sabato 12 luglio 2008

l’Unità 12.7.08
Meeting antirazzista, la strada dei diritti
di Paolo Beni* e Vincenzo Striano**


Dal 12 al 19 luglio, fra Cecina e Livorno, si svolge il quattordicesimo Meeting internazionale antirazzista, organizzato come anno dall’Arci insieme alla Regione Toscana. Un appuntamento ormai tradizionale di approfondimento e riflessione pubblica sui temi legati al dialogo fra i popoli, all’intercultura, ai diritti delle minoranze, alla lotta contro le discriminazioni e il razzismo. Temi particolarmente sensibili in questo momento nel nostro Paese, per il clima di tensione che caratterizza il dibattito politico intorno alle questioni legate all’immigrazione.
La destra tornata al governo vuole una svolta autoritaria e indica negli stranieri il capro espiatorio su cui scaricare il malessere e l’insicurezza della società italiana. Del resto ha vinto le elezioni proprio enfatizzando il tema dell’insicurezza associata al fenomeno dell’immigrazione. La sinistra non è stata capace di rispondere adeguatamente, sul piano culturale prima ancora che politico; timorosa di perdere il consenso di un’opinione pubblica spaventata e confusa, si è spesso divisa al suo interno finendo non di rado per inseguire gli argomenti e le stesse proposte della destra.
Il risultato è il dilagare del pregiudizio, un preoccupante ritorno del razzismo e della xenofobia che diventano terreno fertile per proposte come quella del ministro Maroni di schedare le bambine e i bambini rom con le impronte digitali. Un provvedimento aberrante che ha suscitato giustamente lo sdegno di tanta parte della società civile e dello stesso Parlamento Europeo. Bisogna battersi con determinazione contro misure che negano i principi fondamentali della dignità e dei diritti umani e sono destinate a produrre veleni sociali incontrollabili. Ma non è solo la politica ad avere un approccio sbagliato nei confronti dell’immigrazione. Una grande responsabilità la porta anche il sistema dei media, che enfatizzando singoli fatti di cronaca che hanno come protagonisti cittadini stranieri, alimenta in modo ingiustificato l’allarme sociale.
Eppure l’immigrazione è ormai un fenomeno strutturale del nostro tempo, destinato ad incidere nei mutamenti della società italiana ed europea. In Italia i cittadini provenienti da altri paesi sono ormai quasi quattro milioni ed aumenteranno nei prossimi anni, in virtù dei flussi migratori che spingono verso l’Europa fasce sempre più consistenti di popolazione dei paesi poveri che si affacciano sul Mediterraneo, ma anche per il bisogno di mano d’opera del nostro mercato del lavoro. Bisogna partire dalla realtà, e cioè dalla consapevolezza che l’immigrazione può produrre benefici tanto per i paesi di provenienza che per quelli ospitanti. In Italia settori come l’edilizia e l’agricoltura crollerebbero senza i lavoratori stranieri; così come sono migranti l’80% degli addetti nel settore dei servizi alla persona, le cosiddette badanti che coprono una parte rilevante di un sistema di welfare chiamato a rispondere ad una domanda crescente con sempre meno risorse.
Un fenomeno di grandi dimensioni, destinato a generare problematicità se si pensa di rimuoverlo o esorcizzarlo anziché proporsi di governarlo positivamente. Le politiche di accoglienza e i percorsi di inclusione sono l’unico strumento capace di prevenire i conflitti e costruire le condizioni di una buona convivenza nelle nuove comunità plurali. Ma il presupposto è superare il diritto speciale e lo status di cittadini di serie b a cui ancora sono sottoposti gli stranieri, riconoscere pari dignità e pienezza dei diritti a chiunque vive e lavora nel nostro Paese. E questo significa rimuovere le mille cause di sofferenza che segnano la condizione dei migranti: l’angoscia per i permessi di soggiorno, la difficoltà dei ricongiungimenti familiari, la preoccupazione per il futuro di figli non più stranieri ma non ancora cittadini italiani, i ricatti nel lavoro, le difficoltà ad accedere alla casa, alla sanità, alla scuola. Non è di politiche speciali per gli stranieri che c’è bisogno, ma di rafforzare il sistema di welfare per allargare i diritti di tutti. E soprattutto servono opportunità di incontro, conoscenza, dialogo per costruire, nel riconoscimento reciproco e nella contaminazione delle diverse identità e culture, le condizioni di una nuova convivenza. Favorire la partecipazione attiva e la responsabilità dei migranti, dar loro una voce e un volto, sono passaggi decisivi in questo senso. Non a caso al Meeting parteciperanno centinaia di rom e si terrà la più grande assemblea di migranti che ci sia mai stata in Toscana.
Integrazione, diritti, conoscenza, relazioni sociali: con questi strumenti si smontano le paure, e non con misure securitarie che anziché risolvere i problemi li aggravano. «Città da paura» è appunto il tema del convegno che aprirà il Meeting, per interrogarci sul malessere delle nostre comunità, provare a capire e cercare risposte positive al bisogno di sicurezza dei cittadini. Senza rinunciare al clima festoso che caratterizzerà questo grande momento di incontro.
* presidente nazionale Arci
** presidente Arci Toscana

l’Unità Firenze 12.7.08
Mille impronte in due ore contro il decreto Maroni
Fiorentini in coda in Piazza dei Ciompi per il lancio dell’iniziativa di protesta organizzata dall’Arci regionale
Giovani, anziani e anche bambini assediano il banchetto per lasciare il segno: «Non possiamo far finta di niente»
di Silvia Casagrande


«Prendetevi le nostre impronte», la protesta simbolica organizzata dall’Arci contro la misura voluta dal ministro Maroni di schedare rom e sinti, minori compresi, è arrivata anche a Firenze ed ha avuto un grande successo. In due ore sono state raccolte quasi mille impronte, che vanno aggiunte alle 3000 del 7 luglio a Roma e alle oltre 350 raccolte giovedì sera a Pisa durante il concerto di Moni Ovadia. Un totale di circa 4350 adesioni, fra le quali ci sono molti nomi della politica locale: Daniela Lastri, Eros Cruccolini, Andrea Manciulli, Mario Fuso, Cecilia Pezza, Anna Nocentini e Lucia De Servio - presenti ieri in piazza dei Ciompi - ma anche Vittoria Franco, Guido Sacconi, Beppe Carovani, Alessio Gramolati, la Comunità ebraica di Firenze, Cgi, Azione gay e lesbiche, Piero Pelù, Sergio Staino e molti altri ancora. I consiglieri Filippo Fossati, Erasmo D’Angelis e Alessia Petraglia hanno proposto di organizzare una raccolta di impronte anche mercoledì in Consiglio regionale e Eros Cruccolini la vuole portare a Palazzo Vecchio.
«La decisione del Ministro Maroni è un grave attacco alla democrazia - ha detto il segretario regionale del Pd Andrea Manciulli -.. Siamo diventati un caso di vergognosa cronaca internazionale: è necessario prendere chiaramente le distanze da questa azione e per questo aderisco convintamente all’iniziativa lanciata dall’Arci». La presidente di Arci Firenze Francesca Chiavacci racconta: «Alle cinque e mezzo c’era già gente che aspettava: volevano essere i primi. Ho notato con soddisfazione che non c’erano solo le solite facce, significa che anche le persone non impegnate normalmente in politica hanno provato una forte indignazione quando sono venuti a sapere della proposta del ministro Maroni».
Sotto la Loggia del Pesce c’è gente di tutti i tipi e le età. Franco, 39 anni, è uno dei primi ad arrivare: «L’idea di schedare qualcuno solo in base all’etnia è l’abc del razzismo. Tutte le giustificazioni che può inventarsi il governo non toglieranno mai la concezione razzista che sta alla base di questa proposta». Poi parliamo con Tommaso e Matteo, di 11 e 10 anni: ci dicono che nella loro scuola ci sono tanti bambini di tutti i paesi del mondo, ma fanno fatica a fare distinzioni: loro, fortunatamente, non fanno caso alle razze. Una signora sorridente, Vera, ci dice: «Sono nata nel 1923, c’era il fascismo e ho paura che anche quando morirò ci sarà. Quando ero al liceo un giorno sparì un professore, allora non si capiva perchè e non feci nulla, ma oggi che sappiamo quello che succede non possiamo fare finta di niente».

l’Unità Firenze 12.7.08
A Cecina parte oggi il Meeting antirazzista dell’Arci


Cecina (Li) PASSAGGIO del testimone tra un meeting e l’altro. Chiusi ieri i lavori per l’incontro internazionale di San Rossore dedicato alle discriminazioni e al razzismo, si aprono oggi quelli del XIV Meeting Internazionale Antirazzista di Cecina che dureranno fino al 20 luglio. Organizzato dall’Arci, l’incontro di Cecina è divenuto negli anni uno degli appuntamenti più importanti di confronto pubblico sui temi del dialogo tra popoli, delle battaglie per i diritti delle minoranze e contro ogni forma di discriminazione e di razzismo. Per questa edizione gli organizzatori hanno scelto come titolo e filo conduttore il tema delle «Culture». Centinaia di persone che operano nel sociale, nelle istituzioni, nel sindacato, nel mondo della ricerca e della scuola e migranti si confronteranno in seminari, laboratori, convegni, rassegne cinematografiche, mostre, concerti e spettacoli teatrali. Cento gli appuntamenti in programma. Si inizia stamani a Livorno (Sala Lem, piazza del Pamiglione) con il convegno «Città da paura» realizzato in collaborazione con la Fondazione Michelucci. Sarà il presidente della Regione Toscana Claudio Martini, reduce dall’intensa due giorni di San Rossore, a tirare le conclusioni della giornata di confronto, Al dibattito partecipano tra gli altri Alessandro Margara, presidente della Fondazione Michelucci; Vincenzo Striano, presidente di Arci Toscana; Ezedin l-Zerf, imam di Firenze e portavoce dell'Ucoi; Francesco Marsico, vice-direttore della Caritas; Libero Mancuso, assessore alla sicurezza del Comune di Bologna; Luciana Castellina, Marcello Maneri dell’Università di Milano, Omeyya Seddik di Ftcr FRancia e Pablo Cabrera dell’Università di Madrid. Nel pomeriggio a Cecina incontro insieme a Magistratura democratica su «Immigrazione e criminalità» e alle 21 proiezione di un film sulla Palestina: «Stolen youth - Gioventù rubata».

l’Unità Firenze 12.7.08
La Regione investe 5 milioni per diffondere l’antirazzismo
Il prossimo anno scolastico in Toscana sarà dedicato al dialogo interculturale
di f.san.


IL SEGRETARIO Pd Manciulli: «La decisione di Maroni è un attacco alla democrazia»

DIFFONDERE la cultura antirazzista all’interno delle scuole toscane di ogni ordine e grado. È con una delibera in tal senso, approvata dalla giunta re-
gionale riunitasi in seduta straordinaria, che si è chiuso ieri sera l’ottavo meeting di San Rossore.
«L’anno scolastico 2008-2009 - ha annunciato il presidente della Regione Claudio Martini - sarà per le scuole toscane l’anno del dialogo interculturale e dell’inclusione contro razzismo, intolleranza e antisemitismo». Un obiettivo da perseguire «nel pieno rispetto dell’autonomia scolastica», consentendo ai ragazzi di seguire lezioni di «tolleranza e pluralismo». Accanto a queste la Regione proporrà poi anche altri tre percorsi formativi: l’educazione sanitaria, la difesa ambientale e la tutela del paesaggio e l’educazione al consumo.
È la prima volta, dall’introduzione nel 2005, che la Toscana ha deciso di sfruttare la possibilità offerta dalla norma nazionale che consente alle Regioni di dettare indirizzi per il 20% del monte orario obbligatorio delle scuole, dalle elementari alle superiori. «Altre regioni - ha proseguito Martini - hanno usato questa possibilità per lezioni di lingua veneta o cultura lombarda. Noi no. Noi vogliamo usarla per chiudere questo meeting con un provvedimento che ha un valore non soltanto simbolico». Per il presidente toscano, infatti, «questa delibera è il modo concreto per ‘bonificare’ questi luoghi dove 70 anni fa vennero promulgate le leggi razziali». La delibera è accompagnata da uno stanziamento di 5 milioni di euro e secondo quanto annunciato «particolare attenzione» verrà posta alle differenze linguistiche che «non dovranno essere un ostacolo all’informazione e orientamento dei ragazzi».
Ma se questo è stato l’ultimo atto della rassegna, la giornata ha visto due presenze di spicco nel cardinale emerito di Firenze, Silvano Piovanelli, e nel fotografo Oliviero Toscani. Piovanelli, in particolare, è stato “intervistato” dal presidente Martini (il confronto in programma con Walter Veltroni e Dario Fo è saltato per l’assenza all’ultimo momento dei due) ed ha ribadito la sua assoluta contrarietà alla “schedatura” dei rom invitando piuttosto all’apertura verso il diverso. Prendere le impronte digitali ai rom «è una strada sbagliata perché la religione chiede un incontro con l’altro» ha detto il cardinale emerito. «Non so - ha quindi aggiunto Piovanelli - se nasce da una voglia di discriminazione ma di fatto è così che viene intesa e vissuta e, quindi diventa un atto non educativo per la nostra società. Invece di avvicinare questo mondo, anche così difficile, rischia di allontanarlo e di creare tensioni ancora più grandi». Piovanelli è inoltre intervenuto sulla questione moschee. Chiara la posizione del cardinale: «Ciascuno ha diritto al proprio culto. Inutile chiedere una chiesa per ogni moschea».

l’Unità 12.7.08
Impronte ai rom, maremoto nel Ppe: An rischia di restarne fuori
Gli eurodeputati contrari alla schedatura: preme per entrare, ma non può costringerci a sostenerla su posizioni contrarie ai nostri principi
di Paolo Soldini


Ora si scopre che la frittata è doppia. L’atteggiamento di sfida assunto dal governo italiano contro il parlamento di Strasburgo e contro la Commissione Ue che chiede «spiegazioni» sull’ordinanza delle impronte digitali, ha innescato il più duro scontro mai registrato tra Roma e Bruxelles e ha scatenato dentro il Ppe un maremoto che rischia, ora, di affogare le ambizioni di An di entrare a far parte della grande famiglia popolare continentale. Tra i deputati del gruppone della balena bianca europea, infatti, è palpabile l’irritazione per essersi trovati a dover votare su un documento, la risoluzione contro l’ordinanza maronesca approvata l’altra mattina, che ha finito per dividere profondamente il gruppo stesso. «Questi signori della destra italiana -diceva ieri un parlamentare tedesco- non possono da un lato esercitare un pressing asfissiante per entrare nelle nostre file e poi costringerci a sostenerli su posizioni che non corrispondono ai nostri princìpi etici e religiosi». Tanto non possono che l’ordine di scuderia diramato dalla dirigenza del gruppo perché tutti votassero contro la risoluzione è stato, forse, il più disatteso nella storia recente del Ppe al parlamento europeo.
Vediamo come nei dettagli, perché certi sono di notevolissimo significato politico. Dei 244 popolari che hanno votato (su 288), si sono espressi contro la risoluzione 152 eurodeputati: poco più della metà del gruppo. Contro hanno votato in 21, in 71 si sono astenuti. Ora, se si guarda un po’ più da vicino chi ha votato che cosa, si vedrà che intere componenti nazionali hanno rifiutato il loro voto pro-Maroni e soci. I francesi, per esempio: dei 18 deputati disponibili sulla carta, 4 erano assenti, 2 hanno votato contro e 14 si sono astenuti. Non un solo sì a Berlusconi. Dei 6 belgi, 1 ha votato contro e 3 si sono astenuti. Hanno negato il loro consenso al governo di Roma 8 greci su 11; 3 finlandesi su 4; 3 bulgari su 5; 5 svedesi su 6; 4 olandesi su 7. Fra i 49 tedeschi c’erano molti assenti, ma i contrari sono stati 5 e gli astenuti 4. I romeni, si capisce, si sono dissociati in massa dalle indicazioni della presidenza del gruppo (16 su 18), ma dissidenti non sono mancati neppure tra gli ungheresi (9 su 13), gli spagnoli, gli austriaci, gli sloveni, gli irlandesi, gli slovacchi, i polacchi, i lussemburghesi, i portoghesi e i ciprioti. Una simile diaspora non s’era mai vista e va da sé che il dato più significativo è quello dei francesi. Il che spiega, almeno in parte, le difficoltà che la presidenza di turno del Consiglio, ora esercitata da Parigi, comincia ad avere nei rapporti con Roma. E, se come temevano i tedeschi, si stava profilando l’ombra di un asse Berlusconi-Sarkozy, gli avvenimenti delle ultime ore hanno ricambiato le carte in tavola. L’Italia, grazie a Maroni, finisce tra i sorvegliati speciali cui è meglio non dare troppa familiarità. Proprio come Sarkozy ha fatto in Giappone con l’italiano incontinente che lo tirava per la giacca perché si unisse a lui nel corteggiamento a distanza di un gruppetto di adolescenti che facevano ciao ciao.
Ma i problemi più grossi si profilano per l’incauto Maroni. Il ministro leghista rischia di scoperchiare un pentolone in cui bolle l’ira dei suoi alleati di An. I distinguo di Alemanno sono, forse, già un segnale. È assai probabile, che dentro An si stia valutando con grande fastidio il peso del macigno che il conflitto aperto con le istituzioni Ue ha fatto precipitare sulla strada, che finalmente pareva in discesa, verso l’ammissione nel Ppe. Il che potrebbe anche spiegare i primi cenni di resipiscenza che si cominciano a cogliere nella Pdl, e non solo nella componente aennina. Se è così bisognerà spiegare il cambiamento di linea al superfluo ministro degli Affari comunitari, molto abile a chiosare con vigorosi movimenti delle braccia e dell’espressione del volto le affermazione dei colleghi «veri» ma non altrettanto nel fare quello che dovrebbe fare: ovvero rappresentare a Roma le istanze dell’Unione e non viceversa.
Per tornare allo scontro Roma-Bruxelles, invece, la cronaca di ieri registra una secca smentita del portavoce del commissario Barrot a alla bugìa propinata alla stampa estera l’altro giorno da Maroni in conferenza stampa. Il commissario -aveva sostenuto il ministro dell’Interno- aveva cercato di «far rinviare» il voto del parlamento. Purtroppo, questa «informazione» era stata «passata» così confezionata al Tg1 Rai e in altri tg. Il portavoce di Barrot ha sottolineato che il commissario non ha chiesto il rinvio di un bel nulla, giacché il parlamento Ue è sovrano e decide a prescindere dalle opinioni dell’esecutivo. La stessa obiezione era stata fatta a Maroni in conferenza stampa, ma la troupe del Tg1 doveva essere, in quel momento, distratta. Peccato che così a milioni di italiani sia arrivata, su una questione tanto delicata, un’informazione falsa.

l’Unità 12.7.08
La fine dello stupore e la fine dell’Università
di Michele Ciliberto


Se un filosofo dovesse dire quale è uno dei segni più tipici della crisi che sta attraversando il nostro paese potrebbe dire, a mio giudizio, che è la fine dello stupore, della capacità di sorprendersi, che come è noto è la prima sorgente della filosofia. In Italia, oggi tutto è ricondotto nei parametri dell’ordinario, del quotidiano, del feriale: anche le cose più inconcepibili, fino a poco tempo fa, sono digerite, assorbite, metabolizzate senza alcuna difficoltà. Si è persa l’abitudine a dire di no, ad alzarsi in piedi: e di questo è una paradossale conferma il fatto che quando si protesta si usano toni esagitati, addirittura volgari, proprio perché protestare - dire no - è diventata un’eccezione, non più la norma di un comune vivere civile. Questo accade anche quando si tratta delle regole che devono strutturare la vita istituzionale politica e sociale del paese. È un altro segno della crisi profonda che attraversa l’Italia: le regole appaiono una sorta di optional che il potere può trasformare come meglio gli conviene, a seconda della situazione e perfino dei propri interessi privati. Si tratta di un tratto tipico del dispotismo, quale è già delineato in pagine straordinarie di Tocqueville nella Democrazia in America: il dispotismo si esprime attraverso una prevaricazione dell’esecutivo sugli altri poteri e con un ruolo sempre più ampio assunto dall’amministrazione, che diventa il principale motore dell’intera vita di un popolo. Le strutture dispotiche, infatti sono incontrollabili: una volta messe in movimento invadono progressivamente tutte le sfere della vita sociale ed intellettuale, compresa ovviamente l’alta cultura e le istituzioni attraverso cui essa si organizza.
È precisamente quello che è accaduto in queste ultime settimane con il decreto del 25 giugno del 2008: «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria». In esso è compresa una serie di disposizioni che muta profondamente l’assetto della Università pubblica italiana accelerandone la crisi e la definitiva decadenza. Si tratta, dunque, di disposizioni che avrebbero dovuto sollevare, se non uno scandalo, una discussione assai vivace; mentre invece, a conferma di quanto sopra dicevo, con poche eccezioni, il mondo dell’Università è rimasto silenzioso e seduto. Solo in questi ultimi giorni stanno cominciando ad affiorare prese di posizione più nette come quella del rettore dell’Università di Ferrara o del Preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Pisa, il quale ha rotto il muro del silenzio scrivendo una lettera aperta dal titolo: «L’università non è in svendita». Qualche protesta, in verità c’era stata già prima, ma aveva riguardato il fatto che il decreto interviene sugli scatti di carriera di tutti i docenti trasformandoli da biennali in triennali. Il problema è però ben più vasto e riguarda direttamente la costituzione interiore della Università italiana ponendo anche delicati problemi di ordine costituzionale. Mi limito a segnalare quelli che a mio giudizio sono i punti più importanti.
Le Università possono costituirsi, su base volontaria, come fondazioni di diritto privato, si dice nel Decreto, venendo incontro sul piano legislativo a un’istanza proveniente già da molto tempo soprattutto da settori industriali. Su Il Sole 24 Ore il provvedimento è stato infatti presentato da Giovanni Toniolo come «un’ottima notizia, la migliore che abbia sentito in quarant’anni di vita accademica». Personalmente, non ho dubbi che sul tema delle fondazioni si debba discutere ed aprire un forte dibattito, ma sapendo che - se non ben governata - questa è la via dell’integrale privatizzazione dell’Università italiana, con il rischio effettivo sia di ledere il principio della libertà dell’insegnamento sia di ritrovarsi in una situazione come quella americana nella quale accanto alle top ten esistono migliaia di università di livello inferiore ai nostri licei.
Ma che l’Università pubblica sia al centro di un vero e proprio attacco in queste disposizioni è dimostrato anche da altri elementi. È bloccato il turn over: si prevedono infatti assunzioni nei limiti del 20% per il triennio 2009-2011 e del 50% a partire dal 2012. Né è difficile anche in questo caso immaginare gli effetti di questa disposizione sull’Università in generale, specie su quelle medio - piccole e anche su quelle scuole di eccellenza che si giovano di un corpo di docenti limitato. Privatizzazione, da un lato; ricostituzione di una forte dimensione centralistica ,dall’altro: all’Università infatti resterà in cassa soltanto il 20% delle «quote» dei docenti andati in pensione, tutto il resto andrà all’amministrazione centrale la quale ha già tagliato il finanziamento di Euro 500.000.000 in tre anni.
Privatizzazione, centralizzazione (nonostante tutta la retorica sul federalismo) e, infine, colpi durissimi al personale docente per il quale si prevede una sorta di vera e propria rottamazione. La questione dello stato giuridico dei professori universitari è annosa; il Ministro Mussi era intervenuto su questa delicata questione riducendo, e di fatto avviando alla fine, il fuori ruolo, - decisione che si può anche comprendere se si tiene conto che si tratta di una vecchia disposizione, risalente a tutt’altra situazione, la quale consentiva ai professori di continuare a godere del proprio stipendio, pure essendo fuori dai ruoli dell’insegnamento.
Ma queste disposizioni si muovono su ben altro piano colpendo sia la possibilità che i professori universitari, come ogni altro dipendente dello Stato, hanno di poter continuare a lavorare- cioè insegnare - due anni dopo l’età pensionabile (a insegnare, sottolineo); sia la stessa possibilità che possano continuare a restare nei ruoli qualora abbiano compiuto quaranta anni di insegnamento, qualunque sia la loro età (compresi dunque quelli che sono andati presto in cattedra). Ad essere sintetici: prima il biennio era una scelta del docente; ora diventa una concessione dell’amministrazione da cui dipende. Allo stesso modo è l’amministrazione che decide se rottamare un professore, oppure tenerlo in servizio fino al raggiungimento dell’età della pensione stabilita della legge, che il decreto tende invece ,surrettiziamente,ad anticipare anche di parecchi anni con una chiara lesione dei diritti costituzionali dei docenti. In entrambi i casi c’è una totale prevaricazione sulla figura dei professori da parte dell’amministrazione locale e soprattutto di quella centrale che diventa il vero arbitro della situazione. Infatti, se anche l’amministrazione universitaria locale fosse orientata a concedere il biennio o a rinviare la rottamazione, l’amministrazione centrale potrebbe costringerla a procedere in questa direzione con ulteriori, drastiche riduzioni del fondo di finanziamento ordinario.
Non si tratta di questioni sindacali, o di interesse puramente corporativo: in ballo c’è ben altro. Se queste disposizioni vanno avanti ne discenderà un controllo dispotico, e col tempo totale, dell’amministrazione centrale sulle carriere dei professori universitari e di conseguenza sull’Università italiana. Quella che dovrebbe essere il centro della libertà intellettuale e di ricerca del paese, costituzionalmente garantita, corre dunque il rischio di essere controllata e irreggimentata a tutto vantaggio delle università private che potranno darsi gli statuti più adeguati al loro sviluppo, attraendo tutti i professori che non vogliono essere sottoposti a forme di controllo centralistico destinate ad assumere - non è difficile prevederlo - connotati ideologici e politici assai precisi. Mentre nelle Università pubbliche diventerà fortissima, temo, una spinta in direzione del conformismo, della passività, dell’autocensura dei professori universitari con un colpo assai grave per quella autonomia e libertà dell’insegnamento che è esplicitamente prevista dall’art. 33 della Costituzione.
In ultima istanza,questo - la libertà di insegnamento e le forme in cui essa può e deve esplicarsi - è dunque il vero problema che il Decreto del 25 giugno 2008 pone all’Università italiana: che di fronte a tutto questo -e alla stessa forma del decreto,così impropria per decisioni di tale rilievo-non si sia ancora accesa una discussione critica e che siano pochissimi quelli che hanno deciso di alzarsi in piedi può certamente sorprendere; ma sorprende meno se si tiene conto di quello che dicevo all’inizio: il nostro paese è pronto a tutto, anche ad inghiottire in silenzio la fine dell’Università pubblica e della libertà di insegnamento.

l’Unità 12.7.08
Veronesi: massacro di scuola e ricerca
L’accusa: «In queste condizioni il paese non può ripartire»


Ricerca e Scuola sono state «massacrate» da questa manovra finanziaria, «ma senza l’una e senza l’altra il Paese non può ripartire». Lo ha detto Umberto Veronesi rispondendo alle domande dei giornalisti a margine della presentazione del programma del convegno internazionale “Il futuro della scienza”, che si svolgerà a Venezia dal 24 al 27 settembre.
«La ricerca scientifica - ha detto l’oncologo, oggi senatore della Repubblica - ha bisogno di essere rilanciata se vogliamo rilanciare il Paese. Senza ricerca e senza scienza il Paese non cresce. Ma anche la scuola deve essere sostenuta». Per Veronesi, la scuola «deve essere prima di tutto riformata» per affrancarla dal nozionismo di oggi, per avere «una scuola che si preoccupi di formare la personalità di un ragazzo che cresce e che lo motivi alla vita e alla creatività in modo da renderlo più resistente alle devianze». Ma per far questo «occorre un grande impegno, anche economico».
«Il ragazzo - ha continuato Veronesi - deve andare a scuola con piacere, deve essere affascinato dalla scuola. Deve sentire il bisogno di andarci, perchè a scuola deve imparare, conoscere, ma deve anche divertirsi, vedere film, le opere teatrali, deve fare lui l’attore, deve scrivere articoli, commentare gli articoli del giorno, deve leggere i giornali... Insomma deve diventare un uomo consapevole del suo ruolo nella società. Se no, alimentiamo questa tendenza al rifiuto della società di oggi, che poi si manifesta nelle devianze, nella depressione o, peggio, nel suicidio». Per l’oncologo, quindi, «la scuola va rifatta. La ricerca è fondamentale. La cultura e la musica sono fondamentali per un Paese che deve crescere. Bene, tutte queste aree - ha concluso - sono state massacrate da questa manovra finanziaria».

l’Unità 12.7.08
Dietro gli occhi di Federica prima della morte
di Adele Cambria


LA FOTO RACCONTA Sparita la solidarietà femminile. Federica lasciata sola con il suo killer

Riflettevo l’altro ieri sulla risposta che Lucia Annunziata dava, nello spazio della sua rubrica di posta su La Stampa, alla lettera di un lettore, a proposito della tragica morte di Federica, e già il titolo, «Niente moralismi sui ragazzi della movida», anticipava la risposta. «Si può immaginare - esordiva dunque Annunziata - di essere giovani senza anche essere scapestrati, distratti, incuranti dei pericoli, abbagliati solo dal futuro… e dalla propria potenza?». Non devo certo ricordare a Lucia quale importanza - quasi di sfida mortale agli Dei - si dava nell’antica Grecia alla yubris.
Sì, la yubris, quel sentimento d’onnipotenza giovanile per esempio di Icaro (sostenuto dalla sapienza diremmo oggi tecnologica del padre, Dedalo): uno slancio verso l’alto che portò il giovinetto a perire, con le sue ali incollate alle spalle da una labile cera, nella luce e nel calore, quelli sì abbaglianti, dell’immenso sole.
Ed ora, davanti alla fotografia di Federica, abbracciata ad uno sconosciuto (fino a qualche ora prima), che di lì a poco l’avrebbe soffocata ed uccisa, -ma era abbracciata a El Gordo o ne era piuttosto «invasa»?- non mi sento proprio di condividere il commento di Daniele Mastrogiacomo a questa foto: «Lei, il viso felice, forse un po’ contratta ma serena, alza il pollice come a dire ok, tutto bene…». Ed anche Annunziata scrive che il sorriso di Federica, «l’ultima vittima»,(per ora?), è quello di «chi si sente al top del mondo». Nessun moralismo, per carità, ma non ci sentiamo un po’ tutti, e tutte - noi adulti, e specialmente noi donne, e tanto più se madri- responsabili per le conseguenze di quella «felicità» così, lasciatemelo dire, raso terra?
Dicono che Federica si sia difesa, più tardi, dall’invasione di quel corpo maschile aggressivo (nemmeno bello) e sragionante. La droga, l’alcool, le pasticche, la vacanza, la movida low cost, non sono attenuanti. Sono soltanto i sintomi, brutali e spesso, mortali, d’un consumismo sentimentale/sessuale egualmente low cost. In fondo, riflettiamoci, Federica s’è difesa per un riflesso ancestrale di remota e, senza dubbio, «repressiva» virtù, come quello che mosse, secoli fa,(diremmo oggi), Maria Goretti. Soltanto che le donne di oggi, quelle almeno che hanno animato negli ultimi trenta-quarant’anni, la «nuova»(ancora nuova, nonostante tutto) cultura del femminismo, hanno parlato- e scritto- di dignità e autostima femminile; rivendicando persino-cosa che ci è stata rimproverata come un intollerabile, isterico eccesso- il diritto di cambiare idea anche «all’ultimo momento».
Allora, chiediamocelo, che cosa non funziona, non ha funzionato (o non ha funzionato abbastanza)nella trasmissione generazionale tra noi madri e le nostre figlie? (Ed anche, ovviamente, i nostri figli?). Non lo so. So che a Campo de’ Fiori, o a Trastevere, nelle notti delle nostrane movide, vedo spesso un ragazzo o un branco, tutti amici, per carità, tutti immersi nel divertimentificio comune, schiaffeggiare o spintonare una ragazza: che è spesso la propria ragazza, oppure una delle ragazze della comitiva. E la malcapitata non reagisce- anzi spesso ride,magari «contratta», come Federica- né reagiscono le sue amiche: mancanza di solidarietà femminile? L’espressione vi sembra troppo pomposa, vetero femminista? Allora diciamo: semplice distrazione.
Anche Stefania, l’amica del cuore di Federica, deve essersi distratta: e l’ha lasciata andare con El Gordo. Dopo averli fotografati.

l’Unità 12.7.08
L’indagine. Paralizzate e in coma vegetativo in Italia più di 2000 come lei


SONO circa 2.000-2.500 i pazienti che in Italia, come nel caso di Eluana Englaro, si trovano in una condizione di coma vegetativo. È uno dei risultati di una indagine svolta nel 2005 da una commissione ad hoc istituita dal ministero della Salute. La cifra è contenuta nel documento elaborato dalla commissione, che afferma che «nel nostro paese un censimento sugli Stati vegetativi è molto difficile», ed è ricavata da una proiezione su una serie di regioni campione. La stima della commissione è che il numero di pazienti di questo tipo sia tra 3,5 e 5 ogni 100mila abitanti, e che sono necessari 3-4 posti letto in strutture specializzate ogni 100mila abitanti. Secondo il rapporto il 40% dei casi deriva da malattie vascolari, il 21,7% da traumi e il resto da altre patologie. 2-300mila, sono le persone che entrano ogni anno in coma per incidenti stradali o sul lavoro, per malattie o intossicazioni. Più di un terzo ne esce indenne, altri riportano danni più o meno gravi e per circa 500 di loro il coma evolve in stato vegetativo, che diventa permanente quando dura oltre 3 mesi.
In Italia, una persona su tre colpite dal coma ha un’età compresa fra 0 e 15 anni. Il 3% dei bambini rimane in coma oltre un mese. La maggior parte di questi piccoli pazienti riprende attività di coscienza, ma molti di loro manterranno gravi disabilità. Attualmente, nel nostro Paese sono circa 700 i bambini in stato di coma vegetativo. Situazioni “al limite” e molto difficili da gestire, anche perché, sottolineano vari esperti, in Italia esistono poche strutture specializzate e gli stessi medici sono spesso impreparati, dovendo trattare casi con patologie molto complesse. Molte volte, dunque, l’assistenza non è di tipo specialistico e le statistiche rilevano che sono proprio i giovani coloro che occupano le poche stanze a disposizione negli ospedali per i pazienti in coma.

l’Unità Roma 12.7.08
Smeriglio: a Roma ha vinto Vendola
L’annuncio del segretario romano mentre non è ancora ufficiale la convalida dei voti esclusi in un primo momento
di Luciana Cimino


«A Roma ha vinto la mozione Vendola», così ha esordito Massimiliano Smeriglio nella sua ultima relazione da segretario cittadino, all’VIII Congresso della federazione romana del Prc. Non un discorso distensivo dunque ma un intervento che non nasconde la crisi intestina delle ultime settimane. E la reazione della platea dell’auditorium Santa Lucia alle sue parole parrebbe indicare che non è ancora giunto per Rifondazione il momento della pacificazione. Una parte della platea dei delegati ha infatti contestato l’annuncio del segretario, che ha però insistito: «La linea Vendola offre una prospettiva politica chiara: salvare Rifondazione e salvaguardare le relazioni culturali che permetteranno la costruzione del campo largo della sinistra. Dobbiamo pensare alle elezioni europee e al rilancio dei nostri simboli e la nostra storia politica». Nonostante l’appello al confronto civile lanciato da Nichi Vendola, governatore della Puglia e candidato dalla mozione 2 alla successione di Giordano, sulle pagine di Liberazione, ieri mattina, lo scontro tra le mozioni è ancora vivo e il nodo centrale riguarda proprio Roma. «Abbiamo assistito – è l’accusa di Smeriglio - ad un congresso da resa dei conti vissuto all’insegna di un clima che speravamo di aver seppellito per sempre, c’è gente che ha lavorato alacremente per la distruzione del Prc romano».
Ancora non si placano le polemiche per i ricorsi presentati alla commissione congressuale nazionale, dopo che quella cittadina, presieduta da Adriana Spera, aveva annullato decine di voti facendo crollare la mozione 2 di quasi 10 punti percentuale, relegandola così al secondo posto. La commissione comunicherà oggi, nella seconda giornata di congresso, le sue conclusioni, ma dal contenuto della relazione di Smeriglio è facile intuire che l’organo di controllo del Prc abbia convalidato molte delle preferenze giudicate precedentemente nulle e quindi che il documento di sostegno a Nichi Vendola abbia in città la maggioranza relativa. «Non mi piace usare il termine vittoria – ha detto Patrizia Sentinelli, garante della direzione nazionale al congresso romano – ma si può dire che la mozione 2 si è affermata come prima, ora però è tempo di discutere tra esseri umani di modo che si possa tornare a ragionare di politica». Domani la platea voterà i delegati che andranno al congresso nazionale previsto per fine mese a Chianciano. Per l’elezione del nuovo segretario cittadino, invece, i tempi si allungano e la sua nomina non dovrebbe arrivare prima di settembre.

Corriere della Sera 12.7.08
Panslavismo Autori legati a Putin esaltano le glorie imperiali e si scagliano contro l'Occidente
Così il Cremlino riscrive la storia
La Russia più antica di Babele, Mosca madre degli etruschi
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — Da lungo tempo popoli e imperatori cercano di trovare una legittimazione nobilitando le proprie origini. I romani lo fecero con il troiano Enea; i russi hanno sempre puntato le loro carte su una presunta continuità con Bisanzio e con l'Impero Romano d'Oriente, grazie al matrimonio avvenuto nel 1472 tra Sofia, una nipote dell'ultimo imperatore Costantino XI Paleologo, e il principe Ivan III. Ma ora che grazie al petrolio Mosca sta ritrovando il suo ruolo di superpotenza, la ricerca di una ideologia che sostituisca il tramontato comunismo e di una giustificazione per azioni che tutti condannano come imperialiste sembra diventare impellente.
Professori universitari, preti altolocati e produttori delle tv controllate dal Cremlino sono all'opera per creare una serie di miti grandiosi e per indirizzare la politica della Russia facendo tesoro degli errori del passato. È da Mosca che viene la civiltà del mondo e probabilmente è proprio il russo quella lingua originale che tutti parlavano prima della torre di Babele; i russi diedero le conoscenze agli etruschi che poi fondarono Roma; e se Bisanzio cadde perché si «contaminò» con l'Occidente, la Russia di oggi deve imparare la lezione e isolarsi nel suo splendore. Teorie e affermazioni per lo meno bizzarre, che si potrebbero trascurare se non venissero diffuse da libri, programmi televisivi e personaggi legati a doppio filo ai vertici del potere. Ma iniziamo con ordine.
Il primo richiamo alla Seconda Roma, della quale Mosca sarebbe l'erede, è venuto da padre Tikhon Shevkunov, confessore di Vladimir Putin, con un programma televisivo dal titolo eloquente, La distruzione dell'Impero, una lezione bizantina, trasmesso e replicato dalla principale rete statale (Rossiya). Il messaggio era semplice e diretto: Costantinopoli con il suo splendore faceva invidia ai barbari occidentali, che la saccheggiarono con la «crociata» del 1204. Il moderno capitalismo occidentale è costruito sul bottino di Bisanzio e «sull'usura ebraica». Una fusione tra vecchi e nuovi stereotipi dei cosiddetti slavofili. Per rafforzare il parallelo tra la Russia di oggi e Costantinopoli, il sacerdote sostiene che anche l'imperatore di allora creò, come Putin, un fondo di stabilizzazione del Paese. Poi tutto si perse quando Bisanzio tentò di riformarsi e modernizzarsi come voleva l'Occidente. La conclusione è ovvia: la Russia di oggi deve rimanere aggrappata ai suoi «grandi valori», l'ortodossia e l'autocrazia, senza ascoltare chi parla di democrazia e riforme. Ma padre Tikhon è un moderato. Dietro di lui avanzano gli estremisti della russità. Come il matematico Anatolij Fomenko dell'Università di Mosca, autore di Antichità nel Medioevo e di Impero, anche lui ampiamente pubblicizzato da giornali e tv.
Fomenko afferma di aver studiato la posizione delle stelle nei secoli e di averla confrontata con i documenti antichi. Ebbene, tutta la storia va riscritta, perché quello che credevamo fosse accaduto nell'Antichità va invece spostato nel Medioevo. Cristo, dunque, nacque nel 1053 e fu crocifisso nel 1086. La prima Roma in realtà era Alessandria d'Egitto, che nell'XI secolo si trasferì sul Bosforo e divenne Bisanzio (il nome, naturalmente, viene dal russo:
Bis Antik, Seconda Antica). Il matematico sostiene poi che questa città era nota anche con altri nomi, Gerusalemme e Troia. Con raro equilibrismo temporale, sostiene così che la guerra raccontata da Omero non è altro che il sacco di Costantinopoli da parte dei crociati. Ma andiamo avanti. Quando Bisanzio si indebolì, nacquero Mosca, sua erede diretta, e quella che noi conosciamo come Roma, sulle coste del Lazio. È ovvio che questa teoria rafforza le tesi degli slavofili. L'impero russo, addirittura, non nasce come erede di Roma (e quindi dell'Occidente), ma parallelamente a Roma e perciò non ha nulla a che spartire con la nostra civiltà. E chi fondò la Roma che noi conosciamo?
Qui interviene un altro personaggio reso celebre dai programmi televisivi, lo stimato fisico (membro dell'Accademia delle Scienze) Valerij Chudinov, riciclatosi come linguista. I suoi ponderosi studi (120 pubblicazioni) gli hanno consentito di sfornare un film, La lingua dei Titani. Le sue teorie sono state rilanciate dai canali televisivi Kultura e Tvz. La «lingua dei Titani», naturalmente, è il russo, che, in base a ricerche archeologiche del fisico-glottologo, esiste da trentamila anni. I russi scrivevano e dominavano il mondo quando greci, egiziani e assiri balbettavano. «Tutta l'Europa e l'Asia, fino all'Alaska, erano russe», dice sicuro. Gli etruschi, su ordine di Mosca, fondarono una città sul Tevere e la chiamarono Mir, cioè «mondo» in russo. Leggendo il nome da destra a sinistra come facevano gli etruschi, ecco Rim, cioè Roma in russo. Naturalmente anche Mosè e poi tutti gli apostoli parlavano il russo che a quell'epoca non era più lingua universale (dopo Babele), ma pur sempre il principale idioma di comunicazione internazionale. Furono gli europei portati a corte da Caterina II nel Settecento a inventarsi la storia che conosciamo noi. Che i russi vivevano nei boschi e nelle paludi e furono civilizzati da un re scandinavo; che i santi Cirillo e Metodio diedero loro la scrittura; che l'apertura all'Occidente di Pietro il Grande modernizzò il Paese.
Facile trarre conclusioni politiche da tutto ciò: non protestate se la Russa mostra i muscoli e fa la prepotente. Potrebbe anche decidere di riprendersi quello che una volta era suo.
ILLUSTRAZIONE CORBIS

Corriere della Sera Roma 12.7.08
Schiamazzi e abusivi ordinanza «antibivacco»
Alemanno presenta nuove regole per la vita nel centro storico Ztl notturna dalle 23, maggiori controlli e più mezzi pubblici
di Lilli Garrone


Nuove regole per il centro: niente bivacchi e niente borsoni con merci. Più controlli. La Ztl notturna scatta alle 23
Centro storico, si cambia. Dall'orario della zona a traffico limitato notturna, che dal 18 luglio ritorna alle 23 nei fine settimana (come nel 2007), e fino alle 3 di notte, al divieto dei «borsoni», per contrastare i venditori ambulanti abusivi, fino a una nuova ordinanza, definita «anti-bivacco», che vieta di consumare cibi e bevande, o dormire, in strada. La giunta di Gianni Alemanno ha ieri deciso le nuove regole, promettendo maggiori controlli: vi saranno 600 mila euro per gli straordinari dei vigili urbani (oltre le 400 assunzioni già in programma). «Non sono provvedimenti ideologici - dice il sindaco - Il problema è la grande difficoltà in cui si trovano gli esercizi commerciali. Pur cercando di ridurre al minimo i disagi per i residenti, avevamo di fronte a noi il rischio di morte degli esercizi del centro storico».
Vi saranno più mezzi pubblici di notte, ma la vera rivoluzione d'orario per la ztl notturna sarà per Trastevere, dove è sempre scattata alle 21. L'assessore alla Mobilità Sergio Marchi è fiducioso: «È un provvedimento sperimentale - precisa - in vigore fino al 31 dicembre. La nostra volontà è quella di rendere Roma una città il più possibile aperta, vivibile e controllata». Si torna dunque alla chiusura alle 23 nel centro storico, a Testaccio (dove scade il 19 luglio e riprenderà dopo la pausa estiva il 5 settembre) a Monti, ma non a San Lorenzo, dove resta alle 21 e con il programma attuale dal mercoledì al sabato; si apre un po' prima quello che è definito il «piccolo Tridente », supervigilato finora dalle 10 alle 20: sarà alle 18, così come avviene in tutta la ztl diurna.
E da subito (sperimentale fino al 31 ottobre) niente «borsoni » per contrastare il commercio abusivo, «qualora il trasporto si configuri come strumentale alla vendita», spiega l'assessore al Commercio Davide Bordoni. Un'ordinanza modello Venezia, che varrà soprattutto in centro con la quale «è vietato trasportare merci per mezzo di contenitori spiega Davide Bordoni Dobbiamo intervenire perché i commercianti lamentano un calo di affari del 30 e 40 per cento». Stessa durata, 31 ottobre, per l'ordinanza antibivacco: «Sarà perseguito chiunque insudici le strade, getti o abbandoni carte, imbratti i muri, affigga manifesti, emetta schiamazzi, consumi cibi o bevande o, utilizzi i luoghi pubblici come sisti di deiezioni». Ordinanze un po' modello Firenze e Venezia, città governate dal centrosinistra e promosse nel loro lavoro da Gianni Alemanno.
Plaudono i commercianti: «Finalmente cominciano a cadere le mura della "città proibita" - affermano il presidente della Confcommercio Cesare Pambianchi e della Confesercenti Valter Giammaria - Si vive un periodo di grande crisi anche per il turismo, con una media del 20 per cento in meno. Se si spengono le luci delle vetrine il degrado avanza».

Repubblica 12.7.08
L´abisso di Nietzsche
La stagione della follia
Nelle "Lettere da Torino" il suo ultimo tragico autunno
di Pietro Citati


Proclamava di essere il pagliaccio della nuova eternità, si sedeva al pianoforte e cantava a gola spiegata in preda ad una irrefrenabile euforia
Il suo amico Franz Overbeck era corso da Basilea per rintracciarlo e riportarlo a casa
Sembrava un istrione impazzito e inviava proclami firmati Dioniso oppure Crocifisso

Il 21 settembre 1888 Friedrich Nietzsche arrivò a Torino, fuggendo l´Engadina in preda all´alluvione. Era la seconda volta che giungeva nell´antica capitale sabauda: ma questa volta essa lo affascinò completamente. L´aria fresca, tersa, limpida, le foglie dorate e brune degli alberi, il fondale già bianco delle montagne: gli pareva di vivere in mezzo ai colori di un Claude Lorrain infinitamente prolungato. C´era nell´aria un benessere quieto ed etereo. Il pomeriggio passeggiava lungo i viali alberati sul Po, che l´autunno aveva appena sfiorato. Amava le strade dritte e larghe, la bellezza delle grandi piazze, gli edifici regolari, la profondità quieta del silenzio. Gli pareva che Torino fosse costruita apposta per lui. Era la città dell´autunno: Dioniso, il suo dio, era il dio dell´autunno; e qui le venditrici gli offrivano meravigliosa uva di tutti i colori. Non sapeva ancora che sarebbe stato il suo ultimo, tragico autunno (Lettere da Torino, a cura di Giuliano Campioni, traduzione di Vivetta Vivarelli, Adelphi, pagg. 272, euro l5).
Tutto, a Torino, gli sembrava frutto di uno straordinario momento di grazia. Un edicolante, David Fino, che abitava a via Carlo Alberto l3, gli aveva affittato a basso prezzo una vasta stanza con un "grandioso letto piemontese", dove dormiva con una profondità e una quiete che non aveva mai conosciuto. La trattoria era buonissima: teneri maccaroni, saporite minestre, ossibuchi accompagnati da "broccoli cotti in maniera incredibile", carne finissima, squisiti grissini. Un sarto gli aveva preparato un elegante soprabito azzurro autunnale, che gli toglieva dieci anni di vita e lo faceva procedere pieno di contegno e di orgoglio. Tutti sembravano, od erano, persone raffinatissime; e lo trattavano come un gentiluomo estremamente distinto o un principe. Quando entrava in un grande magazzino, i volti si addolcivano e si rasserenavano: le porte si aprivano dolcemente davanti a lui; e le vecchie fruttivendole non avevano pace finché non riuscivano a scegliere i grappoli più dolci della loro uva. Così la sua salute (nella realtà o nell´immaginazione) migliorò rapidamente: non aveva più bisogno di caffè, cloralio e nicotina: dopo anni di angosce conosceva il benessere; e scrisse in pochi mesi, con velocità ed impeto vertiginosi, i suoi ultimi libri.
In realtà, quello di Nietzsche non era benessere, ma un eccesso di euforia, che cresceva su sé stessa e divorava spaventosamente sé stessa. Le lettere degli ultimi mesi si riempiono presto di affermazioni di una inquietante e sinistra mitomania. «Io ho dato agli uomini il libro più profondo che posseggano, il mio Zarathustra». «Zarathustra, il primo libro di tutti i millenni, la Bibbia del futuro, la più grande esplosione del genio umano in cui è racchiuso il genio dell´umanità». «Mi sono posto talmente al di là, non sopra ciò che conta ed è in auge oggigiorno, bensì al di sopra dell´umanità». Ma anche il successo del Zarathustra era ormai dietro le sue spalle. Nessuno poteva fermarlo. Le potenze europee, riunite a convegno attorno a lui, avrebbero ubbidito ai suoi ordini di Messia: fucilare Bismarck e l´imperatore Guglielmo, distruggere il Terzo Reich, chiudere il Papa nel carcere del Vaticano.
Chi poteva chiamare semplici libri L´anticristo o Ecce homo, che scriveva febbrilmente a Torino? Erano dinamite, terremoto, convulsione, apocalisse. Ecco, davanti ai suoi occhi, la storia della terra spezzata e spaccata in due. Il vecchio mondo, che era cominciato con l´anno uno, ai tempi della nascita di Cristo, era già morto: mentre il nuovo stava cominciando proprio in quel momento, tra i limpidi veli autunnali di Torino. Tutto era l´albore di un nuovo inizio e di un nuovo cominciamento. Il Crocefisso aveva finito di vivere, e con lui il Padre, al quale l´umanità aveva tanto tempo sacrificato. L´altro Redentore, l´altro Padre era già qui, davanti agli occhi presaghi di tutti. Non era una persona sconosciuta: ma lui, Friedrich Nietzsche, il professore di Basilea, il fuggiasco che in pochi anni aveva percorso tutta l´Italia. «Tra un paio d´anni - proclamò - governerò il mondo, perché ho deposto il vecchio Dio».
Poi, in alcune lettere dei primi di gennaio del 1889, tutto esplose alla luce. «Il mondo è trasfigurato, poiché Dio è sulla terra. Non vede come i cieli gioiscono? Ho appena preso possesso del mio regno». Scrivendo ai nuovi e vecchi amici, tra i quali l´amatissima Cosima Wagner, firmò i suoi brevi proclami di rivelazione e di trionfo ora col nome del Crocifisso ora con quello di Dioniso. Egli era Dioniso vittorioso, il dio supremo antichissimo e recentissimo, che avrebbe reso la terra un giorno di festa. Sebbene fosse Dio, egli conosceva tutte le esperienze che gli uomini possono conoscere, dalle più basse alle più alte. Così, nella gioia universale, egli annunciava il suo "eterno ritorno": come Buddha, Gesù Cristo, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Shakespeare, Voltaire e Napoleone; e persino il suo immaginario figlio Umberto I, giovane re d´Italia con "la graziosa Margherita", avrebbero partecipato alla grande festa.
Davanti a questo scoppio orgiastico di euforia, gli amici che ricevettero i biglietti di Dioniso-Crocifisso pensarono di leggere le parole di un istrione impazzito. Non avevano torto. Ma anche Nietzsche sapeva di esserlo: anche lui era cosciente che la sua "catastrofe tragica" poteva esprimersi soltanto con ghigni, caricature, spiritosaggini, buffonate, disumana e sovrumana allegria. Credo che per qualche giorno rimanesse lucido: convinto di essere contemporaneamente il "redentore del mondo " e "il pagliaccio della nuova eternità ". Si era identificato con Dioniso: il Dioniso della fine dei tempi. E il suo Dio doveva esprimersi quale era stato nel corso della sua lunga storia: con i balzi del satiro, le smorfie dell´istrione aristofanesco, le danze del ballerino d´operetta. Non c´erano più alternative o rivali nel tempo. Non c´era più storia. C´era soltanto quella tremenda risata orgiastica, che distruggeva il mondo e lo ricreava secondo un nuovo principio.
La voce si diffuse rapidamente tra gli amici e i conoscenti. Franz Overbeck - uno degli amici più antichi e affezionati di Nietzsche - lasciò la stazione di Basilea la sera del 7 gennaio. E il giorno seguente, dopo l8 ore di viaggio, era a Torino, cercando l´abitazione di Nietzsche nella città sconosciuta. Voleva riportarlo tra i suoi. Il padrone di casa, David Fino, era andato a cercare aiuto al consolato tedesco e alla polizia italiana. La moglie non era a casa. Ma, finalmente, Overbeck riuscì ad entrare nella stanza, dove Nietzsche aveva pensato, scritto, riso e delirato per più di tre mesi. Stava rannicchiato nell´angolo di un sofà, col volto terribilmente emaciato. Leggeva le bozze di Nietzsche contra Wagner. «Nessuno è pari a Wagner nei colori del tardo autunno, nella felicità indescrivibilmente commovente di un godimento estremo, estremo più di ogni altro, breve più di ogni altro… Più felicemente di qualsiasi altro egli attinge all´ultimo fondo di ogni gioia umana, per così dire al suo calice interamente vuotato…». Forse Nietzsche stava parlando di sé senza saperlo.
I due amici si abbracciarono lacrimando: poi Nietzsche si lasciò cadere nuovamente sul sofà, sconvolto da sussulti di pianto. «Forse proprio in quell´attimo - scrisse Overbeck - gli si spalancò davanti l´abisso sul cui ciglio ora si trova, o dove piuttosto è già precipitato». Poi Nietzsche si sedette al pianoforte, dove cantava a gola spiegata in preda alla frenesia ed esaltandosi sempre di più, lasciando «intendere nel contempo con brevi frasi pronunciate in tono smorzato cose sublimi, di abile chiaroveggenza e di indicibile orrore, su sé stesso come successore del dio morto». Proclamava di essere "il pagliaccio della nuova eternità", rendendo l´estasi della sua gaiezza con le espressioni più triviali, o con balzi e danze scurrili. Overbeck ebbe una impressione atroce: quello spettacolo incarnava con terribile efficacia l´idea orgiastica della follia sacra, sulla quale era fondato il teatro antico. Adesso, tutto era finito: tutto quel possente mondo tragico-comico Eschilo, Aristofane, Le Eumenidi, Le Rane, Le Nuvole, poteva venire contemplato soltanto attraverso la sua scurrile degradazione. Nel mondo moderno, Dioniso, l´antichissimo dio dell´estasi e della lacerazione, era soltanto un pazzo, sottoposto come Nietzsche a un processo di paralisi progressiva.

il Riformista 12.7.08
Pd c'è chi vuole un partito più piccolo
Siamo un paese geneticamente di destra o i nostri errori l'hanno spinto a destra?
La scelta della legge elettorale dipende da questo dilemma
di Stefano Ceccanti


Caro direttore, per capire il percorso del Pd in quello della democrazia italiana bisogna anzitutto rilevare che soprattutto dagli anni '80 una progressiva degenerazione oligarchica dalla politica si è estesa a tutti i vari sottosistemi determinando un complessivo declino del paese. Contro questa degenerazione è emersa una domanda composita, in grado di tener conto degli esclusi, a tratti declinata a sinistra (movimento referendario, primi sindaci eletti) a tratti a destra (la Lega, la prima Forza Italia). Le regole precedenti, formali e informali (proporzionale pura, primato dei partiti extraparlamentari rispondenti agli iscritti, balcanizzazione del partito di maggioranza con scissione del mandato a dirigere il partito da quello a governare, centralizzazione delle istituzioni e dei partiti), anomale rispetto alle grandi democrazie europee, che erano state utili in una fase di gravi fratture ideologiche, si sono poi rivelate frenanti rispetto allo sviluppo. In maniera più ravvicinata la grande svolta geopolitica del 1989, che è venuta a cumularsi con la crisi finanziaria, ha permesso di liquidare le vecchie fratture, anzitutto quella comunismo-anticomunismo e l'unità politica dei cattolici che si reggevano a vicenda.
Ciò ha consentito di aprire, in modo pur confuso, a due mutamenti prima impossibili, necessariamente intrecciati: iniziare un processo di tipo federalistico in termini di poteri e trarne le necessarie conseguenze istituzionali, cioè che per Comuni, Province e Regioni fossero adottate regole tese a realizzare una moderna "democrazia immediata" (con la scelta diretta di programmi, governi e leaders), anche se la micro-frammentazione non è stata adeguatamente scoraggiata, e tentare un'analoga dinamica anche sul livello nazionale. Essendo cambiata la natura delle fratture era giusto modificare le regole nel senso del passaggio da una "democrazia mediata" a una "immediata": le fratture ideologiche sono per loro natura di importanza transeunte, al contrario di quelle linguistiche, religiose, etniche e bisognava quindi trarre le conseguenze istituzionali di tale discontinuità.
Nella logica esposta nel 1975 da Mortati nel Commentario all'art. 1 della Costituzione, per l'attuazione dei fini esigenti della prima parte della Costituzione, che richiedono governi autorevoli e legittimati in modo sostanzialmente diretto dal corpo elettorale. Gli Stati liberali tradizionali, che assegnavano allo Stato finalità ben più ridotte, potevano accontentarsi di istituzioni debolmente decidenti, mentre lo Stato sociale odierno, secondo le riflessioni di Duverger, ha bisogno di un surplus di capacità decisionali coerenti, dettagliate e tempestive.
Le modifiche relative alle regole formali sono state per alcuni aspetti strabiche rispetto all'evoluzione dei partiti politici, che ha avuto un effettivo salto di qualità con la nascita del Pd e con le modalità con cui esso, presentandosi alle urne, ha determinato un riassetto complessivo del sistema, da una "democrazia immediata" frammentata a una non frammentata, fondata sul ruolo principale, anche se non esclusivo, dei partiti a vocazione maggioritaria. Senza questi ultimi, che garantiscono un raccordo permanente con l'elettorato (si veda la distinzione di Duverger tra la leadership di Palme, unita a un partito di tale spessore, e quella di Von Hindemburg che ne era invece privo), è difficile che possa essere davvero assicurata l'attuazione coerente di un programma e vi è il rischio di sperimentare l'alternanza solo per smobilitazione dell'elettorato del partito e della coalizione vincente al turno precedente. Le caratteristiche del partito "a vocazione maggioritaria", coerente con una moderna democrazia immediata, sono state elaborate da vari anni e si riflettono nello Statuto del Pd: un partito "estroverso", capace di far fronte alle permanenti spinte oligarchiche col ricorso al raccordo agli elettori e non solo agli iscritti, cosa che rende la contendibilità delle cariche effettiva in alternativa alla cooptazione, che pratica finalmente la corrispondenza tra leadership interna e di governo rimediando all'anomalia post-degasperiana segnalata da Elia (cosicché quando vince non c'è un Governo cattivo rispetto a un partito buono che non si assume la responsabilità delle scelte), un partito federale che lascia ampi spazi di decisione ai livelli regionali e locali, a cominciare dalle primarie per le cariche monocratiche.
Rispetto a questa impostazione e alla sconfitta elettorale, la domanda da cui ripartire è forse la seguente: siamo in un paese costitutivamente e stabilmente di destra, per cui il nostro approccio sarebbe stato sbagliato, sia rispetto alle regole elettorali sia rispetto alla genesi del Pd? Chi volesse rispondere sì, immaginando quindi che le fratture siano permanenti, non potrebbe che invocare il ritorno a regole da "democrazia mediata" e un Pd più piccolo, in grado di fare alleanze, anche post-elettorali, con partiti monoculturali che tendessero a riflettere tali fratture. Chi risponde di no, come secondo me è doveroso fare, segnala invece che è siamo stati noi, con vari errori prolungati, ultima la coalizione dell'Unione, ad avere spinto il paese a destra, non fornendo risposte adeguate o fornendole in ritardo. Per cui dobbiamo anzitutto ripartire da noi stessi, mentre le alleanze vengono dopo con chi dà risposte analoghe alle nostre. Rispondere di no alla domanda sulla presunta impossibilità di scongelare l'elettorato andato allo schieramento avversario non significa però difendere tutto ciò che abbiamo fatto, giacché abbiamo cumulato molte contraddizioni nella genesi rapidissima del Pd, a cominciare dalla non corrispondenza tra schieramenti congressuali e vere linee di frattura. Se siamo divisi su quella domanda, ne dovrebbe discendere rigorosamente un congresso perché sarebbero a confronto visioni diverse del partito e del sistema dei partiti in cui esso si dovrebbe collocare. Se invece siamo solo divisi sulla coerenza di applicazione della linea allora, invece, la Conferenza programmatica e l'itinerario per praticarla sono la strada più giusta e che va confermata. I prossimi giorni dovrebbero chiarircelo.

il Riformista 12.7.08
I dolori del giovane Nichi


Scrive Nichi Vendola in una lettera aperta su Liberazione che la qualità del dibattito congressuale del Prc è cattiva e che nella degenerazione del confronto interno sono riscontrabili tutti i sintomi della crisi più generale della società, del costume, della cultura: «Una crisi - sostiene il candidato alla segreteria del partito - di cui noi siamo parte, anche se ci riteniamo immuni e brandiamo i termometri con cui misuriamo la febbre agli altri». Secondo Vendola il congresso di Rifondazione, con la sua rissosità, dimostra che sono «implosi gli alfabeti della vita pubblica», che è in atto una «dinamica fatale» e il dibattito è ostaggio di una «virulenza marziale e persino belluina». Eppure, continua, ce ne sarebbero di questioni su cui concentrare le attenzioni dei comunisti, anziché chiudersi a congresso, ora che la destra prende le impronte ai rom e «si rinserra il cerchio della maledizione sulla sofferta libertà delle donne». Continua Vendola: «I nostri compagni si chiedono e ci chiedono se arriveremo a Chianciano». Ci andremo, risponde il governatore della Puglia, per provare a rispondere con la «buona politica» al «cattivo congresso». Congresso che, ricorda Vendola, è stato vinto dalla sua mozione, sebbene senza raggiungere la maggioranza assoluta, il 50 per cento più uno dei consensi interni. Ma, prosegue l'ex ragazzo della Fgci, «si può immaginare che su quello zero virgola qualcosa che fa la differenza tra una maggioranza relativa e una assoluta si celebri un'ordalia?». No, si risponde Vendola, «io penso a tutto il partito e a tutto ciò che, fuori da noi, attende un esito che non sia la stupida dissipazione di un patrimonio».

L'intervento di Vendola in tre righe: «Caro Ferrero, non so se te ne sei accorto, ma hai perso il congresso. Fammi sapere quando tu e i tuoi fate fagotto. E guarda che si ti vuoi attaccare alle virgole, ho già pronta la lettera dell'avvocato».

il Riformista 12.7.08
Il Papa indeciso sul mea culpa per gli abusi sessuali in Australia
di P. Rodari


Recentemente era stato il cardinale George Pell, arcivescovo di Sydney, ad auspicare che il Papa ripetesse in Australia (Benedetto XVI parte oggi per la giornata mondiale della gioventù in programma dal 15 al 20 luglio nella città australiana) le scuse che ha pronunciato negli Stati Uniti a riguardo degli abusi sessuali che, nel continente oceanico come negli Usa, hanno visto essere protagonisti alcuni sacerdoti. Era stato il cardinale Pell a tirare fuori la richiesta al Pontefice, forse anche perché aveva avuto sentore dell'attacco che, con precisa tempestività, i media gli avrebbero scaraventato addosso proprio nell'imminenza dell'arrivo del Papa: l'accusa, ripresa ieri con grande enfasi dai principali quotidiani australiani, è quella di sempre: Pell, in sostanza, come è stato imputato a diversi suoi "colleghi" negli Stati Uniti, avrebbe coperto le denunce relative a episodi di abusi sessuali perpetrati da preti della sua diocesi.
I fatti risalgono al 1982 e, vista l'attenzione che i media hanno riservato alla vicenda, non è escluso che davvero, il Papa, sia "costretto" nei prossimi giorni a dire la sua in una sorta di mea culpa pronunciato in scia a quanto fece in aprile negli Usa. Benedetto XVI è ben consapevole della necessità che le diocesi colpite dallo scandalo degli abusi sessuali perpetrati da sacerdoti riparino al grave delitto e, soprattutto, si adoperino in un più rigoroso discernimento di coloro che intendono essere ordinati, ma nello stesso tempo è improbabile che nella minuziosa preparazione avvenuta in questi giorni a Castelgandolfo dei discorsi da pronunciare in Australia avesse contemplato dei passaggi dedicati al tema. Quindi, se mea culpa saranno pronunciati, la motivazione è da ricercarsi nelle notizie provenienti in questi giorni da Sydney dove, appunto, il cardinale Pell si trova sotto il fuoco mediatico.
Tutto è iniziato grazie a un reportage televisivo della tv nazionale Abc , andato in onda una settimana fa. Secondo il programma "Lateline", il porporato avrebbe nascosto i precedenti di abusi sessuali di padre Terrence Goodall a una sua vittima, Anthony Jones, che chiedeva giustizia. Jones ha accusato padre Goodall di aver abusato di lui nel 1982 quando aveva 28 anni ed era coordinatore dell'istruzione religiosa a Sydney.
Le indagini condotte dalla Chiesa australiana nel 2003 hanno dimostrato «comportamenti omosessuali» tra padre Goodall e Jones. In quel frangente, Pell scrisse alla vittima dichiarando che le sue accuse non potevano essere accettate perché la Chiesa non era a conoscenza di altre accuse, e così c'era solo «la sua parola contro quella di un altro».
Nel corso della trasmissione, tuttavia, è stato ricordato come il cardinale, lo stesso giorno in cui scrisse a Jones, scrisse anche a una seconda vittima, un chierichetto che aveva nove anni quando padre Goodall aveva abusato di lui, accettando la verità delle sue accuse. In un comunicato diffuso poco dopo la trasmissione, il cardinale ha negato di aver voluto ingannare Jones, ma ha ammesso che la lettera era «scritta male ed errata», e che l'errore di espressione era suo. Ma «non vi è stato alcun insabbiamento - ha detto -. Volevo dire che non vi era stata alcuna altra accusa di stupro». E ancora: «Le accuse contro padre Goodall sono state verificate dalla Chiesa e dalla polizia, ed egli è stato sospeso dall'attività sacerdotale. Le autorità della Chiesa hanno cooperato in ogni fase».
Comunque sia, anche alla luce della nuova attenzione mediatica riservata alla vicenda, Pell si è visto costretto nelle scorse ore a diffondere una dichiarazione in cui afferma di aver «formalmente riferito le questioni sollevate questa settimana a una commissione consultiva indipendente» guidata dall'ex Giudice della Corte Suprema del Nuovo Galles del Sud Bill Preistley, il quale avviserà il cardinale delle opzioni possibili. La commissione è costituita da un sacerdote e da laici esperti di legge, economia e psichiatria.
Intanto, in risposta a quanto sta avvenendo, i giovani cattolici australiani hanno predisposto una serie di blog e forum per sostenere, anche con le preghiere, l'arcivescovo di Sydney che appena una settimana fa ha parlato loro dell'importanza di una leadership onesta. Blog e forum che in qualche modo vogliono mostrare la vicinanza dei giovani al cardinale il quale, probabilmente, tutto avrebbe voluto tranne che un polverone simile si scatenasse proprio ora, in occasione della prima volta di Benedetto XVI sul suolo australiano.


6media.info 11.7.08
ASSEMBLEA MILLE: DEL BUE, RISPOSTE EMERGENZA DEMOCRATICA

Il nostro obiettivo e' dare risposte a una seria e grave emergenza democratica. Lo dice Mauro Del Bue che, con Marco Pannella e Pasqualina Napoletano, forma la triade dei convocatori dell'Assemblea dei Mille, il 'dopo-Chianciano' che per il terzo summit di domani e domenica all'Ergife registra nuove adesioni: il Ministro per l'Attuazione del Programma, Gianfranco Rotondi; Claudio Fava e Giovanni Berlinguer di Sd; Gianni Cuperlo e Ignazio Marino del Pd; i socialisti Rino Formica e Pia Locatelli; il Sindaco di Genova, Marta Vincenzi; lo storico del Pdci, Nicola Tranfaglia, il Direttore di "Left" Pino Di Maula. Al centro della discussione, le elaborazioni del 'comitato per le proposte politiche' fatto da cinque politici di diversa collocazione: Elettra Deiana (Prc), Cesare Salvi (Sa), Marco Boato (Verdi), Marco Cappato (RI), Luigi Manconi (Pd). "Non vogliamo e non possiamo rassegnarci o assuefarci allo staus quo, al teatrino della Politica - aggiunge Del Bue - e il grave errore di Veltroni non e' stato tanto di essere andato da solo ma di essersi apparentato con Di Pietro, il vampiro che gli sta prosciugando ogni giorno gocce di sangue". Se oggi Di Pietro "dispone di una quarantina tra deputati e senatori, lo deve a Veltroni: senza l'apparentamento non avrebbe superato la soglia di sbarramento al Senato e alla Camera", osserva Del Bue per il quale "l'emergenza democratica e' il deficit di partecipazione e coinvolgimento della gente, la perdita dei partiti del ruolo e funzione sanciti dall'art.49 della Costituzione, da quel clima dominante che vuole uccisi i piccoli partiti e vuole uccisa la capacita' decisionale della gente".

l’Unità Firenze 12.7.08
Siena. Giochiamo alla campana con lo scultore della pietra
di g.cav.


Non c’era nulla prima, o meglio c’erano solo, si fa per dire, le Crete senesi. Dal 1993 c’è, vicino ad Asciano, il Site transitoire, l’installazione in pietra basaltina etrusca composta di una sedia monumentale, una finestra orientata verso il tramonto del solstizio d’estate e un labirinto. «Una presenza caratterizzante» l’ha definita Mauro Civai, direttore del Museo Civico di Siena, durante la presentazione di Archeologie interiori, la mostra che, da domani e fino al 14 settembre, Santa Maria della Scala dedica a Jean-Paul Philippe. Il primo viaggio in Italia lo fece col fratello, quando ci tornò nel 1971 andò a lavorare per un po’ al Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi. «Da allora non potevo più lasciare a lungo l’Italia - racconta - e quando andai a Carrara attirato dalle cave capii che potevo fare solo lo scultore». La mostra che si articola in sette sale comincia con i suoi lavori più intimi, quelli nei quali mette a fuoco i suoi temi precipui, la sedia, la stele, il carro e le statue giacenti. Ma ben presto affiora la sua vocazione per le grandi opere pubbliche e monumentali e la mostra raccoglie i bozzetti, i disegni e la documentazione di queste opere disseminate per l’Europa e non solo. Nella produzione di Philippe un ruolo importante ha la “marelle”, il gioco che noi chiamiamo “campana”, di cui scolpisce le basi. Realizzate in pietre e materiali diversi fra Parigi e il Cairo, alle pietre della “campana” è dedicata una sala nella quale si trovano anche i manoscritti originali che al gioco - diffuso in tutto il Mediterraneo - hanno dedicato importanti poeti. Domenica 20 al Site transitoire è in programma alle 20, come succede ormai da 9 anni, un evento teatrale; stavolta è di scena Notte trasfigurata di Cesare Ronconi con Danio Manfredini.
Siena, 10.30/19.30, 4 euro.

il Giornale 12.7.07
Così il Pd è andato in fumo
di Peppino Caldarola


Se vi piacciono i giochi di guerra, dal Risiko al Game-Boy dei ragazzini, venite con me e vi farò vedere gli eserciti in battaglia della sinistra. Se non vi piacciono, seguitemi nella Torre di Babele della sinistra, vi tradurrò i linguaggi e i gesti. Vi girerà la testa, ma tenetevi forte, vi porterò al centro del sisma in pochi minuti.
A sinistra nulla è come lo abbiamo conosciuto, nulla è rimasto integro, nella sinistra più radicale fino a quella più moderata. La nuova vittoria di Berlusconi ha fatto deflagrare un mondo che si era unito solo perché c’era lui. Il Vaffa di Grillo a piazza Navona, con il coro di Guzzanti, Travaglio e Di Pietro, ha dato il segnale del redde rationem. Come ogni mappa che si rispetti partiremo dal bordo più lontano per raggiungere il centro della pergamena.
L’area più di sinistra della sinistra si è divisa quando c’era Prodi. Lo scontro fra Francesco Caruso e Casarini, con tanto di torta in faccia, e le liti fra i No-Tav, dicono quanto lo spirito di scissione sia penetrato anche là dove non è mai arrivato il pensiero. Poco più in là, la Sinistra Arcobaleno è tutto un fumare di macerie. C’è Oliviero Diliberto che vuole ricostruire il comunismo e ha sentito l’impellente bisogno di farlo partecipando alla manifestazione di Di Pietro. Il radicalismo di Oliviero non è bastato a Marco Rizzo, il pelato onnipresente in tv, che vorrebbe un partito più comunista di quanto si sia mai dato vedere. Ma Grillo è intervenuto anche su questa molecola separando la senatrice Palermi da Oliviero e da Marco. Così da un partito mignon, che intanto piange la fuga dello storico Tranfaglia, nasceranno una serie di sette clandestinissime.
Rifondazione ha preso dal voto il colpo storico. Fuori dal Parlamento i rifondaroli scoprono che non possono più stare assieme. L’ex ministro Ferrero, rigido valdese, non vuole avere nulla a che fare con Bertinotti che intanto incorona Nichi Vendola per salvare se stesso e l’ex segretario Franco Giordano. I congressi di Rifondazione si svolgono fra risse, contumelie e annullamenti. Forse si finirà in tribunale, sicuramente da una Rifondazione sola, fra qualche giorno, ne avremo almeno due. La débâcle del micro-partito di Mussi ha partorito una nuova leadership, Claudio Fava, deputato europeo, sulla carta più vicino a Veltroni, ma l’impatto con la piazza di Beppe Grillo sospinge anche questo raggruppamento verso l’annichilimento totale. I Verdi si sforzano di far dimenticare Pecoraro Scanio e la «monnezza» napoletana. Anche qui ci si spacca come una mela con un gruppo più disinvolto capeggiato da Paolo Cento e i verdi-verdi di Grazia Francescato.
Un po’ più a destra troviamo i socialisti del nuovo Ps, che dimenticato nell’anticamera di una palestra Enrico Boselli, cercano la strada più facile per entrare in quel Pd veltroniano da cui molti scappano. Sul fronte opposto c’è la galassia dipietrista, l’unica destra che è riuscita a sequestrare la sinistra dopo il fascismo. Di Pietro è un mondo a sé. Attorno a lui si sono aggregati quello che restava dei vecchi girotondi, i ds dissidenti, i giornali che vivono e prosperano sulla guerra civile italiana, da Repubblica all’Unità. Berlusconi ha dato da vivere anche a loro, ai loro libri e dvd. Sembrava un mondo compatto in grado di partire all’assalto della sinistra riformista, invece il Risiko nostrano ha sfrantumato anche questa fragile aggregazione. Da un lato Travaglio, Di Pietro, la Guzzanti, dall’altra il fondatore Nanni Moretti, in compagnia di due girotondini pentiti, Furio Colombo ed Ezio Mauro.
Quest’ultimo nome segnala, nella guerra civile generalizzata, una specifica battaglia che si combatte nel giornalismo di sinistra. La rutelliana Europa, diretta da Stefano Menichini, si contrappone all’Unità di Antonio Padellaro in procinto di lasciare la direzione all’ex inviata di Repubblica Concita De Gregorio. Europa attacca l’Unità che risponde invelenita, mentre Ezio Mauro chiede a Gad Lerner e Edmondo Berselli di staccare il giornale del principe Caracciolo e di De Benedetti da un mondo girotondino che il direttore di Repubblica aveva convocato in piazza irritando i lettori riformisti.
Al centro della mappa c’è l’isola del Tesoro, cioè il Pd, con il suo 32% di voti che i duellanti che combattono in periferia vorrebbero conquistare e che gli indigeni si preparano a devastare con la più cruenta guerra civile. Nel Pd ho contato, come ha riferito Paola Setti in un divertente articolo pubblicato dal Giornale, almeno 17 correnti. La fusione fredda fra due partiti, Ds e Margherita, ha prodotto quasi venti partitini l’uno all’assalto dell’altro. Non è necessario elencare tutti gli eserciti in lotta né i nomi dei signori della guerra. Al centro della disputa c’è la leadership di Veltroni. Il segretario del Pd è forse il primo leader italiano che, nel giro di dieci mesi, ha rovesciato completamente la propria linea politica. Era per la fine dell’antiberlusconismo e ha ripreso la lotta senza quartiere al Cavaliere, era per l’alleanza con Di Pietro e ora la revoca, era contro l’assemblaggio con i partiti minori e fa accattonaggio con Vendola, Nencini e Claudio Fava, per tacere di Casini. Era per il sistema elettorale spagnolo e accetterà quello tedesco. Questo tipo di guerra esalta la figura di Massimo D’Alema che con la sua ReD (Riformisti e Democratici) ha creato un partito nel partito esattamente come ha fatto Rutelli con la sua associazione Glocus. La posta in gioco è la guida del Pd. La domanda vera è se il Pd esisterà dopo le elezioni europee.
Le Grandi Guerre finiscono dopo decenni con accordi di ferro. Accadrà lo stesso alla guerra civile nella sinistra? Può darsi che Veltroni ce la faccia, può darsi che D’Alema riprenda il potere, può accadere che Rutelli se ne vada con Casini, ci sarà un leader che darà una patria comune a tutti i cespugli della sinistra radicale. Sembra di essere di fronte alla sinistra francese prima di Mitterrand, tutti contro tutti. Ma c’è un Mitterrand italiano? Se vi viene un nome fatemelo sapere. Al momento, dopo la guerra c’è solo la guerra. La vostra guida si arrende di fronte al campo di battaglia devastato.

l’inserto trentino del Corriere della Sera
Corriere dell’Alto Adige 9.7.08
«Vincere», si gira
Bellocchio tra i palazzi di Lasino e piazza Duomo
di Claudia Gelmi


Arriva dopodomani in Trentino, dopo sei settimane di riprese a Torino, la troupe di Marco Bellocchio per girare l'ultima parte del nuovo film Vincere.
Il regista di Buongiorno notte sta di fatto lavorando a un film sul figlio segreto che Benito Mussolini ebbe dall'estetista Ida Dalser di Sopramonte, in periferia di Trento. Lei lo chiamò Benito Albino, ma il Duce ne nascose sempre l'esistenza. Per questo Ida fu internata in manicomio nel 1926 e ivi morì nel 1937. Benito Albino, invece, fu adottato a Trento e gli venne attribuito il cognome Bernardi: nel 1935, mentre il giovane era nella Marina militare, fu preso e internato anch'egli in manicomio, a Monbello in Piemonte, dove morì nel 1942.
Sarà l'intensa Giovanna Mezzogiorno a ridare vita alla memoria di Ida Dalser, mentre Benito Mussolini sarà interpretato dal bravissimo attore Filippo Timi. Vincere, che sarà distribuito da 01 Distribution, è una produzione italo-francese, Rai Cinema e Celluloid Dreams, con il contributo del Ministero per i beni e le attività culturali, della Provincia autonoma di Trento e Trentino Spa, della Film Commission Torino Piemonte, della Regione Piemonte e dell'Istituto Luce.
Quindi, a partire da sabato prossimo, Marco Bellocchio e troupe al completo (una cinquantina di persone) abiteranno per una quindicina di giorni i luoghi del Trentino, aiutati nella ricerca delle location dalla Filmwork, la casa di produzione indipendente di Trento.
Gli interni saranno girati per lo più a Lasino, nella Villa- Ciani Bassetti, che in questi giorni si sta trasformando in location ad hoc per il film, grazie all'intervento della pittrice di scena, Ola Sforzini, coadiuvata dall'arredatrice Laura Casalini e dall'artista locale Marco Adami, i quali stanno ricostruendo alla perfezione gli spazi per adattarli all'ambientazione dell'epoca, ricavando dunque finti caminetti, palladiane, dipingendo carte da parati e pareti.
Per quanto riguarda gli esterni, invece, la troupe si trasferirà nell'ultima settimana di luglio nel capoluogo, dove girerà le scene all'aperto nelle centralissime Piazza Duomo e via Belenzani.
Ma non solo il pittore Marco Adami si è potuto ritagliare un'opportunità di lavoro all'interno dell'organizzazione del film: la manodopera si presenta in larga parte costituita da personale locale, così come le numerose comparse. I sempre più consistenti investimenti delle nostre amministrazioni pubbliche nell'accogliere le produzioni cinematografiche in loco (ricordiamo i precedenti nei film di Pippo Delbono, Liliana Cavani, Luciano Emmer e Alessandro Baricco) dimostrano a questo punto l'improcrastinabilità della costituzione di una film commission, ovvero quell'organizzazione (in Italia già quasi tutte le regioni l'hanno istituita) volta ad attrarre produzioni cinematografiche ad operare nel proprio territorio fornendo loro aiuto e assistenza, in provincia o in regione.
Ieri e oggi A sinistra, IIda Dalser con Benito Albino. Sopra, Giovanna Mezzogiorno

venerdì 11 luglio 2008

l’Unità 11.7.08
Impronte, l’Europa accusa il governo italiano: razzisti
di Paolo Soldini


L’Europarlamento mette in mora il governo italiano. Un vero e proprio schiaffone: con 336 voti a favore, ha approvato la della risoluzione che condanna la schedatura dei piccoli rom, 220 i no, 77 gli astenuti. A favore votano le sinistre, l’estrema del Gue, il gruppo socialista e i verdi, ma anche i liberal-democratici, nonché 21 eurodeputati popolari, tra i quali molti rumeni, molti tedeschi, i francesi (tra cui l’ex presidente del Parlamento europeo Nicole Fontaine), i belgi (l’ex primo ministro Jean Luc Dehaene), gli olandesi. Il testo approvato afferma esplicitamente che la raccolta delle impronte ai rom «costituirebbe chiaramente un atto di discriminazione diretta fondata sulla razza e l'origine etnica».

Dura reazione dei ministro dell'Interno Maroni e degli Esteri Frattini: «Siamo indignati».

LO SCHIAFFONE AL GOVERNO ITALIANO arriva poco prima delle dieci del mattino. E fa male: 336 voti a favore della risoluzione che condanna la schedatura dei piccoli rom, 220 no, 77 astenuti. A favore di quella che Maroni, Ronchi e (vergognandosi un po’)
Frattini chiameranno la «mozione strumentale della sinistra» votano, certo, le sinistre, l’estrema del Gue, il gruppo socialista e i verdi, ma anche i liberal-democratici che di sinistra certo non sono. E, sollevando un caso politico che avrà certamente qualche seguito, anche 21 eurodeputati popolari, tra i quali molti rumeni (e si spiega), ma anche nomi che contano tra i tedeschi (come l’ex presidente della commissione Affari Esteri Elmar Brok, due personalità della cultura politica cristiana come il cattolico renano Karl Heinz Florenz e Christian Ehrler, Hans Peter Mayer), i francesi (tra cui l’ex presidente del Parlamento europeo Nicole Fontaine e Patrick Gaubert), i belgi (l’ex primo ministro Jean Luc Dehaene), gli olandesi, con Lambert van Nostelroij.
Non è solo una smentita preventiva alle chiacchiere con cui i tre ministri italiani si presenteranno il pomeriggio alla conferenza stampa, convocata per le 15 di ieri quando ancora si pensava che il voto a Strasburgo sarebbe stato la sera, ma anche il segnale di un onesto dissenso di principio, esercitato in nome della coerenza con i propri valori religiosi.
All’apertura del dibattito aveva parlato il commissario Jacques Barrot, che quando Frattini è stato chiamato a Roma a fare il ministro degli Esteri ne ha preso il posto alla Giustizia. Barrot ha in mano la «insufficiente» risposta del governo italiano alle due lettere (la sua e, prima, quella del commissario agli Affari Sociali Vladimir Špidla) con le richieste di «chiarimenti». Il commissario, contrariamente a quanto affermerà più tardi Maroni, non chiede affatto «il rinvio del dibattito», in primo luogo perché non ne avrebbe l’autorità, in secondo luogo perché non ha alcuna intenzione di farlo. Dà però due notizie che i ministri del nostro governo si erano ben guardati dal comunicare all’opinione pubblica italiana: la prima è che per il rilevamento delle impronte di minori inferiori ai 14 anni (ora) è prevista l’autorizzazione di un giudice; la seconda è che il caso di Napoli, dove le schedature erano partite alla grande nelle settimane scorse, viene definito «isolato» e «da rettificare» dal ministro dell’Interno. Il quale, tomo tomo cacchio cacchio, sta evidentemente già preparando la ritirata.
Se ritirata sarà, come certe insistenze di Frattini sul fatto che le identificazioni possono avvenire anche senza impronte farebbe pensare, arriverà comunque troppo tardi. «La Commissione - dice Barrot - è molto vigile e svolgerà pienamente il proprio ruolo di guardiana dei Trattati» e i rom - aggiunge Špidla - «debbono essere aiutati, non stigmatizzati». È lo stesso principio affermato da un emendamento alla risoluzione elaborato e votato unanimemente da tutti gli esponenti del Pd nel parlamento europeo: gli Stati membri debbono «intervenire con decisione a tutela dei minori...di qualunque etnia e nazionalità siano». Laddove la loro identificazione «sia utile a tal fine», le autorità nazionali debbono «effettuarla caso per caso attraverso procedure ordinarie e non discriminatorie, nel pieno rispetto di ogni garanzia e tutela giuridica». Appunto.
Garanzia. Tutela: «La risoluzione di censura contro l’ordinanza del ministro Maroni, approvata a Strasburgo con un consenso largo e trasversale , denuncia l’irrimediabile anomalia del governo italiano», dichiara l’eurodeputato del Pse Claudio Fava, coordinatore nazionale di Sinistra democratica. «Per fortuna esiste un parlamento, in Europa, in cui il concetto di razza è ancora considerato una vergogna giuridica e civile». E Gianni Pittella (Pd), presidente della delegazione italiana nel gruppo Pse, chiede che «ora il governo si fermi», rispetti «la forte preoccupazione e sulla sua azione e ne valuti la compatibilità con la normativa europea e i princìpi fondamentali dell’Unione». Rinsavite, poi ne riparleremo.

l’Unità 11.7.08
Sorvegliati speciali


Nel codice civile c’è l’istituto dei danni morali. Chi è leso nella dignità, nell’immagine pubblica, nell’onore ha diritto di chiedere un congruo risarcimento ai responsabili del danno. Ecco: come cittadini italiani chiediamo i danni morali a Roberto Maroni, ad Andrea Ronchi, a Franco Frattini e a tutto il governo Berlusconi. Non li denunceremo davanti a un tribunale perché non è questione di magistrati. È questione di coscienza, di morale (sì: morale), di sensibilità, di fedeltà ai valori liberali e democratici, e anche di buon senso, di pura e semplice intelligenza.

Ma anche di conoscenza del mondo in cui viviamo e della storia dalla quale veniamo, persino di banale capacità di amministrare la cosa pubblica. L’ordinanza razzista con cui il ministro dell’Interno ha ordinato a tre commissari arbitrariamente nominati di organizzare il prelievo delle impronte digitali ai bambini rom e sinti (o “nomadi”, come a un certo punto ha cominciato a dire Maroni incurante o inconsapevole del fatto che di nomadi in Italia ci sono solo rom e sinti) è stata bollata da una maggioranza di oltre cento voti al parlamento europeo. Per la risoluzione che condanna le ordinanze del governo italiano, che era stata presentata dai socialisti, dalle sinistre radicali, dai verdi e dai liberali, hanno votato anche 21 eurodeputati popolari, che non se la sono sentita di venir meno ai propri princìpi ideali e religiosi dopo che era fallito il debole tentativo dei dirigenti del gruppo Ppe di rinviare il voto a settembre. Sperando intanto che Maroni e compagni si ravvedessero o trovassero qualche dignitosa via d’uscita dall’impasse.
Neppure i più anziani frequentatori delle istituzioni europee ricordano il precedente di un Paese dell’Unione (uno dei Paesi fondatori della Comunità europea) che sia stato condannato dal voto parlamentare su una questione che riguarda i diritti civili fondamentali, le regole più elementari del principio dell’eguaglianza e del rispetto della democrazia. Neanche contro l’Austria quando al governo fu associato il razzista e xenofobo Jörg Haider conobbe quest’onta. Anche perché il cancelliere Wolfgang Schüssel fu meno incapace e supponente dei nostri ministri e trovò la strada per evitare il redde rationem. Abbiamo stabilito un record, che pagheremo tutti. E lo abbiamo stabilito in un tripudio di ipocrisia che rende la vicenda, se possibile, ancora più rivoltante. Alle lettere con richieste urgenti di spiegazioni inviate dai commissari Vladimir Špidla /Affari sociali) e Barrot il governo di Roma aveva risposto l’altra sera a tardissima ora e ad uffici chiusi, nella sciocca speranza che l’arrivo di una “spiegazione”, quale che fosse, valesse a far rinviare il voto di ieri mattina. I commissari invece la lettera l’hanno letta e l’hanno trovata, come ha detto ieri Barrot, “insufficiente” perché risponde su un punto solo dei tanti sollevati dalla Commissione e ribaditi dalla risoluzione. Ancora ieri, poi, lo stesso Maroni, l’inutilissimo ministro Ronchi ha riraccontato la stolta favola secondo cui il rilevamento delle impronte digitali servirebbe a “tutelare” i piccoli rom e non a schedarli. Senza rendersi conto, come non se ne era reso conto il tutolare dell’Interno nei giorni scorsi, che si tratta esattamente della stessa scusa con cui vennero presentate le schedature degli ebrei dopo l’introduzione in Italia delle leggi razziali nel 1938. Suvvia, signori: se non qualche libro di storia, almeno i giornali potreste fare lo sforzo di leggerli.
L’Unione europea, è scritto nella risoluzione ed è stato affermato in aula dal commissario alla Giustizia Jacques Barrot, chiede che le autorità italiane non utilizzino le impronte già prese ai bambini, rinuncino a prenderne di nuove e modifichino le ordinanze in ogni punto in cui viene violata la normativa europea. Una volta, dalle parti nostre, si parlava di “vincoli esterni” per dire che l’Italia, incapace di mettere ordine nei propri conti di bilancio e nelle sue pratiche economiche, trovava per fortuna nell’Europa comunitaria e poi nell’Unione gli obblighi che non riusciva a imporre a se stessa. Ecco: ora abbiamo un vincolo esterno che riguarda non l’economia ma la democrazia, il diritto, le leggi della morale (sì: la morale). Se quella d’un tempo non ci faceva piacere, questa limitazione dall’esterno ci pare, ora, motivo di una profonda vergogna.
Siamo sorvegliati speciali. Grazie tante, ministro Maroni.

l’Unità 11.7.08
Il paradiso padano
di Maria Novella Oppo


LORO tireranno diritto, secondo la peggior tradizione nazionale. Sebbene a dichiararlo in tv sia stato il padano Cota, che di nazionale non ha proprio niente, essendo, a rigore, un extracomunitario, cioè uno che non appartiene all’Italia e tanto meno all’Europa. Dove, è chiaro, la maggioranza è composta da comunisti, come comunisti sono tutti quelli che giudicano Berlusconi un impunito. Mentre quelli che gli regalano (anzi: gli vendono) l’impunità contro ogni principio liberale, sono dei veri liberali. E liberale è pure Roberto Maroni, che vuole «soltanto» fare una schedatura etnica, nella quale i rom (anche i bambini) saranno obbligati a dichiarare non solo a che razza appartengono, ma anche a che religione. Quasi che, dopo aver discriminato le loro persone, il governo volesse discriminare anche le loro anime (alle quali purtroppo non si possono prendere le impronte). Infatti, i bravi leghisti sono convinti che Dio abbia creato un paradiso esclusivamente padano, dove saranno padroni a casa propria di essere razzisti anche da morti.

l’Unità 11.7.08
Renzo Gattegna. Il presidente delle Comunità ebraiche italiane: superare le diffidenze scatenate dalle differenze
«No a intimidazioni a gruppi etnici»
di Francesco Sangermano


Presidente Gattegna, il Parlamento europeo ha deciso di «bocciare» l’ipotesi italiana di prendere le impronte digitali ai bambini rom. Cosa ne pensa?
«Non ho ancora letto la risoluzione, ma posso dire che per le comunità ebraiche qualsiasi tipo di discriminazione è inaccettabile. Le stesse leggi devono essere applicate a tutti. E siccome le leggi italiane consentono alle forze dell’ordine di garantire la sicurezza e l’ordine pubblico credo sia giusto applicare quelle senza far ricorso a leggi speciali. In questo modo i problemi possono essere affrontati in maniera conforme ai principi sanciti dalla Costituzione italiana».
Come giudica la proposta avanzata dal ministro Maroni?
«Credo che dobbiamo vigilare perché le giuste e necessarie azioni repressive verso coloro che violano le leggi non si trasformino in azioni di intimidazione o di discriminazione verso gli interi gruppi di appartenenza. Oggi che la Costituzione garantisce le libertà e i diritti di tutti ripensiamo spesso alla nostra esperienza, soprattutto quando le notizie della cronaca e della politica ci ripropongono temi come il razzismo, la diversità, gli stranieri immigrati».
Ma è davvero questo l’aspetto prioritario su cui intervenire per risolvere la questione sicurezza?
«Io penso che il nodo principale restino i grandi gruppi di delinquenza organizzata presenti in Italia. È lì che lo Stato italiano deve concentrare i suoi sforzi. Perché quelle realtà possono attirare anche parte di quegli immigrati che vivono situazioni di abbandono, disagio, povertà e mancanza di lavoro. Combattendo gli uni si combattono anche gli altri».
Settant’anni fa nel mirino finirono gli ebrei, oggi ci sono i rom. Vede qualche analogia?
«Parlare di analogie sarebbe esagerato. E forse anche dannoso. Perché significherebbe accostare la dittatura di ieri alla democrazia di oggi col rischio di provocare esasperazioni del fenomeno. Direi piuttosto che la realtà attuale ci propone il senso di impotenza e di esasperazione delle persone. Sono sentimenti preoccupanti che possono trasformarsi in sfiducia nello Stato e nelle sue istituzioni. Per questo motivo è necessario dare una risposta alle istanze di sicurezza della collettività, facendo però grande attenzione a un particolare».
Quale?
«Che tutti hanno il dovere di osservare le leggi. E tutti hanno il diritto di essere giudicati solo sulla base dei propri comportamenti. Le leggi esistono e devono essere rispettate o, se necessario, modificate. Ma non si deve assolutamente permettere che cada il principio della presunzione di innocenza e venga sostituito dall’esatto contrario, la presunzione di colpevolezza nei confronti di un gruppo etnico. Questo sarebbe razzismo. La soluzione migliore è cercare piuttosto di conoscere e valorizzare tutte le diversità. Le diffidenze si vincono con la conoscenza».
Eppure si è diffusa una cultura della paura. Dopo gli anni terribili della persecuzione e dell’Olocausto, come giudica oggi il rapporto della comunità ebraica con l’Italia?
«La discriminazione negli anni del nazi-fascismo ha segnato la vita dei nostri genitori. Allora pochi si opposero e la stragrande maggioranza degli italiani appoggiò o subì i provvedimenti. In quel mondo, tra l’altro, l’Italia perse il contributo di civiltà che le comunità ebraiche le avevano sempre assicurato. Oggi, con la nostra esperienza di venti secoli di presenza in Italia, possiamo invece assicurare che superare le diffidenze scatenate dalle differenze non è facile, ma è possibile. E si può davvero vivere integrati mantenendo ognuno la propria identità».

l’Unità 11.7.08
San Rossore: no a xenofobia in nome della sicurezza
f.san.


La colonna sonora è Fabrizio De André. La sua Khorakhanè (canzone dedicata alla tribù rom di provenienza serbo-montenegrina) fa da sottofondo a questa prima giornata del meeting di San Rossore organizzato dalla Regione Toscana «contro ogni razzismo». Una giornata che si apre con le parole del presidente della Regione Toscana Claudio Martini («Non si possono fare concessioni alla cultura xenofoba per cercare di dare una risposta alla domanda di sicurezza») e si chiude con la provocazione di Moni Ovadia che propone «un Nobel per la Pace per il popolo Rom e Sinti». Sugli schermi al plasma che conducono al tendone principale dedicato a Gandhi, scorrono immagini provenienti da YouTube. Poi, improvviso, un lungo applauso accoglie la notizia della bocciatura da parte del Parlamento europeo della «schedatura» proposta da Maroni. «Lui difende le sue posizioni ma su questa linea il governo si scontra contro l’Europa» commenta Martini. È l’unica concessione alla polemica politica di una giornata che si lascia guidare dal filo delle emozioni. Quelle che rievocano nella lettura teatrale Pogrom 1934, storia degli italiani emigranti, marchiati e discriminati tra la Camargue di fine ’800 e l’America e l’Australia di inizio secolo fino alla persecuzione nazi-fascista. Eppoi nel manifesto degli scienziati antirazzisti, 10 punti che ribaltano specularmente il documento che, 70 anni fa proprio qui, portò il re Vittorio Emanuele III a promulgare le leggi razziali. Infine nella telefonata di Ingrid Betancourt, a ringraziare la Toscana per l’impegno profuso prima e dopo la sua liberazione e nelle parole di Pietro Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz, che ha raccontato la «vita» dei rom nei lager. Una vita senza dignità. Fino alla morte.

l’Unità Firenze 11.7.08
Terracina: «Il crimine peggiore?
Un popolo che chiude le finestre»
di v.b.


Suo padre gli fece fare una promessa. «Giurami - disse uscendo dalla caserma di Roma dove a tutta la sua famiglia, bambini compresi, erano state prese le impronte digitali - che non perderai mai la dignità». Mentre ricorda la sua deportazione ad Auschwitz, Pietro Terracina si commuove: «Non sono sicuro di aver mantenuto quella promessa, non si poteva sopravvivere senza perdere la dignità». Aveva 15 anni, ma dovette salire lo stesso sul carro merci che lo scaricò, da solo, a Birkenau. «Ero nel settore D, al di là del filo spinato vedevamo, nel settore E, intere famiglie Rom. Li invidiavo perché a loro avevano lasciato i vestiti e i capelli, ma soprattutto perché avevano con sé i loro bambini». Nell’agosto del ’44, un gran rumore nella notte. «Sentimmo spari, urla disperate. Poi il silenzio». La mattina dopo il settore E era pieno di ebrei ungheresi: tutte quelle famiglie Rom erano state sterminate in 2 ore. «Per commettere i peggiori crimini non servono grandi personalità criminali, basta un popolo che chiude le finestre per questo ho paura quando sento dire che ai bimbi Rom si vogliono prendere le impronte. Io so cosa vuol dire essere schedato, mi chiedo se lo sappia chi propone tali soluzioni».

l’Unità 11.7.08
«Diaz, sui verbali degli arresti firme fantasma»
G8, il pm al processo ai 29 poliziotti: le dichiarazioni degli imputati? Acque paludose
di Maria Zegarelli


L’ex capo Digos: «Io accanto al corpo del reporter pestato? Nemmeno l’ho visto» La videocamera sì

«PASSIAMO dal fiume di testimonianze degli occupanti della scuola Diaz alle acque paludose delle dichiarazioni degli imputati». Acque paludose nelle quali
si perdono i ricordi di chi la notte del 21 luglio decise,ordinò e prese parte all’irruzione nella scuola Diaz-Pertini durante il G8, a Genova. Chi picchiò, chi perquisì, chi entrò prima e chi dopo. Vuoti e lacune. E una «macchia indelebile» che resta agli atti: quella firma illeggibile di chi firmò gli arresti dei 93 occupanti. Ancora oggi non si sa chi fu l’ignoto sottoscrittore. Si sa per certo che non figurano le firme di Giovanni Luperi e Francesco Gratteri, alti funzionari di polizia. Non firmarono un atto. Penultima udienza prima della richiesta delle pene per i 29 tra alti funzionari e agenti di polizia sotto processo.
Focus del pm Enrico Zucca sul «dopo-pestaggio». Tesi dell’accusa: nulla quella notte fu conseguenza di improvvisazione o confusione. «L’intera catena di comando era presente sui luoghi», dunque tutti sono responsabili. Dice Zucca: «Dopo l’irruzione nella Diaz, assistiamo ad atti di polizia giudiziaria che non furono eseguiti secondo la prassi e il codice di procedura penale. Fu inquinata l’area bonificata. Ci fu corruzione e pervertimento della funzione che la polizia avrebbe dovuto svolgere». E da qui parte la minuziosa descrizione di quel «dopo» che non è meno inquietante del «prima» - la «macelleria messicana» -. Per giustificare l’arresto di massa dei 93 occupanti la Diaz furono raccolte «prove false» della permanenza in quella sede dei pericolosi black block. Un ammasso di oggetti sistemati in un angolo della palestra, senza sapere a chi siano stati sequestrati, sommariamente descritti in un verbale - quello a cui tutti i dirigenti sfilati in tribunale fanno riferimento perché colti da amnesia su tutto il resto - e suddivisi per categorie omogenee: coltelli, capi d’abbigliamento neri - definiti tute - attrezzi di lavoro, assorbenti, zaini. Solo un coltello, «di fattura militare» viene attribuito ad un manifestante. «Alcuni testimoni - ricorda il pm - raccontano di un agente che tagliava i capelli ai manifestanti picchiati con un coltello. Il fatto strano è che il coltello non era in dotazione ai reparti mobili». Il pm parla di «anomalie coperte da falsità» e di una «artificiosa creazione degli elementi di prova», per dimostrare che quella scuola «era il covo». Siamo di fronte, aggiunge, «a deviazioni da regole processuali ordinarie». Sono tre i funzionari che si occupano delle perquisizioni e del sequestro: il dirigente della Digos Pifferi; la dottoressa Mengoni e il dottor Filocamo. Nessuno di loro ricorda con esattezza come venne raccolto quel materiale. L’allora dirigente della mobile di La Spezia Filippo Ferri, pur «essendo a capo della squadra che conta i maggiori sottoscrittori di verbali di arresto e sequestro - sottolinea il pm - dice di non essere a diretta conoscenza dei fatti». Poi, ci sono i falsi di Spartaco Mortola, allora capo della Digos di Genova: disse di non aver visto il corpo esanime del reporter inglese Mark Covell massacrato dalla celere ed ecco un video che lo smentisce: c’è lui e la vittima a terra. Mortola parla del lancio di un maglio spaccapietre solo dopo la relazione di alcuni agenti. Ma l’unico che riportò il fatto in un verbale, in aula si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ed ecco Mortola che cambia versione e dice di aver visto egli stesso quegli oggetti cadere dalle finestre. Mortola, «ha fatto credere di essere stato raggirato dai suoi colleghi - dice Zucca - ma è un ingannato senza ingannatori». Idem per il suo vice, il dottor Di Sarro. Canterini, capo del VII reparto della mobile di Roma racconta di aver appreso con disappunto che due dei suoi uomini vennero convocati in questura da Mortola e altri alti funzionari per sottoscrivere i verbali di arresto.Uno dei due, Massimo Nucera, - l’agente che simulò l’aggressione con il coltello da parte di un manifestante - si rifiutò perché non era a conoscenza dei fatti descritti nel verbale. Ma gli fu ordinato di firmare.
Nei verbali tutto è fumoso, sommario. Tutto, tranne un particolare: le molotov - uno dei due pilastri, insieme alle tute, su cui si poggiarono gli arresti - che all’improvviso compaiono. Solo più tardi, nel corso del processo, si scoprirà che a portarle furono proprio gli agenti.

l’Unità 11.7.08
Eluana, tra diritto e medicina
di Carlo Alberto Defanti


È stata resa pubblica mercoledì l’attesissima sentenza della Corte di Appello di Milano sul caso di Eluana Englaro. La sentenza è stata all’altezza della sfida che il caso pone da anni al diritto del nostro Paese. Infatti la Corte di Appello ha accolto le due raccomandazioni formulate dalla Corte di Cassazione nell’ottobre 2007 e ha concluso da un lato che, sulla scorta degli atti, è possibile affermare che lo stato vegetativo in cui versa Eluana è irreversibile (in parole povere, che ella è e resterà in futuro completamente priva di coscienza), e dall’altro che la volontà presumibile di Eluana è conforme alla ricostruzione che il padre e tutore Beppino ne ha fatto sin dalla sua prima istanza di sospensione delle cure. In particolare è stato dato grande rilievo alle testimonianze concordi rese alla Corte dalle amiche di Eluana.
Le due sentenze hanno un carattere profondamente innovativo perché affermano due principii fondamentali: il primo è che nessun trattamento medico è giustificato in assenza del consenso informato del paziente, consenso che può essere reso direttamente o - in caso di impossibilità - ricostruito a posteriori attraverso le testimonianze delle persone a lui vicine, dall’altro che il diritto all’autodeterminazione prevale sul diritto alla vita quando essi si trovino in conflitto tra loro.
Questo per l’aspetto giuridico, ma che dire sotto il profilo medico?
In parole semplici, Eluana ha subito, nel lontano gennaio 1992, un gravissimo trauma che ha comportato la distruzione di gran parte del suo cervello e in particolare delle aree corticali che sostengono la coscienza. In altri tempi il processo del morire, iniziato dal trauma, si sarebbe concluso in poche ore, ma non fu così perché, trasportata in ospedale in stato di coma, ella fu sottoposta alle misure di rianimazione nella speranza che un recupero almeno parziale fosse possibile. Ovviamente ella non poté acconsentire a queste manovre, che furono intraprese certamente in buona fede e nel suo supposto interesse. Va detto che fin da allora il padre fece presente che ella non le avrebbe volute nelle condizioni in cui si trovava, ma non trovò ascolto.
Che cosa accadde? Il processo del morire fu arrestato, ma purtroppo non si manifestò alcun recupero e da allora la giovane visse, sino ad oggi, completamente priva di coscienza, grazie all’alimentazione artificiale. Ora finalmente, grazie alla sentenza, la volontà di Eluana sarà rispettata e il processo del morire, congelato per così dire sedici anni fa, si concluderà. In quanto tempo?
L’esperienza internazionale dice che sono necessarie pressappoco due settimane, durante le quali Eluana non sarà abbandonata, ma anzi accudita con cure ancor più attente, volte a salvaguardare la sua dignità negli ultimi giorni di vita. La Corte si spinge fino a raccomandare che Eluana sia accolta in una struttura per malati terminali, cioè in un hospice, e anche a me questa raccomandazione sembra opportuna. Così avrà fine questa vicenda, che ha segnato in maniera indelebile il dibattito bioetica italiano.
Primario neurologo emerito
Ospedale Niguarda, Milano

l’Unità Roma 11.7.08
Egitto, un fascino bimillenario
La passione dell’Occidente per i faraoni dalla Grecia antica all’età dei Lumi
di Flavia Matitti


«PRIMI TRA GLI UOMINI, dicesi che gli Egizi ebbero conoscenza degli Iddii, rizzarono templi e sacri edifici». Queste parole di Luciano di Samosata, del II secolo d.C., mostrano come fin dall’antichità l’Egitto venisse il luogo d’origine di ogni sapienza e reli-
gione. Attraverso la mediazione della cultura greca la passione per il mondo egizio passò a Roma per irradiarsi in tutto l’Occidente dando vita all’egittomania, dal Rinascimento all’Età dei Lumi.
Alcuni episodi salienti di questa fascinazione bimillenaria – basti pensare agli obelischi che ornano le principali piazze di Roma, alla presenza sul Campidoglio delle statue del Tevere e del Nilo, o alla Fontana dei Fiumi in piazza Navona – vengono ora narrati nella mostra intitolata “La Lupa e la Sfinge. Roma e l’Egitto dalla storia al mito”, ideata da Eugenio Lo Sardo e curata da Elisabetta Interdonato per la sezione archeologica, Manuela Gianandrea per il Medioevo e Rinascimento e Federica Papi per il Sei-Settecento (catalogo Electa). Sede della mostra è Castel Sant’Angelo e certo non si sarebbe potuta immaginare cornice migliore, visto che il castello sorge sui resti del Mausoleo di Adriano: il percorso espositivo si apre con alcune statue di Antinoo, il giovane amato da Adriano e morto tragicamente nelle acque del Nilo. Nella Villa di Tivoli l’imperatore fece ricostruire un braccio del delta del Nilo, il famoso Canopo, ornato di sculture di divinità egizie. Comunque la diffusione del culto di Iside è attestata a Ostia già nel II secolo a.C. e il mosaico di Palestrina, i cui soggetti nilotici ispireranno schiere d’artisti dal Rinascimento in poi, prova la precoce presenza di artigiani alessandrini a Roma.
Nel corso del Medioevo e del Rinascimento, come appare da alcuni splendidi volumi in mostra, l’interesse per l’Egitto si mantiene vivo soprattutto nei confronti della scrittura geroglifica. Papa Alessandro VI però si spinse al punto di sostenere la discendenza della sua famiglia, i Borgia, il cui animale araldico era un toro, dal mitico bue egizio Api, figura di Osiride, le cui storie, con quelle di Iside, fece affrescare da Pinturicchio negli appartamenti Vaticani. Il reperto forse più interessante sul culto di Iside e Osiride è però la Mensa Isiaca, anche nota come Tabula Bembina, una tavola d’altare in bronzo con agemine in argento e rame del I secolo d.C., ritrovata a Roma nel 1525 e appartenuta al cardinale Pietro Bembo (Torino, Museo Egizio). Nel Seicento è fondamentale a Roma la presenza del gesuita tedesco Athanasius Kircher, che dedicò molti volumi alla civiltà egizia, apprezzati dagli artisti del suo tempo. Tra questi Poussin, il cui quadro col “Riposo dalla fuga in Egitto”, proveniente dall’Ermitage di San Pietroburgo sarà in mostra dal 16 luglio.
Concludono idealmente l’itinerario espositivo le incisioni di Piranesi e il bando del 1791 che condanna Cagliostro, colpevole di aver fondato la massoneria di rito egizio.
Fino al 9/11, Castel Sant’Angelo. Info: 199.757511.
Dal martedì alla domenica: 9.00-19.00 (lunedì chiuso).

Corriere della Sera Roma 11.7.08
La Lupa e la Sfinge
Una mostra a Castel Sant'Angelo racconta il rapporto tra l'antica Roma e l'Egitto
di Lauretta Colonnelli


Tra le opere esposte a Castel Sant'Angelo, in questa mostra che vuole celebrare l'intenso rapporto tra Roma e l'Egitto sviluppato nell'ampio arco che va dal I secolo a.C. fino all'Età dei Lumi, almeno un paio rappresentano una occasione straordinaria per una visita. La prima è la Tabula Bembina o Mensa Isiaca, uno dei pezzi più famosi del Museo Egizio di Torino, che ora torna per la prima volta nel luogo collegato direttamente alla sua storia. Le prime informazioni sulla tavola in bronzo, riccamente decorata a colori con figure che narrano la storia di Iside e Osiride, risalgono infatti alla prima metà del XVI secolo, quando fu donata al cardinale Pietro Bembo (da cui il nome Bembina) dal pontefice Paolo III, committente dei famosi appartamenti farnesiani all'interno del Castello. Le notizie sul periodo precedente restano oscure, ma gli studiosi fanno risalire la sua esecuzione al I secolo d.C.
Arriva da Torino anche un'altra opera dalla storia misteriosa, la «Statua magica». Anzi, ne arriva soltanto una metà, perché l'altra metà proviene da Firenze. Le due parti del monumento sono infatti conservate separatamenete nelle due città, ma in origine appartenevano entrambe alla collezione di quello che è considerato il primo grande egittologo: padre Athanasius Kircher, gesuita tedesco giunto nel 1634 al Collegio Romano, ufficialmente come professore di scienze matematiche, ma in realtà per studiare i geroglifici nella città europea che conservava il maggior numero di reperti egizi. La mostra offre dunque l'occasione di rivedere dopo tanti anni i due frammenti riuniti. Purtroppo la loro storia resta un mistero, dato che i curatori (Eugenio Lo Sardo, Manuela Gianandrea, Elisabetta Interdonato, Federica Papi) le dedicano, anche nel catalogo, non più di una didascalia di poche righe, dalle quali si viene a sapere che l'opera è in granito nero, alta 17 cemtimetri e risale al IV secolo a.C. Chi visita la mostra scopre anche che la scultura, di forma strana, presenta alcune figure ed è interamente ricoperta da incisioni con geroglifici.
Sia la Mensa Isiaca che la Statua magica si trovano a metà del percorso, che segue un criterio cronologico. I visitatori vengono accolti all'ingresso dai busti e dalle statue di Nerone e di Domiziano, che si fecero rappresentare, imitando Alessandro Magno, con la doppia immagine, egizia e classica. E, trovandosi nel mausoleo di Adriano, non poteva mancare il ricordo del ragazzo amato dall'imperatore e annegato nelle acque del Nilo. Il bellissimo Antinoo si incarna a grandezza naturale nella statua della collezione Farnese del Museo archeologico di Napoli, svetta nelle vesti di Osiride nella famosa scultura conservata ai Musei Vaticani (ma qui presente solo in un calco appositamente realizzato) e appare infine, divinizzato, nel busto di quarzite rosa proveniente da Dresda. Si prosegue con la storia d'amore tra Antonio e Cleopatra, rappresentati da due teste marmoree, e con le statue del Nilo (impersonato dalla Sfinge) e del Tevere (raffigurato dalla Lupa con Romolo e Remo) provenienti da Villa Adriana. Si passa alla fascinazione del mondo egizio a Roma durante il Medioevo e il Rinascimento, documentata da vari testi e disegni, compresi quelli che raccontano l'innalzamento, ad opera di Sisto V, dei numerosi obelischi che diverranno, insieme a sfingi e piramidi, un elemento caratterizzante del paesaggio urbano. Si chiude con il Settecento, illustrato dalle note incisioni di Piranesi con i suoi capricci egittizzanti per decorare i camini e con la ricostruzione della Sala egizia della Galleria Borghese, la più nota tra le molte realizzate all'epoca.

La Lupa e la Sfinge. Castel S.Angelo, tel. 199757511. Fino al 9 novembre, dal martedì alla domenica, ore 9-19, chiuso il lunedì In alto, «Ila rapito dalle ninfe» (IV sec. d. C.) e la statua che raffigura il Tevere. Sopra, «Riposo dalla fuga in Egitto» di Nicolas Poussin

Corriere della Sera 11.7.08
Nagy tra fango e verità
di Luciano Canfora


Il 27 febbraio del 1993 fu pubblicato un documento dal quale risultava che Imre Nagy, il coraggioso ma sventurato primo ministro ungherese travolto il 4 novembre 1956 dall'invasione sovietica, era stato, vent'anni prima, affiliato all'NKVD, la polizia politica sovietica. Il documento fu screditato come «fango».
Dava noia che il profilo del leader, strumentalmente esaltato in Occidente, venisse sciupato da un tale dettaglio.
Chi confonde la ricerca storica con la propaganda non ama le sfumature. Nel cinquantenario dell'uccisione di Nagy, avvenuta nel giugno 1958 a seguito di un processo la cui sentenza era scritta a priori, la Repubblica ha edito (17 giugno) la traduzione quasi integrale del discorso in propria difesa che Nagy pronunciò tenendo testa ai maldisposti giudici. Ad un certo punto, per ribadire la propria fedeltà al socialismo, egli dice: «Lavorai come propagandista per l'NKVD». Ecco il tassello mancante. La storia, quella vera, è complicata, non obbedisce alle esigenze dei retori.

Repubblica 11.7.08
Tutti pazzi per il David
"Mi sono innamorato di una statua" Uno studio di Graziella Magherini
Gli shock da capolavoro
di Luciana Sica


Nel nuovo volume i commenti al "nudo più bello del mondo"
Vent´anni fa il libro dell´autrice su "La Sindrome di Stendhal"

Se è vero - come pensa, ad esempio, Jean-Luc Nancy - che la grande arte rimette in gioco il senso del mondo, è ancora più probabile - come sostiene la psicoanalisi - che la bellezza metta in crisi l´identità di chi la "fruisce": difficilmente si osserva un capolavoro rimanendo distaccati, passivi, freddi, imperturbabili, uguali a sé stessi. L´arte incanta ma spiazza, tende a destrutturare la personalità, è estraniante e a volte pericolosa: il potere evocativo delle immagini sempre rivela, anzi svela qualcosa - rompe equilibri, scardina certezze, apre squarci sulle dimenticanze, dando scacco ai trucchi della mente.
L´esperienza estetica può fare "ammalare", di una malattia tra le più nobili, ci ha detto ormai vent´anni fa Graziella Magherini - psichiatra e psicoanalista fiorentina - in un libro che è stato un gran successo: La sindrome di Stendhal è uscito nel 1989, ha avuto tre diverse edizioni, molte ristampe, più traduzioni, ispirando anche il film omonimo di Dario Argento. Senz´altro un caso editoriale, almeno per la saggistica in genere inchiodata ai piccoli numeri, destinata a un pubblico inevitabilmente ristretto.
Da allora non ha smesso le sue ricerche la Magherini, oggi una libera professionista sui settantacinque anni, analista "didatta" e presidente dell´International Association for Art and Psychology (con un gruppo di studio anche a New York). Da tempo ha lasciato la direzione del reparto psichiatrico dell´ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze e il lavoro ambulatoriale nel centro della città, luoghi privilegiati di osservazione in cui per anni ha visto arrivare turisti stranieri in preda a scompensi psichici anche molto acuti, episodi clamorosi che colpivano i viaggiatori in una delle città d´arte per eccellenza, costringendoli spesso al ricovero - tra crisi depressive e terrore di morire, nostalgie violente ed euforie immotivate, pensieri onnipotenti e sentimenti di estraniazione, percezioni confuse di realtà minacciose, a tratti persecutorie: "casi" stupefacenti che la Magherini ha poi racchiuso - con vena elegantemente narrativa - nella Sindrome di Stendhal.
Ma perché il nome di Stendhal? Perché fu lo stesso autore francese a scrivere - in un diario di viaggio in Italia - di un improvviso e misterioso malessere che lo colse proprio nel capoluogo toscano, durante una visita nella basilica di Santa Croce. Troppe emozioni dentro quella chiesa, con tutto il carico di quella storia e quelle tombe di personaggi smisurati... Stendhal fu preso da qualcosa di simile a un attacco di panico, una specie di vertigine che lo costrinse a uscire nella piazza («la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere»). Si mise allora seduto su una panchina, tirò fuori dal portafoglio i versi dei Sepolcri di Foscolo che da uomo colto aveva provvidenzialmente portato con sé e quella lettura risultò terapeutica, ebbe il potere di riportarlo alla calma («avevo bisogno della voce di un amico che condividesse la mia emozione»).
Nel corso del tempo, la Magherini ha via via allargato il campo dei suoi interessi: non si è occupata più soltanto di quel che succede nella testa dei turisti particolarmente fragili, inclini all´esperienza di una "pazzia" fortunatamente provvisoria di fronte all´eccesso del Bello, ma dei turbamenti più comuni che in vario modo colpiscono i viaggiatori attratti dalle opere d´arte. E cioè, di quale sia il funzionamento normale della mente nella circostanza particolare della fruizione artistica, aldilà dei casi-limite, di quella che l´autrice definisce "la punta dell´iceberg". Da qui è nato il suo nuovo libro che curiosamente si chiama Mi sono innamorato di una statua ed è scritto in italiano e in inglese, sin dall´inizio pensato e pubblicato per un pubblico internazionale (sottotitolo "Oltre la Sindrome di Stendhal", foto di Luciana Majoni, Nicomp L. E., pagg. 360, euro 24).
"Mi sono innamorato di una statua": intanto è un uomo che parla, non proprio un dettaglio. Più precisamente è il commento di un ragazzo dall´incerta identità psicosessuale che ha appena visto il David di Michelangelo, "il nudo più bello del mondo", alla Galleria dell´Accademia di Firenze. La Magherini e la sua équipe hanno svolto un´indagine per analizzare le reazioni dei visitatori nel corso di un anno (autunno 2004 - autunno 2005) raccogliendo diciassette registri e tredicimila impressioni e commenti ora sintetizzati nell´ultimo capitolo del volume.
Fra le decine di frasi che si leggono, alcune si riferiscono alla corporeità della scultura, nel segno del desiderio ma anche della competizione: «Il David è grandioso... mi attira il fondo schiena», «E´ caricato di una tensione quasi insopportabile», «Pene troppo piccolo», «Sono più bello io». A tratti si riconoscono turbamenti espliciti («È un´opera che ti sopraffa», «Lo struggimento ti rende pazzo»), plateali dichiarazioni d´amore («Mi ha aperto il cuore e tolto il fiato»), riferimenti sessuali («Sono allibito dal corpo fallico»). Neppure mancano le identificazioni («Io sono il David) come le manifestazioni di ostilità («Se ti tiro un pugno ti smonto»).
Dice la Magherini: «Abbiamo assistito a un concerto di voci con segnali diversi: attrazione, sorpresa, sconcerto, abbandono, esaudimento del proprio ideale dell´Io. A volte gli stati d´animo si fanno più intensi: dall´incantamento al fastidio, dal rapimento all´impulso vandalico: un laboratorio di emozioni fortemente esercitate che indica come ognuno viva le opere d´arte secondo gli stimoli provenienti dalle profondità della realtà psichica».
Scorrendo le pagine del volume, è intanto chiarissimo che siamo nella celebre dimensione freudiana dell´unheimlich, termine tedesco tradotto in italiano con perturbante: il contrario di quel che è confortevole, familiare, abituale, tranquillo. Nel contatto con l´arte, può tornare nel teatro della mente un elemento rimosso ma che ci era da sempre familiare, un déjà-vu con un che di angoscioso: è comunque un "qualcosa" che doveva rimanere nascosto e che invece all´improvviso si ripresenta alla coscienza.
Non solo, però. Può esserci anche il riaffiorare di elementi più grezzi e arcaici dell´inconscio, o per dirla meglio con la Magherini: «L´incontro con un´opera d´arte può "mettere in forma" un´esperienza emozionale che non aveva ancora conseguito un´immagine nella vita mentale, non tradotta in simboli, non rappresentata, non pensabile, non dicibile e tuttavia fortemente attiva, significativa e disturbante: è quello che si può definire il perturbante psicotico».
Come a dire: in certi casi la bellezza non solo entra in risonanza con aspetti conflittuali del nostro mondo interno, ma può renderli riconoscibili e tollerabili, come se il linguaggio dell´arte fosse capace di contenere gli aspetti più estremi di noi, forse proprio quei "nuclei psicotici" (non solo nevrotici) che affondano nell´inconscio ma a tratti possono riemergere - così la pensa, ad esempio, anche Salomon Resnik.
Ma c´è anche un altro elemento su cui la Magherini insiste non poco, citando peraltro diversi autori, dalla Klein a Bion, da Gaddini a Meltzer: l´esperienza estetica riattualizza la dimensione estatica tra madre e neonato, «nell´incontro con la bellezza, l´oggetto estetico richiama l´oggetto primario perduto, viene liberata un´energia fino a quel momento incapsulata, una fonte di piacere, con un´immissione di parti di sé nell´operazione visiva, che non è affatto solo contemplativa, ma radicalmente partecipativa».
Senz´altro, quando ci si trova davanti a un capolavoro assoluto come il David di Michelangelo, al "troppo bello per essere vero", la reazione più comune è un sentimento d´insolita vivificazione del mondo interno, accompagnato da una leggera dispercezione della realtà che può avere forme molto diverse ma trae la sua origine da un passato remoto mai del tutto cancellato: con tutta probabilità è la nostalgia di un tempo pervaso dal principio del piacere, quando c´era "tutto" e il desiderio non dipendeva ancora dalla mancanza.

Repubblica 11.7.08
A Trento filosofi a convegno


TRENTO - "Quel che la Filosofia non dice... Parole dal Limite": è il titolo di un convegno - all´interno della prima Biennale di filosofia - in programma nel week-end a Ronzone, in Val di Non (Trento), per riflettere su ciò che resta nascosto, taciuto, nel pensiero occidentale. I lavori, organizzati dai Musei di Ronzone, saranno aperti domani da Vincenzo Vitiello con un intervento sull´"Elogio del mentitore".
All´incontro, che si concluderà domenica, interverranno Giulio Giorello ("Continuo e discreto. L´indicibile in matematica"), Massimo Donà ("Il limite, nelle figure di un´aporia"), Antonio Gnoli ("La povertà della filosofia") ed Andrea Tagliapietra ("La pazienza del corpo"). Tra gli altri relatori: Gianfranco Ferrari, Claudio Tugnoli e Silvano Zucal.

Corriere Fiorentino 11.7.08
Siena A Palazzo Squarcialupi apre «Archeologie interiori» grande mostra di J-Paul Philippe
Le parole sono pietre
Sculture oniriche accompagnate da inediti di grandi poeti
di Donatella Coccoli


Il 20, il «Site transitoire», la sua installazione di Asciano, ospita «Notte trasfigurata», con il Teatro della Valdoca
La «marella» si trasforma in opera d'arte che prende la forma di stele scolpite e dei versi di Tabucchi, Bompiani e Noël

Le Crete senesi sono come uno stato d'animo fluttuante. Con il loro mutare di colori e linee a ogni stagione, possono recare tristezza o felicità, confortare i pensieri, acuire i drammi interiori. Tra queste colline d'argilla fatte di aspri calanchi e di dolci biancane, celebrate da poeti come Mario Luzi, c'è un luogo in cui la mano dell'uomo ha segnato il tempo. E qui il pensiero, per forza, corre più veloce, come stimolato dalla creazione che ha trasformato la natura.
È il «Site Transitoire» presso Leonina (Asciano), l'opera di Jean-Paul Philippe, lo scultore francese che vive e lavora tra la Toscana e la Francia. A lui, Siena dedica la mostra «Archeologie interiori» a Palazzo Squarcialupi fino al 14 settembre mentre l'Apt ha preparato per l'occasione un opuscolo con itinerari alla scoperta delle Crete. Il 20 luglio presso il Site Transitoire si terrà il grande evento «Notte Trasfigurata » con il Teatro della Valdoca e Danio Manfredini.
«È colpa dell'Italia se sono diventato scultore». Un volto mite, occhi chiari e timidi, nascosti da una selva di capelli, Jean Paul Philippe, parla del suo percorso. «Sono venuto per un mese e mi sono fermato per trent'anni - dice - A Firenze sono arrivato a 16 anni, con mio fratello, in autostop, era il '60. Dopo, sono tornato a Parigi e ho fatto tutti i mestieri, anche i disegni per strada, pur di tornare in Italia ». Jean-Paul arriva di nuovo a Firenze, grazie ad amici (anche Lucia Poli), riesce a conoscere la conservatrice degli Uffizi e passa giornate intere al Gabinetto dei Disegni tra Leonardo, Paolo Uccello.
«Non potevo più lasciare l'Italia continua - E forse da lì mi viene questo lavorare sulle superfici come un pittore». E così la formazione, anno dopo anno, le cave di marmo, i riconoscimenti internazionali, le grandi opere pubbliche in cui Jean-Paul Philippe, non solo fonde il suo interesse per la linea, per la parola, ma anche alimenta la sua attenzione per lo spazio, con quel legame forte con l'architettura che si nota nell'opera «De l'Eau à l'Air» realizzata per l'impianto di depurazione della Senna a Parigi. Le sculture presenti nella mostra curata da Alessandra Rey, che si avvale di un volume edito dal belga Fonds Mercator con scritti di Bernard Noel e Antonio Prete, sono rappresentative degli ultimi trent'anni e vanno dalle opere più intime, con i temi cari all'artista (la sedia, la stele, le «giacenti») a quelle in cui il rapporto con lo spazio pubblico si fa più stretto, così come il richiamo incessante alla parola. Come nel caso delle «Marelles» ovvero le sculture in cui Jean-Paul Philippe ha voluto rappresentare un gioco, quello della «campana» o «del mondo», che è simile in molti paesi del Mediterraneo. Qui l'artista francese ospita i versi inediti di autori come Antonio Tabucchi, Ginevra Bompiani e Bernard Noel. Tra queste opere, notevole è «Marelle Mnémosis», un tappeto cupo e profondo attraversato dalle parole di Tabucchi come fossero un ricamo.
La pietra, sempre lasciata in parte «naturale», è l'oggetto su cui l'artista realizza «una prova di vita». E lo stesso Site Transitoire con le sue sculture in piedi, sedute e sdraiate «è un omaggio al tempo». Sembra che ci sia il tentativo di contrapporsi alla morte, «con la voglia di renderla più tranquilla».
Donatella Coccoli