sabato 15 novembre 2014

La Stampa 15.11.14
Jobs Act, piazza invase per lo “sciopero sociale”. Scontri a Milano e Padova, tensione a Roma
Camusso e Landini: «Andiamo avanti». A Roma uova contro il ministero dell’Economia. Cortei in venticinque città. A Napoli occupata la tangenziale. Disagi nei trasporti

qui con diversi video

Corriere 15.11.14
Jobs Act, Cgil e Fiom unite in piazza «Renzi va solo in fabbriche vuote»
Il leader dei metalmeccanici: «Dov’è oggi il presidente del Consiglio? Non può parlare solo con gli imprenditori. Camusso: «Niente mediazioni al ribasso»
«Medievale è chi vuole lavoro servile»

qui

il Fatto 15.11.14
Venticinque piazze contro Renzi
Si consolida il blocco sociale che attacca il premier
Camusso e Landini insieme ricompattano la Cgil
di Davide Milosa


Si allarga a macchia d’olio (operai e studenti) la contestazione al governo: per il Jobs Act e non solo. Scontri in molte città tra manifestanti e polizia, ma si consolida il blocco sociale che attacca il premier. Camusso e Landini insieme ricompattano la Cgil

A MILANO IN 80 MILA CON LA FIOM. CAMUSSO: “GOVERNO MEDIEVALE, NON RISPETTA I DIRITTI”. I CELERINI MANGANELLANO GLI STUDENTI (E AGENTI DELLA DIGOS) DOPO IL BLITZ NELL’ARCIVESCOVADO. TAFFERUGLI COI NO-TAV

Milano Largo Cairoli, ore dieci di ieri. La Clio grigia arriva in mezzo al corteo del movimento. Ci sono studenti, centri sociali, lavoratori. L’auto ha la targa oscurata. Qualcuno scarica dei cartoni. S’intravedono dei caschi. Trenta No-Tav incappucciati tentano di sfondare verso via Broletto. Vengono respinti. Scendono in metropolitana per unirsi agli 80 mila del corteo Fiom che punta verso piazza Duomo. Tanto vale, infatti, la manifestazione dei metalmeccanici alla quale ha partecipato anche il segretario generale della Cgil Susanna Ca-musso che dal palco ha definito “medievale il governo che non rispetta i diritti”. Mentre Maurizio Landini ha annunciato: “Non ci fermeremo”. Fotogrammi di una giornata ad alta tensione sociale a Milano e in tutta Italia: 25 città (da Padova a Roma) e migliaia in piazza contro il governo. Con Renzi in Australia per partecipare al G20.
NEL CAPOLUOGO lombardo ieri erano programmati due cortei contro la riforma della scuola e contro il Jobs Act. La polizia ha controllato bene. Poi, a manifestazioni terminate, il pasticcio in piazza Fontana davanti all’Arcivescovado con il cortocircuito informativo (tra Digos e Questura) che non ha permesso alle forze dell’ordine di controllare un centinaio di studenti. Risultato: sotto le manganellate finiscono i ragazzi (anche un 15enne) e gli stessi agenti della Digos.
Ecco, allora, la cronaca. Ore 13, aula 101, Università Statale. Aula occupata. Dentro un centinaio di studenti. Hanno i volti stanchi. Un’ora prima il loro corteo che, in accordo con la Questura doveva arrivare fino in piazza Fontana, è stato deviato e bloccato in piazza Santo Stefano. In quel momento, al comizio della Fiom sta intervenendo (fischiata) il segretario della Cgil. “La partita sul Jobs Act – dice – non è chiusa”. Risponde il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini: “La piazza si rispetta”. E sulla riforma del lavoro: “Noi crediamo che sia uno sforzo titanico che in questo Paese nessuno ha mai fatto”. Ma più che la dialettica politica a tenere banco è la cronaca. E così mentre la Camusso parla, alcuni No-Tav si scontrano con le forze dell’ordine. Nessun ferito. Gli studenti, però, vengono bloccati. In piazza Fontana non si arriva. Sfuma così il piano di dare l’assedio alla sede dell’Arcivescovado dove si tiene un convegno sulla “buona scuola” discusso dalla Conferenza episcopale assieme a un rappresentante del ministero dell’Istruzione. “Gli accordi si rispettano”, hanno urlato i ragazzi. Poi hanno tentato di sfondare il cordone delle forze dell’ordine verso via Larga. Due minuti. Ma tanto è bastato perché i manifestanti lanciassero quattro petardi e la Finanza rispondesse sparando lacrimogeni urticanti. Risultato: sette finanzieri feriti e decine di giovani intossicati (alcuni si sono accasciati a terra vomitando). Da Padova arriva la notizia del ferimento del capo della squadra Mobile.
La tensione sale. Si entra in Statale. Si discute, si urla. Contro Renzi e il governo. Contro chi “la riforma della scuola la fa senza chiederci nulla”. Contro la Diocesi di Milano che ha inviato una lettera ai professori di religione perché segnalino come viene trattato il tema dell’omosessualità nei loro istituti. Fuori, intanto, il traffico riprende. Il comizio della Fiom è terminato. In giro non si vedono più le camionette delle forze dell’ordine. In aula, però, la temperatura si alza. Chi interviene al microfono urla che “bisogna andare all’Arcivescovado”.
MEZZ’ORA dopo la decisione è presa: si va in piazza Fontana. Il corteo è scortato dalla Digos. Passano pochi minuti e il funzionario della Questura urla in radio: non sono trenta, ma cento. Chiede un intervento immediato. Il corteo intanto è davanti all’ingresso dell’Arcivescovado. In venti oltrepassano il portone. Hanno caschetti rossi in testa (“in solidarietà ai lavoratori”). Davanti a loro il secondo portone è chiuso. Urlano. Tirano calci. Difficile pensare possano sfondare. Tanto più che in quel momento il dirigente della Questura e quattro funzionari della Digos si frappongono tra l’ingresso e gli studenti. Sono le 14 e
30. I rinforzi arrivano. La camionetta della Celere entra in piazza Fontana. Gli agenti scendono e non si fermano. Per loro l’ordine è già stato dato. Iniziano gli scontri. Gli studenti vengono manganellati. A farne le spese un ragazzino di 15 anni. Sotto i colpi finiscono addirittura anche i funzionari della Digos. Dal gruppo degli studenti parte un sampietrino che colpisce un agente. La giornata si chiude così. La Questura spiega: abbiamo evitato che sfondassero l’Arcivescovado. E mentre gli studenti e i centri sociali si danno appuntamento al 5 dicembre, la cronaca registra l’ennesima giornata nazionale di tensione sociale.

il Fatto 15.11.14
Da Nord a Sud
Lo sciopero sociale che vuole rottamare l’Italia
di Salvatore Cannavò


Nelle piazze italiane non è stata una buona giornata per Matteo Renzi. Il leader del Pd e capo del governo è stato contestato, sbeffeggiato, ingiuriato da nord a sud. In iniziative simboliche e in cortei più robusti. Negli scontri di Milano e Padova e nel corteo, pacifico e molto allegro, di Roma. Il distacco con il mondo sindacale più duro e compatto, quello della Fiom – che pure aveva nutrito delle attese nei confronti del governo – è ormai conclamato. La durezza del discorso di Maurizio Landini e di Susanna Ca-musso a Milano non lascia spazio a ricuciture improvvisate. La rapida approvazione del Jobs Act, anzi, costituirà l’elemento fondativo di una frattura politica di lungo periodo. Nonostante i discorsi sul rinnovamento della sinistra.
ANCHE PERCHÉ, guardando i volti dello sciopero sociale, quel rinnovamento non convince una parte delle nuove generazioni. In larga parte studenti, anche delle scuole medie, giovani precari, disoccupati, lavoratori a tempo, intermittenti, partite Iva e così via. Quasi ognuna delle decine di tipologie contrattuali previste dall’ordinamento italiano era ieri rappresentata in piazza. Lo sciopero sociale è nato come alleanza sociale di alcune sigle sindacali, di centri sociali ma anche di collettivi studenteschi, comitati territoriali e così via. Le manifestazioni di ieri, però, sono andate oltre questa rappresentanza.
A Roma, circa diecimila persone hanno sfilato a lungo tra piazza della Repubblica e la multietnica piazza Vittorio con un giro attorno all’Università di Roma, caratterizzato da varie tappe, modello “via Crucis”. Davanti al ministero dell’Economia sono volate le uova, all’ambasciata tedesca – dove sono avvenute due settimane fa le cariche agli operai di Terni – anche i fumogeni, poi altre azioni al Policlinico Umberto I, al Colosseo, con trenta lavoratori saliti su in alto mentre quelli Telecom sono andati a protestare davanti alla loro azienda. Gli attivisti dei comitati per l’acqua pubblica hanno invece occupato simbolicamente l’Acea, la partecipata capitolina dell’energia e dell’acqua. Maschere di Anonymous sul viso, cartelli anti-Renzi, slogan che ricordano la morte di Cucchi e la “voglia di futuro”, i più giovani, delle scuole medie, dicono senza esitare che “Renzi non convince perché c’è da rottamare il Paese e metterlo nel verso giusto. Ma lui ha solo rottamato il Pd”. Analisi di livello per avere solo 16 anni. Gli insegnanti dei Cobas e dei precari auto organizzati dopo il corteo andranno al ministero della Giannini per protestare contro “la buona scuola” mentre ci sono ricercatori dell’Istat o di Italia Lavoro e Isfol (ministero del Lavoro) che non hanno nessuna garanzia di lavorare dopo il 31 dicembre. “Ci stanno pensando” dicono al cronista, “ma noi non siamo per niente tranquilli”. Storie diverse, vite poco componibili in uno sciopero che è in larga parte simbolico. Ieri nei servizi cittadini o nelle aziende, pubbliche o private, non si sono registrati particolari disagi. Come fare in modo che uno sciopero che si dice “sociale” possa davvero avere un impatto sull’economia e sulla politica è questione ancora da risolvere. Resta il segnale di un conflitto generazionale che, come non succedeva da tempo, ieri non è stato captato da nessuna sigla politica. Di politico in piazza c’era poco o niente.
SE IL CORTEO DI ROMA è filato via liscio, a Milano e Padova si sono verificati gli scontri con la polizia dando un segno distintivo alla giornata. Poche tensioni, invece, nelle altre città. A Napoli, alcune migliaia di manifestanti, hanno sfilato fino a occupare la tangenziale. Traffico in tilt anche a Bologna dove il corteo ha fatto il giro del centro cittadino. Lo stesso è avvenuto a Firenze, Bari, Salerno, Verona e in altre città. A riassumere la giornata possono servire le parole del Garante per gli scioperi, Roberto Alesse: “C'è troppa tensione nel Paese. La violenza e gli scontri sono, infatti, il termometro del profondo malessere economico e sociale che stiamo vivendo”. “L'auspicio – prosegue – è che si realizzi una maggiore interlocuzione istituzionale con tutti i protagonisti del conflitto”. Il contrario del renzismo.

Repubblica 15.11.14
L’asse Camusso Landini per il sindacato-movimento “La partita non è chiusa”
“Anche noi giochiamo a 360 gradi”
di Roberto Mania


ROMA . «Renzi non può pensare che solo lui gioca a 360 gradi. Lo facciamo e lo faremo anche noi». In questa frase di Maurizio Landini c’è tutta la strategia del sindacato- movimento che il leader della Fiom persegue da tempo. La stessa che interpretò più di dieci anni fa Sergio Cofferati, segretario della Cgil, nell’opposizione, allora, al governo Berlusconi e poi, poco dopo, anche alla guerra in Iran.
L’asse Camusso-Landini, con il significativo abbraccio ieri a Milano nel corteo dei metalmeccanici, la ripropone con una variante però decisiva: l’attuale governo è guidato dal segretario del Pd, al quale è ancora iscritta una larga parte del gruppo dirigente della Cgil, Camusso compresa. Renzi — ha scritto su questo giornale Ilvo Diamanti — “si è definito di Sinistra e ha aderito al Partito del Socialismo Europeo. Ma si è orientato al centro. Volgendo lo sguardo più in là. A Centro-destra”. Lasciando uno spazio a sinistra, dunque, che la Cgil-movimento si trova a colmare. Si è visto ieri a con la contaminazione tra i metalmeccanici e le aree del disagio sociale giovanile e della precarietà, e con la partecipazione di esponenti di Sel (Nichi Vendola e Giorgio Airaudo) e della minoranza Pd (Stefano Fassina e Giuseppe Civati). Si è visto alla manifestazione di Roma del 25 ottobre scorso. E appare anche evidente che questa Cgil sia oggi a forte trazione “landiniana”.
Ora la confederazione è tutta proiettata verso lo sciopero generale di otto ore di venerdì 5 dicembre. Prima, il 21 novembre, ci sarà l’altro sciopero generale dei metalmeccanici del centrosud con una manifestazione a Napoli. «La partita non è assolutamente chiusa», diceva ieri Susanna Camusso. E Landini, dal palco: «Non ci fermeremo, andremo avanti fino a quando non cambieremo le loro posizioni. Abbiamo la forza e l’intelligenza per farlo. Noi non stiamo scherzando ». Poi di ritorno da Milano spiegava: «C’è un attacco alla contrattazione senza precedenti. Che è poi un attacco al sindacato confederale e al mondo del lavoro. Ecco perché dobbiamo mettere in campo un movimento sociale che abbia il suo perno sul lavoro».
Aggiunge Giorgio Airaudo che per anni ha lavorato fianco a fianco con Landini: «Nelle piazze della Cgil c’è una domanda di politica diversa da quella offerta da Renzi e che non può essere intercettata dalle correnti del Pd. Insomma non è più sufficiente la strategia della riduzione del danno». E d’altra parte la mediazione sull’articolo 18 all’interno dei democratici — ha detto la Camusso — «non ci pare sia una risposta per mantenere la difesa dei diritti che noi facciamo. E non sarà un voto di fiducia che cambierà il nostro orientamento e la nostra iniziativa». La mediazione? «Una presa in giro», l’ha bollata Landini.
La Cgil è compatta, fino adesso. Eppure quando alla riunione dell’ultimo Direttivo, quello che ha proclamato lo sciopero generale, la relazione della Camusso è stata applaudita anche da Gianni Rinaldini, predecessore di Landini alla guida della Fiom e leader di quella che è stata la minoranza al congresso confederale, in molti hanno capito che il nuovo asse al vertice della Cgil sta mutando profondamente la strategia del sindacato. Con il rischio di imboccare una strada senza ritorno, mentre la Camusso aveva investito molto sulla ritrovata unità d’azione con la Cisl e la Uil.
I malumori, dunque, serpeggiano, ma fino allo sciopero generale del 5 dicembre non emergeranno pubblicamente. C’è tutta l’area riformista schierata apertamente contro Landini al congresso di luglio, che teme, appunto, la deriva del sindacatomovimento. «Cosa si fa dopo il 5?», è la domanda più ricorrente nel palazzo di Corso d’Italia e in tante strutture territoriale e di categoria. In segreteria confederale avrebbe espresso i suoi dubbi Fabrizio Solari; qualche distinguo anche da Franco Martini. E pare che la stessa leader dei pensionati Carla Cantone non sia del tutto allineata. «Perché — si dice a mezza bocca e finora dietro un rigoroso anonimato — la Cgil non può limitarsi a raccogliere il dissenso. Servono i risultati. Altrimenti si rischia di cambiare mestiere». E se fosse proprio questo l’obiettivo di Renzi?

Corriere 15.11.14
Protesta e caos. Ma cosa resterà?
di Dario Di Vico


Chi sa creare lessico è già a metà dell’opera. E indubbiamente la formula dello «sciopero sociale», lanciata dai Cobas per la giornata di ieri, è mediaticamente accattivante.
In più il perno della protesta di ieri erano le otto ore di stop delle fabbriche del Nord indette dalla Fiom, un sindacato fortemente strutturato e dotato di un leader che alle tv e ai giornali piace tanto, al punto che gli amici e concorrenti della Fim-Cisl sono ormai arrivati agli sfottò.
Ma messe da parte le tecniche di comunicazione vale la pena chiedersi cosa veramente ci sia dietro la formula del cosiddetto sciopero sociale. E la risposta è semplice: chi da anni frequenta le piazze, come l’irrottamabile portavoce dei Cobas Piero Bernocchi, ha capito che per creare l’effetto protesta&caos basta sommare un corteo e un blocco dei trasporti pubblici e il risultato è garantito. Le città moderne sono un reticolo di micro spostamenti ed è sufficiente interromperli per generare confusione, scandalo politico e qualche ferito. Ma non c’è niente di sociale in questa ricetta. Anzi, si finisce per accentuare la distanza tra chi è protagonista del blocco, del corteo, persino dello scontro con la polizia e il popolo minuto, gli utenti dei servizi pubblici.
Sia chiaro non c’è cinismo in queste considerazioni. Tutt’altro. È evidente che una società, sottoposta a uno stress di sei anni di crisi e bombardata da continue revisioni al ribasso delle stime del Pil, andrebbe rassicurata. Ci vorrebbe la capacità di parlare ai vari segmenti che la compongono. Agli abitanti delle città dell’acciaio che rischiano il degrado, alle ragazze che per un posto da Calzedonia fanno il colloquio di prova in vetrina, alle parrucchiere italiane che devono contrastare la concorrenza cinese a 6 euro al taglio e non sanno che pesci pigliare, alle partite Iva che si aspettano un regime fiscale che le aiuti a metter su un’attività e vedono solo confusione, agli artigiani che in questi anni hanno fatto da ammortizzatori sociali e ora si vedono costretti a tagliare il personale.
Ci vorrebbero soggetti capaci di interloquire con questo disagio, capaci di raccoglierlo. Ci sarebbe bisogno di una sorta di «pronto soccorso» della crisi, un indirizzo a cui rivolgersi. Garanzia Giovani, il programma finanziato dai soldi della Ue, poteva essere una — solo una — di queste forme di ristoro sociale. Doveva servire a rendere i ragazzi occupabili, a spiegar loro che l’economia è cambiata, che lavoro dipendente e lavoro autonomo stanno quasi per toccarsi e assomigliarsi. Doveva servire a metterli in grado di conquistare un’occasione di lavoro. E invece purtroppo questo test di saldatura tra alto e basso, tra istituzioni e popolo, è rimasto molto al di sotto delle speranze. Non è casuale che nelle sue numerose esternazioni il presidente del Consiglio eviti di parlarne. La lingua, in questo caso, non batte dove il dente duole.
Nelle prossime settimane andremo incontro a nuovi scioperi e va portato rispetto a chi vi aderisce, a chi sacrifica una porzione di salario per segnalare il suo malessere. Ma siamo sicuri che le associazioni di rappresentanza chiamando così ripetutamente al blocco facciano la cosa giusta? Non si comportano così prima di tutto per soddisfare le esigenze politico-identitarie delle loro sigle e dei loro leader?
Il dubbio è quantomeno legittimo e del resto non è un caso che le innovazioni sociali di questi anni (il welfare aziendale e la sharing economy) non siano scaturite dalle piattaforme dei sindacati.

Corriere 15.11.14
ll segretario della Fim-Cisl
«È stato un regolamento di conti a sinistra»
di Enrico Marro


ROMA Che cos’è per il segretario della Fim-Cisl (metalmeccanici) lo sciopero sociale dei sindacati di base e movimenti vari?
«Ho grande rispetto per chi si mobilita — risponde Marco Bentivogli, 44 anni — ma quando si fa confusione tra obiettivo politico e obiettivo sindacal-sociale, alla fine prevale il primo, il regolamento dei conti a sinistra, e si tradisce il secondo. Per non parlare poi della violenza, che va sempre condannata. E invece vedo troppi apprendisti stregoni che scatenano elementi che non sono in grado di controllare».
Lei gli incidenti li ha vissuti in prima persona di recente. Era in strada con gli operai dell’Ast quando la polizia ha caricato.
«Sì, lì c’è stato un errore madornale dei responsabili dell’ordine pubblico. I metalmeccanici non usano violenza. Ma è paradossale che quando non succede nulla i media non se ne occupano. Al contrario quell’unica volta in cui ci sono incidenti, e per di più in piazza c’è anche il leader della Fiom Landini, c’è una spettacolarizzazione del conflitto da parte dei media che è sbagliata, perché rischia di tarare anche i dirigenti sindacali sul livello mediatico».
Il conflitto c’è nella realtà, non crede? Come vede la situazione sociale dal suo osservatorio?
«C’è disperazione e disagio. La gente è sempre più sola. E le assicuro che quelli che stanno veramente male non spaccano vetrine e non entrano nell’Arcivescovado di Milano. Il sindacato e il volontariato, in questi anni, hanno fatto da argine alla disperazione. Ma ci sono due tipi di sindacato, quello che tiene insieme l’emergenza e la ricerca delle soluzioni e quello che dice stiamo male e andremo peggio».
Camusso proclamando lo sciopero generale Cgil ha detto: «Abbiamo la responsabilità di convogliare il disagio sempre più diffuso».
«A me sembra più uno sciopero politico e di sopravvivenza».

Corriere 15.11.14
Pil, soltanto Cipro peggio di noi
di Mario Sensini


ROMA L’economia è in leggera ripresa nella zona euro, ma continua a rallentare in Italia, l’unico grande Paese a mostrare ancora una flessione del prodotto interno lordo. Nel terzo trimestre del 2014 i dati Istat e Eurostat vedono una flessione del Pil nel nostro Paese dello 0,1% rispetto al secondo trimestre. Un calo atteso, riferiscono fonti di Palazzo Chigi, che non consola ma neanche preoccupa.
Un po’ meglio di quanto ci si aspettasse, ma rispetto al terzo trimestre del 2013, quindi su base annua, l’Italia registra un calo del Pil pari allo 0,4%, secondo solo a quello di Cipro (-2%) e superiore a quello della Finlandia (-0,3%), gli unici tre Paesi della zona euro in negativo. Nella media l’economia dei 18 Paesi che hanno adottato la moneta unica è cresciuta tra giugno e settembre dello 0,2% sul trimestre precedente, e dello 0,8 su base annua. La situazione è migliore nei Paesi della Ue che non hanno l’euro, visto che nella media di tutti i 28 Paesi dell’Unione il terzo trimestre ha visto un progresso del Pil dello 0,3%, che diventa un più 1,3% in ragione d’anno.
In Italia la flessione del prodotto, che ormai va avanti esattamente da tre anni, e che è tornato di fatto ai valori dell’anno 2000, è dovuta a un calo del valore aggiunto nel comparto dell’agricoltura e dell’industria, e a un aumento nei servizi. La domanda interna continua a dare un contributo negativo, solo parzialmente bilanciato da un apporto positivo della domanda estera.
In compenso, a settembre, si è visto un miglioramento del debito pubblico che secondo Bankitalia, il cui Governatore Visco ieri è stato ricevuto dal capo dello Stato, Napolitano, è sceso di 14 miliardi di euro, a 2.134 miliardi, quasi tutti imputabili alle amministrazioni centrali. Nei primi nove mesi, in ogni caso, il debito pubblico è cresciuto di 64,2 miliardi. Di questi, 4,7 hanno rappresentato il sostegno finanziario ai Paesi euro in difficoltà, che ha raggiunto un importo complessivo di 60,3 miliardi.
A Bruxelles, intanto, il governo ha consegnato un dossier di progetti con la richiesta di finanziamenti aggiuntivi per 40 miliardi, secondo il piano messo a punto dalla presidenza italiana della Ue. E nel pacchetto della task force del governo, che doveva essere presentato entro ieri, 2.200 progetti, è finito di tutto. Opere infrastrutturali, materiali e immateriali, come il piano per la banda larga (7,2 miliardi), la Tav Torino-Lione, strade e autostrade come la Salerno-Reggio, ma anche programmi d’investimento per il rischio idrogeologico, il finanziamento delle piccole e medie imprese per l’interconnessione e l’efficientamento energetico, gasdotti e rigassificatori, bonifiche, aree metropolitane. E c’è la richiesta per la copertura del piano «La buona scuola», già in parte finanziato dalla legge di Stabilità.

La Stampa 15.11.14
Pil italiano ancora negativo: è ai livelli del 2000

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Repubblica 15.11.14
Il Paese malato
SIiamoufficialmente il malato d’Europa. L’unico Paese, oltre a Cipro, con il segno negativo nel terzo trimestre 2014, l’unico a vivere tecnicamente una terza recessione.
di Tito Boeri

SIAMO ufficialmente il malato d’Europa. L’unico Paese, oltre a Cipro, con il segno negativo nel terzo trimestre 2014, l’unico a vivere tecnicamente una terza recessione. Ma non facciamoci ingannare dai decimali, soggetti ai margini di errore di queste stime. Il fatto nuovo è che anche la Germania è entrata in stagnazione e fa peggio del resto dell’area euro. Chi conta davvero in Europa non può continuare a far finta di nulla.
MENTRE il resto del mondo, dalla Cina all’India agli Stati Uniti, continua a crescere a tassi sostenuti. Un anno fa il clima di fiducia di famiglie e imprese volgeva al bello; sarebbe bastata una politica monetaria più espansiva, un accesso al credito meno difficile per imprese e famiglie per tradurre questo cambiamento di aspettative in comportamenti favorevoli alla crescita. Oggi i piani della Bce, anche qualora attuati compiutamente, non bastano più. Prevale l’avversione al rischio, si cerca liquidità, anziché investire in progetti imprenditoriali.
Per contrastare questa depressione delle aspettative ci vorrebbe un piano di investimenti pubblici a livello europeo, finanziato soprattutto da quegli Stati che possono permetterselo. Andrebbe anche a loro vantaggio. Ma chi ha sin qui agitato la bandiera degli investimenti europei, il Presidente della Commissione, Juncker, è oggi, a sole due settimane dal suo insediamento, un’anatra zoppa, delegittimato dalle rivelazioni sui favori fiscali concessi, con accordi segreti, alle imprese che investivano in Lussemburgo quando era alla guida del granducato. E non sarebbe la prima volta che un piano di investimenti pubblici europei si perde nel nulla: è già successo col piano di Delors del 1993, con la strategia di Lisbona del 2000 e con il Growth Compact del 2012. Eppure il vertice europeo che a dicembre dovrà decidere sul piano di investimenti pubblici non deve fallire.
Juncker, nel suo discorso di investitura, ha parlato di 300 miliardi, spalmati su tre anni. Significa circa lo 0,3 per cento del Pil dell’area euro. Troppo poco per stimolare l’economia in crisi, anche considerando moltiplicatori fiscali favorevoli. Ci vorrebbe almeno il doppio e soldi veri, non delegati ai prestiti concessi dalla Banca Europea degli Investimenti che, per ragioni di rating, evita di finanziare investimenti che hanno effetti positivi su tutti gli operatori economici anche se non sono magari molto redditizi. Devono anche essere spesi subito, senza le interminabili procedure che regolano l’accesso ai fondi strutturali. E devono essere spesi bene, da amministrazioni pubbliche non corrotte.
C’è un piano che soddisfa questi tre requisiti. Si tratta di assicurare l’accesso alla banda larga su tutto il territorio dove si paga in euro. Sarebbe un piano gestito a livello di istituzioni sovranazionali europee, facilmente soggette allo scrutinio dell’opinione pubblica. L’accesso alla banda larga permette di migliorare l’efficienza delle imprese allargando i mercati perché riduce i costi di transazione. In questo modo stimola la crescita. Secondo alcuni studi sui paesi Ocse, un incremento della penetrazione della larga banda di 10 punti percentuali porterebbe ad aumentare il tasso di crescita del reddito pro capite dell’1,5 per cento all’anno. In Germania è stato stimato che l’ampliamento della banda larga comporterebbe una crescita addizionale cumulata di 33 miliardi in dieci anni. È un investimento che favorisce anche i Paesi in cui la banda larga è già ampiamente diffusa, perché permette alle imprese di vendere ai consumatori oggi localizzati in aree in cui il commercio online è meno sviluppato per i limiti della rete. Al tempo stesso sono i Paesi che oggi hanno maggiore bisogno di stimoli fiscali, come l’Italia, quelli più indietro nello sviluppo della banda larga, e in cui gran parte degli investimenti avrebbe luogo. Da ultimo, è un investimento percepibile dai cittadini, darebbe quel senso al fatto di appartenere all’area dell’euro che oggi manca soprattutto nel sud del continente. Al punto che molti demagoghi di professione, a Beppe Grillo si è ieri aggiunto Stefano Fassina, hanno ormai deciso di abbracciare la causa dell’uscita dall’euro.
Il governo Renzi sembra aver compreso la centralità dell’investimento in banda larga, tant’è che sulla carta vuole mobilizzare fino a dieci miliardi attingendo ai fondi strutturali. Ma gli obiettivi dell’Agenda digitale velocizzano l’accesso a chi è già connesso, portando la fibra fino ai palazzi anziché collegare chi oggi è di fatto tagliato fuori. In altre parole, si muovono più nello spirito degli investimenti privati che di quelli pubblici. Proponendosi, invece, di ridurre davvero il digital divide ci si potrebbe presentare a Bruxelles a dicembre con ben altra forza e credibilità. Gioverebbe non poco avere anche una riforma compiuta da esibire. Dovendo esprimere un giudizio sul governo Renzi, viene da pensare a quei candidati a posizioni di professore di ruolo che hanno tanti lavori in corso, ma ancora nessuna pubblicazione. I working paper possono riempire le pagine dei giornali, ma non rientrano nei curricula che vengono presi in considerazione a livello internazionale.

Corriere 15.11.14
G20: i Paesi più ricchi crescono, ma aumenta la diseguaglianza
Quest’anno il 36% della crescita dei Paesi più ricchi del mondo (in totale 17mila miliardi di dollari) è andata all’1% della popolazione più agiata
di Marco Galluzzo inviato a Brisbane

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il Fatto 15.11.14
Renzi è solo al comando
Le minoranze si menano
di Luca De Carolis


OGGI BERSANI A MILANO INVITA TUTTI GLI OPPOSITORI DEL SEGRETARIO DEMOCRAT ALLA BATTAGLIA COMUNE, MA CUPERLO HA GIÀ FATTO SAPERE CHE NON CI ANDRÀ

Un uomo solo al comando, tre minoranze che vanno in ordine sparso. Spesso l’una contro l’altra. La geometria del Pd dell’era renziana è la celebrazione del divide et impera. Chiedere conferma a Pier Luigi Bersani, che oggi a Milano riunirà la sua Area riformista per lanciare “un appello all’unità” a tutti i non allineati al verbo rottamatore. Divisi, come non mai. Basta leggere il Gianni Cuperlo di ieri su Repubblica: “La riunione a Milano? Non vado, non mi hanno chiamato”. Il leader di Sinistra dem non sarà tra i bersaniani doc: da Roberto Speranza a Guglielmo Epifani fino a Cesare Damiano e Maurizio Martina, tutti fautori della mediazione sul Jobs act con Renzi. Non ci sarà Nicola Zingaretti (invitato). E mancherà Stefano Fassina, pure formalmente bersaniano, ieri a Milano proprio per la manifestazione della Fiom contro il ddl sul lavoro. “Peresprimermisulnuovo testo aspetto di vederlo” spiega. Ma la frattura resta evidente. In meno di un anno, l’area che nelle primarie appoggiava Cuperlo contro Renzi è deflagrata in almeno tre fazioni. L’ex candidato alla segretaria è (quasi) sull’Aventino, Bersani e i suoi sono ostili al premier ma vogliono trattare, Matteo Orfini e i Giovani Turchi sono l’ala sinistra del renzismo. Sulle barricate ovviamente anche Massimo D’Alema, che vorrebbe una contro-opa sul partito. Ma che oggi assomiglia a un generale a corto di truppe. Infine, Pippo Civati, che lavora a un’alleanza con Sel, Cgil e movimenti. È la mappa di quelcherestaallasinistradiRenzi. Divisione dopo divisione.
UN TURCO COME PRESIDENTE
A Europee appena stravinte, Renzi ridisegna la gerarchia del Pd. Il 14 giugno l’assemblea dem elegge come presidente Matteo Orfini a grande maggioranza (690 sì, 32 astenuti). Teoricamente sarebbe una carica per la minoranza, di fatto è una cannonata agli oppositori. Orfini, archiviate le primarie, è presto entrato nell’orbita renziana. Non a caso Cuperlo avrebbe voluto alla presidenzaNicolaZingaretti, ma Renzi ha risposto picche. I civatiani si astengono in blocco. Non votano anche diversi bersaniani, come il deputato Alfredo D’Attorre: “Scegliendo Orfini si è andati nella direzione di un accordo con le correnti per premiare chi è entrato nella maggioranza”. Il segretario ha ufficialmente reciso un pezzo di sinistra.
CAOS IN TRINCEA
Il 29 settembre l’opposizione e Renzi se le danno in diretta tv, nella direzione del Pd sul Jobs act. Tema caldissimo, le modifiche all’articolo 18. Il segretario alterna bastone e carota: “Le mediazioni vanno bene, ma i compromessi non si fanno a tutti i costi”. Da sinistra monta la bufera. Bersani sorprende: “Noi andiamo sull’orlo del baratro non per l’articolo 18 ma per il metodo Boffo”. D’Alema morde: “È un impianto di governo destinato a produrre scarsissimi effetti, meno slogan e meno spot”. Ma sull’ordine del giorno l’opposizione si spacca. Votano contro Civati, il lettiano Francesco Boccia, Cuperlo, Fassina, Bersani. Undici gli astenuti, tra cui Roberto Speranza, prima fila di Area riformista. I bersaniani “governativi” tolgono la gamba. E l’ordine del giorno passa con 130 voti (l’80 per cento). Renzi se la ride con i suoi: “Li abbiamo spianati”.
ASTENUTI E MAZZIATI
A inizio ottobre il Jobs act approda in Senato. Il premier non si fida e blinda il testo con la fiducia. Le minoranze interne digrignano i denti ma alla fine votano compatte per il sì. Fanno eccezione tre civatiani, Felice Casson, Lucrezia Ricchiuti e Corradino Mineo, che escono dall’aula prima del voto. Il compagno di cordata Walter Tocci invece dice sì, ma annuncia le dimissioni. I renziani Guerini e Giachetti minacciano sanzioni (senza sviluppi), ma quel che conta è che nel Pd si è consumato un altro strappo definitivo. I civatiani sono in guerra, bersaniani e cuperliani hanno abbassato le armi.
PIAZZA CONTRO LEOPOLDA
Il 25 ottobre è sfida incrociata di numeri e slogan. La Cgil riempie piazza San Giovanni a Roma, Renzi celebra la sua quinta Leopolda a Firenze. E le minoranze tornano a dividersi. Bersani se ne resta a casa, come Speranza e sodali vari. D’Alema è fuori Roma. Cuperlo, Civati e Fassina invece corrono nella piazza rossa, assieme a Rosy Bindi e bersaniani inquieti (D’Attorre). Poi sono altre polemiche. Renzi nomina sottosegretario Paola De Micheli, fiaccando il gruppetto lettiano. Si trova una mediazione tra bersaniani e il renziano Taddei sul Jobs act (reintegro per licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare). Ma Civati la ripudia, Cuperlo pare contrario, la Bindi avverte: “Non mi piace molto”. Tante voci, tante minoranze.

Corriere 15.11.14
Quanti renziani alla festa scout fiorentina
di Marco Gasperetti


Più di duemila ragazzi saranno in piazza a Firenze per ricordare i 70 anni dalla rinascita dello scoutismo dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra. Attesi rappresentanti delle istituzioni, politici, e molti nomi del cerchio magico di Renzi. Il sindaco Nardella, ex scout, ha già dato la sua adesione. Si parla anche del sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti, un orgoglioso ex Agesci. E non si esclude la presenza di un altro «fazzolettone» di prestigio, il deputato Federico Gelli, presidente del Cesvot, ex vicepresidente della Toscana e renziano della prima ora. E Renzi? Avrebbe voluto, ma è in Australia alla riunione del G20.

Corriere 15.11.14
Jobs act, minoranza pd verso l’intesa
La rabbia di Landini: «Presa in giro»
Appello di Bersani all’unità: bene la mediazione
Accordo vicino anche con Ncd
di Alessandro Trocino


ROMA L’accordo sul Jobs act, la riforma del mercato del lavoro, è più vicino. Dopo la mediazione dentro il Pd e la levata di scudi del Nuovo centrodestra, ulteriori trattative vanno nella direzione giusta. Lo ha sottolineato Matteo Renzi e lo ha detto ieri anche Angelino Alfano: «Con il Pd si rischiano marce indietro, ma l’accordo è in via di conclusione». Anche la minoranza del Pd, salvo poche eccezioni, sembra sul punto di accettare il compromesso. Anche per questo ieri il leader della Fiom, Maurizio Landini, si è scagliato con forza contro la mediazione. Definita «una presa in giro, che serve solo ai parlamentari per conservare il loro posto, non ai lavoratori e alla difesa dei loro diritti». A differenza del segretario della Cisl, Annamaria Furlan: «Le modifiche al Jobs act vanno incontro alle nostre richieste».
L’attacco di Landini è diretto alla minoranza del Pd, che sembra convergere con il segretario Matteo Renzi, pur tra i distinguo. Ne sarà una dimostrazione plastica la sfilata dei nomi di peso che si presenteranno oggi all’iniziativa di Milano organizzata da Area riformista. Componente che vede schierati Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza, Maurizio Martina, Guglielmo Epifani e Cesare Damiano. Tutti esponenti critici, fino all’altro ieri, e che ora hanno smussato molto i loro attacchi. Bersani, ai suoi, ieri spiegava: «La mediazione è un bel passo avanti, anche se ci sono altre cose da correggere». Riferimento alle risorse per gli ammortizzatori sociali e alle tipologie contrattuali. L’ex segretario del Pd resta scettico: «Fosse stato per me, non avrei riaperto la questione dell’articolo 18». Ma così è stato e la mediazione che accetta le decisioni della maggioranza della Direzione è «un fatto positivo». Anche per questo Bersani oggi farà un appello all’unità, perché «si resti con due piedi dentro il partito». Posizione che si estende anche alla questione della legge elettorale: «Alla fine le cose sono cambiate, evidentemente le nostre richieste non erano così campate in aria». Come la parità di genere, la soglia d’ingresso e le preferenze. Anche se resta da correggere il meccanismo che prevede «ancora troppi nominati».
Posizioni non dissimili da quelle di Guglielmo Epifani: «Io non avrei toccato l’articolo 18, ma la mediazione ha ottenuto di non far mettere la fiducia. Tutto quello che si modifica per recuperare un diritto è un fatto positivo». Più cauto Alfredo D’Attorre: «C’è stata una sterzata molto forte sul metodo. Ma il punto cruciale è quante risorse mettiamo sugli ammortizzatori». Restano le diffidenze di Stefano Fassina (che però ha parlato di «passo avanti»), di Gianni Cuperlo e di Pippo Civati. Quest’ultimo rimane della sua opinione: «Renzi ha fatto un passo indietro, ma il testo da molto brutto è passato a brutto. Non mi aspettavo certo la rivoluzione culturale cinese e così è stato. Non mi va giù che Renzi possa dire di avere abolito l’articolo 18: voterò contro».
Non tutto è chiarito. E lo dimostra la disputa sui licenziamenti disciplinari con Ncd e minoranza Pd ancora critici su alcuni punti delle modifiche. Restano contrari al Jobs act Lega e M5s. Compreso l’ex grillino Luis Orellana, che al Senato non ha mai votato la fiducia al governo Renzi né al Jobs act, ma ha dato il via libera, insieme alla maggioranza, alla nota di variazione del Def.

Repubblica 15.11.14
Gianni Cuperlo
“Il premier sta attraendo una maggioranza di elettori sulla base di un impianto moderato.
Rassicura gli imprenditori, strapazza i sindacati vuole un Partito della nazione unica àncora”
“Non bastano ancora le modifiche al Jobs act
Via dal Pd? Io voglio una nuova sinistra”
Attacco a Renzi e alla sua politica economica “Anche la legge di Stabilità non è espansiva”
intervista di Alessandra Longo


“Il lavoro per la sinistra non è merce monetizzabile. È dignità e cittadinanza. A questo non rinuncio
Una nuova sinistra è davanti a una scelta di vita: organizzare un campo di forze, idee, e parlare al Paese”

ROMA Gianni Cuperlo mi lasci iniziare con la battuta di Landini sulla mediazione in materia di Jobs Act dentro il Pd. Dice che chi ha scelto la linea trattativista l’ha fatto per conservare la poltrona.
«Landini parla di donne e uomini che meritano rispetto. Io penso che la riforma vada cambiata ancora ma proprio lui che parla giustamente di unità deve evitare toni sbagliati».
Quelli che vedono il bicchiere mezzo pieno dicono che Renzi ha fatto un passo indietro.
«Una retromarcia l’ha fatta.
Riconosce che il Parlamento non è un passacarte. In questo anche le piazze hanno avuto un peso e lì non c’era gente col problema del ponte ma della spesa».
Ma lei voterà il Job’s Act?
«Quando in gioco è il destino delle persone non c’è maggioranza o minoranza. Conta il merito e su quello giudicherò ».
Mi faccia capire. Con gli emendamenti di giovedì sera il Job’s Act le sembra una buona o una cattiva riforma?
«È positivo lo sfoltimento dei contratti e le risorse in più per gli ammortizzatori. Ma prevedere diritti differenti per lavoratori con lo stesso contratto porterebbe a una nuova discriminazione di dubbia costituzionalità. Aggiungo che liberalizzare i licenziamenti economici individuali quando manifestamente infondati apre il fianco a possibili frodi e violazione di diritti. Io dico: lavoriamo per altri passi avanti, anche sulla estensione delle tutele. Il punto è che il lavoro, almeno per la sinistra, non è una merce monetizzabile. È dignità, cittadinanza. E a questo principio non rinuncio».
Cuperlo lei evoca la parola “sinistra”. Ma francamente non si capisce quanti Pd ci sono.
C’è chi dice tre o quattro. Di sicuro c’è il partito di Renzi, il partito della Nazione...
«Renzi sta attraendo una maggioranza degli elettori sulla base di un impianto moderato. Lui rassicura gli imprenditori, strapazza i sindacati, rimuove i conflitti sociali. Tutto sommato gli va bene che a destra Salvini faccia Le Pen e sull’altro fronte qualcuno strilli contro i “padroni”. In un quadro dove il cosiddetto “partito della Nazione” resterebbe la sola ancora».
Non è forse così alle condizioni date?
«Temo che questo disegno in realtà sia un “pastrocio”».
Pastrocio?
«Sì, come spalmare la nutella sul wurstel. Occulta una rappresentanza sociale della politica che invece esiste e vorrebbe ridurre la sinistra a conservazione o a fare l’usciere nei palazzi del Potere». Il profumo della pietanza
sembra attirare masse trasversali.
«Beh siamo in Italia e il progetto, anche per le capacità indubbie del premier, induce qualche trasformismo».
Peccato non fare nomi, Cuperlo.
«Ma no, i peccati sono altri».
A tempo debito, quando Renzi scadrà naturalmente da segretario, darete battaglia per riconquistare la leadership?
«Conta come ci si arriva. Parliamo del 2017».
A questo vostro travaglio si aggiunge la crisi che morde e una legge di stabilità dai contorni ancora fumosi.
«Il Pil cala da 13 trimestri, è la recessione più grave della storia repubblicana. Il governo ha reagito con sussidi alle famiglie e sgravi alle imprese, ma sono misure insufficienti. È lo schema di Bruxelles che non va. L’ideologia per cui tagliando la spesa e svalutando il lavoro si riaggiusta l’economia. All’Europa andrebbe detto che una flessibilità di qualche miliardo è come stroncare la polmonite con l’aspirina. Una spinta più forte alla ripresa significa alcune decine di miliardi per investimenti fuori da vincoli pensati in un tempo storico completamente diverso».
E la legge di stabilità?
«A mio parere non è abbastanza espansiva. Per uscire da una recessione così profonda servono una politica redistributiva radicale, un nuovo patto fiscale e una iniezione decisa di investimenti pubblici. Ne va della nostra sopravvivenza e se guardiamo a Genova o Carrara della nostra sicurezza».
Cuperlo queste battaglie si fanno dentro il Pd o avete la tentazione di andarvene?
«Una nuova sinistra è davanti a una scelta di vita. Può organizzare un campo di forze, idee, e parlare al Paese, oppure contentarsi di chiosare le scelte degli altri. Io vorrei la prima cosa e la vorrei in un PD più aperto, lasciandoci alle spalle divisioni e personalismi. Allora dico: costruiamo assieme, al più presto, un grande appuntamento. Mettiamo migliaia di persone diverse a ragionare sulla democrazia, su un’altra economia, sul mondo dopo la crisi. Il tempo è ora. Dopo potremmo voltare la testa e scoprire di averne lasciato troppi da soli, senza una bussola e spesso senza una tessera. Non servono nostalgia e rimpianti. Servono fantasia, umiltà e quella dose di indignazione che ti fa sempre alzare lo sguardo. Come direbbe la moderna Sibilla, hoc opus, hic labor».

Repubblica 15.11.14
Ma la minoranza si spacca in tre
L’opposizione interna al segretario-premier divisa tra scissionisti, pontieri e filo-Cgil
Fassina e Civati in piazza per contestare il governo “Dare voce a chi protesta”
Oggi i bersaniani a Milano. Damiano nel mirino degli intransigenti
di Giovanna Casadio


ROMA «Più che in trincea il vostro affezionatissimo va semplicemente in piazza...». Sul suo blog Pippo Civati fotografa la distanza che divide le tre sinistre dem: irriducibili come Civati, pontieri come Speranza e De Micheli, filo Cgil come Cuperlo e Fassina. Passa attraverso la Cgil e la piazza. Lo “sciopero sociale” di ieri è stata l’ennesima prova del nove tra chi manifesta con la Cgil e chi tratta sul Jobs Act. Stefano Fassina ad esempio, era anche lui in piazza a Milano. Di quella che fu la minoranza del Pd, un anno dopo le primarie che hanno consegnato il partito a Renzi, restano spezzoni, ruscelli, frantumi. Non è un caso che oggi a Milano la corrente “Area riformista” affiderà al ministro Maurizio Martina, al capogruppo dem alla Camera Roberto Speranza e all’ex segretario Pierluigi Bersani l’ultima chiamata: non dividiamoci. E martedì prossimo si farà una prova di unità con emendamenti comuni alla legge di Stabilità di tutte le minoranze dem, dai dalemiani a Bindi, dai bersaniani a Civati. Le differenze però sono andate sedimentandosi e il segretariopremier ha avuto buon gioco a coinvolgere nel partito, e al tempo stesso disperdendo, gli oppositori interni.
I “giovani turchi”, che sono stati i supporter di Gianni Cuperlo alle primarie in cui sfidò Renzi, sono perfettamente renziani. Uno dei loro leader, Matteo Orfini, è diventato il presidente del partito. Ma anche nella sinistra bersaniana tutto è cambiato. Cesare Damiano, ex sindacalista Fiom, ora presidente della commissione Lavoro è stato una delle teste di ponte della trattativa con il governo sul Jobs Act. A un certo punto è finito nel mirino degli “intransigenti” che gli hanno rimproverato di non impuntarsi almeno per evitare di anticipare il Jobs Act rispetto alla legge di Stabilità. Qui l’ha vinta Renzi. Però Damiano rivendica: «Abbiamo fatto un buon accordo e va difeso». E al segretario Fiom, Maurizio Landini dice che di tante frasi inappropriate pronunciate, una è però giusta: «È vero che il sindacato e le sue battaglie non si fanno interpretare da un partito o dalla sua minoranza... ». Come Paola De Micheli, lettiana della prima ora, appena nominata sottosegretario all’Economia. Ha chiarito subito che avrebbe fatto da “pontiere” tra minoranza e governo, però ovvio che il suo è un punto di vista governista. La sinistra riformista e di governo - quella che si riunirà stamani - punta a essere sì marcata a sinistra, sì indipendente da Renzi «ma lealista », come ha spiegato Speranza. Bersani farà un richiamo all’unione, pur mantenendo le sue perplessità su Jobs act e insistendo per una legge elettorale non di nominati: sul punto l’Italicum va cambiato. Ma il «vero problema» della sinistra dem è quello di «essere orfani di leader». È l’analisi di Laura Puppato, supporter di Civati alle primarie, senatrice ora outsider. Civati e i suoi appaiono gli “irriducibili”, quelli veramente tentati dalla scissione e verso un abbraccio con Vendola. «Basta la piazza per rendersi conto che quei lavoratori non si sentono più rappresentati»: è la riflessione di Civati che ieri era a manifestare a Milano. Il rapporto con il sindacato tiene banco nella sinistra dem. La posizione di Cuperlo, Fassina, De Maria è quella di non mollare il Pd però dare rappresentanza piena ai lavoratori che protestano in piazza, che vanno tutelati. «No a derive neocentriste del Pd, no a un partito della Nazione che dimentica di dare soprattutto risposte ai lavoratori ».
La sinistra dem sa che nelle divisioni perde, assottiglia il suo peso, confonde. Solo un nuovo leader potrebbe riunirla.

Corriere 15.11.14
Il Pd si compra «Europa» per 200 mila euro
di Alessandra Arachi


Adesso il Pd si compra Europa, attraverso la Fondazione Eyu dove, oltre al quotidiano che fu della Margherita, ci sono anche Youdem e la partita dell’Unità. È di giovedì lo scontro sull’Unità fra i liquidatori e il Pd, ma in attesa delle garanzie per l’acquisto da parte della Veneziani editori, il Pd ha deciso di rilevare Europa che altrimenti avrebbe chiuso oggi i battenti. «Il Pd tiene alla sua storia e vuole uno sviluppo qualificato dell’informazione della sinistra italiana», ha detto il tesoriere Francesco Bonifazi. In liquidazione dalla Margherita, Europa verrà acquistata per 200 mila euro.

il Fatto 15.11.14
Partito editore
Affarone: il Pd si compra “Europa”
di C. T.


Questa notizia provoca una rettifica a tante precedenti notizie pubblicate: Matteo Renzi crede nell’Europa. Precisazione: si tratta del quotidiano Europa che, non diffuso più in edicola e messo in liquidazione, stava per spegnersi anche col sito. Ma un’offerta pervenuta dal Partito democratico, autorizzata dal segretario Renzi e formalizzata dal tesoriere Francesco Bonifazi, rilancia il giornale diretto da Stefano Menichini: assicurata la permanenza in Rete, non è escluso che possa tornare in edicola.
LA TESTATA è costata 200.000 euro al Nazareno, poi ci sarà bisogno di un piano editoriale e industriale e di ulteriori investimenti e di imprenditori.
Europa farà parte di una fondazione dem che si chiama EYU, acronimo che sta per Europa appunto, la web-tv Youdem e l’Unità, che manca all’appello. Perché il quotidiano fondato da Antonio Gramsci attende ancora un acquirente, i liquidatori hanno prolungato i termini al 30 novembre. Le offerte pervenute sono tre, due sono ritenute “inidonee”, una idonea ma va rimpinguata fino a 20 milioni, ed è quella presentata da Guido Veneziani (editore anche di Miracoli, Vero e Stop) e sostenuta dal Nazareno. La prima copia di Europa risale al 2003, il giornale è di proprietà di un movimento politico defunto, la Margherita. In undici anni, Europa non ha mai chiuso un bilancio in attivo, l’ultimo conteneva un rosso di un milione e mezzo di euro. Senza mai superare le 3.500 copie vendute nei tempi migliori, il quotidiano ha incassato oltre 31 milioni di euro di contributi pubblici. Il taglio ai fondi per l’editoria, “ridotti” a 1,18 milioni di euro percepiti nel 2013 riferiti al 2012, ha costretto la proprietà a liquidare una società che ha accumulato soltanto perdite e che non stava in “piedi”.
PER COMPRENDERE è sufficiente leggere il bilancio 2013 che presenta costi per il personale (già limati) di 1,5 milioni di euro e neanche 700.000 euro di introiti tra edicola, abbonamenti e pubblicità. Ora il Partito democratico prova a rianimare le sorti di un marchio che non ha mai attecchito nell’universo dem o di sinistra, essendo popolare e centrista in partenza. Da Europa provengono alcuni portavoce del governo di Matteo Renzi e, in particolare, Filippo Sensi (in arte Nomfup) che per il premier gestisce la comunicazione del presidente del Consiglio e di palazzo Chigi. Il giorno del saluto alle edicole, Europa riportava un commento di Paolo Gentiloni, da lì a poche ore nominato ministro degli Esteri. L’eredità umana e di relazioni (più che di pubblico) di Europa è un’eredità che ha pesato in questa decisione. L’organico è stato sfoltito in questi anni, con maggiore vigore in questi mesi, e allora il Pd è convinto di poter sfruttare un’altra voce amica. Adesso ci si attende la stessa celerità e la stessa efficienza con l’Unità. Ma sul quotidiano che fu del partito comunista incombono le battaglie interne ai dem. Perché proprio gli ex Pci – come scrive Libero – sembrano intenzionati a riprendersi l’Unità, capofila Massimo D’Alema, dietro l’ex segretario Pier Luigi Bersani. Quando ancora era sconosciuta la carta del Nazareno, cioè Guido Veneziani, sembrava vicino un accordo con un gruppo che poteva contare su buoni rapporti col mondo dalemiano. Ovvio che questa soluzione non sia gradita da Renzi e dai suoi uomini, dopo che D’Alema ha rinfocolato la polemica contro il fiorentino, definito un episodio. Il “Lìder Maximo” ha fatto intuire che vuole riprendersi il partito, la macchina, i militanti. E l’Unità è in ballo.

Repubblica 15.11.14
Bonifazi, da Pd proposta per rilevare "Europa"
Il tesoriere democratico ha annunciato il salvataggio della testata


ROMA - "Il Pd ha presentato una proposta di acquisto per rilevare la testata del quotidiano Europa dal 1 gennaio 2015 e far sì che possa continuare la sua attività editoriale all'interno della Fondazione EYU". Lo annuncia Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd, in una nota. Il proprietario della testata è la Edizioni Dlm Europa srl, il cui presidente è il sindaco di Catania Enzo Bianco.
"Siamo quindi soddisfatti - ha aggiunto Bonifazi -  è una bella notizia, perchè il Pd si è impegnato a fondo negli ultimi mesi in questa operazione, così come è stato fatto per l'Unità, nella convinzione che ciò che fa parte della storia del nostro partito non debba essere disperso".
Dopo la fine delle pubblicazione dell'edizione cartacea, il quotidiano dell'ex Margherita ha disposto, a partire dal 16 novembre, la cassa integrazione per tutti i lavoratori.

il Fatto 15.11.14
Lo scoop del  “Fatto”
Volo blu della Pinotti, due Procure al lavoro “Peculato d’uso”


IL FALCON CHE RIPORTÒ A CASA IL MINISTRO NEL MIRINO DEI PM DOPO LA DENUNCIA DEL M5S

Due procure – ordinaria e militare – vogliono fare chiarezza sul caso del “volo di Stato” con cui, il 5 settembre scorso, il ministro della Difesa Roberta Pinotti raggiunse la Liguria, dove abita, dall’aeroporto di Roma Ciampino. Il Fatto aveva pubblicato un articolo sulla vicenda il 25 settembre raccontando di come il ministro, ritornando da un vertice Nato, aveva rinunciato al volo di linea per Genova utilizzando un Falcon “in volo di addestramento”.
Dopo la denuncia presentata dai parlamentari M5S (che hanno fatto un esposto anche alla magistratura contabile), il procuratore aggiunto di Roma, Francesco Caporale e il sostituto Roberto Felici hanno avviato un procedimento, al momento contro ignoti, nel quale ipotizzano il reato di peculato d’uso. Indaga pure il procuratore militare di Roma Marco De Paolis: anche in questo caso si procede contro ignoti e l'inchiesta è finalizzata ad accertare la sussistenza di eventuali reati militari. Nell’esposto depositato in Procura i pentastellati sostengono che il ministro Pinotti abbia usato un Falcon 50 dell’Aeronautica militare per farsi accompagnare a casa, a Genova, approfittando di un volo di addestramento programmato dal 31° stormo dell’Aeronautica. “Abbiamo fatto il nostro dovere”, ha scritto su Facebook, ieri, il parlamentare del M5S Alessandro Di Battista, annunciando l’iniziativa. “Abbiamo scritto atti parlamentari su questa vicenda (due interrogazioni, ndr) – ha proseguito – ai quali il ministro non ha risposto. Non sono i 3.600 euro che quel volo costa ogni ora. Il problema è il loro, costante, abuso di potere. Il loro sentirsi invulnerabili, intoccabili, differenti da noi cittadini. Auguri ministro”. In una nota il ministero della Difesa sostiene che quello preso dal ministro “è stato un volo del tutto legittimo, come sarà puntualmente chiarito in ogni sede, compresa quella parlamentare”. Si tratta, per la Difesa, di “un volo addestrativo che non ha comportato alcun maggior onere ma, al contrario, ha determinato un risparmio per l’erario”. Anche l’Aeronautica militare ha parlato di “un volo di routine, addestrativo”.

Corriere 15.11.14
Marino contestato
Ultimatum del Pd: azzera tutto o vai via
Urla contro il sindaco tra la gente di Tor Sapienza
La replica: io ci metto la faccia, adesso basta degrado
di Alessandro Capponi e Rinaldo Frignani


ROMA Contestato dalla gente e dal partito: nella stessa giornata il sindaco di Roma, Ignazio Marino, incassa i fischi della folla a Tor Sapienza e le bordate dei consiglieri della sua stessa maggioranza; soprattutto, politicamente, è il Pd nazionale a effettuare una sorta di disperato tentativo per cercare di arginare la crisi che — tra le multe della Panda e le periferie sul punto di scoppiare — pare attanagliare il sindaco. È il vice segretario Lorenzo Guerini a parlare con i vertici del partito romano: l’unica condizione per andare avanti, è il messaggio, è «azzerare la giunta». Un modo per provare a ripartire, a cambiare verso, altrimenti Roma può pure andare alle urne: fin qui si è sempre ipotizzato di aspettare le Politiche ma adesso Matteo Renzi, per la prima volta — raccontano politici molto vicini al presidente del Consiglio — starebbe valutando l’ipotesi di far votare la Capitale in primavera, insieme con l’appuntamento elettorale previsto per alcune Regioni. Nei prossimi giorni lo stesso Marino potrebbe essere convocato a Palazzo Chigi per «rendere conto della situazione».
Le indiscrezioni che arrivano dal nazionale, del resto, si specchiano con le accuse rivolte al sindaco dai consiglieri del Campidoglio: «Votare non sarebbe una tragedia — attacca Michela Di Biase, moglie del ministro Dario Franceschini — basta però non essere proni al sindaco, il più grande gaffeur d’Italia che sta ridicolizzando il pd». E il vicesegretario, il renziano Luciano Nobili, dice chiaramente che «o si cambia tutto o non ce la faremo...». Ma per Marino anche la contestazione a Tor Sapienza è stata molto pesante. «Buffone», «pagliaccio». Gli abitanti non gli hanno risparmiato insulti in una strada blindata dalle forze dell’ordine.
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano non lo ha citato: «I sindaci stiano più attenti, perché non si possono mandare decine e decine di migranti dove già ci sono i rom».
Alla fine l’unico risultato raccolto dal primo cittadino è stato l’accordo — da confermare martedì prossimo — con i comitati di quartiere per tenere aperto il centro d’accoglienza di viale Giorgio Morandi, ma non ai migranti (che saranno trasferiti, come annunciato mercoledì), bensì a donne e bambini disagiati. «Solo chi vive sulla luna può aspettarsi che in quartieri in difficoltà non ci siano contestazioni — replica il sindaco —. Ho l’intenzione di metterci la faccia e la voglia di ascoltare. Con gli abitanti avvieremo un drastico percorso di recupero di un quartiere abbandonato da quando è stato costruito». Prima di lui a Tor Sapienza si era presentato l’ex sindaco e già presidente del Coni — ora responsabile Sport di Forza Italia — Franco Carraro. «Sono venuto qui in forma privata perché sono dispiaciuto per quello che accade in questa città», ha detto prima di lasciare il centro, da solo, su una Panda. Adesso però si rischia l’escalation della protesta — come temuto dagli investigatori — dopo il trasferimento dei rifugiati minori in una struttura per ragazzi all’Infernetto, vicino Ostia, accanto a un centro per malati terminali di Alzheimer.
Le mamme del quartiere hanno raccontato di aver visto alcuni giovani picchiarsi già ieri pomeriggio a poche centinaia di metri da un asilo. «O vanno via, oppure siamo pronte alla protesta», annunciano. In 17, giovedì notte, erano già fuggiti dall’edificio immerso nel verde per tornare a Tor Sapienza. «Vogliamo stare qui», hanno spiegato ieri i ragazzi che, dopo un breve passaggio all’assessorato alle Politiche sociali, sono stati riportati all’Infernetto. E anche il centrocampista della Roma e della Nazionale Daniele De Rossi sente l’esigenza di esprimersi sulla gestione dell’emergenza da parte di Marino: «Quello che penso di lui lo tengo per me - dice -, ma risolva in fretta il problema delle periferie».

il Fatto 15.11.14
Viacrucis
Il doppio inferno di Marino
Fischiato (e criticato dal Pd). Ma almeno ci mette la faccia
di Tommaso Rodano


IL SINDACO VA A TOR SAPIENZA, IL PARTITO LO SCARICA E LA PIAZZA LO CONTESTA: “BUFFONE, VAI VIA”

Roma C’è un’immagine paradossale che tiene insieme anni di miserie politiche e una settimana di violenza di strada: il sindaco di Roma incede lentamente lungo le strade di Tor Sapienza, scortato da un cordone composto dagli agenti della guardia di finanza e dalle stesse persone che fino a due notti fa lanciavano bombe carta e caricavano la polizia, di fronte al centro d’accoglienza di viale Morandi. I capi del comitato di quartiere separano Ignazio Marino da una selva di telecamere e cronisti, e lo proteggono dai loro stessi vicini dicasa. L’altro paradosso è la bordata che arriva dal Pd romano proprio mentre Marino ci mette la faccia: “Continuiamo a sostenerlo ma ora deve cambiare tanto”. A Tor Sapienza al sindaco viene gridato di tutto: “Buffone, sindaco dei rom, frocio, infame”. Il corteo della vergogna, in un clima surreale e a un ritmo quasi marziale, procede tra gli insulti lungo i simboli cadenti del quartiere: il cortile comune su cui si affacciano i palazzoni fatiscenti, la spina di cemento in mezzo alla piazza, con i suoi angusti micro appartamenti abitati da famiglie italiane e straniere, ricavati da scantinati e negozi chiusi. Tutto scandito dal ritmo delle imprecazioni, come grandine, sulla testa di Marino e del suo vice Luigi Nieri. Procede a testa bassa, il sindaco. Le telecamere mettono a fuoco uno sguardo tetro, spaesato. Alieno. Marino rivendica di avere aperto la Metro C: “Il più grande investimento del Paese negli ultimi 15 anni, fatto per le periferie e non per il centro di Roma”. Prova a sgonfiare la contestazione, promettendo genericamente di combattere il degrado: “Ci concentreremo sui problemi di questo quartiere senza venire meno all’accoglienza”.
MA CEDE anche alla pancia della borgata, il sindaco, promettendo alla folla che lo pressa l’allontanamento degli stranieri: “Ho fatto una proposta ai cittadini di Tor Sapienza: nel centro di accoglienza non ci saranno più immigrati, ma donne e bimbi in difficoltà”. Non basta nemmeno questo. Le urla e gli insulti accompagnano Marino fino all’istante in cui si infila in macchina, dopo l’ultima dichiarazione: “Solo chi vive sulla luna può aspettarsi che in quartieri in difficoltà non ci siano contestazioni”. Al sindaco di Roma vengono imputati tutti i problemi – quelli sì, eterni – della città. I cittadini di Tor Sapienza gli sputano addosso una miseria accumulata nel corso degli anni e delle legislature: la piazza delle prostitute transessuali, il campo rom, il centro per i rifugiati, la mancanza dei servizi basilari, persino la disoccupazione. La protesta è sacrosanta, ma cieca: Marino amministra la città da poco più di un anno, in una condizione finanziaria disastrosa, raccogliendo l’eredità di giunte ricordate per gli scandali amministrativi e i buchi di bilancio. Il centro d’accoglienza da cui è nata la guerriglia di Tor Sapienza è stato aperto da Alemanno tre anni fa. Marino raccoglie la tempesta seminata da altri, senza riuscire a risalire la corrente. Si confronta con problemi giganteschi e poi si fa crocifiggere per le multe della sua Panda in divieto di sosta. Ieri, almeno, ci ha messo la faccia. Sperava di cavarsela con una visita “in sordina”. Ha fatto male i calcoli: al suo arrivo ha trovato un esercito di giornalisti e fotografi. Il blitz si è trasformato in una via crucis politica. Prima, con la scorta di alcuni rappresentanti del quartiere, si è infilato in un bar, per cercare una mediazione lontano dalle telecamere.
ALL’USCITA sono volati gli insulti ed è iniziato il calvario. Nello stesso partito di Marino molti non aspettavano altro. Il sindaco alieno, che governa da solo, nel Pd è sopportato sempre di meno. I sondaggi non aiutano. Proprio mentre Marino trovava il coraggio di presentarsi in borgata, ieri, il segretario del Pd romano Lionello Cosentino lo metteva pubblicamente alla gogna: “Giovedì sera ho visto un paradosso: il sindaco era a Londra, il Consiglio comunale intendeva riunirsi fino a mezzanotte sulle multe, con quello che stava succedendo a Tor Sapienza. Mai c’è stata distanza più ampia di un ceto politico che non riesce a capire le priorità”. Marino, direbbero gli americani, sembra un’anatra zoppa. I compagni di partito per ora si potrebbero accontentare di imporgli un rimpasto di giunta: la prima a cadere dovrebbe essere l’assessore alle Politiche Sociali, Rita Cutini, per la quale è arrivata una richiesta formale di dimissioni. Ma il presidente del Consiglio comunale Mirko Co-ratti, sempre Pd, invoca: “Azzeriamo la giunta”. Altri chiedono addirittura il voto. Il sindaco, per ora, resta in sella a una condizione: non deve fare più di testa sua. A meno di un improvviso cambio di scenario nella politica nazionale: se Renzi forzasse la mano per votare in primavera, a quel punto potrebbe finire sul piatto anche il Campidoglio.

Repubblica 15.11.14
L’amaca
di Michele Serrra


LE PERIPEZIE del sindaco Marino e della sua Panda rossa, qualunque sia l’esito delle investigazioni mediatiche in corso, è l’ulteriore dimostrazione del punto di non ritorno raggiunto nei rapporti tra eletti ed elettori. È ovviamente rilevante stabilire se l’utilitaria privata del sindaco avesse o non avesse le carte in regola per accedere a questa o quella zona. Ma fa amaramente riflettere sapere che se Marino, come un’infinità di altri sindaci e uomini delle istituzioni, si fosse servito di un’auto di servizio, oggi non sarebbe coinvolto in questo pasticcio. Per rinunciare a un privilegio in odore di “casta” (l’uso di una macchina e di un autista a carico del Comune, come tutti i sindaci di tutte le capitali europee) il sindaco di Roma si è messo nelle condizioni di dover seminare telecamere, accampare scuse e rintracciare scartoffie. Si fosse comodamente adagiato nella prassi, per altro del tutto legale, di farsi assistere e accudire proprio come se fosse il sindaco, non rischierebbe di affogare nel bicchier d’acqua dove lo costringono ad annaspare il puntiglio mediatico e il malumore popolare. Intere stirpi di politici, prima di Marino, hanno vissuto beatamente nello scialo e nell’ipertutela. Ora il conto viene presentato a chi arriva dopo di loro, a casse dello Stato sfasciate, e pretende di girare per Roma come un romano qualunque. Multe comprese.

il Fatto 15.11.14
Tor Sapienza
La fuga dei quattordici giovani
Tornano al Centro di accoglienza e vengono di nuovo trasferiti
Campidoglio in tilt


Roma Decisioni sui rifugiati che cambiano ogni mezza giornata, il futuro del centro di accoglienza legato a promesse improvvisate e l’incapacità di gestire persino la questione più delicata: quella dei minorenni evacuati per accontentare la piazza in fiamme. Il Campidoglio è in stato confusionale e niente lo racconta meglio di quanto accaduto nel solito viale Morandi diviso tra i poliziotti e i cittadini infuriati. Ieri mattina, sono riapparsi 14 dei minori trasferiti in fretta e furia il giorno prima. Tutti seduti a terra, disposti su due file, qualcuno con gli occhi gonfi, i più col cappuccio sulla testa.
PER GLI OPERATORI della cooperativa il Sorriso, quella che gestisce il centro di Tor Sapienza, è una vittoria: “Volevano tornare da noi”, ripetono. Per il Comune un’altra figuraccia. Appena 12 ore dopo il loro arrivo nella comunità di Ostia cui erano stati destinati, sono scappati. O, quantomeno, sono stati lasciati liberi di tornare nel quartiere che non li vuole. Su questo punto le versioni sono discordanti : gli operatori dicono che sapevano dello spostamento dei ragazzi, ma che non hanno potuto opporsi. Le forze dell’ordine invece non hanno dubbi: sono fuggiti. Quel che è certo è che i ragazzi – il cui status è quello di minori non accompagnati, quindi sotto la responsabilità dello Stato italiano – sono stati abbandonati, liberi di tornare nel luogo che lo stesso assessorato alle politiche sociali continua a definire “pericoloso”. Già, l’assessorato. Ieri i rappresentanti della giunta del Municipio X, quello che ha accolto 25 dei 36 minori, erano in Campidoglio. Volevano parlare con Marino, ma il sindaco non ha potuto riceverli. L’assessore alle politiche sociali Rita Cutini li ha liquidati sbrigativamente: “Il trasferimento dei minori è stata una decisione presa di fretta”. Che la situazione sia completamente sfuggita di mano è stato confermato alle 18, quando il capo di segreteria dell’assessore affermava candidamente di non sapere come i minori fossero fuggiti da Ostia. Non sorprende che lo stesso Pd abbia chiesto le dimissioni dell’assessore Cutini. Ancor più incerta la linea sui 35 rifugiati ospiti del centro di Tor Sapienza. Giovedì il Campidoglio aveva deciso: vanno trasferiti già venerdì. La mattina seguente il primo dietrofront: restano dove sono. In serata Marino, subissato da fischi e insulti, promette: “Al centro di accoglienza rimarranno solo donne e bimbi”.
A SEMINARE odio nel quartiere dove è franato il consenso del sindaco ieri era atteso Mario Borghezio accompagnato da Casa Pound. In mattinata però arriva il “gesto di responsabilità”: l’eurodeputato va a Tor Sapienza, ma lontano dal centro di accoglienza. Borghezio mostra il volto rassicurante del nuovo fascioleghismo di governo ai giornalisti senza scambiare una parola coi residenti. Il serata Matteo Salvini prova a rimediare: “Andrò a Tor Sapienza, ma senza telecamere”. Il dialogo di Borghezio con gli abitanti naufraga anche al secondo appuntamento romano in programma: Serpentara, periferia Nord stretta tra la Salaria e il Grande raccordo anulare. Un quartiere dove arrivano i miasmi della discarica Ama che avvolge il quartiere e l’Ex Cartiera divenuta campo nomadi, poi sgomberato. Gli ex abitanti si riparano sotto ponti e cavalcavia, o tra l’erba, in mezzo a una discarica a cielo aperto. L’altra tappa fascioleghista nelle ferite della disperazione Capitale accoglie Borghezio con gli stemmi e le teste rasate di Casa Pound. Il pretesto è un presidio anti-rom dopo l’aggressione a un anziano, rapinato e ridotto in gravi condizioni da una banda, “forse” dell’Est. Nessun cittadino accoglie l’europarlamentare, i comitati di quartiere annullano la fiaccolata di solidarietà. “Ve ne dovete andare”, spiega un funzionario della Digos. “Stai a fa’ er protagonista, noi aspettamo il nostro europarlamentare”, gli risponde un ragazzo. “Il vostro?”, “Si, l’amo fatto elegge’ noi”. Poche centinaia di metri più giù, il contro-corteo dei centri sociali viene fermato. Petardi e fumogeni, alcuni cassonetti vengono rovesciati: “L’unica espulsione giusta è per Borghezio”. Che arriva, tra gli applausi: “Prendere la residenza a Roma? Ci sto pensando. Roma ladrona è quella dei palazzi”. Alla fine giù la maschera: “Dell’antifascismo non mi frega un cazzo”.
c.d.f. e al.sch.

Repubblica Roma 15.11.14
L’appello
“Vogliamo restare, il Centro è la nostra casa”
Lettera aperta dei 35 ragazzi rifugiati ai residenti di Tor Sapienza
di Anna Maria Liguori


HANNO SCRITTO UNA lettera aperta i rifugiati del centro di Tor Sapienza: 35 persone provenienti da Paesi diversi, insieme.
«Tutti parlano di noi in questi giorni, siamo sotto i riflettori: televisioni, stampa. Ma nessuno veramente ci conosce. Noi siamo un gruppo di rifugiati 35 persone provenienti da Pakistan, Mali, Etiopia, Eritrea, Afghanistan, Mauritania. Non siamo tutti uguali, ognuno ha la sua storia, ci sono padri di famiglia, giovani ragazzi, laureati, artigiani, insegnanti, ma tutti noi siamo arrivati in Italia per salvare le nostre vite.
Abbiamo conosciuto la guerra, la prigione, il conflitto in Libia, i talebani in Afghanistan e in Pakistan. Abbiamo viaggiato, tanto, con ogni mezzo di fortuna, a volte con le nostre stesse gambe; abbiamo lasciato le nostre famiglie, i nostri figli, le nostre mogli, i nostri genitori, i nostri amici, il lavoro, la casa, tutto.
Non siamo venuti per fare male a nessuno. In questi giorni abbiamo sentito dire molte cose su di noi: che rubiamo, che stupriamo le donne, che siamo incivili, che alimentiamo il degrado del quartiere dove viviamo.
Queste parole ci fanno male, non siamo venuti in Italia per scontrarci con gli italiani. A questi ultimi siamo veramente grati, tutti noi ricordiamo e mai ci scorderemo quando siamo stati soccorsi in mare dalle autorità italiane, quando abbiamo rischiato la vita in cerca di un posto sicuro e libero. Se il centro dove viviamo dovesse chiudere, non sarebbe un danno solo per noi, ma per l’intero senso di civiltà dell’Italia, per i diritti di tutti di poter vivere in sicurezza ed in libertà. Il quartiere è di tutti e vogliamo vivere realmente in pace con gli abitanti. Per questo motivo non vorremmo andarcene e restare tutti uniti perché da quando viviamo qui ci sentiamo come una grande famiglia che nessuno di noi vuole più perdere, dopo aver perso già tutto quello che avevamo».

Corriere 15.11.14
La coordinatrice del centro salita sulle barricate
«Costretta a sbarrare la porta ai miei ragazzi»

«Sono tornati al centro perché non volevano separarsi dai volontari che li avevano assistiti. E anche perché volevano parlare con gli abitanti di Tor Sapienza. Chiedere loro perché li hanno mandati via». Gabriella Errico, 43 anni, è la responsabile del centro d’accoglienza di viale Morandi. Dirige la cooperativa Un Sorriso e si occupa della valutazione dei progetti Sprar sui rifugiati. È lei che sta gestendo la crisi in prima persona. Ha denunciato le minacce di morte subìte dai migranti che vivevano nella struttura e ha organizzato le barricate al pianterreno per respingere gli assalti. Ma ieri mattina Errico ha anche dovuto sbarrare la porta ai 17 minori fuggiti dal centro all’Infernetto per tornare a Tor Sapienza. «Qui non potete entrare!», ha gridato ai ragazzi con un groppo in gola. «Non era possibile — dice ancora — così li ho accompagnati all’assessorato alle Politiche sociali per trovare una soluzione che non portasse a nuovi scontri». E comunque, sottolinea, «il fatto che fossero tornati è la conferma che, al contrario delle accuse di maltrattamento, i ragazzi si sentivano assistiti nel migliore dei modi. Ci hanno detto di tutto, perfino che li affamavamo, ma non è vero niente». (r. fr.)

Repubblica Roma 15.11.14
Le lacrime di Huzeyfa scampato alle tortur

“Braccato anche qui, devo fuggire ancora”
intervista di Cecilia Gentile


«TUTTA la mia vita ho dormito con le scarpe ai piedi, pronto a fuggire. Speravo di essermi lasciato il passato alle spalle. E invece adesso ho ripreso a dormire con le scarpe ai piedi, ancora pronto a fuggire».
Piange Huzeyfa, lacrime che non vogliono fermarsi. Fuori dal centro di accoglienza profughi nel quale vive dal settembre 2013 sembra tornata la quiete, ma c’è il cordone dei blindati. Lui, con gli altri maggiorenni rimasti nell’edificio, si trova in un gigantesco e freddo stanzone al quale i dipinti colorati alle pareti cercano inutilmente di dare un po’ di calore.
Quanti anni hai Huzeyfa, da dove vieni?
«Ho 21 anni, sono scappato dall’Etiopia ».
Cosa pensi di quello che sta succedendo nel quartiere?
«Non ci capisco niente. Perché ce l’hanno con noi? Sono quattro notti che non dormo. Siamo terrorizzati. Mi chiedo cosa faranno se entrano... e cosa faremo noi...».
Perché sei scappato dall’Etiopia?
«Perché sono stato carcerato senza un processo, picchiato, torturato ».
Ma perché ti hanno messo in prigione?
«Perché faccio parte del popolo Oromo, 45 milioni del totale della popolazione, che è 75 milioni di persone. La nostra etnia è schiacciata dall’altra etnia dominante, gli Amhara. E’ per questo che si è formato l’Olf, l’Oromo liberation front, che chiede l’indipendenza della regione degli Oromi. Questo partito è vietato».
Tu facevi parte dell’Olf?
«No, ma a scuola io e altri studenti avevamo formato un gruppo per tenere viva e diffondere la cultura e la storia degli Oromo. Organizzavamo incontri, proiezioni e raccoglievamo fondi per finanziare l’Olf. La stessa cosa facevano altri comitati studenteschi. Una volta abbiamo raccolto 17mila dollari. Eravamo tutti riuniti. La polizia ha fatto irruzione e ci ha arrestato».
Cosa ti è successo?
«Mi hanno frustato con cavi elettrici, mi hanno percosso con bastoni sotto la pianta dei piedi, colpito con il calcio del fucile. Mi hanno portato in un grande carcere, Ganale. Ci sono rimasto per 22 giorni, poi sono fuggito attraverso un tunnel che altri avevano scavato nei giorni precedenti. Mentre scappavamo le guardie ci sparavano dietro» Huzeyfa si interrompe e piange. «Un mio amico è stato colpito, è caduto, mi è morto accanto».
Cosa hai fatto una volta fuggito?
«Non potevo tornare a Robe, la mia città. La polizia aveva già arrestato mio padre e mio fratello perché io ero scappato, dovevo lasciare il paese. Mio zio mi ha accompagnato fino al confine con il Sudan, poi sono rimasto solo».
Come ti sei mosso?
«Ho dato 700 dollari ai trafficanti perché mi portassero in Libia attraverso il Sahara. Qui ho lavorato quattro mesi come muratore e cuoco. Ho messo insieme 600 dollari per salire su un gommone e arrivare in Italia. Ma eravamo senza gps, la benzina è finita, siamo stati circondati dalle forze libiche che ci hanno riportato indietro. Sono stato in carcere due mesi a Tripoli, poi sono scappato con altre 300, 400 persone. I militari sparavano, noi correvamo. Mi hanno ripreso, sono scappato ancora. Stavolta sono riuscito a raggiungere Tripoli. Ho incontrato lo stesso scafista, che mi ha portato gratis: 64 persone in un gommone. Ci hanno salvato quelli di Mare Nostrum, ci hanno portato a Pozzallo. Da lì fino a qui, a Roma».
Come immagini il tuo futuro Huzeyfa?
«Non riesco ad immaginarlo... cerco ancora la mia strada».

Corriere Roma 15.11.14
Una sfida alle coscienze
di Eraldo Affinati


Da Corcolle a Tor Sapienza monta la rivolta contro gli stranieri: vogliamo davvero credere che i recenti scontri nelle borgate romane si possano liquidare così? Secondo questa interpretazione basterebbe spostare i centri di prima accoglienza da una parte all’altra della città per risolvere i conflitti, come se il gigantesco movimento di popoli a cui stiamo assistendo fosse una semplice patata bollente da gettare via, il più lontano possibile, chissà dove, per non scottarsi troppo. Diciamo piuttosto che la presenza degli arabi, dei rumeni, degli africani, degli asiatici in certe zone della Capitale scopre in modo impietoso il degrado delle nostre periferie. Ecco perché chi strumentalizza la rabbia dei cittadini, senza esitare a raccogliere consenso rimescolando nel torbido, non è poi così distante dai malfattori che nei giorni scorsi hanno aizzato la folla, armati di bastone, contro i rifugiati e i minori non accompagnati di viale Giorgio Morandi. La periferia è il motore propulsivo di Roma, eppure viene considerata spesso come una riserva indiana. Così fa presto a scoppiare la guerra fra poveri. I quali forse non sanno di assomigliarsi assai più di quanto credano. Mohamed ha sedici anni, vorrebbe fare il pizzaiolo, anche se non parla italiano. è venuto da noi senza neppure sapere bene perché. L’hanno inviato qui i genitori affinché possa mandare soldi a casa, laggiù, in quel villaggio sul Delta del Nilo. Stefano ha la medesima età: la famiglia, abbastanza dissestata, non può seguirlo più di tanto, lui è cresciuto al Prenestino, a scuola andava male, infatti l’ha già abbandonata, trascorre il pomeriggio insieme a qualche coetaneo sotto la veranda di un vecchio bar. Se i due adolescenti giocassero nella stessa squadra di calcio, magari sarebbero amici, ma nelle condizioni in cui vivono stanno uno contro l’altro: il primo osserva dalla finestra della stanza in cui l’hanno confinato i cassonetti incendiati e stenta a capire che la folla inferocita ce l’ha proprio con lui; il secondo impugna il bastone gridando frasi insensate in mezzo ai rivoltosi. Le solitudini lancinanti di Mohamed e Stefano dimostrano, come meglio non si potrebbe, quanto cammino debba ancora essere fatto, sia a livello istituzionale, sia come coscienza collettiva, per trasformare le politiche sull’immigrazione. Non siamo certo di fronte a una mera questione d’ordine pubblico. Si tratta di una sfida epocale, di natura antropologica, che chiama in causa i valori in cui crediamo. C’è un lavoro umano da compiere. Riguarda tutti noi.

Repubblica 15.11.14
La latitanza della politica
di Gad Lerner

LE PERIFERIE metropolitane sfiancate dalla povertà materiale e dalla miseria culturale, nei loro sussulti di rancore rivelano l’emergere di brandelli di società imperscrutabile, da cui non solo la politica ma anche le istituzioni dello Stato mantengono una distanza intimorita .
RIVELANO un’impotenza dell’autorità costituita che già si manifestò simbolicamente lo scorso 3 maggio allo stadio Olimpico della capitale, quando le massime autorità rimasero mute in tribuna di fronte alle gerarchie misteriose della tifoseria organizzata. Neanche un formidabile comunicatore come Renzi, in quella occasione, si azzardò a tentare un impossibile contatto con quel magma. Un’incandescenza che vedemmo riprodursi nel rione Traiano di Napoli dopo l’uccisione del diciassettenne Davide Bifulco. Che tracima sempre più spesso nei quartieri degradati, alla ricerca di bersagli contro cui scagliarsi, utilizzando codici di appartenenza estranei alle ideologie del passato.
A Tor Sapienza se la prendono con lo straniero, non importa se minore fuggiasco da guerre che ormai ci lambiscono. La guerra fra poveri ha bisogno di nemici ravvicinati. Li mitizza — che si tratti del rom, dell’occupante abusivo o dello stupratore — attribuendogli privilegi inverosimili: l’intruso, colpevole di apparire corpo estraneo, godrebbe di cospicui sussidi economici, negati ai cittadini in difficoltà. Falso, esagerato, ma necessario per alimentare il senso di un’ingiustizia riversata sulle maggioranze a vantaggio delle minoranze estranee.
Non siamo alle prese con una violenza politica organizzata, perfino un piromane dell’odio razziale come Borghezio ha preferito insinuarsi con cautela, ieri, ai margini della protesta. Mentre il sindaco Marino espleta un fugarante ce, tardivo atto di presenza — doveroso, certo — ma che non può esaltare nient’altro se non l’impossibilità del dialogo. Marino appare e scompare tra la gente di Tor Sapienza, come già fece il sindaco Doria prendendo insulti fra gli alluvionati di Genova. Come il napoletano De Magistris silenziosamente presenziò a Scampia il 27 giugno duassoluta. i funerali di Ciro Esposito, vero e proprio raduno nazionale di questa “altra società” gerarchizzata in bande che dallo stadio fuoriescono esibendo un controllo territoriale sfuggito alle istituzioni.
Stiamo parlando infatti di territori, dalle case popolari degradate agli hinterland dove i centri commerciali sono ridotti a emblema di un consumismo irraggiungibile, in cui prevale l’economia illegale e le affiliazioni di clan. L’estrema destra ha intuito le potenzialità aggregatrici offerte da questi non luoghi, dove il lavoro non condensa più classi sociali omogenee, e la nozione di plebe infuriata torna a affermarsi prepotente.
Sono gli effetti di una crisi che dal 2007 ha più che raddoppiato le cifre della disoccupazione giovanile e il numero delle persone alle prese con una condizione di povertà Tor Sapienza, così come le periferie di Milano e Torino, sono il luogo della sconfitta della politica come fattore di civiltà. A Tor Sapienza, con la cacciata di 36 ragazzi in fuga dalla guerra — e invano ieri 14 di loro hanno cercato di fare ritorno al centro di via Morandi — si è consumata una sconfitta umiliante non solo dello Stato ma della nostra civiltà. Tutto il resto viene dopo: l’inopportunità di concentrare in un quartiere difficile il ricovero di troppi immigrati, la mancata pianificazione razionale, l’incuria prolungata dei servizi pubblici, le conseguenze drammatiche dei tagli di spesa. Vero, ma non basta a giustificare il misfatto. Resta l’amara constatazione di una metamorfosi compiuta, di una società precipitata nell’imperscrutabile.

Repubblica 15.11.14
Giuseppe De Rita
Il sociologo dopo gli scontri a Tor Sapienza “Roma rischia oggi ciò che è accaduto nelle banlieue di Parigi. E per alcuni politici quello è addirittura l’obiettivo”
“Mai visti nella capitale questi conflitti etnici se si pensa solo al centro le periferie si ribellano”
intervista di Simonetta Fiori


“Ci si concentra sulla pedonalizzazione, che piace agli intellettuali, ma poi si trascurano le borgate
C’è un universo di violenza che sta tra l’estrema destra e il tifo ultrà, lasciato libero per anni, che ora lancia la sfida
Sbagliato mettere in un calderone gli assalti anti-migranti e i precari in piazza.
Ma in Italia manca la coesione sociale”

ROMA «Finora a Roma non c’erano mai stati conflitti etnici nelle microaree: questo è l’aspetto nuovo e preoccupante. Oggi rischiamo di vedere nella capitale quel che era accaduto tempo fa nelle banlieu di Parigi. Per alcuni questo è l’obiettivo». Giuseppe De Rita analizza le tensioni sociali a Roma e nel paese.
È la prima volta che succede?
«Nella cultura italiana la prossimità vince sulla differenza. E noi con bangladeshini ed egiziani, cinesi o rumeni abbiamo una consuetudine senza tensioni. Se esco di casa per andare a comprare i mandarini non mi pongo il problema che a venderli sia un egiziano o un tunisino. Questa relazione che io definisco “di prossimità” è saltata. Ed è la prima volta che succede nella microarea: da luogo della prossimità è diventata arena del conflitto».
Qui dovrebbe intervenire la politica che è mancata totalmente.
«Se al disagio sociale cresciuto nei casermoni aggiungo altro disagio estremo non faccio che buttare benzina sul fuoco. Il problema è che Roma — non solo Roma, per la verità — è amministrata dall’alto, con una cultura di vertice. E ci si è concentrati di più sulla pedonalizzazione del centro storico — via del Babuino o i Fori — che sulle periferie. Per carità, agli intellettuali e al romano medio la cosa è piaciuta molto, ma Roma non è solo grande bellezza. E questo ha allontanato la politica dalle periferie. E invece è necessario un governo accurato delle microaree, proprio per evitare che la situazione degeneri. Ed esploda nella maniera che abbiamo visto in questi giorni: non era mai accaduto che le periferie del disagio aggredissero la polizia. Succede perché c’è una doppia esclusione su cui si innesta un’altra componente non trascurabile ».
Quale?
«Un universo di violenza che sta tra la politica di estrema destra e il tifo calcistico ultrà. Questa componente è stata lasciata libera in questi anni. È cresciuta, si esibisce nelle periferie, sfida le forze dell’ordine. Mette insieme cose diverse, la voglia di fare a botte e l’idea di creare una base politica, coltivata da varie case, casette, centri e associazioni. Una sorta di nuova destra antagonista».
La politica o manca
completamente oppure cerca di cavalcare la rabbia.
«Sono gruppi che tentano di soffiare sul fuoco. Poi arriva Salvini da Milano per annusare l’aria che tira tra rancore e disagio».
La politica è mancata anche nel permettere che la città crescesse male.
«Sì, Roma è costruita male. Nelle sue periferie finisce per incubare disagio, violenza e un’antropologia di “esagitazione”. Ogni tanto mi capita di farci un salto — nel quartiere Caltagirone, a Tor Bella Monaca, all’Acqua Bullicante — ed è una desolazione totale. Parlo con i parroci, che non sanno niente degli abitanti. Si ritrovano tra loro solo in rosticceria o — i delinquenti — a spacciare per strada. Roma è anche una città completamente ferma: non mi era mai capitato di vedere così tante serrande abbassate, e quelli erano i negozi che davano lavoro agli immigrati. Inoltre la città non è governata e il disagio si percepisce ovunque, non solo a Tor Sapienza. M’incavolo anche se devo aspettare l’autobus un’ora e mezza a San Giovanni, non solo in periferia ».
Roma metafora dell’Italia?
«Sì, può funzionare da paradigma per molte altre grandi città, costruite male o con servizi in declino. E vale anche come monito alla politica, che non guarda più la realtà per andare in cerca degli eventi. Bisogna stare con i piedi per terra. E come diceva papa Bergoglio quando ancora era cardinale a Buenos Aires: le opinioni non radunano, la realtà è».
Seppure di segno molto diverso, il disagio sociale è molto forte nel paese: solo ieri ci sono stati venti cortei tra studenti, operai, disoccupati, centri sociali.
«Per carità, non mettiamo in un unico calderone il conflitto etnicosociale di Tor Sapienza e le manifestazioni di piazza di lavoratori, precari e pensionati. Sono fenomeni molto diversi e vanno tenuti separati: il disagio estremo della periferia e il mondo del lavoro, composto da pensionati impauriti, precari e operai disoccupati. Rischieremmo di creare il “mostro”, che poi non riusciamo più a gestire ».
Giusto. Ma la diseguaglianza sembra arrivata a un livello tale da mettere a repentaglio ovunque la coesione sociale.
«Sì, l’Italia è un paese attraversato da una forte spinta alla diseguaglianza che viene da molto lontano, prima ancora della crisi industriale a Terni o a Taranto. Abbiamo perso quella dimensione di aspettativa positiva che avevamo coltivato sin dal dopoguerra. Mi costruisco la casa, mi costruisco l’azienda, esco fuori dalla povertà, mi compro la Tv e la macchina etc etc. È finito tutto, le aspettative vecchie completamente bruciate: perché comprarmi la casa caricandomi di rate se poi devo pagare le tasse? E aspettative nuove non ce ne sono. L’italiano medio oggi tende a risparmiare ».
Non puoi avere aspettative se non hai lavoro.
«Ma sono le aspettative che creano ricchezza e dunque le occasioni di lavoro. La società italiana è inerte, priva di vitalità, ha definitivamente rinunciato al desiderio. Il ceto medio s’è impoverito e prevale la cultura del precariato: ci si sente esclusi dal gioco, non si può più gareggiare. E in questa palude qualcuno vince l’inerzia e la noia producendo violenza e tensione ».
Ma siamo a rischio di esplosione sociale?
«No, non bisogna enfatizzare. Non siamo negli anni Cinquanta con le manifestazioni dei braccianti e degli operai Fiat. Le classi sono finite con la cetomedizzazione della società italiana, negli anni Settanta. E ora le dinamiche sono completamente diverse. Oggi è cresciuto il meccanismo della disuguaglianza e il disagio è molto diffuso: ma questo deve essere curato dalla politica».

Repubblica Roma 15.11.14
Pakistano ucciso a Torpignattara I giudici: “Daniel lo ha massacrato per non deludere suo padre”
Resta in carcere il genitore del 17enne accusato dell’omicidio di Shahzad Avrebbe anche minacciato i vicini che l’avevano sentito urlare: “Ammazzalo”
di Federica Angeli e Francesco Salvatore


HA UCCISO un uomo per non deludere il papà. Lo ha colpito con un pugno al volto e poi preso a calci perché il papà era questo che gli chiedeva di fare. «Daglie du’ pizze, caccialo via sto deficiente, sto testa di cazzo. Sfondalo, gonfialo». Questo gridava dal balcone Massimiliano Balducci al figlio minorenne lo scorso 18 settembre in via Ludovico Pavoni, Torpignattara. Ed è proprio questo atteggiamento di istigazione alla prepotenza e alla violenza che ha fatto respingere al Tribunale dei Riesame le obiezioni dei difensori di Balducci. Resta in carcere dunque, con la pesante accusa di concorso morale in omicidio col figlio, Daniel.
L’omicidio è quello di Muhammad Shahzad Khan, un pakistano di 30 anni, che quel pomeriggio di settembre ha commesso due errori. Il primo cantare in strada mentre Balducci riposava. Il secondo: sputare al diciassettenne quando, dalla finestra, il padre gli ha lanciato una bottiglietta d’acqua. Quanto ricostruito dal pubblico ministero Mario Palazzi e sot- dai giudici del Riesame, sono attimi di brutalità allo stato puro. Sequenze di orrore, maleducazione, cattiveria, tramandate dal padre al figlio. Scene di violenza, prima verbale e poi fisica, usata come «strumento legittimo ed anzi obbligatorio per risolvere situazioni conflittuali ». Ed è stato quel tipo di “educazione” che ha spinto il diciassettenne a reagire in quel modo, fino a uccidere il pakistano. Così le esortazioni del padre sono state la miccia che ha fatto esplodere la rabbia dell’adolescente, che, secondo il Riesame «ha agito con una violenza inaudita, si è sentito in obbligo di farlo per non deluderlo».
Nella sentenza con cui i giudici della Libertà hanno lasciato in carcere l’uomo, con l’accusa di concorso morale in omicidio, aggravato dai futili motivi, il ruolo cardine del genitore è sottolineato in ogni passaggio. E’ lui ad avere istigato il figlio ad uccidere Muhammad Shahzad Khan, con il proprio atteggiamento ostile nei confronti del pakistano. E il ragazzo, che camminava in strada quando ha sentito il padre minacciare e ingiuriare la vittima si è sentito in obbligo di dare corso a quanto richiesto, e a prenderlo a pugni e calci. L’uomo, infatti, era infastidito dalla litania che il pakistano stava continuando a ripetere a voce alno ta in via Ludovico Pavoni. Da casa sua aveva già provato poco prima a lanciargli una bottiglia d’acqua piena per cacciarlo. Il lancio, però, non era andato a segno e allora lo aveva iniziato a insultare: «A testa di cazzo, vattene ». In quel momento era arrivato il figlio, che raccolti i dettami del padre, ha agito.
Ad aggravare la posizione di Massimiliano Balducci un’altra incredibile circostanza. Dopo il pestaggio del figlio, scese in strada e si avvicinò al cadavere della vittima, stesa in strada con sangue che gli usciva dalla testa. Ma invece di preoccuparsi per quanto combinato dall’adolescente, come una furia, sfondò a calci il portone del palazzo accanto al suo e tentò di buttare giù la porta di casa dei vicini che avevano osato gridare dal balcone al figlio di smetterla di picchiare quel giovane pakistano. «Il fatto grave per lui — sottolinea il tribunale del riesame — non era la morte di un uomo massacrato di botte, ma che due persone avessero cercato, dalla loro abitazione, di indurre il ragazzo a fermarsi e lo avevano persino rimproverato».
«Spieinfami»,gridaval’uomo fuori dalla porta di casa «scennete giù che ve sfonno. Viettela a prende co’ me invece che co’ mi fijo». Un atteggiamento ostile e minaccioso anche nei confronti di persone perbene che, di fronte a tanta violenza, hanno avvertito le forze dell’ordine, cercando di impedire quel dramma. Persone che, per paura di ritorsioni anche degli altri parenti che abitano in quella strada, non solo hanno spostato la figlia dall’asilo, ma hanno scelto di andare ad abitare da un’altra parte. In un quartiere dove, forse, se si fa il proprio dovere di cittadino, non si rischia di essere chiamati “infami” né si deve vivere col terrore di ritorsioni.

Corriere Roma 15.11.14
Pakistano ucciso, minacce ai testimoni
Tor Pignattara: la coppia che ha accusato il diciassettenne costretta a cambiare casa
Via dall’asilo la figlia della coppia
di Giulio De Santis


I testimoni chiave che hanno incastrato il 17enne assassino di Muhammad Shahzad Khan, il 28enne pakistano ucciso a calci e pugni la sera del 20 settembre a Tor Pignattara, hanno dovuto cambiare casa e trasferire la figlia in un altro asilo. Colpa, come scrive il tribunale del Riesame, delle minacce ricevute dal papà dell’assassino, intenzionato a coprirne le responsabilità, e del clima intimidatorio nella zona.
ostretti a cambiare casa per aver svolto senza incertezze il dovere di testimoni oculari dell’omicidio di Muhammad Shahzad Khan, il 28enne pakistano ucciso la sera del 20 settembre a Tor Pignattara da D. – 17 anni - su istigazione del padre. Ad aver causato la scelta obbligata di una coppia di conviventi del quartiere sono stati due fattori. Innanzitutto, le minacce ricevute dal papà dell’assassino, intenzionato a coprire in qualunque modo le responsabilità del figlio. Un’influenza decisiva nella fuga, però, l’ha esercitata anche il clima della zona.
A raccontare il dramma della coppia sono i magistrati del Tribunale del Riesame chiamati a decidere sulla richiesta di scarcerazione avanzata dai legali dell’uomo, arrestato il 14 ottobre con l’accusa di concorso in omicidio volontario per aver spinto il figlio a colpire a morte Khan. L’uomo, secondo il pm Mario Palazzi, avrebbe istigato il figlio a uccidere il pakistano perché urlava ad alta voce per le vie del quartiere alle 11 di sera: rimane in carcere insieme col figlio, come ha deciso il collegio presieduto da Gian Luca Soana.
Ma questo non è bastato a tranquillizzare i due giovani, che ormai vivono nel terrore di subire le vendette della famiglia. «Siamo testimoni di questa cosa, siamo minacciati, li abita la famiglia, la nonna di fronte, lo zio accanto», dice la donna a un’amica in un’intercettazione. La paura ha convinto la coppia a spostare la figlia in un altro asilo per proteggerla dal pericolo di ritorsioni. Nell’ordinanza del Tribunale i giudici lodano il «senso civico» dei conviventi: entrambi «non hanno ricavato alcun vantaggio da questa vicenda, ma «anzi hanno subito un danno». La coppia ha anche cercato di salvare la vita al pakistano intervenendo mentre il ragazzo lo picchiava «con calci alla tempia, al collo, alle spalle». Il motivo che ha indotto il 17enne a uccidere l’uomo è nato - scrivono nelle motivazioni i giudici del collegio - dalla volontà del ragazzo di «non deludere il padre», che lo incitava a colpire con violenza Khan.

La Stampa 15.11.14
Boldrini: “La politica latita e pagano i più fragili gli immigrati e le periferie”
La presidente della Camera: serve sicurezza per tutti
intervista di Andrea Malaguti

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il Fatto 15.11.14
Cose di sinistra
Case popolari addio. Arriva il decreto per metterle all’asta
In Italia si lotta per un alloggio, ora regioni e Comuni potranno vendere quelli pubblici “a prezzi di mercato”
di Marco Palombi


La storia dell’edilizia residenziale pubblica italiana è una storia di fallimenti: non è un caso che lo storico Guido Crainz l’abbia assunta a emblema della sua descrizione del Paese mancato, quello che s’è rifiutato di governare la sua modernizzazione. Il primo che tentò di dare una soluzione coerente al problema fu Fiorentino Sullo, democristiano irpino della sinistra Dc, ai tempi del “centrosinistra di programma” guidato da Amintore Fanfani: ebbene la sua legge urbanistica fu osteggiata in maniera tanto violenta che lui stesso raccontò che a casa, per Natale, i parenti gli chiedevano se era vero che voleva espropriargli la casa. Ne venne fuori una riforma fiacca (la legge 167), che seppure con mille difetti portò a un incremento dell’edilizia pubblica, le “case popolari”.
EBBENE, tra poco quella storia arriverà metaforicamente alla fine. La Conferenza Stato-Regioni, infatti, si appresta – probabilmente alla prima data utile – ad approvare un decreto attuativo emanato il 27 agosto dal ministero delle Infrastrutture che disciplina la messa in vendita di tutte le case popolari ex Iacp e di enti vari oggi in mano a regioni ed enti locali: gli immobili andranno valutati “al valore di mercato” e messi all’asta a cominciare da quei complessi in cui la proprietà pubblica è inferiore al 50%. L’unica facilitazione per gli inquilini, se così si può dire, è che potranno comprarsi il loro appartamento pareggiando l’offerta vincitrice dell’asta: se si muoveranno grandi gruppi immobiliari, la cosa potrebbe prendere una brutta piega per famiglie (spesso di pensionati) che evidentemente non hanno grandi mezzi economici (altrimenti non sarebbero inquilini di case popolari). Attacca Angelo Fascetti dell’Asia-Usb, l’associazione degli inquilini dell’Unione sindacale di base (Usb): “Il governo Renzi-Lupi avvia un processo di cancellazione definitiva di quel poco che resta dell’edilizia residenziale pubblica e questo accade in un Paese dove l’unico segmento carente del mercato abitativo è proprio quello dell’alloggio a canone sociale e calmierato. Guarda caso – sostiene il sindacalista – proprio in questi giorni è partita una feroce campagna mediatica contro le case popolari, a Milano e altrove, che partendo dalla denuncia del fenomeno delle occupazioni, favorito da una colpevole mancanza di gestione del patrimonio, prepara il terreno alla totale privatizzazione dell’edilizia pubblica per favorire ancora la speculazione immobiliare e la rendita”.
VA DETTO che le regioni (cui spetta la competenza sulle politiche per la casa) possono rifiutarsi di applicare “il metodo Lupi” – il Friuli Venezia Giulia, ad esempio, ha già fatto sapere che non lo farà –, ma il dato simbolico resta: il decreto che consente di vendere “al valore di mercato” i circa 770 mila alloggi di edilizia popolare arriva proprio mentre i nuovi tagli ai trasferimenti costringono regioni e comuni a recuperare risorse in ogni modo. D’altronde tra i settori più colpiti in questi anni di tagli ci sono proprio le “politiche abitative” e ora il governo “consiglia” a sindaci e governatori di vendersi le case popolari e finanziare così “nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica” o una “manutenzione straordinaria del patrimonio esistente” (e magari poi venderlo).
Peraltro pure la consistenza economica non è certa: il Tesoro, dati del 2010, quantificava il valore dell’intero stock delle “case popolari” (900 mila appartamenti compresi quelli di “edilizia privata sociale”) in circa 150 miliardi, Federcasa invece lo valutava meno della metà. D’altronde, ha spiegato Raffaele Lungarella su lavoce.info, “anche ipotizzando che il prezzo incassato dalla vendita di un alloggio sia sufficiente a coprire i costi per la costruzione di uno nuovo, l’offerta non crescerebbe affatto, considerato che l’inquilino che non acquista deve essere spostato in un’altra casa di proprietà pubblica”. Certo, l’altra opzione è buttarlo in mezzo a una strada, ma sarebbe un comportamento un po’ rischioso per chi voglia presentarsi ad altre elezioni.
L’unico dato certo, infatti, è che l’Italia è uno dei paesi europei più ricchi – assieme alla Spagna – con la minor percentuale di edilizia popolare pubblica: forse anche per questo la percentuale di chi decide di stare in affitto è così bassa (meno del 19% contro una media Ue di oltre il 28). Secondo dati Eurostat del 2011, in Italia solo il 5,3% delle famiglie (pari a circa 1,3 milioni di nuclei su 24,9 totali, di cui 4,7 in affitto) beneficia di forme di sostegno per la casa contro il 7,7% europeo che però diventa il 17% in Francia, il 18% in Gran Bretagna, il 32% nei Paesi Bassi. La situazione dal 2011 è peraltro peggiorata: molti paesi europei, allo scatenarsi della crisi, hanno lanciato nuovi programmi di edilizia pubblica, l’Italia li ha solo annunciati.

il Fatto 15.11.14
Napolitano
Un presidente bianco in campo bianco
di Massimo Fini


CHE GIORGIO Napolitano, nonostante le pressioni di Renzi, abbia l'urgenza di lasciare al più presto è cosa ovvia. Il Tempo, il padrone inesorabile delle nostre vite, non fa sconti a nessuno e benché Napolitano non abbia fatto una sola ora di lavoro nella sua lunga vita e non abbia quindi svolto alcuna attività usurante se non per il suo didietro che si è strusciato su ogni possibile cadrega, 90 anni son pur sempre 90 anni.
Se il Financial Times ha potuto scrivere che Napolitano è “una personalità che svetta nello scenario italiano” ciò dice di per sé della mediocrità della nostra attuale classe dirigente. Per 80 dei suoi 90 anni di vita Napolitano è stato un personaggio inesistente, una suppellettile del comunismo italiano, notato solo per la sua irrilevanza. “Coniglio bianco in campo bianco” lo aveva definito impietosamente qualcuno. È nato vecchio, “nu guaglione fatt’a vecchio” aveva detto di lui lo scrittore Luigi Compagnone. Non è mai stato giovane e anche questo spiega la sua longevità non solo politica. Mentre i suoi compagni di liceo giocavano al pallone, lui partecipava ma stava a guardare. Per tutta la vita è stato a guardare. Anche, se non ci si fa suggestionare dalle apparenze, negli otto anni e mezzo del suo doppio mandato.
La cosiddetta destra lo ha dapprima avversato perché lo riteneva comunista (ma andiamo) e artefice del “golpe” che avrebbe fatto fuori Berlusconi, poi lo ha rivalutato quando, sia pur con gran circospezione, ha ricevuto al Quirinale il Detenuto. La cosiddetta sinistra l’ha sostenuto perché lo sapeva innocuo. Il Fatto Quotidiano ne ha fatto un bersaglio “da tre palle un soldo” soprattutto per quel suo monitar urbi et orbi, contemporaneamente a destra e a manca, riuscendo così a non dir nulla.
Ma questo è in perfetto “stile Napolitano” di sempre. Secondo me è stato un buon presidente della Repubblica perché chi ricopre quel ruolo deve essere come l’arbitro delle partite di calcio: meno lo si nota e meglio è. Il “coniglio bianco in campo bianco” ci ha provato a rimanere tale, sono stati i partiti e soprattutto i media a creare un personaggio inesistente e che senza il loro apporto non sarebbe mai esistito: Re Giorgio.
Adesso si tratta di scegliere un nuovo presidente della Repubblica che rappresentando l'unità della Nazione dovrebbe essere super partes, cioè di nessuna parte. Ma un soggetto del genere è introvabile in Italia.
ANCHE nel mondo della cosiddetta “intellighenzia” dove tutti, per opportunità di carriera, si sono messi al traino di qualche partito. Forse bisognerebbe pescare in quel che resta del nostro mondo artistico. Un Riccardo Muti che “ha bene meritato della Patria” in Italia e all’estero sarebbe l’ideale. Ma a parte che difficilmente il Maestro lascerebbe il suo affascinante mestiere per i polverosi stucchi del Quirinale, il Parlamento dei partiti non ha nessun interesse né la creatività e l’audacia per una soluzione del genere. Staremo quindi a vedere. Spero che Grillo non si incaponisca su Stefano Rodotà, che oltre ad avere 81 anni, ha attraversato l’ultimo trentennio ben imbozzolato nel Pci-Pds-Ds, un radical chic che nulla a che vedere, per quel che li conosco io, col mondo dei grillini. La sola cosa certa è che per l’elezione del nuovo capo dello Stato sarà indispensabile l’apporto del Detenuto. Una cosa che può accadere solo in Italia. Un Paese irredimibile. Per rifondarlo ci sarebbero così tante cose da fare che ormai non c’è più nulla da fare.



il Fatto 15.11.14
Lo show delle Femen a San Pietro e la morte del femminismo
di Caterina Soffici

SECONDO UN SONDAGGIO INGLESE LA PAROLA-SIMBOLO VA ORMAI ABOLITA. I ‘”DANNI” DELLE INTEGRALISTE A SENO NUDO

Londra Il settimanale Time sta conducendo un sondaggio online tra i suoi lettori. Propongono di scegliere la parola da vietare per il 2015 in una lista di vocaboli divenuti insopportabili, perché abusati, superati, insulsi o inutili. Il risultato verrà pubblicato sull’edizione del magazine di mercoledì. Ma online la tendenza è già chiara: ieri sera il 49% dei votanti aveva scelto la parola che non vorrebbero più sentire: “femminista”.
COSA HA FATTO il femminismo per finire nella lista dei “rinnegati”? Chi ha votato dice che non ha nulla “contro il femminismo in sé”, ma contro l’abuso del termine. “Da quando lo hanno fatto diventare una dichiarazione politica, sulla quale ogni celebrità deve prendere posizione e dire se si dichiara femminista o no. Atteniamoci ai problemi e non sprechiamoci in chiacchiere” è il succo della questione.
Femminista è diventata una parolaccia? Il dibattito è aperto da tempo, ma ultimamente sembra veramente un tema caldo. Solo per restare al Regno Unito, il leader laburista Ed Miliband e il vicecapo del governo Nick Clegg hanno sentito il bisogno di apparire in tv indossando magliette con la scritta “Io sono femminista” (per poi scoprire che erano fabbricate da schiave bambine, con gaffe galattica).
L’attrice britannica Emma Watson (la Hermione di Harry Potter), 24 anni, nel discorso tenuto all’Onu il mese scorso come ambasciatrice dei diritti delle donne ha sentito la necessità di dire: “Femminismo non è una brutta parola. Io lo sono da quando ho 14 anni e i giornali hanno iniziato a descrivermi come un oggetto sessuale”. Si chiedeva la Watson, di fronte alla platea del Palazzo di Vetro: “Le donne rifiutano di identificarsi come femminista. Perché è diventata una parola tanto scomoda? ”.
PERFORMANCE come quella delle Femen ieri a Piazza San Pietro possono essere una parte della risposta. Le Femen si presentano come un “gruppo femminista radicale” che lotta per la liberazione delle donne dalla schiavitù sessuale, dal sessismo, dall’omofobia, in difesa della laicità dello Stato contro le ingerenze del Vaticano. Ieri per difendere questi valori si sono presentate nella solita mise: tette al vento, scritte sul corpo (“Il Papa non è un politico”), hanno mimato un rapporto sessuale con un crocifisso, inginocchiate sul sagrato di San Pietro.
Un balletto in stile Miley Cyrus, più pornografico che iconoclasta, per protestare contro la visita del pontefice al Parlamento europeo prevista per il 25 novembre.
Lo show è finito come da copione, con l’arrivo della polizia eccetera eccetera. Niente di nuovo, performance scontata e controproducente, al punto che sulle Femen ormai si dice di tutto, addirittura che siano prezzolate da gruppi di estrema destra, proprio per rinserrare le file tra gli adepti.
Il problema è che le Femen nuocciono gravemente alla causa delle donne. Se le istanze femministe devono essere appannaggio di un pugno di svalvolate, che si sentono le sentinelle della militanza contro il potere dei maschi oppressori (Putin, il Papa o chi per loro), meglio seguire il consiglio del sondaggio di Time: cancelliamo il femminismo dal nostro lessico.
Però non facciamolo. Almeno non finché le donne continuano a essere discriminate, pagate meno, molestate per strada e uccise dai propri partner dentro le mura di casa. Finché non saranno più vendute come spose. Non saranno più vittime di mutilazioni genitali, usate come oggetti sessuali, lapidate, impiccate. Quando le ragazze potranno stare su Internet senza diventare prede sessuali e ricevere minacce di morte, insulti e bullismi. Solo allora si potrà smettere di usare la parola “femminista”.

Repubblica 15.11.14
E adesso “Time” vuole buttare la parola femminismo
È finita nel concorso che ogni anno la rivista indice sull’espressione più abusata
di Elena Stancanelli


“Cantanti e attrici la sfoggiano ormai in ogni intervista” In Rete c’è che si indigna. Ma i lettori votano: ha stufato

OGNI anno la rivista Time indice il concorso per la parola più insopportabile, più abusata, quella che si vorrebbe veder bandita per sempre dall’uso comune. Pubblica una lista di candidate, e poi chiede ai lettori di votare. Quest’anno nella lista c’è la parola “femminismo”. Non abbiamo niente contro il femminismo, hanno spiegato dopo aver scatenato l’inferno, è la parola il problema e il modo in cui è stata usata. In particolare da tutte quelle cantanti, attrici, donne famose a vario titolo che la sfoggiano ormai in ogni intervista, esibendo il proprio impegno come un gioiello. Esprimendosi senza competenza l’hanno distrutta, banalizzata, resa insopportabile.
Si riferiscono prima di tutto a Beyoncé, che ha campionato le parole del Ted talk di Chimamanda Adiche nella sua canzone, “Flawless”, usandole anche come sfondo dei suoi concerti. Quelle dove la scrittrice nigeriana si chiede perché si insegni ancora alle ragazze a considerare il matrimonio un obiettivo, mentre l’obiettivo che ai maschi si insegna di rincorrere è un buon lavoro, che consenta successo e denaro. E poi a tutte le altre — Taylor Swift, Lena Dunham, Lady Gaga, Miley Cyrus... — che si sono espresse non proprio richieste sull’ortodossia o le specificità del proprio femminismo. Persino il discorso di Hermione/Emma Watson alle Nazioni Unite è stato incluso in un uso pop, e quindi irritante, del femminismo, tanto irritante da meritare appunto l’ostracismo. La rete si indigna, i social non ci stanno. Roxanne Gay, autrice di Bad Feminist, twitta «In quale universo è un problema che le celebrity supportino il femminisimo rendendolo popolare?». E ancora: «Non è che per caso quelli del Time stanno con Woman Against Femminism? (il famoso tumblr nel quale alcune donne si sono fatte fotografare con cartelli che spiegavano perché a loro non serviva il femminismo: perché mi piacciono gli uomini, amo i commenti sul mio corpo, cucinare le torte di mele...).
Ma mentre l’indignazione su Internet sale, e le giornaliste si affannano a spiegare perché non va bene bannare il femminismo, sia pure per gioco, i lettori di Time votano. Secondo le ultime proiezioni, la parola femminismo ha conquistato la prima posizione in classifica, staccando le avversarie “bae” (il nuovo “baby”), “kale” (fico) “om nom nom nom” (una specie del nostro “mmmmmm”, per significare che si sta mangiando qualcosa di buonissimo) e “literally”. Il 40% dei lettori di Time pensa che la parola da eliminare nel 2015 sia femminismo. Finora avevano vinto parole oggettivamente orribili, acronimi impronunciabili, neologismi senza alcun significato. Esclamazioni usate come interiezioni negli sms: LOL (Laugh Out Loud, che ridere) OMG (Oh My God) YOLO (you only live once, la vita è una sola). Nel 2014 aveva vinto “twerk”, la danza che consiste nello sbattacchiare il fondoschiena resa celebre da Miley Cyrus, Rihanna e Jennifer Lopez. Parole quindi, e anche bruttine.
Femminismo, scrivono gli indignati contro Time , non è una parola, è un’identità, un’ideologia, un credo politico. Non può essere liquidato come un fastidioso modo di dire, finire nel mucchio dei tic linguistici. È vero che quest’anno ha tirato il vento dell’impegno e alcune donne famose, di solito impegnate soprattutto a tener lisci e appuntiti gli zigomi, hanno sproloquiato a caso su pari opportunità e quote rosa. Può essere una cosa scema, ma male non fa. Bisogna accordarsi su un’unica linea di condotta: quelli famosi, aiutano o danneggiano le cause a cui aderiscono? È difficile capire perché tirarsi una secchiata di ghiaccio in testa, allo scopo di incrementare i fondi per la ricerca sulla Sla, sia giusto, e che Beyoncè balli di fronte a uno schermo su cui stanno scritte parole intelligenti, dovrebbe essere una catastrofe. Se Jovanotti scrive sul suo account twitter che Open di Agassi è un bellissimo libro, ne fa vendere migliaia di copie. Certo, sarebbe meglio che lo stesso risultato lo ottenesse una dotta recensione, ma anche il risultato e basta è qualcosa. Tra tutte le parole brutte che il nostro vocabolario ospita e la contemporaneità inventa, ci siamo scagliati tutti con insopprimibile violenza contro “femminicidio”. Perché lo scontro maschio/femmina è ancora il nodo delle nostre società. Da quella dialettica esplosiva nasce quasi tutta l’arte, la politica, per non parlare delle psico-patologie. È irrisolto, caldo, è la nostra rivoluzione possibile, quella che, nella peggiore delle ipotesi, potremmo ancora mancare. Da qualche giorno è diventato virale (e ha prodotto decine di imitazioni) un video girato in varie città, in cui una ragazza né bella né brutta, in abiti non appariscenti, cammina. E viene sepolta di commenti, fischi, battute, proposte oscene. Chissà se sono quelli gli elettori di Time, i fischiatori da strada che non vogliono essere spernacchiati dalle femministe. O sono invece certe femministe portatrici della vulgata femminista e offese dalla sua banalizzazione, che per eccesso di severità preferiscono far saltare il banco. La politica insegna: gli avversari peggiori ce li hai quasi sempre in casa.

Corriere 15.11.14
Blitz in Curia degli studenti. La polizia carica
di Cesare Giuzzi e Giampiero Rossi


Milano L’epilogo di una giornata nera si consuma quando la polizia in assetto anti sommossa carica una trentina di studenti, molti minorenni, che tentano di entrare nel palazzo dell’Arcivescovado in piazza Fontana. Due ore prima, a duecento metri dal Duomo, in piazza Santo Stefano c’era stata la prima carica delle forze dell’ordine. Due minuti di petardi, manganellate, lancio di pietre e lacrimogeni innescato dal divieto imposto dalla questura di far raggiungere piazza Fontana (come concordato) ai manifestanti. Una decina di contusi tra i ragazzi dei collettivi studenteschi e sette militari della Guardia di Finanza feriti. Sul fronte prettamente sindacale, il bilancio della giornata di sciopero e mobilitazione a Milano registra anche l’accoglienza piuttosto fredda della piazza dei metalmeccanici alla segretaria generale della Cgil Susanna Camusso. Quando il leader della Fiom Maurizio Landini le cede il microfono per l’intervento conclusivo, insieme agli applausi partono diversi fischi. Ma proprio in quel momento l’attenzione di una buona parte degli 80 mila manifestanti viene distolta dai tafferugli scoppiati, all’improvviso, proprio all’angolo tra il sagrato della Cattedrale e corso Vittorio Emanuele. Uno spezzone del corteo, radunato sotto le bandiere «No Tav», cerca di forzare il cordone delle forze dell’ordine. In un attimo scatta l’allarme: «Come a Roma, stanno di nuovo picchiando gli operai» e decine di manifestanti si dirigono verso la «zona rossa» ai piedi del Duomo, rimuovendo le transenne. Insieme alle forze dell’ordine, però, sono gli stessi responsabili del servizio d’ordine della Fiom a sbracciarsi per riportare la calma. È il primo momento di tensione della giornata. E forse proprio per questo dalla questura parte l’ordine di bloccare il corteo degli studenti e di impedirne l’arrivo in piazza Fontana. I duemila manifestanti deviano allora verso l’Università Statale e puntano di nuovo verso piazza Fontana. Alle 12.30 parte la prima carica: i blindati delle Fiamme gialle bloccano la strada. Gli antagonisti lanciano petardi e pietre. I militari sparano in aria alcuni lacrimogeni. Volano le manganellate. In pochi secondi l’aria diventa irrespirabile, ma gli scontri non si fermano. Così come le polemiche per la decisione di bloccare il corteo. Gli studenti occupano un’aula della Statale, quando escono mezz’ora dopo sono solo un centinaio. Puntano la vicina sede della Curia milanese, dove si sta per tenere un convegno sulla «buona scuola». A presidiare l’accesso sono però rimasti un funzionario e tre poliziotti. Trenta ragazzi riescono ad entrare nell’androne, provano a sfondare il secondo portone ancora chiuso. A quel punto arriva una squadra del reparto mobile inviata dalla questura. Gli agenti scendono con i manganelli in pugno. I ragazzi, ma anche gli agenti in borghese già presenti nell’androne, vengono caricati. Sono in trappola: alle loro spalle il portone è sbarrato. La scena viene ripresa anche con i telefonini dei manifestanti. Tra i contusi c’è anche un quindicenne: «Ci hanno colpito a freddo, chiediamo che il questore si dimetta», tuonano gli organizzatori. Da via Fatebenefratelli non arriva alcuna ricostruzione ufficiale, quella ufficiosa sostiene che «se non fossero stati caricati i manifestanti avrebbero occupato l’Arcivescovado». Il questore Luigi Savina preferisce non rilasciare dichiarazioni. Ma in piazza, tra gli agenti che hanno gestito l’ordine pubblico, c’è chi non ha condiviso quella carica: «Erano solo ragazzini».

Corriere 15.11.14
Non volete la benedizione natalizia?
Ecco il cartellino «No prete»
L’iniziativa di don Gabriele, parroco del Comune alle porte di Milano
di Olivia Manola

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il Fatto 15.11.14
Il cavallo di Troia di Bagnasco
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, avrai notato il nuovo editto della Cei sotto la direzione del cardinal Bagnasco, poco utile, con tutto il suo potere, nella tragedia di Genova inondata, ma prontissimo a bloccare i gay. Dice che il loro matrimonio, se fosse legge, sarebbe un Cavallo di Troia, cioè un inganno, per scardinare la sacralità esemplare dell'altra (“unica e vera”) famiglia. “È una boiata pazzesca” direbbe Fantozzi.
Ilaria

IL CARDINALE BAGNASCO stupisce per una ragione storica e per una ragione logica. Il primo impulso è di dire la frase banale: come fa un uomo così colto e informato a dire quello che dice? Ma tutti sappiamo che la cultura, quando si tratta di pregiudizi, non salva nessuno. Il fatto stupefacente, però, è che Bagnasco si rivolga agli italiani, su cui ha compito pastorale, come se il capo (il Papa) del contenitore più grande (la chiesa) non fosse Francesco. O come se Francesco non contasse. Ciò che si vede subito non è un contrasto di dottrina, sul quale chi è estraneo alla vita cattolica non ha niente da dire. Ma è lo strappo brusco e anche volgare nel modo di agire, contrapposto non alla dolcezza (Francesco non è zuccheroso) ma al rispetto che dimostra e predica Francesco per le altre persone, prima di tutto coloro che ti sembrano estranei e lontani. No, qui, ciò che ci racconta Bagnasco è la storia di personaggi subdoli (il Cavallo di Troia è il simbolo storico dell'inganno) che per i loro interessi tentano, con pretenziose promesse d'amore di coppia, di infiltrarsi nella vita dei buoni cristiani e di scardinare le loro famiglie che sono (e devono restare) le sole legittime e regolari. Il cardinale nota la mossa infida e prontamente la denuncia anche per mettere in guardia le brave persone che non vedono niente di male nel registrare in municipio storie d'amore che hanno percorso strade diverse. Ma c'è l'altro motivo di stupore: secondo Bagnasco, se lasci che nell'appartamento B 21 del tuo caseggiato si installi una famiglia gay (Dio voglia che non abbiano anche bambini adottati o nati da uno dei due), tu e la tua famiglia, persino se siete nella scala A, siete in pericolo. Ecco, spiace essere bruschi con Bagnasco, che a occhio sembra una brava persona, ma tutto l'impianto di questo ragionamento è squilibrato e illogico. Infatti il prelato non ti dice, come ha diritto di dire, che per lui e per la sua fede non si possono approvare né gay “single” né vita stabile e matrimoniale fra gay, perché tutto ciò per lui è peccato. No, lui dice che, a differenza di ogni altra persona, un gay non deve avere diritti. E se gli riconosci diritti come a tutti, metti in pericolo i diritti degli altri, come se i diritti fossero a quantità limitata. E qui si precipiterebbe nel vuoto se, come Francesco ci induce a sperare, i credenti, in gran maggioranza, non fossero un'altra cosa, di cui Bagnasco sembra non avere nozione.

Corriere 15.11.14
Una storia  agghiacciante sullo sfondo dello scandalo Sanità
Dieci arresti
Pazienti usati come cavie in ospedale
Il gip: ora si indaghi anche sui medici
Il pm: «Farmaci prescritti ai pazienti a prescindere dall’efficacia»
Per ottenere il predominio nella distribuzione è stato alterato il rapporto tra medico e casa farmaceutica

qui

il Fatto 15.11.14
Grandi rischi
Giudici, processi e isterie collettive
di Bruno Tinti


Intorno alla fine del 1700, negli Stati Uniti, una legge della Virginia autorizzò il capitano William Lynch a fare giustizia senza processo. Da qui il ben noto linciaggio. Dopo 250 anni, in Italia, le cose non sono molto cambiate, almeno da un punto di vista culturale. Immigrati, diseredati, mentalmente disturbati, quando si suppone abbiano commesso reati, specie se di natura raccapricciante, sono spesso oggetto di aggressione da parte di cittadini indignati e decisi a “fare giustizia”. In questi casi, per fortuna, sono salvati dalle forze dell’ordine. E i potenti, o tali considerati per la loro vicinanza al potere, quando sono sottoposti a processo per una o più delle malefatte tipiche del loro ambiente e nel caso in cui siano assolti, diventano oggetto di linciaggio mediatico e morale. Gli organi di informazione diffondono commenti denigratori sulle sentenze e i giudici che le hanno emesse; e i cittadini coinvolti nella vicenda urlano il loro dispetto: vergogna e assassini sono le parole che accomunano nel linciaggio gli imputati e i giudici che li hanno assolti.
Il 26 ottobre 2012 ho scritto un articolo sulla sentenza di condanna emessa dal Tribunale de L’Aquila nei confronti di pubblici funzionari e scienziati. La comunità scientifica internazionale si era mobilitata: i giudici erano stati pazzi e incompetenti perché avevano affermato: “Gli scienziati sono colpevoli perché non hanno previsto il terremoto” quando, come tutti sapevano, una previsione del genere è impossibile. Ho spiegato che i giudici non avevano mai detto una cosa del genere. Gli scienziati erano stati condannati perché avevano assicurato che il terremoto non ci sarebbe stato, motivando con perentorie osservazioni: “I forti terremoti in Abruzzo hanno periodi di ritorno molto lunghi... non c’è nessun motivo per cui si possa dire che una sequenza di scosse di bassa magnitudo possa essere considerata precursore di un forte evento”; lo sciame sismico che interessa L’Aquila da circa tre mesi è un normale fenomeno geologico; allo stato attuale non vi è pericolo. In conseguenza di queste rassicurazioni, i cittadini erano ritornati nelle loro case dove erano stati sorpresi dal terremoto. Ecco perché erano stati condannati. E ho osservato che, vero come è vero che i terremoti non si possono prevedere; perché diavolo gli scienziati avevano previsto che il terremoto non ci sarebbe stato? Insomma, ho tentato, con i miei limiti professionali e di informazione sul caso specifico, di formulare osservazioni critiche, riflessioni che potevano essere condivise o meno ma che in nessun modo mettevano in dubbio la legittimità e l’autorità giuridica del processo e della sentenza.
COSA CHE – pare – preoccupa pochissimo commentatori e cittadini. Da una parte la comunità scientifica, a suo tempo indignata da un presunto ma inesistente processo alla scienza, esulta per la ristabilita giustizia (e se la Cassazione dovesse annullare con rinvio l’assoluzione anche quei giudici sarebbero “pazzi e incompetenti”?). Dall’altra cittadini coinvolti a livello patrimoniale e sentimentale esplodono di rabbia per un assoluzione “vergognosa e venduta”. Tutti discepoli di Lynch, tutti con la verità in tasca: gli innocenti (quelli che loro considerano tali) non devono essere condannati; e i colpevoli (quelli che loro considerano tali) non devono essere assolti. Una sentenza che decida diversamente è inaccettabile.
Mi sono sempre chiesto che cosa rappresenti per questa gente il processo. Se il colpevole e l’innocente sono tali fin dall’inizio, quando si verifica un evento e si comincia a indagare; se non si è disposti ad ammettere che indagini e processo (tre, in Italia abbiamo tre gradi di giudizio) servono per accertare le responsabilità; se non si capisce che imputato e condannato non sono sinonimi e che le conclusioni definitive del processo possono essere diverse dalle ipotesi iniziali (anche dalle sentenze del grado di giudizio precedente). Allora il processo a che serve? Un processo così sarebbe solo l’immutabile celebrazione di un dogma che non può essere messo in discussione; l’orpello formale di un’uccisione ritualizzata (oggi sostituita dalla prigione, almeno in Italia) ; un linciaggio civilizzato. Ed è significativo che questa posizione non si differenzi intellettualmente quando oggetto della sentenza sia l’assoluzione o la condanna.
Tutto questo indica quale sia realmente la cultura sociale e giuridica del nostro Paese. I cittadini non capiscono che la giustizia (umana, quella amministrata dallo Stato) è solo un mezzo per garantire una pacifica convivenza; che le sentenze servono ad attribuire torto o ragione e a condannare o assolvere in maniera definitiva, per evitare che ci si faccia giustizia da soli e che dunque prevalga la legge del più forte (non necessariamente da un punto di vista fisico: anche e soprattutto a seguito della forza, influenza, potere del gruppo di cui fa parte) ; che non sempre la verità processuale e quella sostanziale coincidono e che una sentenza può dare ragione a chi non ce l’ha e assolvere un colpevole o condannare un innocente; che, tuttavia, un modo migliore per vivere insieme non è stato trovato. Ma la cosa peggiore è che i cittadini non capiscono che delegittimando il processo e i giudici aprono la via alla prepotenza e all’arbitrio. È solo questione di tempo e anche i giudici (che sempre uomini sono) cominceranno a chiedersi a quale parte inferocita conviene dare ragione.

Repubblica 15.11.14
Le rivelazioni del boss pentito
“Anche entità esterne alla mafia interessate a uccidere Di Matteo”
di Salvo Palazzolo


PALERMO Fino a qualche giorno fa, era uno degli irriducibili di Cosa nostra al carcere duro. Oggi, è un uomo che dice di avere paura per quello che potrebbe accadere a Nino Di Matteo, il pubblico ministero del processo “trattativa”. Vito Galatolo, 40 anni, rampollo di una delle famiglie mafiose più blasonate, ha deciso di collaborare con la giustizia: «Perché sono assalito da un turbamento interiore», ha detto. E mentre svelava il progetto di attentato nei confronti del pm Di Matteo ha avvertito: «All’eliminazione del magistrato sono interessate anche entità esterne a Cosa nostra».
Vito Galatolo ha spiegato di essere stato incaricato di coordinare i preparativi dell’attentato nel dicembre 2012. Preparativi che sarebbero andati avanti in questi mesi. Poi, nel giugno scorso Galatolo è stato arrestato dal nucleo di polizia valutaria della Finanza. Ed è finito presto al carcere duro. La settimana scorsa, ha chiesto di parlare con Di Matteo, e gli ha rivelato il progetto di morte. Ieri, Galatolo ha iniziato ufficialmente la sua collaborazione con la giustizia: ad interrogarlo, in una località segreta, sono stati il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi e il procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari. Intanto, gli investigatori della Dia correvano a Mestre, per trasferire la moglie e i figli del capomafia in un posto sicuro.
Al Palazzo di giustizia di Palermo, invece, torna l’incubo dei mandanti esterni. Perché in quel dicembre 2012 Cosa nostra iniziò a progettare un attentato contro Nino Di Matteo, l’animatore del pool che indaga sulla trattativa Stato-mafia? È un mistero. Galatolo sostiene di essersi occupato solo della fase esecutiva del progetto di attentato. Al momento, restano solo le coincidenze, inquietanti: nel dicembre di due anni fa, i pm di Palermo avviavano l’indagine sui servizi deviati e su vecchi rapporti fra 007 ed esponenti della destra eversiva. È l’inchiesta bis sulla trattativa: in questi mesi è stata scandita da un’escalation di lettere anonime, che hanno fatto salire la tensione alle stelle attorno al pool di Palermo. Tensione che resta altissima, mentre un gruppo di esperti inviati dal Viminale continua a verificare il sistema di sicurezza attorno a Di Matteo.
C’è grande attesa per quello che potrebbe svelare Vito Galatolo, perché da sempre la famiglia dell’Acquasanta è sospettata di avere rapporti con esponenti deviati dei servizi di sicurezza. Nel 1989, i Galatolo organizzarono l’attentato a Giovanni Falcone sul litorale dell’Addaura, attentato che poi fallì. E qualche giorno dopo, il giudice pronunciò la frase diventata il simbolo dei misteri siciliani: «Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime». Il segreto è nel quartier generale dei Galatolo, vicolo Pipitone, a due passi dal bellissimo porticciolo dell’Acquasanta. Lì, negli anni Ottanta, si riunivano i sicari di Riina prima di eseguire gli omicidi eccellenti. Oggi, in vicolo Pipitone c’è un silenzio pesante, rotto solo dalle urla di un uomo, che intima al cronista di Repubblica: «Vai via subito». Vito Galatolo potrebbe provocare presto uno squarcio nei segreti di Cosa nostra. Anche sua sorella collabora con la giustizia, da un anno. Il vecchio Vincenzo Galatolo, l’ombra di Totò Riina, resta in silenzio nella sua cella al 41 bis.

il Fatto 15.11.14
Roma, i clan della mala che minacciano i giornalisti
Alla Fagnani di Ballarò scrivono “Tu muori” per aver ripreso le ville dei Casamonica
di Valeria Pacelli


“Francesca tu muori, gira e gira, ti vengo a dare fuoco. La gente si fa la galera e tu vieni ancora a rompere il cazzo”. È questa una delle minacce che ha subito la giornalista di Ballarò Francesca Fagnani dopo che era stato messo in onda martedì sera un suo servizio sulla mala a Roma. L’inviata del programma di Rai3 si era addentrata con la telecamera accesa davanti alle ville dove stanno scontando gli arresti domiciliari alcuni membri del clan dei Casamonica, considerati i re dello spaccio nella Capitale dagli investigatori. Anche se poi in appello, nel febbraio scorso, molti di loro sono stati assolti. Le riprese facevano parte di un’inchiesta sulla criminalità romana e non sono state gradite. A impressionare è la modalità della reazione: nessuna preoccupazione di nascondersi, nessuna lettera anonima. Le minacce alla giornalista sono state pubblicate sul sito del programma di Rai3 da “Bellissima Casamonica”, come si chiama sul proprio profilo facebook, con tanto di foto e amici pubblici. Se Bellissima non ha paura a scrivere che vuole darle fuoco, Danilo King Casamonica usa offese molto più volgari. Francesca Fagnani era già finita nel mirino due anni fa quando ricevette messaggi privati dopo un servizio sempre sul medesimo clan.
STAVOLTA IL TEMA riguardava le organizzazioni che si spartiscono i traffici nella capitale. Tra gli intervistati c’era Lirio Abbate, inviato de L’Espresso. A impressionare è il fatto che sempre dopo la trasmissione anche Abbate subirà quella che sembra essere una minaccia più grave. Il cronista aveva parlato in tv della cupola che gestisce Roma dopo avere affrontato il tema in una sua inchiesta pubblicata sul suo settimanale. A Ballarò Abbate ha detto anche che “Se la ‘ndrangheta vuole fare un traffico di droga deve chiedere a lui”. Carminati, “er cecato”, ex Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari, ndr), coinvolto nei processi come per l’omicidio Pecorelli, ma ne è uscito assolto. In carcere di tempo ne ha passato poco, ma adesso – come scrive Abbate – è lui, “l’ultimo re di Roma”. Per le minacce subite, in tanti hanno espresso la propria solidarietà ai duegiornalisti. Massimo Giannini, conduttore di Ballarò in un video ha detto: “Vi sono momenti in cui il giornalismo smette di essere un professione e diventa una missione. Questo è uno di questi (...) Il giornalismo non si ferma davanti a nulla quando c’è in ballo la verità e quindi la democrazia”.
A Roma, come a Palermo. Lirio Abbate dal 2007 vive sotto scorta e, dopo la mafia, ora deve temere una minaccia più misteriosa. Nella notte tra martedì e mercoledì scorso, il cronista, con la sua scorta, era appena uscito dalla sede del settimanale quando una Renault Clio ha iniziato a seguirli. Le auto si avvicinano sempre di più e all’altezza del lungotevere dei Tebaldi la macchina di Abbate fa una brusca frenata. La Clio la sperona per trovare spazio e non ci riesce, fa marcia indietro e sgomma. La scorta inizia l’inseguimento per prendere la targa finchè un semaforo rallenta la corsa. Uno dei tre poliziotti della scorta, scende dall’auto, si butta sulla Clio. Il conducente viene fermato, mentre l’altro passeggero scappa. Si tratta di un egiziano incensurato. Proprio come il ventenne che si trovava alla guida, che invece è stato fermato e interrogato per tutta la notte. Agli agenti il ragazzo ha fornito versioni contrastanti, che convincono poco. Soprattutto se incrociate con i filmati acquisiti delle telecamere sul lungotevere. Nel pomeriggio successivo il giovane viene risentito e il sospetto, da verificare, è che sia stato mandato di proposito per seguire Abbate un giovane al di sopra di ogni sospetto: incensurato e non aveva fatto uso di alcol nè di droghe.
Il comportamento anomalo dei due giovani preoccupa la Polizia perché non è la prima volta che Lirio Abbate subisce minacce. Nel settembre 2013 arrivò un brutto segnale: un anonimo riferiva alla squadra mobile che “Abbate deve stare attento a Riccardino l’albanese, uno dal quale dipende gente che spara”. Riccardino, all’anagrafe Arben Zogu, è stato arrestato in passato insieme a Mario Iovine e ad altre 12 persone legate al clan dei casalesi. La cosa inquietante è che la segnalazione arrivò pochi mesi dopo che il cronista pubblicò l’inchiesta “I quattro re di Roma”, una mappa della spartizione della criminalità nella capitale.
NELLE INTERCETTAZIONI disposte nell’ambito di un’altra inchiesta, quella sulla mala di Ostia, un boss del litorale parlava di Zogu come di un soggetto vicino a un boss di cui Abbate ha scritto: Michele Senese. Nell’articolo sull’Espresso, oltre Senese, l’altro Re di Roma era Massimo Carminati, che vive in una villa intestata a Marco Iannilli, un commercialista con alcuni guai giudiziari (è stato condannato in primo grado per la truffa Telekom Sparkle). Quando Iannilli è stato arrestato nel 2011, appuntano i Ros che “immediatamente dopo il suo arresto si recava presso la sua abitazione Massimo Carminati, allertato a tal proposito dalla moglie del commercialista”. Carminati si è presentato anche in tribunale civile, durante le due udienze per le cause con L’Espresso intentate da lui per alcuni articoli di Lirio Abbate. Potevano incontrarsi quella volta, ma il cronista non c’era. Forse con rammarico per l’ex nar.

Repubblica 15.11.14
Grecia, la ripresa
Tra luglio e agosto più 1,7%: una crescita quadrupla di quella tedesca
Tra gli effetti tossici della crisi: disoccupati al 26% e il 40% dei bambini in povertà
Atene tra rivincite e paure “Il Pil risale ma a noi greci l’austerità ha portato via un terzo dei redditi”
di Ettore Livini


ATENE . Il paziente numero zero della euro-crisi è guarito. A sei anni dal crac, «la Grecia è tornata!», festeggia il premier Antonis Samaras: il Pil, dopo tanti segni meno, è balzato dell’1,7% nel terzo trimestre. La cura da cavallo imposta da Ue, Bce e Fmi ha distrutto un quarto della ricchezza nazionale e spinto la disoccupazione al 25,9%. Il vento però è girato e tra luglio e agosto l’economia è cresciuta il quadruplo di quella tedesca. Il bello, statistiche alla mano, deve ancora venire. Eurostat prevede un progresso del 3,7% nel 2016 e il troika-fan club stappa lo champagne. La formula magica dell’austerity (240 miliardi di prestiti in cambio di riforme lacrime e sangue) — sostiene — ha funzionato: il bilancio è in attivo a ottobre di 2,4 miliardi e in un anno l’economia ha creato 120mila posti di lavoro.
Resta — dicono le Cassandre di casa da queste parti — solo un ultimo piccolo problema: «Salvata la Grecia — scherza Nikitas Kanakis, presidente di Doctors of the World, la maggior ong sanitaria del paese — dobbiamo ora salvare i greci». Dalle scorie tossiche lasciate in scia dalla crisi — il reddito delle famiglie è crollato del 30% e il 40% dei bambini per l’Unicef vive sotto la soglia di povertà — e dal rischio di un harakiri “politico” a un passo dal traguardo: a febbraio Atene deve nominare il presidente della Repubblica. E se, come pare certo, il governo non troverà i voti per eleggerlo, il Paese tornerà alle urne per un voto destinato a tenere l’Europa e l’euro con il fiato sospeso, visto che la sinistra radicale anti-troika di Syriza è in testa in tutti i sondaggi.
«La ripresa del pil? Una rondine non fa primavera — assicura Kanakis — Statistica e società sono due cose diverse. L’economia cresce, ma per migliaia di famiglie il dilemma oggi è uno solo: decidere se spendere i pochi soldi che hanno in cibo o medicine». Un po’ di lavoro in più, ammette, c’è. «Si tratta però di impieghi in nero da 300 euro al mese. Nel 2013 abbiamo curato gratis nelle nostre cliniche 80mila persone, quest’anno saranno 100mila. Per me i numeri che contano sono questi». «Le vere conseguenze della crisi le vediamo ora — conferma Xenia Papastravou, una laurea alla London School of economics e oggi responsabile di Boroume, ong che distribuisce 3mila pasti al giorno — . In molti hanno tirato avanti bruciando i risparmi. Ora hanno finito anche quelli». Negli 800 asili, chiese e ospedali aiutati da Boroumè la fila è sempre più lunga: «Due anni fa davamo da mangiare a 80 persone al giorno — racconta Heleni, addetta alla mensa del quartiere di Zoografo — . Ora sono 480. Per me saremo fuori dalla crisi quando qui non verrà più nessuno».
Ue, Bce e Fmi — dopo aver imposto alla Grecia un aggiustamento pari a un terzo del pil, come se l’Italia varasse finanziarie per 500 miliardi — sono convinti che quel momento sia qui e ora. «Atene ha fatto grandi sforzi» ammette il Fondo monetario. Peccato che la crisi rischi di trovare il veleno proprio nella coda, scivolando sulla buccia di banana del nuovo presidente della Repubblica: per eleggere la massima carica dello stato in Parlamento servono 180 voti su 300. Il governo Nea Demokratia- Pasok (i due partiti che hanno portato il paese nel baratro) ne ha 153. E ben difficilmente riuscirà a trovare un nome in grado di ottenere il quorum. La Costituzione ellenica è chiara: in quel caso si va alle urne. E i sondaggi danno in netto vantaggio (con il 29-35%) Syriza e Alexis Tsipras. Il leader che ha promesso di stracciare il memorandum con la troika il giorno dopo la vittoria alle urne.
La politica nazionale, non a caso, vive da mesi in clima pre-elettorale. La gente è stufa dei sacrifici («nel 2015 avremo il surplus della Norvegia, la crescita da tigre asiatica e il costo del lavoro di un paese emergente. Cosa vogliono ancora da noi?» è il mantra collettivo). Ue, Fmi e Bce fanno orecchie da mercante. Anzi, hanno appena chiesto al Governo altre 19 riforme — tra cui 2,6 miliardi di tagli al budget — per sbloccare gli ultimi aiuti. Samaras ha provato a giocare in contropiede, ventilando l’uscita anticipata dal programma di aiuti internazionali per togliere acqua a Syriza sul fronte anti-austerity. Uno scivolone: i mercati, da un po’ di tempo spettatori silenziosi della tragedia greca, hanno fatto sentire all’improvviso la loro voce: i tassi sui decennali sono schizzati in pochi minuti dal 6 al 9% e il premier è stato costretto a una brusca retromarcia.
Tsipras ha preso nota. In pubblico promette la restituzione della 13esima ai pensionati, l’aumento del salario minimo, la rinegoziazione del debito e l’elettricità gratis alle famiglie in difficoltà. In privato, assicurano diverse fonti, ha iniziato a sfumare i toni. Arrivando a incontrare finanzieri e industriali per rassicurarli su una transizione “soft”. Non sarà una strada in discesa. In caso di vittoria, difficilmente Tsipras potrà governare da solo. L’obbligo di accordi con altri partiti (Potami, nuova formazione di sinistra accreditata del 5-10%, il più probabile) gli darà il destro per annacquare le promesse elettorali sperando di non irritare la base più massimalista di Syriza. Il pil è tornato a crescere. Ma forse è troppo presto per dire che il paziente zero dell’euro-crisi è davvero fuori pericolo.

La Stampa 15.11.14
Messico
“Io, scampato a quella notte a Iguala dico che i miei amici sono vivi”
Il Dna estratto dalla fossa comune non corrisponde a nessuno dei 43 ragazzi spariti. Un sopravvissuto del raid: “Le autorità sbagliano a cercare dei morti”
di Filippo Fiorini

qui

Corriere 15.11.14
Hong Kong, ultimi tentativi di evitare una Tienanmen
di Guido Santevecchi


Sono passati quasi due mesi da quando decine di migliaia di studenti di Hong Kong hanno occupato le strade della città per reclamare elezioni libere nel 2017. In queste sette settimane ci sono stati pochi incidenti, un centinaio di feriti, alcuni fermi. La Cina è stata a guardare. Si è detto che non ci sarebbe stata repressione immediata perché a Pechino aspettavano i capi di governo dei Paesi Asia-Pacifico, non si poteva rovinare il palcoscenico di grandezza. Ora il vertice è finito, Obama è partito. In strada a Hong Kong restano poche centinaia di tende dei ragazzi. Ma l’altro giorno, proprio parlando di fronte a Obama, il presidente Xi Jinping ha detto che la situazione a Hong Kong è «illegale» e «sono affari interni cinesi, gli stranieri non devono interferire, legge e ordine vanno ristabiliti». Suona come una sentenza. Molti segnali indicano che lunedì o martedì potrebbe partire l’ordine per la polizia. Anche con la Tienanmen nel 1989 era andata così: aspettarono che se ne fosse andato Gorbaciov, arrivato per una visita storica, dichiararono la legge marziale e agirono.
Il movimento democratico si è logorato in tanti giorni in strada. Il governo di Hong Kong non ha aperto un dialogo: dalle parole di Xi si capisce che non c’è volontà di fare concessioni. Una parte della popolazione di Hong Kong, anche la comunità del business , è esasperata dalla protesta. La libera magistratura della city ha ordinato lo sgombero. L’ipotesi più pacifica è l’arresto dei leader di «Occupy Central», la peggiore che si muovano le triadi di Hong Kong, ben connesse con la politica cinese, attaccando gli studenti e che la polizia sia «costretta» a intervenire con la forza e le armi.
Tre leader studenteschi hanno annunciato l’intenzione di venire a Pechino oggi, sperano di parlare con il premier Li Keqiang. Vogliono andare al Palazzo del Popolo in piazza Tienanmen. La Cina diventata seconda potenza economica del mondo avrà il coraggio di non ripetere la storia?

Corriere 15.11.14
La necessità di capire il conflitto in Israele senza schierarsi
di Marco Garzonio


Torno da un viaggio di studio in Israele. Con un gruppo di psicoanalisti s’è cercato di andare alle radici di questa terra delle tre religioni monoteiste e di avere un’idea dei motivi del malessere attuale che arriva negli studi di chi cura le ferite dell’anima e riscontra connessioni tra la mancanza di pace del mondo e il malessere degli individui di casa nostra. Dal deserto del Negev, abbiamo attraversato Hebron, spettrale, senza più un turista; siamo passati da Betlemme quando ragazzini del campo profughi palestinese gettavano sassi ai soldati che rispondevano con lacrimogeni; stavamo a Gerusalemme la sera in cui hanno sparato al rabbino ortodosso e la polizia — annunciava il tam tam del web — nel giro di poche ore ha scovato il presunto attentatore, lo ha ucciso, ha arrestato i parenti e abbattuto le loro case; ci siamo svegliati la mattina del venerdì con la spianata delle moschee aperta solo ai musulmani over 50 e i giovani alla marcia della rabbia. La Galilea avrebbe dovuto restituirci serenità, ma a Nazaret, proprio davanti alla Natività, scritte con passi estrapolati dal Corano minacciavano che i cristiani non sono graditi lì.
Dalla Terra Santa di solito porti a casa domande più che risposte. Oggi l’interrogativo è inquietante: che sarà di questi luoghi. Hai la netta impressione che il solco tra ebrei e arabi sia sempre più largo e profondo. Cogli che le due parti sono tremendamente sole, isolate, come costrette a giocare in proprio, ciascuna per sé e negli scontri tra di esse, una partita in realtà molto più grande di loro, che causa di conflitti è sempre più la paura che non la religione. Si sa che l’autoreferenzialità dei gruppi, la mancanza di comunicazione, scambi, dialogo, alimenta fantasmi di persecuzione, riduce gli spazi di dialettica interna, produce estremismi, fanatismi, radicalità, porta all’esasperazione di appartenenze e identificazioni collettive, fa maturare aggressività verso l’altro, enfatizza le colpe di questo ben oltre quelle che sono le sue responsabilità oggettivamente riscontrabili, sino ad erigerlo a causa dei propri mali, quindi soggetto da combattere, sottomettere, eliminare.
Di solito tocca a figure terze aiutare i contendenti a ricercare soluzioni che compongono i conflitti. In Israele, girando, parlando, studiando volti, sguardi, il procedere delle persone, sentendo le risposte nei negozi, negli hotel, nei servizi pubblici cogli sentimenti contraddittori, che vanno dall’autodifesa all’indifferenza sino all’ostilità, come se tu fossi un intruso, non un ponte verso l’esterno, un possibile amico. Giri a Gerusalemme per la Città Vecchia o nei ritrovi occidentalizzati e ti sembra di capire che israeliani e arabi non hanno amici. Ricevono aiuti e sostegni, vedi che certe realizzazioni non potrebbero esser fatte senza avere alle spalle un flusso di risorse dall’America, dall’Europa e chissà da quali altre fonti. Ma è facile cogliere la logica di schieramenti, ideologie, equilibri di forza, mantenimento dello statu quo dietro i capitali che alimentano l’economia di Israele o che garantiscono gli stipendi ai dipendenti dell’Autorità Palestinese.
La gente sorride poco e malvolentieri in Israele. Sa e non dice, ma fa intendere una consapevolezza diffusa, da una parte e dall’altra: d’essere tutti prigionieri d’una rete le cui maglie si stringono a cappio e soffocano più del muro che divide e favorisce forme di apartheid. Sono emblemi dei limiti d’una situazione vicina all’intollerabilità delle due categorie: i bambini palestinesi traumatizzati dal conflitto e dalla frustrazione dei loro fratelli maggiori, dei genitori, delle loro autorità che non contano; e i militari dei check point , armati sino ai denti, facciata d’un potere teso a controllare tutto, a mostrare allo straniero modi scostanti perché sappia chi lì comanda, in realtà volti di giovani e di donne spaventati, vittime d’un disagio interno che fa star male molti tra loro.
Il senso d’impotenza è contagioso e il rischio è che tu lasci Israele con la convinzione che vi sia poco da fare, salvo sperare che la situazione non precipiti. Ma forse qualcosa può esser fatto: non solo per compensare le nostre ansie. Si può cambiare atteggiamento verso questa terra bellissima e chi la abita. Smetterla di accontentarsi di tg frettolosi, studiare, conoscere, approfondire, venir qui, prendere coscienza delle radici antiche dei conflitti, della spiritualità e della cultura prodotte, parlare, stare con le persone, ascoltare. A livello storico non si può essere neutrali: avere un’opinione sulle colpe dell’una e dell’altra parte è anche doveroso. Ma ebrei e arabi in Israele hanno bisogno di qualcuno che non ceda alla tentazione di schierarsi, finendo per identificarsi e rafforzare lo scontro. Hanno bisogno di uomini e donne che li amano, non che li armano, che condividono con loro la complessità del conflitto, li aiutano a reggerlo internamente e a non agirlo, che gli trasmettano la solidarietà d’un destino comune, la consapevolezza che la pace o l’infelicità loro sono anche le nostre. Bisogna che incominciamo a dircele queste cose noi, a farcene carico alla svelta, prima che sia tardi.

Corriere 15.11.14
Nuto Revelli, l’eroe partigiano che restituì la parola ai più umili
di Corrado Stajano


Il suo studio, in corso Brunet 1, a Cuneo, sembrava la grotta del mago. Nuto Revelli conservava in un armadio i documenti della sua guerra partigiana, i ruolini di quei ragazzi che dopo l’8 settembre 1943 erano saliti in montagna, le carte delicate dei conflitti e dei processi di banda, gli appunti su quei venti mesi — la vita quotidiana, le azioni di guerriglia — che nonostante i pericoli gli avevano salvato la vita. Comandante di una brigata di Giustizia e Libertà, amava infatti ripetere che lassù era risuscitato. Dopo la ritirata di Russia era caduto in fondo a un pozzo, diceva, aveva passato giorni e giorni a piangere, muto come un contadino muto, a ricordare quegli inutili morti, «i migliori», a dirsi che forse sarebbe stato preferibile finire anche lui in quella neve arrossata di sangue.
Nella stanza di Cuneo c’era un altro armadio dove Nuto Revelli conservava le cassette registrate delle migliaia di interviste fatte per i suoi libri dedicati al mondo degli umili. L’armadio della pace.
In quello studio approdarono nei decenni un’infinità di giornalisti, di studiosi della storia orale, di ricercatori. Ora Einaudi pubblica, a cura di Mario Cordero, Il testimone. Conversazioni e interviste. 1966-2003 (pp. 241, e 12). «Il primo testimone è lui stesso», scrive Cordero nell’approfondita introduzione. «È parte di quel fatto e in qualche misura ne è sempre protagonista». E ancora, citando una frase di Revelli, scrittore difficile da catalogare nello schematismo arcaico dei gestori della cultura italiana: «Io non sono uno storico, sono un testimone e basta, e per di più settario; sono un partigiano, prigioniero delle mie verità maturate fin da allora».
Cordero ha scelto, tra le tante, 35 interviste e le ha divise in cinque sezioni tematiche, «Le guerre dei poveri», «Vincitori e vinti», «La grande disillusione», «Saper ascoltare», «Per non dimenticare». Pubblicate da grandi giornali e da riviste anche piccole, le interviste sono firmate da giornalisti e da studiosi noti e ignoti. Tra i più conosciuti, Nello Ajello, Lisa Foa, Oreste Pivetta, Giulia Borgese, Maurizio Chierici, Alberto Papuzzi, Massimo Novelli, Loris Campetti, Lorenzo Mondo.
Fedele a se stesso e al suo culto della memoria, Nuto non si smentisce mai nelle interviste date magari a distanza di anni. La guerra resta l’evento indimenticato. Allievo dell’Accademia militare di Modena, Revelli vive fascisticamente, come milioni di uomini, nel clima imperiale mussoliniano che esalta soprattutto quelli come lui, sportivi, atleti, sciatori. Anche se all’Accademia il giuramento al Re permette, più che altrove, una pur timida critica al Duce del fascismo. Il segno della diarchia. Ma quando con l’Armir — sottotenente del 5° Alpini, Divisione Tridentina — parte nel 1942 per la Russia e vede a Leopoli gli ebrei con la stella gialla, di cui nulla sapeva, comincia ad avere i primi dubbi. Capisce poi alla svelta che cosa si nascondeva sotto il luccichio di parata e le parole reboanti del nazionalismo straccione del fascismo. Non gli usciranno mai dagli occhi e dal cuore le immagini sanguinanti della guerra e il ricordo dei russi che nelle loro isbe accoglievano fraternamente i poveri italiani, invasori sconfitti. Nella piazza di Postjali, durante la ritirata, giurò a se stesso che, se fosse sopravvissuto, avrebbe lasciato per sempre l’esercito e non avrebbe servito quella «patria di balordi» che mandava a morire, alla ventura, i suoi figli, indifesi, senz’armi, senza scarpe, con le gambe coperte, a 40 gradi sottozero, dalle fasce della Grande guerra. (Quando partì la sua compagnia era formata da 8 ufficiali e da 142 alpini. Al ritorno gli ufficiali rimasti in vita erano 3 e gli alpini 70).
Fu fedele a quel suo giuramento, nella rigidezza militare del suo carattere: avrebbe usato il suo parabellum e la sua machinenpistole, tolta a un tedesco, contro i nazisti che durante la ritirata aveva visto in azione con tutta la loro risentita violenza di esseri superiori contro i contadini-soldato dell’esercito italiano.
Finita la guerra, abbandonato l’esercito, Nuto divenne, per vivere, commerciante di lamiere e di profilati di ferro. Scrittore della domenica, agli inizi, e poi, seguendo anche i consigli dei grandi amici Livio Bianco e Franco Venturi, scrittore vero. Con il magnetofono al posto del parabellum. Le interviste del Testimone punteggiano la sua vita. Revelli non fu un forzato della scrittura, scrisse i suoi libri perché sentiva di doverlo fare. Giorni, anni, decenni di fatica. Partì dalla sua esperienza di soldato, La guerra dei poveri . Ancora la guerra con La strada del davai , le vicissitudini di 40 reduci della Divisione Cuneense. E via via gli altri libri, Il mondo dei vinti , la montagna povera, L’anello forte , la memoria di vita delle contadine del Nord e del Sud. Par di vederlo, Nuto, con il suo costante rispetto per gli altri, esitante sulla soglia delle case contadine, un contadino anche lui o un grande attore che conosceva nel profondo la ritrosia, il sospetto, la paura di venire ingannato di quel mondo che nella vita e nella storia non ha fatto altro che subire inganni.
Il disperso di Marburg , poi, forse il suo libro più bello, una narrazione. Un ufficiale tedesco percorre ogni mattina a cavallo la strada della Madonna degli Angeli, a Cuneo. Un giorno scompare. È «il tedesco buono» che sorride ai bambini, il cavaliere solitario, il gemello nemico, l’ombra dello scrittore. Chi è? Chi lo ha ucciso?
Nel leggere Nuto Revelli pare di trovarsi dentro un unico grande libro, una saga medievale che è anche un breviario del nostro tempo in cui si fondono in una coralità di voci i soldati, le madri, i figli, i reduci, le vedove, i contadini, le donne, i vivi e i morti, il nemico. Quasi una bibbia, una memoria del passato utile a capire meglio il nostro smarrito presente.

il Fatto 15.11.14
La “sentenza”
Processo al liceo classico: assolto l’imputato
di Andrea Giambartolomei


Torino Il classico è assolto, ma chi è il responsabile delle mancate riforme della scuola? Questa è la conclusione della Corte che ieri ha processato gli studi classici nel teatro Carignano di Torino. Al banco dell’accusa l’economista Andrea Ichino. Vicino un avvocato difensore d’eccezione, Umberto Eco. In mezzo al palco una giuria presieduta dal procuratore capo Armando Spataro, nell’insolito ruolo di magistrato giudicante.
Al centro del dibattimento tre le accuse del pm Ichino: il liceo classico è ingannevole, non prepara gli studenti anche per le materie scientifiche; è inefficiente, non aiuta ad affrontare problemi e opportunità del mondo moderno; è iniquo, ha contribuito a ridurre la mobilità sociale a favore di chi nasce in famiglie avvantaggiate. Dietro una domanda: è ancora la scuola migliore per formare le prossime teste del paese? “Il classico è stato la fucina delle classi dirigenti e qui si parla della scuola del futuro”, ha affermato la professoressa Anna Maria Poggi, presidente della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo, che ha organizzato l’evento. Agli studenti dei licei presenti la situazione ha suscitato un certo effetto: “È un processo assurdo in cui ci troviamo costretti a difenderci”, ha detto nel suo intervento una studentessa. Assurdo sì, ma stimolante.
SUL PALCO sono sfilati molti testimoni illustri. Il primo, lo scrittore di gialli e ricercatore di chimica Marco Malvaldi, ha ricordato i contributi dei greci e dei latini alla scienza, perlopiù ignorati dagli studenti. Per la difesa è arrivato tra gli applausi un supertestimone, Luciano Canfora: “Il liceo è la trincea della democrazia, nel senso più alto della parola”. Gravi accuse sono state lanciate da Stefano Marmi, matematico e professore della Scuola Normale Superiore di Pisa: il liceo classico non prepara a capire il mondo attorno, una colpa che ricade anche sulle altre scuole. “Abbiamo generato in Italia una società in cui si dice: ‘Io non mi vergogno a dire che non so nulla del teorema di Pitagora’, anche nei salotti determinanti per il futuro dell’economia”. Per il matematico oggi “viviamo in un mondo dominato dalla matematica tramite il suo braccio armato, che è il computer”, un motivo per prediligere le materie scientifiche. Di tutt’altro avviso il rettore dell’Università di Bologna, il latinista Ivano Dionigi, incalzato dal pm Ichino sulla presunta inutilità del greco e del latino oggigiorno di fronte a inglese, arabo o cinese: “Ci siamo rassegnati all’aut aut, a cui bisogna contrapporre la cultura dell’et et”, ha risposto ribadendo l’importanza di lingue morte.
In difesa sono intervenuti pure Gabriele Lolli, logico e filosofo della matematica, e Adolfo Scotto di Luzio, studioso delle istituzioni scolastiche: “La scuola pubblica senza il classico sarebbe un apparato per una moltitudine sommariamente scolarizzata.
BISOGNA smettere di pensare che l’educazione si risolva nella mera preparazione professionale”. Al termine, il pm ha chiesto la condanna del liceo classico: “In Italia il 70 per cento degli adulti è incapace di analizzare informazioni matematiche – ha ricordato citando i dati dello studio Piaac-Ocse –. Bisogna rifare gli equilibri tra cultura umanistica e tecnico-scientifica, non eliminare la prima”. Eco ha ricordato come Adriano Olivetti avesse coniugato conoscenze tecniche e classiche: “Una buona educazione umanistica è fondamentale anche per rendere inventiva e feconda la ricerca scientifica”. Dopo quasi due ore di “camera di consiglio”, i giudici hanno assolto il liceo classico perché “non sussistono” le ipotesi di inganno e inefficienza e perché l’iniquità “non costituisce reato”. Hanno però ordinato nuove indagini: bisogna capire chi – nei governi passati – ha ristretto il diritto di accesso al ginnasio, che ha sempre meno iscritti, e chi è responsabile della “mancata o distorta opera riformatrice della scuola italiana”.

Repubblica 15.11.14
Processo alla scuola. Per l’accusa Andrea Ichino, difensore Umberto Eco
Senza cultura umanistica perdiamo la memoria e viviamo concentrati sul presente
Dobbiamo scegliere: è più utile studiare i mitocondri oppure l’aoristo passivo?
Il liceo classico? Assolviamolo ma va riformato
di Vera Schiavazzi


TORINO IL liceo classico è assolto, perché «il fatto non sussiste ». Ma dovrebbe essere riformato al più presto.
Così, al Teatro Carignano, una corte già fortemente influenzata da una serie di opinioni favorevoli al liceo più antico d’Italia, da Luciano Canfora a Ivano Dionigi, ha deciso ieri, dopo un processo organizzato dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, dal Miur e da Il Mulino, dove l’economista Andrea Ichino e il semiologo e scrittore Umberto Eco sostenevano l’accusa e la difesa. Un processo guidato da Armando Spataro, procuratore capo a Torino, e accompagnato da testimonianze e “tifo”, nonché grida di dolore e di richiamo al cambiamento di insegnanti e studenti. Ma anche di argomenti che hanno trionfato, come l’invito di Eco a considerare che la cultura classica è utile e forse indispensabile, a chi deve progettare il software di un computer.
Ecco gli argomenti principali con i quali Eco e Ichino si sono “sfidati”, con ironia il primo, con passione e dovizia di dati il secondo. Ma oltre che di scuola si è parlato moltissimo dei modi italiani, e non solo, di formare una classe dirigente.
Andrea Ichino: In questo processo cercherò di far condannare il classico perché inganna alcuni studenti, che lo scelgono per avere strumenti migliori. E poi perché è inefficiente e perché è figlio della riforma Gentile, la “più fascista delle riforme”, che voleva creare una scuola di élite impedendo alle classi svantaggiate di accedervi.
Umb erto Eco: Sono d’accordo: il classico non prepara meglio dello scientifico, ma prepara in modo uguale. Ed è vero che Gentile non aveva fiducia nelle materie scientifiche. Nel liceo classico che ho fatto io c’era perfino pochissima storia dell’arte, la studiavamo solo su un vecchio manuale, il Pittaluga, con le foto in bianco e nero. E si erano dimenticati di spiegarci che Leonardo era un genio della pittura, ma non sapeva granché di chimica dato che molti suoi affreschi si scoloriscono.
Ichino: Nessuno vuole davvero abolire la cultura umanistica. Ma in Italia le competenze matematiche sono sconosciute al 70 per cento degli adulti contro il 52 medio degli altri paesi: forse è ora di restituire qualcosa. Occorre ripensare un equilibrio. Le ore non sono illimitate. Dobbiamo scegliere: studiare i mitocondri, dove si ritiene ci sia l’origine della vita di tutto il pianeta, o l’aoristo passivo e le origini della nostra cultura?
Eco: Ripensare un equilibrio vuol dire insegnare meglio il latino, dialogando in latino elementare, introdurre per tutti i cinque anni almeno una lingua straniera, e perfino la storia dell’arte. Anche il greco si può cambiare, aumentando le traduzioni del greco della koiné e di quello che anche Cicerone parlava. Propongo l’abolizione del liceo scientifico e la nascita di un’unica scuola, umanistica e scientifica.
Ichino: Su 1700 studenti bolognesi che si sono candidati al test per entrare alla facoltà di Medicina, quelli del classico erano avvantaggiati rispetto a quelli dello scientifico perché il loro voto di maturità era superiore di un punto e più rispetto alla media della scuola. Ciò nonostante, sono andati peggio nei test di chimica e di fisica. E se si paragona l’andamento al test con le medie successive degli esami si vede che a Medicina va meglio chi ha superato meglio la prova.
Eco : Ma chi ci dice che i test di medicina così come sono vadano bene? Che controllino anche la conoscenza memoriale, che pure è utile? E che invece non creino sacche di iperspecializzazione dove chi cura una malattia rara non sa più curare il raffreddore?
Ichino: Quello che sappiamo è che in Italia avere il padre laureato conta 24 volte di più per ottenere, da adulti, un reddito elevato. In America si arriva al massimo a 6 volte e ciò che conviene davvero non è tanto nascere nella famiglia giusta, ma provvedere a laurearsi in proprio. Per tacere del fatto che non solo l’inglese, ma anche l’arabo o il cinese possono essere oggi necessari.
Eco: Ma abolire la cultura classica serve solo a perdere la memoria, a farci vivere in una società orientata sul presente. Con le conseguenze che sappiamo: nessuno sa dire in che anno Mussolini e Hitler stipularono il primo accordo, nessuno dice che era il 1936.
Lo stesso Hitler non doveva aver studiato bene la storia napoleonica, altrimenti avrebbe saputo che non si può invadere la Russia senza dover affrontare almeno un inverno. Quanto a Bush, invadendo l’Afghanistan non si era informato da nessuno su come mai né Inghilterra né Russia l’avevano già fatto nei secoli precedenti: realtà orografica e rivalità tribali rendevano l’impresa difficile.
Ichino: Ma se il liceo classico è così fondamentale, mi sapete spiegare come mai nessuno lo riproduce in altri paesi? O perché anche nazioni come la Francia e la Germania lo hanno abolito e oggi riescono a reagire alla crisi meglio di noi? E perché invece di imporre a un ragazzo di 14 anni un menù fisso non glielo si propone invece à la carte, lasciandogli la possibilità di scegliere un po’ alla volta quali corsi frequentare? Vi suggerisco di guardare alla Boston Latin School.
Eco: È vero, un mio nipote frequenta a Roma un liceo francese e in effetti ha potuto scegliere à la carte, decidendo per greco ed economia. Non è troppo appassionato alla grammatica, ma ama molto il modo in cui il suo professore passa facilmente da quella alla civiltà di Atene antica. E forse così scoprirà un poco anche i misteri dell’aoristo.
Ichino: Ma perché la nostra futura classe dirigente, o presunta tale, studia per anni il greco e il latino, passa il tempo a fare versioni, e alla fine non parla nessuna di queste due lingue mentre l’inglese o il francese sì?
Eco: Perché c’è modo e modo di studiare latino e greco. Adriano Olivetti cercava e assumeva oltre agli ingegneri anche persone con cultura umanistica, educate sulle avventure della creatività. Io stesso del resto appena ho avuto uno dei primi computer di Apple ho imparato a programmare un sistema per riprodurre i sillogismi classici sulla base della mia conoscenza di Aristotele. Non è vero dunque che un informatico sia un semplice esecutore di equazioni, anche se non è necessario che abbia letto i formalisti russi per pensare all’intertestualità.
Ichino: Il liceo classico è iniquo perché non dà strumenti adeguati alla società, e dunque contribuisce a ridurre la mobilità sociale. La storia è certamente utile, ma dopo aver studiato quella e la filologia ci sono molte altre cose che uno studente deve fare. E tra queste utilizzare informazioni qualitative, di tipo scientifico, per risolvere i problemi.
Eco: È in un certo senso la mia proposta di un unico liceo. Si deve studiare il teorema di Pitagora, ma anche la sua teoria sull’armonia delle sfere. E il suo terrore dell’infinito.
Applausi, riunione della corte, sentenza dopo un’ora soltanto.

Repubblica 15.11.14
L’enigma del più grande matematico del mondo
È morto in Francia Alexander Grothendieck
Aveva 86 anni, da quasi venti viveva da eremita. Rifiutò una medaglia Fields e chiese che i suoi studi fossero bruciati
di Bruno Arpaia


A NESSUN matematico, neppure di quart’ordine, c’è bisogno di spiegare chi era Alexander Grothendieck: lo sa. Nessun cultore dei numeri e della geometria ignora, infatti, che l’eccentrico e geniale ottantaseienne morto ieri all’ospedale di Saint-Girons, nell’Ariège, non lontano da Lasserre, il villaggio di duecento anime nel quale si era ritirato e nascosto fin dal 1991, è stato il più grande matematico del Ventesimo secolo, le cui idee, come ha detto Pierre Deligne, uno dei suoi allievi, «sono penetrate nell’inconscio» degli studiosi di questa disciplina. I suoi pari spesso lo paragonano a Einstein, con il quale Grothendieck condivide il mediocre profitto scolastico.
E anche l’indipendenza di pensiero, la potenza immaginativa e una stupefacente capacità di lavoro. Faticano, invece, a trovargli un equivalente tra i grandi matematici: secondo loro, né Hilbert, né Cantor, né Poincaré, né André Weil possono dirsi esattamente alla sua altezza. Noi profani dobbiamo fidarci. Tuttavia, a giudicare dai riconoscimenti ottenuti, il suo talento sembra immenso: nel 1966 ottiene la medaglia Fields (il Nobel dei matematici, assegnata ogni quattro anni), nel 1977 gli viene attribuita la medaglia Émile Picard, dell’Accademia delle Scienze francese, poi, nel 1988, vince il premio Crafoord dell’Accademia di Svezia. Lui, se ne frega: la medaglia Fields la rivende e trasferisce il denaro al governo del Vietnam del Nord nel pieno della guerra contro gli Usa; la seconda la trasforma in uno schiaccianoci «molto efficace», come dirà a un amico; il terzo, coronamento di qualunque carriera, semplicemente lo rifiuta.
Ma, a quel punto, la svolta radicale della sua vita è già av-venuta da un pezzo: a contatto con gli “arrabbiati” del maggio francese, infatti, ha lasciato l’insegnamento e ha smesso di pubblicare, per la costernazione di tutto il mondo scientifico, abituato alle performance e alle invenzioni matematiche del genio venuto dal nulla, dell’apolide naturalizzato francese soltanto nel 1971, quando era sicuro che nessuno l’avrebbe più chiamato a fare il servizio militare.
Grothendieck era nato, infatti, nel 1928 a Berlino da un padre fotografo e da una madre giornalista che, nel 1933, per sfuggire al nazismo, lasciano il figlio a un amico e si trasferiscono in Francia, per poi prendere parte alla guerra civile spagnola nelle milizie anarchiche. È solo nel 1939 che l’undicenne Alexander li raggiunge nel sud della Francia. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, però, il primo ministro francese Daladier decide di trasferire gli esuli tedeschi antinazisti, insieme ai “sospetti” di ogni risma, in terribili campi d’internamento. Vi finiscono Walter Benjamin, Hannah Arendt, Arthur Koestler… E la famiglia Grothendieck. Il padre sarà poi mandato ad Auschwitz, dove morirà, e Alexander e la madre nel campo di Rieucros. Lì, però, i ragazzi possono andare a scuola, e Grothendieck farà il liceo a Mende, a tre chilometri dal campo. Bravo studente, ma non brillante, si metterà in luce soltanto quando, per la tesi di laurea all’università di Montpellier, verrà mandato a Parigi e poi a Nancy. Incaricato di seguirlo è Jean Dieudonné: un po’ per gioco, un po’ per metterlo alla prova, il grande matematico gli sottopone quattordici problemi irrisolti da molti anni e gli dice di provare a sviscerarne almeno uno. Pochi mesi dopo, il giovane Grothendieck si ripresenta dal professore: li ha risolti tutti, e in maniera fortemente innovativa.
I vent’anni che seguono, tra il 1950 e il 1970, sono quelli della sua massima produttività scientifica, sebbene, essendo un apolide, sia complicato trovargli un posto statale. Risolverà il problema un’istituzione privata, l’Ihes. Lì Grothendieck scrive i suoi Elementi di geometria algebrica , che rivoluzionano gli studi matematici così come lo spazio tempo einsteiniano ha rivoluzionato la nostra stessa idea di mondo, descrivendo con precisione estrema spazi esotici in cui aritmetica e geometria sono un tutt’uno. Fonda la geometria algebrica, formula la “teoria dei fasci”, inventa il concetto matematico di schema che generalizza il concetto di “varietà algebrica”. Come ha scritto Luca Barbieri Viale, «il profano che si accosta all’opera di Grothendieck dovrà abbandonare il senso comune che guarda al matematico come un problem solver e provare veramente a guardare la matematica come un’arte e il matematico come un artista».
Il Sessantotto verrà a spezzare quest’incantesimo: Grothendieck si ritira dall’insegnamento, abbandona la comunità scientifica e fonda Survivre et vivre, un’associazione che si batte per l’ecologia radicale. Poi, per qualche altro anno, torna a insegnare a Montpellier, scrivendo e lavorando molto, ma senza mai pubblicare nulla né frequentando i colleghi, finché, nel 1988, il suo ultimo atto pubblico è il rifiuto del premio Crafoord. Alexander Grothendieck vive già da tempo come un eremita, ma nel 1991 va oltre: sparisce. Prima di far perdere le sue tracce, affida 20mila pagine di appunti e di lavori conclusi a un amico, con l’ordine di distruggerli: sono cinque scatoloni che resteranno per anni in un garage prima di essere affidati all’Università di Montpellier. L’ultimo segno di vita di Grothendieck si materializza quattro anni fa: ai curatori del sito www.grothendieckcircle.org, che aveva pubblicato studi su di lui e alcuni suoi testi, arriva un biglietto brusco in cui il grande matematico ingiunge di far scomparire dalla circolazione ogni sua opera e ogni suo scritto. E ai responsabili del sito non resta altra scelta che obbedire.
Per fortuna l’amico a cui aveva affidato le 20mila pagine di appunti si è comportato come Max Brod con Kafka, e non ha distrutto i suoi inediti. E forse adesso i suoi eredi, penetrando finalmente in quella casetta sperduta sui contrafforti dei Pirenei dove nessuno poteva mettere piede da più di vent’anni, troveranno altri appunti e scartafacci. Ci vorrà del tempo, molto, per sviscerarli tutti. E per aggirarsi insieme ad Alexander Grothendieck nei meravigliosi spazi che ha studiato, descritto e inventato. Per addentrarsi nella sua storia romanzesca.

Corriere 15.11.14
«Announo», il politichese dei giovani procede per luoghi comuni
di Aldo Grasso

Che fatica seguire una trasmissione come «Announo»! Rischi della prima puntata, è vero, ma raramente capita di vedere un talk così scombinato, già a livello di preparazione. Comincia Michele Santoro, con un editoriale contro Renzi. Vecchia tecnica assembleare: l’importante è crearsi un nemico, ieri Berlusconi, oggi Renzi. Ma l’editoriale è solo un pretesto: il compito di Santoro è quello di marchiare a fuoco il programma: il brand sono io (La7, giovedì, 21.10).
Il difetto principale della puntata sta proprio nell’impostazione, perché c’è un totale scollegamento tra i servizi filmati e la discussione in studio, perché la presenza di Vauro (accompagnato dal tenero Vincino) sfiora il patetico; perché The Jackal deludono parecchio (le «star del web», se vanno avanti così rischiano di non crescere più); perché, nel finale, la conduttrice Giulia Innocenzi ha una tremenda caduta di stile, invitando le Femen che con parole e gesti volgari attaccano il Papa, per stigmatizzare la sua pericolosa presenza a Strasburgo, dove parlerà al Parlamento europeo!
Il tema sociale della serata è capire se il sindacato e l’ospite principale, il segretario della Fiom Maurizio Landini, con maglietta della salute d’ordinanza, sono contro i giovani.
È evidente che, a parole, Landini se li mangia tutti: è il suo mestiere (una ragazza però gli fa notare che ormai in fabbrica ci mette piede solo come sindacalista). Anche perché il casting è stato fatto fra giovani che parlano di politica in politichese (a quell’età, ci siamo passati tutti, si procede fatalmente per luoghi comuni) ed è difficile che si alzi qualcuno e ribalti il discorso a partire da altri punti di vista (per tutta la sera, tanto per dire, Landini ha parlato di diritti e mai di doveri).
Fra le ragazze la più preparata mi è sembrata Laura, la peggiore Federica: solo urla e frasi fatte. Naturalmente, il pubblico da casa ha scelto Federica. Mai come ora dobbiamo abbassarci «all’altezza dei tempi».