Corriere La Lettura 19.7.15
Cari storici, non trascurate le battaglie. Furono la culla del cittadino romano
La scuola delle Annales ha svalutato gli eventi bellici
Ma non possiamo fare a meno di studiare Annibale, Mario e Silla, Giulio Cesare
di Giovanni Brizzi
L’atteggiamento — e non solo quello degli studiosi, ma quello di un’intera società — verso la storia militare è venuto modificandosi più volte nel corso degli ultimi secoli. Se gli storici dell’Otto e della prima metà del Novecento tendevano a privilegiare gli eventi, a partire dalla seconda metà del XX secolo la reazione — innescata prevalentemente dalla scuola delle «Annales» francese — portò alla ribalta gli aspetti quantitativi e sociali; e, di fatto, relegò a lungo in secondo piano la histoire évenementielle . Non era solo questione di adottare una tendenza storiografica nuova; altre erano le ragioni, pur forse inconfessate, di una scelta epocale.
Non a caso l’altra definizione della linea d’indagine ripudiata era histoire batailles , «storia delle battaglie», come se a questo si riducessero, in fondo, gli eventi che si intendeva elidere; una definizione che, viziata da una punta di spregio, usciva dall’ambito delle stesse «Annales». Oltre che dal nuovo progetto di ricostruzione globale delle società umane, da realizzare attraverso i metodi e i contributi offerti da discipline come la geografia e l’antropologia, l’economia e la sociologia, la sprezzante definizione rivolta ai passati criterî nasceva fors’anche dalla naturale reazione di una società che, uscita dalla Seconda guerra mondiale, di battaglie era sazia e nauseata.
Della rivista «Annales», attorno a cui fiorì la scuola storiografica che ne prese il nome, Fernand Braudel divenne direttore, insieme con Lucien Febvre, dal 1945. Forse meno accentuato nei precursori, il ripudio della histoire évenementielle divenne poi quasi assoluto: sicché, a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, secondo le posizioni estreme raggiunte dalla stessa scuola, si sarebbe in teoria dovuto — mi si consenta il paradosso — descrivere l’esercito di Cesare nelle strutture — reclutamento, composizione, logistica, etc. — senza occuparsi degli scontri di cui esso fu protagonista.
Ora la tendenza si è in parte invertita; e si va riscoprendo la funzione di uomini ed eventi. La storia militare conosce da un quarto di secolo almeno un confortante risveglio. Alla sua riscoperta per quanto riguarda il mondo antico hanno contribuito, tra i primi, proprio gli studiosi francesi; in particolare Yvon Garlan, secondo cui la guerra è espressione di una società, e Jacques Harmand, che giunge addirittura ad affermare come di una cultura la guerra traduca, in fondo, praticamente la totalità e come attraverso tale aspetto non solo si colgano le tendenze primarie della storia sociale, ma si estrinsechino altresì gli aspetti fondamentali della vita politica, economica, religiosa.
Histoire batailles , dunque. Opera divulgativa che al tema si ispira, il libro di Livio Zerbini Le grandi battaglie dell’esercito romano (Odoya), da cui viene lo spunto a queste riflessioni, si estende forse troppo in ampiezza: perché occuparsi, ad esempio, di un’età arcaica per la quale — si parli del Regillo o dell’Allia — non possediamo fonti che non siano posteriori di secoli e totalmente inquinate dalla proiezione di rigurgiti dal mito o dalla religione? Meglio sarebbe stato, forse, trattare di quel Lucio Cornelio Silla che, per talune intuizioni folgoranti (la riserva tattica, sperimentata ad Orcomeno; l’impiego sul campo dell’ingegneria militare…) illuminò lo stesso Cesare.
Troppo esteso, il libro perde quindi in profondità. Mancano, talvolta, paralleli che potrebbero essere illuminanti: le vittorie di Caio Mario sui Cimbri sono, ad esempio, costruite attraverso l’imitazione di Annibale, rielaborando rispettivamente gli espedienti e le tattiche del Cartaginese alla Trebbia e a Canne; anche il re Antioco III, nella battaglia di Magnesia (vedi grafico), cercò invano di sconfiggere i Romani ispirandosi ad Annibale. Inoltre nel saggio mancano riflessioni circa le evoluzioni interne all’esercito romano: novecento anni di storia non passano invano, e persino in un mondo povero di tecnologie i mutamenti finiscono per essere molto significativi. Un ultimo rilievo, infine: attenzione al lessico (si confonde, ad esempio, troppo spesso la tattica con la strategia).
Un merito va però riconosciuto all’autore. Mancava ancora, almeno in Italia, chi osasse riproporre la vera histoire batailles, così come, ad esempio, la illustrarono a suo tempo Johannes Kromayer e Georg Veith negli immortali Campi di battaglia antichi (Berlino, 1903-1931). Benché certo lontanissimo da quell’inarrivabile modello, in Italia almeno il volume di Livio Zerbini è, che io sappia, il primo tentativo accademico in tal senso.
Chi scrive ha cercato di dimostrare come, per l’antichità almeno, la storia militare possa esser l’occhiale, davvero insostituibile, attraverso cui leggere, più ancora che le singole vicende, la parabola di un’epoca intera; parabola che, per alcuni aspetti fondamentali come il valore del cittadino romano, ha scavalcato i secoli riproponendosi al mondo, al di là di quell’Illuminismo oggi da riscoprire, con i citoyens della Marsigliese . Benché questo rimanga il compito fondamentale della storia militare, chi scrive si è però anche interrogato spesso circa l’utilità di riscrivere a latere una «storia delle battaglie» nel senso più pieno del termine. Pur ripudiata da una società che, diversamente dai nazionalismi ottocenteschi, ne rifiuta talvolta ipocritamente l’idea stessa, la guerra come gioco coinvolge oggi schiere infinite di appassionati wargamers ; e forse riflettere sulle battaglie non solo antiche aiuterà a comprendere il fascino inquietante di questo ineliminabile fenomeno umano.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
venerdì 21 agosto 2015
Il Sole Domenica 19.7.15
Ernst Jünger
Lo sciamano della scrittura
di Gennaro Sangiuliano
Può apparire una mera astrazione filosofica quella di interrogarsi sulla relazione fra metafisica e tecnica mentre, invece, il concretizzarsi della società di massa e soprattutto l’affermarsi del «nichilismo» come segno distintivo del nostro tempo rimandano inevitabilmente a questo confronto. Basti verificare quanto sia pervasivo quello che Nietzsche chiamerebbe «nichilismo attivo» e che nell’epoca attuale è riconoscibile in quel manto pervasivo di ipocrisie collettive e retoriche permanenti efficacemente sintetizzare con l’espressione «politicamente corretto». Il rapporto tra metafisica e tecnica fu a lungo il tema di un confronto serrato fra Ernst Jünger e Martin Heidegger, rievocato con puntualità in uno dei capitoli del saggio, titolo secco: Ernst Jünger, curato da Luigi Iannone, edito da Solfanelli, che raccoglie gli scritti di ben trenta autori che analizzano la lunga e multiforme attività del filosofo scrittore, morto ultracentenario nel 1998. Jünger, uno sciamano della scrittura – come lo definisce Iannone – che si muove in uno stadio intermedio tra filosofia pura e letteratura ma che proprio per questo, con la sua opera immensa, riesce ad affermare una dimensione immaginativa capace di cogliere la realtà molto meglio di alcune teorizzazioni astratte.
Le molti dimensioni di Jünger partono da quella che è, forse, la sua opera più nota In Stahlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), tradotta col titolo Tempeste d’acciaio, sintesi essenziale quanto cruda della sua esperienza nella Grande guerra di massa che lo scrittore conobbe in prima persona sul fronte occidentale. Questo libro che fu definito l’anti-Remarque, per Gide costituisce il «più bel libro di guerra mai letto» e per Borges «un’eruzione vulcanica». Una narrativa di materiali che non lascia spazio al lettore, quasi una sequenza cinematografica di azioni di guerra. Elena Alessiato scrive di «dimensione della vitalità, della forza biologica e primordiale, della corporaneità, colte nella loro più basica immediatezza». Jünger è nel Novecento quello che erano stati nel secolo precedente Fichte e Nietzsche, la «rivendicazione costante dell’eccezionalità della natura tedesca», di fronte alla quale se Mann aveva tentato di «riscoprire l’interiorità autenticamente tedesca», lo scrittore di Tempeste d’acciaio conferisce una forma di spirito all’elemento nazionale. Tuttavia, se la sua riflessione sulla guerra ha segnato un’epoca questo scrittore è molto di più. È per cominciare il narratore dell’avventura geografica, cioè la scrittura dei luoghi, della natura, della montagna, dei fiumi, dei laghi, delle città, ambiti umani che devono essere interpretati. «Vagando per le strade - scrive Andrea Marini - noi non incontriamo mai solamente dei passanti, delle vie, degli edifici, delle vetrine; troviamo altresì fantasie, prospettive, idee, simboli, immagini, storie». Passeggiare tra le fenditure, fare esperienza nel mondo, aiuta a rafforzare il proprio pensiero, a interpretare la molteplicità danzante del mondo.
L’altro pilastro del pensiero di Jünger, centrale nel suo sistema, è Der Arbeiter (L’Operaio), testo profetico sulla modernità, dove l’uomo Operaio, inteso in un’accezione antitetica a quella marxista, è il protagonista della rivolta interiore e spirituale, chiamato alla missione di rompere «le sbarre di quella gabbia di acciaio della razionalizzazione occidentale». Configura, non senza qualche profezia, il rapporto tra l’uomo, la tecnica, il lavoro, elementi dinamici della vita contemporanea, che non vanno valutati solo in una dimensione economica e salariale. Il mondo è piombato nel disincanto, perché il tipo umano borghese ha accettato il contesto della gabbia d'acciaio, l'Operaio è chiamato ad assumere su di sé un nuovo destino, il dovere, scrive Simone Paliaga di «costruire un mondo diverso da quello ipotizzato dal processo di razionalizzazione». Ci si interrogherà ancora a lungo «sulla riduzione negativa» della condizione contemporanea. Martin Heidegger giunge a connotare il nichilismo «come il processo storico attraverso cui il soprasensibile viene meno e vede annullato il suo dominio, e di conseguenza l’ente stesso perde il suo valore e il suo senso». Carl Schmitt pose la famosa distinzione tra Kultur e Zivilisation, la prima intesa come forma attiva e vitalistica della natura dei popoli, la seconda cultura formale che prescinde dal valore. Ecco quindi che per Jünger «il tramonto dei valori corrisponde all’incapacità di produrre, o anche solo di concepire tipi superiori e sfocia nel pessimismo. Questo si trasforma in nichilismo quando l’ordine gerarchico viene rigettato». La dimensione nichilista più evidente è lo «specialismo tecnico e la comunicazione compulsiva», che diventano, secondo l’efficace definizione di Renato Cristin, «veicoli del nulla». Un condensato di politicamente corretto, che Jünger definirebbe punto zero del nichilismo. L’essenza di questa Reduktion, secondo l’affermazione jüngeriana, è, infatti, una «strozzatura progressiva», che, come annota Cristin, «si manifesta come semplificazione, in tutte le direzioni e in tutte le applicazioni, restringimento della complessità qualitativa dell’esistenza a denominatori comuni». La riduzione finisce inevitabilmente anche per essere una perdita di libertà e individualità, in un mondo dove le macchine e dove gli automatismi, anche dei rapporti interpersonali, denotano lo sfruttamento e soprattutto l’imporsi di un Leviatano, tiranno interno ed esterno.
Anarchico, conservatore nel senso di paladino della rivoluzione conservatrice, Jünger ebbe grandi estimatori, non solo in tutta la filosofia. Helmut Kohl gli faceva visita periodicamente, con puntualità tedesca e nonostante gli impegni della politica trascorreva con lui intere giornate. Lo stesso fecero François Mitterrand, che lo citava nei suoi discorsi, e lo spagnolo Felipe Gonzàles. Quando nel 1995 Massimo Cacciari invitò Jünger a Venezia per celebrare in un convegno i suoi cento anni si scatenarono polemiche accese, per via dell’ammirazione che alcuni nazisti avevano per i suoi libri. Polemiche a cui gli estimatori (di destra e molti di sinistra) dello scrittore risposero ricordando i suoi scritti contro l’antisemitismo e il razzismo, che adirarono non poco Goebbels. E ancora il coinvolgimento di Jünger nell’attentato a Hitler, attività cospiratoria per la quale rischiò la fucilazione. Ernst Jünger morirà dopo essersi convertito al cattolicesimo, dopo un percorso al quale non fu estraneo Karol Wojtyla.
Luigi Iannone (a cura di), Ernst Jünger, Edizioni Solfanelli, Chieti,
pagg. 544, € 30,00
Ernst Jünger
Lo sciamano della scrittura
di Gennaro Sangiuliano
Può apparire una mera astrazione filosofica quella di interrogarsi sulla relazione fra metafisica e tecnica mentre, invece, il concretizzarsi della società di massa e soprattutto l’affermarsi del «nichilismo» come segno distintivo del nostro tempo rimandano inevitabilmente a questo confronto. Basti verificare quanto sia pervasivo quello che Nietzsche chiamerebbe «nichilismo attivo» e che nell’epoca attuale è riconoscibile in quel manto pervasivo di ipocrisie collettive e retoriche permanenti efficacemente sintetizzare con l’espressione «politicamente corretto». Il rapporto tra metafisica e tecnica fu a lungo il tema di un confronto serrato fra Ernst Jünger e Martin Heidegger, rievocato con puntualità in uno dei capitoli del saggio, titolo secco: Ernst Jünger, curato da Luigi Iannone, edito da Solfanelli, che raccoglie gli scritti di ben trenta autori che analizzano la lunga e multiforme attività del filosofo scrittore, morto ultracentenario nel 1998. Jünger, uno sciamano della scrittura – come lo definisce Iannone – che si muove in uno stadio intermedio tra filosofia pura e letteratura ma che proprio per questo, con la sua opera immensa, riesce ad affermare una dimensione immaginativa capace di cogliere la realtà molto meglio di alcune teorizzazioni astratte.
Le molti dimensioni di Jünger partono da quella che è, forse, la sua opera più nota In Stahlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), tradotta col titolo Tempeste d’acciaio, sintesi essenziale quanto cruda della sua esperienza nella Grande guerra di massa che lo scrittore conobbe in prima persona sul fronte occidentale. Questo libro che fu definito l’anti-Remarque, per Gide costituisce il «più bel libro di guerra mai letto» e per Borges «un’eruzione vulcanica». Una narrativa di materiali che non lascia spazio al lettore, quasi una sequenza cinematografica di azioni di guerra. Elena Alessiato scrive di «dimensione della vitalità, della forza biologica e primordiale, della corporaneità, colte nella loro più basica immediatezza». Jünger è nel Novecento quello che erano stati nel secolo precedente Fichte e Nietzsche, la «rivendicazione costante dell’eccezionalità della natura tedesca», di fronte alla quale se Mann aveva tentato di «riscoprire l’interiorità autenticamente tedesca», lo scrittore di Tempeste d’acciaio conferisce una forma di spirito all’elemento nazionale. Tuttavia, se la sua riflessione sulla guerra ha segnato un’epoca questo scrittore è molto di più. È per cominciare il narratore dell’avventura geografica, cioè la scrittura dei luoghi, della natura, della montagna, dei fiumi, dei laghi, delle città, ambiti umani che devono essere interpretati. «Vagando per le strade - scrive Andrea Marini - noi non incontriamo mai solamente dei passanti, delle vie, degli edifici, delle vetrine; troviamo altresì fantasie, prospettive, idee, simboli, immagini, storie». Passeggiare tra le fenditure, fare esperienza nel mondo, aiuta a rafforzare il proprio pensiero, a interpretare la molteplicità danzante del mondo.
L’altro pilastro del pensiero di Jünger, centrale nel suo sistema, è Der Arbeiter (L’Operaio), testo profetico sulla modernità, dove l’uomo Operaio, inteso in un’accezione antitetica a quella marxista, è il protagonista della rivolta interiore e spirituale, chiamato alla missione di rompere «le sbarre di quella gabbia di acciaio della razionalizzazione occidentale». Configura, non senza qualche profezia, il rapporto tra l’uomo, la tecnica, il lavoro, elementi dinamici della vita contemporanea, che non vanno valutati solo in una dimensione economica e salariale. Il mondo è piombato nel disincanto, perché il tipo umano borghese ha accettato il contesto della gabbia d'acciaio, l'Operaio è chiamato ad assumere su di sé un nuovo destino, il dovere, scrive Simone Paliaga di «costruire un mondo diverso da quello ipotizzato dal processo di razionalizzazione». Ci si interrogherà ancora a lungo «sulla riduzione negativa» della condizione contemporanea. Martin Heidegger giunge a connotare il nichilismo «come il processo storico attraverso cui il soprasensibile viene meno e vede annullato il suo dominio, e di conseguenza l’ente stesso perde il suo valore e il suo senso». Carl Schmitt pose la famosa distinzione tra Kultur e Zivilisation, la prima intesa come forma attiva e vitalistica della natura dei popoli, la seconda cultura formale che prescinde dal valore. Ecco quindi che per Jünger «il tramonto dei valori corrisponde all’incapacità di produrre, o anche solo di concepire tipi superiori e sfocia nel pessimismo. Questo si trasforma in nichilismo quando l’ordine gerarchico viene rigettato». La dimensione nichilista più evidente è lo «specialismo tecnico e la comunicazione compulsiva», che diventano, secondo l’efficace definizione di Renato Cristin, «veicoli del nulla». Un condensato di politicamente corretto, che Jünger definirebbe punto zero del nichilismo. L’essenza di questa Reduktion, secondo l’affermazione jüngeriana, è, infatti, una «strozzatura progressiva», che, come annota Cristin, «si manifesta come semplificazione, in tutte le direzioni e in tutte le applicazioni, restringimento della complessità qualitativa dell’esistenza a denominatori comuni». La riduzione finisce inevitabilmente anche per essere una perdita di libertà e individualità, in un mondo dove le macchine e dove gli automatismi, anche dei rapporti interpersonali, denotano lo sfruttamento e soprattutto l’imporsi di un Leviatano, tiranno interno ed esterno.
Anarchico, conservatore nel senso di paladino della rivoluzione conservatrice, Jünger ebbe grandi estimatori, non solo in tutta la filosofia. Helmut Kohl gli faceva visita periodicamente, con puntualità tedesca e nonostante gli impegni della politica trascorreva con lui intere giornate. Lo stesso fecero François Mitterrand, che lo citava nei suoi discorsi, e lo spagnolo Felipe Gonzàles. Quando nel 1995 Massimo Cacciari invitò Jünger a Venezia per celebrare in un convegno i suoi cento anni si scatenarono polemiche accese, per via dell’ammirazione che alcuni nazisti avevano per i suoi libri. Polemiche a cui gli estimatori (di destra e molti di sinistra) dello scrittore risposero ricordando i suoi scritti contro l’antisemitismo e il razzismo, che adirarono non poco Goebbels. E ancora il coinvolgimento di Jünger nell’attentato a Hitler, attività cospiratoria per la quale rischiò la fucilazione. Ernst Jünger morirà dopo essersi convertito al cattolicesimo, dopo un percorso al quale non fu estraneo Karol Wojtyla.
Luigi Iannone (a cura di), Ernst Jünger, Edizioni Solfanelli, Chieti,
pagg. 544, € 30,00
Il Sole Domenica 19.7.15
Filosofia politica
La sovranità che piace a Hegel
di Sebastiano Maffettone
Elogio della Sovranità Politica di Biagio de Giovanni, uno dei più noti filosofi della politica italiani di tradizione hegelo-marxista, è un libro denso e impegnato con un intento polemico esplicito che si rivela sin dal titolo. I “nemici” di de Giovanni, come non è difficile intuire, sono coloro che, con vari accenti e diversi scopi, esultano per la fine annunciata della sovranità dello stato. Lo fanno, di solito, in nome di un moralistico cosmopolitismo, che poco o nulla ha di politico, e giungono perfino a condannare in guisa di magistrato d’assalto trascendentale la storia della modernità. Quest’ultima - ci dice de Giovanni - è, alla fine dei conti, la storia dello stato moderno e della sovranità. Personalmente, credo che questo sia un punto molto serio su cui riflettere: papa Francesco può permettersi un cosmopolitismo buonista a livello etico-religioso, ma un capo di stato non può imitarlo in nome della responsabilità politica che ne caratterizza la funzione. Non sorprendentemente per chi lo conosce, de Giovanni lega la sua tesi a un recupero di Hegel. Ma il suo Hegel non si identifica con quello della teologia laica e progressiva di famiglia-società-civile e stato. È, invece, innanzitutto e per lo più lo Hegel della mediazione, cosa che dal punto di vista politico permette di includere nella sovranità l’emergere del negativo. In questa ottica, la sovranità è il punto di incontro tra decisone politica e ordinamento giuridico. Cosicché, si aggiunge, demolirla concettualmente e praticamente equivale a smantellare un equilibrio fondamentale e in ultima analisi a chiudere lo spazio della politica. Quanto suoni attuale tutto ciò non c’è bisogno di sottolinearlo.
Lo Hegel di de Giovanni non è un apologeta del sovrano assoluto alla Hobbes-Bodin, ma ha piuttosto incorporato a pieno la lezione liberal-democratica di Rousseau e Kant cui aggiunge un robusto realismo politico. Questo vuol dire che hanno torto – perché svuotano di significato questa concezione della sovranità - sia Schmitt, che la equipara allo stato di eccezione, sia Kelsen che la costringe nei limiti del puro normativismo. Neppure, è possibile in questi termini apprezzare la trasformazione della sovranità in biopolitica, alla maniera di Foucault sulla scia di Nietzsche. Foucault stesso non sembra aver compreso – suggerisce l’autore - la natura della sovranità di stampo hegeliano che non si identifica più con la figura del sovrano. Ma sarebbe impossibile, data la ricchezza degli spunti e dei riferimenti storico-critici riassumere in poche righe il libro. Una sola osservazione esterna, però, la farei, anche concedendo che non si può mettere tutto nella stessa opera. La filosofia politica globale mainstream è oggi atlantica sulla scia di Rawls e in genere dei grandi atenei anglo-americani. Il meglio di questa teoria è fortemente legato a un istituzionalismo normativo, che legge Kant in termini quasi hegeliani. Dietro tutto ciò si cela in qualche modo la forza della mediazione, che tanto piace al nostro autore. Perché non pensare alla sovranità anche nell’ambito di questo sfondo teorico che è legato, forse come nessun altro, alla storia della liberal-democrazia?
Biagio de Giovanni, Elogio della Sovranità Politica , Editoriale Scientifica, Napoli, pagg. 332, € 20,00
Filosofia politica
La sovranità che piace a Hegel
di Sebastiano Maffettone
Elogio della Sovranità Politica di Biagio de Giovanni, uno dei più noti filosofi della politica italiani di tradizione hegelo-marxista, è un libro denso e impegnato con un intento polemico esplicito che si rivela sin dal titolo. I “nemici” di de Giovanni, come non è difficile intuire, sono coloro che, con vari accenti e diversi scopi, esultano per la fine annunciata della sovranità dello stato. Lo fanno, di solito, in nome di un moralistico cosmopolitismo, che poco o nulla ha di politico, e giungono perfino a condannare in guisa di magistrato d’assalto trascendentale la storia della modernità. Quest’ultima - ci dice de Giovanni - è, alla fine dei conti, la storia dello stato moderno e della sovranità. Personalmente, credo che questo sia un punto molto serio su cui riflettere: papa Francesco può permettersi un cosmopolitismo buonista a livello etico-religioso, ma un capo di stato non può imitarlo in nome della responsabilità politica che ne caratterizza la funzione. Non sorprendentemente per chi lo conosce, de Giovanni lega la sua tesi a un recupero di Hegel. Ma il suo Hegel non si identifica con quello della teologia laica e progressiva di famiglia-società-civile e stato. È, invece, innanzitutto e per lo più lo Hegel della mediazione, cosa che dal punto di vista politico permette di includere nella sovranità l’emergere del negativo. In questa ottica, la sovranità è il punto di incontro tra decisone politica e ordinamento giuridico. Cosicché, si aggiunge, demolirla concettualmente e praticamente equivale a smantellare un equilibrio fondamentale e in ultima analisi a chiudere lo spazio della politica. Quanto suoni attuale tutto ciò non c’è bisogno di sottolinearlo.
Lo Hegel di de Giovanni non è un apologeta del sovrano assoluto alla Hobbes-Bodin, ma ha piuttosto incorporato a pieno la lezione liberal-democratica di Rousseau e Kant cui aggiunge un robusto realismo politico. Questo vuol dire che hanno torto – perché svuotano di significato questa concezione della sovranità - sia Schmitt, che la equipara allo stato di eccezione, sia Kelsen che la costringe nei limiti del puro normativismo. Neppure, è possibile in questi termini apprezzare la trasformazione della sovranità in biopolitica, alla maniera di Foucault sulla scia di Nietzsche. Foucault stesso non sembra aver compreso – suggerisce l’autore - la natura della sovranità di stampo hegeliano che non si identifica più con la figura del sovrano. Ma sarebbe impossibile, data la ricchezza degli spunti e dei riferimenti storico-critici riassumere in poche righe il libro. Una sola osservazione esterna, però, la farei, anche concedendo che non si può mettere tutto nella stessa opera. La filosofia politica globale mainstream è oggi atlantica sulla scia di Rawls e in genere dei grandi atenei anglo-americani. Il meglio di questa teoria è fortemente legato a un istituzionalismo normativo, che legge Kant in termini quasi hegeliani. Dietro tutto ciò si cela in qualche modo la forza della mediazione, che tanto piace al nostro autore. Perché non pensare alla sovranità anche nell’ambito di questo sfondo teorico che è legato, forse come nessun altro, alla storia della liberal-democrazia?
Biagio de Giovanni, Elogio della Sovranità Politica , Editoriale Scientifica, Napoli, pagg. 332, € 20,00
Il Sole Domenica 19.7.15
Nel laboratorio dei poemi omerici
Le deviazioni di Ulisse
Molte storie di Iliade e Odissea nascono da leggende popolari, e rivelano influssi orientali. Come l’epico viaggio del nostro eroe
di Martin West
My heart’s grown heavy, my knees will not support me, that once on a time were fleet for the dance as fawns (il mio cuore è cresciuto pesante, le mie ginocchia non mi sostengono/ loro che una volta erano agili per la danza come quelle dei cerbiatti): traducendoli così in inglese, Martin West, scomparso lo scorso 13 luglio a 77 anni, ha fatto conoscere al mondo i nuovi versi da lui scoperti di Saffo. Ci ha lasciati il più grande grecista contemporaneo che ha dato contributi fondamentali in ogni campo della filologia classica: studioso della Teogonia e delle Opere e i giorni di Esiodo, ma anche il primo a costruire ponti nei rapporti fra filosofia greca e sapienza orientale, come recita la laudatio del premio Balzan conferitogli nel 2000. West è stato editore critico e commentatore dei testi più complessi della letteratura greca, fra cui i poeti giambici ed elegiaci per le edizioni oxoniensi. Importante ricordare anche i frammenti esiodei editi con Merkelbach e gli studi sul tragico Eschilo. Egli era riuscito ad andare a fondo nel laboratorio di scrittura di Omero, scrutando le diverse fasi di lavorazione dei poemi e individuando i motivi derivati da una certa tradizione ancestrale del Vicino Oriente. Si ricorda anche come intellettuale che ha vissuto la sua dimensione di studioso senza disperdersi in eccessive apparizioni pubbliche, riservate forse più a un’ultima parte della sua vita, che lo aveva visto protagonista nell’Università di Urbino, ma anche a Parma e a Bologna invitato da Gabriele Burzacchini nel 2011. Le sue lezioni sono un patrimonio da raccogliere, proprio come questa che vi proponiamo, pronunciata in italiano nel maggio 2011 e che Roberto Rossi (curatore di un sito sul greco antico) ci ha messo a disposizione. Il viaggio di Odisseo, viene qui studiato alla luce di altri viaggi di ritorno, ad esempio quello di Agamennone e viene definito “deviato”, in quanto il poeta aveva bisogno di far vagare Menelao, fratello di Agamennone che non era intervenuto per fermare l’assassinio, verso l’Oriente e farlo ritornare dopo la morte di Agamennone, quasi per giustificarlo; intanto bisognava mandare Odisseo verso Occidente, allungando il suo percorso da tre a dieci anni per farlo rimpatriare dopo Menelao. Probabilmente la storia d’amore fra Odisseo e Calipso non è stata altro che un espediente d’autore e un filologo questo disincanto deve scoprirlo e raccontarlo.
Dorella Cianci
Dicono che una donna avveduta farebbe bene a prendere in marito un archeologo, dal momento che più lei invecchia, più il consorte la troverà interessante. Sono più di cinquant’anni che convivo con due sorelle maggiori, di nome Iliade ed Odissea, e quel che posso dirvi è che in questo lasso di tempo il fascino da loro esercitato nei miei confronti e la mia curiosità nei loro continuano a crescere. E ciò che più d’ogni altra cosa m’affascina è la loro anatomia: il modo in cui le loro ossa si adattano le une alle altre, come la carne si sia sviluppata su di esse, che cosa sia osso e che cosa sia carne, e le eventuali cicatrici da chirurgia estetica che esse rechino. Fuor di metafora, avverto un coinvolgimento via via sempre maggiore nel problema relativo alle origini dei poemi omerici: il retroterra e la preistoria della tradizione epica greca, nonché le modalità attraverso le quali l’Iliade e l’Odissea furono plasmate dai rispettivi creatori a partire da materiali preesistenti. Si tratta, in entrambi i casi, di poemi assai estesi e complessi, e credo che i rispettivi poeti abbiano dovuto lavorarvi per molti anni prima di riuscire a condurli alla forma che noi conosciamo. Non è possibile che suddetti poeti abbiano concepito l’intera struttura del poema e la completa articolazione sequenziale degli episodi tutte in una volta sola, ma devono aver proceduto allo sviluppo di nuove idee nel corso del processo creativo, elaborando nuovi materiali da includere ed introducendo quelle modifiche che essi desiderarono apportare ai progetti originali.
Una simile concezione delle modalità compositive alla base dei poemi omerici diverge sensibilmente rispetto alla visione più largamente condivisa dalla critica delle ultime due generazioni. Sulla scorta della suddetta teoria tradizionale, i poeti dell’Iliade e dell’Odissea sarebbero stati poeti orali che avrebbero composto oralmente le proprie opere.[…] Ma non possiamo esimerci dal considerare indiscutibile il fatto che l’Iliade e l’Odissea sono, così come li possediamo, poemi scritti. Quale fu dunque la genesi di questi testi scritti? I Greci non potevano contare su registratori audio attraverso i quali catturare le performances orali, e in ogni caso questi due poemi sono assai più estesi di quanto una qualsivoglia esibizione orale avrebbe potuto essere. La risposta più comune a questo interrogativo si articola sul modello fornito da Parry e dal suo assistente, Lord: la registrazione attraverso dettatura di alcuni canti epici serbo-croati sembrerebbe indicare la possibilità che l’Iliade e l’Odissea fossero state dettate per un certo numero di giorni consecutivamente, e pertanto registrate, da poeti orali. Ora, si dia il caso che un poeta abbia potuto concepire un gigantesco poema epico di proporzioni simili a quelle dell’Iliade e dell’Odissea - un poema epico così esteso da poter essere eseguito oralmente solo per tappe nell’arco di un certo lasso di tempo - e ne abbia compiutamente ordito a mente struttura e sequenze episodiche: non sono in grado di negare che possa essere stato possibile, per quel poeta, dettare il poema lungo un lasso di tempo di tre o quattro settimane, iniziando dal principio e procedendo sino alla fine nel rispetto della concatenazione ordinata delle sequenze narrative. Ma, nella forma in cui li possediamo, i poemi non sono compatibili con un procedimento di elaborazione così semplice e diretto.
Ho pubblicato di recente un volume dal titolo The Making of the Iliad, nel quale ho tentato di dimostrare che l’Iliade non fu composta seguendo una concatenazione lineare che dal primo libro conduca sino al ventiquattresimo. Talune sezioni collocate ad un certo punto del poema furono composte prima di altre parti precedenti tali sezioni. Esistono davvero, come pensavano gli esponenti della critica analitica del diciannovesimo secolo, diversi strati compositivi: ma, mentre essi presumevano che ogni strato fosse il prodotto di un poeta via via diverso, io considero tali strati quali tappe susseguentisi delle elaborazioni di un solo poeta. Quello a cui penso non è un poeta che ad un certo punto decise di affidare la propria opera alla scrittura in un unico momento creativo, bensì un poeta che la realizzò nel corso di molti anni, dettandone porzioni in momenti diversi o, forse, mettendole per iscritto di sua propria mano, e che poi, con il trascorrere del tempo, corredò di aggiunte ed inserzioni parti dell’opera composte in precedenza. Il suo progetto originale doveva risultare ben più compatto di quanto non sia divenuta l’Iliade che noi possediamo e che è il frutto di espansioni dovute all’inserimento di sempre più numerosi episodi secondari, alcuni dei quali, forse, ricavati ed adattati da altri poemi presenti nel suo repertorio orale.
[…] Ora, permettetemi di proporvi un abbozzo del disegno che ritengo sia alla base della genesi dell’Odissea. Nel corso della seconda metà dell’ottavo secolo e all’inizio del settimo, l’epica ionica visse una straordinaria stagione di splendore quale mai in precedenza. Poeti orali, che si accompagnavano con lire a quattro corde, ricantavano le leggende della tradizione, in particolare quelle relative alla guerra di Troia. Fu un momento in cui gli scambi tra Greci e popolazioni vicine si intensificarono, con il risultato che nuove storie, racconti e motivi giunsero all’attenzione dei poeti. Potrebbe forse essere stato questo il momento in cui racconti popolari incentrati sul Ritorno del Marito e sull’inganno del Gigante Monocolo, che presentano paralleli soprattutto in Asia centrale, cominciarono a circolare in Grecia. Tuttavia, un poeta che avesse voluto farli propri e modularne lo stile in chiave epica avrebbe dovuto adattarli all’interno del contesto epico del mondo eroico; ciò significava che egli avrebbe dovuto reperire un eroe epico noto che assumesse il ruolo di protagonista in quei racconti. La scelta di Odisseo era quella di una figura che si prestava assai opportunamente a tale operazione, sia in virtù della sua consolidata fama di uomo dalle grandi risorse e abilità, sia perché, di tutti gli eroi che avevano combattuto a Troia, egli era colui il quale avrebbe dovuto coprire le maggiori distanze per fare ritorno in patria: tutto ciò rendeva particolarmente plausibile l’eventualità che l’eroe subisse ritardi o venisse costretto a deviazioni nel corso del suo viaggio. Il racconto del Gigante Monocolo non garantiva materiale sufficiente perché un’epopea fondata su di esso potesse essere ulteriormente estesa, ma risultava funzionale a un solo episodio che avrebbe ben potuto prestarsi a essere cantato singolarmente. D’altro canto, la storia del Ritorno del Marito implicava una più vasta cornice epica, in grado di abbracciare sia gli eventi che finivano per trattenere il marito lontano dalla patria, sia le movimentate vicende del suo ritorno. Una volta che tale racconto venne associato ad Odisseo, ecco che lì si formò una proto-Odissea. Il viaggio di Odisseo verso casa dovette a quel punto essere integrato grazie all’inserzione di un numero di avventure sufficiente a giustificare i contrattempi che, nell’arco di un certo periodo di anni, ne ritardarono il rimpatrio. Lì a disposizione, pronto all’impiego, v’era il racconto del Ciclope, che tuttavia non sarebbe stato in grado di per sé di render conto di un prolungato lasso di tempo, sì che molto di più dovette essere aggiunto.
Il poeta dell’Odissea, o uno tra quanti lo precedettero, escogitò pertanto un itinerario che conducesse Odisseo prima nel Mediterraneo orientale, per il Levante e l’Egitto, quindi verso ovest fin dalla figlia d’Atlante, presso l’Ombelico del Mare, dove l’eroe giunse in solitaria e privo di imbarcazione, per far infine ritorno ad Itaca passando dalla Scheria e dalla Tesprozia. Bufere e tempeste scoppiate in vari momenti lo allontanarono dalla rotta stabilita e frustrarono i suoi disegni. Soggiorni forzati, presso svariate località, estesero le sue peregrinazioni fino a coprire un arco di tre anni. Il poeta della nostra Odissea doveva essere assai ben informato circa gli altri racconti epici che circolavano sul conto di eroi provenienti da Troia e impegnati nel ritorno in patria, e in particolare doveva ben conoscere il racconto relativo ad Agamennone, alla sua uccisione da parte della moglie e alla sua vendetta per opera del figlio, tutti aspetti a cui il poeta fa ripetutamente riferimento. Egli dovette quindi rendersi conto del contrappunto che poteva istituirsi tra il racconto del ritorno di Odisseo e quello relativo ad Agamennone: Penelope, la moglie fedele, poteva infatti essere contrapposta alla fedifraga Clitemnestra, così come l’eroica impresa di Oreste in difesa degli interessi paterni poteva fungere da modello per Telemaco. E tuttavia, riflettendo sul racconto di Agamennone, il poeta fu colpito dal fatto che Menelao non vi comparisse. Trovarsi alle prese con tale problema lo indusse a trasferire su Menelao le avventure di Odisseo nel Mediterraneo orientale, privando così quest’ultimo della profezia di Proteo e rendendo il suo incontro con Eolo, il signore dei venti, fortuito anziché intenzionale. Ciò lo spinse inoltre ad aumentare l’estensione delle peregrinazioni di Odisseo da tre anni a dieci, facendo sostare l’eroe per sette anni presso Calipso.
Il nostro poeta rimase inoltre assai colpito da un racconto epico relativo al viaggio della nave Argo in regioni remote e leggendarie. In tale racconto egli trovò ulteriori episodi, che pensò di poter sfruttare per aumentare il numero delle peregrinazioni di Odisseo. Realizzò pertanto una sequenza di tali episodi e la inserì tra Eolo e Calipso, con il risultato, da un lato, di mandare a monte il proprio quadro geografico, ma riuscendo, dall’altro, ad ottenere una ricca messe di coloriti eventi. L’Ombelico del Mare di Calipso non sarebbe dunque più stato il punto estremo raggiunto dalle peregrinazioni di Odisseo, dal momento che l’eroe aveva addirittura attraversato il corso di Oceano per giungere alle case di Ade. E se lì l’eroe giunse, allora ebbe la possibilità di parlare alle anime dei morti e di interrogare Tiresia. Non c’era alcun bisogno, dunque, che Odisseo sostasse in Tesprozia, ragione per cui quella tappa fu scartata.
In questo modo la nostra Odissea conobbe la sua evoluzione, in un fermento di idee che di volta in volta si svilupparono e mutarono e nell’assimilazione di nuovi motivi da una pluralità di fonti. Non v’è pertanto di che meravigliarsi se essa ci colpisce con una ventata di freschezza ed inventiva, ma anche con la sensazione che non ogni parte sia stata adeguatamente incorporata e armonizzata, con la sensazione, cioè, che il prodotto che ci viene posto dinanzi agli occhi non sia del tutto perfetto né completamente finito, ma soltanto quasi perfetto e quasi finito. Eppure, non è forse questa imperfezione di gran lunga più affascinante di quanto non sarebbe stata una perfezione senza macchia, quel tipo di perfezione che nasconde gli sforzi affrontati dall’artista senza che ci venga fornito il ben che minimo indizio di quali siano stati i processi che produssero il risultato finale? Nella forma in cui l’opera ci si presenta, la sensazione che abbiamo è di riuscire a dare una sbirciata nel laboratorio del poeta e vedere così il dipanarsi di cose meravigliose.
Nel laboratorio dei poemi omerici
Le deviazioni di Ulisse
Molte storie di Iliade e Odissea nascono da leggende popolari, e rivelano influssi orientali. Come l’epico viaggio del nostro eroe
di Martin West
My heart’s grown heavy, my knees will not support me, that once on a time were fleet for the dance as fawns (il mio cuore è cresciuto pesante, le mie ginocchia non mi sostengono/ loro che una volta erano agili per la danza come quelle dei cerbiatti): traducendoli così in inglese, Martin West, scomparso lo scorso 13 luglio a 77 anni, ha fatto conoscere al mondo i nuovi versi da lui scoperti di Saffo. Ci ha lasciati il più grande grecista contemporaneo che ha dato contributi fondamentali in ogni campo della filologia classica: studioso della Teogonia e delle Opere e i giorni di Esiodo, ma anche il primo a costruire ponti nei rapporti fra filosofia greca e sapienza orientale, come recita la laudatio del premio Balzan conferitogli nel 2000. West è stato editore critico e commentatore dei testi più complessi della letteratura greca, fra cui i poeti giambici ed elegiaci per le edizioni oxoniensi. Importante ricordare anche i frammenti esiodei editi con Merkelbach e gli studi sul tragico Eschilo. Egli era riuscito ad andare a fondo nel laboratorio di scrittura di Omero, scrutando le diverse fasi di lavorazione dei poemi e individuando i motivi derivati da una certa tradizione ancestrale del Vicino Oriente. Si ricorda anche come intellettuale che ha vissuto la sua dimensione di studioso senza disperdersi in eccessive apparizioni pubbliche, riservate forse più a un’ultima parte della sua vita, che lo aveva visto protagonista nell’Università di Urbino, ma anche a Parma e a Bologna invitato da Gabriele Burzacchini nel 2011. Le sue lezioni sono un patrimonio da raccogliere, proprio come questa che vi proponiamo, pronunciata in italiano nel maggio 2011 e che Roberto Rossi (curatore di un sito sul greco antico) ci ha messo a disposizione. Il viaggio di Odisseo, viene qui studiato alla luce di altri viaggi di ritorno, ad esempio quello di Agamennone e viene definito “deviato”, in quanto il poeta aveva bisogno di far vagare Menelao, fratello di Agamennone che non era intervenuto per fermare l’assassinio, verso l’Oriente e farlo ritornare dopo la morte di Agamennone, quasi per giustificarlo; intanto bisognava mandare Odisseo verso Occidente, allungando il suo percorso da tre a dieci anni per farlo rimpatriare dopo Menelao. Probabilmente la storia d’amore fra Odisseo e Calipso non è stata altro che un espediente d’autore e un filologo questo disincanto deve scoprirlo e raccontarlo.
Dorella Cianci
Dicono che una donna avveduta farebbe bene a prendere in marito un archeologo, dal momento che più lei invecchia, più il consorte la troverà interessante. Sono più di cinquant’anni che convivo con due sorelle maggiori, di nome Iliade ed Odissea, e quel che posso dirvi è che in questo lasso di tempo il fascino da loro esercitato nei miei confronti e la mia curiosità nei loro continuano a crescere. E ciò che più d’ogni altra cosa m’affascina è la loro anatomia: il modo in cui le loro ossa si adattano le une alle altre, come la carne si sia sviluppata su di esse, che cosa sia osso e che cosa sia carne, e le eventuali cicatrici da chirurgia estetica che esse rechino. Fuor di metafora, avverto un coinvolgimento via via sempre maggiore nel problema relativo alle origini dei poemi omerici: il retroterra e la preistoria della tradizione epica greca, nonché le modalità attraverso le quali l’Iliade e l’Odissea furono plasmate dai rispettivi creatori a partire da materiali preesistenti. Si tratta, in entrambi i casi, di poemi assai estesi e complessi, e credo che i rispettivi poeti abbiano dovuto lavorarvi per molti anni prima di riuscire a condurli alla forma che noi conosciamo. Non è possibile che suddetti poeti abbiano concepito l’intera struttura del poema e la completa articolazione sequenziale degli episodi tutte in una volta sola, ma devono aver proceduto allo sviluppo di nuove idee nel corso del processo creativo, elaborando nuovi materiali da includere ed introducendo quelle modifiche che essi desiderarono apportare ai progetti originali.
Una simile concezione delle modalità compositive alla base dei poemi omerici diverge sensibilmente rispetto alla visione più largamente condivisa dalla critica delle ultime due generazioni. Sulla scorta della suddetta teoria tradizionale, i poeti dell’Iliade e dell’Odissea sarebbero stati poeti orali che avrebbero composto oralmente le proprie opere.[…] Ma non possiamo esimerci dal considerare indiscutibile il fatto che l’Iliade e l’Odissea sono, così come li possediamo, poemi scritti. Quale fu dunque la genesi di questi testi scritti? I Greci non potevano contare su registratori audio attraverso i quali catturare le performances orali, e in ogni caso questi due poemi sono assai più estesi di quanto una qualsivoglia esibizione orale avrebbe potuto essere. La risposta più comune a questo interrogativo si articola sul modello fornito da Parry e dal suo assistente, Lord: la registrazione attraverso dettatura di alcuni canti epici serbo-croati sembrerebbe indicare la possibilità che l’Iliade e l’Odissea fossero state dettate per un certo numero di giorni consecutivamente, e pertanto registrate, da poeti orali. Ora, si dia il caso che un poeta abbia potuto concepire un gigantesco poema epico di proporzioni simili a quelle dell’Iliade e dell’Odissea - un poema epico così esteso da poter essere eseguito oralmente solo per tappe nell’arco di un certo lasso di tempo - e ne abbia compiutamente ordito a mente struttura e sequenze episodiche: non sono in grado di negare che possa essere stato possibile, per quel poeta, dettare il poema lungo un lasso di tempo di tre o quattro settimane, iniziando dal principio e procedendo sino alla fine nel rispetto della concatenazione ordinata delle sequenze narrative. Ma, nella forma in cui li possediamo, i poemi non sono compatibili con un procedimento di elaborazione così semplice e diretto.
Ho pubblicato di recente un volume dal titolo The Making of the Iliad, nel quale ho tentato di dimostrare che l’Iliade non fu composta seguendo una concatenazione lineare che dal primo libro conduca sino al ventiquattresimo. Talune sezioni collocate ad un certo punto del poema furono composte prima di altre parti precedenti tali sezioni. Esistono davvero, come pensavano gli esponenti della critica analitica del diciannovesimo secolo, diversi strati compositivi: ma, mentre essi presumevano che ogni strato fosse il prodotto di un poeta via via diverso, io considero tali strati quali tappe susseguentisi delle elaborazioni di un solo poeta. Quello a cui penso non è un poeta che ad un certo punto decise di affidare la propria opera alla scrittura in un unico momento creativo, bensì un poeta che la realizzò nel corso di molti anni, dettandone porzioni in momenti diversi o, forse, mettendole per iscritto di sua propria mano, e che poi, con il trascorrere del tempo, corredò di aggiunte ed inserzioni parti dell’opera composte in precedenza. Il suo progetto originale doveva risultare ben più compatto di quanto non sia divenuta l’Iliade che noi possediamo e che è il frutto di espansioni dovute all’inserimento di sempre più numerosi episodi secondari, alcuni dei quali, forse, ricavati ed adattati da altri poemi presenti nel suo repertorio orale.
[…] Ora, permettetemi di proporvi un abbozzo del disegno che ritengo sia alla base della genesi dell’Odissea. Nel corso della seconda metà dell’ottavo secolo e all’inizio del settimo, l’epica ionica visse una straordinaria stagione di splendore quale mai in precedenza. Poeti orali, che si accompagnavano con lire a quattro corde, ricantavano le leggende della tradizione, in particolare quelle relative alla guerra di Troia. Fu un momento in cui gli scambi tra Greci e popolazioni vicine si intensificarono, con il risultato che nuove storie, racconti e motivi giunsero all’attenzione dei poeti. Potrebbe forse essere stato questo il momento in cui racconti popolari incentrati sul Ritorno del Marito e sull’inganno del Gigante Monocolo, che presentano paralleli soprattutto in Asia centrale, cominciarono a circolare in Grecia. Tuttavia, un poeta che avesse voluto farli propri e modularne lo stile in chiave epica avrebbe dovuto adattarli all’interno del contesto epico del mondo eroico; ciò significava che egli avrebbe dovuto reperire un eroe epico noto che assumesse il ruolo di protagonista in quei racconti. La scelta di Odisseo era quella di una figura che si prestava assai opportunamente a tale operazione, sia in virtù della sua consolidata fama di uomo dalle grandi risorse e abilità, sia perché, di tutti gli eroi che avevano combattuto a Troia, egli era colui il quale avrebbe dovuto coprire le maggiori distanze per fare ritorno in patria: tutto ciò rendeva particolarmente plausibile l’eventualità che l’eroe subisse ritardi o venisse costretto a deviazioni nel corso del suo viaggio. Il racconto del Gigante Monocolo non garantiva materiale sufficiente perché un’epopea fondata su di esso potesse essere ulteriormente estesa, ma risultava funzionale a un solo episodio che avrebbe ben potuto prestarsi a essere cantato singolarmente. D’altro canto, la storia del Ritorno del Marito implicava una più vasta cornice epica, in grado di abbracciare sia gli eventi che finivano per trattenere il marito lontano dalla patria, sia le movimentate vicende del suo ritorno. Una volta che tale racconto venne associato ad Odisseo, ecco che lì si formò una proto-Odissea. Il viaggio di Odisseo verso casa dovette a quel punto essere integrato grazie all’inserzione di un numero di avventure sufficiente a giustificare i contrattempi che, nell’arco di un certo periodo di anni, ne ritardarono il rimpatrio. Lì a disposizione, pronto all’impiego, v’era il racconto del Ciclope, che tuttavia non sarebbe stato in grado di per sé di render conto di un prolungato lasso di tempo, sì che molto di più dovette essere aggiunto.
Il poeta dell’Odissea, o uno tra quanti lo precedettero, escogitò pertanto un itinerario che conducesse Odisseo prima nel Mediterraneo orientale, per il Levante e l’Egitto, quindi verso ovest fin dalla figlia d’Atlante, presso l’Ombelico del Mare, dove l’eroe giunse in solitaria e privo di imbarcazione, per far infine ritorno ad Itaca passando dalla Scheria e dalla Tesprozia. Bufere e tempeste scoppiate in vari momenti lo allontanarono dalla rotta stabilita e frustrarono i suoi disegni. Soggiorni forzati, presso svariate località, estesero le sue peregrinazioni fino a coprire un arco di tre anni. Il poeta della nostra Odissea doveva essere assai ben informato circa gli altri racconti epici che circolavano sul conto di eroi provenienti da Troia e impegnati nel ritorno in patria, e in particolare doveva ben conoscere il racconto relativo ad Agamennone, alla sua uccisione da parte della moglie e alla sua vendetta per opera del figlio, tutti aspetti a cui il poeta fa ripetutamente riferimento. Egli dovette quindi rendersi conto del contrappunto che poteva istituirsi tra il racconto del ritorno di Odisseo e quello relativo ad Agamennone: Penelope, la moglie fedele, poteva infatti essere contrapposta alla fedifraga Clitemnestra, così come l’eroica impresa di Oreste in difesa degli interessi paterni poteva fungere da modello per Telemaco. E tuttavia, riflettendo sul racconto di Agamennone, il poeta fu colpito dal fatto che Menelao non vi comparisse. Trovarsi alle prese con tale problema lo indusse a trasferire su Menelao le avventure di Odisseo nel Mediterraneo orientale, privando così quest’ultimo della profezia di Proteo e rendendo il suo incontro con Eolo, il signore dei venti, fortuito anziché intenzionale. Ciò lo spinse inoltre ad aumentare l’estensione delle peregrinazioni di Odisseo da tre anni a dieci, facendo sostare l’eroe per sette anni presso Calipso.
Il nostro poeta rimase inoltre assai colpito da un racconto epico relativo al viaggio della nave Argo in regioni remote e leggendarie. In tale racconto egli trovò ulteriori episodi, che pensò di poter sfruttare per aumentare il numero delle peregrinazioni di Odisseo. Realizzò pertanto una sequenza di tali episodi e la inserì tra Eolo e Calipso, con il risultato, da un lato, di mandare a monte il proprio quadro geografico, ma riuscendo, dall’altro, ad ottenere una ricca messe di coloriti eventi. L’Ombelico del Mare di Calipso non sarebbe dunque più stato il punto estremo raggiunto dalle peregrinazioni di Odisseo, dal momento che l’eroe aveva addirittura attraversato il corso di Oceano per giungere alle case di Ade. E se lì l’eroe giunse, allora ebbe la possibilità di parlare alle anime dei morti e di interrogare Tiresia. Non c’era alcun bisogno, dunque, che Odisseo sostasse in Tesprozia, ragione per cui quella tappa fu scartata.
In questo modo la nostra Odissea conobbe la sua evoluzione, in un fermento di idee che di volta in volta si svilupparono e mutarono e nell’assimilazione di nuovi motivi da una pluralità di fonti. Non v’è pertanto di che meravigliarsi se essa ci colpisce con una ventata di freschezza ed inventiva, ma anche con la sensazione che non ogni parte sia stata adeguatamente incorporata e armonizzata, con la sensazione, cioè, che il prodotto che ci viene posto dinanzi agli occhi non sia del tutto perfetto né completamente finito, ma soltanto quasi perfetto e quasi finito. Eppure, non è forse questa imperfezione di gran lunga più affascinante di quanto non sarebbe stata una perfezione senza macchia, quel tipo di perfezione che nasconde gli sforzi affrontati dall’artista senza che ci venga fornito il ben che minimo indizio di quali siano stati i processi che produssero il risultato finale? Nella forma in cui l’opera ci si presenta, la sensazione che abbiamo è di riuscire a dare una sbirciata nel laboratorio del poeta e vedere così il dipanarsi di cose meravigliose.
Il Sole Domenica 19.7.15
Concita De Gregorio
Ballata di sogni angoscianti
di Elisabetta Rasy
Certi casi di cronaca nera colpiscono in modo particolare l’immaginario dell’angoscia. Non si tratta solo o specialmente di storie cruente o di esplosioni di violenza. Sono in genere vicende che assomigliano, più che alla peggiore realtà, al peggiore degli incubi: dell’incubo hanno quell’aspetto di mistero, d’inspiegabilità e d’incongruità che tanto ci turba. Sicuramente, almeno per me, così è la storia di Mathias Schepp e delle sue bimbe gemelle di cinque anni, Alessia e Livia, scomparse per sempre e davvero senza lasciare traccia una domenica di fine gennaio del 2011. Dopo cinque giorni di domande senza risposta, indagini senza risultati e notizie perturbanti, il corpo dell’uomo viene trovato maciullato dal treno sui binari di una ferrovia in Puglia. Dov’erano le bambine? Non si sapeva, non si è mai saputo. «Non le vedrai mai più», aveva scritto il padre alla moglie, che pochi giorni prima della sua scomparsa con le figlie gli aveva chiesto di avviare le pratiche di divorzio. Qualcuno, per qualche tempo, nei posti più distanti, ha segnalato di aver avvistato le piccole, ma in realtà Alessia e Livia erano sprofondate in un indelebile nulla. A differenza di quanto accade nel più terribile dei miti antichi sulla vendetta coniugale, l’infanticidio di Medea, in questa storia non c’è il ritrovamento di corpi innocenti insanguinati. Solo quel nulla che ha inghiottito tutte le domande, mentre le cronache lentamente si andavano spegnendo e l’unica traccia nella memoria era appunto quella di un incubo, qualcosa di terribile e incomprensibile insieme.
Ma in questa vicenda c’è una superstite, ferita al cuore dalla tragedia ma sopravvissuta: Irina Lucidi, la madre delle bambine. Una donna italiana colta, professionista di successo a Losanna, dall’esistenza semplice ma ben organizzata, che non può capire, che non riesce a farsi entrare nella mente come il bell’ingegnere svizzero sposato proprio in vista della nascita delle bambine, un uomo molto ordinato e molto controllato, abbia potuto trasformarsi nella furia cieca che ha investito la sua vita. Irina chiede, parla, scrive a tutti quelli che riesce a contattare, parenti, insegnanti delle piccole, autorità. Irina chiede ascolto, ma non lo trova: il mondo sembra ritrarsi davanti a lei e alla sua pena. È da questa domanda di ascolto, ancora più che da un desiderio di giustizia, che sembra essere nato il libro dedicato alla sua storia da Concita De Gregorio, Mi sa che fuori è primavera. La fascetta con cui l’editore Feltrinelli ne accompagna la pubblicazione recita: «Da un tragico fatto di cronaca una struggente storia d’amore e di speranza». Vero, ma la storia d’Irina Lucidi è anche qualcosa di più: una specie di corpo a corpo con la vita, combattuto da una donna che è stata schiacciata da un dramma pietrificante e cerca una strada, un filo interiore che non solo le consenta di sopravvivere ma anche di preservare la ragione e l’umanità.
Sicuramente così la racconta Concita De Gregorio in un libro che fa pensare più a una ballata che a un romanzo. Ci sono temi che ritornano, temi che si intrecciano, la voce di chi scrive, quella di chi racconta e il rumore di fondo dei ricordi - infantili, famigliari, sentimentali, materni: una matassa dolorosa che è necessario dipanare per continuare a esistere. Il lavoro dell’autrice è semplice e difficile: bisogna narrare una storia vera, cioè non solo resocontarla come fanno le cronache inseguendo la logica dei fatti che finisce per falsarla mano a mano che le notizie prima si accavallano, poi si confondono, infine svaniscono. Che storia è quella di Irina dopo la tragedia? In primo luogo la storia di una solitudine femminile. Non solo per la perdita subita, ma perché è come se inesorabilmente il peso della colpa passasse dal carnefice a lei, la vittima. Difficile il rapporto con la polizia (all’inizio non credono al rapimento perché «suo marito non è un brasiliano ma uno svizzero»), impossibile il rapporto con la terapeuta che aveva in cura l’uomo, inesistente quello con la famiglia di lui, persino le maestre delle bambine la sfuggono. Lei dice che le autorità inquirenti l’hanno trattata con diffidenza perché era una donna e un’italiana. Sicuramente possibile, ma mentre il racconto procede il lettore avverte qualche altra cosa, ancora più penosa : come l’onda burrascosa del dolore personale non possa che infrangersi e venire respinta dal muro della burocrazia o dal fatale ritrarsi di chi non vuole essere contagiano da un male così grande e addirittura addossa alla vittima, la madre privata delle figlie, la responsabilità di non aver capito o previsto le assolutamente imprevedibili e più che estreme intenzioni del marito.
Irina, però , ha deciso di sopravvivere. Concita De Gregorio racconta nella sua ballata, per frammenti e ricorrenti “a solo”, le tappe di questa difficile decisione. Rianimare la memoria antica della propria storia familiare; fondare un’associazione, a nome delle gemelle, che si occupi di bambini scomparsi in Svizzera; viaggiare, spostarsi, insediarsi in un’altra città, con un nuovo amore, una nuova vita. Ma sarebbe troppo facile se fosse un happy end. Prima di uscire con il suo personaggio - dopo un ultimo ascolto, un’ultima conversazione e un’ultima ricerca di verità- per vedere se per caso fuori splenda ancora, come una volta, la primavera, l’autrice ci parla della «parola mancante»: un breve viaggio nelle lingue di oggi e di ieri alla ricerca del termine che indica una madre che ha perso i figli. Ogni lingua si arrangia come può, ma un termine esatto non c’è, è una condizione che una sola parola non può racchiudere. Come la storia di Irina, che si dissemina e si rifrange in tante schegge, perché un solo racconto non basta a contenerla.
Concita De Gregorio, Mi sa che fuori è primavera, Feltrinelli, Milano, pagg. 122,
€ 13.00
Concita De Gregorio
Ballata di sogni angoscianti
di Elisabetta Rasy
Certi casi di cronaca nera colpiscono in modo particolare l’immaginario dell’angoscia. Non si tratta solo o specialmente di storie cruente o di esplosioni di violenza. Sono in genere vicende che assomigliano, più che alla peggiore realtà, al peggiore degli incubi: dell’incubo hanno quell’aspetto di mistero, d’inspiegabilità e d’incongruità che tanto ci turba. Sicuramente, almeno per me, così è la storia di Mathias Schepp e delle sue bimbe gemelle di cinque anni, Alessia e Livia, scomparse per sempre e davvero senza lasciare traccia una domenica di fine gennaio del 2011. Dopo cinque giorni di domande senza risposta, indagini senza risultati e notizie perturbanti, il corpo dell’uomo viene trovato maciullato dal treno sui binari di una ferrovia in Puglia. Dov’erano le bambine? Non si sapeva, non si è mai saputo. «Non le vedrai mai più», aveva scritto il padre alla moglie, che pochi giorni prima della sua scomparsa con le figlie gli aveva chiesto di avviare le pratiche di divorzio. Qualcuno, per qualche tempo, nei posti più distanti, ha segnalato di aver avvistato le piccole, ma in realtà Alessia e Livia erano sprofondate in un indelebile nulla. A differenza di quanto accade nel più terribile dei miti antichi sulla vendetta coniugale, l’infanticidio di Medea, in questa storia non c’è il ritrovamento di corpi innocenti insanguinati. Solo quel nulla che ha inghiottito tutte le domande, mentre le cronache lentamente si andavano spegnendo e l’unica traccia nella memoria era appunto quella di un incubo, qualcosa di terribile e incomprensibile insieme.
Ma in questa vicenda c’è una superstite, ferita al cuore dalla tragedia ma sopravvissuta: Irina Lucidi, la madre delle bambine. Una donna italiana colta, professionista di successo a Losanna, dall’esistenza semplice ma ben organizzata, che non può capire, che non riesce a farsi entrare nella mente come il bell’ingegnere svizzero sposato proprio in vista della nascita delle bambine, un uomo molto ordinato e molto controllato, abbia potuto trasformarsi nella furia cieca che ha investito la sua vita. Irina chiede, parla, scrive a tutti quelli che riesce a contattare, parenti, insegnanti delle piccole, autorità. Irina chiede ascolto, ma non lo trova: il mondo sembra ritrarsi davanti a lei e alla sua pena. È da questa domanda di ascolto, ancora più che da un desiderio di giustizia, che sembra essere nato il libro dedicato alla sua storia da Concita De Gregorio, Mi sa che fuori è primavera. La fascetta con cui l’editore Feltrinelli ne accompagna la pubblicazione recita: «Da un tragico fatto di cronaca una struggente storia d’amore e di speranza». Vero, ma la storia d’Irina Lucidi è anche qualcosa di più: una specie di corpo a corpo con la vita, combattuto da una donna che è stata schiacciata da un dramma pietrificante e cerca una strada, un filo interiore che non solo le consenta di sopravvivere ma anche di preservare la ragione e l’umanità.
Sicuramente così la racconta Concita De Gregorio in un libro che fa pensare più a una ballata che a un romanzo. Ci sono temi che ritornano, temi che si intrecciano, la voce di chi scrive, quella di chi racconta e il rumore di fondo dei ricordi - infantili, famigliari, sentimentali, materni: una matassa dolorosa che è necessario dipanare per continuare a esistere. Il lavoro dell’autrice è semplice e difficile: bisogna narrare una storia vera, cioè non solo resocontarla come fanno le cronache inseguendo la logica dei fatti che finisce per falsarla mano a mano che le notizie prima si accavallano, poi si confondono, infine svaniscono. Che storia è quella di Irina dopo la tragedia? In primo luogo la storia di una solitudine femminile. Non solo per la perdita subita, ma perché è come se inesorabilmente il peso della colpa passasse dal carnefice a lei, la vittima. Difficile il rapporto con la polizia (all’inizio non credono al rapimento perché «suo marito non è un brasiliano ma uno svizzero»), impossibile il rapporto con la terapeuta che aveva in cura l’uomo, inesistente quello con la famiglia di lui, persino le maestre delle bambine la sfuggono. Lei dice che le autorità inquirenti l’hanno trattata con diffidenza perché era una donna e un’italiana. Sicuramente possibile, ma mentre il racconto procede il lettore avverte qualche altra cosa, ancora più penosa : come l’onda burrascosa del dolore personale non possa che infrangersi e venire respinta dal muro della burocrazia o dal fatale ritrarsi di chi non vuole essere contagiano da un male così grande e addirittura addossa alla vittima, la madre privata delle figlie, la responsabilità di non aver capito o previsto le assolutamente imprevedibili e più che estreme intenzioni del marito.
Irina, però , ha deciso di sopravvivere. Concita De Gregorio racconta nella sua ballata, per frammenti e ricorrenti “a solo”, le tappe di questa difficile decisione. Rianimare la memoria antica della propria storia familiare; fondare un’associazione, a nome delle gemelle, che si occupi di bambini scomparsi in Svizzera; viaggiare, spostarsi, insediarsi in un’altra città, con un nuovo amore, una nuova vita. Ma sarebbe troppo facile se fosse un happy end. Prima di uscire con il suo personaggio - dopo un ultimo ascolto, un’ultima conversazione e un’ultima ricerca di verità- per vedere se per caso fuori splenda ancora, come una volta, la primavera, l’autrice ci parla della «parola mancante»: un breve viaggio nelle lingue di oggi e di ieri alla ricerca del termine che indica una madre che ha perso i figli. Ogni lingua si arrangia come può, ma un termine esatto non c’è, è una condizione che una sola parola non può racchiudere. Come la storia di Irina, che si dissemina e si rifrange in tante schegge, perché un solo racconto non basta a contenerla.
Concita De Gregorio, Mi sa che fuori è primavera, Feltrinelli, Milano, pagg. 122,
€ 13.00
Il Sole Domenica 19.7.15
Vasilij Semënovich Grossman (1905-1964)
L’Armata rossa senza filtri
Pubblicati gli straordinari taccuini sulla guerra dal ’41 al ’45 quando lo scrittore ucraino era inviato al fronte
di Francesco M. Cataluccio
Quando, nell’estate del 1941, la Germania invase l’Unione Sovietica (rompendo il Patto Ribbentrop-Molotov grazie al quale si erano, tra l’altro, spartiti la Polonia), Vasilij Semënovi? Grossman (1905-1964) era un ingegnere ucraino di origine ebraica che, negli anni Trenta, era diventato uno scrittore e aveva pubblicato due romanzi in puro stile staliniano, seppur non privi di valori letterari. Era scampato miracolosamente alle persecuzioni che colpirono i tecnici e gli intellettuali, anche perché, a differenza, ad esempio, di Michail A. Bulgakov, aveva creduto nel comunismo pur non essendosi mai iscritto al Partito, e fatto parte della nomenklatura intellettuale sovietica. Con grande slancio patriottico Grossman si offrì volontario per partire in guerra, ma fu scartato per inadeguatezza fisica. Riuscì però a farsi arruolare come corrispondente di guerra per «Stella Rossa», il quotidiano ufficiale dell’Armata Rossa. Le foto dell’epoca ce lo mostrano come un uomo non più giovane, con l’aria malinconica e miope, accentuata dagli occhialini tondi un po’ sghimbesci, infagottato in una divisa militare, della quale andava molto orgoglioso.
Il volume Uno scrittore in guerra (2015), basato sui taccuini di guerra, articoli, saggi conservati negli Archivi, lettere alla figlia e al figliastro, non è propriamente un libro di Grossman. Infatti i curatori Antony Beevor e Luba Vinogradova hanno montato sapientemente gli scritti, editi e inediti, di Grossman mentre era corrispondente di guerra, tra il 1941 e il 1945. Ne risulta un libro molto bello: il racconto biografico e polifonico di una guerra tremenda ed eroica, un’alternanza continua di dolori, orrore e gioie, illusioni e disincanto. Un’opera che ci permette di ricostruire, al di là della retorica, la “Grande guerra patriottica” sovietica: l’esperienza umana fondamentale nella vita di Grossman (come di moltissimi sovietici). Da essa prese avvio la sua presa di coscienza critica e un percorso letterario che farà di Grossman uno dei più grandi scrittori russi di tutti i tempi e un lucido accusatore degli orrori dello stalinismo e dell’antisemitismo.
Dopo la fine della guerra, riavutosi da un grave esaurimento nervoso, Grossman riprese in mano il materiale raccolto e scritto, solo in piccola parte pubblicato quando si trovava al fronte, e iniziò a scrivere una trilogia unitaria (questo spiega perché le prime cento pagine della seconda parte, Vita e destino, sono per il lettore così faticose, alcune figure così oscure e il finale appaia tronco: in mancanza della traduzione italiana del primo volume, si consiglia, per orientarsi, di leggere prima proprio Uno scrittore in guerra e poi, su internet, issuu.com/vasilijgrossman/docs/schedapersonaggi). Questa trilogia sulla guerra gli procurò parecchi guai, dopo le prime avvisaglie avute con la mancata pubblicazione del Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945 (trad. it. Mondadori 1999), commissionato dal Comitato Ebraico Antifascista a lui e a Il’ja G. Erenburg (autore, nel 1921, del notevole Le straordinarie avventure di Julio Jurenito, tradotto da Einaudi nel 1968, e del famoso Il disgelo del 1955).
Il primo, e ultimo, romanzo della trilogia che Grossman pubblicò fu Per una giusta causa (1952). La censura lo costrinse ad apportare molti cambiamenti: nel libro infatti non si menzionava mai Stalin; si sminuivano le conquiste del Partito comunista e si accennava agli episodi di collaborazione con il nemico e di violenze inflitte dai soldati sovietici alla popolazione civile tedesca. Il romanzo ebbe comunque molto successo. Il volume seguente, il capolavoro Vita e destino (tradotto splendidamente da Claudia Zonghetti per Adelphi), fu terminato nel 1960 ma, dopo averlo consegnato alla casa editrice, gli fu confiscato dalla polizia segreta. Verrà pubblicato, per la prima volta, in russo, a Losanna dalle Éditions l’Âge d’Homme nel 1980, utilizzando un microfilm misteriosamente trafugato, forse con la complicità del fisico dissidente Andrej Sacharov, dagli archivi del Kgb. Il terzo volume non vedrà mai la luce. Al suo posto Grossman scriverà Tutto scorre (Adelphi, 1987), anch’esso rimasto inedito finchè è esistita l’ Unione Sovietica, dove denunciò, in una sorta di liberatorio testamento, il Gulag, lo sterminio dei piccoli contadini e il sistematico disprezzo della vita e della libertà da parte dei comunisti sovietici, a partire da Lenin.
Le corrispondenze di guerra di Grossman avevano avuto un grande successo perché erano scritte benissimo e facevano capire che egli stava quasi sempre in prima linea, raccontando le battaglie dal punto di vista dei soldati. Ma non aveva potuto raccontare, per ragioni di censura e opportunità, tutto quello che vedeva. Per questo i suoi taccuini, utilizzati per Uno scrittore in guerra, sono tanto più preziosi: scopriamo delle istantanee non ritoccate. Grossman non perse mai «la fede nel soldato semplice russo». Ma di questi soldati, provenienti dalle nazionalità più varie, interpreti e specchio della «spietata verità della guerra», ci mostra le paure (fino ai numerosi atti di autolesionismo), gli eroismi (epiche sono le pagine da Stalingrado, in particolare le gesta del cecchino Anatolij I. ?echov), e persino la bestialità di alcuni che la guerra trasformò in predoni e violentatori. In quella che fu molto di più, e peggio, di una guerra, Grossman prese piena coscienza del proprio ebraismo attraverso l’orrore dello sterminio: la distruzione del paese natale Berdi?ev e la morte della madre abbandonata là (pagg. 61-62 e 294-296); il massacro di Babij Jar (pagg. 290-291); il campo di sterminio di Treblinka (pagg. 324-349); Varsavia rasa al suolo e il ghetto di?? ód?.
Ma la pagina forse più perfetta di tutto il libro, per l’equilibrio tra squallore, tragedia e speranza, è il racconto finale delle rovine dello zoo di Berlino (pagg. 389): la conversazione amara col guardiano, il soldato tedesco ferito che si bacia con l’infermiera...
Vasilij Grossman, Uno scrittore in guerra, a cura di Antony Beevor e Luba Vinogradova, traduzione di Valentina Parisi, Adelphi, Milano pagg. 480, € 23,00
Vasilij Semënovich Grossman (1905-1964)
L’Armata rossa senza filtri
Pubblicati gli straordinari taccuini sulla guerra dal ’41 al ’45 quando lo scrittore ucraino era inviato al fronte
di Francesco M. Cataluccio
Quando, nell’estate del 1941, la Germania invase l’Unione Sovietica (rompendo il Patto Ribbentrop-Molotov grazie al quale si erano, tra l’altro, spartiti la Polonia), Vasilij Semënovi? Grossman (1905-1964) era un ingegnere ucraino di origine ebraica che, negli anni Trenta, era diventato uno scrittore e aveva pubblicato due romanzi in puro stile staliniano, seppur non privi di valori letterari. Era scampato miracolosamente alle persecuzioni che colpirono i tecnici e gli intellettuali, anche perché, a differenza, ad esempio, di Michail A. Bulgakov, aveva creduto nel comunismo pur non essendosi mai iscritto al Partito, e fatto parte della nomenklatura intellettuale sovietica. Con grande slancio patriottico Grossman si offrì volontario per partire in guerra, ma fu scartato per inadeguatezza fisica. Riuscì però a farsi arruolare come corrispondente di guerra per «Stella Rossa», il quotidiano ufficiale dell’Armata Rossa. Le foto dell’epoca ce lo mostrano come un uomo non più giovane, con l’aria malinconica e miope, accentuata dagli occhialini tondi un po’ sghimbesci, infagottato in una divisa militare, della quale andava molto orgoglioso.
Il volume Uno scrittore in guerra (2015), basato sui taccuini di guerra, articoli, saggi conservati negli Archivi, lettere alla figlia e al figliastro, non è propriamente un libro di Grossman. Infatti i curatori Antony Beevor e Luba Vinogradova hanno montato sapientemente gli scritti, editi e inediti, di Grossman mentre era corrispondente di guerra, tra il 1941 e il 1945. Ne risulta un libro molto bello: il racconto biografico e polifonico di una guerra tremenda ed eroica, un’alternanza continua di dolori, orrore e gioie, illusioni e disincanto. Un’opera che ci permette di ricostruire, al di là della retorica, la “Grande guerra patriottica” sovietica: l’esperienza umana fondamentale nella vita di Grossman (come di moltissimi sovietici). Da essa prese avvio la sua presa di coscienza critica e un percorso letterario che farà di Grossman uno dei più grandi scrittori russi di tutti i tempi e un lucido accusatore degli orrori dello stalinismo e dell’antisemitismo.
Dopo la fine della guerra, riavutosi da un grave esaurimento nervoso, Grossman riprese in mano il materiale raccolto e scritto, solo in piccola parte pubblicato quando si trovava al fronte, e iniziò a scrivere una trilogia unitaria (questo spiega perché le prime cento pagine della seconda parte, Vita e destino, sono per il lettore così faticose, alcune figure così oscure e il finale appaia tronco: in mancanza della traduzione italiana del primo volume, si consiglia, per orientarsi, di leggere prima proprio Uno scrittore in guerra e poi, su internet, issuu.com/vasilijgrossman/docs/schedapersonaggi). Questa trilogia sulla guerra gli procurò parecchi guai, dopo le prime avvisaglie avute con la mancata pubblicazione del Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945 (trad. it. Mondadori 1999), commissionato dal Comitato Ebraico Antifascista a lui e a Il’ja G. Erenburg (autore, nel 1921, del notevole Le straordinarie avventure di Julio Jurenito, tradotto da Einaudi nel 1968, e del famoso Il disgelo del 1955).
Il primo, e ultimo, romanzo della trilogia che Grossman pubblicò fu Per una giusta causa (1952). La censura lo costrinse ad apportare molti cambiamenti: nel libro infatti non si menzionava mai Stalin; si sminuivano le conquiste del Partito comunista e si accennava agli episodi di collaborazione con il nemico e di violenze inflitte dai soldati sovietici alla popolazione civile tedesca. Il romanzo ebbe comunque molto successo. Il volume seguente, il capolavoro Vita e destino (tradotto splendidamente da Claudia Zonghetti per Adelphi), fu terminato nel 1960 ma, dopo averlo consegnato alla casa editrice, gli fu confiscato dalla polizia segreta. Verrà pubblicato, per la prima volta, in russo, a Losanna dalle Éditions l’Âge d’Homme nel 1980, utilizzando un microfilm misteriosamente trafugato, forse con la complicità del fisico dissidente Andrej Sacharov, dagli archivi del Kgb. Il terzo volume non vedrà mai la luce. Al suo posto Grossman scriverà Tutto scorre (Adelphi, 1987), anch’esso rimasto inedito finchè è esistita l’ Unione Sovietica, dove denunciò, in una sorta di liberatorio testamento, il Gulag, lo sterminio dei piccoli contadini e il sistematico disprezzo della vita e della libertà da parte dei comunisti sovietici, a partire da Lenin.
Le corrispondenze di guerra di Grossman avevano avuto un grande successo perché erano scritte benissimo e facevano capire che egli stava quasi sempre in prima linea, raccontando le battaglie dal punto di vista dei soldati. Ma non aveva potuto raccontare, per ragioni di censura e opportunità, tutto quello che vedeva. Per questo i suoi taccuini, utilizzati per Uno scrittore in guerra, sono tanto più preziosi: scopriamo delle istantanee non ritoccate. Grossman non perse mai «la fede nel soldato semplice russo». Ma di questi soldati, provenienti dalle nazionalità più varie, interpreti e specchio della «spietata verità della guerra», ci mostra le paure (fino ai numerosi atti di autolesionismo), gli eroismi (epiche sono le pagine da Stalingrado, in particolare le gesta del cecchino Anatolij I. ?echov), e persino la bestialità di alcuni che la guerra trasformò in predoni e violentatori. In quella che fu molto di più, e peggio, di una guerra, Grossman prese piena coscienza del proprio ebraismo attraverso l’orrore dello sterminio: la distruzione del paese natale Berdi?ev e la morte della madre abbandonata là (pagg. 61-62 e 294-296); il massacro di Babij Jar (pagg. 290-291); il campo di sterminio di Treblinka (pagg. 324-349); Varsavia rasa al suolo e il ghetto di?? ód?.
Ma la pagina forse più perfetta di tutto il libro, per l’equilibrio tra squallore, tragedia e speranza, è il racconto finale delle rovine dello zoo di Berlino (pagg. 389): la conversazione amara col guardiano, il soldato tedesco ferito che si bacia con l’infermiera...
Vasilij Grossman, Uno scrittore in guerra, a cura di Antony Beevor e Luba Vinogradova, traduzione di Valentina Parisi, Adelphi, Milano pagg. 480, € 23,00
Corriere 19.7.15
L’opera al nero di Le Corbusier
Rifondò l’architettura ma era un antisemita che lodò Hitler e progettò per il regime di Vichy
di Pierluigi Panza
Troppo grande e, come tutti i grandi, a guardare bene dentro scopri troppe debolezze. Cinquant’anni fa, il 27 agosto 1965, moriva il rifondatore dell’architettura, il padre del Movimento Moderno, il progettista che ha mandato in pensione il tetto e le tegole, le finestre e le tapparelle e si è messo a costruire volumi nella luce, vetrate a nastro, tetti-giardino, pilotis che sollevano l’edificio da terra. Il tutto secondo l’unità di calcolo del Modulor , ovvero un uomo a braccio alzato come misura (in genere minima) di tutte le cose costruite.
Su Le Corbusier le celebrazioni si stanno moltiplicando, dalla mostra al Beaubourg di Parigi fino a quelle in Svizzera, dai convegni al Maxxi di Roma a quelli nelle università. La sua influenza si è sparsa nel mondo, da Chandigarh in India all’America, la sua poetica è stata l’ultima attraverso la quale l’architettura è diventata una forma di filosofia pratica che ha cambiato l’esistenza delle persone, ha investito tutte le scale — dal cucchiaio alla città, come si era soliti dire. Ha spogliato l’architettura da ogni orpello, da ogni maschera, restituendole un attestato di verità. Ha costruito una settantina di edifici in dodici Paesi, scritto più di cinquanta testi, primo tra tutti Vers une architecture , ultima teoria dell’architettura e Bibbia della modernità. Ha dato fiato a un mantra della Modernità, less is more , che ritroviamo anche nel recente Le Corbusier. L’arte decorativa , a cura di Domitilla Dardi (Quodlibet).
Premesso tutto questo, che rende ragione dei tributi, alcuni libri usciti per l’anniversario rivelano anche il volto opportunistico che si nascondeva dietro i grandi occhialoni tondi e l’immancabile farfallino di Charles-Edouard Jeanneret (questo il suo vero nome), nato a La Chaux-de-Fonds il 6 ottobre 1887. Debolezze e opportunismi che si sommano, per alcuni critici, ai discutibili esiti, come modelli per le periferie urbane, della sua Unité d’Habitation di Marsiglia, conosciuta anche come Ville Radieuse , che tuttavia di radioso ha poco.
Tre libri, Le Corbusier, un fascisme français di Xavier de Jarcy (Albin Michel), Le Corbusier, une vision froide du monde di Marc Perelman (Michalon) e Un Corbusier del critico e direttore di «L’Architecture d’aujourd’hui» François Chaslin (Seuil) danno la consueta spallata al mito, sebbene di alcune strizzatine d’occhio di Le Corbusier ai totalitarismi del Novecento già si sapesse. Ma se la «sua visione estetica non può essere separata da quella politica», come afferma François Chaslin e come, per decenni, è stata presentata nelle università europee, perché alla mostra al Centre Pompidou inaugurata lo scorso aprile ( Le Corbusier. Mesures de l’homme ) e alle molte che si moltiplicano (al Yap Fest del Maxxi è stato proiettato il film Le Corbusier, 50 storie di incontri che hanno rivoluzionato il design ), manca proprio il rapporto tra l’architetto e la storia politica dei suoi tempi? Semplice, secondo gli autori dei tre libri citati: «Il mito che circonda ancora Le Corbusier è che sia stato il più grande architetto del XX secolo e anche un uomo generoso, un poeta», afferma de Jarcy. «Ma questa è una grande bugia collettiva».
Già intorno al 1925 Le Corbusier è affascinato dal fascismo italiano, si avvicina al Faisceau di Georges Valois in Francia, stringe legami con il medico filo-eugenetico Pierre Winter e con l’esoterista René Guénon, i cui scritti appaiono comunque molto diversi dai toni illuministici di quelli dell’architetto, sebbene entrambi gli autori risultino un po’ apocalittici. Quando il maresciallo Pétain si trasferisce a Vichy (1 luglio 1940), dopo due giorni lui lo segue. E dal governo collaborazionista di Vichy, nella persona del ministro degli Interni, Marcel Peyrouton, Le Corbusier ottiene la nomina per la ricostruzione di aree urbane distrutte e per far parte della commissione per la nuova edilizia. Si potrebbe continuare, tanti sono i legami: forse sarebbe diventato l’Albert Speer di Vichy, l’equivalente francese del progettista di Hitler (ma il rapporto con i committenti è un classico dell’architettura).
Le Corbusier mostra una visione anche peggiore quando scrive alla madre. È il 1940: «Gli ebrei — annota — stanno andando incontro a un brutto periodo. Sono contrito. Ma sembra che sia a causa della loro cieca sete di denaro che ha corrotto il Paese». In agosto aggiunge: «Il denaro, gli ebrei, la massoneria, tutto questo subirà la giusta legge». Ancora, in ottobre: «Hitler può coronare la sua vita con un’operazione grandiosa: la pianificazione dell’Europa».
Tuttavia continuò naturalmente a costruire per ebrei svizzeri. Del resto i suoi erano pensieri condivisi da parte dell’intellighentia e Le Corbusier era persona che diceva ciò che la gente (o anche sua madre) voleva sentirsi dire, come ha affermato Nicholas Fox Weber, autore della biografia Le Corbusier. A Life del 2008, al «New York Times».
Questi scenari resterebbero solo il retrobottega del grande architetto, una visione da «senso comune» o il rimosso biografico se non conferissero anche una nuova interpretazione al suo Modulor , ovvero a quella «gamma di misure armoniose per soddisfare la dimensione umana, applicabile universalmente all’architettura e alle cose meccaniche» (Le Corbusier). Ovvero alla base della sua architettura. Definire un progetto partendo da questo Modulor è sempre stato ritenuto dai custodi del Movimento Moderno un approccio umanistico, antropocentrico e quasi spiritualista. Ebbene, specie secondo Perelman, alla luce di quanto emerge dalla biografia anche questa interpretazione va rivista: Il « Modulor è una forma di matematizzazione del corpo, di standardizzazione del corpo e di razionalizzazione». Qualcosa di molto lontano dalla base per fondare un’architettura a dimensione umana, insomma.
La sua urbanistica, poi, ovvero il Plan Voisin elaborato negli anni Venti per Parigi, diventa agli occhi di queste osservazioni, e delle successive teorizzazioni, quasi il modello impositivo per realizzare una «Società chiusa», che controlla le masse, e in cui si rivela la dimensione ideologica del progettista e, forse, della progettazione stessa.
Quel tratto di città ideato da Le Corbusier, che intende replicare il Marais con 18 torri di vetro su rettangoli verdi, sembra un luogo «in cui l’individuo è distrutto dal gruppo», scrive de Jarcy. Le successive sperimentazioni del Movimento Moderno nelle periferie urbane lo hanno spesso dimostrato.
L’opera al nero di Le Corbusier
Rifondò l’architettura ma era un antisemita che lodò Hitler e progettò per il regime di Vichy
di Pierluigi Panza
Troppo grande e, come tutti i grandi, a guardare bene dentro scopri troppe debolezze. Cinquant’anni fa, il 27 agosto 1965, moriva il rifondatore dell’architettura, il padre del Movimento Moderno, il progettista che ha mandato in pensione il tetto e le tegole, le finestre e le tapparelle e si è messo a costruire volumi nella luce, vetrate a nastro, tetti-giardino, pilotis che sollevano l’edificio da terra. Il tutto secondo l’unità di calcolo del Modulor , ovvero un uomo a braccio alzato come misura (in genere minima) di tutte le cose costruite.
Su Le Corbusier le celebrazioni si stanno moltiplicando, dalla mostra al Beaubourg di Parigi fino a quelle in Svizzera, dai convegni al Maxxi di Roma a quelli nelle università. La sua influenza si è sparsa nel mondo, da Chandigarh in India all’America, la sua poetica è stata l’ultima attraverso la quale l’architettura è diventata una forma di filosofia pratica che ha cambiato l’esistenza delle persone, ha investito tutte le scale — dal cucchiaio alla città, come si era soliti dire. Ha spogliato l’architettura da ogni orpello, da ogni maschera, restituendole un attestato di verità. Ha costruito una settantina di edifici in dodici Paesi, scritto più di cinquanta testi, primo tra tutti Vers une architecture , ultima teoria dell’architettura e Bibbia della modernità. Ha dato fiato a un mantra della Modernità, less is more , che ritroviamo anche nel recente Le Corbusier. L’arte decorativa , a cura di Domitilla Dardi (Quodlibet).
Premesso tutto questo, che rende ragione dei tributi, alcuni libri usciti per l’anniversario rivelano anche il volto opportunistico che si nascondeva dietro i grandi occhialoni tondi e l’immancabile farfallino di Charles-Edouard Jeanneret (questo il suo vero nome), nato a La Chaux-de-Fonds il 6 ottobre 1887. Debolezze e opportunismi che si sommano, per alcuni critici, ai discutibili esiti, come modelli per le periferie urbane, della sua Unité d’Habitation di Marsiglia, conosciuta anche come Ville Radieuse , che tuttavia di radioso ha poco.
Tre libri, Le Corbusier, un fascisme français di Xavier de Jarcy (Albin Michel), Le Corbusier, une vision froide du monde di Marc Perelman (Michalon) e Un Corbusier del critico e direttore di «L’Architecture d’aujourd’hui» François Chaslin (Seuil) danno la consueta spallata al mito, sebbene di alcune strizzatine d’occhio di Le Corbusier ai totalitarismi del Novecento già si sapesse. Ma se la «sua visione estetica non può essere separata da quella politica», come afferma François Chaslin e come, per decenni, è stata presentata nelle università europee, perché alla mostra al Centre Pompidou inaugurata lo scorso aprile ( Le Corbusier. Mesures de l’homme ) e alle molte che si moltiplicano (al Yap Fest del Maxxi è stato proiettato il film Le Corbusier, 50 storie di incontri che hanno rivoluzionato il design ), manca proprio il rapporto tra l’architetto e la storia politica dei suoi tempi? Semplice, secondo gli autori dei tre libri citati: «Il mito che circonda ancora Le Corbusier è che sia stato il più grande architetto del XX secolo e anche un uomo generoso, un poeta», afferma de Jarcy. «Ma questa è una grande bugia collettiva».
Già intorno al 1925 Le Corbusier è affascinato dal fascismo italiano, si avvicina al Faisceau di Georges Valois in Francia, stringe legami con il medico filo-eugenetico Pierre Winter e con l’esoterista René Guénon, i cui scritti appaiono comunque molto diversi dai toni illuministici di quelli dell’architetto, sebbene entrambi gli autori risultino un po’ apocalittici. Quando il maresciallo Pétain si trasferisce a Vichy (1 luglio 1940), dopo due giorni lui lo segue. E dal governo collaborazionista di Vichy, nella persona del ministro degli Interni, Marcel Peyrouton, Le Corbusier ottiene la nomina per la ricostruzione di aree urbane distrutte e per far parte della commissione per la nuova edilizia. Si potrebbe continuare, tanti sono i legami: forse sarebbe diventato l’Albert Speer di Vichy, l’equivalente francese del progettista di Hitler (ma il rapporto con i committenti è un classico dell’architettura).
Le Corbusier mostra una visione anche peggiore quando scrive alla madre. È il 1940: «Gli ebrei — annota — stanno andando incontro a un brutto periodo. Sono contrito. Ma sembra che sia a causa della loro cieca sete di denaro che ha corrotto il Paese». In agosto aggiunge: «Il denaro, gli ebrei, la massoneria, tutto questo subirà la giusta legge». Ancora, in ottobre: «Hitler può coronare la sua vita con un’operazione grandiosa: la pianificazione dell’Europa».
Tuttavia continuò naturalmente a costruire per ebrei svizzeri. Del resto i suoi erano pensieri condivisi da parte dell’intellighentia e Le Corbusier era persona che diceva ciò che la gente (o anche sua madre) voleva sentirsi dire, come ha affermato Nicholas Fox Weber, autore della biografia Le Corbusier. A Life del 2008, al «New York Times».
Questi scenari resterebbero solo il retrobottega del grande architetto, una visione da «senso comune» o il rimosso biografico se non conferissero anche una nuova interpretazione al suo Modulor , ovvero a quella «gamma di misure armoniose per soddisfare la dimensione umana, applicabile universalmente all’architettura e alle cose meccaniche» (Le Corbusier). Ovvero alla base della sua architettura. Definire un progetto partendo da questo Modulor è sempre stato ritenuto dai custodi del Movimento Moderno un approccio umanistico, antropocentrico e quasi spiritualista. Ebbene, specie secondo Perelman, alla luce di quanto emerge dalla biografia anche questa interpretazione va rivista: Il « Modulor è una forma di matematizzazione del corpo, di standardizzazione del corpo e di razionalizzazione». Qualcosa di molto lontano dalla base per fondare un’architettura a dimensione umana, insomma.
La sua urbanistica, poi, ovvero il Plan Voisin elaborato negli anni Venti per Parigi, diventa agli occhi di queste osservazioni, e delle successive teorizzazioni, quasi il modello impositivo per realizzare una «Società chiusa», che controlla le masse, e in cui si rivela la dimensione ideologica del progettista e, forse, della progettazione stessa.
Quel tratto di città ideato da Le Corbusier, che intende replicare il Marais con 18 torri di vetro su rettangoli verdi, sembra un luogo «in cui l’individuo è distrutto dal gruppo», scrive de Jarcy. Le successive sperimentazioni del Movimento Moderno nelle periferie urbane lo hanno spesso dimostrato.
Repubblica 19.7.15
Jackson Pollock
Nei labirinti oscuri dell’action painting
di Achille Bonito Oliva
LIVERPOOL La mostra alla Tate Gallery di Liverpool col suo titolo Blind Spots , vuole celebrare uno dei più grandi artisti del XX secolo poco dopo il centenario della sua nascita. Il gesto radicale di Pollock (1912-1956), il dripping, ha rivoluzionato la storia dell’arte contemporanea, radicalizzato le ricerche delle avanguardie europee ed ha profondamente influenzato l’arte americana dagli anni Cinquanta in avanti. La sua figura, resa leggendaria anche da un’estrema libertà di comportamento, disagio esistenziale ed opposizione alla vita standardizzata della società di massa americana, campeggia tuttora al centro della scena americana dell’arte del secondo dopoguerra con intorno altri artisti che hanno contribuito anche essi all’affermazione dell’action painting, un’arte liberata da ogni schema accademico e liberatoria della creatività individuale.
La mostra raccoglie tra i più grandi capolavori di Jackson Pollock della sua intera vicenda insieme alle “colate nere” eseguite dal 1947 al 1949, che costituiscono una svolta radicale nella sua ricerca pittorica, accompagnata da disegni e sculture di gocciolamento iconico. Prove di una creatività febbrile ed ininterrotta malgrado una vita borderline. Uno spaccato di opere di grande rilievo che hanno segnato una svolta nella storia dell’arte contemporanea del tempo e hanno segnato di una forte radicalità l’arte americana del secondo dopoguerra e di tutta quella internazionale.
Esiste una sequenza mitica nella storia dell’arte contemporanea scattata da un fotografo, Hans Namuth. Riguarda Jackson Pollock durante la sua danza al dripping intorno alla tela in orizzontale sul pavimento. Il furor di Pollock non si accontenta del corpo a corpo verticale con la tela a muro o sul cavalletto.
L’artista circola, vacilla, e danza ebbro attorno alla tela. La performance di Pol- lock non è dunque lo svelamento di un occhio fotografico indiscreto. In questa danza, frutto di ritmo strutturato e inciampo, la cecità del caso compone e scompone l’atto creativo. L’arte dunque non produce belle statuine e nature morte, ma opere che sfidano la creazione primigenia del mondo, attraverso il linguaggio figurativo e astratto, sempre sostenuto da un furor che, dal Rinascimento al XX secolo, ha investito progressivamente l’intero corpo dell’artista. Se Michelangelo si riconosce nella forma antropomorfica delle sue figure, Picasso nel frullante erotismo delle sue scomposizioni cubiste, Pollock ritrova nel reticolo dei suoi labirinti al dripping non tanto la propria immagine allo specchio, mal’ anxietas della condizione moderna in cui l’uomo è necessariamente indeterminato.
La performance deambulatoria di Pollock è frutto di una coscienza dell’irreversibile perdita del centro nell’arte e nella vita, la ripresa dell’automatismo surrealista, del dripping europeo di Masson, reso più radicale dall’artista americano. Automatismo significa dunque libertà di linguaggio, di comportarsi e di aggregare nuovi sensi anche al di fuori della volontà progettante dell’artista.
Tali processi avvengono secondo modalità impreviste, non condizionate dalla volontà, ma sottoposte a regole imponderabili. L’arte dell’action painting diventa una pratica dello sconfinamento e dell’espansione, nel senso che recupera come valore anche i territori del pensiero stordito, dell’impulso che filtra direttamente oltre la censura della forma e malgrado essa.
Pollock dunque compie un gesto inusitato, effettua un movimento inconsulto che infrange i canoni del buon vivere della ragione per effettuare una sgomitata tra i rigidi paletti delle cose e mandarli all’aria.
L’artista americano ci ha liberato del peso gravitazionale, ci ha insegnato che ben altre materie e ben altri magmi si muovono sotto l’apparente armistizio che regola la distanza tra i corpi solidi e i nostri corpi gasati. Ha perforato la corazza e la pelle dei fenomeni, per rovesciare davanti ai nostri occhi ogni pulsione.
Ma per arrivare a questo bisogna prima disarmarsi, bisogna che egli abbandoni ogni controllo e si abbandoni letteralmente ai buchi neri dell’inconscio. Dopo Freud e il surrealismo, l’arte non è più il ponte levatoio che porta verso verticali purezze, ma diventa la talpa che scava in profondità per risucchiare verso l’alto della forma i flussi e i miasmi esalanti da un luogo interdetto con le sue stratificazioni e ossidazioni, con la sua temporalità circolare, preme con la sua emergenza.
L’automatismo del gesto è direttamente proporzionale all’automatismo della psiche, al moto inconsulto e involontario del profondo.
La forma porta alla luce l’oscurità, promuove la salita e una chiara esposizione che neppure l’artista riesce a denominare senza il gesto garante dell’arte.
Jackson Pollock
Nei labirinti oscuri dell’action painting
di Achille Bonito Oliva
LIVERPOOL La mostra alla Tate Gallery di Liverpool col suo titolo Blind Spots , vuole celebrare uno dei più grandi artisti del XX secolo poco dopo il centenario della sua nascita. Il gesto radicale di Pollock (1912-1956), il dripping, ha rivoluzionato la storia dell’arte contemporanea, radicalizzato le ricerche delle avanguardie europee ed ha profondamente influenzato l’arte americana dagli anni Cinquanta in avanti. La sua figura, resa leggendaria anche da un’estrema libertà di comportamento, disagio esistenziale ed opposizione alla vita standardizzata della società di massa americana, campeggia tuttora al centro della scena americana dell’arte del secondo dopoguerra con intorno altri artisti che hanno contribuito anche essi all’affermazione dell’action painting, un’arte liberata da ogni schema accademico e liberatoria della creatività individuale.
La mostra raccoglie tra i più grandi capolavori di Jackson Pollock della sua intera vicenda insieme alle “colate nere” eseguite dal 1947 al 1949, che costituiscono una svolta radicale nella sua ricerca pittorica, accompagnata da disegni e sculture di gocciolamento iconico. Prove di una creatività febbrile ed ininterrotta malgrado una vita borderline. Uno spaccato di opere di grande rilievo che hanno segnato una svolta nella storia dell’arte contemporanea del tempo e hanno segnato di una forte radicalità l’arte americana del secondo dopoguerra e di tutta quella internazionale.
Esiste una sequenza mitica nella storia dell’arte contemporanea scattata da un fotografo, Hans Namuth. Riguarda Jackson Pollock durante la sua danza al dripping intorno alla tela in orizzontale sul pavimento. Il furor di Pollock non si accontenta del corpo a corpo verticale con la tela a muro o sul cavalletto.
L’artista circola, vacilla, e danza ebbro attorno alla tela. La performance di Pol- lock non è dunque lo svelamento di un occhio fotografico indiscreto. In questa danza, frutto di ritmo strutturato e inciampo, la cecità del caso compone e scompone l’atto creativo. L’arte dunque non produce belle statuine e nature morte, ma opere che sfidano la creazione primigenia del mondo, attraverso il linguaggio figurativo e astratto, sempre sostenuto da un furor che, dal Rinascimento al XX secolo, ha investito progressivamente l’intero corpo dell’artista. Se Michelangelo si riconosce nella forma antropomorfica delle sue figure, Picasso nel frullante erotismo delle sue scomposizioni cubiste, Pollock ritrova nel reticolo dei suoi labirinti al dripping non tanto la propria immagine allo specchio, mal’ anxietas della condizione moderna in cui l’uomo è necessariamente indeterminato.
La performance deambulatoria di Pollock è frutto di una coscienza dell’irreversibile perdita del centro nell’arte e nella vita, la ripresa dell’automatismo surrealista, del dripping europeo di Masson, reso più radicale dall’artista americano. Automatismo significa dunque libertà di linguaggio, di comportarsi e di aggregare nuovi sensi anche al di fuori della volontà progettante dell’artista.
Tali processi avvengono secondo modalità impreviste, non condizionate dalla volontà, ma sottoposte a regole imponderabili. L’arte dell’action painting diventa una pratica dello sconfinamento e dell’espansione, nel senso che recupera come valore anche i territori del pensiero stordito, dell’impulso che filtra direttamente oltre la censura della forma e malgrado essa.
Pollock dunque compie un gesto inusitato, effettua un movimento inconsulto che infrange i canoni del buon vivere della ragione per effettuare una sgomitata tra i rigidi paletti delle cose e mandarli all’aria.
L’artista americano ci ha liberato del peso gravitazionale, ci ha insegnato che ben altre materie e ben altri magmi si muovono sotto l’apparente armistizio che regola la distanza tra i corpi solidi e i nostri corpi gasati. Ha perforato la corazza e la pelle dei fenomeni, per rovesciare davanti ai nostri occhi ogni pulsione.
Ma per arrivare a questo bisogna prima disarmarsi, bisogna che egli abbandoni ogni controllo e si abbandoni letteralmente ai buchi neri dell’inconscio. Dopo Freud e il surrealismo, l’arte non è più il ponte levatoio che porta verso verticali purezze, ma diventa la talpa che scava in profondità per risucchiare verso l’alto della forma i flussi e i miasmi esalanti da un luogo interdetto con le sue stratificazioni e ossidazioni, con la sua temporalità circolare, preme con la sua emergenza.
L’automatismo del gesto è direttamente proporzionale all’automatismo della psiche, al moto inconsulto e involontario del profondo.
La forma porta alla luce l’oscurità, promuove la salita e una chiara esposizione che neppure l’artista riesce a denominare senza il gesto garante dell’arte.
Corriere La Lettura 26.7.15
«Annales» una storia più bassa e più lunga
di Marco Meriggi
L’articolo di Giovanni Brizzi su «la Lettura» #190 del 19 luglio, a proposito del recente revival dell’ histoire batailles, offre l’occasione di puntualizzare che cosa abbia significato il ripudio polemico di questo modo di accostarsi alla storia da parte della generazione di studiosi che, a partire dai tardi anni Venti del Novecento, si raccolsero in Francia attorno alla rivista «Les Annales».
Essi andavano alla ricerca, come scrisse nel 1941 Marc Bloch, che assieme a Lucien Febvre fu padre fondatore di quella straordinaria avventura intellettuale, di una «storia più ampia e più umana» di quella sin lì generalmente praticata dalla storiografia scientifica di matrice ottocentesca.
Quest’ultima aveva largamente privilegiato la storia politica e quella militare ( histoire événementielle e histoire batailles ), affidando volentieri le proprie strategie narrative al racconto delle vicende che vedevano coinvolte le grandi personalità. Per gli storici delle «Annales», così come per quelli che anche in altri Paesi ne condivisero allora l’insoddisfazione nei confronti della storiografia tradizionale (per esempio i tedeschi Karl Lamprecht e Otto Hintze, o l’austriaco Otto Brunner), al racconto della «punta dell’iceberg» andava invece affiancata l’esplorazione della sua grande massa continentale, in tutta la varietà delle sue forme di espressione: sociali, economiche, istituzionali. La storia dei vertici del potere doveva venire, perciò, integrata con quella della società nel suo complesso, investigando, al tempo stesso, il rapporto intrattenuto da questa con l’ambiente naturale. E per far questo servivano prospettive idonee a lumeggiare le strutture della vita collettiva a misura del passo lento — tanto lento da sembrare talvolta immobile — che le caratterizza, lungo uno scenario temporale meno sincopato di quello scandito dal susseguirsi degli eventi più vistosi.
Di qui la messa a punto di una modalità di analisi sensibile alla «lunga durata» (espressione resa celebre da Fernand Braudel) dell’avventura umana, e la proposta di arricchire lo strumentario concettuale della pratica storiografica con quello di discipline come, per esempio, la geografia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia.
La storia — hanno obiettato taluni — è però essenzialmente il racconto dei cambiamenti attraverso gli eventi, piuttosto che l’indugio sulle lunghe persistenze. Ma altri hanno replicato che gli eventi significano poco, se non si conosce a fondo il contesto strutturale al cui interno essi si collocano. La battaglia storiografica resta aperta.
«Annales» una storia più bassa e più lunga
di Marco Meriggi
L’articolo di Giovanni Brizzi su «la Lettura» #190 del 19 luglio, a proposito del recente revival dell’ histoire batailles, offre l’occasione di puntualizzare che cosa abbia significato il ripudio polemico di questo modo di accostarsi alla storia da parte della generazione di studiosi che, a partire dai tardi anni Venti del Novecento, si raccolsero in Francia attorno alla rivista «Les Annales».
Essi andavano alla ricerca, come scrisse nel 1941 Marc Bloch, che assieme a Lucien Febvre fu padre fondatore di quella straordinaria avventura intellettuale, di una «storia più ampia e più umana» di quella sin lì generalmente praticata dalla storiografia scientifica di matrice ottocentesca.
Quest’ultima aveva largamente privilegiato la storia politica e quella militare ( histoire événementielle e histoire batailles ), affidando volentieri le proprie strategie narrative al racconto delle vicende che vedevano coinvolte le grandi personalità. Per gli storici delle «Annales», così come per quelli che anche in altri Paesi ne condivisero allora l’insoddisfazione nei confronti della storiografia tradizionale (per esempio i tedeschi Karl Lamprecht e Otto Hintze, o l’austriaco Otto Brunner), al racconto della «punta dell’iceberg» andava invece affiancata l’esplorazione della sua grande massa continentale, in tutta la varietà delle sue forme di espressione: sociali, economiche, istituzionali. La storia dei vertici del potere doveva venire, perciò, integrata con quella della società nel suo complesso, investigando, al tempo stesso, il rapporto intrattenuto da questa con l’ambiente naturale. E per far questo servivano prospettive idonee a lumeggiare le strutture della vita collettiva a misura del passo lento — tanto lento da sembrare talvolta immobile — che le caratterizza, lungo uno scenario temporale meno sincopato di quello scandito dal susseguirsi degli eventi più vistosi.
Di qui la messa a punto di una modalità di analisi sensibile alla «lunga durata» (espressione resa celebre da Fernand Braudel) dell’avventura umana, e la proposta di arricchire lo strumentario concettuale della pratica storiografica con quello di discipline come, per esempio, la geografia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia.
La storia — hanno obiettato taluni — è però essenzialmente il racconto dei cambiamenti attraverso gli eventi, piuttosto che l’indugio sulle lunghe persistenze. Ma altri hanno replicato che gli eventi significano poco, se non si conosce a fondo il contesto strutturale al cui interno essi si collocano. La battaglia storiografica resta aperta.
Corriere 23.7.15
La sovranità sta tornando in voga
Ma il realismo non è solo hegeliano
Un saggio di Biagio De Giovanni rilancia un concetto antico
di Angelo Panebianco
Un ammirevole tour de force intellettuale, forse uno dei testi più rigorosi di questi anni su un concetto-chiave della politica moderna, la sovranità. Una riflessione, però, che è ancorata alla vicenda dell’ Europa continentale (l’Inghilterra è fuori dal quadro), o meglio delle grandi potenze (Germania, Francia) che l’hanno plasmata. Se dovessi consigliare agli studenti una doppia lettura, filosofica e storica, sulla statualità europeo-continentale, suggerirei di appaiare questo Elogio della sovranità politica (Editoriale Scientifica) di Biagio de Giovanni a un vecchio libro (1948), Equilibrio o egemonia , capolavoro dello storico tedesco Ludwig Dehio, dedicato alle gare di potenza fra gli Stati europei.
Il lavoro di de Giovanni è un altro tassello della riflessione sui fondamenti della politica moderna che l’autore conduce da molto tempo. Oltre alla sua competenza filosofico-politica, ha giocato un ruolo in questo studio anche una esperienza pratica, quella di parlamentare europeo, che gli ha consentito per anni di osservare dall’interno l’Unione nel suo difficile tentativo di trascendere la statualità europea, di fare i conti con l’ingombrante questione della sovranità.
Come ogni opera filosofica di rilievo, il libro di de Giovanni ha espliciti bersagli polemici: bersagli «alti» (il decisionismo schmittiano, il normativismo kelseniano) e bersagli più contingenti e «politici», in particolare quel fondamentalismo dei diritti umani (una sottomarca, possiamo dire, del liberalismo giuridico, a sua volta, solo una variante del liberalismo) che è oggi discorso egemone in Europa e contro il quale de Giovanni scrive pagine efficaci.
Il pensiero di Hegel è il principale ancoraggio teorico dell’autore. È in Hegel, per de Giovanni, che raggiunge il suo punto più alto un’elaborazione teorica iniziata con Bodin e alla quale Hobbes aveva dato, prima di Hegel, un più solido fondamento filosofico.
Con Hegel (dopo Hobbes, ma passando per Rousseau) la sovranità diventa esplicitamente ciò che anche la dottrina costituzionale più avvertita sarà costretta a riconoscere: mediazione, un compromesso fra politica e diritto su cui viene eretta la statualità, e che sorregge il sistema moderno delle libertà. Servendosi di Hegel, de Giovanni può contrastare la concezione schmittiana, così popolare, della sovranità («sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione»). Può ancorare la sovranità alla normalità e alla continuità della vita statale, anziché all’eccezione e alla decisione arbitraria di fronte all’eccezione.
Ma non è solo la formula schmittiana che de Giovanni contrasta. È anche il normativismo kelseniano. Esso soffre del difetto opposto a quello della concezione di Schmitt. Solo la sintesi fra diritto e politica, la sovranità come mediazione, consente di sfuggire alle due op-poste sirene.
Con l’avvento della democrazia, con la sovranità del popolo, non cambia l’essenza della sovranità. Volerla cancellare significa, oggi come ieri, voler cancellare la politica, detronizzarla a favore di utopie che il realismo ispirato a Hegel di de Giovanni non può accettare. È questo il tentativo odierno del «liberalismo dei diritti umani», il quale vuole assorbire la politica nel diritto, sostituire alla decisione politica la giurisprudenza delle Corti.
In età democratica, il bersaglio del liberalismo dei diritti umani diventa quella prerogativa del popolo che è il potere costituente. Se infatti il fondamento non negoziabile della costituzione sono i diritti umani, ne consegue che il «potere costituente» non ha ragion d’essere: non il popolo ma le Corti sono titolate a decidere sulla Costituzione. E, attraverso la Costituzione, sono autorizzate a guidare «decisori politici» che non sono più tali, perché sottomessi al giudizio di chi ha il compito di vegliare sui diritti umani. Appoggiandosi soprattutto al filosofo e giurista Ernst-Wolfang Böckenförde e alla sua difesa del potere costituente, de Giovanni smonta le tesi dei fondamentalisti dei diritti umani, recupera le ragioni della politica, sostiene che solo in tal modo si possono coniugare sovranità e democrazia.
Non si può non simpatizzare con il realismo politico di de Giovanni. Ma va anche ricordato che l’avventura filosofica che egli ricostruisce è solo una parte della storia. L’adesione al realismo politico, ad esempio, non obbliga necessariamente a sottoscrivere la concezione hegeliana dello Stato e della società intesi come totalità. Max Weber, ad esempio, ha mostrato come realismo e interpretazione individualista della politica e dello Stato possano convivere.
Quella di de Giovanni, inoltre, come già si è detto, è una ricostruzione concettuale ancorata a una vicenda statale solo europeo-continentale. Se entra in gioco la Gran Bretagna (per non parlare degli Stati Uniti) il quadro cambia e le categorie per leggere la politica cambiano di conserva. La connessione, che secondo de Giovanni è inscindibile, fra sovranità e politica appare storicamente condizionata e circoscritta alle vicende di alcuni Stati europeo-continentali. Da ultimo, notiamo che il principale bersaglio polemico dell’autore, il liberalismo dei diritti umani, non va assimilato al liberalismo tout court , ne è solo una variante, la più debole e discutibile. Ciò detto, onore al merito. È un piacere raro leggere libri di questa qualità.
La sovranità sta tornando in voga
Ma il realismo non è solo hegeliano
Un saggio di Biagio De Giovanni rilancia un concetto antico
di Angelo Panebianco
Un ammirevole tour de force intellettuale, forse uno dei testi più rigorosi di questi anni su un concetto-chiave della politica moderna, la sovranità. Una riflessione, però, che è ancorata alla vicenda dell’ Europa continentale (l’Inghilterra è fuori dal quadro), o meglio delle grandi potenze (Germania, Francia) che l’hanno plasmata. Se dovessi consigliare agli studenti una doppia lettura, filosofica e storica, sulla statualità europeo-continentale, suggerirei di appaiare questo Elogio della sovranità politica (Editoriale Scientifica) di Biagio de Giovanni a un vecchio libro (1948), Equilibrio o egemonia , capolavoro dello storico tedesco Ludwig Dehio, dedicato alle gare di potenza fra gli Stati europei.
Il lavoro di de Giovanni è un altro tassello della riflessione sui fondamenti della politica moderna che l’autore conduce da molto tempo. Oltre alla sua competenza filosofico-politica, ha giocato un ruolo in questo studio anche una esperienza pratica, quella di parlamentare europeo, che gli ha consentito per anni di osservare dall’interno l’Unione nel suo difficile tentativo di trascendere la statualità europea, di fare i conti con l’ingombrante questione della sovranità.
Come ogni opera filosofica di rilievo, il libro di de Giovanni ha espliciti bersagli polemici: bersagli «alti» (il decisionismo schmittiano, il normativismo kelseniano) e bersagli più contingenti e «politici», in particolare quel fondamentalismo dei diritti umani (una sottomarca, possiamo dire, del liberalismo giuridico, a sua volta, solo una variante del liberalismo) che è oggi discorso egemone in Europa e contro il quale de Giovanni scrive pagine efficaci.
Il pensiero di Hegel è il principale ancoraggio teorico dell’autore. È in Hegel, per de Giovanni, che raggiunge il suo punto più alto un’elaborazione teorica iniziata con Bodin e alla quale Hobbes aveva dato, prima di Hegel, un più solido fondamento filosofico.
Con Hegel (dopo Hobbes, ma passando per Rousseau) la sovranità diventa esplicitamente ciò che anche la dottrina costituzionale più avvertita sarà costretta a riconoscere: mediazione, un compromesso fra politica e diritto su cui viene eretta la statualità, e che sorregge il sistema moderno delle libertà. Servendosi di Hegel, de Giovanni può contrastare la concezione schmittiana, così popolare, della sovranità («sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione»). Può ancorare la sovranità alla normalità e alla continuità della vita statale, anziché all’eccezione e alla decisione arbitraria di fronte all’eccezione.
Ma non è solo la formula schmittiana che de Giovanni contrasta. È anche il normativismo kelseniano. Esso soffre del difetto opposto a quello della concezione di Schmitt. Solo la sintesi fra diritto e politica, la sovranità come mediazione, consente di sfuggire alle due op-poste sirene.
Con l’avvento della democrazia, con la sovranità del popolo, non cambia l’essenza della sovranità. Volerla cancellare significa, oggi come ieri, voler cancellare la politica, detronizzarla a favore di utopie che il realismo ispirato a Hegel di de Giovanni non può accettare. È questo il tentativo odierno del «liberalismo dei diritti umani», il quale vuole assorbire la politica nel diritto, sostituire alla decisione politica la giurisprudenza delle Corti.
In età democratica, il bersaglio del liberalismo dei diritti umani diventa quella prerogativa del popolo che è il potere costituente. Se infatti il fondamento non negoziabile della costituzione sono i diritti umani, ne consegue che il «potere costituente» non ha ragion d’essere: non il popolo ma le Corti sono titolate a decidere sulla Costituzione. E, attraverso la Costituzione, sono autorizzate a guidare «decisori politici» che non sono più tali, perché sottomessi al giudizio di chi ha il compito di vegliare sui diritti umani. Appoggiandosi soprattutto al filosofo e giurista Ernst-Wolfang Böckenförde e alla sua difesa del potere costituente, de Giovanni smonta le tesi dei fondamentalisti dei diritti umani, recupera le ragioni della politica, sostiene che solo in tal modo si possono coniugare sovranità e democrazia.
Non si può non simpatizzare con il realismo politico di de Giovanni. Ma va anche ricordato che l’avventura filosofica che egli ricostruisce è solo una parte della storia. L’adesione al realismo politico, ad esempio, non obbliga necessariamente a sottoscrivere la concezione hegeliana dello Stato e della società intesi come totalità. Max Weber, ad esempio, ha mostrato come realismo e interpretazione individualista della politica e dello Stato possano convivere.
Quella di de Giovanni, inoltre, come già si è detto, è una ricostruzione concettuale ancorata a una vicenda statale solo europeo-continentale. Se entra in gioco la Gran Bretagna (per non parlare degli Stati Uniti) il quadro cambia e le categorie per leggere la politica cambiano di conserva. La connessione, che secondo de Giovanni è inscindibile, fra sovranità e politica appare storicamente condizionata e circoscritta alle vicende di alcuni Stati europeo-continentali. Da ultimo, notiamo che il principale bersaglio polemico dell’autore, il liberalismo dei diritti umani, non va assimilato al liberalismo tout court , ne è solo una variante, la più debole e discutibile. Ciò detto, onore al merito. È un piacere raro leggere libri di questa qualità.
Il Sole Domenica 26.7.15
Il mondo psichico
C’è vita nel caos e nella polvere
di Vittorio Lingiardi
«Mi sento molto a mio agio in questo disordine, perché evoca in me delle immagini». È nel disordine, confida Francis Bacon a David Silvester, l’inizio di tutte le cose. Nel disordine e nella polvere, che «sembra eterna, l’unica cosa che durerà per sempre». Polvere che solleva l’urgenza di riportare ordine nel caos della stanza. Anche così prende forma l’elaborazione artistica. E psichica. La stanza (d’analisi) diviene lo spazio per un ritardo, un’assenza, una lacuna, per «un tempo ritessuto, come la cucitura di una rete» (p. 32), per quel nucleo di non-trasformabilità che resiste a qualsiasi intervento. «Che cosa ne è della non-umanità che vive occlusa, ma comunque attiva dentro di noi, delle parti androidi che ci appartengono?» (p. 17).
Sono due geni della visione, Francis Bacon e Wilfred Bion, i demoni custodi (non li possiamo certo chiamare angeli) di questo breve libro di Lorena Preta. Frutto di una mente analitica e passionale, con stazioni spaesanti di oscurità e accoglienti radure di luce. Veloci capitoli con titoli fulminanti: «L’umanità in un battito di ciglia», «Allevamento di polvere», «Si trattava di trasformare una poesia in un foulard», «Frammenti di un discorso luttuoso». Custoditi da un bel titolo, radicalmente baconiano: La brutalità delle cose. È questo, infatti, il tema caro a Preta: la brutalità del reale, la consapevolezza che se la psicoanalisi non può trasformare sostanze, corpi o anime, può certamente favorire «passaggi di stato» e «contaminazioni feconde». Come per il grande dublinese, la brutalità è quello scarto e quell’eccesso che rimandano alla realtà con più violenza, quell’in più delle cose che ci rivela l’essenza traumatica del reale. Uno sguardo che Preta rivolge non solo al lavoro clinico della psicoanalisi, ma anche a quello teorico. Un omaggio dunque alla psicoanalisi, ma anche un attacco, saggiamente non dichiarato, a ogni sua possibile oggettivazione (chi conosce il mio lavoro sa che sto recensendo un libro che non sposa il mio punto di vista scientifico, ma sa anche l’importanza di riconoscere l’onestà intellettuale dell’altro diverso da te).
La vecchiaia che cancella il futuro che non può più essere concepito, la malattia fisica che àncora la mente ai ritmi del corpo sofferente, il pensiero che continua a scorrere nonostante tutto. Le separazioni che annientano, il trauma che blocca l’esistenza, i cambiamenti che attraversano come meteore l’orizzonte della vita spezzando equilibri precari. Ridefinizioni sessuali, riorganizzazioni familiari, ibridazioni cyborg. Polvere e, inevitabilmente, possibilità di conoscenza.
Lorena Preta usa la psicoanalisi come un’attrezzatura resistente, una sorta di tuta sofisticata che permette di attraversare gli spazi siderali dell’esperienza e del dolore umani «senza andare in fiamme al primo impatto» (p. 13). Ci racconta forme di vita, come si alternano e compongono nel mondo psichico. Nel farlo, rimane fedele a se stessa, a come l’abbiamo conosciuta in questi anni, come analista viva, direttrice di Psiche e promotrice internazionale di Geographies of Psychoanalysis (Mimesis, in press).
La brutalità delle cose è il tentativo di analizzare ciò che in noi si modifica prima che il modo di affrontarlo abbia il tempo di consolidarsi in abitudine. Una restituzione di senso a quegli oggetti «lanciati nell’area dell’esperienza con una loro assoluta irriducibilità» (p. 44). Del resto, dice ancora Bacon a Silvester, «un’altra cosa che mi piace della confusione è che c’è la polvere e io la uso. […] È tremendo tirar su tutta questa polvere, che s’attacca dappertutto. Ma è proprio quello che feci, mentre dipingevo quei quadri».
Lorena Preta, La brutalità delle cose. Trasformazioni psichiche della realtà , Mimesis, Milano,
pagg. 134, € 14,00
Lorena Preta (a cura di), Geographies of Psychoanalysis. Encounters between cultures in Tehran , Mimesis International, pagg. 124, € 13,00 ($ 15,00-£ 10,00)
Il mondo psichico
C’è vita nel caos e nella polvere
di Vittorio Lingiardi
«Mi sento molto a mio agio in questo disordine, perché evoca in me delle immagini». È nel disordine, confida Francis Bacon a David Silvester, l’inizio di tutte le cose. Nel disordine e nella polvere, che «sembra eterna, l’unica cosa che durerà per sempre». Polvere che solleva l’urgenza di riportare ordine nel caos della stanza. Anche così prende forma l’elaborazione artistica. E psichica. La stanza (d’analisi) diviene lo spazio per un ritardo, un’assenza, una lacuna, per «un tempo ritessuto, come la cucitura di una rete» (p. 32), per quel nucleo di non-trasformabilità che resiste a qualsiasi intervento. «Che cosa ne è della non-umanità che vive occlusa, ma comunque attiva dentro di noi, delle parti androidi che ci appartengono?» (p. 17).
Sono due geni della visione, Francis Bacon e Wilfred Bion, i demoni custodi (non li possiamo certo chiamare angeli) di questo breve libro di Lorena Preta. Frutto di una mente analitica e passionale, con stazioni spaesanti di oscurità e accoglienti radure di luce. Veloci capitoli con titoli fulminanti: «L’umanità in un battito di ciglia», «Allevamento di polvere», «Si trattava di trasformare una poesia in un foulard», «Frammenti di un discorso luttuoso». Custoditi da un bel titolo, radicalmente baconiano: La brutalità delle cose. È questo, infatti, il tema caro a Preta: la brutalità del reale, la consapevolezza che se la psicoanalisi non può trasformare sostanze, corpi o anime, può certamente favorire «passaggi di stato» e «contaminazioni feconde». Come per il grande dublinese, la brutalità è quello scarto e quell’eccesso che rimandano alla realtà con più violenza, quell’in più delle cose che ci rivela l’essenza traumatica del reale. Uno sguardo che Preta rivolge non solo al lavoro clinico della psicoanalisi, ma anche a quello teorico. Un omaggio dunque alla psicoanalisi, ma anche un attacco, saggiamente non dichiarato, a ogni sua possibile oggettivazione (chi conosce il mio lavoro sa che sto recensendo un libro che non sposa il mio punto di vista scientifico, ma sa anche l’importanza di riconoscere l’onestà intellettuale dell’altro diverso da te).
La vecchiaia che cancella il futuro che non può più essere concepito, la malattia fisica che àncora la mente ai ritmi del corpo sofferente, il pensiero che continua a scorrere nonostante tutto. Le separazioni che annientano, il trauma che blocca l’esistenza, i cambiamenti che attraversano come meteore l’orizzonte della vita spezzando equilibri precari. Ridefinizioni sessuali, riorganizzazioni familiari, ibridazioni cyborg. Polvere e, inevitabilmente, possibilità di conoscenza.
Lorena Preta usa la psicoanalisi come un’attrezzatura resistente, una sorta di tuta sofisticata che permette di attraversare gli spazi siderali dell’esperienza e del dolore umani «senza andare in fiamme al primo impatto» (p. 13). Ci racconta forme di vita, come si alternano e compongono nel mondo psichico. Nel farlo, rimane fedele a se stessa, a come l’abbiamo conosciuta in questi anni, come analista viva, direttrice di Psiche e promotrice internazionale di Geographies of Psychoanalysis (Mimesis, in press).
La brutalità delle cose è il tentativo di analizzare ciò che in noi si modifica prima che il modo di affrontarlo abbia il tempo di consolidarsi in abitudine. Una restituzione di senso a quegli oggetti «lanciati nell’area dell’esperienza con una loro assoluta irriducibilità» (p. 44). Del resto, dice ancora Bacon a Silvester, «un’altra cosa che mi piace della confusione è che c’è la polvere e io la uso. […] È tremendo tirar su tutta questa polvere, che s’attacca dappertutto. Ma è proprio quello che feci, mentre dipingevo quei quadri».
Lorena Preta, La brutalità delle cose. Trasformazioni psichiche della realtà , Mimesis, Milano,
pagg. 134, € 14,00
Lorena Preta (a cura di), Geographies of Psychoanalysis. Encounters between cultures in Tehran , Mimesis International, pagg. 124, € 13,00 ($ 15,00-£ 10,00)
Il Sole Domenica 26.7.15
Peire Cardenal
Poeta di eresia e di lotta
Dopo 25 anni di lavoro esce una coraggiosa e mastodontica edizione critica del capostipite della letteratura europea, il cantore della Crociata contro gli Albigesi
di Lorenzo Tomasin
«Ben tenh per folh e per muzart / selh qu’ab amor se lia, / quar en amor pren peior part / aquelh que plus s’i fia» (“Considero folle e stupido chi si lega ad amore, perché in amore chi più si fida prende peggior partito”). Consiglierei vivamente a Sergio Vatteroni di ritagliare una selezione o un’antologia di testi tradotti e sobriamente annotati dalla monumentale edizione critica del trovatore Peire Cardenal che egli ha pubblicato per la Collana di filologia romanza dell’editore Mucchi, cioè per una delle collezioni che fanno dell’Italia la vera patria editoriale odierna della più antica poesia della letteratura europea, quella dei poeti provenzali medievali (dei quali la cultura francese, come di tanto altro, ormai si disinteressa quasi del tutto).
Glielo consiglierei non tanto perché le oltre mille pagine complessive dei due volumi dedicati a Cardenal – pubblicati, occorre dirlo a merito dell’editore, senza il soccorso di alcun finanziamento esterno – siano inservibili per il pubblico colto che poi è l’unico che ancora va in libreria. Anche in questi due tomi infatti i testi sono limpidamente tradotti, minuziosamente commentati, accuratamente inquadrati nel tempo e nello spazio. Tutto, dunque, fuorché inservibili o inaccessibili. Ma è certo che una scelta ragionata metterebbe davvero in valore un’operazione culturale che si può ben dire eroica. Il lavoro di Vatteroni – oggi professore di Filologia romanza a Udine – sul trovatore che Gianfranco Contini definì «unico vero poeta del periodo» in cui visse, è durato quasi tre decenni, e ci consente ora di conoscere da vicino quello che già nel Medioevo era considerato un caposcuola.
Parlando di poesia provenzale, è naturale pensare a quella amorosa, che della lirica occitanica è effettivamente il nocciolo: ma Peire, come mostra il passo con cui abbiamo iniziato, s’atteggia verso le tematiche amorose a beffarda sufficienza. Più di rado si riflette sul fatto che la storia dei trovatori è anche storia di una violenta lotta politica e religiosa, il cui epicentro fu proprio la Tolosa del pieno Duecento nella quale il nostro vive, opera e scrive. Cavaliere (forse), nato a Le Puy-en-Velay, nell’Alta Loira, all’inizio del secolo, Peire passò la sua lunga vita come molti suoi simili, offrendo i suoi servigi a nobili impegnati tanto in lotte politiche intestine quanto in violenti scontri a sfondo religioso che con quelle si intersecavano. Sono i tempi della cosiddetta crociata contro gli eretici albigesi, e Peire Cardenal si impegna in un’offensiva poetica contro la corruzione, la cupidigia e l’ipocrisia del clero, che ostenta povertà e mitezza ma è pronto alle peggiori condotte, e lesto nel soffocare ogni forma di dissenso. Ah, ribaldi: «s’ieu fos maritz molt agra gran fereza, / c’om desbraitz lonc ma moiller segues, qu’ellas ez els an fauda d’un amplesza, / e fuec ab grais fort leume s’es enpres » (“se fossi un marito sarei molto preoccupato che un uomo senza brache [come appunto erano i frati] fosse seduto accanto a mia moglie, perché le donne e i frati hanno gonne ugualmente ampie, e fuoco con grasso è sempre divampato molto facilmente” – e si prenda pure il tutto in senso ovviamente e poderosamente metaforico).
L’esperienza di lettura di simili testi è quella tipica di tanta letteratura medievale : il lettore moderno è di continuo visitato dallo straniamento che è funzione della distanza ormai incolmabile di riferimenti, allusioni, toni e argomenti che sono sideralmente lontani dal nostro stesso concetto di letteratura. Ma spesso, tra le maglie di una lingua sorprendentemente comprensibile e liquida pur nella sua remota antichità, il testo si apre a una modalità sentenziosa che sembra non avere tempo, e che ritrae uomini e costumi con quella che rischia (a torto) d’apparirci come una sbalorditiva naturalezza: « El mon non a thezaur ni gran ricor / que si’aunitz, sapchatz, qu’ieu prez un guan, / qu’aitan tost mor, mas non o sabon tan, / avols cum bos, e vida ses valor / pretz meyns que mort » (’Non c’è al mondo tesoro o grande ricchezza che, quando sia disonorevole, sappiate, io stimi il valore di un guanto, perché muore altrettanto presto il malvagio come il buono, ma non sembrano rendersene conto, e una vita senza il valore la stimo meno della morte”). Oppure gioca, con gusto curiosamente vicino a quello di noi posteri, affastellando enumerazioni caotiche simili a filastrocche ancestrali, come quella dedicata agl’ingredienti di un misterioso unguento : « de neula e de ven es tot lo pus e.l mays/ vieuladura e lays / y a mes e sos grays, / e critz d’escaravais / e trufas de Roays… » (“Di nuvola e di vento è la maggior parte, arie di viella e lais vi ha messo, e gaie melodie, e il verso dello scarafaggio, e tartufi di Edessa…”). Molto più di questo è Peire Cardenal, che converrà tener presente come esemplare di un mondo e di una poesia sulle cui reali coordinate e sui cui puntuali significati non cessiamo di interrogarci, meravigliandoci soprattutto di come tutta quest’antica storia di eresie e di rivolte spirituali continui tenacemente a interessarci e forse a coinvolgerci.
Sergio Vatteroni, Il trovatore Peire Cardenal, Mucchi, Modena, pagg. 1080, € 110,00
Peire Cardenal
Poeta di eresia e di lotta
Dopo 25 anni di lavoro esce una coraggiosa e mastodontica edizione critica del capostipite della letteratura europea, il cantore della Crociata contro gli Albigesi
di Lorenzo Tomasin
«Ben tenh per folh e per muzart / selh qu’ab amor se lia, / quar en amor pren peior part / aquelh que plus s’i fia» (“Considero folle e stupido chi si lega ad amore, perché in amore chi più si fida prende peggior partito”). Consiglierei vivamente a Sergio Vatteroni di ritagliare una selezione o un’antologia di testi tradotti e sobriamente annotati dalla monumentale edizione critica del trovatore Peire Cardenal che egli ha pubblicato per la Collana di filologia romanza dell’editore Mucchi, cioè per una delle collezioni che fanno dell’Italia la vera patria editoriale odierna della più antica poesia della letteratura europea, quella dei poeti provenzali medievali (dei quali la cultura francese, come di tanto altro, ormai si disinteressa quasi del tutto).
Glielo consiglierei non tanto perché le oltre mille pagine complessive dei due volumi dedicati a Cardenal – pubblicati, occorre dirlo a merito dell’editore, senza il soccorso di alcun finanziamento esterno – siano inservibili per il pubblico colto che poi è l’unico che ancora va in libreria. Anche in questi due tomi infatti i testi sono limpidamente tradotti, minuziosamente commentati, accuratamente inquadrati nel tempo e nello spazio. Tutto, dunque, fuorché inservibili o inaccessibili. Ma è certo che una scelta ragionata metterebbe davvero in valore un’operazione culturale che si può ben dire eroica. Il lavoro di Vatteroni – oggi professore di Filologia romanza a Udine – sul trovatore che Gianfranco Contini definì «unico vero poeta del periodo» in cui visse, è durato quasi tre decenni, e ci consente ora di conoscere da vicino quello che già nel Medioevo era considerato un caposcuola.
Parlando di poesia provenzale, è naturale pensare a quella amorosa, che della lirica occitanica è effettivamente il nocciolo: ma Peire, come mostra il passo con cui abbiamo iniziato, s’atteggia verso le tematiche amorose a beffarda sufficienza. Più di rado si riflette sul fatto che la storia dei trovatori è anche storia di una violenta lotta politica e religiosa, il cui epicentro fu proprio la Tolosa del pieno Duecento nella quale il nostro vive, opera e scrive. Cavaliere (forse), nato a Le Puy-en-Velay, nell’Alta Loira, all’inizio del secolo, Peire passò la sua lunga vita come molti suoi simili, offrendo i suoi servigi a nobili impegnati tanto in lotte politiche intestine quanto in violenti scontri a sfondo religioso che con quelle si intersecavano. Sono i tempi della cosiddetta crociata contro gli eretici albigesi, e Peire Cardenal si impegna in un’offensiva poetica contro la corruzione, la cupidigia e l’ipocrisia del clero, che ostenta povertà e mitezza ma è pronto alle peggiori condotte, e lesto nel soffocare ogni forma di dissenso. Ah, ribaldi: «s’ieu fos maritz molt agra gran fereza, / c’om desbraitz lonc ma moiller segues, qu’ellas ez els an fauda d’un amplesza, / e fuec ab grais fort leume s’es enpres » (“se fossi un marito sarei molto preoccupato che un uomo senza brache [come appunto erano i frati] fosse seduto accanto a mia moglie, perché le donne e i frati hanno gonne ugualmente ampie, e fuoco con grasso è sempre divampato molto facilmente” – e si prenda pure il tutto in senso ovviamente e poderosamente metaforico).
L’esperienza di lettura di simili testi è quella tipica di tanta letteratura medievale : il lettore moderno è di continuo visitato dallo straniamento che è funzione della distanza ormai incolmabile di riferimenti, allusioni, toni e argomenti che sono sideralmente lontani dal nostro stesso concetto di letteratura. Ma spesso, tra le maglie di una lingua sorprendentemente comprensibile e liquida pur nella sua remota antichità, il testo si apre a una modalità sentenziosa che sembra non avere tempo, e che ritrae uomini e costumi con quella che rischia (a torto) d’apparirci come una sbalorditiva naturalezza: « El mon non a thezaur ni gran ricor / que si’aunitz, sapchatz, qu’ieu prez un guan, / qu’aitan tost mor, mas non o sabon tan, / avols cum bos, e vida ses valor / pretz meyns que mort » (’Non c’è al mondo tesoro o grande ricchezza che, quando sia disonorevole, sappiate, io stimi il valore di un guanto, perché muore altrettanto presto il malvagio come il buono, ma non sembrano rendersene conto, e una vita senza il valore la stimo meno della morte”). Oppure gioca, con gusto curiosamente vicino a quello di noi posteri, affastellando enumerazioni caotiche simili a filastrocche ancestrali, come quella dedicata agl’ingredienti di un misterioso unguento : « de neula e de ven es tot lo pus e.l mays/ vieuladura e lays / y a mes e sos grays, / e critz d’escaravais / e trufas de Roays… » (“Di nuvola e di vento è la maggior parte, arie di viella e lais vi ha messo, e gaie melodie, e il verso dello scarafaggio, e tartufi di Edessa…”). Molto più di questo è Peire Cardenal, che converrà tener presente come esemplare di un mondo e di una poesia sulle cui reali coordinate e sui cui puntuali significati non cessiamo di interrogarci, meravigliandoci soprattutto di come tutta quest’antica storia di eresie e di rivolte spirituali continui tenacemente a interessarci e forse a coinvolgerci.
Sergio Vatteroni, Il trovatore Peire Cardenal, Mucchi, Modena, pagg. 1080, € 110,00
Il Sole Domenica 26.7.15
Repertori iconografici
Sant’Agostino e i suoi occhiali
di Carlo Carena
Quella di sant’Agostino è, assieme a quella di san Paolo, l’esperienza più straordinaria e più umana fra i santi. Documentata senza pudori e reticenze bigotte nell’autobiografia delle Confessioni, comprende tutto nelle sue circostanze: nascita a Tagaste in Tunisia, una fanciullezza vivace, studi completi, trasferimento a Roma e poi a Milano con la madre, una concubina e un figlio, insegnamento brillante di retorica; e finalmente l’incontro con sant’Ambrogio, la crisi interiore, il distacco dal mondo, il ritorno con gli amici da Ostia in Africa e lì il vescovado di Ippona, la morte nel 430 entro la città assediata dai Vandali.
Questo canovaccio e la miriade di episodi intercalati, autentici o poi leggendari, fu una miniera non solo per l’agiografia e per l’apologetica ma anche per l’arte. Agostino è fra i santi più dipinti e la sua figura e la sua vita documentate (e ce n’è abbastanza) o immaginate (non basta mai) si snodano nella pittura e scultura dai primi secoli in poi con ricchezza straordinaria e splendidi risultati. Alessandro Cosma, docente alla Sapienza, e Gianni Pittiglio, del Ministero dei Beni Culturali, si sono avventurati su quel percorso in una serie di splendidi tomi che stanno affiancando l’edizione dell’opera omnia del sommo teologo presso l’editrice Città Nuova. Dopo quello fino al Trecento, del 2011, escono ora i due tomi, ponderosi e un po’ anche macchinosi, relativi al secolo innovatore, il Quattrocento. Nuovo stile e novità iconografiche che ebbero un séguito importante o si persero per via.
Una ricerca impressionante, con un attrezzato drappello di collaboratori, senza risparmio di dati e di fatiche. Dopo una serie di saggi introduttivi che analizzano questa evoluzione, ci si inoltra in una selezione ed esame di 125 opere; la mappatura poi eseguita e documentata nel secondo tomo ascende a 750 opere fisse o mobili sparse per tutto il mondo, quasi la metà in Italia. Ma in un’appendice Oltre il corpus: per continuare la ricerca ne sono schedate altre centinaia fin nei più sperduti villaggi di tutta l’Europa. Quasi tutti i genî pittorici del Quattrocento partecipano a questa vicenda stimolante. Il santo appare nelle grandi pale in grevi abiti episcopali con i tre colleghi dotti Gerolamo, Ambrogio, Gregorio; più divertente che altrove in foggia di giovanotto intento a leggere con le gambe incrociate e un bel paio di occhiali a pince-nez in una tempera del Maestro di Grossgmain al Belvedere di Vienna. Mentre più ricco e solenne appare entro una miniatura fiamminga di una Bibbia vulgata, disputante in un altro quartetto assieme ad Alberto Magno con Aristotele in cappa e cuffia rosse e Averroè in perfetto profilo arabo. E mentre i quattro discutono di enti e creazione, il libro che Agostino regge fra le mani è quello delle Confessioni aperte nel celebre esordio, che tutto dirime, Fecisti nos ad Te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te.
L’episodio biografico più ripreso è quello del giovane pensatore o santo attempato che mentre in riva al mare si arrovella per spiegarsi e spiegare razionalmente il mistero trinitario, scorge ai suoi piedi un bimbo che con un cucchiaio cerca di travasare entro una buca tutta l’acqua del mare: impresa inane e assurda tanto quanto la sua. Il culmine è qui raggiunto nelle raffigurazioni date da Pinturicchio o da Botticelli in due predelle rispettivamente alla Galleria Nazionale di Perugia e agli Uffizi.
Quanto ai cicli, il più ampio e mirabile è indubbiamente quello degli affreschi di Benozzo Gozzoli nel coro della chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano (1464-1465), con una ventina di scene più principesche che monacali, da Agostino scolaretto alle sue esequie, inquadrate in squisite piazze rinascimentali o sui deliziosi colli toscani. Ma anche il ciclo di Ottavio Nelli nell’altro coro della chiesa di Sant’Agostino a Gubbio non è da meno. I temi sono pressoché i medesimi, ma la messinscena è più fresca e arcaica, il cromatismo più forte, l’effetto più immediato. In tema di primati, un altro non è meno appassionante. Come si sa, la biografia agostiniana è documentata, oltreché dalle sue confessioni, da una breve biografia del discepolo Possidio; e più tardi sopraggiunge un apposito prontuario, il Metrum pro depingenda vita sancti Augustini di Giordano di Sassonia (manoscritto alla Bibliothèque Nationale, sec. XV). È così che in tre codici anonimi provenienti da Costanza sono tratteggiate più di 100 scene, dal matrimonio dei genitori Monica e Patrizio a tre vigorosi operai che inchiodano a sonori colpi di martello l’arca della sepoltura del santo in San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, dove monaci e sovrani poi lo venerano.
I ritratti più umani e perciò emozionanti sono decisamente, come in un dittico ideale, quello di Giusto di Gand, già fra gli Uomini Illustri delle 28 tavole nello studiolo di Federico di Montefeltro a Urbino e ora al Louvre: un giovane vescovo imberbe e triste con una mano e gli occhi sofferenti rivolti al cielo lontano; e la tempera su tavola di Antonello alla Galleria di Palermo: un vecchio dolce con gli occhi piccoli e la barba soffice che legge da solo finalmente in pace.
Alessandro Cosma - Gianni Pittiglio, Iconografia agostiniana. Il Quattrocento , primo tomo (saggi e schede) e secondo tomo (il corpus), pag. 612 e pag. 429, Città Nuova, Roma, € 120 e € 85,00
Repertori iconografici
Sant’Agostino e i suoi occhiali
di Carlo Carena
Quella di sant’Agostino è, assieme a quella di san Paolo, l’esperienza più straordinaria e più umana fra i santi. Documentata senza pudori e reticenze bigotte nell’autobiografia delle Confessioni, comprende tutto nelle sue circostanze: nascita a Tagaste in Tunisia, una fanciullezza vivace, studi completi, trasferimento a Roma e poi a Milano con la madre, una concubina e un figlio, insegnamento brillante di retorica; e finalmente l’incontro con sant’Ambrogio, la crisi interiore, il distacco dal mondo, il ritorno con gli amici da Ostia in Africa e lì il vescovado di Ippona, la morte nel 430 entro la città assediata dai Vandali.
Questo canovaccio e la miriade di episodi intercalati, autentici o poi leggendari, fu una miniera non solo per l’agiografia e per l’apologetica ma anche per l’arte. Agostino è fra i santi più dipinti e la sua figura e la sua vita documentate (e ce n’è abbastanza) o immaginate (non basta mai) si snodano nella pittura e scultura dai primi secoli in poi con ricchezza straordinaria e splendidi risultati. Alessandro Cosma, docente alla Sapienza, e Gianni Pittiglio, del Ministero dei Beni Culturali, si sono avventurati su quel percorso in una serie di splendidi tomi che stanno affiancando l’edizione dell’opera omnia del sommo teologo presso l’editrice Città Nuova. Dopo quello fino al Trecento, del 2011, escono ora i due tomi, ponderosi e un po’ anche macchinosi, relativi al secolo innovatore, il Quattrocento. Nuovo stile e novità iconografiche che ebbero un séguito importante o si persero per via.
Una ricerca impressionante, con un attrezzato drappello di collaboratori, senza risparmio di dati e di fatiche. Dopo una serie di saggi introduttivi che analizzano questa evoluzione, ci si inoltra in una selezione ed esame di 125 opere; la mappatura poi eseguita e documentata nel secondo tomo ascende a 750 opere fisse o mobili sparse per tutto il mondo, quasi la metà in Italia. Ma in un’appendice Oltre il corpus: per continuare la ricerca ne sono schedate altre centinaia fin nei più sperduti villaggi di tutta l’Europa. Quasi tutti i genî pittorici del Quattrocento partecipano a questa vicenda stimolante. Il santo appare nelle grandi pale in grevi abiti episcopali con i tre colleghi dotti Gerolamo, Ambrogio, Gregorio; più divertente che altrove in foggia di giovanotto intento a leggere con le gambe incrociate e un bel paio di occhiali a pince-nez in una tempera del Maestro di Grossgmain al Belvedere di Vienna. Mentre più ricco e solenne appare entro una miniatura fiamminga di una Bibbia vulgata, disputante in un altro quartetto assieme ad Alberto Magno con Aristotele in cappa e cuffia rosse e Averroè in perfetto profilo arabo. E mentre i quattro discutono di enti e creazione, il libro che Agostino regge fra le mani è quello delle Confessioni aperte nel celebre esordio, che tutto dirime, Fecisti nos ad Te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te.
L’episodio biografico più ripreso è quello del giovane pensatore o santo attempato che mentre in riva al mare si arrovella per spiegarsi e spiegare razionalmente il mistero trinitario, scorge ai suoi piedi un bimbo che con un cucchiaio cerca di travasare entro una buca tutta l’acqua del mare: impresa inane e assurda tanto quanto la sua. Il culmine è qui raggiunto nelle raffigurazioni date da Pinturicchio o da Botticelli in due predelle rispettivamente alla Galleria Nazionale di Perugia e agli Uffizi.
Quanto ai cicli, il più ampio e mirabile è indubbiamente quello degli affreschi di Benozzo Gozzoli nel coro della chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano (1464-1465), con una ventina di scene più principesche che monacali, da Agostino scolaretto alle sue esequie, inquadrate in squisite piazze rinascimentali o sui deliziosi colli toscani. Ma anche il ciclo di Ottavio Nelli nell’altro coro della chiesa di Sant’Agostino a Gubbio non è da meno. I temi sono pressoché i medesimi, ma la messinscena è più fresca e arcaica, il cromatismo più forte, l’effetto più immediato. In tema di primati, un altro non è meno appassionante. Come si sa, la biografia agostiniana è documentata, oltreché dalle sue confessioni, da una breve biografia del discepolo Possidio; e più tardi sopraggiunge un apposito prontuario, il Metrum pro depingenda vita sancti Augustini di Giordano di Sassonia (manoscritto alla Bibliothèque Nationale, sec. XV). È così che in tre codici anonimi provenienti da Costanza sono tratteggiate più di 100 scene, dal matrimonio dei genitori Monica e Patrizio a tre vigorosi operai che inchiodano a sonori colpi di martello l’arca della sepoltura del santo in San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, dove monaci e sovrani poi lo venerano.
I ritratti più umani e perciò emozionanti sono decisamente, come in un dittico ideale, quello di Giusto di Gand, già fra gli Uomini Illustri delle 28 tavole nello studiolo di Federico di Montefeltro a Urbino e ora al Louvre: un giovane vescovo imberbe e triste con una mano e gli occhi sofferenti rivolti al cielo lontano; e la tempera su tavola di Antonello alla Galleria di Palermo: un vecchio dolce con gli occhi piccoli e la barba soffice che legge da solo finalmente in pace.
Alessandro Cosma - Gianni Pittiglio, Iconografia agostiniana. Il Quattrocento , primo tomo (saggi e schede) e secondo tomo (il corpus), pag. 612 e pag. 429, Città Nuova, Roma, € 120 e € 85,00
Il Sole Domenica 26.7.15
Grandi dittatori
Ciò che Tito imparò da Stalin
di Valerio Castronovo
Una poderosa biografia di Jože Pirjevec ricostruisce la vita dell’ex sergente croato, dai cinque anni trascorsi in carcere alla Jugoslavia unita dal culto della personalità
Avrebbe voluto raggiungere gli Stati Uniti Josip Broz, ex sergente croato di un reggimento di fanteria asburgico, caduto prigioniero dei russi nel maggio 1915 e fuggiasco in Finlandia nel luglio 1917, dopo aver partecipato a Pietrogrado a un moto dei bolscevichi. «Se ci fossi riuscito sarei diventato milionario» dirà più tardi. Vero o meno che avesse pensato di scappare Oltreatlantico, sta di fatto che proprio da allora, una volta sottrattosi fortunosamente dalla deportazione negli Urali e arruolatosi poi nell’Armata Rossa, Tito cominciò la sua eccezionale avventura politica nei meandri del movimento comunista.
A ricostruirla, in tutti i suoi risvolti, è adesso la poderosa opera di Jože Pirjevec, imperniata su una vasta documentazione (di archivi ex jugoslavi e sovietici nonché statunitensi, britannici e italiani). Vengono così in piena luce vari episodi emblematici (rimasti inesplorati o non sufficientemente approfonditi) di una vicenda come quella di Tito densa di aspetti oscuri e controversi; e, di riflesso, alcuni snodi cruciali della complessa parabola della Jugoslavia sin quasi alla vigilia della sua disgregazione.
Dall’analisi dello storico sloveno risulta innanzitutto che Tito dovette ai cinque anni da lui passati in carcere, dopo la condanna nel 1929 per attività sovversive, non solo la sua formazione di rivoluzionario di professione (per la lettura in cella di alcuni testi marxisti) ma la sua stessa vita, in quanto, rinchiuso dietro le sbarre, evitò di subire la medesima sorte di numerosi militanti comunisti, torturati a morte o fucilati durante la dittatura instaurata da re Alessandro. Fu poi durante il suo soggiorno a Mosca, dal febbraio 1935, ospitato nell’albergo Lux (dove erano di casa gli stranieri in cerca di asilo), che egli apprese quel che più contava per far carriera e non cadere in disgrazia: ossia, la metodologia e la prassi del potere staliniano.
Tito non ebbe comunque difficoltà ad attenervisi, in quanto era già alieno, nel suo rissosissimo partito, da dispute teoriche e quindi da qualsiasi genere di dubbio. Questo suo innato pragmatismo, associato a una forte dose di cinismo, sarebbe rimasto una costante del suo modo di agire. Il Cremlino si avvalse perciò di lui, dapprima, per la riorganizzazione in Jugoslavia della sua rete spionistica e poi, in Spagna nel 1937, per alcuni «affari sporchi» concernenti l’eliminazione di trockisti e «settaristi». Fu così che Tito, grazie all’appoggio nel Comintern di Dimitrov, conquistò nel gennaio 1939 la carica di segretario del Pcj, di cui seppe rinsanguare le fila per il suo ascendente su giovani studenti e operai.
Dopo l’invasione nell’aprile 1941 delle truppe tedesche e italiane, Tito guidò il movimento partigiano comunista e contese al capo dei cetnici Mihailovic la leadership della Resistenza, riuscendo da un lato a condurre un’efficace lotta contro gli occupanti (al punto che Hitler s’infuriò con i suoi per non esser mai giunti a catturarlo) e dall’altro a destreggiarsi abilmente con gli emissari di Churchill che intendeva preservare la monarchia di Pietro II.
Alla fine del conflitto la spietata resa dei conti nei riguardi dei collaborazionisti, che decimò fra settantamila e centomila persone, venne lodata da Stalin, che deluse tuttavia Tito sulla questione di Trieste non avendo preso, a scanso di ulteriori tensioni con le potenze occidentali, una netta posizione a sostegno delle pretese di Belgrado. Al riguardo, peraltro, non si riscontra, nel resoconto generalmente puntuale ed equilibrato di Pirjevec, un adeguato riferimento all’“infoibazione” di tanti italiani.
Il silenzio steso da Tito sul ruolo dell’Armata Rossa nella liberazione della Jugoslavia irritò a sua volta Stalin: finché alcune iniziative diplomatiche autonome del Maresciallo nei riguardi dell’Occidente spinsero il Cremlino nel settembre 1948 ad accusare Tito e i suoi sodali (Kardelj, Rankovi? e Djilas) di «ottuso nazionalismo» e di «tradimento» del fronte comunista. Né valse a rabbonire Stalin la collettivizzazione totale delle terre in conformità ai dettami leninisti. Di fatto, nel gennaio 1951 il Cremlino giunse persino a prendere in esame con i paesi satelliti la prospettiva di un attacco alla Jugoslavia.
Se dopo la scomparsa di Stalin il dissidio fra Mosca e Belgrado venne attenuandosi (anche perché non si trattava di una spaccatura sul piano ideologico), l’intesa con Kruscev (già messa a dura prova per la repressione sovietica dei moti popolari in Polonia e Ungheria) non sopravvisse all’esecuzione nel giugno 1958 di Imre Nagy (accusato a suo tempo di «titoismo»). Oltre che di «eresia», i dirigenti jugoslavi vennero tacciati di «parassitismo», in quanto sospettati, per gli aiuti economici ricevuti da Washington, di cospirare contro il blocco socialista. Tuttavia il governo di Belgrado aveva ormai acquisito un ruolo autorevole in sede internazionale, grazie alla sagace azione svolta da Tito (di concerto con Nehru e Nasser), per l’avvento di un fronte di paesi «non allineati»; e, insieme a una riforma dell’autogestione operaia nelle fabbriche (i cui risultati erano stati inferiori alle aspettative originarie), aveva cominciato ad aprire il paese agli investimenti esteri.
Facendo leva sul suo personale carisma Tito seguitò non solo a esorcizzare le reiterate condanne per «revisionismo» emesse tanto da Brežnev che dalla Cina di Mao; emarginò anche dai vertici del Pcj alcuni stretti collaboratori d’un tempo critici nei riguardi della sua autocrazia e di uno stile di vita sfarzoso, simile a quello di un arciduca austriaco. Ma intanto s’era acuita la tradizionale rivalità fra serbi e croati e la Slovenia non faceva mistero di puntare a un’integrazione economica con i paesi occidentali confinanti. Tant’è che una nuova Costituzione, varata nel 1974, non valse a scongiurare anche la progressiva reviviscenza sciovinista di altri gruppi etnici (fra macedoni, montenegrini e bosniaci musulmani) e minoritari (fra albanesi, ungheresi e tedeschi). Perciò, dopo la scomparsa nel 1980 dell’ottantottenne Maresciallo (il cui culto della personalità aveva agito fino ad allora da collante) si delineò il crepuscolo della Federazione jugoslava, sfociato poi in una micidiale trafila di guerre civili.
Jože Pirjevec, Tito e i suoi compagni , Einaudi, Torino, pagg. 620, € 42,00
Grandi dittatori
Ciò che Tito imparò da Stalin
di Valerio Castronovo
Una poderosa biografia di Jože Pirjevec ricostruisce la vita dell’ex sergente croato, dai cinque anni trascorsi in carcere alla Jugoslavia unita dal culto della personalità
Avrebbe voluto raggiungere gli Stati Uniti Josip Broz, ex sergente croato di un reggimento di fanteria asburgico, caduto prigioniero dei russi nel maggio 1915 e fuggiasco in Finlandia nel luglio 1917, dopo aver partecipato a Pietrogrado a un moto dei bolscevichi. «Se ci fossi riuscito sarei diventato milionario» dirà più tardi. Vero o meno che avesse pensato di scappare Oltreatlantico, sta di fatto che proprio da allora, una volta sottrattosi fortunosamente dalla deportazione negli Urali e arruolatosi poi nell’Armata Rossa, Tito cominciò la sua eccezionale avventura politica nei meandri del movimento comunista.
A ricostruirla, in tutti i suoi risvolti, è adesso la poderosa opera di Jože Pirjevec, imperniata su una vasta documentazione (di archivi ex jugoslavi e sovietici nonché statunitensi, britannici e italiani). Vengono così in piena luce vari episodi emblematici (rimasti inesplorati o non sufficientemente approfonditi) di una vicenda come quella di Tito densa di aspetti oscuri e controversi; e, di riflesso, alcuni snodi cruciali della complessa parabola della Jugoslavia sin quasi alla vigilia della sua disgregazione.
Dall’analisi dello storico sloveno risulta innanzitutto che Tito dovette ai cinque anni da lui passati in carcere, dopo la condanna nel 1929 per attività sovversive, non solo la sua formazione di rivoluzionario di professione (per la lettura in cella di alcuni testi marxisti) ma la sua stessa vita, in quanto, rinchiuso dietro le sbarre, evitò di subire la medesima sorte di numerosi militanti comunisti, torturati a morte o fucilati durante la dittatura instaurata da re Alessandro. Fu poi durante il suo soggiorno a Mosca, dal febbraio 1935, ospitato nell’albergo Lux (dove erano di casa gli stranieri in cerca di asilo), che egli apprese quel che più contava per far carriera e non cadere in disgrazia: ossia, la metodologia e la prassi del potere staliniano.
Tito non ebbe comunque difficoltà ad attenervisi, in quanto era già alieno, nel suo rissosissimo partito, da dispute teoriche e quindi da qualsiasi genere di dubbio. Questo suo innato pragmatismo, associato a una forte dose di cinismo, sarebbe rimasto una costante del suo modo di agire. Il Cremlino si avvalse perciò di lui, dapprima, per la riorganizzazione in Jugoslavia della sua rete spionistica e poi, in Spagna nel 1937, per alcuni «affari sporchi» concernenti l’eliminazione di trockisti e «settaristi». Fu così che Tito, grazie all’appoggio nel Comintern di Dimitrov, conquistò nel gennaio 1939 la carica di segretario del Pcj, di cui seppe rinsanguare le fila per il suo ascendente su giovani studenti e operai.
Dopo l’invasione nell’aprile 1941 delle truppe tedesche e italiane, Tito guidò il movimento partigiano comunista e contese al capo dei cetnici Mihailovic la leadership della Resistenza, riuscendo da un lato a condurre un’efficace lotta contro gli occupanti (al punto che Hitler s’infuriò con i suoi per non esser mai giunti a catturarlo) e dall’altro a destreggiarsi abilmente con gli emissari di Churchill che intendeva preservare la monarchia di Pietro II.
Alla fine del conflitto la spietata resa dei conti nei riguardi dei collaborazionisti, che decimò fra settantamila e centomila persone, venne lodata da Stalin, che deluse tuttavia Tito sulla questione di Trieste non avendo preso, a scanso di ulteriori tensioni con le potenze occidentali, una netta posizione a sostegno delle pretese di Belgrado. Al riguardo, peraltro, non si riscontra, nel resoconto generalmente puntuale ed equilibrato di Pirjevec, un adeguato riferimento all’“infoibazione” di tanti italiani.
Il silenzio steso da Tito sul ruolo dell’Armata Rossa nella liberazione della Jugoslavia irritò a sua volta Stalin: finché alcune iniziative diplomatiche autonome del Maresciallo nei riguardi dell’Occidente spinsero il Cremlino nel settembre 1948 ad accusare Tito e i suoi sodali (Kardelj, Rankovi? e Djilas) di «ottuso nazionalismo» e di «tradimento» del fronte comunista. Né valse a rabbonire Stalin la collettivizzazione totale delle terre in conformità ai dettami leninisti. Di fatto, nel gennaio 1951 il Cremlino giunse persino a prendere in esame con i paesi satelliti la prospettiva di un attacco alla Jugoslavia.
Se dopo la scomparsa di Stalin il dissidio fra Mosca e Belgrado venne attenuandosi (anche perché non si trattava di una spaccatura sul piano ideologico), l’intesa con Kruscev (già messa a dura prova per la repressione sovietica dei moti popolari in Polonia e Ungheria) non sopravvisse all’esecuzione nel giugno 1958 di Imre Nagy (accusato a suo tempo di «titoismo»). Oltre che di «eresia», i dirigenti jugoslavi vennero tacciati di «parassitismo», in quanto sospettati, per gli aiuti economici ricevuti da Washington, di cospirare contro il blocco socialista. Tuttavia il governo di Belgrado aveva ormai acquisito un ruolo autorevole in sede internazionale, grazie alla sagace azione svolta da Tito (di concerto con Nehru e Nasser), per l’avvento di un fronte di paesi «non allineati»; e, insieme a una riforma dell’autogestione operaia nelle fabbriche (i cui risultati erano stati inferiori alle aspettative originarie), aveva cominciato ad aprire il paese agli investimenti esteri.
Facendo leva sul suo personale carisma Tito seguitò non solo a esorcizzare le reiterate condanne per «revisionismo» emesse tanto da Brežnev che dalla Cina di Mao; emarginò anche dai vertici del Pcj alcuni stretti collaboratori d’un tempo critici nei riguardi della sua autocrazia e di uno stile di vita sfarzoso, simile a quello di un arciduca austriaco. Ma intanto s’era acuita la tradizionale rivalità fra serbi e croati e la Slovenia non faceva mistero di puntare a un’integrazione economica con i paesi occidentali confinanti. Tant’è che una nuova Costituzione, varata nel 1974, non valse a scongiurare anche la progressiva reviviscenza sciovinista di altri gruppi etnici (fra macedoni, montenegrini e bosniaci musulmani) e minoritari (fra albanesi, ungheresi e tedeschi). Perciò, dopo la scomparsa nel 1980 dell’ottantottenne Maresciallo (il cui culto della personalità aveva agito fino ad allora da collante) si delineò il crepuscolo della Federazione jugoslava, sfociato poi in una micidiale trafila di guerre civili.
Jože Pirjevec, Tito e i suoi compagni , Einaudi, Torino, pagg. 620, € 42,00
Il Sole Domenica 26.7.15
Totalitarismi
Il fallimento del Duce
Mussolini non riuscì nel suo intento: trasformare gli italiani in veri fascisti. È questa, secondo lo storico inglese Paul Corner, la vera sintesi del Ventennio
di Emilio Gentile
Dicembre 1935. Da tre mesi l’Italia fascista è in guerra contro l’Etiopia, aggredita dal duce. Un cattolico italiano descrive la condizione degli italiani dopo tredici anni di regime fascista: «Sempre più chiaramente si delineano i danni portati dal Fascismo …. ha creato una confusione tra partito, Italia, Duce …. gli italiani sono ormai un popolo di pecore che corrono dove il pastore, col bastone, le porta … ha divinizzato il Duce, facendo chinare tutti davanti a questo Nume …non c’è ormai che un’accozzaglia di schiavi, pronti sempre a dir di sì, a batter le mani, saturi di entusiasmo … ha accentrato tutti i poteri, tutti i mezzi, tutte le età nelle mani e nelle organizzazioni dello Stato … la Chiesa non può più contare su moltissime anime che son prese dal demone del Nazionalismo e che credono più a Mussolini che al Papa. …Mai la Santa Sede ha passato – credo – un periodo più difficile di questo».
Giugno 1938. Un antifascista italiano osserva: «Il fascismo non opprime e non controlla solo con la sua polizia: esso opprime e controlla con i suoi sindacati, con l’educazione, con la parte che esercita nelle industrie e nelle banche, con la burocrazia immensa che crea, dirige e mette in moto, con la stampa e con la radio. Tutto il Paese è inglobato in questo apparato: le manifestazioni di scontento e di sfiducia sono avvertite immediatamente al centro, e sono deviate utilizzandole per quei fini stessi di aggressione contro i quali erano sorte».
Febbraio 1940. Un fascista italiano dichiara: «è un bene per il popolo italiano essere costretto a prove che ne scuotono la secolare pigrizia mentale. … Bisogna tenerlo inquadrato e in uniforme dalla mattina alla sera. E ci vuole bastone, bastone, bastone».
Gli italiani appena citati, concordi nel descrivere come viveva il popolo italiano nel regime fascista erano: monsignor Domenico Tardini, sottosegretario della congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari, che scrisse le sue osservazioni per Pio XI; Alberto Cianca, dirigente del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”; e il duce del fascismo. Le loro citazioni non sono tratte dai documenti che Paul Corner ha utilizzato per studiare la reazione degli italiani all’invadenza totalitaria del partito fascista, ma sono testimonianze molto significative, che integrano la documentazione dello storico inglese e possono servire ad approfondire la riflessione sulle questioni che egli ha trattato nel suo libro.
Corner è uno storico della storia d’Italia e del fascismo. Si deve a lui un libro importante sulle origini del fascismo a Ferrara, pubblicato nel 1974, seguito nei decenni successivi da saggi sull’economia, la politica e l’opinione pubblica durante il regime fascista. Sviluppando quest’ultimo tema di ricerca, Corner si è posto una domanda: «in seguito al lavoro svolto dal partito, gli italiani divennero veri fascisti?». La sua risposta, in conclusione, è nettamente negativa: «il fatto che il partito non sia riuscito a raggiungere l’obiettivo di creare una nazione di ’veri fascisti’ va visto come il fallimento del fascismo stesso».
Il giudizio dello storico inglese conferma le conclusioni alle quali è giunta da tempo la storiografia sul fascismo, in particolare quella italiana. Oltre venti anni fa, studiando il ruolo del partito fascista nel regime e nella società, chi scrive constatò che alla fine degli anni Trenta il partito era diventato «un farraginoso apparato burocratico con funzioni d’inquadramento militaresco e di propaganda pedagogica, largamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica» (E.Gentile, La via italiana al totalitarismo, III ed., Carocci 2008)
Ma ancor prima degli storici, il giudizio sul fallimento fascista ha avuto l’autorevole avallo dello stesso duce: solo che, a differenza degli storici, Mussolini attribuiva la causa del fallimento agli italiani: «Non è il fascismo che ha guastato gli italiani, ma sono gli italiani che hanno guastato il fascismo», affermava il 29 marzo 1944. E il 20 giugno ribadiva: «Chi fallisce è questa massa di schiavi infetti e ammalati che oscillano fra l’abulia e la disperazione». (B.Mussolini, A Clara. Tutte le lettere a Clara Petacci 1943-1945, Mondadori 2011).
Dato ormai per certo che il partito fascista non riuscì a trasformare gli italiani in veri fascisti, proprio la constatazione del fallimento suscita nuove questioni, come il confronto fra il fallimento fascista e l’esito fallimentare di altri partiti totalitari. Per esempio, dopo oltre sette decenni di assoluto dominio, il disfacimento del regime sovietico per implosione non rivelò che nella stragrande maggioranza, i russi non erano diventati veri comunisti. Già venti anni prima, lo storico comunista dissidente Roy Medvedev aveva constatato che «la maggioranza del popolo, del partito e dell’intellighenzia è politicamente passiva … l’indifferenza, se non addirittura un consapevole rifiuto della politica sono ormai atteggiamenti radicati, una forma di autodifesa. Noi abbiamo un apparato statale e di partito massiccio, il cui potere è virtualmente illimitato, ma a causa dell’incompetenza professionale e politica di molti funzionari, questa enorme macchina è inefficiente ed estremamente vulnerabile alle critiche.” (Roy A.Medvedev, La democrazia socialista, Vallecchi 1977). La descrizione dello storico russo coincide, quasi alla lettera, con la descrizione della situazione italiana fatta dallo storico inglese, avvalendosi delle relazioni sull’opinione pubblica redatte dagli osservatori fascisti. Queste relazioni finivano quotidianamente sotto gli occhi di Mussolini e dei massimi gerarchi del partito; da ciò sorge un’altra importante domanda: perché il duce e i gerarchi perseverarono nell’esperimento totalitario, pur sapendo che l’invadenza del partito aveva effetti devastanti e controproducenti fra la popolazione?
Lo storico non è un curatore fallimentare. Accertato il fallimento del fascismo, il suo compito non è concluso. Anzi, su molte questioni, come quelle appena accennate, forse la storiografia è allo stadio iniziale.
Paul Corner, Italia fascista. Politica e opinione popolare sotto la dittatura , Carocci, Roma, pagg. 390, € 28,00
Totalitarismi
Il fallimento del Duce
Mussolini non riuscì nel suo intento: trasformare gli italiani in veri fascisti. È questa, secondo lo storico inglese Paul Corner, la vera sintesi del Ventennio
di Emilio Gentile
Dicembre 1935. Da tre mesi l’Italia fascista è in guerra contro l’Etiopia, aggredita dal duce. Un cattolico italiano descrive la condizione degli italiani dopo tredici anni di regime fascista: «Sempre più chiaramente si delineano i danni portati dal Fascismo …. ha creato una confusione tra partito, Italia, Duce …. gli italiani sono ormai un popolo di pecore che corrono dove il pastore, col bastone, le porta … ha divinizzato il Duce, facendo chinare tutti davanti a questo Nume …non c’è ormai che un’accozzaglia di schiavi, pronti sempre a dir di sì, a batter le mani, saturi di entusiasmo … ha accentrato tutti i poteri, tutti i mezzi, tutte le età nelle mani e nelle organizzazioni dello Stato … la Chiesa non può più contare su moltissime anime che son prese dal demone del Nazionalismo e che credono più a Mussolini che al Papa. …Mai la Santa Sede ha passato – credo – un periodo più difficile di questo».
Giugno 1938. Un antifascista italiano osserva: «Il fascismo non opprime e non controlla solo con la sua polizia: esso opprime e controlla con i suoi sindacati, con l’educazione, con la parte che esercita nelle industrie e nelle banche, con la burocrazia immensa che crea, dirige e mette in moto, con la stampa e con la radio. Tutto il Paese è inglobato in questo apparato: le manifestazioni di scontento e di sfiducia sono avvertite immediatamente al centro, e sono deviate utilizzandole per quei fini stessi di aggressione contro i quali erano sorte».
Febbraio 1940. Un fascista italiano dichiara: «è un bene per il popolo italiano essere costretto a prove che ne scuotono la secolare pigrizia mentale. … Bisogna tenerlo inquadrato e in uniforme dalla mattina alla sera. E ci vuole bastone, bastone, bastone».
Gli italiani appena citati, concordi nel descrivere come viveva il popolo italiano nel regime fascista erano: monsignor Domenico Tardini, sottosegretario della congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari, che scrisse le sue osservazioni per Pio XI; Alberto Cianca, dirigente del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”; e il duce del fascismo. Le loro citazioni non sono tratte dai documenti che Paul Corner ha utilizzato per studiare la reazione degli italiani all’invadenza totalitaria del partito fascista, ma sono testimonianze molto significative, che integrano la documentazione dello storico inglese e possono servire ad approfondire la riflessione sulle questioni che egli ha trattato nel suo libro.
Corner è uno storico della storia d’Italia e del fascismo. Si deve a lui un libro importante sulle origini del fascismo a Ferrara, pubblicato nel 1974, seguito nei decenni successivi da saggi sull’economia, la politica e l’opinione pubblica durante il regime fascista. Sviluppando quest’ultimo tema di ricerca, Corner si è posto una domanda: «in seguito al lavoro svolto dal partito, gli italiani divennero veri fascisti?». La sua risposta, in conclusione, è nettamente negativa: «il fatto che il partito non sia riuscito a raggiungere l’obiettivo di creare una nazione di ’veri fascisti’ va visto come il fallimento del fascismo stesso».
Il giudizio dello storico inglese conferma le conclusioni alle quali è giunta da tempo la storiografia sul fascismo, in particolare quella italiana. Oltre venti anni fa, studiando il ruolo del partito fascista nel regime e nella società, chi scrive constatò che alla fine degli anni Trenta il partito era diventato «un farraginoso apparato burocratico con funzioni d’inquadramento militaresco e di propaganda pedagogica, largamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica» (E.Gentile, La via italiana al totalitarismo, III ed., Carocci 2008)
Ma ancor prima degli storici, il giudizio sul fallimento fascista ha avuto l’autorevole avallo dello stesso duce: solo che, a differenza degli storici, Mussolini attribuiva la causa del fallimento agli italiani: «Non è il fascismo che ha guastato gli italiani, ma sono gli italiani che hanno guastato il fascismo», affermava il 29 marzo 1944. E il 20 giugno ribadiva: «Chi fallisce è questa massa di schiavi infetti e ammalati che oscillano fra l’abulia e la disperazione». (B.Mussolini, A Clara. Tutte le lettere a Clara Petacci 1943-1945, Mondadori 2011).
Dato ormai per certo che il partito fascista non riuscì a trasformare gli italiani in veri fascisti, proprio la constatazione del fallimento suscita nuove questioni, come il confronto fra il fallimento fascista e l’esito fallimentare di altri partiti totalitari. Per esempio, dopo oltre sette decenni di assoluto dominio, il disfacimento del regime sovietico per implosione non rivelò che nella stragrande maggioranza, i russi non erano diventati veri comunisti. Già venti anni prima, lo storico comunista dissidente Roy Medvedev aveva constatato che «la maggioranza del popolo, del partito e dell’intellighenzia è politicamente passiva … l’indifferenza, se non addirittura un consapevole rifiuto della politica sono ormai atteggiamenti radicati, una forma di autodifesa. Noi abbiamo un apparato statale e di partito massiccio, il cui potere è virtualmente illimitato, ma a causa dell’incompetenza professionale e politica di molti funzionari, questa enorme macchina è inefficiente ed estremamente vulnerabile alle critiche.” (Roy A.Medvedev, La democrazia socialista, Vallecchi 1977). La descrizione dello storico russo coincide, quasi alla lettera, con la descrizione della situazione italiana fatta dallo storico inglese, avvalendosi delle relazioni sull’opinione pubblica redatte dagli osservatori fascisti. Queste relazioni finivano quotidianamente sotto gli occhi di Mussolini e dei massimi gerarchi del partito; da ciò sorge un’altra importante domanda: perché il duce e i gerarchi perseverarono nell’esperimento totalitario, pur sapendo che l’invadenza del partito aveva effetti devastanti e controproducenti fra la popolazione?
Lo storico non è un curatore fallimentare. Accertato il fallimento del fascismo, il suo compito non è concluso. Anzi, su molte questioni, come quelle appena accennate, forse la storiografia è allo stadio iniziale.
Paul Corner, Italia fascista. Politica e opinione popolare sotto la dittatura , Carocci, Roma, pagg. 390, € 28,00
Il Sole Domenica 26.7.15
Lezioni d’amore
Cicerone, la saggezza e le passioni
di Armando Massarenti
Libertà intellettuale, immaginazione filosofica e governo di sé: ecco la ricetta che offre il filosofo e oratore Cicerone per imparare ad amministrare le proprie passioni, amorose e non, nell’affascinante dialogo filosofico raccolto nelle Lezioni d’amore (il IV libro delle Discussioni Tuscolane).
Libertà intellettuale, innanzitutto: «Ciascuno sostenga il suo punto di vista, poiché c’è libertà di opinioni: noi resteremo fedeli alla nostra norma e, senza legarci ai dogmi di alcuna teoria così da essere costretti a seguirli, ricercheremo sempre di ogni questione la più probabile». È lo straordinario eclettismo di Cicerone, che permette al filosofo romano di trarre il meglio da ogni scuola del passato, per confezionare una particolare teoria delle passioni (così come dei doveri, di Dio, della virtù) che si attagli nel modo più adatto alla sua personale filosofia. Filosofia, si badi bene, intesa come stile di vita e viatico per le scelte etiche da compiere, di volta in volta, nella propria esistenza. La filosofia, scrive Cicerone proprio nelle Tuscolane, è sapienza «che insegna a vivere bene».
Una prospettiva eclettica che, come scrive Pierre Hadot, può avere un significato importante per l’uomo contemporaneo, per il quale diventa fondamentale «la libertà di scegliere, in ogni caso concreto, l’atteggiamento che giudica migliore secondo le circostanze», da qualsiasi filosofia o credenza sia ispirato, senza che venga imposto «a priori un comportamento dettato da principi stabiliti in anticipo». È così che, nella visione offerta da Cicerone sulle passioni, le rigorose distinzioni proposte dagli stoici (mutuate probabilmente da Crisippo) si combinano con la teoria sull’anima elaborata da Platone e dai suoi epigoni, con le critiche ad Aristotele e agli aristotelici, perfino con alcuni spunti di Pitagora.
Ma cosa sono le passioni? Come possono essere definite? Turbamenti o vere e proprie malattie dell’anima, secondo l’insegnamento dei maestri stoici, a più riprese “tradotto” da Cicerone per il pubblico romano? Per citare ancora Pierre Hadot, gli stoici «affermavano che le passioni umane corrispondevano a un cattivo uso del discorso interiore, vale a dire a errori del giudizio e del ragionamento», in questo fedeli interpreti della lezione di Socrate (il cosiddetto intellettualismo socratico) per il quale noi umani indulgiamo in comportamenti negativi solo per ignoranza del bene.
Quale deleterio effetto possano avere, sulla tranquillità dell’uomo, le passioni non imbrigliate – il cavallo nero della meravigliosa immagine già incontrata leggendo il Fedro di Platone –, Cicerone lo sa bene, reduce com’è, nel momento in cui si accinge a scrivere filosoficamente di passioni, da anni tra i più turbolenti della vita di Roma nonché della sua personale esistenza (tra ambizioni insoddisfatte, amarezza, speranze rinnovate e poi disilluse, oltre al lutto terribile della amata figlia Tullia che lo colpì proprio nella villa di Tuscolo). Ed ecco le passioni secondo Cicerone: «Moti turbolenti e concitati dell’anima, alieni da ragione e sommamente ostili alla tranquillità della mente e della vita». Persino le passioni «dall’aspetto gentile», come l’amore, come il desiderio dell’altro quando si realizza in concreto… Anche in questi casi la saggezza filosofica ci esorta a non farci travolgere da «piaceri che impregnano l’anima come dei liquidi».
Questo è il compito – terapeutico – della filosofia. Molti sono gli argomenti utili a «calmare l’anima», i consigli salutari e lenitivi che assomigliano così tanto a delle prescrizioni mediche, come bene osserva Martha Nussbaum nel suo Terapia del desiderio: teoria e pratica nell’etica ellenistica. Modernissimo il pensiero di Cicerone da questo punto di vista: l’intervento terapeutico sulle passioni non deve provenire «dall’esterno, come avviene per le malattie del corpo, si devono bensì impiegare tutti i mezzi e tutte le energie per metterci in condizione di curarci da soli». Che la si voglia chiamare anima, psiche, coscienza, interiorità… Di sicuro esiste un medicina per l’anima: la filosofia.
Lezioni d’amore
Cicerone, la saggezza e le passioni
di Armando Massarenti
Libertà intellettuale, immaginazione filosofica e governo di sé: ecco la ricetta che offre il filosofo e oratore Cicerone per imparare ad amministrare le proprie passioni, amorose e non, nell’affascinante dialogo filosofico raccolto nelle Lezioni d’amore (il IV libro delle Discussioni Tuscolane).
Libertà intellettuale, innanzitutto: «Ciascuno sostenga il suo punto di vista, poiché c’è libertà di opinioni: noi resteremo fedeli alla nostra norma e, senza legarci ai dogmi di alcuna teoria così da essere costretti a seguirli, ricercheremo sempre di ogni questione la più probabile». È lo straordinario eclettismo di Cicerone, che permette al filosofo romano di trarre il meglio da ogni scuola del passato, per confezionare una particolare teoria delle passioni (così come dei doveri, di Dio, della virtù) che si attagli nel modo più adatto alla sua personale filosofia. Filosofia, si badi bene, intesa come stile di vita e viatico per le scelte etiche da compiere, di volta in volta, nella propria esistenza. La filosofia, scrive Cicerone proprio nelle Tuscolane, è sapienza «che insegna a vivere bene».
Una prospettiva eclettica che, come scrive Pierre Hadot, può avere un significato importante per l’uomo contemporaneo, per il quale diventa fondamentale «la libertà di scegliere, in ogni caso concreto, l’atteggiamento che giudica migliore secondo le circostanze», da qualsiasi filosofia o credenza sia ispirato, senza che venga imposto «a priori un comportamento dettato da principi stabiliti in anticipo». È così che, nella visione offerta da Cicerone sulle passioni, le rigorose distinzioni proposte dagli stoici (mutuate probabilmente da Crisippo) si combinano con la teoria sull’anima elaborata da Platone e dai suoi epigoni, con le critiche ad Aristotele e agli aristotelici, perfino con alcuni spunti di Pitagora.
Ma cosa sono le passioni? Come possono essere definite? Turbamenti o vere e proprie malattie dell’anima, secondo l’insegnamento dei maestri stoici, a più riprese “tradotto” da Cicerone per il pubblico romano? Per citare ancora Pierre Hadot, gli stoici «affermavano che le passioni umane corrispondevano a un cattivo uso del discorso interiore, vale a dire a errori del giudizio e del ragionamento», in questo fedeli interpreti della lezione di Socrate (il cosiddetto intellettualismo socratico) per il quale noi umani indulgiamo in comportamenti negativi solo per ignoranza del bene.
Quale deleterio effetto possano avere, sulla tranquillità dell’uomo, le passioni non imbrigliate – il cavallo nero della meravigliosa immagine già incontrata leggendo il Fedro di Platone –, Cicerone lo sa bene, reduce com’è, nel momento in cui si accinge a scrivere filosoficamente di passioni, da anni tra i più turbolenti della vita di Roma nonché della sua personale esistenza (tra ambizioni insoddisfatte, amarezza, speranze rinnovate e poi disilluse, oltre al lutto terribile della amata figlia Tullia che lo colpì proprio nella villa di Tuscolo). Ed ecco le passioni secondo Cicerone: «Moti turbolenti e concitati dell’anima, alieni da ragione e sommamente ostili alla tranquillità della mente e della vita». Persino le passioni «dall’aspetto gentile», come l’amore, come il desiderio dell’altro quando si realizza in concreto… Anche in questi casi la saggezza filosofica ci esorta a non farci travolgere da «piaceri che impregnano l’anima come dei liquidi».
Questo è il compito – terapeutico – della filosofia. Molti sono gli argomenti utili a «calmare l’anima», i consigli salutari e lenitivi che assomigliano così tanto a delle prescrizioni mediche, come bene osserva Martha Nussbaum nel suo Terapia del desiderio: teoria e pratica nell’etica ellenistica. Modernissimo il pensiero di Cicerone da questo punto di vista: l’intervento terapeutico sulle passioni non deve provenire «dall’esterno, come avviene per le malattie del corpo, si devono bensì impiegare tutti i mezzi e tutte le energie per metterci in condizione di curarci da soli». Che la si voglia chiamare anima, psiche, coscienza, interiorità… Di sicuro esiste un medicina per l’anima: la filosofia.
Corriere La Lettura 26.7.15
L’antifilosofo Epicuro il primo rottamatore
Si rivolgeva alle persone comuni per liberarle dalla paura di morire
Un pensatore adatto ai tempi di crisi
Contro la metafisica rivalutò i piaceri del ventre
di Mauro Bonazzi
I testi originali
Tra le raccolte di scritti del filosofo e testimonianze su di lui: Epicurea , a cura di Hermann Usener (traduzione e note di Ilaria Ramelli, Bompiani, 2002); Epicuro, Opere , a cura di Graziano Arrighetti (Einaudi, 1960); Epicuro, Scritti morali , a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra (Bur, 1987)
Per approfondire
Saggi specifici sull’opera di Epicuro: Francesco Verde, Epicuro (Carocci, 2013); Pierre-Marie Morel, Épicure (Vrin, 2010). Altri libri trattano del suo pensiero in un contesto più generale: Mario Vegetti, L’etica degli antichi (Laterza, 1989); Carlos Lévy, Le filosofie ellenistiche (traduzione di Angelica Taglia, Einaudi, 2002); Martha Nussbaum, La terapia delle passioni (traduzione di Nicoletta Scotti Muth, Vita e Pensiero, 1998); James Warren
(a cura di), Facing Death. Epicurus and his Critics (Clarendon Press, 2004). Su un tema specifico: Stefano Maso, Capire e dissentire. Cicerone e la filosofia di Epicuro (Bibliopolis, 2008)
Epicuro ricorda quei politici che pretendono di non essere politici. Durissimi contro i «professionisti della politica», reclamano un rapporto privilegiato con le persone comuni, con cui dicono di condividere i problemi: problemi di cui «gli altri», i politici, non capiscono naturalmente nulla, e che invece sarebbero facili da risolvere, ad averne voglia. A guardar meglio, però, vien da pensare che questi professionisti dell’antipolitica siano politici scafatissimi, molto più astuti dei loro avversari. Non meno astuto, Epicuro è il primo professionista dell’antifilosofia: e infatti è un filosofo tra i più sottili.
Le strategie sono le stesse. Intanto si attaccano gli avversari, cercando di screditarli. In quest’arte Epicuro non fu secondo a nessuno. Ma soprattutto bisogna usare un linguaggio piano, lontano dai tecnicismi. In effetti, le espressioni dei politici non brillano per chiarezza. Ma molto più oscuri erano i filosofi greci, che si erano inventati una lingua tutta loro: radici, omeomerie, principi, forme, sostanze e accidenti.... Epicuro è invece di una chiarezza cristallina: come un diamante, è stato detto. La realtà sono i corpi che si muovono nel vuoto.
Ma la semplicità è una strategia di comunicazione. Anche se fingeva il contrario, Epicuro conosceva benissimo le teorie dei suoi avversari e le rovesciava con un ragionamento, la cui forza era ben nota. Per non girare a vuoto una tesi deve fondarsi su evidenze incontrovertibili; l’unico mezzo che ci permette di entrare in contatto con la realtà sono le nostre esperienze sensibili; queste esperienze mostrano che soltanto i corpi esistono; dunque la realtà sono i corpi. Può sembrare una tesi banale, ma è la prima volta che il materialismo si affaccia sulla scena del pensiero occidentale. Non servono parole ampollose ed è inutile andare al di là di ciò che sta intorno a noi. Epicuro è la pecora nera della metafisica greca.
O forse il maiale, se si pensa alla difesa del piacere, la sua tesi più famosa. Epicuro è uno dei pochi pensatori che hanno avuto l’onore di diventare un aggettivo: purtroppo per lui, però, «epicureo» non è un termine di cui andare troppo fieri. Uno che pensa solo a bere e a mangiare: che filosofia è? Se aggiungiamo che nel suo Giardino erano ammesse anche le donne, sarà facile immaginare quali voci circolassero su di lui. Del resto, non è che Epicuro si sforzasse di evitare gli equivoci, quando inneggiava al «piacere del ventre» (il «principio di ogni bene») o minacciava di «sputare sulla morale, se non arrecava alcun piacere».
Ma ancora una volta, bisogna distinguere tra strategie di comunicazione (che parlino male di te, ma che parlino) e concetti. Non si è mostrato che la realtà è quella dei corpi? E allora bisogna riconoscere che il piacere è un bene, senza inutili moralismi. Come ha ridato dignità ai corpi, così ridà dignità al piacere, svelandone la natura. Il vero piacere è lo stato di benessere che si dà quando non abbiamo bisogno di nulla, quando non soffriamo perché abbiamo tutto quello che ci serve. Sommersi da pregiudizi e illusioni, crediamo di aver bisogno di mille cose per essere felici, e sprechiamo la nostra vita nel tentativo di ottenerle: ricchezze, potere, celebrità. Quello che abbiamo non basta mai, ma ci sembra che se solo potessimo averne ancora un po’ allora saremmo felici. Quando lo otteniamo, però, non cambia niente e ne cerchiamo ancora, sempre insoddisfatti e sempre convinti che se solo ne avessimo ancora un po’… e così via in una spirale perversa che non finirà mai, perché stiamo inseguendo illusioni che nulla hanno a che vedere con la felicità. Le cose che ci servono sono poche (non soffrire, vivere liberi da paure e pregiudizi, amici veri) e non serve certo essere ricchi e potenti per ottenerle. «Niente è sufficiente a colui cui il sufficiente non basta»: non è certo volgare edonismo.
Nelle ultime settimane ci è stato ricordato che la Grecia è la culla della nostra civiltà. Ma si parla sempre della democrazia ateniese e mai del nuovo mondo di Epicuro. Eppure è proprio quello il mondo che più assomiglia al nostro. Un mondo in cui i confini non contano più, in cui i grandi imperi tolgono peso alle realtà locali, in cui il confronto obbligato con nuove civiltà mette in crisi tradizioni consolidate. Improvvisamente ci troviamo soli, i punti di riferimento abituali non sembrano valere più nulla. L’insegnamento di Epicuro nasce in un contesto analogo: è rivolto ai singoli individui, a ciascuno di noi, ma non è un pensiero individualista. È piuttosto un invito ad approfittare della crisi per costruire un mondo più autentico, che si regga su valori semplici ma reali: la giustizia, la lotta contro il bisogno, la liberazione dalle paure e dai pregiudizi. Tutto cambia ed è inutile ripiegare nella nostalgia del passato: la sfida è diventare ciò che vorremmo essere. Pensiamo che sia impossibile, e invece è facile. Non servono teorie o azioni audaci, basta coltivare il nostro giardino con gli amici. Le comunità epicuree hanno prosperato per secoli come piccoli Stati negli Stati, sotto gli occhi inorriditi di tanti Ciceroni.
Ma davvero è tutto così semplice? Epicuro rivela il suo vero volto, quando ingaggia la battaglia decisiva, contro la morte. Non lo ammettiamo, ma la causa delle nostre inquietudini, del nostro scontento, della nostra infelicità è una sola: la paura della morte, questo scandalo insopportabile, la consapevolezza sgomenta che non ci saremo più. Che senso ha la morte? Come tollerarla? Forse è proprio per rispondere a queste domande che sono nate la filosofia e la religione. Anche la scienza, si pensi alle ricerche sulla clonazione e l’ibernazione, è animata dal desiderio di sconfiggere la morte.
Inutile dirlo, Epicuro va nella direzione opposta. Gli altri cercano di esorcizzare questo spettro, prolungando la vita o promettendocene un’altra. Epicuro ci insegna a guardare in faccia la realtà senza paura: la morte è un fatto, sarebbe patetico pretendere altrimenti. Ma la morte «non è niente per noi». Noi siamo il nostro corpo vivente e intelligente, composto di atomi; la morte è il disgregarsi di questo corpo. Quando ci siamo noi, dunque, la morte non c’è e quando c’è la morte non ci siamo noi. Non c’è motivo per preoccuparci di qualcosa che non ci riguarda. Liberiamoci da questa angoscia, che avvelena le nostre giornate, e vivremo felici come dèi.
Del resto, perché voler continuare a vivere all’infinito, per l’eternità? Uno spettacolo non è bello, proprio perché a un certo punto finisce? E poi, ci angosciamo forse perché non c’eravamo quando Napoleone ha conquistato l’Europa? Ma se non c’importa del fatto che non c’eravamo prima, perché dovremmo angosciarci di sapere che non ci saremo dopo? O ancora: se non ci fossero morti ma solo nascite, il mondo diventerebbe un posto orribilmente pieno: chi ci vorrebbe vivere? Anche l’idea della rottamazione nasce con Epicuro.
Questi ragionamenti sono semplici, coraggiosi, efficaci. Ma girano intorno al vero problema: in fondo non temiamo il nulla della morte, ma la perdita della vita, l’idea che la vita sia interrotta prima del tempo. Epicuro lo sapeva e ha una risposta anche per questo. Non ha senso temere la morte, perché la felicità non aumenta con il tempo. Quando stiamo bene, abbiamo raggiunto la felicità e questa condizione piacevole non aumenta se la si prolunga nel tempo. Se c’è, c’è; non è una merce da accumulare; un giorno o un anno in più non fanno differenza. La paura della morte è legata alla nostra condizione di esseri immersi nel tempo; ma il tempo, per chi è felice, non conta nulla; dunque neppure la morte conta, nemmeno mentre siamo in vita. Perché allora preoccuparsi del domani? Da una parte c’è il cavaliere del Settimo sigillo, ossessionato dalla sua partita a scacchi con la morte, che non ha tempo per altro; dall’altra c’è Epicuro, che sa godere dell’attimo presente, consapevole di quanto sia meravigliosa l’esistenza, questa nostra esistenza nata dal puro caso e però insostituibile nella sua unicità. Carpe diem , per usare le parole di Orazio, così fiero di essere un porcus del gregge di Epicuro.
Qualcosa però continua a non tornare. La tesi di Epicuro è coerente, ma accettarla costa un prezzo molto alto: rinunciando al tempo rinunciamo ai nostri progetti, alle nostre aspirazioni, alle speranze che costituiscono la trama delle nostre giornate. Il risultato è insomma una riduzione al minimo di ogni coinvolgimento, e non è detto che sia un esito auspicabile. Non sarà che Epicuro è stato così bravo a togliere importanza alla morte, che alla fine ha tolto valore anche alla vita?
Giudicare se la soluzione di Epicuro sia valida è difficile: gli studiosi litigano, ma la risposta tocca a ciascuno di noi. Certo è che Epicuro ha imboccato la strada dei filosofi. L’obiettivo era di mostrarci che la felicità è possibile; per fare ciò, pur di offrire una dottrina coerente e non banali parole di buon senso, Epicuro ha scelto una tesi controintuitiva, che rovescia radicalmente il nostro sguardo su noi stessi e sulle cose. Così fanno i filosofi. È il destino a cui sono inevitabilmente condannati gli «anti». Come i professionisti dell’antipolitica devono poi riconoscere le ragioni della politica, così Epicuro, l’antifilosofo per eccellenza, si è alla fine rivelato per quello che era: un grande filosofo.
L’antifilosofo Epicuro il primo rottamatore
Si rivolgeva alle persone comuni per liberarle dalla paura di morire
Un pensatore adatto ai tempi di crisi
Contro la metafisica rivalutò i piaceri del ventre
di Mauro Bonazzi
I testi originali
Tra le raccolte di scritti del filosofo e testimonianze su di lui: Epicurea , a cura di Hermann Usener (traduzione e note di Ilaria Ramelli, Bompiani, 2002); Epicuro, Opere , a cura di Graziano Arrighetti (Einaudi, 1960); Epicuro, Scritti morali , a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra (Bur, 1987)
Per approfondire
Saggi specifici sull’opera di Epicuro: Francesco Verde, Epicuro (Carocci, 2013); Pierre-Marie Morel, Épicure (Vrin, 2010). Altri libri trattano del suo pensiero in un contesto più generale: Mario Vegetti, L’etica degli antichi (Laterza, 1989); Carlos Lévy, Le filosofie ellenistiche (traduzione di Angelica Taglia, Einaudi, 2002); Martha Nussbaum, La terapia delle passioni (traduzione di Nicoletta Scotti Muth, Vita e Pensiero, 1998); James Warren
(a cura di), Facing Death. Epicurus and his Critics (Clarendon Press, 2004). Su un tema specifico: Stefano Maso, Capire e dissentire. Cicerone e la filosofia di Epicuro (Bibliopolis, 2008)
Epicuro ricorda quei politici che pretendono di non essere politici. Durissimi contro i «professionisti della politica», reclamano un rapporto privilegiato con le persone comuni, con cui dicono di condividere i problemi: problemi di cui «gli altri», i politici, non capiscono naturalmente nulla, e che invece sarebbero facili da risolvere, ad averne voglia. A guardar meglio, però, vien da pensare che questi professionisti dell’antipolitica siano politici scafatissimi, molto più astuti dei loro avversari. Non meno astuto, Epicuro è il primo professionista dell’antifilosofia: e infatti è un filosofo tra i più sottili.
Le strategie sono le stesse. Intanto si attaccano gli avversari, cercando di screditarli. In quest’arte Epicuro non fu secondo a nessuno. Ma soprattutto bisogna usare un linguaggio piano, lontano dai tecnicismi. In effetti, le espressioni dei politici non brillano per chiarezza. Ma molto più oscuri erano i filosofi greci, che si erano inventati una lingua tutta loro: radici, omeomerie, principi, forme, sostanze e accidenti.... Epicuro è invece di una chiarezza cristallina: come un diamante, è stato detto. La realtà sono i corpi che si muovono nel vuoto.
Ma la semplicità è una strategia di comunicazione. Anche se fingeva il contrario, Epicuro conosceva benissimo le teorie dei suoi avversari e le rovesciava con un ragionamento, la cui forza era ben nota. Per non girare a vuoto una tesi deve fondarsi su evidenze incontrovertibili; l’unico mezzo che ci permette di entrare in contatto con la realtà sono le nostre esperienze sensibili; queste esperienze mostrano che soltanto i corpi esistono; dunque la realtà sono i corpi. Può sembrare una tesi banale, ma è la prima volta che il materialismo si affaccia sulla scena del pensiero occidentale. Non servono parole ampollose ed è inutile andare al di là di ciò che sta intorno a noi. Epicuro è la pecora nera della metafisica greca.
O forse il maiale, se si pensa alla difesa del piacere, la sua tesi più famosa. Epicuro è uno dei pochi pensatori che hanno avuto l’onore di diventare un aggettivo: purtroppo per lui, però, «epicureo» non è un termine di cui andare troppo fieri. Uno che pensa solo a bere e a mangiare: che filosofia è? Se aggiungiamo che nel suo Giardino erano ammesse anche le donne, sarà facile immaginare quali voci circolassero su di lui. Del resto, non è che Epicuro si sforzasse di evitare gli equivoci, quando inneggiava al «piacere del ventre» (il «principio di ogni bene») o minacciava di «sputare sulla morale, se non arrecava alcun piacere».
Ma ancora una volta, bisogna distinguere tra strategie di comunicazione (che parlino male di te, ma che parlino) e concetti. Non si è mostrato che la realtà è quella dei corpi? E allora bisogna riconoscere che il piacere è un bene, senza inutili moralismi. Come ha ridato dignità ai corpi, così ridà dignità al piacere, svelandone la natura. Il vero piacere è lo stato di benessere che si dà quando non abbiamo bisogno di nulla, quando non soffriamo perché abbiamo tutto quello che ci serve. Sommersi da pregiudizi e illusioni, crediamo di aver bisogno di mille cose per essere felici, e sprechiamo la nostra vita nel tentativo di ottenerle: ricchezze, potere, celebrità. Quello che abbiamo non basta mai, ma ci sembra che se solo potessimo averne ancora un po’ allora saremmo felici. Quando lo otteniamo, però, non cambia niente e ne cerchiamo ancora, sempre insoddisfatti e sempre convinti che se solo ne avessimo ancora un po’… e così via in una spirale perversa che non finirà mai, perché stiamo inseguendo illusioni che nulla hanno a che vedere con la felicità. Le cose che ci servono sono poche (non soffrire, vivere liberi da paure e pregiudizi, amici veri) e non serve certo essere ricchi e potenti per ottenerle. «Niente è sufficiente a colui cui il sufficiente non basta»: non è certo volgare edonismo.
Nelle ultime settimane ci è stato ricordato che la Grecia è la culla della nostra civiltà. Ma si parla sempre della democrazia ateniese e mai del nuovo mondo di Epicuro. Eppure è proprio quello il mondo che più assomiglia al nostro. Un mondo in cui i confini non contano più, in cui i grandi imperi tolgono peso alle realtà locali, in cui il confronto obbligato con nuove civiltà mette in crisi tradizioni consolidate. Improvvisamente ci troviamo soli, i punti di riferimento abituali non sembrano valere più nulla. L’insegnamento di Epicuro nasce in un contesto analogo: è rivolto ai singoli individui, a ciascuno di noi, ma non è un pensiero individualista. È piuttosto un invito ad approfittare della crisi per costruire un mondo più autentico, che si regga su valori semplici ma reali: la giustizia, la lotta contro il bisogno, la liberazione dalle paure e dai pregiudizi. Tutto cambia ed è inutile ripiegare nella nostalgia del passato: la sfida è diventare ciò che vorremmo essere. Pensiamo che sia impossibile, e invece è facile. Non servono teorie o azioni audaci, basta coltivare il nostro giardino con gli amici. Le comunità epicuree hanno prosperato per secoli come piccoli Stati negli Stati, sotto gli occhi inorriditi di tanti Ciceroni.
Ma davvero è tutto così semplice? Epicuro rivela il suo vero volto, quando ingaggia la battaglia decisiva, contro la morte. Non lo ammettiamo, ma la causa delle nostre inquietudini, del nostro scontento, della nostra infelicità è una sola: la paura della morte, questo scandalo insopportabile, la consapevolezza sgomenta che non ci saremo più. Che senso ha la morte? Come tollerarla? Forse è proprio per rispondere a queste domande che sono nate la filosofia e la religione. Anche la scienza, si pensi alle ricerche sulla clonazione e l’ibernazione, è animata dal desiderio di sconfiggere la morte.
Inutile dirlo, Epicuro va nella direzione opposta. Gli altri cercano di esorcizzare questo spettro, prolungando la vita o promettendocene un’altra. Epicuro ci insegna a guardare in faccia la realtà senza paura: la morte è un fatto, sarebbe patetico pretendere altrimenti. Ma la morte «non è niente per noi». Noi siamo il nostro corpo vivente e intelligente, composto di atomi; la morte è il disgregarsi di questo corpo. Quando ci siamo noi, dunque, la morte non c’è e quando c’è la morte non ci siamo noi. Non c’è motivo per preoccuparci di qualcosa che non ci riguarda. Liberiamoci da questa angoscia, che avvelena le nostre giornate, e vivremo felici come dèi.
Del resto, perché voler continuare a vivere all’infinito, per l’eternità? Uno spettacolo non è bello, proprio perché a un certo punto finisce? E poi, ci angosciamo forse perché non c’eravamo quando Napoleone ha conquistato l’Europa? Ma se non c’importa del fatto che non c’eravamo prima, perché dovremmo angosciarci di sapere che non ci saremo dopo? O ancora: se non ci fossero morti ma solo nascite, il mondo diventerebbe un posto orribilmente pieno: chi ci vorrebbe vivere? Anche l’idea della rottamazione nasce con Epicuro.
Questi ragionamenti sono semplici, coraggiosi, efficaci. Ma girano intorno al vero problema: in fondo non temiamo il nulla della morte, ma la perdita della vita, l’idea che la vita sia interrotta prima del tempo. Epicuro lo sapeva e ha una risposta anche per questo. Non ha senso temere la morte, perché la felicità non aumenta con il tempo. Quando stiamo bene, abbiamo raggiunto la felicità e questa condizione piacevole non aumenta se la si prolunga nel tempo. Se c’è, c’è; non è una merce da accumulare; un giorno o un anno in più non fanno differenza. La paura della morte è legata alla nostra condizione di esseri immersi nel tempo; ma il tempo, per chi è felice, non conta nulla; dunque neppure la morte conta, nemmeno mentre siamo in vita. Perché allora preoccuparsi del domani? Da una parte c’è il cavaliere del Settimo sigillo, ossessionato dalla sua partita a scacchi con la morte, che non ha tempo per altro; dall’altra c’è Epicuro, che sa godere dell’attimo presente, consapevole di quanto sia meravigliosa l’esistenza, questa nostra esistenza nata dal puro caso e però insostituibile nella sua unicità. Carpe diem , per usare le parole di Orazio, così fiero di essere un porcus del gregge di Epicuro.
Qualcosa però continua a non tornare. La tesi di Epicuro è coerente, ma accettarla costa un prezzo molto alto: rinunciando al tempo rinunciamo ai nostri progetti, alle nostre aspirazioni, alle speranze che costituiscono la trama delle nostre giornate. Il risultato è insomma una riduzione al minimo di ogni coinvolgimento, e non è detto che sia un esito auspicabile. Non sarà che Epicuro è stato così bravo a togliere importanza alla morte, che alla fine ha tolto valore anche alla vita?
Giudicare se la soluzione di Epicuro sia valida è difficile: gli studiosi litigano, ma la risposta tocca a ciascuno di noi. Certo è che Epicuro ha imboccato la strada dei filosofi. L’obiettivo era di mostrarci che la felicità è possibile; per fare ciò, pur di offrire una dottrina coerente e non banali parole di buon senso, Epicuro ha scelto una tesi controintuitiva, che rovescia radicalmente il nostro sguardo su noi stessi e sulle cose. Così fanno i filosofi. È il destino a cui sono inevitabilmente condannati gli «anti». Come i professionisti dell’antipolitica devono poi riconoscere le ragioni della politica, così Epicuro, l’antifilosofo per eccellenza, si è alla fine rivelato per quello che era: un grande filosofo.