sabato 21 luglio 2018

La Stampa 21.7.18
La Spagna verso una legge sul consenso esplicito: se l’altro non dice “sì” è stupro

La proposta dopo che i giudici hanno derubricato a semplice “abuso sessuale” una violenza di gruppo nei confronti di una diciottenne, solo perché era rimasta immobile
Il governo spagnolo punta a una stretta sulle violenze sessuali: il consenso dev’essere chiaramente espresso e se l’altro non dice “sì” è stupro. «No significa no», è il principio alla base della decisione di Madrid per la nuova legge, in risposta anche al caso di Pamplona dello stupro di gruppo giudicato come semplice «abuso sessuale», solo perché la donna era rimasta immobile. 
Lo ha anticipato - scrive il Guardian - la vice premier spagnola, Carmen Calvo. «Se una donna non dice espressamente sì, tutto il resto è no. È così che la sua autonomia viene preservata, insieme alla sua libertà e al rispetto per la sua persona e la sua sessualità», aveva spiegato Calvo nel suo programma di governo presentato nei giorni scorsi.
La proposta segue il modello tedesco e svedese, recentemente adottato, secondo cui il rapporto sessuale se non è chiaramente espresso, viene considerato violenza. 

il manifesto 21.7.18
Walter Benjamin e le pietre dell’apocatastasi
Ultraoltre. La salvezza di tutti gli esseri attraverso il ritorno allo stato originario
Schema alchemico del V.I.T.R.I.O.L.
di Raffaele K. Salinari


Ad un certo punto del folgorante saggio sull’opera di Nikolaj Leskov, Walter Benjamin ci introduce alla sua originalissima idea di apocatastasi: la salvezza universale attraverso il ritorno di tutti gli esseri alla pienezza originaria. Il sentiero che invita a percorrere da quel momento è, come spesso nel suo stile, notturno e sotterraneo: pieno di oscure analogie minerali e necriche metafore che però, alla fine, seguendo la mappa tracciata dal suo immaginario messianico, ci porteranno alla luce di una splendente verità.
Come guida naturale del tortuoso cammino, Benjamin staglia dai racconti di Leskov quella particolarissima figura che egli chiama «il giusto». Incarnazione complessa perché estremamente sfaccettata, maschera di volta in volta diversa – il buffone, lo scemo del villaggio, il viaggiatore, l’artigiano, il briccone – il giusto ha, però, un’essenza costante che si trasmette di personaggio in personaggio come in quelle Pathosformel che Warburg cercò di incasellare nel suo favoloso atlante Mnemosyne.
Per distillare questa essenza Benjamin parte da Bloch – che come lui aveva difficili rapporti con i francofortesi – citandone l’interpretazione del mito di Filemone e Bauci, nel quale si descrive la figura del giusto come colui, o colei, che portando con sé un tocco gentile, lo fa amico di tutte le cose. La madre di Leskov stesso ad esempio «che non poteva infliggere una sofferenza a nessuno, neppure agli animali. Non mangiava carne né pesce, tanta era la sua compassione per le creature viventi». Il giusto, conclude Benjamin, è allora il portavoce delle creature ed insieme la sua più alta incarnazione. E così vediamo che la sua essenza immutabile è quella di un essere «favolosamente scampato alla follia del mondo» e che, proprio mercé questa sua caratteristica, è in grado, attraverso i suoi racconti, di portare un annuncio di salvezza, di apocatastasi.
«Apocatastasi» è un termine dalle molteplici accezioni a seconda degli ambiti in cui viene usato. Letteralmente significa «ritorno allo stato originario», oppure «reintegrazione». Nella filosofia stoica, ad esempio, si collega alla «dottrina dell’eterno ritorno»: quando gli astri assumeranno la stessa posizione che avevano all’inizio dell’universo. Per il neoplatonismo, invece, l’apocatastasi è qualcosa di più spirituale, cioè il ritorno dei singoli enti all’unità originaria, all’Uno indifferenziato da cui l’intero insieme delle cose manifestate proviene; è ciò che gli gnostici chiamerebbero il Pleroma. Questa idea si inserisce appieno all’interno del tema, prettamente religioso, della Caduta: l’allontanamento dell’uomo dalla sua originaria comunione con l’Assoluto, col Divino, ma anche di un suo possibile ritorno alla pienezza edenica originaria. Nella teologia dei primi Padri della Chiesa il suo teorico è Origene.
Dice allora Benjamin: «Una parte importante, in questa dogmatica [della chiesa greco-ortodossa], è svolta, com’è noto, dalle teorie di Origene, respinte dalla chiesa romana, sull’apocatastasi: l’ingresso di tutte le anime in paradiso. Leskov era molto influenzato da Origene. Egli si proponeva di tradurre la sua opera Sulle cause prime. In armonia con la fede popolare russa, egli interpretava la resurrezione più che come una trasfigurazione, come la liberazione da un incantesimo, in senso affine a quello della favola». Benjamin, dunque, è qui teso a mettere in rilievo, anzi diremmo a dispiegare pienamente, non tanto il senso teologico, escatologico, del termine, quanto il suo potenziale immaginale, evocativo, metaforico, grazie al quale egli può farci vedere, nei personaggi della narrativa leskoviana, «l’apogeo della creatura» ed allo stesso tempo «un ponte fra il mondo terreno e ultraterreno», costruito attraverso l’atto creativo, poietico, del racconto.
Ma, per la nota verità metafisica secondo cui «ciò che è in alto è come ciò che è in basso», «il giusto» collega sia le vette, gettando un ponte tra il modo terreno e quello ultraterreno, sia le voragini nascoste nelle viscere della terra con ciò che avviene in superficie. «La gerarchia creaturale, che ha nel giusto la sua cima più alta, sprofonda in gradini successivi nell’abisso dell’inanimato. Dove bisogna tener presente un fatto particolare. Tutto questo mondo creaturale non si esprime tanto, per Leskov, nella voce umana, ma in quella che si potrebbe chiamare, col titolo di uno dei suoi racconti, la voce della natura». E dunque eccolo presentarci una di quelle intuizioni che collegheranno la figura del giusto, inteso come interprete della «voce della natura» e della salvezza, alle sue rappresentanze più elementari e sotterranee. «Quanto più Leskov discende lungo la scala della creature, tanto più chiaramente la sua concezione si avvicina a quella dei mistici». Ed a questo punto, con uno dei suoi scarti spettacolari, Benjamin passa a parlare del racconto di una pietra che racchiuderebbe una profezia: l’Alessandrite.
L’Alessandrite e la pulce di acciaio
Il racconto di Leskov citato da Benjamin, si intitola come la pietra che ne è protagonista. Narra di un tagliatore di pietre di nome Wenzel che ha raggiunto nel suo lavoro vette eccelse, paragonabili a quelle degli argentieri di Tule che ferrarono la famosa «pulce di acciaio» capitata nelle mani dello zar Nicola I. Qui una breve digressione è d’obbligo poiché questa pulce, questa «ninfosoria» come viene definita nel racconto, caricabile a molla e di grandezza naturale, pare esista davvero e sarebbe ammirabile nel Museo delle armi in città. Uno scrittore italiano contemporaneo dice di averla vista. Chi ama Tolstoj conosce Tule, dato che la sua famosa residenza, Jasnaja Poljana e la sua tomba, si trovano da quelle parti. La storia è semplice ma suggestiva: il fratello della zar Nicola I, Aleksàndr Pàvlovic, riceve in dono dagli «inghilesi» questo manufatto, una «ninfosoria» appunto, fatta di acciaio brunito che, mercé una piccola chiavetta inserita nella pancia, può essere caricata e dunque muoversi come una vera. Alla morte del fratello la pulce meccanica passa all’Imperatrice vedova Elisavéta Alekséevna che però, stretta nel suo lutto inconsolabile, decide di inoltrarla al nuovo sovrano. Il novello zar Nicolàj Pàvlovic in un primo tempo la trascura, per impellenti questioni di stato, poi si impunta e cerca di trovare il modo di eguagliare, o meglio, superare la bravura degli odiati «inghilesi». E dunque ordina ad un suo uomo di fiducia di raggiungere i famosi argentieri di Tule, rinomati per la loro maestria, e vedere cosa potessero fare per surclassare l’arte britannica. Dopo qualche tempo la ninfosoria di acciaio brunito torna a palazzo. In apparenza è immutata e lo zar si adira ma, ad una più attenta osservazione microscopica, ecco apparire il prodigio tecnologico: su ogni zampetta della pulce di acciaio è stato addirittura apposto come un ferro di cavallo e, su ognuno, è inciso il nome del mastro argentiere che l’ha forgiato!. L’orgoglio russo è salvo.
Alla stessa dinastia zarista è invece legata la vicenda, anche questa in bilico tra storia e leggenda, dell’Alessandrite. Qui si tratta della scoperta di una pietra singolare che prende il nome dal futuro zar Alessandro II, figlio di Nicola I. La pietra venne, infatti, cavata per la prima volta il giorno della sua nascita, nel 1818. Questo è lo zar dell’epoca in cui si svolge il romanzo Anna Karenina di Tolstoj, un periodo burrascoso e denso di avvenimenti storici rilevanti. Ecco che allora la caratteristica peculiare di questa pietra diviene una sorta di profezia sulla vita e la morte dell’omonimo sovrano. Essa, infatti, è verde alla luce del sole e rossa a quella artificiale. Il fenomeno è dovuto alle inclusioni di cromo, presenti anche nel corindone e nello smeraldo. Ora, nel racconto di Leskov, la casuale scoperta della pietra nel giorno natale del futuro zar, e le sue caratteristiche cromatiche, fanno intessere al narratore la profezia che la vuole metafora della vita di Alessandro II. Verde alla luce del mattino, dunque nella giovinezza e nella maturità dell’imperatore di tutte le Russie, essa diviene color sangue al calar delle tenebre, simboleggiando così la tragica fine che, effettivamente, subì il sovrano.
Il 13 marzo del 1881, infatti, lo Zar si disse disposto a prendere in considerazione le modalità dell’abolizione della servitù della gleba. Ma era già troppo tardi. Lo stesso giorno alcuni cospiratori guidati da Sofja Perovskaja misero in atto un astuto piano per eliminarlo. Alessandro II era già sfuggito più volte alla morte per attentato, ma quella volta il disegno riuscì. Mentre faceva ritorno al Palazzo d’Inverno, la sua carrozza fu colpita da una bomba lanciata da Nikolaj Rysakov, ma egli rimase illeso. Sceso per accertarsi dei danni fu investito dall’esplosione di una seconda bomba. Lo scoppio lo colpì ferendolo mortalmente. La profezia dell’Alessandrite si era avverata.
Ma la poetica di questi elementi naturali, secondo la visione di Benjamin, emana ancor più potentemente da ciò che rimane nella profondità della terra, dando loro addirittura il potere di ricombinare il destino dei vivi con quello dei morti, di salvare eternamente e al tempo stesso gli uni e gli altri. E d’altronde il pensiero dell’eternità non ha sempre avuto la sua fonte principale nella morte? Per attivare questa operazione favolosa egli utilizza allora come Prima Materia del suo athanor immaginale uno degli autori preferiti l’«indimenticabile Johann Peter Hebel». «La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare» afferma icasticamente e aggiunge, «dalla morte egli attinge la sua autorità. O, in altre parole, è la storia naturale in cui si situano le sue storie». La morte dunque è l’origine del racconto, la matrice della sua eternità. Come non vedere in questa affermazione la sanzione dell’opera al nero, primo gradino del processo alchemico?
Per Benjamin allora la pietra filosofale, cioè l’incanto salvifico della narrazione, la sua funzione come strumento di una vera e propria apocatastasi, nasce nel crogiolo della storia naturale formandosi da un compost affatto speciale. Ecco l’atmosfera nella quale ci vengono presentati i due grandi protagonisti del racconto di Hebel Insperato incontro: il tempo che dissolve i corpi, ed il suo comprimario che qui, paradossalmente, li coagula, il vetriolo.
La parola vetriolo, dal latino vetriolum, compare per la prima volta intorno al VII-VIII secolo d.C., e deriva dal classico vitreolus. Con questa radice etimologica possiamo pensare che il nome trovi origine dall’aspetto vetroso assunto dai solfati di rame e di ferro cristallizzati. Per quelli di rame è di colore azzurro intenso (per questo detto anche vetriolo azzurro o di Cipro o di Venere, la dea portata verso l’isola dalle azzurre onde del mare, ma anche il pianeta di riferimento del rame) mentre nel solfato di ferro è di colore verde azzurro (vetriolo verde o marziale, perché Marte è il pianeta di riferimento del ferro). Sarà quest’ultimo, lo vedremo tra poco, il vetriolo protagonista del racconto.
Sia il vetriolo di rame che il vetriolo di ferro erano conosciuti ed utilizzati dagli Egizi e dai Greci, anche se non sotto questo nome. Forse il famoso natron, che serviva ad imbalsamare i corpi, ne conteneva una certa quantità. L’immancabile Plinio il Vecchio, nella sua Historia Naturalis, menziona una sostanza che chiama «vetriolo« e ne descrive l’estrazione «dalle acque ramifere». Questo nome comprende, e confonde, in realtà, una vera e propria famiglia di composti. Ecco allora che bisogna chiamare in causa anche l’alchimia poiché esso, chiamato vetriolo filosofico, indica nulla di meno che il Solvente Universale, e cioè tutti quei composti chimici che consentono di avviare la procedura condensata nella nota formula «solve et coagula». Per questo le sue origini si perdono nella notte dei tempi, essendo indicato come tale, ma anche con tantissimi altri nomi, in tutti i trattati di Arte Regia. La prima sintesi del vetriolo come Solvente Universale, cioè come acido solforico, la si deve all’alchimista islamico Ibn Zakariya al-Razi che lo ottenne per distillazione a secco di minerali contenenti ferro e rame.
Per completezza simbolica bisogna citare anche l’acronimo, V.I.T.R.I.O.L., che compare nell’opera Azoth del 1613 dell’alchimista Basilio Valentino. Il suo svolgimento è: «Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem», cioè «Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta». La frase simboleggia la discesa all’interno dell’essere per operare con rettitudine alla ricerca del proprio gioiello interiore.
E allora concludiamo la parabola dell’apocatastasi benjaminiana, con il bel racconto di Hebel di cui il vetriolo marziale è protagonista. Siamo a Falun, in Svezia, presso le miniere di ferro. Due giovani sono innamorati e presto si sposeranno. Lui però è un minatore ed un giorno non torna più: la miniera è crollata. Passano gli anni e la fidanzata gli rimane fedele. Dopo decenni, in cui il tempo lavora sulla materia vivente, ecco che dalla vecchia miniera riemerge il corpo del minatore: è intatto poiché il vetriolo lo ha imbalsamato nel momento della giovinezza. Mentre lo seppellisce esclama: «Dormi in pace adesso, un giorno ancora o forse dieci, in questo fresco letto nuziale, e non ti sembri lungo il tempo. Mi restano soltanto poche cose da fare, e presto verrò, presto sarà di nuovo giorno. Ciò che la terra ha già una volta reso, una seconda non lo tratterrà». Tutto è giusto e perfetto.

La Stampa TuttoLibri 21.7.18
Oltre il moderno e il postmoderno, oggi non riflettiamo più su nulla
Elio Franzini fornisce un resoconto delle identità di pensiero allo sfumare del secondo millennio
Dall’Encyclopédie degli illuministi a Lyotard, da Deleuze a Fredric Jameson e Richard Rorty
di Federico Vercellone


La discussione su moderno e postmoderno si avviò circa quarant’anni orsono, nel 1979, con il famoso pamphlet di Jean François Lyotard dedicato a La condizione postmoderna. In questo libro si affermava di esser giunti al termine delle «grandi narrazioni», a una sorta di punto di svolta che la faceva finita con gli orizzonti globali e messianici per far spazio a un’epoca frammentata, scettica e disillusa. Si trattava, in fondo, di un ritorno al liberalismo, all’idea di una «società aperta» che veniva dopo il crollo delle grandi ideologie libertarie ed emancipatorie della seconda metà dell’Ottocento e di buona parte del secolo successivo.
A fare una resa dei conti a distanza della questione viene ora un importante libro di Elio Franzini edito da Cortina dal titolo Moderno e postmoderno. Un bilancio. E un bilancio non può essere formulato senza chiedersi innanzi cosa differenzi le età e le rispettive visioni del mondo.
E’ indubbio che il postmoderno rechi entro di sé un marchio moderno testimoniato dal fatto che i due termini sono consecutivi dal punto di vista semantico e della filosofia della storia, la quale è, per parte sua, un’invenzione del tutto moderna. A voler sottolineare ulteriormente le reciproche affinità, entrambi, moderno e postmoderno sono contraddistinti da una centralità dell’estetica che, nella modernità, viene addirittura a significare, con i romantici, la coscienza storica dell’epoca. Il postmoderno nasce anch’esso nel segno dell’arte, dell’architettura in particolare, e dell’estrema sperimentazione. In entrambi i momenti abbiamo poi a che fare con un potente approfondimento, proprio attraverso l’arte, dei temi metafisici che avevano precedentemente improntato la cultura europea concernenti la destinazione dell’uomo nella storia e la sua posizione nel cosmo. Per altro verso proprio la doppia anima della cultura moderna, quella rappresentata dal dubbio di Cartesio, che si delinea come atteggiamento metodico, e quella rappresentata invece dall’insegnamento vichiano, centrato sul mito e sulla storia, sembrano raccogliere entro il moderno l’anima razionalistica e quella storicistica che verranno a succedersi proprio nella sequenza moderno-postmoderno.
Franzini fornisce un ampio e approfondito resoconto dell’identità della filosofia nelle due epoche, muovendo dall’Encyclopédie per venire, attraversando l’architettura postmoderna, alle filosofie di questo periodo, da Lyotard, a Deleuze a Derrida, a Jameson e a Rorty. La questione, che si prepara in tutto il libro, è quella dei nuovi stili della filosofia contemporanea. Il bilancio è per la larga parte amaro poiché per un verso la de-storicizzazione finisce oggi per coinvolgere un intero spettro culturale che va dalla filosofia continentale a quella analitica la quale formalizza i suoi argomenti trascurandone la derivazione storica. Per altro verso lo sguardo va al clima culturale del presente nel suo senso più ampio laddove si è insinuata una progressiva derealizzazione come testimoniano lo sviluppo della realtà virtuale con gli ambienti immersivi, il declinare dei simboli trascendenti in direzione di forme di embodiment sempre più accentuate (si pensi solo, detto di passaggio, alla moda giovanile sempre più diffusa dei tatuaggi). Con ciò si giunge all’oggi. Se l’attenzione del moderno era rivolta essenzialmente a delineare criticamente i fondamenti epistemologici e ontologici del mondo della ragione, il postmoderno era fuoriuscito da questo ambito per soffermarsi su uno spazio molto più indeterminato, votato essenzialmente alla decostruzione della tradizione precedente.
Siamo andati ormai al di là del postmoderno, che tuttavia non si può semplicisticamente liquidare con lo slogan «non ci sono fatti ma solo interpretazioni». Si è avviato un altro tempo denso di nubi sullo sfondo. E’ il tempo nel quale non si riflette più su nulla, né sulle grandi né sulle piccole narrazioni, che ha perduto inoltre cognizione dell’orientamento storico delle cose. E’ un tempo in cui l’interiorità tende a scomparire, mentre la realtà viene conosciuta soltanto attraverso la sua riproduzione in immagine, attraverso i suoi modelli. Che pensiero può bonificare questo territorio così arido? Franzini propone di riattivare la categoria del sublime, che rinnova l’apertura verso il futuro nella dialettica tra il limite e l’orizzonte che lo trascende. Nuovamente una categoria estetica ci consente di pensare al nostro presente e al futuro.

il manifesto 21.7.18
Sbarchi, l’Ue dice no a Conte
Sicuri da morire. Juncker: «Non spetta a Bruxelles decidere sui porti sicuri». E anche per la missione europea Sophia per ora non cambia niente
di Carlo Lania


Prima si dice «soddisfatto» per i risultati ottenuti, poi annuncia: «Vi accorgerete da soli che passo dopo passo stiamo realizzando quel cambiamento che avevamo promesso». In un post su facebook il premier Conte esulta, ma c’è poco da stare allegri. In un solo giorno da Bruxelles sono infatti arrivati due schiaffi all’Italia che a questo punto, almeno per quanto riguarda la gestione dei migranti, rischia davvero di rimanere isolata grazie alle politiche del governo Salvini-Di Maio.
Rispondendo alla lettera con cui il premier italiano chiedeva l’istituzione di una cabina di regia europea che coordinasse gli sbarchi, il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker ha confermato la disponibilità di Bruxelles a fare la propria parte ma – ha specificato – solo dopo che i migrati sono sbarcati in Italia. Solo in quel caso di potrà procedere alla loro distribuzione tra quegli Stati membri che si saranno dichiarati disponibili ad accoglierli. «Non va dimenticato – scrive infatti Juncker – che l’Ue non ha competenza per determinare il luogo/porto sicuro da usare per gli sbarchi in seguito a un’operazione di ricerca e salvataggio in mare». Quindi non solo non cambia nulla, ma Juncker chiede anche all’Italia di non chiudere più i suoi porti come avvenuto nelle scorse settimane. «Sono persuaso – scrive il presidente della Commissione – che queste soluzioni ad hoc non rappresentano un modo di procedere sostenibile e soddisfacente».
Ma questo è solo il primo dei due no che ieri palazzo Chigi è stato costretto ad incassare. Il secondo era nell’aria già da giorni e riguarda il futuro della missione europea Sophia. Anche in questo caso lo scontro è sul punto del mandato della missione che prevede lo sbarco automatico in Italia dei migranti. Condizione che il governo ha chiesto di modificare minacciando di disapplicare in maniera unilaterale le regole. Il che significherebbe impedire l’approdo alle navi della missione europea.
Un atteggiamento che gli ambasciatori dei 28 Stati avevano già criticato mercoledì durante la riunione del Cops, il Comitato politico e di sicurezza (Cops) dal quale dipendono le missioni europee, irritati dall’ultimatum italiano a tal punto da ventilare la fine anticipata della missione. Irritazione cresciuta in una nuova riunione del Comitato che si è tenuta ieri a Bruxelles nella quale sarebbero volate parole grosse, con i rappresentanti dei governi che avrebbero parlato di una «forma di ricatto» da parte di Roma. Alla fine lo scontro è rientrato, con l’Italia che ha accettato di rivedere i termini del mandato non subito, come chiesto con insistenza, ma solo in sede di revisione generale della missione. Nel frattempo, è stato chiarito, le regole già scritte resteranno ancora in vigore. Insomma, anche in questo caso tutto resta come prima.
Resta da capire il perché dell’entusiamo mostrato dal premier. Il motivo sta forse nell’impegno assunto da Juncker nella sua lettera a presentare entro al prossima settimana due proposte che dovrebbe venire incontro alle richieste italiane. Come la creazione di centro chiusi dove riunire i migranti irregolari da realizzare nei paesi Ue che si dichiarano disposti ad accoglierli. E la creazione di piattaforme di sbarco dei migranti in paesi extra-Ue. Promesse non certo nuove alle quali si aggiunge quella di una maggiore impegno nei rimpatri.
Tutte cose delle quali nelle ultime settimane si è già parlato. «Nella lettera Juncker si limita a ribadire le decisioni prese dall’ultimo Consiglio europeo, dal rafforzamento della guardia costiera europea alla creazione di centri “controllati” negli Stati membri che non sarebbero altro che gli hotspot già esistenti, quindi niente di nuovo – ricorda l’eurodeputata di Possibile Elly Schlein – . Non si capisce quindi perché il premier Conte parli di passi avanti importanti. Sugli sbarchi Juncker risponde che l’Ue non ha competenza e che servono soluzioni più strutturali. Infatti su questo ha ragione, serve la riforma di Dublino. Dovrebbe capirlo anche Salvini».
Sugli scarsi risultati ottenuti sembra essere d’accordo anche l’europarlamentare del M5S Laura Ferrara, non a caso molto meno entusiasta del premier. «L’Italia ha ragione, ‘la cellula di crisi’ gestita dalla Commissione Ue può essere una buona soluzione ma da istituire nel lungo periodo, nel quadro di un meccanismo strutturato – ha scritto su Twitter -. Intanto, l’Italia deve continuare a sbrigarsela da sola, chiedendo di volta in volta aiuto agli altri Paesi. E’ un po’ questo il senso che leggo nella risposta data dal presidente Juncker».

La Stampa TuttoLibri 21.7.18
L’unico e la sua proprietà, di Max Stirner
Oppressi di ogni Paese unitevi la vera rivoluzione è l’egoismo
Torna l’eretico testo del filosofo tedesco che esalta l’unicità dell’individuo i miseri devono ribellarsi alla tirannia dello Stato, delle chiese e della morale
di Sossio Giametta


Fu un’idea di Armando Torno, gran suggeritore: tradurre L’unico e la sua proprietà di Max Stirner (pseudonimo di Johann Caspar Schmidt per la fronte, Stirn, alta, Max) per la Collana dell’utopia diretta da Marcello Dell’Utri (estintasi con la condanna di quest’ultimo). Per essa avevo già tradotto, sempre per input di Torno, I due problemi fondamentali dell’etica di Schopenhauer. Io all’inizio mi spavento di tutto. Mi considero scarso in italiano, figurarsi in tedesco. Poi però la passione di rendere in bell’italiano la bellezza degli originali prevale e mi ci butto, cadendo nell’eccesso opposto: baldanza e temerarietà. Pur non essendo neanche l’ombra di un latinista, ho tradotto, per passione irrefrenabile, il De bello gallico di Cesare e l’Ethica ordine geometrico demonstrata di Spinoza. E ne ho avuto lodi, anche su La Stampa. Mi avventai, dunque, sul testo e lo tradussi, anche se poi non c’è stato più tempo di pubblicarlo, finché l’ha ripreso la Bompiani, facendone un volume imponente ed elegante, con in copertina l’impressionante Isola dei morti di Böcklin, da me scelta con allusione alla tetra materia trattata.
L’unico e la sua proprietà, secondo Carl Schmitt, è il più bel titolo della letteratura tedesca. Nel libro si difende l’egoismo e anche il furto e l’omicidio, si accusa di insensatezza Socrate, che si fece condannare invece di evadere, come gli era stato proposto, essendo egli non un soggetto della legge ma l’essenza della legge. Dunque un libro scandaloso, esecrabile, con tesi insostenibili, come in genere è ancora considerato. Ma alcuni grandi, come appunto Schmitt e anche Nietzsche, che Stirner precorre nella sua ribellione (si ricordi il primato da Nietzsche attribuito alle cose prossime, cioè quotidiane, sulle prime e ultime, che per Stirner sono appunto Spuk, fantasmi).
Ma per capire il senso profondo di quest’opera praticamente unica e massima di Stirner, bisogna considerare che egli faceva parte dei giovani-hegeliani di sinistra, che emersero in Germania soprattutto negli anni ’40 (dell’Ottocento): un gruppo di cui facevano parte con lui Ruge, Bauer, Marx e Engels, che a Stirner, ancora oggi poco conosciuto, diedero enorme importanza criticandolo in tutto il loro spesso L’ideologia tedesca.
La cultura tedesca e per essa quella europea era allora in piena revulsione: segno della galoppante crisi che avrebbe toccato il vertice con Schopenhauer e Nietzsche, scuotendo dalle fondamenta la bimillenaria civiltà europea. Un picco di questa crisi fu Hegel, la cui opera si può leggere in profondità come la restaurazione dell’Ancient régime, chiamiamolo così, della religione, del costume e dello Stato con la ridivinizzazione del mondo tramite la razionalizzazione della religione ormai affossata dalla storia moderna, l’esaltazione dello Stato etico e del primato del popolo tedesco, secondo lui la parte razionale del mondo. In tal modo egli fomentò (dopo Fichte) decisamente il senso di superiorità dei tedeschi, giunti tardi alla loro esplosione e sviluppo, che altri popoli (l’Italia per prima, ma poi anche l’Inghilterra, la Francia e la Spagna in particolare) avevano avuto nei secoli precedenti. Si creò allora quell’onda anomala che poi si ingrossò sempre più finché col nazionalsocialismo la Germania si erse (oggettivamente) a vindice del traballante primato europeo minacciato di estinzione. Goethe aveva combattuto der Titanen Übermut, la superbia dei Titani, ma la sua lezione di misura rimase per i tedeschi lettera morta. Il loro orgoglio demoniaco li portò a funestare il mondo e a determinare la propria rovina.
Ebbene, Stirner è l’altra faccia di Hegel, quella degli ultimi, com’era egli stesso, che visse in miseria misconosciuto e fu abbandonato dalla moglie a cui aveva dedicato il libro. Morì a cinquant’anni per la puntura di un insetto. Secondo lui i miseri sono tartassati e sacrificati dagli Stati, dalle chiese, dalle morali, dagli ideali, dalle ideologie, dal diritto e dall’economia, cioè dalle cose ritenute fondamentali per la civiltà. Questa ribellione è la vera sostanza del suo libro, sempre attuale, che è un gran libro anche dal punto di vista letterario, con la sua profonda disamina della storia europea e col suo senso forte e acido della vita travagliata degli oppressi.
Ma i suoi argomenti, pur forti, non vanno esenti da critiche. Non solo perché l’«Unione degli egoisti» da lui teorizzata, come l’utopia comunista di Marx, non è realizzabile, ma anche perché non regge filosoficamente la sua idea dell’individuo unico avulso da ogni legame con gli altri. Volente o nolente, egli è parte di un tutto, è membro della specie, che sta all’individuo come l’albero alle sue foglie. Può una foglia, pur dissimile dalle altre, ritenersi autonoma e avulsa dall’albero? Senza un legame in bene e in male con gli altri membri della specie, indipendente da tutto e da tutti, l’individuo è inconcepibile e può essere solo frutto di una fantasia esasperata.
La traduzione. Esisteva già presso Adelphi una bella traduzione de L’Unico di Leonardo Amoroso, con un magnifico saggio di Roberto Calasso (che però non affronta il problema fondamentale, quello morale). Perché dunque un’altra? Perché le diverse traduzioni di un medesimo testo sono come le esecuzioni dei diversi direttori d’orchestra di una medesima musica. Per essere bella, quella di Amoroso si prende le sue libertà e, pur precisa nel senso, si discosta, secondo il mio gusto impossibile della bella fedele, dall’originale. La mia traduzione cerca di essere aderente al tedesco in modo che attraverso di essa si possa per così dire scorgere l’originale. Che non vuol dire il calco, altrimenti non sarebbe bella. Inoltre la versione adelphiana non ha note, se non le poche dell’Autore. La mia ne ha molte, che sono necessarie perché il lettore possa inquadrare nella storia politica della Germania i continui riferimenti ad essa dell’Autore.

Il Fatto 21.7.18
Migranti, “in Libia barconi affondati con le persone a bordo”
Fonti militari: “I guardacoste così li costringono a salire sulle motovedette”
Migranti, “in Libia barconi affondati con le persone a bordo”
di Fabrizio D’Esposito e Antonio Massari


Barconi affondati mentre i migranti sono ancora a bordo. È questo che accade nelle acque del Mediterraneo quando la Guardia costiera libica interviene per i soccorsi. Il motivo: quando le motovedette libiche si avvicinano ai barconi, i migranti, che non vogliono essere riportati in Libia, rifiutano di essere trasportati sulle imbarcazioni della Guardia costiera. E a quel punto, per convincerli ad accettare il soccorso, è ormai prassi che i militari libici inizino le operazioni per affondare la barca. Una prassi disumana, che s’è ripetuta in parecchi salvataggi, rivelata al Fatto, con la promessa dell’anonimato, da più fonti militari. Che i barconi vadano affondati è un dato acquisito. La Procura di Trapani, per esempio, contesta alla Ong tedesca Iugend Rettet di non aver distrutto le barche per impedirne il riutilizzo da parte di trafficanti, durante un salvataggio del 18 giugno 2017. Qui siamo paradossalmente alla dinamica opposta: il barcone viene affondato, ma con i migranti a bordo, per costringerli a salire sulle motovedette libiche.
Il governo ha invece smentito la ricostruzione della Ong Proactiva sul salvataggio, avvenuto il 17 luglio, di Josefa, la camerunense di 40 anni soccorsa dalla Open Arms a circa 80 miglia dalla costa libica. Accanto a lei, aggrappati al relitto di un gommone, i cadaveri di una donna e di un bambino di circa 5 anni. Il Viminale ha bollato come una fake news la dichiarazione dei volontari spagnoli: “I libici hanno lasciato morire quella donna e quel bambino. Sono assassini arruolati dall’Italia”. La prova evocata dal Viminale consisteva nel video-reportage di una giornalista tedesca che aveva filmato i soccorsi. La cronista ha escluso che, durante i soccorsi ai quali aveva assistito, in mare fossero rimasti dei migranti. Ma poi ha aggiunto che, nelle stesse ore e nella stessa area, le motovedette libiche avevano effettuato un altro soccorso. La prova quindi non provava nulla se non che, nel soccorso registrato dalla cronista, non risultavano cadaveri o superstiti rimasti in acqua. Nulla poteva escludere, invece, che il relitto con le due vittime e la superstite fosse collegato invece al secondo soccorso di quella notte. A cinque giorni dall’episodio – nonostante il Fatto abbia chiesto per ben due volte al Viminale se continui ad accusare la Proactiva di aver mentito, se sia in possesso di ulteriori prove che possano dimostrarlo, o se invece abbia preso atto di aver sbagliato nel definire una bufala la versione della Ong – il ministero dell’Interno continua a tacere sull’episodio. Eppure, persino la Guardia costiera libica, su La Stampa, fornisce conferme che il relitto con i due cadaveri è legato a un loro salvataggio e che non si tratta di quello filmato dalla cronista tedesca: “Lunedì 16 luglio – dice il colonnello Tofag Scare alla giornalista Francesca Paci – abbiamo ricevuto una chiamata dal mercantile spagnolo Triades che ci segnalava un’imbarcazione di migranti in difficoltà tra Tripoli e Khoms, ci siamo mossi per intervenire, ne abbiamo tirati a bordo 165, maschi e femmine, tutti. Abbiamo lasciato in mare solo i due corpi senza vita di una donna e di un bambino dopo aver provato a rianimarli. Ma oltre a loro non c’era nessuno in acqua. Secondo la legge libica vanno identificati prima di essere sepolti o rimandati a casa e dunque in questi casi vengono lasciati in mare. Non avremmo avuto alcuna ragione di lasciare in mare delle persone vive: anche se si fossero rifiutati di salire a bordo le avremmo tirate su a forza. Quello di cui ci accusano è una bugia, è propaganda”. Il premier libico Fayez al-Sarraj ha parlato di accuse “oltraggiose”. Ma un fatto è certo: la Guardia costiera libica nega di aver lasciato persone vive in mare ma conferma che il relitto al quale era aggrappata Josefa con i due cadaveri è quello del loro soccorso. Non vogliamo credere che i militari libici abbiano volontariamente lasciato superstiti in mare. Ma è chiaro che almeno Josefa è sfuggita al loro intervento.
Di fronte a tutto questo, sarebbe il caso che Salvini ammettesse pubblicamente di aver sbagliato, accusando la Ong di aver mentito, assumendo la responsabilità delle sue pesantissime e immotivate affermazioni. Un altro militare confida a La Stampa: “L’Italia ci fa fare il lavoro sporco perché non vuole gli africani”. Se il lavoro sporco prevede l’affondamento dei barconi con i migranti a bordo, i cittadini italiani dovrebbero saperlo e Salvini dovrebbe smentire o confermare anche questo.

il manifesto 21.7.18
«Abbiamo lasciato in acqua solo due cadaveri»
Ammissione della Guardia costiera libica. Prime conferme alle accuse rivolte dalla ong Open Arms ai militari di Tripoli
di Adriana Pollice


«Abbiamo lasciato in mare solo i corpi senza vita di una donna e un bambino dopo aver provato a rianimarli. Non c’era nessun altro in acqua» è la nuova versione che il colonnello della Guardia costiera di Misurata, Tofag Scare, ha dato a La Stampa di ieri. Oggetto dell’intervista l’accusa dell’Ong catalana Proactiva open arms di aver affondato il 16 luglio un gommone al largo della Libia lasciando in acqua due donne e un bambino perché si rifiutavano di salire sulla motovedetta verso Tripoli. A salvarsi la sola Josefa: portata a bordo dai volontari, arriverà oggi a Maiorca sull’Open arms. Martedì il racconto degli attivisti è stato bollato dal ministro degli Interni, Matteo Salvini, come una «fake news», il portavoce della Marina di Tripoli, Ayoub Qasem, aveva dato una versione differente da quella di Scare: «Probabilmente alcuni migranti sono annegati prima dell’arrivo delle motovedette». Nessuno a Tripoli sa spiegare la presenza di Josepa tra i relitti del gommone.
Scare ricostruisce così l’intervento: «La motovedetta Ras al Jade è andata a soccorrere 165 persone. Dopo averci chiamato, il mercantile Triades è rimasto ad attenderci ma, nel frattempo, non ha neppure dato loro da mangiare e da bere. Non avevamo alcuna ragione di abbandonare in acqua delle persone vive: anche se si fossero rifiutate le avremmo tirare su a forza, lo abbiamo fatto con gli uomini. Abbiamo lasciato in mare solo i due corpi senza vita: secondo la legge libica vanno identificati prima di essere sepolti o rimandati a casa e dunque, in questi casi, vengono lasciati al mare».
Proactiva open arms ha annunciato una conferenza stampa per stamattina: «Denunceremo l’omissione di soccorso da parte della cosiddetta Guardia costiera libica e del mercantile Triades. Questo episodio e l’aumento dei morti nel Mediterraneo sono la conseguenza diretta della criminalizzazione delle Ong. L’obiettivo è legittimare le milizie libiche per ridurre in questo modo gli arrivi in Europa».
Con i volontari catalani c’è anche il deputato di Leu Erasmo Palazzotto, che ieri ha ribadito: «Davanti alle dichiarazioni del comandante della Guardia costiera libica, che nei fatti conferma la versione di Open arms, ritengo che il ministro degli Interni italiano debba chiedere scusa e, se fossimo in un paese serio, dovrebbe anche rassegnare le dimissioni. Ci troviamo o davanti a un ministro incompetente oppure a una consapevole complicità con i libici nel tentativo di depistaggio». Palazzotto chiede al governo di interrompere le relazioni con la Marina di Tripoli: «Un paese civile non può avere rapporti con un’organizzazione che abbandona il cadavere di un bambino in mezzo al mare».
Sono invece riusciti a sbarcare in Italia 57 tunisini: individuati al largo di Pantelleria, sono stati soccorsi dalla Guardia costiera e Guardia di finanza italiane. Sono approdati giovedì notte a Trapani ma Salvini promette che la permanenza sarà lampo: saranno tutti rimpatriati a partire da lunedì grazie all’accordo in vigore tra Roma e Tunisi.
È invece ancora ferma di fronte alla costa tunisina di Zarzis la nave cargo Sarost 5 con 40 migranti soccorsi sabato scorso: «Abbiamo contattato il porto e gli unici che ci rispondono sono i militari, dicono di attendere istruzioni» ha spiegato il comandante. A bordo ci sono due donne incinte. All’inizio i migranti avrebbero chiesto di non essere sbarcati nel paese, poi avrebbero cambiato idea. La nave non ha ottenuto il permesso per attraccare perché, secondo il Foro tunisino per i Diritti economici e sociali, Tunisi non vuole che il paese venga considerato «porto sicuro» dove poi dirigere nuovi sbarchi.

Corriere 21.7.18
La Libia un porto sicuro? È un paese sconsigliato anche dalla Farnesina...
di Maurizio Caprara


Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio della Repubblica italiana, ha sostenuto che in Europa esiste una «ipocrisia» in base alla quale «si danno soldi ai libici, si forniscono le motovedette e si addestra la Guardia costiera, ma poi si ritiene la Libia un porto non sicuro». La sua tesi è che migranti e profughi partiti dalle coste libiche andrebbero rispediti lì.
Qualcuno si è sorpreso che l’Unione Europea abbia fatto presente a Salvini: il Paese controllato da milizie al di là del Mediterraneo non garantirebbe incolumità a eventuali respinti.
Se si guardassero le cose come stanno, basterebbe leggere viaggiaresicuri.it, il sito Internet nel quale l’Italia, attraverso il ministero degli Esteri, informa sulla sicurezza di ciascun Paese.
C’è scritto: «Si ribadisce l’invito ai connazionali a non recarsi in Libia e, a quelli presenti, a lasciare temporaneamente il Paese in ragione della assai precaria situazione di sicurezza. Scontri tra gruppi armati interessano varie aree (...). Permane inoltre, anche nella capitale, la minaccia terroristica e elevato rischio rapimenti. Si registrano elevati tassi di criminalità anche nelle principali città e strade (...) Cellule jihadiste sono presenti in varie parti del Paese, inclusa la capitale. Attacchi terroristici rivolti a libici e stranieri, anche con autobombe, hanno avuto luogo a Tripoli (...). Standard adeguati di sicurezza non sono garantiti nemmeno nei grandi hotel della capitale, anzi».
L’alto commissariato Onu sui diritti umani ha definito abituale la tortura nelle carceri libiche. I centri di detenzione per migranti non sono migliori.
Per l’incarico che è chiamato a ricoprire nell’interesse dell’Italia, il ministro dell’Interno è costretto a girare scortato. Non è dunque da domandare a lui di trasferirsi in Libia per darne prova della sicurezza. Ma a cittadini italiani la consiglierebbe per l’estate? Suvvia.

La Stampa 21.7.18
La Libia rifiuta di accogliere i migranti respinti
di Francesca Paci


E mentre a Bruxelles si cerca la quadratura del cerchio su sbarchi e ricollocamenti, Tripoli ripete che non ospiterà mai centri per i migranti respinti dall’Europa, neppure in cambio di un tornaconto economico. A ribadirlo è il premier libico Fayez al-Sarraj che in un’intervista al quotidiano tedesco Bild ironizza anche sulle pretese del vecchio continente, risoluto tanto a non accogliere più nessuno quanto a chiedere al suo Paese di prendere centinaia di migliaia di persone.
A chi parla veramente Al-Sarraj, dal momento che i fantomatici centri non sarebbero costruiti in Libia ma, eventualmente, negli Stati confinanti? A Tripoli l’impressione più diffusa è che Al-Sarraj si rivolga soprattutto al cortile domestico, dove infatti i media hanno enfatizzato le sue dichiarazioni. Le ragioni sarebbero due, da una parte l’urgenza di puntellare la propria credibilità politica messa nuovamente alla prova dalle dimissioni del vice capo del Consiglio presidenziale Fathi al-Majbari, dall’altra il crescente malcontento popolare per quella che in Libia inizia a essere percepita come «l’invasione degli africani».
Fathi al- Majbari è molto vicino al generale Haftar, uno degli ultimi nel governo riconosciuto dalla comunità internazionale, e la sua uscita scopre Al-Sarraj su quel fronte Est da cui il premier viene accusato di rappresentare al massimo le milizie della capitale. Ma, in Libia come in Europa, la vera partita riguarda i fantasmi del Mediterraneo.
«C’è un disagio crescente tra i libici per come stanno andando le cose con l’Europa, c’è la sensazione che si chieda loro di fare il lavoro sporco sui migranti e che alla fine nessun Paese se li prenderà, lasciandoli tutti in Libia dove già la situazione non è rosea» ragiona Tarek Megerisi dell’European Council on Foreign Relations.
Le proteste
Negli ultimi mesi a Tripoli si sono moltiplicate le proteste anti governative contro la mancanza di elettricità (c’è per sole 5 ore al giorno), il prezzo del pane e della benzina, l’incertezza sociale. Poca roba per ora, spontanea: ma, all’occorrenza, facilmente cavalcabile da chiunque. A questo si aggiunga la preoccupazione, diffusa in alcune zone ma pericolosamente contagiosa, che ci riferisce un ragazzo del Fezzan, in quel Sud dove ben pochi mettono piede e dove nell’ultimo anno si è rafforzata le presenza di mercenari del Sahel: «Ci sono città come Ubari dove gli africani sono ormai più di noi, ci stanno sovrastando numericamente».
Le cifre sono alte ma non molto più del passato. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ci sono oggi circa 700 mila migranti in Libia (il 10% minori non accompagnati), di cui però la metà proviene da Egitto, Ciad e Niger, nazionalità poco presenti tra quelle registrate sulle coste europee perché solitamente più propense a lavorare in Libia. Ma in un Paese di 6 milioni di abitanti paura e percezione sono miscele più esplosive che altrove. E da quando due anni fa il premier ungherese Orban parlò di costruire nell’ex regno di Gheddafi «una gigantesca città di rifugiati» per gli esclusi d’Europa, ricevendo come risposta «costruiteveli piuttosto sul Danubio», i libici, che tradizionalmente si sentono assediati da 100 milioni di «diversi», hanno sviluppato una vera fobia.
Il sospetto, ci spiega una fonte misuratina, è «che piano piano l’Italia, dopo aver incoraggiato la SaR libica, cominci a chiudere le porte alle Ong, ai mercantili, alle navi militari e a tutti, lasciando Tripoli a gestire un esercito che nel frattempo nessun Paese africano si è candidato ad accogliere». Al-Sarraj ha in mano la matassa ma non il bandolo e su questo, almeno, gioca nella stessa metà campo del suo vice Maitig. Gli europei al lavoro sul campo confidano nel fatto che, a riflettori estivi spenti, qualche volenteroso si faccia avanti per ospitare centri per migranti. Per ora c’è solo il mare.

Repubblica 21.7.18
Se i buoni diventano cattivi
di Nadia Urbinati


Un rapporto dell’Alto commissario Onu per i rifugiati (Unhcr) mostra che alla fine del 2015 il numero totale di rifugiati nel mondo raggiunse la cifra di circa 65 milioni, con un’impennata rispetto agli anni precedenti. Tre fattori aiutano a spiegare questo fenomeno: le guerre e i conflitti in vari Paesi del Medio Oriente e dell’Africa; la crescita della popolazione (del 16% dal 2000 al 2017); e quel che la sociologa americana Saskia Sassen ha definito la “perdita di controllo” da parte degli Stati sui loro Paesi.
L’accelerazione dei fenomeni migratori è direttamente connessa all’incremento del potere di un gruppo ristretto di decisori globali e alla perdita di potere dei popoli e dei loro governi, a causa di guerre e/o dello sfruttamento economico. Di questi fattori i fabbricanti di propaganda anti-migranti non parlano.
Inoltre, il fenomeno migratorio ha interessato in misura molto ridotta l’Europa, dove i residenti non europei sono il 7,5% della popolazione. Ci sono certamente dosaggi diversi nei vari Paesi: a fronte del 5% in Ungheria e Bulgaria c’è il 14- 16% in Germania e Austria. Ma la stragrande maggioranza di quelli che ricevono migranti non stanno in Europa: sono la Turchia, il Pakistan, il Libano, l’Iran, l’Uganda e l’Etiopia. Nemmeno questi dati e fatti sono menzionati dai propagandisti xenofobi. All’interno dell’Europa, la maggior parte dei movimenti migratori è derivata dal processo di allargamento dell’Unione e di integrazione ( che prevede movimento di « capitali, beni, servizi e persone » ) e non dal movimento di rifugiati e richiedenti asilo. Nemmeno questo viene detto da chi grida « prima gli italiani».
Perché queste cifre non riescono a parlare, mentre parlano le ricostruzioni allarmistiche dei media e i bollettini dei ministeri degli Interni? Perché i Paesi più democratici (Stati Uniti, Australia, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia) hanno abdicato ai principi dei diritti umani? Perché hanno violato il diritto internazionale al loro interno, con la costruzione di centri d’accoglienza che sono vericentri di detenzione per persone che nessun tribunale ha riconosciuto colpevoli? Prima di tutto, si deve mettere in conto l’impatto del capitalismo finanziario su questi Paesi, che, piegati dalla crisi, non raggiungeranno più i precedenti livelli di benessere. Invece di puntare i riflettori sul capitalismo, si trova però più facile far sentire tutti gli “ altri” come nemici. In secondo luogo, la de- strutturazione dei partiti e delle aggregazioni sociali ha aperto la strada nelle nostre democrazie a leader solitari e onnipresenti, che usano a piene mani Internet per fare audience capitalizzando sul sentimento della paura. Leader che non rischiano nulla: poiché attribuire agli stranieri la colpa del malessere economico e sociale non richiede alcuna azione progettuale e preventiva, ma solo repressione e respingimenti. Semplificare è un mezzo per mietere facili consensi. Con i dati giusti e facili, subito sbandierati, come il numero di navi Ong bloccate; un numero magico che fa audience.
Che cosa c’entra la paura in tutto questo? Poco o nulla. Poiché i flussi migratori verso l’Europa e l’Italia sono diminuiti. E dunque è la sindrome della paura retrospettiva che cavalca l’audience, non la paura per quel che avviene ora. Un po’ come successe con il fascismo che andò al potere quando ormai il pericolo rosso era passato. Eppure lo spavento di quel pericolo era stato paventato abbastanza a lungo da fare in modo che l’accumulo di parole per descriverlo prendesse il posto dei “ fatti”. Ecco il meccanismo perverso: poiché i numeri sono comunque in discesa, la propaganda del respingimento deve alzare il tiro e lanciare una campagna di risentimento contro chi salva le vite in mare, accusato di istigare le traversate.
La politica della crudeltà diventa politica della bontà: chi salva i migranti in mare è il cattivo perché genera nei disperati l’illusione che qualcuno comunque li salverà. La morale rovesciata di questo nuovo razzismo nasce dal bisogno di sopperire ai dati che non collimano con la paura, ormai solo retrospettiva. Di qui in avanti, quindi, la colpevolizzazione cadrà su coloro che vogliono stare dalla parte dei diritti umani. Mietere consensi sulla paura retrospettiva significa cercare nuovi appigli: assalire chi vorrebbe salvare vite. A questo punto, i dati sono inutili. Basta un Samaritano che salvi un povero Cristo perché i “veri salvatori dell’umanità” abbiano un nemico facile contro cui scagliarsi.

il manifesto 21.7.18
Camusso: «Contro i voucher siamo pronti al referendum»
Decreto dignità. Decreto dignità», accordo M5S-Lega sui buoni-lavoro in agricoltura, turismo e enti locali
di Roberto Ciccarelli


Esplode la contraddizione del «decreto dignità», quello presentato dal ministro del lavoro Luigi Di Maio come la «Waterloo del precariato»: accanto alla modesta, e incerta negli effetti, stretta sui contratti a termine, saranno ripristinati i voucher nei settori dell’agricoltura, del turismo e con ogni probabilità anche negli enti locali. Sono arrivate le prime conferme di un accordo tra Movimento 5 Stelle e la Lega che presenteranno un emendamento al decreto che prevede una semplificazione delle procedure, la tracciabilità e il divieto di acquistare i ticket-lavoro in tabaccheria ma su piattaforma online dove è necessario comunicarne l’uso prima dell’uso. Potranno essere utilizzati in dieci giorni anziché nei tre attuali. Norme simili a quelle vigenti prima che il governo Gentiloni (Pd) decidesse di abolire i voucher per evitare una nuova batosta, dopo quella del 4 dicembre 2016, dal referendum indetto dalla Cgil.
SUSANNA CAMUSSO, segretaria generale della Cgil, ha lanciato la mobilitazione contro il governo populista e sovranista: «Siamo pronti a un nuovo referendum – ha detto Camusso – Ne abbiamo fatto già uno, ne possiamo fare un altro. Se fosse vero che i voucher vengono reintrodotti, e il loro uso allargato, bisognerebbe mettere in discussione se chiamarlo ancora decreto dignità o decreto liberalizzazione. I voucher sono uno strumento di sfruttamento. Di Maio deve mettersi d’accordo con se stesso. Siamo pronti a mobilitarci di nuovo. Senza dubbio. E anche a dire che tra gli annunci e le pratiche di questo Governo c’è un abisso».
GIAN MARCO CENTINAIO, ministro dell’agricoltura e la testa d’ariete leghista che ha riportato, come da «contratto» di governo, i buoni lavoro sul tavolo della politica, ha attaccato i sindacati: ««Se vogliono rimanere all’età della pietra, rimangano all’età della pietra – ha detto – I voucher in agricoltura non sono stati chiesti nè da Centinaio nè da Di Maio, ma dall’agricoltura stessa, così come i voucher sul turismo sono stati chiesti dal mondo del turismo. Sono quei settori che stanno dando una riposta ai sindacati. Ho sentito che la Cgil vuole rifare il referendum, ce ne faremo una ragione».
«SE RIMANERE all’età della pietra significa difendere il diritto a un lavoro dignitoso, ben retribuito e contrattualizzato siamo ben felici di non considerarci moderni – ha replicato a Centinaio la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti – «il ministro dovrebbe preoccuparsi se settori strategici per l’economia del Paese come quello dell’agricoltura e quello del turismo ritengono che per rilanciare il loro sviluppo sia necessario liberalizzare l’utilizzo dei voucher e non, piuttosto, programmare investimenti, valorizzare il made in Italy, formare e qualificare gli addetti, e contrastare irregolarità e illegalità»
ÑELLE ULTIME DUE settimane i sindacati hanno inviato numerosi segnali critici al governo pentaleghista, mentre i settori dell’agroindustria (Flai Cgil, Fai Cisl, Uila-Uil) hanno confermato la mobilitazione in piazza Montecitorio da martedì 24 a giovedì 26 quando il «decreto dignità» arriverà in aula alla Camera. «I voucher in agricoltura – sostengono in una nota congiunta i i segretari generali di Fai Onofrio Rota, Flai Ivana Galli e Uila Stefano Mantegazza – esistono già e sono disciplinati con limiti ben definiti. Non accetteremo di tornare indietro. È «inaccettabile pensare di ridurre la precarietà con norme ad hoc sul lavoro a tempo determinato e sul lavoro somministrato e, contemporaneamente, ampliare l’utilizzo dei voucher rispetto a quanto già previsto dalla normativa, in un settore nel quale il 90% dell’occupazione è stagionale e a chiamata».
LA DETERMINAZIONE dei sindacati confederali nell’opposizione ai voucher sta modificando anche le incertezze nel campo politico a sinistra che sembra essere stata catturata dal dispositivo populista del governo (la «lotta contro la precarietà»). Lo ha confermato ieri Roberto Speranza (MdP-Liberi Uguali) «Se tornano i voucher – ha scritto su twitter – il decreto dignità cambia volto in peggio. Sarebbe un grande passo indietro dall’obiettivo di voler combattere la precarietà». Anche dal Pd, alla ricerca di un’identità di opposizione, arrivano voci contrari a un provvedimento che solo l’anno scorso vedeva il partito su una posizione non diversa da quella del governo attuale. ««Il Pd sarà a fianco di Cgil, Cisl e Uil – ha detto ieri la vice-capogruppo del Pd alla Camera Chiara Gribaudo al termine di un incontro con i sindacati al Nazareno- per protestare contro la reintroduzione dei voucher in agricoltura».

Il Fatto 21.7.18
L’apocalisse ambulante della sinistra
di Andrea Scanzi


Mai come adesso ci sarebbero praterie per una forza di sinistra. Eppure mai come adesso la sinistra italiana, di per sé in crisi da decenni, non cava un ragno da un buco. Costretta all’irrilevanza un po’ dal contingente e un po’ da se stessa, grida rabbiosamente “fascisti” a chi non la pensa come lei (cioè quasi tutti) e abbaia alla Luna per sentirsi più figa degli altri. Un’agonia indicibile. Che ha molte cause. Anzitutto: il vento della storia (questa storia). Non sono tempi per la sinistra. È in crisi pressoché ovunque, e anche questo forse qualcosa vorrà dire. Se Marx scrivesse il Capitale oggi, rischierebbe verosimilmente l’irrilevanza. C’è poi la sequela oltremodo cocente delle delusioni passate. Quando vieni dai Violante e dai Bertinotti, ci metti un po’ a ridare fiducia ai nuovi (nuovi?) arrivati. L’Italia, poi, ci mette particolarmente del suo.
La Francia ha Melenchon, che è sempre meglio di niente. L’Inghilterra ha Corbyn, gli Stati Uniti Sanders. La Spagna ha Podemos, la Grecia ha Varoufakis. Noi abbiamo Raimo, uno che è la risposta sbagliata a Orfini e che non si conosce neanche da solo. L’impatto del renzismo è stato poi devastante. Ha spolpato dalle fondamenta quel poco di buono che c’era nel Pd, devastando ogni cosa e tramutando tanti ex compagni (fortunatamente non tutti) in colpevoli nonnominkia che ragionano come se la politica fosse tifo, difendendo l’indifendibile (cioè il Pd) e facendo un’opposizione così efficace che a sentire uno Zucconi vien voglia di chiedere a Fedriga di reinventarsi Subcomandante Marcos. L’unica maniera per far rinascere la sinistra è radere politicamente al suolo il Pd, che se non altro sta facendo tutto da solo, e darlo poi in mano ai pochi – tipo Civati o Peppe Provenzano – che ancora credono in una sinistra vera e giusta (sempre ammesso poi che esista, perché ormai il dubbio viene). La sinistra italiana è in un vicolo cieco: chi è bravo non ha pubblico, chi è anagraficamente giovane è spesso più gattopardesco di Cirino Pomicino. Ogni volta che qualcuno esce dal mucchio, si rivela un Jack Frusciante senza arte né parte. Quelli che potevano farcela, ieri Landini e l’altro ieri Cofferati, hanno preferito altro (come non capirli). Quelli che insistono nel provarci, tipo D’Alema, potrebbero smettere serenamente una volta per tutte. Le poche idee buone, tipo il Brancaccio dell’estate scorsa, durano come un successo editoriale di Cerasa. Ci sono quelli che hanno ragione ma non li ascolta nessuno e ci sono quelle come la Boldrini, che hanno torto anche quando hanno ragione. I talk sono pieni di quasi-intellettuali che ti raccontano la rava e la fava, dall’alto di questa gran ceppa. E i social tracimano di indignati a casaccio che oggi venerano Saviano perché attacca Salvini e Toninelli, ma ieri l’avrebbero evirato col trinciante perché osava attaccare Renzi & Boschi.
I 5 Stelle hanno per anni calamitato molto elettorato di sinistra, senza ovviamente che la sinistra se ne accorgesse, e ora che paiono schiacciati dal sovran-cazzarismo salviniano si vedono abbandonati dalle Mannoia e dai Marescotti. In via teorica si aprirebbero spazi enormi. Poi però ascolti Andrea Romano, o leggi un editoriale di Calabresi, e capisci che se l’opposizione sono loro tanto vale andare tutti affanculo (con rispetto parlando). Per un De Masi che piace, un Gino Strada che commuove e un Erri De Luca che fa pensare, ce ne sono altrettanti (anzi molti di più) con quella odiosa spocchia “de sinistra” che ti farebbero votare tutti. Ma proprio tutti. Tranne loro. La sinistra italiana non è neanche più un un’idea: è un’apocalisse ambulante. Intrisa di sicumera ingiustificata, condannata a non imparare mai: abbonata a fallire. Anche quando, come adesso, avrebbe davanti un rigore da tirare quasi a porta vuota.

Corriere21.7.18
Faye Jarvis, l’Irlanda e i bambini rubati
di Paolo Lepri


Sono storie terribili quelle dei bambini nati fuori dal «vincolo matrimoniale» che furono strappati alle loro madri in Irlanda e poi consegnati a genitori adottivi, falsificando identità e documenti, dopo una crudele prigionia all’interno di istituti religiosi. Le hanno raccontate, queste storie, anche film come Philomena, con una Judy Dench lontana mille miglia dalla malvagità «laica» che esibisce in Diario di uno scandalo.
E le «case» dove le ragazze «perdute» venivano usate dalle suore come lavandaie in una sorta di schiavismo moderno? Le abbiamo viste in Magdalene, premiato con il Leone d’oro a Venezia. Film, ma anche molti libri. Ne ricordiamo uno, Dove è sempre notte, che John Banville (con lo pseudonimo di Benjamin Black) ha dedicato ad una vittima di quella epoca. Sono il segno che la ferita rimane aperta. Non è certamente un caso che il governo di Dublino abbia recentemente costituito la «Mother and Baby Homes Commission of Investigation» per indagare sulle pagine oscure di quel passato recente. Per fortuna c’è chi lavora perché il maggior numero di casi venga definitivamente alla luce. Tra loro, Faye Jarvis.
Avvocatessa specializzata in diritto previdenziale nello studio legale internazionale Hogan Lovells, Jarvis dirige un gruppo di colleghi (sono sessantanove e hanno contribuito finora con 3.600 ore di lavoro non pagate) che raccolgono le testimonianze da sottoporre alla commissione. È stata lei a riferire al Financial Times del suo incontro con una donna che, dopo essere rimasta incinta, venne rinchiusa alla fine degli anni Sessanta in una «casa»: nome falso, visite proibite, scarse cure mediche tanto per lei quanto per il figlio che le fu portato via. «Non ho mai capito — ha osservato — come si possa essere così crudeli».
Finora, sottolinea il quotidiano britannico, sono stati completati settantacinque dossier: una proporzione piccola, purtroppo, tenendo conto che sarebbero circa settantamila le donne e i bambini transitati in diciotto istituti diversi. Numerosi testimoni, infatti, rinunciano. Hanno l’orrore di ricordare. È difficile liberarsi da quello che proprio John Banville ha definito «il potere sulle anime». Serve l’aiuto di Faye Jarvis.

il manifesto 21.7.18
Bombe e missili su Gaza, è quasi guerra tra Israele e Hamas
Israele/Territori occupati. Tiratori di Hamas uccidono militare israeliano. Quattro palestinesi morti in raid aerei. Tel Aviv: al via massiccia campagna militare
di Michele Giorgio


GERUSALEMME I comandi militari israeliani hanno lanciato ieri una massiccia campagna di attacchi ‎aerei contro Gaza, dando con ogni probabilità il via all’offensiva militare di cui si ‎parla da settimane. Offensiva che il ministro della difesa Lieberman ha ‎esplicitamente annunciato ieri mattina precisando che sarà ben più ampia di quella ‎di quattro anni fa, Margine Protettivo, che uccise oltre duemila palestinesi. ‎«I capi ‎di Hamas ci stanno portando ad una situazione in cui non avremo scelta, ad una ‎situazione in cui dovremo compiere una larga e dolorosa operazione militare, non ‎soltanto uno show, ma una larga e dolorosa operazione militare‎», ha avvertito il ‎ministro.
 Dietro la nuova operazione militare però ci sono solo in parte i tanto citati lanci di ‎‎”palloni incendiari” da Gaza verso il territorio meridionale israeliano dove hanno ‎provocato numerosi roghi nell’ultimo mese. Il motivo principale, come ha ammesso ‎proprio Lieberman, «è l’erosione della deterrenza israeliana, un cambiamento ‎nell’equilibrio e, certamente, la sensazione di sicurezza che non è meno importante ‎della stessa sicurezza‎»‎. Israele, in poche parole, sente di non avere il pieno controllo ‎della situazione e quel potere di deterrenza che credeva di aver imposto con ‎l’offensiva di quattro anni fa. E intende ristabilirlo colpendo duramente ad Hamas. ‎Ma a pagare il conto saranno come sempre i civili di Gaza. Ma pesano anche le ‎manifestazioni popolari della “Grande Marcia del Ritorno”, che la gente di Gaza, ‎nonostante gli oltre 140 dimostranti uccisi dai cecchini israeliani dal 30 marzo, ‎continua settimanalmente a ridosso delle linee di demarcazione con Israele ‎invocando la fine del blocco che da 12 anni strangola e tiene prigioniero questo ‎fazzoletto di terra palestinese. Un “attrito” continuo che il governo Netanyahu e ‎comandi militari consideravano non più sopportabile.
Israele aveva dato al movimento islamista Hamas, che controlla Gaza, tempo fino ‎a ieri per mettere fine al lancio dei “palloni incendiari”. Hamas aveva respinto ‎l’ultimatum ricordando l’insostenibilità della condizione di Gaza e a sua volta aveva ‎intimato a Israele di riaprire i valichi e di riprendere le forniture di carburante ‎bloccate nei giorni scorsi per ordine del ministro Lieberman. Tuttavia mercoledì e ‎giovedì i suoi leader, per smorzare la tensione, avevano limitato i lanci dei palloni. ‎Sono anche circolate voci di una mediazione portata avanti dagli egiziani per ‎evitare l’offensiva militare e allentare la morsa israeliana su Gaza. I piani militari ‎però erano già pronti. La scintilla che aspettava il ministro Lieberman si è ‎sprigionata ieri pomeriggio mentre migliaia di palestinesi, nel venerdì della Grande ‎Marcia del Ritorno, si stavano radunando in nuove manifestazioni lungo le linee di ‎separazione. Come siano andate le cose non è del tutto chiaro. Secondo una ‎versione alcuni cecchini palestinesi, non si sa di quale formazione armata, avrebbero ‎sparato contro una postazione israeliana ferendo gravemente un militare che è ‎morto poco dopo anche se la conferma ufficiale ieri sera non era ancora arrivata. ‎Sono passati pochi minuti e l’aviazione israeliana ha centrato una postazione di ‎osservazione nei pressi di Shujayeh uccidendo tre militanti di Hamas. Un quarto ‎palestinese, sempre del movimento islamico, è morto in un raid avvenuto poco dopo ‎vicino Rafah. Sulla periferia di Khan Yunis sono piovuti 15 missili in appena 10 ‎minuti. Gli attacchi sono intensificati e i manifestanti palestinesi hanno abbandonato ‎la zona lungo le linee con Israele – oltre 100 i feriti da proiettili o intossicati dai ‎lacrimogeni, un 14enne colpito alla testa è in fin di vita – mentre i gruppi armati ‎palestinesi hanno sparato colpi di mortaio. In serata da Gaza sono partiti tre razzi, ‎due dei quali sono stati intercettati. Nei centri israeliani a ridosso di Gaza è stato ‎dichiarato lo stato di allerta e molti civili sono scesi nei rifugi.
 Un disperato appello a fermarsi prima dell’irreparabile lo ha lanciato ieri sera su ‎twitter l’inviato speciale dell’Onu Nickolay Mladenov: ‎«Tutti devono fare un passo ‎indietro, prima del baratro‎». Altrettanto ha fatto il presidente palestinese Abu ‎Mazen. Ma Gaza già viveva la sua prima notte della nuova guerra.‎

La Stampa 21.7.18
Diritti delle donne gay e democrazia
La nuova rivoluzione che scuote la Tunisia
Dopo sette anni dalle provare arabe Consegnato al presidente il rapporto
di Rolla Scolari


Le rivoluzioni non si fanno soltanto in piazza. E il dibattito che in queste settimane scuote la Tunisia racconta come la rivolta che nel 2011 ha messo fine al decennale regime di Zine el-Abidine Ben Ali abbia aperto scenari inediti.
È accesa la discussione innescata nel Paese dal rapporto della Commissione delle libertà individuali e dell’uguaglianza, consegnato all’anziano presidente della Repubblica Beji Caid Essebsi, promotore dell’iniziativa.
La Commissione è stata istituita l’estate scorsa per lavorare a un documento relativo al miglioramento delle libertà individuali, per rendere la legislazione conforme alla Costituzione post-rivoluzionaria del 2014 e al diritto internazionale. Oltre duecento pagine che saranno usate dal presidente come linee guida di riforme legislative da proporre al parlamento. Qualcosa si potrebbe muovere già alla fine del mese.
Riunisce un gruppo di accademici, esperti di diritto costituzionale, pubblico e islamico, magistrati e attivisti, guidati dall’energica deputata Bochra Belhaj Hmida, avvocato e storica femminista tunisina.
Le misure proposte dal rapporto, che oggi divide il Paese, scardinano tabù appena sussurrati nel resto del mondo arabo-islamico: la riforma delle leggi sull’eredità - nel Corano la questione non lascia spazio a interpretazione: alla donna spetta la metà dell’uomo -; la riorganizzazione della dote della donna; la fine del divieto per i caffè di servire durante il mese del digiuno sacro di Ramadan; l’eliminazione del reato di omosessualità; l’abrogazione della pena di morte; l’idea che la protezione del sacro non debba limitare la libertà di coscienza; l’annullamento del crimine di blasfemia; la ridefinizione dei concetti di ordine pubblico e di morale; l’abolizione dell’articolo del Codice dello statuto personale che rende il marito capofamiglia.
L’opposizione
Le critiche sono arrivate subito dalle istituzioni islamiche, mentre le proposte mettono in difficoltà gli islamisti di Ennahda, in coalizione con il partito laico al potere, Nidaa Tounes. Per la Zaytouna, università e moschea, indebolito centro del sapere islamico tunisino, il rapporto «minaccia l’identità arabo-islamica del popolo tunisino, i suoi valori spirituali e morali», ma anche «la pace e l’armonia della società, destabilizza la sicurezza, la sovranità e l’unità nazionali».
Dall’altra parte, intellettuali, accademici, attivisti hanno siglato una petizione in sostegno del documento: «Afferma il diritto della società allo sviluppo, al progresso, la consacrazione dei valori di libertà, giustizia e uguaglianza». I lavori della Commissione sono considerati il proseguimento di una tradizione di riforme sociali inaugurata nel 1956 dall’ex presidente Habib Bourguiba, con quel Codice di statuto personale che, tra le altre cose, aboliva in anticipo sui tempi la poligamia.
La forza della realpolitik
I membri della Commissione, che hanno come obiettivo la riforma del sistema giuridico, consapevoli della sensibilità dei temi trattati, hanno fatto diverse proposte (di vario grado) sulle questioni più delicate. In un Paese in cui 70 persone sono state condannate per omosessualità nel 2017 (dato dell’Association Tunisienne de défense des libertés individuelles) la commissione ha proposto di cancellare il reato, o di eliminare almeno la condanna al carcere, per esempio.
Le sorti delle riforme sono ora nelle mani del presidente, che deciderà quali progetti di legge proporre alla discussione del Parlamento. Se l’opposizione di Ennahda alle proposte che toccano il diritto islamico è forte, occorre ricordare come, su un’altra questione altrettanto controversa, la realpolitik abbia prevalso nelle scelte degli islamisti, che l’anno scorso non si sono opposti al divieto di matrimonio tra una musulmana e un non musulmano, altro tabù nel mondo islamico.
Comunque vada, ci dice la femminista ed ex presidente dell’Association Tunisienne des femmes démocrates, Monia Ben Jemia, «la sola esistenza del rapporto potrebbe far cambiare tutto, non soltanto qui. Si tratta di rivendicazioni che avevamo prima del 2011, ma abbiamo potuto esprimerci e fare campagna soltanto dopo la rivoluzione».

il manifesto 21.7.18
Il magnetismo del passato
Scaffale. «A come Archeologia. 10 grandi scoperte per ricostruire la storia» 

di Valentina Porcheddu

Sulla scia di una trasmissione radiofonica dedicata all’archeologia andata in onda su Rai Radio 3 nell’estate del 2017 (ora tornata in trasmissione fino al 12 agosto, Dalla Terra alla Storia), nasce un libro che si prefigge di raccontare al grande pubblico una disciplina da sempre attrattiva. «Tuttavia il fascino è un territorio pericoloso – scrive Andrea Augenti in A come Archeologia. 10 grandi scoperte per ricostruire la storia (Carocci editore, pp. 181, euro 14) – perché è legato alle emozioni». Ciò che muove Augenti è dunque il desiderio di «raccontare bene» l’archeologia, affinché il lettore possa raggiungere la consapevolezza di un lavoro impegnativo da svolgersi in biblioteca, in laboratorio e sul terreno. Anche un exploit come il rinvenimento dell’ominide Lucy, in Etiopia, è il risultato di una lunga preparazione e del progresso delle metodologie scientifiche. Insomma, secondo l’autore – docente di Archeologia medievale presso l’Università di Bologna – il segreto del successo si nasconde dietro la ricerca, purché sia condivisa con la comunità dei non specialisti.
DA QUI LA CRITICA a quella parte di accademia che si ostina a tenere chiuse le porte della conoscenza. Lo sdoganamento della divulgazione seria e appassionata – già ampiamente effettuato in altre branche del sapere come la paleoantropologia – è una necessità impellente in ambito antichistico, pena il rischio di cedere il campo a ciarlatani e falsi profeti. Il volume segue un criterio temporale, dalla Preistoria al Medioevo, tocca tre continenti, Europa, Asia e Africa, e si divide in temi: le origini dell’uomo, l’archeologia funeraria e quella delle città e delle civiltà scomparse.
TRA LE DIECI SCOPERTE scelte da Augenti vi sono le celebri imprese di Howard Carter e Heinrich Schliemann, che hanno lasciato tracce indelebili nell’immaginario collettivo. Difficile trovare qualcuno che non abbia sentito parlare, almeno una volta, del faraone bambino e dello strepitoso corredo della sua tomba. E che dire della tenacia del mercante del Mecklenburg che usando Omero come unica fonte riuscì a realizzare il suo sogno d’infanzia? Eppure gli archeologi odierni somigliano poco agli avventurosi pionieri degli ultimi due secoli. Un semplice coccio, oggi, può entusiasmare più della maschera d’oro di Tutankhamon perché il vero obiettivo non è riportare alla luce tesori ma ricostruire il passato.
PER RAFFORZARE quest’ultimo principio, l’autore analizza due scavi condotti tra gli anni ’70 e ’90 del Novecento. Il primo, diretto da Andrea Carandini nella villa rurale di Settefinestre, è noto per la sperimentazione, in Italia, del metodo stratigrafico e per aver aperto la strada allo studio della cultura materiale, testimonianza imprescindibile della vita quotidiana di un popolo. Da quel momento, l’archeologia smise di identificarsi con la storia dell’arte e dell’architettura per affermarsi come la scienza dell’uomo in tutte le sue espressioni, incluse le più umili.
LE RICERCHE nella Crypta Balbi a Roma, condotte da Daniele Manacorda, costituiscono invece l’avanguardia dell’archeologia urbana nel nostro paese. Esplorare uno spazio pluristratificato ha significato ripercorrere duemila anni di storia, dall’epoca augustea – quando nell’area del Campo Marzio venne eretto il Teatro di Balbo – fino a tempi recentissimi. La successiva musealizzazione delle vestigia marca un’ulteriore tappa verso la comprensione di un isolato al centro dell’Urbe.
L’epilogo del libro è dedicato al cimitero altomedievale di Sutton Hoo, in Inghilterra, che ha restituito la sorprendente nave funeraria di un re – probabilmente Raedwald – assieme ad altre numerosissime sepolture, tanto da riempire un’ala del British Museum di straordinari reperti.
DEBUTTATE NEL 1938, le indagini a Sutton Hoo sono riprese nel 1986 grazie all’intraprendenza di Martin Carver dell’Università di York, il cui progetto (conclusosi nel 2001) ha segnato una svolta non solo per l’utilizzo di tecniche sofisticate ma anche per il coinvolgimento delle comunità che vivono intorno al sito. Ed è all’esempio di Carver che Augenti affida la lezione più importante: democratizzare lo scavo, dalla progettazione all’esecuzione, è la nuova sfida di una disciplina che deve scrollarsi di dosso la polvere dell’elitarismo.

il manifesto 21.7.18
Il marrano, quel «corpo» politico della rivolta
Scaffale. Donatella Di Cesare riattualizza la figura esoterica dell’ebraismo diasporico
di Roberto Ciccarelli


Nella filosofia italiana esiste la tendenza a individuare figure esemplari e liminari per descrivere la nostra attualità. È stato così per l’Homo Sacer di Giorgio Agamben, formula del diritto romano che indica un essere umano uccidibile senza che si compia un reato. Così oggi è il migrante affogato nel Mediterraneo o recluso nei campi di concentramento in Libia. Donatella Di Cesare ha delineato i tratti di una figura filosofica e l’ha definita straniero residente. Nel suo ultimo libro Marrani. L’altro dell’altro (Einaudi, pp.113, euro 12) aggiunge a questa figura che travalica la distinzione tra migrante e autoctono una genealogia che scava nella nostra identità politica.
PARTE DELLA PIÙ AMPIA filosofia delle migrazioni che la filosofa romana sta sviluppando, questo agile libro riattualizza una figura esoterica dell’ebraismo diasporico e lo considera come l’occasione di un pensiero radicale per reinventare una democrazia internazionalista, solidale, conflittuale. Nella filosofia contemporanea il marranesimo è un riferimento etico, politico, religioso. Dalla mistica di Teresa d’Avila – suo nonno Juan Sánchez era un convertito dall’ebraismo alla fede cattolica – alle campiture dell’Etica di Spinoza – ebreo oggetto del cherem (bando o scomunica), gravissimo e mai revocato, fino alla grazia tormentata di Jacques Derrida alle prese con la sua identità ebraica rimossa, molte sono le storie raccontate nel libro.
Il marrano è la figura iniziale di una nuova era della storia ebraica e di una tradizione politica di rivolta ancora in corso.
È considerato come il primo migrante nella modernità politica. Cacciato dalla Spagna e dal Portogallo sciamò in tutta Europa, da Amsterdam fino a Livorno. E formò una «nazione anarchica», nel massimo segreto ideò un «progetto messianico mondiale». Era un senza terra, e senza religione, reinventò un credo religioso e un’idea di convivenza.
Da questa fonte sgorgò uno degli elementi del pensiero politico radicale del XX secolo: il messianismo. Quello che ha ispirato anche Walter Benjamin e il suo originalissimo pensiero marxista. O lo stesso Marx. Materialista, ateo, ebreo e comunista, anche il filosofo tedesco ha criticato nella Questione ebraica la separazione tra pubblico e privato in cui si dibatte il cittadino moderno, la stessa a cui è costretto il marrano obbligato a reinventare in privato l’identità che non può mostrare in pubblico. Marx ne dedusse l’inimicizia per la democrazia liberale e la sua idea di astratta uguaglianza. La tensione al superamento dell’alienazione per ritrovare l’unità caratterizza il «laboratorio politico della modernità».
PER DI CESARE tale ricerca è destinata allo scacco e, proprio per evitare che il soggetto resti scisso e irrisolto, bisogna rivendicare la dissonanza. Un progetto politico è tale quando resta aperto e incompiuto. Così ha una speranza di durare. In fondo questa è l’idea del «movimento che abolisce lo stato di cose presenti»: il comunismo. Il marranesimo non è dunque solo la storia di violenze e coercizioni, né la rivendicazione della purezza di un’identità religiosa. È l’opposto. Il perservare dei marrani nel loro inconfessabile segreto – l’essere ebrei anche se convertiti a forza – la speranza recondita di un ritorno a un’origine che mai si ripeterà come tale, traducono la condizione di chi è senza radici, spaesato, e alla ricerca di una terra da costruire con chi si trova nella stessa condizione. Estranei allo Stato, ma capaci di costruire politica oltre la sovranità.

il manifesto 21.7.18
Yanomami, la piega dietro al ginocchio
Brasile. Nel libro «La caduta del cielo» (di Davi Kopenawa e Bruce Albert, per Nottetempo) la più autentica testimonianza dello sciamanesimo amazzonico. «Difendiamo gli alberi, le colline, le montagne e i fiumi della foresta; il suo pesce, la selvaggina, gli spiriti e gli abitanti umani»
Yanomami
di Stephen Corry


Stephen Corry è l’autore di Tribal peoples for tomorrow’s world, e Direttore generale di Survival International, che da 50 anni lotta per la sopravvivenza dei popoli indigeni, in tutto il mondo (www.survival.it).

La caduta del cielo, il primo libro mai scritto da uno Yanomami (di Davi Kopenawa e Bruce Albert, per Nottetempo) è la testimonianza dello sciamanesimo amazzonico più autentica che sia mai stata registrata. È la cosa che più si avvicina al sedersi intorno al fuoco in una casa comune degli Yanomami per ascoltare le parole di uno sciamano al calar della sera, quando l’atmosfera si tinge di mistero e di magia.
A dargli forma è stato l’antropologo francese Bruce Albert, che, nel corso di decenni, ha registrato ore di conversazione con Davi Yanomami Kopenawa. Ha organizzato e trascritto i racconti orali, li ha editati insieme a Davi, e poi si è dedicato personalmente alla loro traduzione dallo yanomami. Alla fine, vi ha aggiunto glossari e note, fornendo una grande quantità di informazioni di base. Un impressionante tributo alla collaborazione, al lavoro e all’amicizia di un’intera vita.
La caduta del cielo è destinato a diventare un’opera fondamentale per l’antropologia, e uno dei libri più importanti del nostro tempo. Nella prima parte, dedicata alla cosmologia yanomami, Davi ci rivela una visione del mondo complessa tanto quanto quella delle più grandi religioni. L’universo yanomami è multiforme e multistrato, un luogo in continua trasformazione, pieno di forze nascoste, utili, dispettose o assassine, che si spostano e cambiano in base all’umore o a seconda di come vengono trattate. Sebbene imprevedibili, si attengono a certe convenzioni costringendoci a riflettere sull’ipocrisia della nostra società. «Molto tempo fa, gli anziani dei Bianchi hanno disegnato quelle che chiamano leggi su pelli di carta, ma per loro sono solo bugie! – racconta Davi – A loro interessano solo le parole delle merci».
INSIEME AGLI ALBERI
Inalando il tabacco da fiuto yakoana, lo sciamano dotato e ben addestrato accede all’universo occulto di queste forze, degli xapiri e di molti altri «spiriti», ai fini di mantenere l’equilibrio e rendere la vita sopportabile per tutti. «Noi sciamani diciamo semplicemente che stiamo proteggendo la natura nel suo insieme. Difendiamo gli alberi, le colline, le montagne e i fiumi della foresta; il suo pesce, la selvaggina, gli spiriti e gli abitanti umani. Difendiamo persino la terra dei Bianchi al di là della foresta, e tutti coloro che vi vivono».
Davi (62 anni circa) è un viaggiatore occasionale e riluttante; è anche un portavoce e un attivista per i diritti indigeni oggi riconosciuto a livello internazionale. Tuttavia, prima di tutto, è un figlio della foresta pluviale che ha visto parte del suo popolo morire di epidemie importate da agenti governativi e missionari per poi intraprendere, in tutta risposta, il suo lungo apprendistato sciamanico. A differenza di molti attivisti indigeni contemporanei, non è mai andato a scuola e ha sempre vissuto nella foresta.
Nella parte più autobiografica del libro, il suo percorso personale si lega inestricabilmente con il destino collettivo del suo popolo e con la nascita della storica campagna in difesa degli Yanomami promossa dalla Commissione Pro Yanomami (fondata nel 1978 dallo stesso Albert, dalla fotografa brasiliana Claudia Andujar e dal missionario laico Carlo Zacquini), e poi lanciata con successo sul palcoscenico mondiale da Survival International, il movimento mondiale per i popoli indigeni.
Le violenze e i massacri descritti nel libro sono un’eco contemporanea di una litania di genocidi che gli indiani di tutte le Americhe hanno dovuto affrontare negli ultimi secoli, e che continuano ancora oggi. In questo senso, quelli di Davi sono certamente i racconti più dettagliati che siano mai stati registrati dalla parte delle vittime: un’accusa straziante sul prezzo reale delle risorse sottratte alle terre indigene, quello che non viene mai pagato da coloro che ne traggono profitto.
Davi non è impressionato dalla nostra società, ma non si tratta di arroganza: semplicemente non è convinto che lo stile di vita e la visione del mondo occidentali siano gli unici corretti. I capitoli sulla caccia e la guerra sono fonte inesauribile di ispirazione e riflessione sulle società tribali, su ciò che noi pensiamo di esse e sulle nostre stesse società. Altri ci richiamano alla nostra comune umanità, a quella «stessa piega che tutti abbiamo dietro al ginocchio, per poter camminare».
LA GENTE DELLA MERCE
Ma non si deve cadere nell’errore di considerare La caduta del cielo come una semplice diatriba contro i «Bianchi». La visione del mondo yanomami è diametralmente opposta a quella su cui si reggono il commercio e il profitto, ma se Davi fa lo sforzo di viaggiare per parlare con la «gente della merce», è perché vuole che sappiamo che con la nostra insaziabile fame di beni stiamo distruggendo il mondo – e vuole che ci fermiamo.
La battaglia comune è impegnativa. È tra coloro che sfruttano l’idea dello «sviluppo» per aumentare la propria ricchezza a breve termine con un costo a lungo termine che ricade sugli altri, e coloro che anelano a che i principi sui diritti umani si tramutino in fatti concreti nella convinzione che solo così si possa avere un autentico progresso. Tra questi ultimi si contano tutti coloro che credono che la giustizia non sia semplicemente un’opzione, ma sia vitale per salvare il mondo.
BOCCIOLI DEL FUTURO
Il libro di Davi è uno strumento inestimabile in questa lotta eterna; ma soprattutto è una prova scottante dell’immensa varietà e bellezza del genio umano. Nel nostro giardino planetario stanno ancora sbocciando molti fiori, molti modi diversi di guardare al mondo. Vogliamo davvero falciarli tutti tranne i nostri?
Oltre che una tragedia inconcepibile, significherebbe venir meno al nostro dovere verso le future generazioni. Davi Kopenawa pensa che se distruggeremo gli Yanomami, distruggeremo anche noi stessi. Potrebbe avere ragione. Per chi riesce a sopportare di mettere in discussione stereotipi e pregiudizi, il messaggio di Davi merita di essere ascoltato.
(Traduz. di Francesca Casella).

La Stampa 21.7.18
“Come don Chisciotte viviamo tutti in una realtà distorta e lottiamo per capirla”
Il grande regista Terry Gilliam racconta la sua opera più importante, il film che ha impiegato 29 anni a realizzare: un western visionario
di Michela Tamburrino

qui

La Stampa TuttoLibri 21.10.18
Cacciatore, non dire dove vai
la tigre siberiana saprà dove trovarti
Un’allieva di Lévi-Strauss racconta le culture sciamaniche dell’estremo Oriente russo: così i riti ancestrali della venagione sono sopravvissuti al socialismo reale
di Marco Aime


Una operazione coraggiosa quella di Adelphi nel pubblicare un saggio antropologico, scritto negli anni Cinquanta da Éveline Lot-Falck, una etnologa franco-russa, allieva di Lévi-Strauss sui riti di caccia dei popoli siberiani. Coraggiosa perché le monografie etnografiche sembrano fuori moda, ma la bellezza e la precisione della prosa rendono questo racconto affascinante e quanto mai moderno. Infatti, pur seguendo il metodo etnografico classico, Lot-Falck ci offre uno sguardo sulle diverse popolazioni della Siberia quanto mai dinamico, non trattandole come isolate e fuori dalla storia, ma inserendole nei flussi di cambiamento da cui vengono toccate, sebbene talvolta marginalmente e nel contesto sovietico dell’epoca in cui dominava una tendenza alla «russificazione» dei popoli artici.
Éveline Lot-Falck ci introduce nel mondo della caccia, quello a cui jakuti, tungusi, buriati, ciukci e molti altri popoli siberiani devono la sopravvivenza, perché come ci dice l’autrice: «Nelle regioni in cui la vegetazione offre risorse abbondanti, l’uomo vivrà soprattutto di raccolta. Nelle steppe, praticherà l’allevamento. In Siberia, le condizioni ambientali lo hanno condotto a farsi cacciatore».
La caccia implica necessariamente un rapporto particolare con l’animale con cui l’uomo vive una competizione, che però non è alla pari. L’animale, nella concezione dei popoli siberiani, al pari dell’uomo, possiede una o più anime e un linguaggio, inoltre spesso comprende il linguaggio umano, mentre il contrario è vero solo per gli sciamani. Solo i pesci non hanno un’anima, gli altri animali sono invece in contatto con le divinità e sono più vicini dell’uomo alle forze della natura che spesso si incarnano in loro. Sia gli spiriti benigni sia quelli maligni appaiono in forma di animali.
Anche la linea di separazione tra uomo e animale non è così netta come nel pensiero occidentale, l’animalità per i siberiani è uno degli aspetti dell’umanità e non il meno importante. Infatti, le antiche leggende narrano di un’epoca idilliaca in cui l’uomo si nutriva di piante e non uccideva gli animali. Questo stretto rapporto tra umani e animali spinge l’autrice a riflettere sulla questione del totemismo, verso la quale è molto cauta, per non rischiare di classificare sotto quel termine «contenitore» pratiche molto diverse tra di loro. Anche perché la Siberia di quegli anni aveva già subito una forte russificazione e l’impatto del comunismo, per cui il totemismo apparteneva già a un lontano passato e ne sopravvivevano solo deboli tracce. Solo il suo carattere sociale sembrava sopravvivere.
L’autrice ci accompagna poi in un viaggio affascinante nel pensiero religioso, che finisce per essere strettamente connesso con la caccia. Infatti, visto il legame tra animali e sacro, sono molti gli spiriti che governano questa attività e di cui è necessario garantirsi l’appoggio, dai grandi signori della natura ai semplici «guardiani», dagli spiriti dei defunti fino agli animali stessi. Ecco il perché della ritualità che già accompagna i preparativi, tenuti rigorosamente segreti per evitare di attirare l’attenzione dell’animale. Gli animali comprendono il linguaggio umano, perciò il nome dell’animale pronunciato da un uomo, giungerà al suo orecchio e da quel momento in poi, l’animale starà in guardia o cercherà di vendicarsi delle intenzioni malvagie del cacciatore. Al momento della partenza nessuno deve chiedere al cacciatore dove sta andando e se lungo la strada incrocia un passante che lo interroga, manterrà il silenzio. Un incontro con un pope (per i russi), un lama (per i buriati), un mullah (per gli azeri) è di cattivo augurio, perché un sacerdote rappresenta una sorta di nemico delle antiche divinità.
Dopo aver ucciso la preda il cacciatore non deve ostentare la vittoria, anche abbattuto l’animale resta temibile e ciò che di esso sopravvive si mostrerà irritato se ci si comporta male nei confronti del suo corpo. Gli animali riferiscono ai loro simili come gli uomini si sono comportati nei loro.
Per placare la collera dell’animale, gli si chiede perdono e si prova a presentargli la sua morte come accidentale, assicurando che il cacciatore non ha nulla a che vedere con questa morte, anzi se ne dispiace. Cerca poi di incolpare qualcun altro: «Lo Jucaghiro accusa lo Jacuto, lo Jacuto incrimina il Tunguso e così via, ma è più volentieri ai russi che si accollano questi peccati. Durante il banchetto che segue l’uccisione dell’orso, ogni Tunguso si inchina all’animale prima di mangiare e gli assicura che è stato ucciso da un russo». Si cerca così di pacificare lo spirito della vittima, placarne la collera, perché bisogna pensare al futuro, convincere l’animale a ritornare in una prossima incarnazione. Il ciclo vita/morte, uomo/animale deve continuare.

La Stampa 21.7.18
Caravaggio rischia la forca e la paura si fa meraviglia
Dalla Roma di nobili e postriboli, alla Napoli dei pittori, ai Cavalieri di Malta: la fuga rocambolesca dell’artista, braccato per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni
di Marcello Simoni


Inseguendo le vicissitudini del pittore italiano forse più famoso del Barocco, Alex Connor raggiunge con Maledizione Caravaggio un equilibrio narrativo che si divide tra storia, fiction e caratterizzazione di un elemento spesso tralasciato nei romanzi dedicati agli artisti realmente vissuti: l’interpretazione del loro spirito.
È la tarda primavera del 1606 quando il turbolento Michelangelo Merisi, già reso immortale da capolavori come Giuditta che taglia la testa a Oloferne e Amor vincit omnia, resta coinvolto in un duello che porterà all’uccisione di Ranuccio Tomassoni. Fatto storico, questo, che farà piovere sulla testa dell’artista la condanna al bando capitale. È dunque con l’anima di un uomo braccato, ossessionato dalle paure della pena di morte e di essere tradito, che la Connor deve approcciarsi per stendere un romanzo che ci conduce dalla Roma delle ville nobiliari e dei postriboli alla Napoli dei pittori, delle inattese amicizie e dei nuovi committenti, fino allo sbarco a Malta, presso i cavalieri di San Giovanni, e poi in Sicilia.
La ricetta della scrittrice britannica è semplice ma allo stesso tempo efficace: alternare lo scorrere degli eventi storici a veri e propri flussi di coscienza attribuiti allo stesso Caravaggio. Proprio grazie a questi frammenti introspettivi, che emergono nei momenti clou della vicenda sotto forma di monologhi, entriamo in contatto con la personalità di un uomo toccato sia dalla grazia, sia da un’incontenibile e quasi folle inquietudine.
È probabile che Stevenson resterebbe affascinato dal dualismo jekylliano di Michelangelo Merisi, tanto abile con la tavolozza del colore quanto con la spada e col pugnale. La Connor descrive quest’anima scissa con la consueta abilità di cui ha già dato prova nei suoi precedenti romanzi, molti dei quali dedicati al medesimo personaggio. Qui, però, la drammaticità giunge all’acme andando a delineare eventi che, di fatto, sembrano davvero orchestrati da una maledizione. Caravaggio infatti si ritrova nel momento più disperato della sua vita, costretto a un esilio che tuttavia non riesce a soffocare il suo talento. Anzi! È come se il pittore abbia saputo intingere il pennello nello stagno dell’angustia per realizzare il commovente Sette opere di misericordia, insieme a una formidabile produzione di opere che, nonostante l’infamia del delitto, riuscì a conferirgli nuova fama. E nuovi nemici.
Il genio artistico, intrecciato a un temperamento collerico e orgoglioso, fu forse la causa prima delle sciagure ricadute su un artista che godette di amicizie influenti quali il cardinal Francesco Maria del Monte e la marchesa Costanza Colonna. Amicizie cui, in un perfetto gioco di chiaroscuri, si contrappongono le figure di Scipione Borghese e della meretrice Fillide Melandroni, animata dall’amore e dall’odio per Caravaggio.
Del resto, il romanzo di Alex Connor non può che svilupparsi secondo una logica dicotomica, ovvero un continuo alternarsi di luci e ombre. Proprio come si ritrova nello stile del Merisi, avvezzo a dipingere nel buio più completo, col solo ausilio di un lume che potesse fugare la tenebra quel tanto da non turbare la dimensione onirica dell’ispirazione. E del suo malsano bisogno di ricercare lo splendore della grazia nelle taverne e nei vicoli più bui di Roma e di Napoli. Dentro gli occhi di un popolo di straccioni, prostitute e canaglie. Occhi in cui, molto più che in quelli dei porporati e delle dame degli alti palazzi, Caravaggio riusciva a vedere la pietà, la paura e la passione.
Sentimenti autentici che questo romanzo ci sa regalare.

Repubblica 21.7.18
La storia
Tra moda ed effetto placebo
Insonnia e acciacchi gli anziani scoprono l’erba di Grace
Boom di cannabis light tra gli over 60 come nel film cult sulla marijuana
di Alessandro Cassinis


La signora avrà ottant’anni, si avvicina cerea e titubante al giovane dietro il banco, tatuato e sorridente, e gli chiede con un filo di voce: «Hai mica la canapa?». Dice di soffrire d’insonnia, si riempie ogni sera di gocce ma non riesce a dormire.
Christian apre uno stipetto giallo e ne cava una bustina color sabbia. Sono due grammi e mezzo di “infiorescenze femminili di cannabis sativa consentite per gli usi di cui alla legge 242/16”. In parole povere, cannabis light. È canapa, ma è “leggera” e legale.
«Però mi raccomando: tenga la busta chiusa fino a casa, e non perda lo scrontrino. Se la polizia la ferma, sarà in regola».
Ventidue euro, quasi 9 euro al grammo. La signora nasconde la dose nella borsetta, ringrazia e se ne va.
La scena è quotidiana al Bulldog shop di Hempatia in via di Fossatello nel centro storico di Genova, il primo a importare in Italia la moda dei coffee-shop di Amsterdam. Ma si ripete di continuo anche nelle rivendite di tabacchi che in tutta Italia spacciano la “maria” alla luce del sole. Gli anziani hanno scoperto la yerba buena, l’unica canapa ammessa dalla legge 242 del 2 dicembre 2016. Danno fondo ai risparmi per avere la loro dose quotidiana di euforia casalinga, un quarto d’ora di paradiso artificiale che è in gran parte effetto placebo ma sembra placare ansia, acciacchi e attacchi di depressione.
Soltanto un mese fa il Consiglio superiore di sanità ha espresso un parere negativo sulla vendita di questi prodotti per un “principio di precauzione”: non è ancora provato che la Thc, la molecola responsabile degli effetti psicotropi, ossia capace di alterare le funzioni psichiche, non possa far male anche alle minime concentrazioni consentite dalla legge, dallo 0,2 allo 0,6%. La preoccupazione è per i giovani, le donne incinte o che allattano. Ma tabaccai, rivenditori e produttori sanno che lo zoccolo duro di questa nuova moda non sono i ragazzini o i giovani, già delusi da un’erbetta che non procura alcuno sballo, ma ultracinquantenni e nonni che combattono il male oscuro e i dolori articolari.
Molti non fumano nemmeno sigarette. Come si fa? Christian ha la ricetta buona per ogni massaia: metti l’erba a bagnomaria in un pentolino con il burro, cuoci a fuoco lento per un quarto d’ora, fai rassodare in frigorifero e consuma un po’ alla volta. La Cbd, il cannabidiolo che rilassa e fa dormire, e che nella canapa legale è presente anche al 15%, si può vaporizzare nell’aerosol o bere come infuso o tisana. Versa un grammo d’erba in un pentolino d’acqua tolta dal fuoco appena sta per bollire, aspetta da 2 a 5 minuti e poi filtra e degusta il tuo “tè stupefacente” simile a quello che Grace, l’eroina del film di Nigel Cole, propinava alle vecchiette di Port Isaac, in Cornovaglia. Solo che l’erba di Grace era marijuana a tutti gli effetti e invece questi fiori secchi venduti dai tabaccai sono difficili perfino da fumare. E allora vai con le penne alla canapa a 3,70 euro per 500 grammi, con il gourmet coffee ai semi di canapa, con le salse al rosmarino e canapa e i chewing gum al sapore di canapa. Anche nella dorata Nervi, il quartiere bene di Genova, va forte una tisana dal nome tranquillizzante di Canapa Remedy, 28 euro per 45 grammi.
I produttori e i distributori si attrezzano per sfruttare il nuovo business di una terza età in cerca di relax naturale, speranzosa di poter fare a meno di tutta la chimica prescritta dai medici in farmacia. «Abbiamo pronto un olio di canapa per facilitare il sonno. Bastano 3-4 gocce da mettere sotto la lingua prima di andare a letto», dice Luca Fiorentino, che a 23 anni è amministratore unico della Cannabidiol Distribution di Torino, nata da un anno e già pianificata per fatturare 2,5 milioni di euro nel 2018 attraverso 800 rivendite italiane.
«Stimano che nel 2020 gli incassi di questi prodotti supereranno quelli delle bibite gassate».
I medici possono prescrivere la cannabis terapeutica solo in casi di patologie gravi. Ma Gianni Testino, presidente nazionale della Società italiana di alcologia, si è sentito spesso chiedere da anziani pazienti se la cannabis light può sostituire gli psicofarmaci che non hanno più alcun effetto per placare i disagi dell’età, come l’insonnia tardiva.
«L’ho già provata, dottore, posso continuare a prenderla?».
Testino li sconsiglia: «Anche a basse dosi, la Thc interferisce con tutti i farmaci di uso comune e aggrava qualsiasi malattia cardiaca e polmonare».
Da un tabaccaio di Sottoripa, l’angiporto di Genova, compro anch’io una scatoletta di “Toro scatenato”, un grammo di canapa. Leggo che “non contiene materiali o sostanze dannose all’uomo”, ma che “non è destinato all’uso umano”, non si può ingerire, inalare o assumere.
“Prodotto tecnico collezionistico”. Il tabaccaio mi mostra il certificato di analisi dell’Università di Torino che attesta il livello di Thc allo 0,38%.
«Lo vendo solo dai 60 anni in su, serve come rilassante, aiuta a superare i traumi post-operatori». Costa 12 euro. A pochi metri, un pusher mi propone a 10 euro un grammo di marijuana con il 25% di Thc. Però non batte lo scontrino.

Corriere 21.7.18
Paolo Rossi racconta un Carso magico
di Maria Volpe

Uno spettacolo visionario che è un ritorno alle origini e alle radici, un viaggio in un Carso ricco di magia raccontato da un grande comico. Paolo Rossi (foto) è il protagonista di questo spettacolo da lui diretto.
L’amore è un cane blu Rai5, ore 21.15 Giffoni, speciali sul festival