla antieuropeo: minacciarono gli elettori di cacciare il paese dall’Ue, se avessero votato sbagliato.
Se siamo a questo punto in Italia, vuol dire che non viviamo affatto “sull’orlo del baratro”: ci stiamo già dentro, e da tempo. È vero: non è l’Unione a parlare questo linguaggio, ma una delle sue forze politiche. Una forza che conta tuttavia, visto che include il presidente della Commissione Barroso e dell’eurogruppo Juncker. L’Europa ha fatto un passo avanti svegliandosi, e due indietro riaddormentandosi.

il Fatto 15.12.12
Marchionne: “Avanti con lui e con il suo programma”

“SONO UN ORGOGLIOSO sostenitore di Monti e, a prescindere dal se si ripresenta, la sua agenda va portata avanti”. L’endorsement per il Professore arriva dall’amministratore delegato di Fiat e Chrysler, Sergio Marchionne, che - durante il suo intervento alla conferenza biennale Consiglio Italia-Usa a New York - sottolinea la necessità di continuare a concentrarsi sull'agenda Monti per preservare la credibilità del paese, elemento che ha “impatto anche sui nostri costi di finanziamento. Lo spread conta”.
Il manager del Lingotto ha anche assicurato che Fiat non procederà ad alcun aumento di capitale per rilevare la quota Chrysler detenuta dal fondo Veba: “L'acquisto della quota Veba può avvenire con altri mezzi", ha precisato Marchionne.

il Fatto 15.12.12
Quel che resta degli archeologi
La protesta oggi a Roma per il riconoscimento di uno status
Ma le sigle sono tante (e divise)
di Manlio Lilli

A influenzare, in un senso o nell’altro, la partecipazione odierna non saranno certamente le condizioni meteorologiche. Non sarà per la pioggia e il freddo che la piazza della Rotonda nella quale stamane si ritroveranno gli archeologi italiani per una manifestazione nazionale, sarà più o meno gremita. Gli archeologi sono abituati a lavorare al gelo dell’inverno e al caldo torrido dell’estate. Procedere allo scavo di una tomba, annotare su un taccuino le informazioni, oppure fare il rilievo di una domus su un foglio di indeformabile arricciato dall’umidità o dilatato dal sole, è la consuetudine.
DAI CANTIERI di emergenza nei centri urbani a quelli in aperta campagna. Da uno scavo all’altro. Spesso, da una città all’altra. Senza l’ambizione di recuperare “il prezioso vaso” come raccontava lo spot televisivo che pubblicizzava un amaro. Gli archeologi, moderni migranti della cultura, procedono in maniera incerta. Come apolidi, senza meta. Senza garanzia alcuna. Né occupazionale, né retributiva. Né, tantomeno, previdenziale. Un indistinto di speranzosi giovani appena laureati e di sfiduciati di mezza età. Sfiniti dalla ricerca, sempre più difficile, del nuovo cantiere. Una schiera della quale è impossibile fornire la consistenza numerica. Non esiste alcun ordine professionale. Sono nate però alcune associazioni di categoria. Non tutti decidono di iscriversi. Così si viaggia tra dati parziali, tra gli “almeno” e gli “addirittura”. Numeri in continua evoluzione. Accresciuti dai nuovi laureati in Lettere o in Beni culturali. Diminuiti da quanti “abbandonano”, trovando il modo di riciclarsi in altro modo.
Alla manifestazione romana, la seconda dopo quella del 2008, parteciperanno professionisti provenienti da ogni parte d’Italia. Arrabbiati per essere ancora ai margini, degli esclusi, nonostante il nostro reclamizzato patrimonio culturale. E specificatamente quello archeologico. Una manifestazione promossa dall’Ana, l’Associazione nazionale archeologi, una delle sigle nelle quali si riconoscono i moderni Schliemann di casa nostra. I quali rivendicano di aver sollecitato, nell’agosto di quello stesso anno, la presentazione di una proposta di legge (“legge Madia”) per il riconoscimento della figura di archeologo e la sua introduzione nel Codice dei Beni culturali e del Paesaggio.
PROPRIO NELL’OTTICA di questo vitale riconoscimento la CIA, la Confederazione italiana archeologi, CNAP, la Confederazione Nazionale archeologi professionisti e FAP, la Federazione archeologi professionisti, da circa un anno, congiuntamente, hanno intrapreso un’altra strada. Giungere alla definizione della figura professionale dell’archeologo e alla individuazione dei correlati livelli EQF, nei quali valorizzare i titoli acquisiti e l’esperienza curriculare. Con il proposito di far rientrare gli archeologi tra i professionisti non organizzati in forme ordinistiche o collegiali, che beneficeranno del ddl 3270 “Disposizioni in materia di professioni non organizzate in ordini o collegi”, riconoscendo il ruolo fondamentale delle associazioni di categoria e la necessità di formulare la “normativa tecnica UNI”. Insomma i maltrattati archeologi italiani sembrano anche divisi. Sulle modalità funzionali al raggiungimento dell’obiettivo. Fondamentale per dare dignità a chi, in moltissimi casi, non ne ha. Nella stagione nella quale l’albero della politica continua a essere scosso dai lamenti di tante parti della società, gli eredi dei grandi archeologi del primo Novecento provano a far sentire la loro voce. Prima, forse, della resa finale. Il che non sarebbe certo un bel segnale per le sorti del Paese.

La Stampa 15.12.12
Il cuore o la vita: il dilemma di Hack
di Ferdinando Camoon

L’ astrofisica Margherita Hack, scienziata conosciuta in tutto il mondo, pone un drammatico dilemma: è meglio vivere a lungo ma male o poco ma bene? Lei fa la seconda scelta. Ha un problema al cuore, è necessario un intervento chirurgico che può avere rischi e conseguenze, e lei rifiuta: «No grazie, preferisco vivere poco ma bene, a casa mia, con mio marito, i miei cani e il mio computer».
È una scelta che, così o in forme simili, si presenta in tante famiglie. Nel caso della Hack c’è un dato in più: la scienziata ha 90 anni, e questa cifra cambia la valutazione sia della vita vissuta che della vita da vivere: a 90 anni il futuro non può più essere molto lungo. La scienziata annuncia la scelta così: «Meglio un giorno da leone che cent’anni da pecora». Come i soldati che, da quelle parti, andavano in prima linea: morire con coraggio o vivere con viltà?
È il problema dell’accettazione della morte. Un’impresa impossibile a chiunque, tranne a quei fortunati che, tirando le somme, trovano che il risultato finale della loro vita è positivo. Ricordo una conversazione con Eugenio Montale: «Noi tutti desideriamo morire… no, non tutti lo desiderano, ma io sì comunque, per ragioni private… desideriamo morire dopo una esperienza perfezionatrice». Prima venga la «perfezione», poi può venire la morte. È il desiderio di Faust, come lo racconta Goethe: vivere fino al momento di esclamare: «Férmati, o attimo, sei bello! ». Quell’attimo vale qualunque prezzo, anche quello, come succede a Faust, di vendere l’anima al diavolo. Il che significa: per un attimo perfetto, la dannazione eterna. Faust crede di trovare l’attimo perfetto nel lavoro, nella trasformazione del mondo, nel tinnir delle vanghe, nel vedere l’umanità all’opera. La «signora delle stelle», come il giornale di Trieste chiama Margherita Hack, ha lo stesso desiderio: vivere lavorando, in contatto col marito, con i suoi otto gatti, col computer, le email e Skype. Questo è vivere. Un’operazione al cuore a 90 anni, la degenza, la non autosufficienza, il bisogno di aiuto per ogni minima necessità, il distacco dall’umanità cioè da noi, tutto questo non è vivere. Oggi alle 17,30 la Signora delle Stelle si collega via Skype con un convegno, e parlerà. Tutti diremo: è viva. Se fosse stesa a letto e non potesse far niente, non potremmo dire altrettanto. Un prolungamento, magari breve, della vita, è vita, mentre un anticipo, magari lungo, della morte, è morte."fercamon@alice.it"

La Stampa 15.12.12
Il Papa: unioni gay, ferita alla pace
Il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata della Pace: una minaccia anche l’aborto e l’eutanasia
di Giacomo Galeazzi

Per Benedetto XVI le nozze gay sono una ferita alla pace. Il Pontefice considera i tentativi di rendere il matrimonio «fra un uomo e una donna equivalente a forme radicalmente diverse di unione, un’offesa contro la verità» e lancia un appello per giustizia sociale e diritti fondamentali, primo fra tutti quello al lavoro.
Insomma il Papa ribadisce a chiare lettere e con toni inequivocabili il no della Chiesa alle nozze tra persone dello stesso sesso e subito esplode la protesta delle associazioni omosex e di quella parte della società civile che non tollera la netta riproposizione dei principi cattolici «non negoziabili».
Oltre a stigmatizzare i danni di un modello di sviluppo selvaggio fondato su profitto e consumo e a chiedere «politiche coraggiose» per dare lavoro a tutti, Benedetto XVI si scaglia anche contro gli attacchi alla vita umana e al luogo del suo concepimento naturale. L’implicito riferimento del Papa alle nozze gay non poteva non scatenare un vespaio di reazioni. Per Paola Concia (Pd), Ratzinger «va contro il messaggio cristiano». Secondo l’Arcigay «arma gli omofobi di ogni Paese». Per Franco Grillini, «va contro la maggioranza dell’opinione pubblica occidentale». Per Paolo Ferrero (Prc), ha pronunciato «un anatema barbarico, incivile».
Nichi Vendola parla di «fuga dal dialogo, dall’ascolto, dal confronto»; Riccardo Nencini (Psi), di «parole da Santa Inquisizione, che minano la pace e i diritti fondamentali dell’uomo». Nessuna replica dal candidato premier del centrosinistra, Pier Luigi Bersani che 4 mesi fa era stato tranchant («Noi le unioni gay le facciamo, gli altri si regolino»). La presa di posizione del Papa non lascia margini di interpretazione. «Via di realizzazione del bene comune e della pace - scrive Benedetto XVI- è anzitutto il rispetto per la vita umana, considerata nella molteplicità dei suoi aspetti, a cominciare dal suo concepimento, nel suo svilupparsi, e sino alla sua fine naturale». Chi sostiene «la liberalizzazione dell’aborto» persegue «una pace illusoria». La «fuga dalle responsabilità», e tanto più «l’uccisione di un essere inerme e innocente», «non potranno mai produrre felicità o pace». «Come si può, infatti - incalza il Papa - pensare di realizzare la pace, lo sviluppo integrale dei popoli o la stessa salvaguardia dell’ambiente, senza che sia tutelato il diritto alla vita dei più deboli, a cominciare dai nascituri? ». Ed inoltre «nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita».
Al punto che Joseph Ratzinger arriva a chiedere, come «importante cooperazione alla pace», che gli ordinamenti riconoscano il diritto alla «obiezione di coscienza» contro le leggi in favore di aborto ed eutanasia.
Il Pontefice punta il dito anche contro «le ideologie del liberismo radicale e della tecnocrazia» che «insinuano il convincimento che la crescita economica sia da conseguire anche a prezzo dell’erosione della funzione sociale dello Stato». Va tenuto presente, invece, che ad esempio il lavoro, oggi diritto tra i più «minacciati», è «un bene fondamentale per la persona, la famiglia, la società», a cui devono corrispondere «coraggiose e nuove politiche del lavoro per tutti». laici».

Repubblica 15.12.12
Parla il direttore del “manifesto” Rangeri. Lascia anche il suo vice
“Il giornale-partito è morto da Parlato grave inimicizia”
di Alessandra Longo

ROMA — «Un atto di grave inimicizia ». Norma Rangeri, direttore del manifesto in crisi, censura, senza complessi anagrafici, l’atteggiamento del fondatore Valentino Parlato che ha deciso di chiamarsi fuori dal giornale. Rangeri-San Sebastiano restituisce le frecce che le arrivano addosso quotidianamente: «Sento un clima da cupio dissolvi, da muoia Sansone con tutti i Filistei, un istinto di morte che è nefasto e nel quale non mi riconosco». Le viene in mente Lucio Magri, il cui suicidio «è stato anche il segno di una sconfitta politica che lui ha assunto su di sé». Evoca con una certa durezza Rossanda: «Ha preferito scrivere di Lucio sul Corriere anziché sul manifesto.
Una cosa che mi ha molto colpito». E ammette le ultime dimissioni, quelle del suo vicedirettore, Angelo Mastrandrea.
Valentino Parlato se ne va rimproverandoti di aver rinunciato al giornale-partito, di aver fatto perdere fisionomia alla sua creatura.
«Capisco che Valentino sia nostalgico dei bei vecchi tempi. Gli ricordo però le rotture durissime di allora. Luigi Pintor si dimise proprio contro l’idea del giornale partito. E io, che considero Pintor mio maestro, sono sulle stesse posizioni. Se identità significa ortodossia rispetto al gruppo dirigente di 40 anni fa e rispetto a quel comunismo che un lettore ventenne nemmeno conosce, io dico no, ho un’altra idea ed esigo un confronto adulto tra posizioni diverse. Non può esserci il manifesto di 40 anni fa che si staccava dal Pci. Non esiste più il Pci e nemmeno il gruppo dirigente che derivava da quella storia. Il mondo è cambiato. Tenendo fermi l’orizzonte di riferimento e la linea antisistema, il manifesto deve avere la massima apertura politica e culturale. È quello che ho cercato di fare con la mia direzione. La linea editoriale c’è ed è diversa da quella che vorrebbe Valentino».
È vero che anche il vicedirettore Angelo Mastrandea si è dimesso?
«Sì, ha anticipato noi tutti... siamo alla chiusura del ciclo di liquidazione coatta».
Come si fa senza Valentino, senza Rossana, senza tutti quei giornalisti che hanno ritirato le firme o addirittura se ne sono andati?
«Nessuno di loro ha proposto una ricetta favolosa e salvifica. Chiedo a chi sta fuori: come intendono combattere per rilanciare il giornale se non sono al giornale? Valentino era una presenza preziosa. Tuttavia se, come dice lui, c’è questa grande differenza di vedute, ognuno si assuma le sue responsabilità. A 15 giorni dalla fine della liquidazione coatta andarsene è un atto di grave inimicizia».
Valentino è stato il vostro ambasciatore.
«Valentino, poveretto, si è dato molto da fare ma non è mai riuscito, frequentando un banchiere e l’altro, a togliere l’impresa dalla massima precarietà, cosa che scontiamo adesso. Siamo andati avanti con una gestione allegra, facendo debiti. Forse si sarebbe potuto evitare, con comportamenti diversi, il fallimento».
Adesso ci sarà una nuova cooperativa e il manifesto avrà un padrone.
«Tra l’essere finanziati da Geronzi, com’è accaduto in passato, o avere qualcuno che compra limpidamente la testata e la affida al collettivo garantendogli piena autonomia non vedo il problema».
Porte aperte per chi vuol tornare?
«Le porte sono state sbattute da altri, da chi, con un certo menefreghismo, ha lasciato il giornale in un momento difficile».

La Stampa 15.12.12
Non bastano leggi e polizia per fermare la follia del Male
La Casa Bianca sa che non sarà una norma sulle armi a fermare le stragi
di Gianni Riotta

«Ho aperto Twitter, dice che la mamma è morta, ma continuo a sperare»: la frase della signora Hassinger, figlia di una delle vittime della strage di Newton in Connecticut, parla di morte nell’era digitale. I bambini cadono uno dopo l’altro nella loro scuola. Una delle scuole belle, ben organizzate, con il campo da baseball e da calcio che il mondo invidia agli yankee del Connecticut, sotto i colpi di un killer, Adam Lanza, che uccide la mamma, maestra, il fratello, lontano in New Jersey, e un convivente, secondo le prime notizie. E le mamme, i fratelli, poi i cronisti si tengono legati alla catena di Facebook, da cui emerge subito il volto del killer - vero o presunto che sia che importa?, basta sia un volto umano, basta ci si possa tranquillizzare che non sia un mostro, un alieno -, di Twitter, dei blog, per capire che succede, quali sono i bambini sommersi, quali i salvati.
Usciti dalle aule, gli scolari superstiti davano interviste alla tv con la freddezza dei veterani, in mezz’ora la loro infanzia, come accade ai coetanei nelle zone di guerra, è perduta, sono usciti di casa innocenti in attesa di Babbo Natale, tornano con il cuore pesante degli adulti.
Il presidente Barack Obama ha pianto in diretta, commentando la notizia, la sua voce s’è rotta, ha asciugato le lacrime: ho visto commossi tanti presidenti americani da Carter in avanti, ho scritto di Reagan e Clinton sul punto di piangere, ma non ricordo il pianto di un presidente in carica, davanti alla nazione. È un pianto di impotenza. L’uomo più potente del pianeta Terra, quello che ai tempi della Guerra Fredda si chiamava «leader del Mondo Libero», piange di dolore e di frustrazione. Sa che non basta una legge contro le armi, che pure la sua base gli chiede, per eliminare la violenza assurda che ormai è diventata stagionale, il «New York Times» informa subito che «è la settima strage più violenta», come fosse la classifica del Campionato della Morte. Nella Scandinavia felice le armi da guerra non sono popolari come in Texas, eppure Breivik ha fatto strage con ferocia che associamo all’alienazione americana.
Obama piange, come tanti cronisti alla scuola della strage, come le mamme che stringono un bambino salvato, come quelle che non celebreranno Natale e Channuca con i figli, come i tanti genitori, in America e nel mondo, che provano a spiegare a casa, «Perché Newtown? ». Il Presidente intellettuale, il Presidente che voleva governare il paese e il pianeta con idee, concetti, teorie, piange perché sa che il «Perché» di Newtown non c’è. Armi in eccesso, certo, perfino lo scrittore liberal Jonathan Franzen, nella sua intervista alla «Stampa» del 29 ottobre, invocava il II Emendamento alla Costituzione come difesa del libero porto d’armi: è un assurdo e Franzen ha torto, l’Emendamento parla di armi ai cittadini «nell’ambito di una ben regolata milizia», non in mano ai matti. Un nuovo Brady Bill contro le armi automatiche serve ma non è panacea. Follia personale del killer Lanza, che guida per miglia da Hoboken, in New Jersey, fino a Newtown in Connecticut, per uccidere dopo il fratello, la mamma maestra e i suoi scolari, forse un amico: certo. Ma leggi strettissime sulle armi, consultori psichiatrici diffusi, «le riforme» che ieri notte da internet tanti invocavano dalla Casa Bianca, basterebbero a evitare che Newtown sia solo una nuova stazione della Via Crucis delle stragi? No: e le lacrime in diretta del presidente Obama testimoniano questa frustrazione, è tra noi una violenza che non sappiamo reprimere con il diritto e la polizia, non sappiamo sradicare con la psichiatria libera che sognavano i medici ribelli Cooper e Basaglia, non riusciamo a isolare con le comunità solidali. I credenti parlano del Maligno, della lotta che oppone il Bene e la Luce al Male e al Buio nella nostra vita e nel nostro destino. I laici propongono leggi e pianificazioni, ma infine avvertono un limite oscuro, drammatico, che la razionalità del diritto non sa oltrepassare e civilizzare: il male.
Alla fine della campagna elettorale che ha vinto non senza difficoltà, Obama piange perché sente che nel nostro mondo post industriale, nell’epoca globale delle emigrazioni, dei nuovi lavori, delle identità digitali, quando il Papa teologo, Benedetto XVI sceglie Twitter per il suo apostolato e gli imam islamici più saggi dalla rete predicano pace, troppi di noi brancolano nell’isolamento, in una pazzia lucida, nella necessità di dare morte, non cercare vita, come dice la Scrittura «preferiscono le tenebre alla luce». Piange il Presidente ancora giovane che ieri sembrava invecchiato, canuto, perché non c’è ordine nel suo paese e nel mondo, e in troppi paesi, in Asia e in Africa, la brutale strage che in America o in Norvegia è ancora eccezione, è vita quotidiana. Piange perché, come tutti noi, sa di vivere in un mondo in cui perfino Twitter, il dolce, benigno, affettuoso Twitter che scandisce di notizie e sorrisi la nostra giornata può ad ogni istante ricordarci che il nostro mondo si spezza, «Ho aperto Twitter, dice che la mamma è morta». Quando la speranza va off line, le lacrime, dei Grandi e degli Umili, sono la sola risposta umana.

Corriere 15.12.12
Gelosia folle per la madre
Perché la follia lo ha spinto a colpire piccoli allievi
Dietro quel gesto estremo una persona all'apparenza normale
di Vittorino Andreoli

Potremmo chiamare questo drammatico episodio la strage di Erode perché, sia pure tra le tante che l'America ha purtroppo visto, questa è la prima che ha come obiettivo centrale i bambini di una scuola elementare.
La motivazione, sulla base dei primi elementi, sembra chiara: molte delle vittime erano gli alunni della madre dell'assassino e quindi le persone che lei come maestra amava. E proprio un conflitto con la madre avrebbe spinto il killer ad ammazzarla (dopo aver già ammazzato altri) ma anche ad eliminare i «suoi» alunni. Potremmo definire la strage un «over killing», un accanimento omicida, che considera una cosa sola la madre e le persone che lei accudiva e amava: eliminando i suoi alunni la si uccide non una ma più volte.
È un gesto folle, forse l'estremo tra i gesti di follia, ma ecco il paradosso: probabilmente il killer non era affatto matto (e fino ad ora non sono stati riferiti segni di patologia mentale). Un paradosso che non stupisce proprio perché oggi, nel tempo presente, si giunge alla follia più estrema partendo dalla normalità. Lo testimonia il caso di Anders Breivik, il killer di Oslo e Utoya, riconosciuto sano di mente. E lo testimonia anche l'analisi retrospettiva degli autori del massacro alla Columbine: anche loro non avevano precedenti psichiatrici.
Sono solo la rabbia, la frustrazione, il senso di inadeguatezza provati in termini acuti a portare un giovane di ventiquattro anni come Adam Lanza a un gesto «folle» dopo una preparazione meticolosa — che gli fa indossare un giubbotto militare, preparare le armi, le munizioni, indossare una maschera e poi presentarsi forse nella scuola proprio con il nome della madre. Un folle vero può uccidere ma non seguendo la razionalità, l'odio che questo caso ancora una volta ci mostra.
C'è poi un punto da sottolineare: sempre di più l'ammazzare è vissuto dal killer come un atto titanico, spetta agli dei dare e togliere la vita. E nel momento della strage il killer non sente certo il dolore ma percepisce una potenza che compensa il suo sentirsi un «nessuno», lo svolgere magari una vita monotona e insignificante.
Di fronte al dolore di queste morti viene infine da pensare al significato di «maturità», poiché questo uomo di ventiquattro anni è probabilmente fermo sul piano dello sviluppo affettivo all'età di un bambino e questo dovrà essere tenuto in considerazione per capire meglio la scelta di ammazzare tanti piccoli. Un «bambino» di ventiquattro anni che però può comperare armi, può vestirsi da Rambo e compiere come Erode una strage al cui solo pensiero anche uno psichiatra non può che inorridire.

Corriere 15.12.12
Quel nemico che vive dentro
la superpotenza vulnerabile di fronte al Nemico Interno
di Aldo Cazzullo

Puoi avere basi militari negli angoli opposti del pianeta, alle Filippine e nel Golfo Persico, in Giappone e in Germania, a Incirlik e a Vicenza; ma non potrai mai controllare il nemico che è in te.
Puoi dotarti delle armi e degli strumenti di controllo più sofisticati, solcare i cieli su aerei senza pilota, sorvegliare il mondo dallo spazio, tenere un piede financo nella tana dell'avversario, a Guantanamo, e riempirla di terroristi catturati in ogni angolo della Terra; ma non potrai guardarti dall'avversario interno, né sterilizzare il germe di follia e autodistruzione che mette radici nel tuo stesso popolo.
L'America si scopre più insicura che mai, in un momento cruciale della sua storia. Il massacro del Connecticut è l'ennesimo, il più cruento, il più crudele di una catena ormai lunga e sempre più serrata. La strage più celebre, quella al liceo di Columbine, è finita al cinema, grazie al film di Michael Moore (Bowling for Columbine). In un cinema era avvenuta l'ultima carneficina, alla prima di Batman, nel luglio scorso: l'incubo che si realizza, un assassino che si fa chiamare Joker. Stavolta l'assassino è entrato in una scuola elementare, ha colpito i più piccoli, gli indifesi. In passato, era un allievo che si accaniva sui suoi coetanei: quest'anno è successo in California, alla Oykos University (sei morti), e in Ohio, nella caffetteria della Chardon High School (tre vittime); negli anni scorsi era accaduto per due volte alla Virginia Tech (34 uccisi). Ieri un giovane di vent'anni ha aperto il fuoco su sua mamma, maestra, e su decine di bambini. Finora, compagni uccisi da altri compagni; oggi l'America, come Crono, il Tempo, arriva a divorare i suoi figli, ad uccidere la propria madre. E non è accaduto in una landa desertificata dal declino postindustriale, o in un ghetto urbano, ma in un istituto modello del Connecticut, l'America delle prime colonie, una terra caratterizzata fin dal '700 dalla libertà e dalla tolleranza.
Lo choc arriva in un momento in cui la storia americana pareva imboccare una direzione nuova. La rielezione di Obama — apparso ieri particolarmente scosso, come presidente e come padre — e la conferma della maggioranza repubblicana al Congresso avevano creato un clima diverso, quasi di solidarietà nazionale. Gli elettori avevano di fatto costretto i due grandi partiti a collaborare. Ora il dolore può cementare questo spirito nuovo. Ma può anche riaprire antiche ferite, rinfocolare scontri tradizionali. La campagna contro la proliferazione delle armi trarrà nuova forza. La questione delle pene — non tanto la pena capitale, quanto la legge in vigore dai tempi di Clinton che prevede l'ergastolo alla terza condanna — tornerà nella discussione pubblica. Ma nessun divieto, nessuna deterrenza, nessuna vigilanza riuscirà a dissipare la paura della violenza e il sentimento di insicurezza che oggi percorre la più grande potenza del pianeta. Perché nessuno può illuminare l'ombra che porta dentro di sé.

Repubblica 15.12.12
Il sacrificio al dio delle armi
di Vittorio Zucconi
qui

Corriere 15.12.12
Folle accoltella ventidue scolari
PECHINO — Un uomo è stato arrestato nella provincia dello Henan (Cina centrale) dopo aver assalito a colpi di coltello gli scolari della scuola elementare Wanquan, nel villaggio di Chenpeng, ferendone ventidue. L'uomo, uno squilibrato, ha anche ferito un passante prima di essere bloccato dalla polizia. L'aggressore ha atteso l'ora dell'inizio delle lezioni e ha cominciato a colpire all'impazzata. Nessuna delle vittime è comunque in pericolo di vita. Ignoti i motivi del folle gesto, ma in tutto il Paese negli ultimi due anni le violenze nei confronti dei minori hanno subito una drammatica impennata, con un bilancio complessivo di oltre 20 morti e 80 feriti. Un'ondata di inspiegabili attacchi, soprattutto contro ragazzini delle scuole medie ed elementari tanto che molte scuole sono controllate a vista da personale di sicurezza.

La Stampa 15.12.12
La Cina, nuova frontiera del business planetario
Tutti pazzi per il vino e Karl Marx
di Ilaria Maria Sala

Sempre più numerosi e agguerriti i turisti cinesi, che secondo gli ultimi calcoli hanno compiuto 82 milioni di viaggi oltrefrontiera nel corso di quest’anno e arriveranno a 200 milioni nel 2020. A gran rapidità, dunque, i turisti cinesi stanno diventando i più numerosi (i primi sono tedeschi e americani, ma potrebbero essere sorpassati dai cinesi già l’anno prossimo) e anche i più spendaccioni. Il viaggiatore cinese medio ha fino a 45 anni, e compie due viaggi l’anno.
Le mete preferite sono l’Asia, in primo luogo Hong Kong, dove i cinesi che vi hanno trascorso almeno una notte sono stati 11,6 milioni. Secondo Dai Bin, presidente dell’Amministrazione nazionale del turismo, un terzo viaggia per acquisti. Sono già divenuti i primi per shopping del lusso: uno studio del gruppo di consulenza McKinsey & Co ha rivelato che i cinesi diventano sempre più impulsivi per gli acquisti di lusso, con il 15% che acquista «senza fermarsi a riflettere» (ma l’impulso, dice McKinsey, è più forte in patria, il che augura bene per tutti i negozi aperti in Cina dai vari marchi internazionali).
In media, i viaggiatori cinesi apprezzano molto le attenzioni dedicate a loro – commessi che parlano cinese, per esempio, e che svelano ai clienti dalla Cina un numero supplementare di prodotti «esclusivi». Fra le loro mete preferite ci sono quelle di carattere storico, e comunista: in Germania e a Londra, per esempio, amano i luoghi legati a Karl Marx, e in Francia quelli legati al periodo francese di Zhou Enlai e di Deng Xiaoping. In genere preferiscono i musei e le città storiche alle spiagge, sono interessati ai viaggi gastronomici e amano la cucina italiana, a patto di avere anche accesso a quella cinese, in particolare per la prima colazione e soprattutto adorano il vino di qualità. In Francia i viaggi nei vigneti rinomati cominciano a parlare mandarino, così come avviene nella valle di Napa in California: un grosso potenziale anche per l’Italia. Ancora nuovi alle esperienze internazionali, i cinesi spesso amano quello che possono collegare al loro Paese (da Marco Polo in poi), ma anche la relativa sicurezza offerta dai parchi a tema e la scarica di adrenalina data dal gioco d’azzardo nei casinò.
Disneyland è una delle mete preferite, ma alcuni imprenditori cinesi stanno costruendo parchi per cinesi ovunque, dalla Nuova Zelanda all’America. Per attirare la loro attenzione, però, non serve una pagina Facebook o un account Twitter, censurati in Cina, quanto un account Weibo, in cinese. Prepararsi dunque a imparare il cinese, e a cucinare zhou, la zuppa di riso con condimenti salati ideale per la colazione.

il Fatto 15.12.12
LA GRECIA: DEMOCRAZIA SOSPESA E TROIKA, LA CURA NON FUNZIONA
IL RIGORE HA PERMESSO DI SBLOCCARE 34 MILIARDI EUROPEI, MA IL PAESE È STREMATO E NON SI RIALZERÀ DIRITTI DEL LAVORO ANNIENTATI, POLITICA IRRILEVANTE
di Stefano Feltri

Se pensate che l'Europa stia condizionando la politica interna italiana, allora dovreste andare ad Atene in questi giorni. “Con il versamento dei 34 miliardi deciso dall'Eurogruppo per noi comincia un nuovo giorno, la dracmofobia è finita”. Antonis Samaras, il primo ministro ostenta un ottimismo obbligato nelle sale ovattate del palazzo del governo, mentre fuori la polizia blocca diversi isolati, davanti al Parlamento c'è la quotidiana manifestazione. La versione ufficiale è che il dramma finanziario è finito: la Grecia non andrà in default, niente bancarotta, niente uscita dall'euro. Il piano imposto dal Fondo monetario internazionale, il buyback, ha funzionato: con 10 miliardi di euro la Grecia ha ricomprato vecchio debito pubblico in circolazione, sostituendo così titoli molto costosi ma trattati a sconto con nuovi a un tasso più basso. L’Eurogruppo ha quindi ottenuto il permesso dal Fondo monetario per sbloccare altri 34 miliardi di prestiti agevolati ad Atene. Che andranno a ricapitalizzare le banche “e sarà risolto il principale problema della Grecia, la liquidità. Da anni siamo un'economia in cui non circolano soldi”, spiega Dimitris Daskalopoulos, presidente della Sev, la confindustria greca. Superata o almeno congelata l'emergenza suprema, quella del default, sarà sempre più difficile giustificare agli occhi dei greci la situazione del Paese. “Siamo diversi dai nostri vicini dei Balcani, noi siamo capaci di fermarci un attimo prima dell'abisso”, dice Alexis Papachelas, il direttore di Kathimerini, quotidiano delle élite, assai scettico sui trionfalismi governativi. “L’inverno sarà il vero test per la tenuta della società greca”, sostiene Papachelas, mentre ad Atene già circola la voce di una possibile crisi di governo a inizio 2013.
   LA POLITICA SVUOTATA

   In Grecia la democrazia è nata un paio di millenni fa e ora lì sta sperimentando una conformazione sconosciuta per la storia locale ed europea. Per la prima volta al potere c'è un governo di coalizione: la destra di Nuova Democrazia di Samaras è il perno, poi ci sono i socialisti del Pasok, dentro la maggioranza ma non esprimono ministri (la loro popolarità è già crollata, visto che erano loro al comando quando la crisi è esplosa, dal 44 al 12 per cento), e la Sinistra democratica di Fotsi Kouvelis che serve soprattutto a fare numero. Un equilibrio precario che si regge su una speranza: non serviranno più misure di rigore. “Sarebbe impossibile per il Parlamento approvare nuovi pacchetti di austerità”, spiega Evangelos Venizelos, il presidente del Pasok, ex ministro delle Finanze. I socialisti sono fuori dall'esecutivo ma, come dice Venizelos, “la Costituzione è stata deformata e quello che ora conta sono soltanto i vertici a tre tra i partiti della maggioranza”. Peccato che anche i partiti non decidano più nulla.

   la lista di riforme richieste in cambio degli aiuti. I funzionari della Troika non parlano neppure off the record, sono dei fantasmi, consapevoli dell'odio dei greci verso di loro, da mesi disertano l'abituale Hotel Grande Bretagne a piazza Syntagma e dormono in periferia. Poi c'è la Task Force Greece, un team di esperti guidato da un tedesco, Horst Reichenbach, che spiega alla Pubblica amministrazione greca come rispettare gli impegni pretesi dalla Troika: 30 persone a Bruxelles, altre 20 ad Atene.

   Dopo quasi tre anni di “aggiustamento”, è tempo dei primi bilanci per questa democrazia sotto tutela. Il rigore, fatto di tagli ai costi (salari pubblici, pensioni, servizi) più che di nuove tasse, ha ridotto il Pil del 21,8 per cento in tre anni. Il default dell'Argentina nel 2011, per fare un paragone, era costato il 19,5. La Grecia ha azzerato il deficit primario (cioè prima di contare gli interessi sul debito) che era il 10,4 per cento del Pil nel 2009, e nel 2013 potrebbe andare in surplus. I conti, quindi migliorano. Ma a leggere un rapporto della società di consulenza McKinsey, ben noto anche al governo di Atene, non pare che l'economia sia pronta a ripartire. Il 97 per cento della crescita del Pil prima della crisi, secondo McKinsey, dipendeva dai consumi pubblici e privati, a loro volta fondati sul debito. E il consumo interno non ripartirà presto, visto che la Troika prevede un aumento di competitività fondato sul taglio del costo del lavoro: -27,5 per cento in tre anni. Ma i prezzi non si riducono, Atene è costosa come Roma. “In Grecia i diritti dei lavoratori non esistono più, i contratti collettivi sono stati aboliti per legge”, si scalda Ioannis Panagopulos, leader del sindacato del settore privato Gsee, “e dopo 36 scioperi generali nessuno può più permettersi di saltare un giorno di paga”. Tutto questo avrebbe dovuto portare investitori stranieri attirati dal basso costo del lavoro. Invece niente. In privato alcuni ministri confidano che per ora si registrano investimenti cinesi nel porto del Pireo e un interesse russo per la privatizzazione delle compagnie energetiche pubbliche. “Nessuno investe in un Paese in cui le tasse cambiano ogni 15 giorni”, è pessimista Rena Dourou, parlamentare e portavoce di Syriza, la sinistra d'opposizione. La disoccupazione è al 24,8 per cento, in continua crescita. Ma non ci sono alternative. Tutti i politici e ministri con cui si parla ad Atene ripetono la stessa formula: “L'aggiustamento è troppo pesante, ma dobbiamo ritrovare competitività, ce la faremo”. Non possono dire altro, non spetta a loro decidere.

Corriere Sette 14.12.12
Lo stupro di 331mila donne
Con l’accusa di violenza si riapre iul caso
Anni 90 della sterilizzazione di massa
di Rocco Cotroneo
qui

Corriere 14.12.12
L'elenco è aggiornato al mese di agosto 2012: 118 suicidi in 8 mesi! La media è di 1 ogni 2 giorni
IL SUICIDIO, FENOMENO SOCIALE DIFFICILE DA INTERPRETARE
risponde Sergio Romano

Questo è l'elenco dei risultati inconfutabilmente eclatanti raggiunti in poco meno di un anno dal governo Monti. Governo in carica grazie al colpo di stato «soft». L'elenco è aggiornato al mese di agosto 2012: 118 suicidi in 8 mesi! La media è di 1 ogni 2 giorni. Le cause son sempre le stesse: banche ed Equitalia. Non si ricorda, in tanti anni di Repubblica, una simile catastrofe. Persino negli anni bui del terrorismo bombarolo non si raggiunsero simili risultati in poco tempo. Allora, per concludere, tutti ad applaudire «l'agenda Monti» (con prefazione di Napolitano): benefattori dello Stato con i cadaveri sulla coscienza!
Roberto Manzoni

Caro Manzoni,
Abbiamo omesso l'elenco, che avrebbe occupato l'intera pagina, ma la sua lettera merita qualche osservazione sui suicidi e sul modo in cui vengono interpretati. Quello a cui la stampa mondiale ha recentemente dedicato maggiore attenzione è di una infermiera d'origine indiana che lavorava da qualche anno nell'ospedale londinese in cui è stata ricoverata Kate Middleton, moglie del principe William e futura madre di un bambino che potrebbe sedere un giorno sul trono d'Inghilterra.
L'infermiera, Jacintha Saldanha di 46 anni, è stata vittima di una burla che gli inglesi definiscono practical joke e noi, con una punta di anticlericalismo, «scherzo da preti». Due annunciatori di una radio australiana hanno telefonato all'ospedale, si sono presentati come la regina d'Inghilterra e il principe Carlo, hanno chiesto di parlare con una persona che potesse dare informazioni sulla salute di Kate. La telefonata è stata ricevuta da Jacintha che ha creduto ai suoi interlocutori e ha trasferito la chiamata a una collega da cui i burloni australiani hanno ricevuto le informazioni desiderate.
Due giorni dopo, Jacintha è stata trovata morta nella sua casa e il mondo della Rete ha emesso la sua sentenza ancor prima degli accertamenti: la morte non poteva che essere un suicidio e i due annunciatori radiofonici australiani ne erano i responsabili. Non è sorprendente. Il suicidio è una tragedia personale, sempre difficilmente interpretabile, ed è l'unico omicidio in cui la vittima sia contemporaneamente l'assassino e il solo testimone capace di spiegarne le vere ragioni. Qualcuno lascia dietro di sé un biglietto, una lettera, un testamento, ma è pressoché impossibile, dopo la morte, valutare e pesare lo stato d'animo della vittima, la somma delle motivazioni possibili, il quid che ha reso insopportabile ciò che altri, nelle stesse condizioni, sarebbero riusciti a vincere e superare. Accade così frequentemente che nella interpretazione del suicidio prevalga il desiderio di attribuirlo al male da cui l'opinione generale si sente maggiormente minacciata: la crisi economica, l'arroganza dei potenti, la crudeltà dell'ambiente in cui il suicida ha maturato i suoi propositi. A quel punto il vero problema non è più l'intenzione della vittima, ma la «verità» condivisa dalla grande massa dell'opinione.
Naturalmente i suicidi rappresentano un importante fenomeno sociale da registrare soprattutto quantitativamente. Sembra che in Italia quelli attribuiti alla crisi economica siano al terzo posto dopo i suicidi dovuti a una malattia e quelli provocati da ragioni affettive. Incidentalmente la percentuale dei suicidi in Germania, dove la situazione economica è alquanto migliore della nostra, sarebbe il doppio di quella italiana.

Corriere 15.12.12
Nella sacra fabbrica dei falsiDal presunto Pietro alla «moglie di Gesù», fra trucchi e apocrifi
di LUCIANO CANFORA

Sono usciti quasi contemporaneamente due libri tra loro molto diversi che trattano — nell'ambito dell'inesauribile tema del «falso» — il medesimo problema: perché si fabbrica un falso. Si tratta del brillante ed efficace saggio di Bart Ehrman, Sotto falso nome (Carocci, pp. 266, 23) e dell'ironico e sottilmente melanconico romanzo di Sergio Valzania, La bolla d'oro (Sellerio, pp. 231, 13). Mentre uscivano questi libri si sgonfiava, risultando non più che un maldestro falso, il cosiddetto papiro (copto) della «moglie di Gesù», la cui gloria è durata poche settimane.
Nella Bolla d'oro, il potente accademico che proclama l'autenticità di un presunto crisobollo di Alessio III Comneno al fine di propiziare l'acquisto della «patacca» da parte di una banca, non esita di fronte al delitto. Per parte sua l'azienda investigativa incaricata di accertare la verità si limita ad ottenere la ritrattazione di costui in cambio del silenzio sull'omicidio. Se il fine del falsario è vagamente comprensibile, molto più chiaro è il fine dell'accademico che si è fatto garante dell'autenticità: denaro e potere. L'omertà tiene in piedi il sistema. Questo il senso della selleriana Bolla d'oro.
Il libro di Bart Ehrman ci porta invece molto indietro nel tempo, ci introduce nell'«officina» dei falsi presenti nelle «sacre scritture» pudicamente definiti apocrifi, o pseudepigrafi quando vengono rifiutati ma difesi a spada tratta la volta che siano entrati nel «canone». Perciò il titolo originale del libro appare più chiaro di quello adottato per la traduzione italiana: «Falsi: Scrivere in nome di Dio; perché gli autori della Bibbia non sono le persone che noi pensiamo che siano». Ehrman affronta con efficacia la questione partendo dalla massiccia attività di «falsari» che connota tutta l'antichità, né trascura la delicata questione dell'intenzionalità e dei fini che tali fabbricazioni si propongono. Quindi porta argomenti storici concreti e non esita a liquidare, con gli strumenti della filologia, l'attribuzione, meramente aprioristica e dommatica, all'apostolo Simone, detto Pietro, delle «Lettere» tramandate sotto il suo nome e entrate saldamente nel «Canone» neotestamentario.
Quale poteva essere l'obiettivo di colui che si faceva passare per «Pietro» e metteva in circolazione lettere scritte da lui? Evidentemente quello di far risalire il più indietro possibile nel tempo le tracce scritte delle origini cristiane. Il fine era dunque apologetico-dommatico e lo strumento era la creazione di testi da far passare come scritti da un uomo che fosse stato direttamente in contatto col protagonista principale (Gesù) ed attivo nella sua cerchia.
Nel 1861 Costantino Simonidis, il grande falsario greco tornato giustamente in auge in questi ultimi anni, il quale — oltre a prediligere Artemidoro ed altri geografi — era anche un esperto teologo, inventò, tra l'altro, un falso papiro contenente brani del Vangelo di Matteo. Abilmente vi mise dentro anche i righi finali, corredati di una data precocissima, vergata dal presunto antico copista. Il fine era sempre lo stesso: veniva così fabbricata la prova dell'esistenza, già a ridosso della morte di Gesù, di quel Vangelo.
Scoppiò uno scandalo quando la falsificazione fu svelata, eppure, ancora qualche anno fa, il teologo Carsten Thiede, nel suo libro «Jesus: Life or Legend» (uscito nel 1990) difendeva l'autenticità del Matteo di Simondis. (Una causa, sia detto in parentesi, più nobile di quella dell'Artemidoro).
Invece, non più che un burlone, o solo un propagandista di Dan Brown, è stato colui che ha creato il recentissimo papiro copto in cui Gesù direbbe: «Mia moglie...». Si può vedere in proposito l'intervista di Karen King al «New York Times» dello scorso 18 settembre, A questo punto però è stato proprio «L'Osservatore romano» a sfoderare le armi della critica e della filologia, la più eversiva delle discipline, per liquidare il maldestro manufatto. La si comprende questa reazione: il canone non si tocca, quantunque e comunque farcito del corso della storia.
Qui la riflessione dovrebbe toccare le importanti sfumature presenti all'interno della galassia cristiana. Tolleranza verso la critica, ovvero chiusura nei confronti di essa, furono i poli della dialettica che attraversò la cristianità nei secoli che vanno dalla prima edizione critica del Nuovo Testamento ad opera di Erasmo da Rotterdam alla condanna oscurantistica del modernismo, da parte di Pio X, all'inizio del XX secolo. Tensioni non dissimili attraversarono il mondo protestante, ma suscitando forse minore clamore. Un mondo a parte, compatto e immobile, fu invece quello della chiesa greco-ortodossa, il cui atteggiamento verso il corpus delle «scritture» resta sostanzialmente pre-critico.
Nella Bolla d'oro, di cui s'è detto in principio, il problema del falso viene sviluppato su due diversi piani. Per un verso c'è la trama affaristico-accademica, tutta «occidentale» e profana. Per l'altro verso c'è la magnifica narrazione di un viaggio per i conventi dell'Athos, da parte del protagonista dilettante detective nel quale l'autore — buon conoscitore dell'Athos — in parte si identifica. Questo viaggio pone il dilettante di fronte ad un ben più massiccio problema di falsi: le impensabili «reliquie» conservate in quei conventi (la mano della Maddalena, la cintura di Maria fatta di peli di cammello e così via). Il timido ma acuto viaggiatore, pur frastornato dalla sua logorroica guida, solleva il problema, di fronte a così prorompente paganesimo cristiano: «Come fate ad essere sicuri della loro autenticità?». E si sente rispondere: «Vedi, il monte Athos va preso nella sua interezza. È l'insieme ad essere autentico, non questa o quella delle sue singole parti. Pensa ad un edificio antico restaurato in occasioni successive, non smette di essere quello che era stato; non ti interessa se ogni pietra ogni mattone sia davvero quello originale!».
Magnifica teoria che — se esportata dalle nostre parti — potrebbe dare rinnovato slancio agli impenitenti «collezionisti che preferiscono mantenere l'incognito» dai cui cassetti ci giungono papiri greci e copti dal contenuto non di rado esilarante. In tal caso ci sarà solo da sperare nella saggezza dei direttori dei Musei.

venerdì 14 dicembre 2012

l’Unità 14.12.12
Bersani: noi democratici garantiremo l’Europa
di Maria Zegarelli


ROMA L’Europa che guarda con preoccupazione all’Italia, al ritorno ma anche no di Silvio Berlusconi chiede a Mario Monti di candidarsi di nuovo alla guida del Paese. Come se oltre il Professore non possa che esserci il Professore. Pier Luigi Bersani non sottovaluta l’allarme attorno al nostro Paese ma non ci sta a che l’immagine che passi sia quella di una politica inaffidabile e arida e di un centrosinistra prigioniero del suo passato e del fantasma dell’Unione. Prima «non c’era il Pd e c’erano dodici partiti» nella coalizione. Oggi è tutta un’altra storia. Per questo convoca una conferenza stampa nella sede della Stampa estera per incontrare i giornalisti di tutto il mondo insieme a Lapo Pistelli.
Quando arrivano le domande sulle differenze che ci sono con Nichi Vendola e Sel, il candidato premier sa bene dove si vuole andare a parare. «Nichi Vendola è il governatore di una Regione», risponde che «è una forza saldamente europeista» seppur con «dei punti di dissenso» e quindi un valido alleato «sul tema ambientale e dei diritti». Ma, soprattutto, il Pd, «prodotto di diverse culture», è un partito oltre il 30%, dunque ognuno tiri le somme.
Dimostrare che esiste un partito, il Pd, forte, «europeista», progressista e impegnato «sulle riforme avviate dal governo Monti». Un partito e una coalizione in grado di vincere le elezioni ed avere una maggioranza «numerica e politica» solida alla Camera e al Senato». Questa è la mission del capo della coalizione. Bersani non crede al quadro politico incerto e confuso la sera delle elezioni di febbraio, è così sicuro che «non ci sarà frammentazione» da azzardare: «Prendete nota di questo pronostico».
È un Bersani deciso, anche duro quando rimanda nel recinto delle politica spettacolo le ultime performance di Berlusconi. «Non vincerà: perderà le elezioni», risponde ad un giornalista che gli chiede se anche lui sarebbe disposto, come l’ex premier, a fare un passo indietro per la presidenza del Consiglio a Monti.
A fare un passo indietro non ci pensa proprio, né crede che Berlusconi ne possa fare molti nei sondaggi: «Sono esterrefatto dalle sue giravolte, cerca di salvarsi mettendosi al centro della scena con il fatto poi che i problemi veri finiscono in diciassettesima pagina. Ma badate, Berlusconi non è una barzelletta». Le sue posizioni, spiega, assumono sempre più toni populisti, antieuropeisti, per questo, annuncia, «noi da oggi non ci occuperemo più di lui, di Berlusconi sì e Berlusconi no. A questo punto gli italiani sono in grado di decidere». Bersani assicura sulla stabilità della coalizione con Sel e Psi, ribadisce l’intenzione, dopo il voto, di parlare ai moderati, alle forze «del centro eurpeiste e costituzionali», certo non può «giurare» sull’esito dell’operazione, ma non sarà certo il Pd a chiudere la porta. Sullo sfondo la possibile scesa in campo dell’attuale premier ed è quello il tasto che più volte viene premuto. Bersani si sbilancia rispetto a qualche giorno fa. Come spiega anche in un’intervista a Die Welt, Monti «dovrebbe tenersi fuori dalla competizione elettorale, ma se decidesse di candidarsi rispetteremo la sua scelta e segnaleremo la nostra volontà di candidarsi». Ieri in conferenza stampa è stato più esplicito: «Se vinco io il primo incontro ufficiale lo faccio con Monti per ragionare assieme perché deve continuare ad avere un ruolo nel nostro Paese». E di sicuro, dicono i collaboratori del premier, se il professore decidesse di scendere in campo, non lo farebbe mai con Pdl e Lega e di certo non contro il Pd.
Se l’Europa teme che possa interrompersi il percorso riformatore, il segretario Pd replica «che rigore e credibilità del governo Monti sono per noi un punto di non ritorno», anzi per quanto lo riguarda si aspetta «in prospettiva un’agenda con più riforme e quando mi è capitato le ho fatte. Non pensiamo di governare venendo meno a dei vincoli o essendo pigri sul cambiamento».
Pone una domanda retorica lui. Ma se ci sono dubbi sul centrosinistra, cosa c’è rispetto all’altra metà del campo, semmai ce ne fosse una? Se non ci fosse il centrosinistra, commenta, in Europa dovrebbero venirlo a cercare. Difende il suo partito, «esperimento inedito» che ormai esperimento non è più, primo partito ovunque, una «delle più grandi forze progressiste europee», fusione «di culture progressiste con una matrice «socialista, una cattolica, una liberale, una ambientale», nuova forma di partito da esportare all’estero superando i vecchi schemi dell’800 e dando vita ad un «netwark» di partiti progressisti, iniziando da una piattaforma comune, quella sovranità «che riguarda il controllo democratico dei grandi processi della finanza ambientali, delle migrazioni». Un partito tanto ostinato nel suo cammino che «testardamente» continua a «rinunciare alle vacanze estive, invernali... di qualsiasi forma, perché la democrazia è una spada che non ha fodero». E allora si fanno gli incontri internazionali e intanto le primarie, perché «il Porcellum non lo volevamo, il centrodestra ha boicottato la riforma elettorale» e quindi i parlamentari il Pd li fa scegliere ai suoi elettori. Se ha convinto la stampa estera lo leggeremo oggi.

l’Unità 14.12.12
La sfida globale dei progressisti
Il leader Pd rilancia la «sfida globale» dei progressisti
Sabato a Roma leader ed esponenti del centrosinistra europei, latino-americani, di Usa, Africa e Asia: è l’offensiva internazionale del Pd
di Umberto De Giovannangeli


PROGRESSISTI EUROPEI, DEMOCRATICI AMERICANI, ESPONENTI DEI PARTITI DI CENTROSINISTRA DELL’INDIA E DEL SUDAMERICA si riuniranno da domani a Roma nella prima «Progressive Alliance Conference», un meeting organizzato dal Partito Democratico per mettere a fuoco una visione e una strategia «globale».
La «sfida globale» dei progressisti passa per Roma. Una sfida all’altezza dei tempi, per una nuova governance mondiale capace di coniugare rigore e crescita, equità sociale e diritti di cittadinanza. E di questa sfida, i Democratici italiani vogliono essere forza propulsiva. Pier Luigi Bersani non ci sta ad essere additato, in vista di una vittoria alle elezioni, come leader di un Pd isolato nella rete di rapporti in Italia e nel mondo. La realtà è ben altra. Opposta. La riprova è nel meeting promosso domani a Roma: la prima «Progressive Alliance Conference» che vedrà la presenza dei principali leader progressisti europei e la partecipazione, puntualizza il responsabile Esteri Lapo Pistelli, di esponenti dei democratici americani e del partito del Congresso indiano che raramente partecipano ad assemblee di questo tipo. Il rapporto con i progressisti, soprattutto quelli europei, è stato costruito nel tempo, in particolare con Francois Hollande e con i socialisti tedeschi. «È necessario costruire un grande fronte dei progressisti per mettere più equità nelle riforme» è la convinzione del candidato premier del centrosinistra. «Alla vigilia di una battaglia elettorale importante saranno in Italia una ventina di leader stranieri per essere al fianco del Pd», rimarca ancora Pistelli.
SFIDA GLOBALE
La giornata sarà organizzata in tre sessioni. Nella prima, si affronteranno «le nuove sfide dell'economia globale, le strategie dei progressistì con l'introduzione di Pascal Lamy, direttore generale dell'Organizzazione mondiale del commercio e interventi, tra gli altri, di Moustapha Ben Jaafar (presidente dell' Assemblea costituente, Tunisia), Massimo D'Alema, (presidente Feps), Ronaldo Llamas (presidente di Akbayan, Filippine), Jutta Urpilainen (leader Sdp, Finlandia), Evangelos Venizelos (leader Pasok, Grecia). Nella seconda sessione, si discute di come promuovere «la crescita economica, favorire l'occupazione e garantire i diritti dei lavoratori». Dopo l'introduzione di Bernadette Segol, segretaria generale della Confederazione europea dei sindacati, intervengono Mikhael Marzuqa Butto, (responsabile Affari esteri del Ppd, Cile), Riccardo Nencini, (leader Psi, Italia), Victor Ponta (primo ministro, Romania), Mohamed Seif Khatib (ex ministro, segretario nazionale Ccm Tanzania), Hans Spekman (segretario generale Pdva, Paesi Bassi), Boris Tadic (ex presidente della Serbia). Nella terza sessione, il tema è lo sviluppo e la lotta alla povertà. Introduce Jose Graziano Da Silva, direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l'agricoltura (Fao). Tra gli interventi Renato Simoes (Partito dei lavoratori, Brasile), Nichi Vendola, (leader Sel, Italia). Nella sessione conclusiva, si dicute del futuro dell'Alleanza Progressista con Alfredo Lazzeretti (segretario generale Ps, Argentina), Harlem Dèsir (leader Ps, Francia), Sigmar Gabriel (leader Spd, Germania), Rita Bahuguna Joshi (senior Party leader, India Congress Party), Peter Shumlin (governatore del Vermont, presidente dell'Associazione dei governatori democratici del Partito Democratico americano) e Pier Luigi Bersani. «La nostra ambizione annota il leader del Pd visto che l’Italia finora ha esportato populismo, è di esportare qualche buona idea sul lato costituzionale e della partecipazione. Dobbiamo superare gli schemi delle forze politiche dell'800 e costruire in Europa un network di partiti progressisti. e possiamo farlo cominciando ad individuare temi di confronto».
Un confronto che per lo spessore e la rappresentatività dei partecipanti racconta di un leader del Pd su cui investono partiti al governo dei Paesi-chiave dagli Usa al Brasile, dall’India alla Francia e alla Germania nella definizione di un punto di vista progressista sul mondo. L’«offensiva internazionale» di Bersani avrà altri sviluppi importanti già nei giorni successivi al meeting di domani. Un momento particolarmente significativo si avrà lunedì, sempre a Roma, quando il leader dei Democratici incontrerà il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, per riprendere il filo della questione israelo-palestinese dopo il voto favorevole dell’Italia all'Onu per il riconoscimento della Palestina come Stato non membro. «Ad Abu Mazen dirò anticipa Bersani che noi abbiamo fatto la nostra parte perché le sue posizioni moderate non fossero umiliate, ora loro devono rafforzare gli sforzi di disponibilità per fare un passo avanti nei negoziati».

l’Unità 14.12.12
Intervista a Matteo Orfini
«Guerra fratricida? Perché mai? Diamo agli elettori il diritto di scegliere
Far slittare la data è impossibile, chi lo chiede non vuole la consultazione»
«Primarie, si metta in gioco tutto il gruppo dirigente»
di M. Ze.


ROMA Durante la segreteria dell’altro giorno era tra i più fervidi sostenitori delle primarie per i parlamentari. Ieri il giovane turco Matteo Orfini ha rilanciato: «Primarie per tutti, a cominciare dalla segreteria nazionale».
Quindi anche lei sarà in pista?
«Perché no? Sono dell’idea che tutto il gruppo dirigente debba mettersi in gioco con coraggio, dal vicesegretario al dirigente locale».
Lei dice “primarie per tutti” ma come si salvaguardano esperienza e competenze? «Nel passato anche recente del Pd la quota nazionale veniva salvaguardata per garantire le competenze e poi di fatta veniva usata per operazioni che non hanno fatto bene al partito: la gestivano i capicorrente. È evidente però che alcuni dei temi posti sono condivisibili. Se ci sono parlamentari che hanno fatto un lavoro straordinario ma oscuro, lontano dai riflettori, e non hanno la forza di candidarsi nel proprio collegio credo che un grande partito come il nostro sia in grado di garantire la loro elezione. I nostri elettori sono intelligenti, sono i primi a volere la competenza».
La parità di genere. Come si garantisce senza “discriminazioni” al contrario? «Ritengo che non ci debba essere il 50% di candidate donne, ma di donne elette. Come si garantisce? Con la doppia preferenza, una doppia lista su cui si decide chi vince, alternando un uomo e una donna. Questo comporterà inevitabilmente che entreranno in lista donne che avranno ricevuto meno voti degli uomini ma è una scelta politica e quindi nessuno può recriminare».
Non teme che le primarie possano trasformarsi in una guerra fraticida? In Parlamento non si discute di altro.
«Che vuol dire guerra fraticida? Quando si tratta di scegliere tra le persone è evidente che non è semplice, ma la competizione è competizione. Sarebbe meglio chiudersi in una stanza e decidere chi candidare? In questo modo saranno i nostri elettori a scegliere».
La rosa dei nomi verrà proposta dai livelli provinciali e regionali. Questo mette a riparo dalle logiche correntizie?
«È evidente e del tutto legittimo che un partito ai suoi diversi livelli proponga dei nomi ed è altrettanto evidente che saranno molti di più rispetto ai posti in lista. Quindi sarà una competizione vera e non una guerra tra correnti».
I renziani, ma non solo loro, chiedono di aprire a tutti le primarie per avvicinare quanti finora hanno guardato altrove compreso il M5S. Lei che ne pensa?
«Mi sembra un argomento irricevibile. Per scegliere i parlamentari di un partito non può partecipare chiunque. I grillini scontenti devono votarci alle elezioni perché si rendono conto che mentre noi facciamo primarie vere il loro leader espelle chi la pensa in modo diverso. Chi votava altri partiti potrà votare il Pd ma alle politiche».
C’è chi chiede uno slittamento dei tempi per presentare le liste e quindi per effettuare le primarie. È una strada percorribile?
«Se si vota il 17 febbraio non si può andare oltre il 29 e 30 dicembre. Mi sembra che sia la richiesta di chi non vuole che si facciano».
Orfini, ma lo chiedono sia Civati che Vassallo, i sostenitori della prima ora delle primarie...
«Evidentemente è così. Basta farsi due conti davanti al calendario».

La Stampa 14.12.12
Pd, è scontro sul “listone bloccato”
Nel partito si litiga sul 30% esentato dalle primarie. Ma il segretario pensa a Monti: chiarisca la sua posizione
di Carlo Bertini


Ora che la corrida delle primarie rischia di lasciare morti e feriti sul campo, nel Pd molti sperano di finire nella quota protetta del «listone bloccato»: 60-80 nomi sui 400 circa che potrebbero essere eletti. Ma proprio questi appetiti e la rivolta sotterranea contro quello che alcuni già hanno ribattezzato il «super-porcellum» delle correnti, potrebbe portare ad una mediazione che metta d’accordo le varie anime in Direzione: infilare nel «listone» i 47 capilista con i nomi più in vista, cioé tutti i big che lo vorranno, e una ventina di nomi della società civile, sotto la voce delle cosiddette «competenze».
Ma non è detto che finisca così, anzi la «riserva protetta» può lievitare fino a un centinaio di nomi per compensare gli equilibri stravolti da questa mossa di Bersani. Uno dei più preoccupati degli effetti di queste primarie organizzate in fretta e furia è il capogruppo Dario Franceschini, che per questo difende il «listone», non ritenendo «scandaloso che venga tutelata la qualità di un gruppo parlamentare con un buon mix di radicamento e competenze». Ma i dubbi su queste primarie sono trasversali. «È una mossa geniale di Bersani che così batte Renzi sul suo terreno», ammette un sostenitore del rottamatore. «Ma così facendo si affida la selezione dei gruppi a criteri di notabilato e di apparato, sperando di costringere Matteo a trattare sulla quota che dovrebbe spettargli... ». A premere per restringere il «listone» sulla linea di primarie «per tutti o per nessuno» sono i «giovani turchi» come Orfini e Fassina: contrastati da diversi segretari regionali di rito bersaniano con l’argomento che «se un partito non si può scegliere da solo neanche i suoi capilista allora si può pure sciogliere... ». Ma l’irritazione per «questa riserva di superprotetti mentre gli altri sono fuori a far la guerra» si coglie anche tra i veltroniani. E tra i nominati del 2008 senza alcun radicamento nelle province si sta diffondendo pure la voglia di gettare la spugna prima di esser battuti e magari umiliati sui territori.
Insomma, la questione sarà risolta lunedì in Direzione e intanto la paura corre sul filo, visto che c’è gente che sarà costretta a fare anche 18 mila telefonate in cinque giorni per corteggiare tutti gli elettori del suo collegio provinciale, dopo aver strappato gli elenchi degli elettori dei gazebo di novembre. E proprio questo terno al lotto che non dà a nessuno la certezza della vittoria, alimenta la polemica sul «listone»: la cui composizione andrebbe però decisa entro giovedì prossimo quando le assemblee provinciali decideranno le rose delle candidature.
In queste ore fioccano appelli su twitter, fervono contatti e incontri al vertice per decidere il da farsi. Per dirne uno, Franco Marini verso l’ora di pranzo varca la soglia dello studio di Dario Franceschini e più tardi non svela le sue intenzioni. «Se chiederò la deroga a ricandidarmi? Ma fino a lunedì c’è tempo», ride l’ex presidente del Senato. Che come la Bindi, Fioroni e altri big dovrebbe cimentarsi nel voto segreto della Direzione sulle varie deroghe ai tre mandati.
Il segretario sta alla finestra senza schierarsi sulle regole e le sue maggiori preoccupazioni vanno ben oltre i recinti del Pd. Per oltre un’ora Bersani si presta alle domande della stampa estera garantendo che con il centrosinistra non si tornerà indietro dal rigore e dalle riforme compreso l’articolo 18. E che ci sarà un ruolo per Monti, «se decidesse di candidarsi, rispetteremo la sua scelta e segnaleremo la nostra volontà di collaborare». Ma anche se la linea del Pd è che il Ppe di fatto ha sfiduciato Berlusconi, l’apparizione di Monti in quel contesto non è passata inosservata. Tanto che gli uomini di Bersani tengono a chiarire che se Monti sceglie di candidarsi come leader di un centro moderato sarà di sicuro un competitor e dopo il voto un interlocutore; se invece fosse alla testa di un nuovo centrodestra sarebbe un antagonista. E sarebbe bene che si facesse chiarezza presto.

il Fatto 14.12.12
Lo scacco del segretario, le primarie secondo Bersani
In quota protetta i capi-corrente, ma non le truppe
Gli organismi provinciali faranno filtro alle candidature
di Wanda Marra


La sera prima della segreteria che ha dato il via ai gazebo per scegliere i parlamentari del Pd, Pier Luigi Bersani era a cena con i volontari del suo comitato per le primarie, quelle nazionali. E ha staccato il telefono. Messaggio chiarissimo ai capi corrente, ai questuanti, a coloro che a vario titolo hanno cercato di influenzarlo. Decide lui, punto e basta. Secondo lo schema già sperimentato nella contesa contro Renzi, che l’ha visto battere lo sfidante, e ridimensionare in un sol colpo tutti i big del partito. Ma l’onda delle primarie non protegge Bersani dalla candidatura di Monti. Ha un bel dire che comunque è certo di vincere: è un avversario ben più temibile di Berlusconi. Ieri, intanto, aprendo il suo giro estero diceva: “Dopo il voto apriremo comunque al centro. Siamo disponibili ad un dialogo con le forze europeiste”. E a Die Welt: “Non vincerà Monti, collaboreremo con lui”. Certo, se non corre con il centrodestra. Una strategia per rassicurare Berlino sul suo tasso di montismo. Ma in questo con l’originale non può competere.
SBARAGLIARE i nemici interni potrebbe non bastare. Intanto, le regole anche per queste primarie le fanno i fidi Stumpo e Migliavacca. Sta a loro trovare la quadra che decide chi davvero può essere candidato e poi in quale posto in lista sarà messo, se vincitore. “Abbiamo vinto una nostra battaglia storica - dice Pippo Civati - ma la data è sbagliata: bastava che il Pd si facesse latore presso il governo della petizione fatta da me e da Vassallo, con la quale si chiedeva che il termine per la presentazione delle liste fosse 30 e non 35 giorni prima del voto, e così avremmo potuto aprire i gazebo il 13 gennaio”. Un’amara vittoria. “Sono stato il primo a chiederle e non mi hanno neanche consultato. Finché non vediamo il regolamento chissà”. Le voci sono inquietanti.
Tanto per cominciare, la riserva di esenti da primarie che sarà gestita da Bersani con i segretari regionali quale percentuale avrà? Si parla dei 46 capilista e pochi altri, ma anche di un 20% degli eletti. Che su 400 seggi tra Camera e Senato (nella migliore delle ipotesi) o 350 (più realistica) in caso di Pd vincitore può essere di 100. “Viva la democrazia: io non mi sono neanche posto il problema se candidarmi o entrare nella riserva”, dice Beppe Fioroni, sicuro dei suoi voti. “Mi candido”, ha assicurato Enrico Letta. La Bindi - che a rigor di Statuto non ha neanche bisogno di deroga - sorride all’idea di poter dimostrare che i voti ce l’ ha. La riserva dovrebbe essere in teoria dedicata a grandi nomi e tecnici. Ma se allargata Bersani comunque imbarcherà una buona serie di big (magari pure con deroga concessa dalla direzione ha chi ha fatto più di tre mandati). Ben bilanciati, comunque, da uomini di sua fiducia. E dunque, dagli stessi Letta, Fioroni e magari Bindi e Franceschini a giovani ormai riconoscibili come Orfini, Fassina e Orlando, a segretari regionali. Per finire a coloro che sono assurti agli onori delle cronache durante la maratona (anche tv) delle primarie, come Alessandra Moretti e Roberto Speranza. “Mi candido? Ancora non lo so, dobbiamo decidere”, dice quest’ultimo. Il consigliere Gotor non risponde: ma in quanto storico e intellettuale lui può aspirare anche a un posto protetto. Nega con un certo rimpianto la direttrice di Youdem, Chiara Geloni e si schernisce con un “io lavoro” il portavoce Stefano Di Traglia. Entrambi erano nella top ten dei nomi in quota segretario. Se nello staff di Bersani si teme la delusione, in Parlamento l’atmosfera è lugubre. “Lo sgomento di molti è palpabile: per la prima volta si trovano a doversi misurare in proprio, invece di star dietro a un gruppo che di certo ti premierà”, fotografa Arturo Parisi. “Queste primarie possono risolversi in una cosa splendida o in un’operazione molto discutibile”, dice. “Mi candido? Boh, vediamo che regole fanno”, dice Piero Martino, entrato in Parlamento in quanto portavoce di Franceschini. Mentre Antonello Giacomelli, anche lui corrente Franceschini: “A Firenze, mica è facile”. Pure i deputati renziani non è che siano poco disorientati. Anche perché Renzi non ha nessuna intenzione di organizzare un suo gruppo. Uno per tutti, Stefano Ceccanti, già veltroniano, già montiano, e soprattutto costituzionalista: “Non lo so, devo valutare con coloro con cui ho iniziato quest’avventura”. Spalvaldo Francesco Boccia: “Io corro, nel mio collegio in Puglia”. Quelli che stanno peggio sono i più legati alla politica politicante della Capitale. Chi ha mantenuto un rapporto con i territori se la cava. Forse. In teoria da Statuto non potranno candidarsi sindaci, presidenti di provincia e di Regione: potrebbe esserci una deroga per quelli in scadenza. E forse potranno correre anche i consiglieri regionali. Gente che i voti ce li ha. In Parlamento ci saranno i capi corrente, difficilmente resteranno le truppe.
E A LIVELLO locale, chi deciderà i candidabili? Una parte saranno scelti attraverso la raccolta delle firme, una parte direttamente dagli organismi provinciali. Che comunque faranno da filtro: magari su 10 che hanno raccolto le firme necessarie, se ne sceglieranno 5. Un bel controllo. I gruppi parlamentari uscenti erano stati nominati da Veltroni segretario. Ora i ruoli di comando sono in quota Bersani: ci sono buone possibilità per il segretario di avere gruppi a lui molto vicini e molto fedeli, con il placet dei gazebo.

il Fatto 14.12.12
Magistrelli: “A casa i funzionari di partito”
di Caterina Perniconi


Lei un lavoro ce l’ha. É un’avvocatessa e nel suo curriculum vanta la difesa dell’attentatore del Papa, Ali Agca. Marina Magistrelli, prodiana doc, da dieci anni è anche senatrice (Ulivo-Margherita-Pd) ma non sopporta i professionisti della politica. “Basta funzionari di partito, non possiamo camparli tutta la vita. Candidiamo solo chi ha un lavoro”.
Magistrelli, dica la verità, vuole fare arrabbiare Bersani?
Io sono arrabbiata. Non ne possiamo più del finto rinnovamento. Matteo Ricci (38 anni, presidente della provincia di Pesaro, ndr) ha detto che si sentiva rabbrividire perchè aveva visto Romano Prodi a una manifestazione a Roma. Ma rabbrividisse davanti allo specchio, lui che non ha mai lavorato un giorno in vita sua.
Non le manda a dire.
Per carità, basta! Non vogliono più deroghe in Parlamento, e poi che si fa? Togliamo “pezzi da 90” e riempiamo i palazzi di polli da batteria?
Scusi ma chi sono i polli?
Questi ragazzi, li ha visti? Tutti uguali, né troppo alti né troppo bassi, camicia bianca, vestito grigio, cravatta rosso-bordò.
Qualche nome?
Non ce l’ho con nessuno in particolare, ce l’ho con tutti.
Renzi, Ricci, Orfini?
Orfini, come gli altri, prima si deve trovare un lavoro, portare a casa lo stipendio, pagare le tasse, vivere la vita vera. Poi, nel caso lo candidiamo.
Se ne approfittano?
Vivono grazie alla “famiglia partito” da quando sono ragazzi, poi cominciano ad avere dei ruoli sul territorio, poi vanno dieci anni in Parlamento. E a 50 non hanno un lavoro a cui tornare. A quel punto il partito deve occuparsi di nuovo di loro e fargli fare il consigliere da qualche parte, sistemarli.
Tutta colpa dei comunisti.
É una tradizione del Pci e Pds ma credo che in passato in alcuni casi avesse senso. Oggi non si possono solo mischiare funzionari di partito a figure simbolo.
Eccola, una stoccata anche a Veltroni.
Il magistrato, lo scrittore, per carità, va bene. Ma servono esperienza e turn-over, che nemmeno so cosa significa ma lo immagino.
Attraversa il corridoio del Senato Tiziano Treu, si salutano.
Lo vede quello? Io gli farei un seggio permanente in Parlamento. Chi si occuperà di lavoro per il Pd se lui va a casa? Dieci piccoli indiani?
Ma ci sarà qualcuno bravo.
Fuori ce ne sono, tra chi non frequenta troppo i sacri palazzi. Un partito che sceglie il leader con le primarie deve avere il coraggio di navigare in mare aperto.
Non resteranno a casa.
Lo so, lo so, almeno la metà saranno funzionari. E con le primarie le cose peggioreranno.
Addirittura?
É concorrenza sleale. Se lei si candida contro un segretario provinciale o regionale, chi vuole che vinca? Diventeranno uguali a quelli che ora cercano di cambiare. Ha avuto più incarichi Matteo Renzi di molti parlamentari.
Ma secondo lei, in quanti si ricordano che lavoro faceva Rosy Bindi prima di fare politica?
Scendeva le scale della Sapienza insieme a Vittorio Bachelet quando l’hanno assassinato. Era la sua assistente. Lei ha lavorato, questi giovani mai.

l’Unità 14.12.12
Ingroia, lettera aperta al candidato premier. Scoppia la polemica


«Caro Pierluigi Bersani, leggo su tutti i giornali, da mesi ormai, la Sua probabile vittoria come premier candidato dal centrosinistra alle prossime elezioni politiche, e non posso sinceramente che augurarglielo ed augurarmelo, specie a fronte del profilarsi all'orizzonte dell'ennesima candidatura di una vecchia e nefasta conoscenza degli italiani, Silvio Berlusconi, artefice del disastro economico-finanziario, politico-istituzionale e etico-morale in cui è precipitato il Paese in questi ultimi anni». Inizia così la lettera aperta del magistrato Antonio Ingroia a Bersani, pubblicata da Micromega. Il magistrato è molto critico sulle esperienze passate del centrosinistra. «Le chiedo scrive tra l’altro -, la maggioranza da Lei guidata vorrà abrogare, tutte, senza esclusione alcuna, le leggi ad personam fino ad oggi approvate?»
L’iniziativa ha suscitato diverse polemiche. Per tutte quella del segretario nazionale del Psi, Riccardo Nencini: «Può un magistrato rivolgersi in quei termini a un cittadino? Esiste ancora la separazione dei poteri tra giudiziario e legislativo? Dov'è finita la deontologia professionale?»

il Fatto 14.12.12
L’appello
Caro Bersani, gireremo pagina?
Dal suo blog “Partigiani della Costituzione” che esce tutti i giovedì su www.micromega.net  , riprendiamo quasi integralmente la lettera aperta di Antonio Ingroia al segretario del Pd.
di Antonio Ingroia


Caro Pier Luigi Bersani, leggo su tutti i giornali, da mesi ormai, la Sua probabile vittoria come premier candidato dal centrosinistra alle prossime, ormai imminenti, elezioni politiche, e non posso sinceramente che augurarglielo e augurarmelo, specie a fronte del profilarsi all'orizzonte dell'ennesima candidatura di una vecchia e nefasta conoscenza degli italiani, Silvio Berlusconi, artefice del disastro economico-finanziario, politico-istituzionale ed etico-morale in cui è precipitato il Paese in questi ultimi anni. Un sisma che ha divorato dall'interno l'economia, ma anche l'anima del Paese.
UN PAESE che rischia di restare per sempre senza anima e senza futuro, futuro che pertanto potrebbe essere fra qualche mese nelle Sue mani. Cosa che, da una parte, mi rasserena per i rischi che pesano sull'altro piatto della bilancia, ma che, dall'altra parte, non mi tranquillizzano del tutto. E sa perché, pur avendo stima della Sua persona e pur essendo certo della Sua buona fede, non mi sento né tranquillo né tranquillizzato? Perché, al contrario di molti italiani, ho esercitato in questi anni di rimozione, il vizio della memoria. Che non è solo un vizio, è anche un gusto. Il gusto della memoria, che ti consente di sentire la storia, di apprezzarla, di farne un'esperienza e una ricchezza. Ebbene, esercitare il gusto della memoria mi consente di sentire anche il retrogusto amaro della delusione. La delusione delle tante occasioni mancate, le tante occasioni che altre coalizioni di governo di centrosinistra hanno perduto negli anni passati, appena giunte alla prova del fuoco. (…)
E QUINDI mi rivolgo a Lei, con l'umiltà, ma anche con l'autorità che mi deriva dal duplice ruolo di cittadino “partigiano della Costituzione” e di magistrato che discende da una generazione di uomini di Stato che hanno dato un contributo, anche di sangue, alla lotta contro i poteri criminali, per la giustizia e l'eguaglianza di tutti gli italiani, e quindi alla crescita della democrazia. È solo in virtù di questo che mi permetto di porLe anche alcune questioni e interrogativi a cui spero vorrà rispondere, non a me, ma agli italiani indecisi ancora se votar-La come futuro premier. (…) Le chiedo, la maggioranza da Lei guidata vorrà abrogare, tutte, senza esclusione alcuna, le leggi ad personam fino a oggi approvate? (…) Nel diritto anglosassone c’è un reato molto grave, l'ostruzione della giustizia, ampiamente praticata, e con successo, nel nostro Paese. Perché non introdurla anche in Italia, con pene altrettanto severe, così ampliando la figura attualmente vigente, ma inadeguata, dell'intralcio alla giustizia? E perché non punire, finalmente, il mercato dei voti fra candidati in campagna elettorale e mafie e lobby illegali di ogni tipo e genere? Cominciando col sanzionare seriamente lo scambio elettorale politico-mafioso, oggi solo apparentemente punito dall'attuale formulazione dell'art. 416-ter del codice penale, che invece è garanzia di impunità? E perché ancora ignorare l'incriminazione dell'autoriciclaggio che consente ai colletti bianchi riciclatori di professione di farla franca? Il nostro Paese [è] dentro una crisi profonda (…) che non può essere curato da un medico dalle ottime cognizioni tecniche ma che, privo di passione per la giustizia e l'eguaglianza, può essere disposto, come l'attuale premier Monti, a salvare una parte dell'organismo lasciando andare in cancrena gli organi ritenuti “meno nobili”, i deboli e i senza diritto che in Italia oggi sono sempre più poveri e meno tutelati.
Bisogna cambiare pagina. E se si vuole la crescita dell'economia bisogna attaccare, alle radici e senza tregua, l'economia dell'illegalità, perché il “sistema Italia” è strangolato da mafie e corruzione, la vera palla al piede, la zavorra che impedisce alla nostra economia di crescere.
CHE RESPINGE gli investitori esteri, che penalizza gli operatori economici puliti, che priva i lavoratori dei loro diritti. Solo se il prossimo governo, caro Bersani, riuscirà davvero a uscire dalla logica della convivenza col sistema politico-economico della illegalità, si potrà imprimere una spinta per la crescita. Premiare l'economia della legalità e confiscare i patrimoni illeciti, tutti e in fretta. I patrimoni della mafia e dei colletti bianchi suoi complici. E le ricchezze dei corrotti.
Restituire il maltolto all'Italia della legalità. Non attraverso belle dichiarazioni di principio, ma attraverso provvedimenti concreti che ripristinino ciò che è stato distrutto negli anni della rottamazione berlusconiana del diritto penale e che costruiscano un diritto propulsivo dei diritti e della crescita economica nella legalità. Anche e non solo attraverso aggiornati strumenti operativi e legislativi dentro nuovi testi unici normativi, antiriciclaggio e antimafia. Insomma, c'è molto da fare e si può fare. Si può cambiare l'Italia.
Si possono creare le premesse per un autentico rinnovo della classe dirigente, recidendone i legami col sistema criminale integrato delle mafie e della corruzione che ha schiavizzato e sfruttato il Paese. Occorre una nuova Liberazione. La liberazione dalle cricche, dalle caste e dalle mafie. Lo potrà e lo vorrà fare davvero la compagine governativa che vuole guidare, caro Bersani, al contrario di quanto non si sia fatto in passato?

il Fatto 14.12.12
Monti ha trovato casa nel centrodestra
Archiviata l’ipotesi terzista Casini-Montezemolo
Proverà a guida un polo ispirato al Ppe
di Stefano Feltri


Mario Monti ancora non ha deciso se e come candidarsi, ma abbandona il suo ruolo super partes e si colloca nel centrodestra. La scelta di partecipare a Bruxelles alla riunione del Partito popolare europeo, la stessa a cui c’erano Silvio Berlusconi e Angela Merkel, segna la fine del profilo “tecnico” del Professore. Qualche mese fa la destra europea si spese, senza grande fortuna, per la rielezione di Nicolas Sarkozy, con Angela Merkel molto criticata per essere andata a Parigi all’inizio della campagna elettorale. Nel documento approvato ieri, prima firmataria la Merkel, auspica che “i leader di centro e di centrodestra trovino il modo di proseguire sulla traccia” del governo tecnico. Tradotto: Mario Monti a palazzo Chigi con una coalizione di centrodestra nel 2013.
Il Professore ha molto più chiaro dei suoi interlocutori europei che non è così semplice riuscirci. Visti i sondaggi su Udc e movimento di Luca Cordero di Montezemolo, Monti sta valutando le alternative: la base elettorale strettamente di centro non è sufficiente a dargli certezze. Difficilmente potrebbe superare il 15 per cento.
E ALLORA c’è un’altra possibilità. Diventare il perno su cui costruire una dialettica democratica normale. Era uno dei punti programmatici del discorso di insediamento del Professore, il 17 novembre 2011: “Noi vorremmo aiutarvi tutti a superare una fase di dibattito, che fa parte naturalmente della vita democratica, molto, molto, accesa”. E il modo sarebbe costruire una “destra europea”, espressione cara a Gianfranco Fini che due giorni fa ha avuto un lungo colloquio con Monti e ieri ha chiamato Wilfried Martens, presidente del Ppe, per ringraziarlo dell’appoggio al Professore. Rinunciare al Quirinale e a quella che i politologi chiamano non partisanship per diventare l’alfiere del duplex Casini-Montezemolo poteva sembrare poco sensato. Ma creare un centrodestra nuovo, europeista e rassicurante, è una sfida all’altezza della percezione che Monti ha della propria missione.
Ma costruire una destra alternativa al Pdl richiede tempi lunghi. Mentre il Professore ha a disposizione una settimana per decidere e un mese per definire l’eventuale lista. E poi c’è Berlusconi. “Ho ricordato al Ppe di aver chiesto a Mario Monti di essere il riferimento per il Pdl nonostante questo crei qualche problema con la Lega”, ha detto il Cavaliere da Bruxelles. Ma questo è l’unico scenario inverosimile: Monti candidato premier di una coalizione da Casini al Pdl, da Montezemolo al Carroccio. Roberto Maroni, segretario leghista, scrive subito su Twitter: “Grande ammucchiata guidata da Monti, quello del record mondiale di tasse? No, grazie”. Anche gli altri sarebbero contrari. L’ipotesi più percorribile è quella di un pezzo del Pdl che si stacca, l’ala dei montiani ispirata dall’ex ministro Franco Frattini (indicato come il regista dell’abbraccio del Ppe a Monti). Questi ex-pidiellini aggregherebbero intorno a Casini e Montezemolo, più altre liste, e tutti indicherebbero Monti come candidato premier (consenziente). Il Professore sta ragionando sulle incognite: chi decide i candidati nelle liste (dentro solo chi ha votato la fiducia)? Che possibilità ci sono di insidiare Pier Luigi Bersani? E se Berlusconi vuole appoggiare davvero la candidatura di Monti? Ieri Monti ha chiarito al Ppe che la ragione delle sue dimissioni è stata proprio la sfiducia del Pdl, decisa da Berlusconi in persona. Per il premier sarebbe difficile, anche se forse necessario, contribuire a portare in Parlamento chi lo ha sfiduciato.
La linea ufficiale di Palazzo Chigi è quella della cautela: “Niente è deciso, non bisogna dare troppi significati alla visita di ieri”. Che, nell’accezione minimalista, è solo il seguito dell’incontro a Fiesole di settembre, quando il premier andò a spiegare agli europarlamentari del Ppe la situazione dell’Italia. Il silenzioso nervosismo del centrosinistra dimostra che l’ingresso di Monti nel centrodestra non è da sottovalutare. “Non è niente di drammatico”, commenta il presidente (socialista) dell’Europarlamento Martin Schulz.
Il segretario del Pd Bersani ribadisce che anche il suo partito è europeista e che “c’è, in qualsiasi situazione numerica, la disponibilità e l’intenzione dei progressisti ad aprire un dialogo e un confronto con un centro europeista”. Come dire: anche io vi posso dare garanzie. Dopo la benedizione della Chiesa, con il cardinal Angelo Bagnasco in un’intervista, e perfino (pare) del Papa, anche quasi tutta Europa più il Fondo monetario internazionale sostengono Monti. “Se non se la sente, dovrebbe fermarsi ora, ma se tiene al suo Paese, è il momento di uscire a combattere”, scrive l’Economist, che titola: “Corri, Monti, corri”. Ma Monti è indeciso. Come quel 26 per cento di elettori che secondo Swg non hanno idea di chi votare. Sarebbero più che sufficienti a confermare Monti a Palazzo Chigi. Sommati al centrodestra.

il Fatto 14.12.12
Perché è stata l’Europa a salvarci dall’Italia di B.
di Bruno Tinti


NELL’OTTOBRE 2011 (eravamo senza soldi per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici) scrissi in questa rubrica che l’unica salvezza per l’Italia poteva arrivare dall’Europa. E non sotto forma di soldi (nessuno può permettersi di buttarli dalla finestra) ma di delegittimazione del responsabile della catastrofe. Ci aiutarono: Merkel e Sarkozy risero platealmente di B. e tutti lo ignorarono; ogni cosa si decideva senza di noi. Così arrivò Monti e l’Italia cominciò ad arrampicarsi su dal precipizio.
Lo spavento che a quell’epoca si prese l’Europa (non l’Italia, purtroppo: qui stentiamo ancora a capire che le riforme richiedono pagamenti in anticipo e che il prodotto verrà consegnato molto più tardi) non è dimenticato; così oggi tutti stanno spiegando, con una franchezza insolita nei rapporti internazionali, che il ritorno di B. sarebbe una tragedia. Merkel, Schäuble, Barro-so, il New York Times hanno eretto una barriera diplomatica, che – naturalmente – è il massimo che possono fare. E Martens, il presidente del Ppe (di cui fa parte il Pdl) ha invitato Monti (che appartiene a nessun partito) a partecipare al loro congresso. C’è anche B. ; ma Monti è stato invitato, lui c’è andato.
Questa levata di scudi contro B. non è dovuta al fatto che sia un cattivo barzellettiere; e nemmeno al fatto che vada volentieri a puttane; e nemmeno al fatto che è un delinquente, essendo stato prescritto 7 volte (colpevole ma prescrizione del reato). E – soprattutto – nemmeno al fatto che questa gente e queste istituzioni siano anti italiane; lo fossero, non avrebbero osannato Monti. È dovuta al fatto che hanno paura.
B. ha detto che lo spread è un imbroglio: che ci frega se il denaro costa di meno in Germania? B. ha detto che le riforme Monti sono state tutte sbagliate: troppe tasse, l’Imu, le pensioni... Dunque – tutti hanno supposto – lui le abolirà. Ma nulla ha detto quanto alla fonte delle risorse che saranno necessarie.
DOVE PRENDERÀ i soldi per pagare gli interessi dei titoli di Stato (dovuti soprattutto a investitori stranieri)? Dove quelli per pagare l’energia che noi non produciamo? Dove quelli per pagare gli stipendi? Dove etc? Non l’ha detto, appunto. E così l’hanno capito tutti benissimo. Uscirà dall’euro e si metterà a stampare lire. Ovviamente agli altri Stati, del misero destino dei cittadini italiani che andranno a far la spesa con la valigia piena di soldi subito dopo aver ricevuto la paga (perché il giorno dopo il suo potere d’acquisto sarà diventato la metà) e che non avranno di che scaldarsi in inverno perché il petrolio non si paga con le lire – servono euro o dollari gliene importa poi tanto. Ma gli importa moltissimo delle ricadute di tutto ciò sull’euro e sull’esistenza stessa della Comunità: come le tessere del domino, dopo l’Italia, a turno, tutti gli altri finirebbero nel guano. E diventare come molti Stati sudamericani, a una persona di media intelligenza, sembra una tragedia.

Repubblica 14.12.12
Bersani: “Ora serve chiarezza, anche da Mario”
di Umberto Rosso

qui


l’Unità 14.12.12
La crisi allarga la disuguaglianza
Metà ricchezza in mano al 10%
Bankitalia: in crescita il divario tra ricchi e poveri
Dal 2007 il valore delle attività è sceso in termini reali del 5,8%
Le differenze sociali continuano a crescere
di Luigina Venturelli


MILANO Il primo rilievo di Bankitalia era ampiamente atteso e, con una crisi economica che da quattro anni falcidia i redditi delle famiglie e si è ormai fatta strutturale, era inevitabile: la ricchezza degli italiani è diminuita in termini reali del 5,8% tornando ai valori degli anni Novanta. Il dato davvero drammatico contenuto nel bollettino statistico di Palazzo Koch è però un altro, e dice della lunga assenza in Italia di politiche economiche e sociali degne di un paese civile: la metà più povera delle famiglie italiane detiene il 9,4% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco possiede ben il 45,9%. Se la ricchezza diminuisce, dunque, la disuguaglianza nella
sua distribuzione cresce. E l’Italia rischia di ritornare ai valori di decenni fa, quando le lotte sindacali e lo sviluppo economico della seconda metà del Novecento ancora non avevano corretto, almeno in parte, la storica disparità tra ricchi e poveri.
BENI IN CALO
In termini assoluti, dunque, la recessione attuale ha visto assottigliarsi il valore della casa, per chi ne possiede una, e dei risparmi di una vita: il calo in termini reali è stato del 5,8% dal 2007, quando la ricchezza aveva raggiunto il suo valore massimo. Dal 2010 al 2011 la contrazione è stata del 3,4%, mentre nel primo semestre dell’anno in corso, secondo stime preliminari, la flessione in termini nominali è stata dello 0,5%. «Il livello di ricchezza per famiglia a prezzi costanti è simile a quello della fine degli anni Novanta», si legge nel dossier della Banca d’Italia.
Alla fine del 2011 l’ammontare complessivo netto era pari a circa 8.619 miliardi di euro, corrispondenti a poco più di 140mila euro pro capite e 350mila euro in media per famiglia. Le attività reali, in gran parte abitazioni, rappresentavano il 62,8% del totale, mentre quelle finanziarie il 37,2%, tra le quali si segnalano i titoli pubblici, che nel portafogli degli italiani sono aumentati nel giro di un anno di 30 miliardi di euro. Le passività finanziarie, ovvero i debiti, costituivano invece il 9,5% delle attività complessive ed erano pari a 900 miliardi di euro. Nel dettaglio, nel corso del 2011, l’aumento delle attività reali (più 1,3%, con una ricchezza abitativa detenuta dalle famiglie italiane stimata in poco più di 5mila miliardi di euro) è stato più che compensato da una diminuzione delle attività finanziarie (meno 3,4%) e da un aumento delle passività (meno 2,1%).
Ci sono poi tre famiglie su cento con i conti completamente in rosso. Il 2,8% dei nuclei italiani ha infatti una ricchezza netta negativa e si trova ad affrontare difficoltà finanziarie che non sono compensate neanche dal possesso dell’abitazione.
SEMPRE PIÙ INGIUSTIZIA
Non stupisce, dunque, che la ricerca di Bankitalia sottolinei come la distribuzione della ricchezza sia caratterizzata «da un elevato grado di concentrazione». La metà più povera delle famiglie italiane, infatti, detiene il 9,4% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco ha il 45,9%. E l’indice che misura il grado di disuguaglianza risulta in continuo aumento: «Molte famiglie detengono livelli modesti o nulli di ricchezza; all’opposto, poche famiglie dispongono di una ricchezza elevata». Una situazione che ha spinto l’associazione di consumatori Codacons a chiedere al governo di pensare ad un «contributo straordinario di solidarietà da questo 10% di famiglie italiane ricche» e proporre di introdurre, una tantum, un’aliquota Irpef superiore al 43% per chi dichiara più di 90mila euro.
E poco consola, davanti a questa presa d’atto della realtà, il confronto internazionale. Rispetto a molti paesi stranieri, le famiglie italiane dispongono secondo Palazzo Koch di «un’elevata ricchezza netta», pari nel 2010 a 8 volte il reddito disponibile, contro l’8,2 del Regno Unito, l’8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone, il 5,5 del Canada e il 5,3 degli Stati Uniti. Le famiglie italiane risultano anche «relativamente poco indebitate», con un ammontare dei debiti pari al 71% del reddito disponibile (in Francia e in Germania è del 100%, negli Usa e in Giappone del 125%, e nel Regno Unito del 165%).

l’Unità 14.12.12
Scoppola, il cattolico che volle il Pd
Alla Fondazione Sturzo storici e studiosi si confrontano sull’opera di un credente critico
e fedele, progressista tra i padri democratici
di Bruno Gravagnuolo


«È la laicità della Chiesa a garantire la sua libertà, non solo la laicità dello Stato». Se si volesse racchiudere in un piccolo paradigma sintetico la lezione di Pietro Scoppola, grande storico cattolico scomparso nel 2007, lo si potrebbe fare con le sue stesse parole, citate da Alberto Melloni, tra i protagonisti del Convegno in corso sullo studioso alla Fondazione Sturzo di Roma in Via delle Coppelle. E dedicato a Democrazia e cultura religiosa («Ricordando Pietro Scoppola») Stasera le conclusioni, con interventi di Giuseppe Vacca, Agostino Giovagnoli, Lorenzo Biondi, Giuseppe Tognon, Francesco Bonini e nel pomeriggio Umberto Gentiloni, Carlo Felice Casula ed Emma Fattorini. Mentre ieri, con Melloni, sono intervenuti Andrea Riccardi, Fulvio De Giorgi,Francesco Traniello Niccolò Lipari, Renato Moro, Giuseppe Ignesti, Camillo Brezzi, Iginio Ariemma e Stefano Trinchese.
A parte Vacca e Ariemma, il meglio della storiografia cattolica, ad onorare una figura atipica e controcorrente: cattolico critico e fedele. Progressista e avverso all’unità politica dei cattolici. Ma anche e lo ribadiva lui stesso all’«unità della sinistra», come possibile nocciolo fondante del partito democratico, da lui a lungo voluto e presagito. Un «cattolico a modo suo», come disse Paolo VI nel difenderlo dalla gerarchia ecclesiale, dopo che Scoppola nel 1974 si era schierato per il no al referendum sul divorzio: «Scoppola lasciatelo stare, è un cattolico a modo suo». E la definizione torna in un libro autobiografico, uno degli ultimi, in cui Scoppola si racconta prima di andarsene.
Bene, che cosa è venuto fuori da un confronto così ricco e plurale, di cui è impossibile riassumere ogni voce? Questo, a noi è parso, e proprio nel segno della citazione iniziale: Scoppola, al suo modo finissimo e tollerante attento alle distinzioni laicheoltre che studioso, era una sorta di riformatore religioso, prima che politico. Nel senso che da una riforma del «religioso» e del sentimento religioso, si aspettava una «renovatio» anche politica. Che significa? Nient’altro che questo: la coscienza religiosa, ripensata come sfera della libertà personale e dell’incontro solidale tra persone nel solco della fede doveva rinnovare la politica. Fecondare la libertà di tutti, la partecipazione e l’eguaglianza, e generare, per questa via, coesione sociale. Ma tutto ciò non era un astratto filosofema ideologico. Era il filo conduttore di tutti i campi storiografici e delle battaglie politiche che Scoppola tra i fondatori «valoriali» del Pd ha arato in prima persona.
Vediamone alcuni. Il «modernismo» cattolico ad esempio, quello di Ernesto Bonaiuti, pensatore scomunicato e avversato da destra e da sinistra. Occasione mancata quella ripulsa, di una «secolarizzazione salutare». Che avrebbe potuto per Scoppola rilanciare la Chiesa nel 900, invece di vederla fintamente egemone, e di fatto subalterna al fascismo (un giudizio coraggioso, espresso in Chiesa e fascismo del 1961). E poi dopo il fascismo, ecco De Gasperi. Erede di un popolarismo di centro che guarda a sinistra, quello del primo Don Sturzo. De Gasperi è oggetto privilegiato in Scoppola, per la sua «energia costituente». Per la capacità di tenere unita l’Italia dopo le macerie e nella guerra fredda, malgrado le asprezze. Dunque l’idea di un interclassismo progressista e inclusivo. Che dialoga, si «contamina» e incontra l’altro, senza steccati. Un De Gasperi corretto da Aldo Moro. Infine il Pd, che Scoppola sognò e volle. Come partito «post-tradizionale», non strutturato ma anti-populista. Con i cattolici a far da lievito. Oggi il Pd c’è. E benché forse non sia in tutto e per tutto come lo sognava, certo Scoppola ne sarebbe contento. E lo animerebbe da cattolico, «a modo suo».

il Fatto 14.12.12
Il Vaticano ammette: abusi sui minori. Ma nessuno paga
A tre anni dalle denunce, prime verità sull’Istituto religioso Provolo di Verona
di Paolo Tessadri


Il Vaticano ora ammette: ci furono abusi sessuali su molti bambini sordi. A commetterli furono preti pedofili, in un numero ancora imprecisato.
Il più grande scandalo di pedofilia nella Chiesa in Italia imbocca la strada della verità. La sentenza di condanna della Santa Sede arriva a tre anni dalla denuncia di 67 ex allievi dell’Istituto religioso Provolo di Verona contro 25 religiosi appartenenti alla Congregazione della Compagnia di Maria per l'educazione dei sordomuti, che dipende direttamente dalla Santa Sede. Quindici vittime ebbero anche il coraggio di testimoniare gli abusi in video e alcuni li raccontarono senza coprirsi il viso. Rivelazioni sconvolgenti, in cui descrivevano mezzo secolo di sevizie, perfino sotto l’altare, in confessionale, nei luoghi più sacri della fede.
CON LA LETTERA, inoltrata attraverso la Curia di Verona, e firmata da monsignor Giampietro Mazzoni, vicario giudiziale, ossia il magistrato del Tribunale ecclesiastico della diocesi, il Vaticano riconosce la verità delle accuse dei sordi e chiede esplicitamente scusa e perdono. E informa dei provvedimenti adottati dalla Congregazione per la dottrina della fede nei confronti dei religiosi. Punizioni, per voce delle vittime sordomute, un po’ troppo blande e contraddittorie. “Il sentimento che prevale di fronte a questa triste vicenda – si legge nella missiva – è innanzitutto di profonda solidarietà nei confronti delle vittime di abuso, che anche in ragione della loro particolare condizione, hanno portato dentro di sé lunghi anni in silenzio una sofferenza difficilmente descrivibile. A loro e alle loro famiglie va una umile richiesta di perdono. La vicenda suscita nello stesso tempo una grande amarezza: alcuni di coloro che erano chiamati a custodire e proteggere dei ragazzi particolarmente provati dalla vita ne hanno vergognosamente abusato”.
SCONFESSA di fatto il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti, che in un primo momento si era scagliato contro i sordomuti, parlando di menzogne e anche chi aveva retto il suo gioco, vale a dire il giornale dei vescovi, Avvenire, che aveva alimentato ulteriori dubbi sulla vicenda. Zen-ti aveva parlato di “cattiverie, strumentalizzazioni e ricatto di carattere economico”, costretto poi a fare retromarcia in seguito alla presentazione di una querela da parte dei sordomuti. Ciononostante, “non ha impedito, pur con lentezze forse eccessive, che la Chiesa prendesse in seria considerazione le accuse”, scrive oggi il Vaticano. Implicitamente si fa riferimento a un cambio di rotta di Papa Ratzinger rispetto al suo predecessore sui tempi degli abusi nella Chiesa: “Un segno inequivocabile dell’impegno della Chiesa nel fare piena luce su questa vicenda”.
Si fa poi riferimento ai provvedimenti della Santa Sede. Si citano i vari religiosi coinvolti e identificati, circa una decina, ad altri non identificati, o deceduti oppure dimessisi nel corso degli anni. Per nessun sacerdote in vita è stato previsto la riduzione allo stato laicale. A don E. P., “vista l’età è stato sanzionato dalla Santa Sede con precetto penale che comporta una vita dedita alla preghiera e alla penitenza e il divieto di qualsiasi contatto con minori e l’assidua sorveglianza da parte dei responsabili individuati dal vescovo di Verona”. A un altro, quello che davanti alle telecamere aveva sconfessato ogni abuso, “ha formulato una formale ammonizione canonica che comporta una stretta vigilanza da parte dei responsabili sui suoi comportamenti”. Per il Vaticano pare sia solo una prima tranche d’indagine di una più ampia che riguarda altri ecclesiastici, per i quali la “Santa Sede ha richiesto documentazione, tuttora in esame presso la Congregazione per la dottrina della fede”. Per alcuni, come per L. G., “ricoverato in una casa di riposo. Nessun provvedimento stante la sua condizione, è stato preso nei suoi confronti”.
Riguardo alle accuse di un sordomuto si scrive che sono “affette da incoerenza e contraddizione e non sono attendibili”. Poco dopo, però, si legge che “ciò non toglie che lui abbia subito degli abusi”. Perché si mette in dubbio la testimonianza di questo sordomuto, che oggi ha circa 60 anni? Perché ha coinvolto negli abusi l’ex vescovo di Verona, Giuseppe Carraro, per il quale è in atto la beatificazione. E anche in quel caso il vescovo di Verona si era scagliato duramente contro le vittime: “La beatificazione non sarà bloccata” aveva fatto trapelare da un monsignore della sua diocesi veronese. Tuttavia la Congregazione della fede “aveva disposto di sospendere il processo di beatificazione” in un primo momento e adesso il via libera.
MA OLTRE alla prima vittima, ce n’è una seconda che accusa il vescovo Carraro. Un uomo di 62 anni, sordomuto, che ha frequentato l’istituto Provolo di Verona e di Chievo dal 1956 al 1968. Ecco la sua testimonianza. “All’età di 15 anni, durante le lezioni, don D. S. mi fece uscire dall’aula e mi accompagnò in infermeria, che si trovava all’ultimo piano dell’istituto, dicendomi che doveva medicarmi. Mi fece entrare e se ne andò e in infermeria c’era il vescovo Giuseppe Carraro, lo stesso che mi aveva cresimato. Mi offrì delle caramelle e mi accarezzò, poi mi disse di togliermi i pantaloni e le mutande. Mi toccò i genitali e mi masturbò. La stessa cosa si è ripetuta a distanza di qualche mese. In istituto ho avuto rapporti sessuali anche con i miei compagni. Uno di questi, P.D., mi disse che don D. S. lo aveva portato in infermeria dove c’era il vescovo Carraro, che lo aveva sodomizzato. Mi ha detto che gli aveva fatto molto male… P. D. ha avuto due incontri, mi aveva detto, con Carraro. Lui è stato violentato anche da preti del Provolo, prima che se ne andasse nel 1966. Ha avuto molti problemi, era depresso e alcolizzato. È stato trovato impiccato a casa sua nel gennaio del 1991”.

il Fatto 14.12.12
Atti illeciti per il monsignore di Cl
Don Inzoli, fondatore del Banco alimentare, dimesso dallo stato clericale
di Alessandro Corlazzoli


Sarà un Natale difficile per il movimento di Comunione e Liberazione: monsignor Mauro Inzoli, fondatore del Banco Alimentare, la grande rete legata a Cl che coinvolge migliaia di volontari in tutt'Italia, è stato dimesso dallo stato clericale. Il don, noto a Crema per il suo legame con il presidente della Regione, Roberto Formigoni, abituato a girare in Mercedes, ha sconvolto la Chiesa lombarda e in particolare la diocesi di Crema dove fino al 3 ottobre 2010 è stato parroco della Santissima Trinità.
LA NOTIZIA è stata data dal Vescovo di Crema, Oscar Cantoni, ai preti della diocesi convocati martedi. "In data 9 dicembre 2012 il Vescovo di Crema ha emesso un decreto, su mandato della Congregazione per la Dottrina della Fede (Santa Sede), che dispone la dimissione dallo stato clericale del reverendo Monsignor Mauro Inzoli al termine di un procedimento canonico a norma del canone 1720 del Codice di Diritto Canonico. La pena è sospesa in attesa del secondo grado di giudizio. Ogni altra informazione in merito al provvedimento di cui sopra è riservata all’autorità della Congregazione per la Dottrina della Fede". Sette righe di comunicato stampa ma nessuna altra notizia sull'accusa che resta un giallo. Lunedì il monsignore ha pranzato in una nota trattoria cremasca con alcuni famigliari. Da allora è impossibile raggiungerlo al cellulare. Massimo riserbo anche in curia: negli ambienti clericali si parla di atti illeciti nella sfera privata del sacerdote, estranei a questione di carattere economico. Ciò che è certo è che le accuse rivolte al monsignore, assiduo frequentatore del meeting di Cl, potrebbero essere pesanti visto che provvedimenti di questo genere vengono assunti dalla Congregazione per la dottrina della fede solo in casi di “gravi comportamenti”.
A OGGI non vi è alcuna denuncia all'autorità giudiziaria anche perché il dicastero della curia romana non ha alcun obbligo di informare la magistratura italiana delle vicende di cui si occupa. Monsignor Inzoli ora si starebbe preparando ad affrontare il secondo grado di giudizio dell'ex Sant'Uffizio. Intanto la città di Crema è sotto choc: pochi dei politici di centrodestra a lui vicini hanno aperto bocca pubblicamente per prendere posizione.
Originario di Torlino Vimercati, 62enne, insegnate al seminario vescovile di Crema, rettore dell'istituto Santa Dorotea di Napoli. Parroco della Santissima Trinità per diacessete anni, nell’ottobre 2010 ha abbandonato improvvisamente i suoi fedeli senza dare spiegazioni. Per due anni su di lui è calata la nebbia: in molti hanno avanzato ipotesi diverse su dove fosse finito don Mauro. Sulla rete si trovano video del monsignore. Il 19 novembre 2011 presentò a Marsala, alla presenza del sindaco, la giornata nazionale della colletta alimentare. Ha guidato il liceo linguistico “Shakespeare”.

il Fatto 14.12.12
Il Messaggero di Sant’Antonio e gli spot sospetti
L’Ordine dei giornalisti sospende i direttori padre Sartorio e Segafredo
di Carlo Tecce


Il Messaggero di Sant'Antonio è un giornale molto rigoroso e molto diffuso: un milione e mezzo di copie in Italia, un milione in Europa e Sud America, l'abbonamento costa dai 23 ai 27 euro, e il direttore si chiama padre Ugo Sartorio.
La rivista cattolica più importante del continente: pagine patinate, ben curate, di ampio respiro. Troppo ampio. L'Ordine dei giornalisti del Veneto ha sospeso padre Sartorio (4 mesi) e Luciano Segafreddo (6), responsabile edizione esteri, per aver spacciato dei servizi pubblicitari a pagamento per articoli redazionali e d'ispirazione, appunto, al Santo di Padova: “È nel travaglio del dopo concilio, mentre l'Italia è agitata dalla contestazione giovanile, che i religiosi del Messaggero - si legge sul sito - ritengono giunto il momento di sviluppare appieno le grandi possibilità del bollettino con la sua capillare presenza nel paese (...) tenendo però come punto di riferimento il messaggio evangelico, la dottrina perenne della chiesa, nelle formulazioni che il magistero via via indica, come appunto aveva sempre fatto sant'Antonio”.
E chissà se i fedeli avranno affrontato il dubbio sfogliando gli speciali regionali, puntuali come vespri, maestosi come novene: Abruzzo, la regione premia i suoi figli; Veneto informa, tra folclore e tradizione; Piemonte, lo spazzacamino nel mirino.
E ANCORA, ogni mese: Marche, lavoro e dignità; Veneto informa, più forza ai giovani; Veneto, un impegno che si rinnova; Molise, una terra da premiare; Umbria, sempre più protagonisti. Quando i temi deragliano per incensare con il turibolo le amministrazioni locali, e forse il lettore, seppur fedele, cova qualche sospetto, c'è sempre una scoperta che li soddisfa tutti, i sospetti. Come la documentata sviolinata a quelle “aziende amiche della famiglia” o come l'imprescindibile intervista al banchiere che gestisce la Camera di commercio italiana a Londra.
E in questo florilegio di pezzi bizzarri e un po' fuori luogo, non citiamo i racconti appassionati e appassionanti di Carmen Lasorella, che potrebbero oscurare gli interventi del cardinale Angelo Scola.
L'Ordine accusa i due giornalisti di aver confuso la pubblicità con l'informazione. A Segafreddo contestano di aver tenuto contatti con enti pubblici e privati per concludere accordi che prevedevano uno scambio gravissimo per la categoria: chi pagava aveva in mano un paio di pagine, scriveva (non firmava) e si guadagnava la propaganda camuffandola per notizia. Siccome qualche cognome andava sacrificato, Segafreddo ha pensato bene di utilizzare lo pseudonimo di un redattore assente per malattia: un peccato di omissione, almeno.
La testata farà ricorso. Addirittura padre Sartorio si fa difendere dall'ufficio stampa del Messaggero. La seconda notizia è che il Messaggero ha un ufficio stampa: “I superiori gli hanno riconfermato la fiducia e il loro sostegno”. Beh, ora al padre tocca il perdono più delicato. Quello dei 3,5 milioni di lettori che garantiscono centinaia di milioni di euro l’anno. Forse non bastavano.
Non c’è limite al giornalismo creativo, un po’ reclame e un po’ parrocchia.

La Stampa 14.12.12
Fra Cina e Santa Sede torna il gelo
Perché Pechino ha deciso di destituire un vescovo?
di Andrea Tornielli


Nuove tensioni tra Vaticano e Cina: il Consiglio dei vescovi cinesi e dell’Associazione patriottica – organismi filogovernativi non riconosciuti dalla Santa Sede – hanno deciso di destituire il vescovo ausiliare di Shangai Taddeo Ma Daquin, designato solo qualche mese fa. La sua nomina, avvenuta con il consenso di Roma e di Pechino, era stata considerata come il possibile inizio di una nuova stagione nei rapporti tra Cina e Vaticano: il giovane prelato è infatti una figura che per la sua storia personale avrebbe portato a sanare le divisioni tra la comunità clandestina e quella ufficiale. Al termine della sua ordinazione episcopale, avvenuta nella cattedrale di Xujiahui lo scorso 7 luglio, il neovescovo aveva fatto una dichiarazione pubblica affermando di voler lasciare l’Associazione patriottica, nella quale ricopriva delle cariche. Le sue parole avevano provocato la reazione delle autorità politiche cinesi che dopo averlo prelevato lo avevano rinchiuso nel seminario di Sheshan, imponendogli un regime di isolamento e impedendogli di esercitare il suo ministero. La situazione era apparsa subito difficile, anche perché durante la cerimonia il vescovo non si era limitato a dimettersi dalle cariche ricoperte nell’Associazione patriottica, ma aveva dichiarato di volerla abbandonare. Una dichiarazione in linea con le più recenti direttive vaticane. E così si è aperta l’ennesima crisi. La Santa Sede considera del tutto illegittima la destituzione, dato che soltanto il Papa può destituire un vescovo. La prima reazione da Roma è stata quella del segretario della congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, il salesiano Savio Hon Tai-fai, il quale ha rivolto un appello alle autorità di Pechino: «Vorrei proprio che la nuova leadership della Repubblica popolare cinese portasse una nuova visione della politica nel rapporto fra Chiesa e Stato, senza usare più i vecchi metodi del passato, che non fanno del bene a nessuno». Alla luce di questi ultimi eventi è sempre più urgente cercare di attuare la proposta avanzata alcune settimane fa dal cardinale Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli: l’istituzione di una commissione bilaterale tra la Santa Sede e le autorità di Pechino.

l’Unità 14.12.12
Editoria, salvare un settore decisivo per la democrazia
di Fulvio Fammoni

Presidente Fondazione Di Vittorio

GLI ULTIMI DUE O.D.G. PARLAMENTARI ACCOLTI DAL GOVERNO SULL’EDITORIA SONO RELATIVI ALLA LEGGE DI STABILITÀ E ALL’ASTA PER I MULTIPLEX. La crisi è decisa, ma il governo è in carica e ha il dovere di onorare gli impegni assunti. L’asta per i multiplex probabilmente non si farà, un anno di tempo non è bastato ai tecnici e in una
fase così drammatica è davvero un fatto grave.
La legge di stabilità incorporerà molti altri provvedimenti (si parla anche del mille proroghe) e diventa probabilmente lo strumento possibile per intervenire. La delega di riforma del settore a questo punto potrà essere adottata solo dal prossimo governo, ma si deve lasciargli questa possibilità: cosa si riordinerà se il settore non ci
sarà più?
È dunque responsabilità dell’esecutivo non provoca-
re: un duro colpo al pluralismo dell’informazione, la chiusura di decine di testate ed un ulteriore dramma occupazionale.
Il sostegno pubblico all’editoria fu deciso in attuazione dell’art.21 della Costituzione e ha via via rappresentato una parziale risposta alle evidenti distorsioni e mancata regolamentazione di un mercato dominato dal conflitto d’interesse. In Italia circa il 60% delle risorse pubblicitarie sono raccolte dalle tv e i 5 maggiori gruppi editoriali introitano più del 60% delle risorse in editoria.
La legge Gasparri è un incentivo ai monopoli. Invece di intervenire su questi aspetti che riguardano e tutelano i più forti, si è sempre preferito infierire sui più deboli. Questa è la vera anomalia in Europa, non il finanziamento pubblico che invece esiste in tutti gli altri Paesi o in forma diretta dagli stati o tramite le forme istituzionali decentrate. Non ce lo chiede dunque l’Europa di tagliare, questa volta non vale nemmeno come scusa.
Si tratta di decine di giornali con orientamenti e opinioni molto diverse, di un patrimonio dell’informazione e della democrazia italiana che va verso una drastica riduzione. Si è spesso associato i tagli alle distorsioni nell’uso dei finanziamenti ma adesso con gli ultimi interventi si è fatta piazza pulita dei problemi passati.
Deve essere inoltre chiaro che intervenire a sostegno dell’editoria non è assistenza ma un investimento. Il settore fattura circa 500 milioni di euro e a questo va aggiunta la carta, la distribuzione, le edicole, le industrie grafiche etc.
Se 4000 persone perderanno il lavoro, oltre al dramma per quei lavoratori, ci sarà meno contribuzione, meno consumi e invece aumento dei costi con il ricorso agli ammortizzatori sociali. Via via che le attività diminuiranno lo stato incasserà meno Iva, Irpef, Irap etc. Una proiezione a 2/3 anni dimostrerebbe che si perderà e spenderà di più di quanto si afferma di risparmiare.
C’è un clima verso l’informazione preoccupante e che dobbiamo aiutare a cambiare, non difendendo tutto, ma difendendo il lavoro, lo sviluppo e la libertà di informazione, che sono irrinunciabili. La cura non sta nella riduzione delle fonti ma nel pluralismo e nell’abbattimento dei monopoli. Questo chiediamo noi al governo.

il Fatto 14.12.12
Valentino Parlato
“Io, i banchieri e il manifesto. Che non mi piace più”
di Antonello Caporale


Valentino Parlato è stato l'unico comunista al mondo che ha fatto scucire soldi ai capitalisti. L’unico intellettuale che si è così impadronito delle virtù (e dei vizi) dei banchieri da averli saputo tenere a bada. Senza Valentino Parlato il manifesto avrebbe smesso di respirare da tempo. Lui ha bussato a ogni porta e sempre un filo d’aria ha trovato: uno sconto cambiali, un prestito a sessanta giorni, un anticipo sui finanziamenti. Da Cuccia a Geronzi, tutti hanno firmato assegni o consigliato di farlo. Però, ed è anche questo un unicum nel mondo dell'informazione, il quotidiano non ha mai avuto bisogno di parlar bene dei suoi finanziatori, mai succube, mai con la bocca cucita. Ora Parlato prende cappello e lascia la ciurma. È l'ultimo dei grandi vecchi che abbandona il vascello già corsaro, oggi invece preda di onde così alte che prefigurano (e noi invece scongiuriamo che così non sia) l’inabissamento. ParlatoinsiemeaRossanaRossanda e Luigi Pintor ha anche rappresentato per la cultura della sinistra e per intere generazioni di intellettuali l'enunciazione quotidiana di una possibilità diversa dal comunismo sovietico: la rivoluzione dei rapporti tra le classi sociali non come sogno ma come pratica sperimentabile, sostenibile, moderna. Quarant'anni a sognare e a provare l'alternativa, e poi la resa. “Non abbandono la battaglia, non ho smesso di combattere e non ho voglia di desistere. Penso che ci sia un campo aperto per questo giornale, ma non in questo modo, con questa direzione, seguendo questa linea editoriale”.
È colpa di Norma Rangeri dunque? È responsabilità della direttrice se il comunismo non è una parola più comprensibile né spendibile?
Un giornale deve avere un'identità e custodirla. La colpa di Rangeri è di averne smarrito la missione, resa opaca l'identità. Cosa è oggi il manifesto?
Il 31 dicembre rischia di chiudere. E la sua defezione non aiuta.
La mia e quella di tanti altri. La Rangeri non ha tenuto conto dei miei consigli e io ne prendo atto. Ritengo di formalizzare un dissenso, certo non mi sogno neanche di ritirarmi a vita privata. Ci sono con le mie forze di ottantaduenne. Ma sono qua e non mi eclisso.
Il giornale ha bisogno di finanziatori, e tu eri un impeccabile cercatore di funghi. Cercavi e trovavi.
Certo, ho sempre avuto un buon rapporto con i banchieri. Il mio lavoro all'interno del giornale era anche questo, e io lo portavo avanti. E devo dire di più: molti banchieri mi stanno davvero simpatici.
Ci credo, con tutti i quattrini che gli hai spillato!
Leggo continuamente che la finanza è il male assoluto di questa società. Ma il predominio della finanza è l'effetto della crisi della politica, della mancanza di governo. La finanza non è buona né cattiva. Contenerla, governarla, gestirne lo sviluppo, sovraintendere agli affari è compito della politica. Ma lo Stato, il potere del Palazzo e la sua rispettabilità, la sua reputazione sono andati smarriti. E allora l'effetto ottico è quel che si diceva...
Con quali banchieri hai legato di più, ti sei capito di più?
Con Enrico Cuccia, anzitutto.
Soldi anche da lui?
No, soldi niente. Ma buoni consigli, ottime entrature e una sintonia che non è mai finita.
Cuccia era un lettore del manifesto?
Nooo. Lo annusava, lo sfogliava ma niente più. Però comprendeva il suo ruolo e in qualche modo lo difendeva. E poi aveva radici siciliane come le mie e spesso mi diceva: tra greci e greci non si vende roba cattiva. Un motto antico, il senso di una condivisione, l'appartenenza a un mondo in qualche modo comune.
Da Geronzi invece parecchi assegni.
Parecchi no. Era sincero, schietto con me. Diceva sì ed era sì. Molte volte diceva no, e purtroppo era no.
Un tipo glaciale, freddo, calcolatore.
Non direi. Ho conservato buoni rapporti con lui e ancora due sere fa ero alla presentazione del suo libro. La stima è rimasta.
Sembra invece che l'amicizia sia finita con i suoi compagni
Il disaccordo è sulla linea editoriale. E io sono l'ultimo della lista che prende posizione. Forse avrei dovuto farlo prima. Ma ripeto: il mio no è a questo giornale, a come oggi interpreta questo mondo. Non è un addio al manifesto.

Repubblica 14.12.12
Manifesto, l’addio di Parlato
intervista di Alessandra Longo

qui

l’Unità 14.12.12
Scuola, se cala la capacità di comprendere la lettura
Benedetto Vertecchi


ANCORA UNA VOLTA, LA PUBBLICAZIONE DEI DATI DI UN’IMPORTANTE RICERCA COMPARATIVA SUI RISULTATI CONSEGUITI IN VARI SISTEMI SCOLASTICI è stata l’occasione per esprimere giudizi da bar dello sport. In questo caso, si tratta di una rilevazione promossa dall’International Association for the Evaluation of Educational Assessment (Iea), volta ad accertare il livello di capacità di comprensione della lettura raggiunto dagli allievi che frequentano il quarto anno del ciclo dell’istruzione primaria (Pirls, acronimo di Programme for International Reading Literacy Study). In Italia, tale definizione individua i bambini di nove anni. Rilevazioni precedenti avevano consentito di esprimere un giudizio ampiamente positivo sulla capacità di comprensione raggiunta nelle scuole elementari italiane. L’Italia si collocava, infatti, nelle prime posizioni della graduatoria. Ora è emersa una situazione diversa: le nostre scuole, pur continuando a collocarsi al di sopra della media dei Paesi partecipanti, sono scivolate di molte posizioni nella classifica internazionale. Sono subito emerse due linee interpretative. Da un lato si è sostenuto che la perdita è stata modesta, e comunque ci si trova di fronte ad un quadro che è ancora fondamentalmente positivo. Ma, dal lato opposto, si è fatto osservare che i risultati meno positivi sono stati ottenuti in un periodo di tempo in cui le scuole elementari hanno subito gli effetti devastanti delle modifiche degli ordinamenti (mi rifiuto di chiamarle riforme) introdotte quando responsabili del ministero dell’Istruzione erano prima Letizia Moratti e, dopo un paio d’anni di intervallo, Mariastella Gelmini. Anche se questa seconda posizione ha molto di vero, considerato il basso profilo degli interventi menzionati, credo che in un caso e nell’altro ci si limiti a rilevare sintomi marginali di un male molto maggiore, che non ha origine nel sistema scolastico, anche se per molti versi è proprio l’attività educativa quella che deve subirne le conseguenze più gravi.
Infatti, sullo sviluppo della comprensione della lettura influiscono sia le decisioni didattiche assunte all’interno della scuola, sia le esperienze che gli allievi compiono al suo esterno. Da troppo tempo le scelte politiche hanno lasciato che si affermasse a livello sociale una cultura che contrasta sostanzialmente con quella che fa da supporto all’educazione scolastica. Bambini e ragazzi sono sottoposti a condizionamenti il cui intento principale è di accrescerne la propensione al consumo e, per ottenere che questo intento si realizzi, si ricorre a messaggi di facile acquisizione, che non richiedono un particolare impegno per essere compresi, che comportano un numero limitato di parole e sono privi di asperità grammaticali e sintattiche. Sul piano della motivazione, i messaggi sono resi accattivanti per le prospettive di successo che evocano o a cui alludono. I messaggi sono proposti da personaggi sorridenti, nei quali tutto mostra che abbiano raggiunto i risultati che fanno intravedere e che si traducono, nell’immediato, nell’acquisizione di oggetti del desiderio e, in prospettiva, di quantità indefinite di denaro.
Tutti sono felici, ma nessuno spiega perché lo siano. È possibile che non ci si ponga mai il problema delle conseguenze che può avere sulla popolazione l’assenza di una politica per l’educazione e la cultura sottratta alle rozze logiche speculative che ormai sembrano padrone incontrastate del campo? Eppure, si tratta di un problema non solo italiano, per il quale altrove sono già state elaborate soluzioni, che consistono nell’accrescere il tempo di funzionamento delle scuole per contrastare l’effetto dei condizionamenti esterni. Bambini e ragazzi trascorrono a scuola gran parte del loro tempo, svolgendo attività il cui scopo è di bilanciare l’incidenza negativa delle esperienze che si compiono nella vita quotidiana.
Negli anni passati si sono avute continue riprove di quanto poco le rilevazioni a fini valutativi siano considerate il punto di partenza per riflettere sui mutamenti in atto nella cultura e nella società, e per assumere le decisioni capaci di contribuire e orientare i cambiamenti attraverso l’educazione. C’è bisogno di affermare interpretazioni meno anguste della valutazione del sistema scolastico: non basta rilevare che i dati non soddisfano, ma si devono cercare le ragioni delle difficoltà che le scuole incontrano nello svolgimento del loro compito. La ricerca valutativa non può esaurirsi in rilevazioni impegnative (come sono quelle che coinvolgono tutti gli allievi), dalle quali provengono solo modeste indicazioni su ciò che non funziona e nessuna indicazione sul perché. Occorre esaminare l’evoluzione del linguaggio, delle strutture argomentative, dei repertori sapienziali, degli apprendimenti impliciti e via elencando. E non ci si può limitare ad un esame dall’interno delle scuole, ma si deve considerare in che modo sulla loro attività si esercitino i condizionamenti dall’esterno.

l’Unità 14.12.12
Immigrati, basta retate e sgomberi
di Filippo Miraglia

Responsabile immigrazione Arci

IL 13 DICEMBRE DEL 2011 VENIVANO UCCISI NEL CENTRO DI FIRENZE MODOU SAMB E MOR DIOP. ALTRI 3 CITTADINI SENEGALESI rimanevano feriti, uno di loro in modo così grave da ricavarne un’invalidità permanente. La loro unica colpa tentare di sopravvivere, africani in un paese che non era il loro, facendo i venditori ambulanti. Motivo sufficiente per armare la mano di Gianluca Casseri, un simpatizzante di Casa Pound.
Nei giorni successivi ci fu una reazione ampia e unitaria. Una grande manifestazione nel capoluogo toscano e tante, tantissime iniziative contro il razzismo. A un anno di distanza, la città di Firenze, la Toscana democratica e antirazzista, le organizzazioni del mondo dell’immigrazione, in primo luogo la comunità senegalese, sono state protagoniste di una riflessione collettiva sulle cause di quella tragica vicenda e di che azioni intraprendere per evitare che possa ripetersi.
Per chi come noi considera la lotta al razzismo un impegno prioritario, quel che succede in questi giorni è importante ma non basta.
L’Italia è stata il Paese delle leggi razziali e l’antisemitismo non è mai scomparso dai riferimenti culturali di una area politica che è ancora molto diffusa, soprattutto tra i giovani. La politica e la stampa si sono occupate poco di questo negli anni del governo Berlusconi, quando veniva dilatato strumentalmente un rischio sicurezza legato in particolare alla presenza dei migranti.
Nell’ultimo anno questo tema si è attenuato e oggi gli italiani attribuiscono il loro senso di precarietà alla crisi che continua a mordere e a impoverire, non a propagandistiche «invasioni» di stranieri. Tuttavia il sentimento di intolleranza e fastidio nei confronti degli immigrati e delle minoranze non è affatto scomparso.
Costruito per lunghi anni attraverso campagne di stampa «bipartisan» (qualcuno ricorderà la tragica vicenda della signora Reggiani, uccisa a Roma il 30 ottobre del 2007, che diede il via a una campagna di diffamazione e criminalizzazione dei rumeni e, più in generale, degli stranieri, a cui in pochi reagirono) e alimentato da scelte legislative, delibere o ordinanze di tante amministrazioni locali, il razzismo ha consolidato le sue radici nella nostra società fino a diventare elemento identitario di singoli e comunità. Oggi la retorica discriminatoria nei confronti delle minoranze e degli stranieri ha perso mordente, ma non è difficile prevedere che basterebbe poco per rianimarla, per risvegliare il mostro che dorme se venisse ritenuto funzionale agli interessi di questa o quella parte politica. Per sradicare il razzismo latente, o quello che in maniera esplicita si manifesta periodicamente con la violenza del linguaggio e dell’azione, serve una grande operazione culturale che si sostanzi in politiche, iniziative e atti pubblici che vadano nel senso opposto a quello che ha caratterizzato in questi anni la nostra società.
Per rendere davvero omaggio ai due senegalesi uccisi un anno fa, bisognerebbe chiudere la stagione delle retate contro gli ambulanti, nelle città e nelle spiagge, come se si trattasse di pericolosi criminali; bisognerebbe smetterla con gli sgomberi dei campi rom che obbligano intere famiglie a spostarsi in continuazione da un posto all’altro. Servirebbero azioni di riparazione sociale e culturale, che restituiscano dignità e protagonismo alle tante vittime di una persecuzione che non ha giustificazioni. Applichiamoli finalmente quei principi di uguaglianza e solidarietà che fanno della nostra Costituzione una delle più avanzate del mondo.

Repubblica 14.12.12
Gunter Grass: “I populisti sfidano l’idea di Europa, basta tagli o la rabbia spazzerà via tutti”
intervista di Andrea Tarquini

qui

il Fatto 14.12.12
Cacciabombardieri
Aerei F-35, anche il Canada rinuncia “Cari e inadeguati”
Olanda, Australia e Inghilterra tentennano
Solo l’Italia va spedita
di Daniele Martini


Per gli F-35 il Canada ci ripensa, l’Italia invece procede come un treno. Si fa sempre più frastagliata la compagine dei paesi interessati al progetto per la costruzione dei cacciabombardieri più costosi di tutta la storia dell’aviazione. Prima di tuffarsi in via definitiva nell’operazione l’Australia, per esempio, vuole riflettere bene e sta prendendo tempo avendo spostato la data definitiva del sì o del no al 2015. L’Olanda che insieme all’Italia dovrebbe partecipare all’assemblaggio del velivolo si trova in una curiosa posizione in cui non è né pesce né carne: il Parlamento ha votato a favore dell’abbandono, ma il governo stenta a tradurre la scelta in decisioni definitive. In Gran Bretagna tentennano perché non riescono a decidersi su quale versione del velivolo puntare, sulla A tradizionale, B a decollo verticale o C per le portaerei. Tra l’una e l’altra versione ci sono differenze notevoli non solo di prestazioni, ma di costi. Il governo canadese ha deciso di uscire per il momento dalla partita dopo mesi e mesi di polemiche e dibattiti lasciandosi aperta la possibilità sia di un’ulteriore retromarcia sia di un cambio totale di orientamento puntando su un altro tipo di aereo. I concorrenti dell’F-35 prodotto dalla Lockheed Martin non mancano di certo, dall’F-18 di nuova generazione della Boeing al Rafale della francese Dassault al Typhoon Eurofighter di un consorzio di imprese europee di cui fa parte anche Alenia della Finmeccanica. La scelta canadese è avvenuta considerando i prezzi del velivolo ritenuti troppo cari e sulla base delle performance valutate inferiori alle attese. Sulla decisione hanno influito in particolare due rapporti, uno della Corte dei conti e l’altro della società di analisi Kpmg. In entrambi gli studi venivano contestate le cifre di costo ufficiali e soprattutto quelle relative alla manutenzione. In Italia, invece, l’adesione governativa al progetto resta salda nonostante cresca l’opposizione ad esso a diversi livelli. Secondo quanto riportato dal sito Altreconomia il nostro paese avrebbe già concluso i passaggi preliminari per l’acquisto di 3 velivoli e ne avrebbe opzionati altri 4. La legge di riforma della Difesa potrebbe modificare in extremis questo orientamento perché sposta dalle stanze del ministero alle aule parlamentari la decisione sull’acquisto dei sistemi d’arma. Ma non è ancora chiaro se questo positivo cambiamento valga anche per i programmi in itinere come gli F-35 o solo per i progetti futuri.

il Fatto 14.12.12
Orwell a Mosca: Putin “piccolo padre” dei russi
Il presidente ridisegna la società:
le famiglie con 3 figli, solo buone notizie sui media e il modello della Grande Madre Russia
di Alessio Altichieri


Prosegue la segregazione della Russia dietro un muro di superbo nazionalismo. “Sono inaccettabili interferenze nella nostra politica interna”, ha detto Vladimir Putin, il presidente, parlando a mille politici riuniti nella grande Sala di San Giorgio, al Cremlino, nell’annuale discorso sullo stato della nazione. A chi allude? “Chi riceve soldi dall’estero per il suo lavoro politico e serve interessi stranieri, non può essere un politico in Russia”, ha sentenziato. Gli esponenti dell’opposizione, che magari ricevono sostegno da fuori per la difesa dei diritti civili, sono avvisati: la manifestazione prevista per domani davanti alla sede dell’ex-Kgb, sarà etichettata come una manovra di agenti occidentali.
POI, QUANDO sarà isolata, ci penserà lui a forgiarne il pensiero. È fresca la proposta di un deputato di Giusta Russia, il partito di Putin, di limitare al 30% lo spazio per le cattive notizie sui giornali: tutto il resto dev’essere dipinto di rosa. L’idea non stupisce e l’oscuro proponente, Oleg Mikheev, somiglia ai carneadi belusconiani – tipo Paniz – che uscivano dall’anonimato per presentare, spontaneamente s’intende, un bella legge per il capo, ignaro di tutto. E non stupisce perché l’insofferenza per le cattive notizie, cioè le notizie tout court, è d’ogni dittatore: Carlo Emilio Gadda, con sarcastico livore, fece censurare l’orrendo delitto di via Merulana a un titoletto microscopico sul Messaggero, perché il Duce, voleva così. Putin è solo un emulo. Astuto, ovvio. Nel discorso ha infilato anche l’elogio della democrazia, “l’unica scelta politica della Russia”. E ha annunciato il divieto per i dipendenti statali di avere conti all’estero: “Che fiducia si può avere in un funzionario o in un politico che esalta la grandezza della Russia e poi piazza i soldi all’estero? Lo Stato non può diventare una casta separata”.
LA PLATEA, che pagherebbe di tasca propria se la proposta diventasse realtà (si calcola che escano dalla Russia circa 80 miliardi di dollari l’anno), è scattata in un applauso alla brillante idea del capo. E lui, boss tra yes-men, s’è permesso una battuta: “Aspettate a battere le mani: non sapete che può venire dopo”. In verità, poi, sono venuti solo progetti d’ingegneria sociale, come l’aumento dei sussidi alle famiglie che fanno un terzo figlio: “Famiglie con tre figli dovrebbero essere la norma”, ha detto, immemore che la nazione popolosa fu già il sogno infranto di Ceausescu (e del Mussolini che voleva le donne italiane perennemente gravide). Ultimo problema: le 21 repubbliche autonome della Federazione Russa che, secondo Putin, asseriscono con troppo zelo la propria identità: “Non possiamo permettere la creazione di enclave con una loro giurisprudenza informale, che vivono al di fuori dello spazio legale e culturale del Paese”, ha detto. Questo, invero, potrebbe diventare un guaio – se Putin insistesse. Perché proprio pochi giorni fa una commissione del Cremlino ha proposto una “strategia delle nazionalità” che, ispirandosi a un retrivo filosofo ottocentesco, Nikolai Danilewsky, per la prima volta considera una sola “civiltà” russa, buona per tutti i popoli della Federazione.
COSÌ il cerchio si chiuderebbe: la Russia segregata dal mondo, omologata sotto una sola etichetta etnica, si gonfierebbe di prole numerosa, esaltata da notizie solo positive. Nemmeno Orwell avrebbe immaginato una fattoria degli animali come quella di Putin.

il Fatto 14.12.12
Svizzera, sì alle adozioni gay


La Camera Bassa del Parlamento svizzero ha approvato un testo che apre la strada alle adozioni per i gay. Con 113 voti a favore e 64 contrari, il Consiglio nazionale ha dato il via libera all’affidamento di qualsiasi figlio (naturale o meno) avuto anche prima dell'inizio della relazione. Ansa

l’Unità 14.12.12
A novant’anni dalla nascita
Bianciardi dove sei?
Il ricordo dell’intellettuale più crudo Uno sguardo incorruttibile e doloroso
Raccontava di minatori, cercava compagni per la rivoluzione: fu solo
Oggi basta un po’ di anticonformismo per vendersi bastian contrari, e rimanere ben integrati
Lo scrittore maremmano dissentiva, si misurava nel conflitto, nella distanza
di Marco Bucciantini


LUCIANO BIANCIARDI AVEVA IL FEGATO AMARO E AVVELENATO, NON CI SAREBBE ARRIVATO A NOVANT’ANNI: SAREBBERO STATI OGGI. S’è fermato un bel pezzo di strada prima, gli mancava un mese a 49 anni, il 14 novembre del 1971. La bomba che voleva piazzare sotto il Torracchione, per vendicare i minatori di Ribolla, morti per il grisù disse il processo, crepati come sorci per calcolo e interesse del padrone, scrive invece la storia, quella bomba lì gli era rimasta addosso. E la miccia bruciava lenta, incendiata dalla sua vita impossibile, «agra», riassunse lui in un libro che diventò un bel film di Lizzani, e un titolo che adesso è una frase fatta, La vita agra, appunto.
Il Bianciardi, un maremmano. Spesso capita di rimpiangere uno sguardo perduto, un punto di vista genuino e diverso sulla realtà. Quante volte si è letto (si è detto): «Ah, se ci fosse ancora Pasolini». O De André: ognuno può completare la sua lista. Forse qualcosa di loro è rintracciabile, sono autori (anche idoli) che hanno lasciato qualcosa dentro qualcuno. Sono occhi con cui è capitato di «vedere». Con Bianciardi no: non ci sono eredi, né imitatori, neanche sbiaditi. «Sopportatemi, duro ancora poco», disse a chi gli stava vicino, nei giorni che correvano verso la morte. Durò poco.
La miniera esplose il 4 maggio del 1954. Morirono 43 operai, Luciano li conosceva tutti. Andava a sedersi fuori, li aspettava, ci parlava, portava libri da leggere perché si era inventato era direttore della biblioteca Chelliana di Grosseto un bus sgangherato per portare da leggere in campagna, e sollecitava il suo assistente Aladino: «Mi raccomando, andiamo a occhio». Significava: ricordiamoci a chi prestiamo i libri, perché compilare schede e fogli rientrava in un senso pratico sconosciuto al Bianciardi. In questo modo sapeva di perdere molti testi, ma ai rimproveri dell’amministrazione rispondeva alla Bianciardi: «Meglio un libro rubato che un libro mai letto». I minatori, allora: «I miei amici», diceva. Denunciava la loro condizione di povertà e di pericolo. Alcuni di loro gli raccontarono della galleria in cui stavano scavando a fondo cieco, «lo scriva sui giornali: corriamo il rischio di saltare tutti per aria». Questo accadde.
E Bianciardi va via, va a Milano, va a morire: ci metterà diciassette anni. Traduce (Miller, Faulkner, tanti altri). Scrive, studia. S’incazza. Dissente. Beve, ma non si corrompe. Trova il successo, cercandolo e odiandolo, perfino combattendolo, rifiuta l’offerta di Montanelli di accasarsi al Corriere, si fa licenziare dalla Feltrinelli, «perché strascicavo i piedi, e mi muovevo piano, mentre altri erano fannulloni frenetici che riuscivano, non si sa come, a dare l’impressione di star lavorando. Pensa, si prendono pure l’esaurimento nervoso», ricordò un giorno alla figlia Luciana, che ne custodisce la memoria. Ma la notorietà arriva comunque, con quel libro, La vita agra, con l’intellettuale di provincia che va in città per far esplodere il Torracchione, la sede della Montecatini, i padroni della miniera. Cercate questo libro fra gli scaffali, o in libreria, leggetelo, e anche il Lavoro culturale: solo gli autori così dis-integrati, gli intellettuali così puri possono essere (alla lunga, ci vuole tempo) così profetici. Dentro quell’io narrante spudorato che è lui certamente, ma è anche l’indefesso lavoratore dell’immateriale, al servizio di un sistema imbattibile, c’è l’autobiografia di un qualunque trentenne di oggi, costretto alla perdita dell’innocenza senza avere niente in cambio, nemmeno la paga. È doloroso, Luciano: cerca compagni per la rivoluzione, incontra persone che faticano a combinare il pranzo con la cena, indaffarate a sopravvivere come formiche. Si addormenta, alla fine, annichilito, dopo aver attraversato tutti i simboli del vivere comune, dalla famiglia al sesso, dal lavoro ai soldi, senza trovarne il senso. Si rifugia nel bastione che la vita non ha potuto distruggere: l’unica rivoluzione possibile è dentro, in interiore homine. Ma non basta a curare l’esistenza.
Prima di tutti tratteggiò il carrierismo politico, «arte della conquista e della conservazione del potere». E pronosticò l’inevitabile cannibalismo consumista, nei «bisogni indotti dalla pubblicità, con i padroni che decidono per noi cosa dobbiamo desiderare». Questo è il Bianciardi che anticipa e che resta. Ma servirebbe quello scomparso, quello introvabile, crudo e nudo, che odora di pastrano sdrucito, di polvere e di carbone. Chi lo ha letto, lo sa, lo sa. Lui che cammina per ballatoi e ciottolati, e spiega perché, come mai, che lima la lingua e va avanti con il suo stile preciso, nuovo, fantasioso, davvero anarchico, dolce e cinico, un cazzotto e un sorriso, un sogno e un’analisi, un lessico allacciato alla manualità, un frasario che deve qualcosa a Gadda. Il Bianciardi che consiglia ai bambini di leggere Diabolik, «dove il bene in qualche modo vince sul male, dove la donna è forte», invece del libro Cuore, «dove ti affezioni a personaggi che poi muoiono in guerra, straziati, e i bambini poveri restano somari a vita, e quelli ricchi sono i più bravi della classe». Straordinario.
Soffiava vetriolo, ne aveva tanto in corpo da rovinarsi. Dopo La vita agra gli dissero: insisti con il tema dell’incazzato, funziona e fai soldi. E lui scrisse un romanzo del Risorgimento: adorava la storia e Garibaldi, il suo coraggio e la sua energia democratica. Era un ribelle che camminando finiva sempre sulla strada sbagliata, fuori campo, a concimare la sua penosa libertà. Da lì ci vedeva meglio. La fedeltà a se stesso fu spietata: questo manca negli intellettuali che oggi scelgono sempre una parte dove stare, un guadagno da proteggere. Che confondono e truccano l’anticonformismo per il conflitto. Bianciardi non aveva questo senso di colpa (l’unico: aver lasciato la Maremma). Non aveva bisogno di negare l’adorazione per le gambe della Carrà, o l’interesse per il calcio: gli ultimi due anni curò la rubrica delle lettere per il Guerin Sportivo di Gianni Brera, quegli interventi sono diventati un libro di massime, Il fuorigioco mi sta antipatico.
Era un disturbo, era un’agenda con le date a caso, un trapezista che preferiva cadere, perché non c’è verità nell’equilibrio, nell’ordine. Da vivo, era perfetto per essere morto, per essere poi riscoperto, per essere rimpianto: tutte quelle declinazioni dell’affetto che avrebbero chiesto ai suoi contemporanei il tempo, la tolleranza, l’intelligenza, la curiosità. È un pensiero che fa rabbia, il Bianciardi. È un conto aperto.
Un giorno era seduto sulla scalinata della scuola elementare di Grosseto, in attesa che dall’edificio dirimpetto, che ospitava il liceo classico dove aveva studiato e insegnato, uscisse la figlia. Il bidello napoletano lo riconobbe e lo chiamò, «professore, venite a sedervi di sopra, sui gradini ci sono le cacche di piccione». Lui rispose: «Vedi Quirino, nella vita bisogna scegliere su quali merde mettersi a sedere, io ho scelto questa».

Repubblica 14.12.12
La doppia vita dell’infinito
Così la matematica esorcizza il demone dell’indistinto
“L’infinito nel pensiero dell’antichità classica2 di Rodolfo Mondolfo
In uscita per Bompiani
di Paolo Zellini

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