Il Capo dello Stato da Napoli: «La secessione è grottesca. Nel ‘43 i separatisti venivano arrestati» «Non esiste un popolo padano»
Ora basta sconti a Bossi: vuole sfasciare l’Italia
di Michele Ciliberto
È venuto il momento di dire una parola chiara sulla Lega, dopo tanti discorsi e tante analisi che il tempo ha dimostrato senza fondamento. La violenza delle reazioni alle parole di Napolitano fanno comprendere come gli sforzi per istituzionalizzare la Lega e addirittura nazionalizzarla, coinvolgendola nel governo siano senza fondamento.
Del resto, nello statuto del movimento è esplicitamente detto che l’obiettivo ultimo è la secessione e la costituzione della Padania stato indipendente. È importante che il segretario del Pd abbia annunciato una manifestazione «in nome del popolo italiano» per il 5 novembre, iniziando ad attaccare frontalmente la Lega. È sbagliato infatti pensare che Bossi possa distaccarsi da Berlusconi cercando un nuovo sistema di alleanze. Bisogna riconoscere che c’è del «metodo» nella follia del capo leghista: la Padania è stata e resta la stella polare di tutta la sua politica e su questo altare è disposto a sacrificare ogni cosa e perfino a scontare momenti di grande tensione con la sua stessa base. È infatti convinto che saranno i risultati – cioè la storia – a dargli ragione. Negli ultimi anni, Bossi, dopo aver agitato la bandiera della secessione, si è rassegnato al federalismo solo perché si è reso conto che, in un’Europa unificata dall’euro, non c’era più alcuno spazio per una prospettiva che mirasse allo smembramento del Paese. Ne ha preso atto con il realismo duro e brutale che lo caratterizza. In quel quadro, parlare di secessione non aveva alcuna possibilità di successo o di consenso. Si è dunque alleato con Berlusconi per cercare di ricavare dalla nuova situazione tutto quello che poteva favorire la Padania, senza rinunciare mai all’obiettivo ultimo, cioè alla secessione.
Per Bossi è precisamente questa situazione che oggi si è incrinata con la crisi mondiale, le difficoltà dell’euro, i problemi drammatici dell’Italia. Tutto ciò che preoccuperebbe una classe di governo nazionale all’altezza del compito è solamente musica per le sue orecchie. Anzi, più aumenta la crisi, più l’euro entra in difficoltà, più la situazione dell’Italia si avvicina a quella della Grecia, più ai suoi occhi si crea una situazione favorevole alla costituzione, ora e subito, della Padania. È per questo che Bossi e i dirigenti leghisti più vicini a lui stanno in questi giorni tirando la corda fino al punto di spezzarla, entrando in conflitto diretto anche con il Presidente della Repubblica. Ma neppure questo sorprende: se prima avevano bisogno di una sorta di alto «garante» del processo federalista, in grado di sostenere – o almeno di non ostacolare – le loro aspirazioni, ora non ne hanno più necessità. Anzi, il Presidente della Repubblica, con i suoi richiami, si è trasformato in un ostacolo da affrontare anche brutalmente fino a definirlo un «vecchio comunista».
Se le cose stanno così, si capisce che Bossi abbia contribuito in modo determinante a salvare Milanese e Romano dall’arresto: la continuità del governo di Berlusconi genera una situazione di crisi e di degrado sempre più grave e più acuta per l’Italia, che è invece fondamentale per l’imporsi della prospettiva secessionista. Un nuovo governo sarebbe in questo momento letale perché ridarebbe fiato alla nazione, rafforzandone il prestigio e l’unità: l’ultima cosa che il capo della Lega vuole. Appoggiando Berlusconi, Bossi e i suoi lavorano, coscientemente, per lo sfascio del Paese e la fine dell’Italia quale stato nazionale unitario. L’intervento del Presidente della Repubblica ha avuto, tra gli altri, il merito di rendere chiara questa situazione facendo comprendere cosa si muove nel fondo delle viscere leghiste. Sarebbe bene che tutti capissero che al governo dell’Italia c’è una forza che lavora coscientemente, giorno per giorno, per la sua distruzione quale stato nazionale unitario.
Repubblica 1.10.11
La coscienza dello Stato
di Ezio Mauro
Ieri Giorgio Napolitano ha rotto un pezzo dell´incantesimo che blocca il Paese in questa lunga agonia del berlusconismo. Spazzando via false credenze, mitologie e leggende politiche che pure hanno imprigionato e condizionato l´attività di questo governo, il Capo dello Stato ha detto chiaramente quel che la politica (anche di opposizione) non riesce a spiegare: non esiste un popolo padano, pensare ad uno Stato lombardo-veneto che competa nella sfida della globalizzazione mondiale è semplicemente grottesco, e una via democratica alla secessione è fuori dalla realtà.
Dopo queste parole, vivere nella finzione non sarà più possibile. Ci vuole coraggio istituzionale - quindi responsabilità - nel pronunciarle, perché l´Italia politica ha accettato per anni che crescesse dentro la cultura della destra berlusconiana questa leggenda nera della secessione possibile, della Padania immaginaria, fino alla buffonata delle false sedi ministeriali al Nord, col ritratto di Bossi appeso ai muri. Oggi, semplicemente e finalmente, lo Stato dimostra di avere coscienza e nozione di sé, e dice di essere uno e indivisibile, frutto di una vicenda nazionale e di una storia riconosciuta.
È una frustata alla politica, Lega, governo e maggioranza in primo luogo: ma anche all´opposizione.
Napolitano infatti denuncia la rottura del rapporto tra eletti ed elettori, come se la politica si sentisse irresponsabile. E proprio nel giorno in cui le firme per il referendum abrogativo hanno raggiunto un milione e duecentomila, chiama in causa per questo il Porcellum: voluto e votato da Berlusconi e dalla Lega, colpevole di aver spostato la scelta dei parlamentari nelle mani dei capi-partito, spezzando il collegamento tra i cittadini e i loro rappresentanti. Per questo il Presidente chiede espressamente una nuova legge elettorale per ripristinare la fiducia nelle istituzioni.
Guai se le parole del Quirinale restassero inascoltate, al punto in cui è giunta la disaffezione dei cittadini verso il sistema politico-istituzionale. È un invito a dire la verità, a farla finita con gli inganni, a restituire la parola ai cittadini, a "cambiare aria" nel Palazzo. Se accadrà, anche la finzione di governo che si arrocca a Palazzo Chigi avrà vita breve.
Repubblica 1.10.11
Il clan del Cavaliere
di Massimo L. Salvadori
Tra poco più di tre mesi si chiuderà il centocinquantesimo dell´unità d´Italia. Chissà che lo stellone della Repubblica non faccia al Paese il grande regalo di chiudere l´anno delle celebrazioni con la caduta dell´infausto governo dell´uomo che, screditatosi per i motivi più squallidi come mai accaduto ad alcun Presidente del Consiglio nella nostra storia, ha avuto l´arroganza di autoproclamarsi con il plauso dei suoi fedeli il maggiore statista dal 1945 in poi.
Quest´uomo non lo vuole più una crescente maggioranza degli italiani, non il mondo dell´imprenditoria che pure lo aveva acclamato come il suo beniamino, non il mondo del lavoro e neppure - nonostante la gratitudine per i tanti privilegi economici e le posizioni retrive assunte in materia di diritti civili - la Chiesa romana, che con Bagnasco ha fatto finalmente sentire una tagliente voce critica. Sulla scena internazionale poi quest´uomo è oggetto della palese freddezza dei suoi partner e dall´ironia e del disprezzo di molti tra i più prestigiosi e influenti organi di stampa dell´Occidente. Piace solo più a Putin. Sennonché egli ha preso a prestito e continuamente ripete proprio la parola d´ordine che Borrelli aveva lanciato per fini opposti ai suoi: resistere, resistere, resistere. E con lui resistono i Letta, gli Alfano, i Cicchitto, i Lupi, i Gasparri e gli altri del Popolo detto delle libertà, la squallida banda dei vari Scilipoti approdati alla greppia del plutocrate e il fido Bossi, che, salito sulla scena agitando il cappio ai corrotti, è diventato l´impavido protettore della spelonca dei ladroni.
E il proposito del Cavaliere di resistere a tutto e tutti è complementare a quello di cacciare o quanto meno ridurre a una comparsa chi non lo osanni e non gli si pieghi. Ieri il caso Fini, oggi il caso Tremonti. Quale sia la sua motivazione l´ha palesata Berlusconi stesso. Il suo imperativo suona: non voglio cedere ai giudici che congiurano contro di me, non voglio finire in galera o seguire la sorte di Craxi e perciò non mollo certo il potere che è la mia principale difesa e può ancora assicurarmi il processo lungo, consentirmi di allungare i miei processi fino alla prescrizione, e così via.
Si può ben capire la logica personale che spinge Berlusconi a restare sordo agli interessi del Paese, persino a quelli della sua parte politica in crescente affanno e ad aver orecchi e occhi solo per i propri. Ma a questo punto una domanda si impone: perché i suoi famigli continuano a remare disperatamente con lui nonostante la loro barca faccia ormai chiaramente acqua? Perché si riducono - salvo le ancor poche eccezioni di "prudenti" e "previdenti" come Formigoni e Alemanno che incominciano a mettere le mani avanti - alla parte di ciechi "zeloti"? La spiegazione è nella coscienza che la caduta del loro capo-benefattore è la loro caduta.
Ho detto che sembrano nuovi zeloti. Sembrano sì, ma non lo sono. Non ne hanno la spina dorsale. Lasciamo tempo al tempo, che speriamo sia il più breve, e lo vedremo. Sono infatti essenzialmente uomini di un padrone. Possiamo essere certi che questi resistenti si muoveranno in due tempi: fino a quando riterranno che il governo possa restare in piedi faranno quadrato intorno al Cavaliere, ma quando questi sarà costretto a lasciare il potere, allora eccome che lasceranno la sua barca, cercando le vie della salvezza in un fuggi-fuggi trasformistico. Forse, e lo speriamo, i più compromessi e irrecuperabili ci lasceranno le penne, ma tanti altri si butteranno alla disperata ricerca di ripari e di ripescaggi. I clienti non hanno la stoffa dei martiri. Assumere le proprie responsabilità e portarne il peso non è una loro virtù.
Ciò che per ora favorisce l´estrema difesa del bunker del rais è la persistente debolezza strategica delle opposizioni, la quale si manifesta, ci pare, soprattutto in due aspetti. L´uno è che esse persistono nel lanciare al Paese messaggi non rassicuranti su come affrontare il dopo-Berlusconi. Gli interrogativi sulle alleanze per costruire un´alternativa di governo non ricevono se non risposte che fanno oscillare il pendolo in diverse direzioni. L´altro è che la ripetuta richiesta a Berlusconi di "fare un passo indietro" prima che la sua maggioranza si disgreghi obbedendo a un sussulto di senso di responsabilità suona irrealistica dal momento che questi dice e ridice che quel passo non vuole in alcun modo fare.
L´isolamento del Cavaliere dalle forze economiche e sociali del paese sta avvenendo a ritmi sempre più rapidi; e la sua incapacità di governare ha toccato l´apice. Orbene, per il vantaggio stesso delle forze di opposizione occorre che la crisi del governo, quando arriverà, trovi la sua naturale conclusione nella sede sua propria, in Parlamento: come prova provata di una bancarotta politica. Qualsiasi ipotetica altra via - che oltretutto non si capisce quale potrebbe mai essere - gioverebbe unicamente a creare uno stato di confusione politica e istituzionale.
Un´ultima considerazione. Quando l´uomo di Arcore avrà liberato il campo, una lezione il popolo italiano non dovrebbe più dimenticare, e cioè che affidare le sue sorti ad un plutocrate in grado di avvelenare il clima politico e civile e di alterare l´equilibrio dei poteri grazie all´uso malavitoso della propria immensa ricchezza, è per un paese un´estrema sciagura.
il Riformista 1.10.11
La “rivolta” per rompere il recinto
di Emanuele Macaluso
qui
http://www.scribd.com/doc/67033812
Repubblica 1.10.11
Il fantasma dell’antifascismo
di Alessandra Longo
Lasciate stare l´antifascismo. E´ l´appello in prima pagina del «Secolo», ex quotidiano finiano ora rientrato nell´orbita berlusconiana. Un appello tutto in famiglia. Il quotidiano ce l´ha con quel deputato bolognese, Fabio Garagnani, che ha proposto di sostituire il 25 aprile con il 18 aprile (1948). Ecco una mossa considerata «controproducente». Con un 25 aprile «praticamente in agonia» perché usare «il defribillatore pidiellino e dargli la scossa»? Il consiglio dei camerati passati a Silvio è di fatto «una pubblica e accorata richiesta»: «Non vi avventurate, non sfrucugliate, non improvvisate. Non ha senso e non conviene. Si rischia solo di richiamare in vita uno zombie, di risvegliare il fantasma dell´antifascismo». Sempre a proposito di memoria condivisa.
il Fatto 1.10.11
Contro la casta dei nominati una valanga di firme
Un milione e 200 mila sì al referendum per cancellare la legge porcata che limita i diritti degli elettori. Il movimento guidato da Parisi e Di Pietro restituisce la parola ai cittadini. Ma il Pd dov’è?
I promotori: “Un miracolo, gli italiani vogliono scegliere chi votare”. Prodi: “Un trionfo”. Il Quirinale: il Porcellum “ha rotto la fiducia tra eletti ed elettori”. Elezioni più vicine?
Che lezione
di Antonio Padellaro
Diciamo la verità, quando all’inizio di agosto Arturo Parisi è venuto a trovarci al Fatto per chiedere sostegno al referendum antiporcata, il nostro sì è stato entusiasta, ma non è che fossimo così sicuri del raggiungimento del quorum. Come faranno (ci chiedevamo sommessamente) a raccogliere in meno di due mesi le 500 mila firme, a cui andavano aggiunte le altre, indispensabili, 200 mila di riserva? Siamo gente di poca fede visto che ieri mattina, i referendari, di firme ne hanno scaricate in Cassazione un milione e 200 mila. E chissà quante altre sarebbero state se gli uomini di fede Parisi, Di Pietro, Segni, Vendola e il presidente del comitato Morrone avessero avuto i mezzi per portare i loro banchetti in tutte le contrade italiane? La verità è che quel milione e 200 mila persone rappresentano l’avanguardia di una maggioranza di cittadini (di destra e di sinistra) che stanno cominciando a riprendersi la democrazia e la politica. Che non ne possono più del populismo padronale e del qualunquismo un tanto al chilo. E che desiderano ardentemente cacciare via la casta dei nominati, da troppo tempo padroni indisturbati del Parlamento della Repubblica. Pochi mesi fa furono in 27 milioni (su 29 milioni recatisi alle urne) a dire no al nucleare e sì all’acqua bene pubblico. Saranno altrettanti e forse di più ad abrogare la più infame legge elettorale che si ricordi se la Corte costituzionale riconoscerà, come speriamo, l’esercizio pieno del fondamentale diritto di voto, e se i bramini partitici non s’inventeranno qualche imbroglio. Dispiace, infine, che a questa bella festa democratica non abbia voluto partecipare, per i soliti piccoli calcoli di bottega, il Pd, partito delle occasioni perdute.
Corriere della Sera 1.10.11
La mossa di Veltroni: primarie nel Pd
Bersani: basta giochetti
di Maria Teresa Meli
ROMA — Walter Veltroni potrebbe compiere la sua mossa già dopodomani, alla Direzione del Pd. In quella sede l'ex leader potrebbe appoggiare l'ipotesi, avanzata da un suo fedelissimo, il senatore Stefano Ceccanti, di rompere il tabù dello statuto. Quello secondo il quale il segretario è automaticamente il candidato premier di tutto il partito alle primarie di coalizione. Il che impedisce agli altri Democrats che vogliono partecipare a quella gara (un nome per tutti, Matteo Renzi) di scendere in lizza.
L'idea è quella di indire le primarie nel Pd per il candidato premier, «ridando così centralità al partito». Questo, ovviamente, nel caso in cui si vada ad elezioni nel 2013, perché se il voto, invece, verrà anticipato al prossimo anno il candidato sarà Pier Luigi Bersani. E il segretario, per prevenire le mosse di Veltroni, avverte: «Se il problema sono io lo si dica chiaramente: basta giochetti».
Quello di Veltroni, comunque, non è un escamotage per mettere i bastoni tra le ruote all'attuale segretario. Tant'è vero che persino un dalemiano di ferro come Matteo Orfini, che pure non sposa l'ipotesi delle primarie, conviene sul fatto che «nel 2013, di fronte al desiderio di molte personalità, da Bindi a Renzi, di candidarsi bisognerà affrontare la questione politicamente». Neanche Orfini, quindi, crede all'intangibilità dello statuto. E non si può dire che sia un simpatizzante di Veltroni.
L'ex segretario, infatti, se decidesse di portare avanti questa proposta con forza, già lunedì in Direzione o il 10 ottobre all'assemblea nazionale della sua area, potrebbe trovare lungo la strada degli alleati insperati e non propriamente «amici». Rosy Bindi, tanto per fare un nome non a caso. La presidente del Pd in questa fase sembra non volere sfidare Bersani sulla premiership. Anzi, ripete ogni volta che il problema dello statuto non si pone.
Ma in molti nel Pd ritengono che la sua sia soltanto tattica. E le sue mosse vengono studiate con attenzione anche dai bersaniani, come vengono soppesate le indiscrezioni secondo cui gli ambienti prodiani avrebbero già scelto lei come possibile candidata, magari in tandem con Nichi Vendola. L'ex premier formalmente si tiene lontano dalle beghe del partito. E quando, a mo' di battuta, nel febbraio scorso candidò Bindi premier, si affrettò subito dopo a precisare che la sua non era una proposta. Prodi, per ora, si limita a dire che il Pd «va un po' scosso» (ed è anche questa la ragione che lo ha spinto a firmare i referendum). Comunque, l'attivismo della presidente del partito non sfugge a nessuno. Ha sottoscritto i quesiti referendari. Ha cavalcato la protesta contro i radicali, rei di non aver votato la sfiducia a Romano, costringendo il capogruppo Franceschini ad inseguirla. Ha sparato a zero contro il Pd siciliano che appoggia la giunta Lombardo. Ha continuato in questo periodo a mantenere buoni rapporti con i movimenti, tant'è vero che i «no Tav», l'altro giorno, hanno chiesto proprio a lei di mediare per riaprire un confronto sulla questione. Insomma, Bindi non sta certamente con le mani in mano, anche se ripete a tutti — e soprattutto a Renzi — che il candidato premier è il segretario.
Dunque, se si andrà a votare nel 2013 i giochi nel Pd si riapriranno inevitabilmente. Ma a quel punto, avvertono gli ex ppi che militano nelle diverse correnti del partito, «il prossimo candidato non potrà venire dai Ds, perché non possiamo trascinarci ancora nella vecchia dialettica D'Alema-Veltroni».
Corriere della Sera 1.10.11
Una lettera al direttore
Bersani: con la Chiesa per ricostruire, non per arruolarla
Caro Direttore,
si leggono cose paradossali su quale sarebbe il pensiero del Pd a proposito dei recenti pronunciamenti della Chiesa italiana. Non voglio qui andare a fondo della questione. Ho pubblicato io stesso qualche riflessione sui rapporti fra il Partito democratico, il mondo cattolico e la Chiesa italiana; vi sono stati peraltro recenti appuntamenti del Pd (ad esempio attorno alle Settimane sociali) che possono aiutare a capire. Altri ne verranno nelle prossime settimane. Sto dunque all'essenziale. I fermenti di responsabilità e partecipazione che emergono dal mondo cattolico sono un'importante novità positiva per l'Italia. Noi non cadremo mai nel ridicolo, che altri evidentemente non temono, di voler arruolare la Chiesa italiana. Semplicemente, il Pd è un partito di laici e di cattolici, è un partito che riconosce i propri valori in quelli di un umanesimo forte, è un partito che ascolta con rispetto e attenzione le preoccupazioni della Chiesa riguardo alla vita del Paese, nella peculiarità del suo magistero, come proprio ieri Monsignor Crociata ha voluto efficacemente chiarire. È qui che comincia il nostro lavoro. Vogliamo che il nostro progetto per l'Italia sia espressivo anche di tante energie positive e vitali che il mondo cattolico esprime, in particolare su un arco di temi che va dalle questioni sociali a quelle educative, a quelle antropologiche. Per noi l'ispirazione è quella dei grandi principi costituzionali che sentiamo vivi, attuali e operanti e assolutamente ospitali sia dell'autonoma responsabilità di mediazione della politica sia di quella convergenza di idealità e di valori che abbiamo promesso nascendo come partito. C'è un cambiamento davanti all'Italia. Noi chiameremo ricostruzione questo cambiamento. In nome della ricostruzione democratica e sociale di questo Paese sentiamo la responsabilità di aprire il nostro sguardo e le nostre disponibilità. È quello che tocca a noi ed è quello che stiamo facendo; fuori dai clamori, certamente, ma forse un po' più in profondità di quanto non ci venga riconosciuto.
Pier Luigi Bersani, segretario Partito democratico
Repubblica 1.10.11
Bersani: "La premiership? Chi è contro di me lo dica"
di Giovanna Casadio
CHIANCIANO - Una risposta secca alla minoranza, ai veltroniani, a Matteo Renzi e a tutti quelli che - nell´agonia del berlusconismo - pensano che prioritario per il Pd sia parlare di premiership del centrosinistra e scaldano i motori in vista di primarie che vogliono «aperte» o di un congresso anticipato.
Bersani li liquida: «Non vedo l´effetto di queste manovre, sono ginnastiche che portano poco lontano. Sono affezionato a un´idea e per questo cerco di non reagire. Vedo anch´io un affollarsi di ipotesi, allora vorrei franchezza: se qualcuno pensa che il problema sia Bersani lo dica subito e chiaramente. Io non ho nessuna intenzione di andare via dallo stile avuto finora». Insomma il segretario non fa passi indietro. Ma è Rosy Bindi a mettere il dito nella piaga e a chiedere conto: «O´ Pier Luigi - dice - qui bisogna mettere fine a questi giochini, e il gioco politico lo devi guidare tu. Basta silenzio, basta lasciare correre. «E´ tempo di reagire. Non va indebolita la tua leadership perché è quella in cui noi abbiamo investito».
La "pasionaria" Bindi ha riunito a Chianciano la sua associazione «Democratici davvero». Bersani viene festeggiato (giovedì ha compiuto 60 anni), con un happy birthday alla Marylin e un ulivo accompagnato dal cartello «io sono nuovo». Ecco, la parola-chiave è «rinnovamento». «Non può risultare da tutti questi giochetti interni una delegittimazione del segretario del partito», insiste Bindi. Si sfoga, poco prima del botta e risposta al Palazzo delle Terme: «Io qui voglio fare la provocatrice. Si sente parlare di lotte generazionali e il Pd si divide tra quelli che fanno i giochetti e quelli che non intendono farglieli fare». E poi rincara: «Sappia Bersani che se c´è un problema di ricambio generazionale allora ce n´è anche uno di genere». Sta a significare che se i giochi per la premiership si riaprono allora non solo Renzi, Zingaretti, il «papa straniero» ma anche lei, Rosy Bindi, si mette in gara.
Il tema leadership non era mai stato affrontato così esplicitamente. Bersani sfiora tutti i problemi, dalle alleanze («Per ricostruire c´è bisogno di un campo largo») alla questione dei cattolici (nessun silenzio del Pd). Discute della riorganizzazione del partito e a Veltroni replica: «La questione non si risolve in due aggettivi, leggero o pesante». Sulla sua idea di leadership: «Fuori dal collettivo non ho nessuna ambizione. Sono convinto che al prossimo giro si capirà che il leader è uno che organizza un collettivo, perciò mi tengo fuori dalle sollecitazioni dei giochetti. «.
l’Unità 1.10.11
Da Lampedusa ai campi
La nuova schiavitù dei braccianti africani
Viaggio con la Flai Cgil nelle terre di raccolta. Storie di uomini arrivati coi barconi e rimasti in Sicilia a lavorare. Senza speranze né diritti. «Non vediamo mai il sole»
Reportage di Manuele Modica
Basta metterli in padella con un filo d’olio, magari l’olio dei Monti Iblei. Dopo qualche minuto di cottura si può aggiungere una dozzina di capperi, delle olive ed ecco pronto un ottimo sugo all’eoliana. Ma il più lo fanno loro: i pomodori pachino.
Una delle 48 eccellenze siciliane, come sottolinea Totò Tripi, segretario generale della Flai Cgil, Sicilia. Quando lo fa notare è a Pachino, il paese in provincia di Siracusa che regala il nome al pomodoro, con un pullman pieno di membri della Flai. Ci arrivano da tutta Italia, si alzano alle 3,45 del mattino, perché da questo lato della costa siciliana, da Cassibile a Vittoria, passando per tutti i paesi di mezzo, c’è l’altra faccia di Lampedusa. Ed è una faccia quotidiana, comune a tutti, che fa parte dei gesti normali: prendere un pomodorino, metterlo sotto l’acqua, cucinarlo o metterlo su un piatto, condirlo, infine portarlo in bocca. È dolce e polposo? Quel che si gusta però è solo l’ultimo capitolo di una storia amarissima. I veri ingredienti nei nostri piatti sono altri. Sono le storie, le speranze, il sudore, le paure di uomini che sono andati altrove per inseguire virtude e conoscenza ma finiscono a vivere come bruti. Sono gli immigrati, che quando ancora è notte si raccolgono nelle piazze dei paesi, agli angoli delle strade, per essere raccolti dai caporali e portati nei campi, dentro le serre in cui i prodotti che mangiamo vengono coltivati. Così la Cgil Flai, porta acqua per rinfrescare la mente, per ripulire il palato e metterci parole che sembrano marcite sulle nostre tavole da decenni. Fermano il tempo, e lo portano indietro, dignità, diritti: è possibile. Si mette in marcia la Flai italiana, compatta, entusiasta, per portare a Vittoria, Ispica, Scoglitti, Santa Croce Camerina, Rosolini, Pachino, Cassibile. Il possibile.
Mentre nel buio di Pachino marcisce in piena evidenza l’umanità. Quella degli agicoltori, quella dei caporali. Quella di chi non sente più di esser un uomo ma una bestia: «Aprono le stalle, e ci chiudono dentro», racconta Mohassad. Ha 62 anni, e nelle pieghe del suo volto si legge rassegnazione, solo un filo di rabbia accompagna i racconti: «Non vediamo la luce, ci alziamo che è buio, veniamo qui che è buio. Poi ci fanno salire nelle macchine, ci portano nelle serre. Stiamo piegati tutto il giorno, con le gambe nell’acqua, perché quei terreni sono umidi. Abbiamo la schiena piegata, se mi alzo sbatto la testa contro l’impalcatura della serra. Torniamo a casa che è di nuovo buio». Se casa si può chiamare. La gran parte dei tunisini raccolti in un angolo di strada in attesa di lavoro, ad Ispica la “raccolta” umana avviene in piazza, subito sotto la caserma dei Carabinieri vivono in una casa abbandonata: «Non abbiamo luce, né coperte. Non possiamo cucinare, non ci sono bagni, non c’è acqua».
Amarsaber ha gli occhi verdi, danno luce a un viso tondo che ha una
sola piega: «Io lo giuro, nel mio cuore sono malato. Qua c’è troppo problema. Quando vedo un uomo della mia età con donna e un bambino, io lo giuro, nel mio cuore sono malato, perché ho 30 anni, quando trovo una moglie, faccio una famiglia, vengo qui di notte, spero di avere lavoro, non vedo mai la luce, vivo senza acqua. La vita se n’è andata così. Mia madre quando chiamo a casa mi chiede quando faccio una mia famiglia, ma io come faccio, soldi non ne ho. Quando vedo italiano con moglie e bambini, mi chiedo, perché non posso avere anch’io, perché mi trattate così».
Quegli occhi verdi non recriminano, pregano, mentre aprono a una sconosciuta italiana, il cuore addolorato. «Malato», dice arrampicandosi a una lingua di cui conosce soprattutto le parole più cattive: «I siciliani ci dicono brutte parole mentre lavoriamo. Quali? Parlano delle nostri madri, delle nostre sorelle... Dicono parole molto brutte». In questa buia “raccolta” siciliana sono tanti, troppi che vogliono parlare, vogliono raccontare che «c’è molto razzismo, che non sempre vengono pagati». Perché Zouhaier lo dice con chiarezza: «Non ci sono regole in Italia, c’è delinquenza, mafia. Chiedono a noi di avere un lavoro per potere rinnovare il soggiorno. Ma a noi fanno lavorare solo in nero. Altrimenti i capi fanno pagare a noi le regole. Ci tolgono i soldi se vogliamo il permesso». Quel che si vede e si ascolta richiama alla memoria storie che sembravano sepolte nel passato e in altri luoghi, così che l’intervento della segretaria generale della Flai, Stefania Crogi, traduce perfettamente la realtà, nuda e cruda: «Questo è un nuovo schiavismo, cos’ha di diverso dalla schiavitù, dalle galere africane che tutti consideravamo sepolte? Non possiamo permettere che si commerci sulla vita di chi cerca di fuggire a una realtà impossibile. Veniamo qui non solo per vedere e raccontare ma con delle proposte, perché non basta che il capolarato sia finalmente stato riconosciuto come reato, dobbiamo falciare le fondamenta, lo possiamo fare con gli uffici di collocamento pubblici. Perché non è vero che una realtà diversa da questa non è possibile».
Lo dice con slanci, veemenza, a una platea che poi la accomagnerà in fiaccolata per commemorare Georg Samir, che lo scorso marzo s’è dato fuoco in una di quelle piazze del capolarato, perché non aveva lavoro. E con lui commemorare tutti i migranti morti nel mare di Sicilia. Anche Adouani Abdessatar non trova lavoro, non lo trova da 6 mesi. Resta in silenzio accanto ad Amarsaber, ascolta, poi porge il documento italiano: il viso paffuto del documento non corriponde a quello smilzo di fronte agli occhi. Era stato emesso il 12 aprile scorso. È un Permesso di soggiorno per motivi umanitari, scadrà l’11 ottobre.
Perché Adounai è stato fortunato: a metà marzo, dopo 18 ore in barca, è arrivato vivo a Lampedusa. È stato fortunato perché quando è arrivato vivo a Lampedusa ancora non erano iniziati i rimpatri. Così la fortuna l’ha portato al centro di accoglienza di Crotone, dove ha ottenuto quel permesso di soggiorno che recita “per motivi umanitari”. Lui ha comprato un biglietto, ha preso il treno ed è arrivato a Pachino, tutto quel che sapeva è che c’era lavoro. Non ha trovato quello, e non ha trovato umanità.
Corriere della Sera 1.10.11
Tre immigrati su quattro
hanno un conto in banca
di Al.Ar.
ROMA — Si parla dei problemi di integrazione quando si parla di immigrati. Di inclusione. Di assistenza sociale. Di asilo politico. Mai di economia. Eppure: lo sappiamo che ben 230 mila aziende nel nostro paese (l'8,5% del totale) sono di proprietà di immigrati? Erano il 5,7% appena tre anni fa.
«L'unico segmento di mercato che sta crescendo in Italia è proprio quello degli immigrati», dice Federico Ghizzoni, amministratore delegato di Unicredit, la banca che ormai da sei anni ha voluto aprire «agenzia tu», ovvero filiali dedicate ai cittadini immigrati.
Facili i conti, adesso. Nel nostro paese gli immigrati non soltanto hanno conti correnti in grado di competere con i nostri, ma che, in alcuni casi, loro risultano essere clienti molto migliori di noi italiani.
È sempre Federico Ghizzoni che sciorina i dati di uno studio sui risparmi bancari degli immigrati fatto da Unicredit e presentato ad un convegno organizzato dal Centro studi americano e dalla fondazione Italianieuropei.
Uno studio che ribalta gli stereotipi. Da qui, infatti, emerge che tra gli immigrati che vivono da dieci anni nel nostro paese, ben il 74% ha un conto in banca, mentre fra quelli praticamente appena arrivati (da uno a cinque anni fa) il conto corrente in banca ce lo ha aperto almeno uno su due.
Non soltanto: tra questi correntisti ben tre su quattro (il 75 per cento) ha chiesto e ottenuto un mutuo. Ovvero ha fornito alla banca garanzie sufficienti per ottenere un prestito, anche cospicuo, utile per comprare una casa o magari aprire attività commerciali.
Facili i conti, adesso. Con quasi cinque milioni di immigrati residenti in Italia, i correntisti nelle banche italiani sono arrivati a coprire oltre il 5 per cento. E Federico Ghizzoni garantisce: «Sono correntisti molto affidabili. E noi siamo convinti: la migliore integrazione che possiamo garantire loro è proprio la fiducia per la concessione di un mutuo, di un prestito. Del resto basterebbe vedere i dati relativi all'insolvenza. Alcuni immigrati risultano in questo assolutamente migliori dei correntisti italiani».
Andiamo a vederli i dati dell'insolvenza: al primo posto spiccano gli ucraini, con l'1,3% di media. Ovvero: un punto percentuale netto meno degli italiani che, in media, risultano insolventi per il 2,3%.
il Fatto 1.10.11
Quanti Lavitola di carta
Fra i giornali politici che ricevono soldi dal governo c’è chi vende e chi ruba
Le nuove proposte del sottosegretario Paolo Bonaiuti
di Carlo Tecce
qui
Corriere della Sera 1.10.11
Da Malachia al cardinale Vallini
Quando i «corvi» sono in Vaticano
di Armando Torno
L'anonimo alla Santa Sede continua il suo lavoro. Anzi, lo sta intensificando. Dopo le missive di un mese fa al cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, con riferimenti offensivi e minacce di morte, ora è toccato a un altro porporato, Agostino Vallini, vicario della diocesi capitolina. La firma «Sacerdoti di Roma» non aiuterà certamente la Gendarmeria, che ha avuto l'incarico di scovare il corvo. Nome inevitabile da attribuire alla penna senza volto da una settantina d'anni, dopo il film drammatico Le Corbeau (1943) diretto da Henri-Georges Clouzot. La denuncia o l'illazione in mala fede anonima sembrano ormai caratteristica di molteplici episodi di cronaca passati, per una ragione o per l'altra, tra le mura del Vaticano. Se ne registrarono di tutti i toni, mescolati anche a pettegolezzi, alla fine del secolo scorso allorché il vicecaporale Cedric Tournay uccise il comandante delle Guardie Svizzere Alois Estermann e sua moglie Gladys Meza. Si vide poi al lavoro un anonimo particolarmente motivato per eliminare Dino Boffo: era l'agosto 2009. Altri corvi apparvero durante i mesi dello scandalo dei preti pedofili. Questi uccellacci non saranno coraggiosi ma sanno il fatto loro. Si prendano, per esempio, le minacce al cardinale Bertone (a spedirle, come trapelò, pare sia stato un anziano monsignore di curia). Lo scritto si apre con una locuzione che ricalca quella di San Giovanni Bosco il quale, nel 1854, mentre era in discussione la legge per sopprimere gli ordini religiosi, fece pervenire a Vittorio Emanuele II la trascrizione di antichi documenti ritrovati a Hautecombe, culla e tomba di Casa Savoia. In essi gli antenati dei re dell'Italietta maledicevano i loro discendenti che avessero agito contro la Chiesa. Tra l'altro, il futuro santo confidò al sovrano un incubo: «Ho sognato un bambino che mi affidava un messaggio per voi: un funerale a corte!». E a Bertone, salesiano con noviziato a Pinerolo, il corvo ha rammentato: «Grandi funerali a corte!». Non è il caso di scandalizzarsi per qualche lettera anonima, ché la storia della Chiesa è gremita di documenti in calce ai quali manca il nome. Forse non sono frequenti come ai giorni di Stalin o nell'epoca maccartista, quando le denuncie riguardanti presunti comunisti diventarono una moda, ma non mancarono in ogni tempo. Del resto, le Profezie di Malachia, pubblicate per la prima volta nel 1595, più che illuminazioni sui futuri pontefici romani vanno considerate un arguto falso senza certo autore. Lo scopo? Ipotecare o influenzare qualche elezione dei successori di Pietro. Il grande storico von Pastor, tra gli altri, asseverò che tali vaticini nacquero durante un conclave e non dalle visioni di San Malachia, vescovo di Armagh nel XII secolo. Ciò non toglie che l'anonimo riuscì a mietere vittime illustri, tra le quali il cardinale statunitense Francis Joseph Spellman. Sarà stata anche una diceria, ma le cronache registrarono una mossa di sua eminenza — fiducioso in quella patacca — per forzare gli eventi e diventare papa dopo la dipartita di Pio XII. Siccome il successore avrebbe dovuto essere «Pastor et nauta», il porporato si sarebbe fatto portare in battello sul Tevere con alcune pecore a bordo. Epistole anonime arrivarono agli inquisitori (molte sono conservate nell'Archivio Vaticano) e agli esorcisti piccoli e grandi; missive senza nome non mancarono per secoli alla corte pontificia e furono, tra l'altro, la fonte privilegiata dei Procuratori della Bestemmia di Venezia. Quegli stessi che causarono la cacciata dalla città del povero abate Lorenzo da Ponte, librettista di Mozart, giacché fidanzati e mariti becchi decisero di liberarsi facendo piovere lettere non identificabili su quel rapace di alcove. Il quale, nelle Memorie, ne rise di buona maniera. Scrisse il fellone che il suo esilio venne causato non dai dolori delle corna ma dall'aver mangiato prosciutto il venerdì.
La Stampa 1.10.11
Paladino della lotta antimafia, è accusato di due episodi di violenza
Sei anni per pedofilia: fa ancora il prete
Palermo: il caso di don Turturro, in appello il pg chiede la conferma della condanna
di Riccardo Arena
PALERMO. «Esci dal sospetto. Io apro le pagine dell’infanzia. Le pagine della coscienza ancora invincibilmente immacolate. Io uccido la sfiducia in me stesso e persino nella morte». Lo scrive su un giornale online diretto da Vincenzo Noto, un sacerdote suo amico, padre Paolo Turturro, ex parroco palermitano condannato a sei anni e sei mesi per pedofilia, in tribunale, ma mai sospeso dal suo incarico ecclesiastico. Il processo è andato avanti molto lentamente: era iniziato nel 2004 e dopo la sentenza di primo grado (luglio 2009) ci sono voluti due anni e mezzo per iniziare l’appello.
Adesso il procuratore generale Carmelo Carrara ha chiesto la conferma della pena per il presunto pedofilo. Non ha dubbi, il rappresentante dell’accusa: Turturro, prete un tempo impegnato nell’antimafia militante, è «un ministro del culto in cui albergava il mostro della pedofilia». Eppure per lui nessuna sospensione, nemmeno un intervento della chiesa sulla sua vicenda, né un provvedimento cautelare delle autorità ecclesiastiche: mentre in Austria, Canada, Baviera, Stati Uniti, ma anche in Italia, le sospensioni scattano a decine, per semplici sospetti e per indagini appena avviate, mentre il Papa chiede perdono alle vittime della pedofilia, Turturro, lontano parente dell’attore americano John, è sempre rimasto ad amministrare i sacramenti. Per tre anni i giudici penali lo avevano «esiliato» da Palermo, obbligandolo a risiedere fuori provincia, e lui si era stabilito a Messina. Poi la misura cautelare è venuta meno e l’ex parroco della chiesa di Santa Lucia è tornato nel capoluogo dell’Isola. Non guida più la parrocchia che sta di fronte al carcere dell’Ucciardone, nei pressi del porto, e dove aveva dato vita a una serie di talvolta controverse iniziative antimafia, ma si è trasferito come rettore alla Madonna del Ponticello, nel centro storico. «È un cittadino come tutti gli altri - sostiene il vescovo ausiliare di Palermo, monsignor Carmelo Cuttitta - e per tutti i cittadini si presuppone l’innocenza fino alla sentenza definitiva. Le situazioni vanno valutate caso per caso». Ma la cautela e la severità della chiesa per gli scandali della pedofilia? «I giudici stanno facendo il loro lavoro e Turturro ha la possibilità di difendersi, finché non verrà accertata la sua responsabilità».
L'imputato ha seguito di persona tutto il processo in tribunale e ora in appello anche la requisitoria e l’arringa dell’avvocato di parte civile, Paola Rubino. La difesa ha più volte puntato sulla tesi dell’accordo per fare fuori il prete antimafia che nel popolare quartiere del Borgo avrebbe dato fastidio: «Nessuna congiura», ribatte il pg Carrara, anzi tutto il contrario, con le famiglie che in alcuni casi non denunciarono e si chiusero a riccio. Molti dei 67 testi ascoltati in tribunale ritrattarono. Il magistrato chiede anche la conferma dell’interdizione dai pubblici uffici. Il quartiere si era diviso: nella scuola in cui il sacerdote insegnava e in cui venne fuori, per caso, uno dei due episodi di violenza (le vittime avevano 10 anni a testa), qualcuno ancora difende l’imputato. Ma il Borgo in generale ha girato le spalle al suo ex parroco. E pure la chiesa attende la sentenza, prevista per il 13 ottobre.
«Padre Paolo si comporta da persona molto corretta - dice don Vincenzo Noto, già direttore del mensile cattolico Novica e oggi alla guida di un sito che porta il suo nome - continua le opere di carità e raccoglie alimenti per i poveri. Va ai mercati e glieli regalano perché conoscono lui e gli attivisti della sua associazione, “Dipingi la pace”. Il processo? Non lo so come finirà. Va avanti da tanto tempo». «Sono indignato - scrive don Turturro in un’altra riflessione scritta per www.vincenzonoto.it - su come si possa fare informazione sul dolore degli altri. Sono indignato della privacy spiaccicata su tutti i giornali. Non posso divorziare dalla parola. Non posso divorziare dall’indignazione».
Dopo essere stato allontanato dai giudici è tornato in città dove gestisce un santuario Il vescovo Cuttitta: «È un cittadino come tutti gli altri e dunque un presunto innocente»
Repubblica 1.10.11
Manifesto per una nuova Chiesa
Dalle donne al celibato le riforme dopo gli scandali
Il manifesto di Küng "Ratzinger ha fallito"
di Hans Küng
Il saggio del teologo Küng affronta gli abusi sessuali e la crisi del cattolicesimo
Quello che rende malata la situazione attuale è il monopolio del potere e della verità, il clericalismo, la sessuofobia e la misoginia
Il papato deve essere rinnovato, ai sacerdoti non si può negare il calore di una famiglia ed è necessaria l´ordinazione femminile
Nella situazione attuale non posso assumermi la responsabilità di tacere: da decenni, con successo alterno e, nell´ambito della gerarchia cattolica, modesto, richiamo l´attenzione sulla grande crisi che si è sviluppata all´interno della Chiesa, di fatto una crisi di leadership. È stato necessario che emergessero i numerosi casi di abusi sessuali in seno al clero cattolico.
Abusi occultati per decenni da Roma e dai vescovi in tutto il mondo, perché questa crisi si palesasse agli occhi di tutti come una crisi sistemica che richiede una risposta su basi teologiche. La straordinaria messinscena delle grandi manifestazioni e dei viaggi papali (organizzati di volta in volta come "pellegrinaggi" o "visite di Stato"), tutte le circolari e le offensive mediatiche non riescono a creare l´illusione che non si tratti di una crisi durevole. Lo rivelano le centinaia di migliaia di persone che solo in Germania nel corso degli ultimi tre anni hanno abbandonato la Chiesa cattolica, e in genere la distanza sempre maggiore della popolazione rispetto all´istituzione ecclesiastica.
Lo ripeto: avrei preferito non scrivere questo testo.
E non l´avrei scritto:
1) se si fosse avverata la speranza che papa Benedetto avrebbe indicato alla Chiesa e a tutti i cristiani la strada per proseguire nello spirito del concilio Vaticano. L´idea era nata in me durante l´amichevole colloquio di quattro ore avuto con il mio ex collega di Tubinga a Castel Gandolfo, nel 2005. Ma Benedetto XVI ha continuato con testardaggine sulla via della restaurazione tracciata dal suo predecessore, prendendo le distanze dal concilio e dalla maggioranza del popolo della Chiesa in punti importanti e ha fallito riguardo agli abusi sessuali dei membri del clero in tutto il mondo;
2) se i vescovi si fossero davvero fatti carico della responsabilità collegiale nei confronti dell´intera Chiesa conferita loro dal concilio e si fossero espressi in questo senso con le parole e con i fatti. Ma sotto il pontificato di Wojtyla e Ratzinger la maggior parte di loro è tornata al ruolo di funzionari, semplici destinatari degli ordini vaticani, senza dimostrare un profilo autonomo e un´assunzione di responsabilità: anche le loro risposte ai recenti sviluppi all´interno della Chiesa sono state titubanti e poco convincenti;
3) se la categoria dei teologi si fosse opposta con forza, pubblicamente e facendo fronte comune, come accadeva un tempo, alla nuova repressione e all´influsso romano sulla scelta delle nuove generazioni di studiosi nelle facoltà universitarie e nei seminari. Ma la maggior parte dei teologi cattolici nutre il fondato timore che, a trattare criticamente in modo imparziale i temi divenuti tabù nell´ambito della dogmatica e della morale, si venga censurati e marginalizzati. Solo pochi osano sostenere la KirchenVolksBewegung, il Movimento popolare per la riforma della Chiesa cattolica diffuso a livello internazionale. E non ricevono sufficiente sostegno nemmeno dai teologi luterani e dai capi di quella Chiesa perché molti di loro liquidano le domande di riforma come problemi interni al cattolicesimo e nella prassi qualcuno talvolta antepone i buoni rapporti con Roma alla libertà del cristiano.
Come in altre discussioni pubbliche, anche nei più recenti dibattiti sulla Chiesa cattolica e le altre Chiese la teologia ha avuto un ruolo ridotto e si è lasciata sfuggire la possibilità di reclamare in modo deciso le necessarie riforme.
Da più parti mi pregano e mi incoraggiano di continuo a prendere una posizione chiara sul presente e il futuro della Chiesa cattolica. Così, alla fine, invece di pubblicare articoli sparsi sulla stampa, mi sono deciso a redigere uno scritto coeso ed esauriente per illustrare e motivare ciò che, dopo un´attenta analisi, considero il nocciolo della crisi: la Chiesa cattolica, questa grande comunità di credenti, è seriamente malata e la causa della sua malattia è il sistema di governo romano che si è affermato nel corso del secondo millennio superando tutte le opposizioni e regge ancora oggi. I suoi tratti salienti sono, come sarà dimostrato, il monopolio del potere e della verità, il giuridismo e il clericalismo, la sessuofobia e la misoginia e un uso della forza religioso e anche profano. Il papato non deve essere abolito, bensì rinnovato nel senso di un servizio petrino orientato alla Bibbia. Quello che deve essere abolito, invece, è il sistema di governo medievale romano. La mia "distruzione" critica è perciò al servizio della "costruzione", della riforma e del rinnovamento, nella speranza che la Chiesa cattolica, contro ogni apparenza, si mantenga vitale nel terzo millennio.
* * *
Certamente alcuni sacerdoti vivono la loro condizione di celibato apparentemente senza grossi problemi e molti, a causa dell´enorme carico di lavoro che grava su di loro, non sarebbero quasi in grado di preoccuparsi di una vita di coppia o di una famiglia. Viceversa, il celibato obbligatorio porta anche a vivere situazioni insostenibili: parecchi sacerdoti desiderano ardentemente l´amore e il calore di una famiglia, ma nel migliore dei casi possono solo tenere nascosta un´eventuale relazione, che in molti luoghi diventa un "segreto" più o meno pubblico. Se poi da una relazione nascono dei figli, le pressioni provenienti dall´alto inducono a tenerli nascosti con conseguenze devastanti sulla vita degli interessati. La correlazione tra gli abusi sessuali dei membri del clero a danno di minori e la legge sul celibato è continuamente negata, ma non si può fare a meno di notarla: la Chiesa monosessuale che ha imposto l´obbligo del celibato ha potuto allontanare le donne da tutti i ministeri, ma non può bandire la sessualità dalle persone accettando così, come spiega il sociologo cattolico della religione Franz-Xaver Kaufmann, il rischio della pedofilia. Le sue parole sono confermate da numerosi psicoterapeuti e psicanalisti.
È auspicabile che sia reintrodotto il diaconato femminile, ma tale misura, da sola, è insufficiente: se non viene accompagnata dal permesso di accedere al presbiterato (sacerdozio), non condurrebbe a una equiparazione dei ruoli bensì a un differimento dell´ordinazione femminile. Un servizio che dà loro la stessa dignità degli uomini, completamente diverso dalla posizione e dalla funzione subalterna che recentemente ricoprono numerose donne dei "movimenti" nell´ambito della curia romana. Che in seno alla Chiesa cattolica la resistenza, e in determinate circostanze anche la disobbedienza, possano pagare, è dimostrato dall´esempio delle chierichette. Anni fa, il Vaticano vietò a bambine e ragazze di servir messa. L´indignazione del clero e del popolo cattolico fu grande e in molte parrocchie si continuò semplicemente a tenerle. A Roma la situazione venne da principio tollerata, infine accettata. Così cambiano i tempi. Anzi, un articolo uscito il 7 agosto 2010 sull´Osservatore Romano ha elogiato questa evoluzione come il superamento di un´importante frontiera poiché oggi non si può più ascrivere alla donna alcuna "impurità" e in questo modo è stata eliminata una "disuguaglianza profonda". Quanto tempo ci vorrà ancora perché in Vaticano capiscano che lo stesso argomento vale per la consacrazione sacerdotale, meglio l´ordinazione femminile? Molto dipende dalla posizione e dall´impegno dei vescovi.
©Piper Verlag GmbH, München 2011
© 2011 Rcs Libri S.p.A., Milano
Corriere della Sera 1.10.11
Gelmini...
La bocciatura dei neutrini e altre proive d’esame
risponde Sergio Romano
Che cosa pensa di questo elenco? Francesco de Sanctis, Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando, Luigi Credaro, Giovanni Gentile, Antonio Segni, Paolo Rossi, Aldo Moro, Oscar Luigi Scalfaro, Franco Maria Malfatti, Giovanni Spadolini, Tullio De Mauro e, per finire, Mariastella Gelmini...
Paolo Pellegrini
Caro Pellegrini,
Il nome di Mariastella Gelmini, collocato dopo un ironico «per finire», è un'allusione, suppongo, al comunicato del ministro della Pubblica istruzione in cui si parla con orgoglioso compiacimento di un «tunnel dei neutrini» che collegherebbe la città svizzera di Ginevra, sede del Cern, con i Laboratori nazionali del Gran Sasso. La costruzione di questi laboratori cominciò nel 1982, grazie a una iniziativa del fisico Antonino Zichichi, e si compone di alcune lunghe stanze (in tutto qualche centinaio di metri) collocate sotto 1400 metri di roccia abruzzese. Vi sono anche laboratori esterni, ma quello sotterraneo permette di ridurre notevolmente il flusso dei raggi cosmici e di meglio rilevare alcune particelle come i neutrini. L'autore del comunicato ha preso un abbaglio e ha creduto nell'esistenza di un tunnel dalla Svizzera all'Italia centro-meridionale. Il ministro dell'Università e della Ricerca scientifica avrebbe dovuto sapere che tra gli enti di cui è indirettamente responsabile vi sono anche i Laboratori del Gran Sasso, appartenenti all'Istituto nazionale di Fisica nucleare. Ma non lo sapeva e ha fatto una gaffe che ha suscitato l'ilarità della pubblica opinione. Giusta punizione. Ma è davvero necessario conoscere il mondo dei neutrini per fare decorosamente il mestiere di ministro della Pubblica istruzione?
Nella sua lettera, caro Pellegrini, lei ha citato alcuni studiosi prestati alla politica (Croce, Gentile, De Mauro), alcune persone che tennero un piede negli studi e l'altro nella politica (De Sanctis, Spadolini), uomini che ebbero cattedre universitarie, ma si dedicarono principalmente alla politica, come Aldo Moro, e altri totalmente politici. Le stesse ripartizioni valgono per altre personalità passate attraverso il palazzone di Trastevere durante il fascismo e la prima Repubblica: il quadrumviro De Bono, l'intellettuale Bottai, il commentatore dell'Osservatore Romano Gonella, la sindacalista Falcucci, l'imprenditrice Moratti, il rettore Berlinguer, i politici Bianco, Galloni, Malfatti, Mattarella, Pedini, Russo Iervolino, Sarti. Avevano competenze e origini diverse, ma tutti dovettero affrontare problemi organizzativi che rispecchiavano la crescita della popolazione italiana, la formazione di nuovi ceti sociali, le esigenze dell'economia nazionale, i limiti del bilancio, le pretese dei sindacati, la contestazione giovanile, i malumori delle famiglie. All'esame dei neutrini Mariastella Gelmini è stata bocciata. Ma la sua promozione, in ultima analisi, dipenderà dal modo in cui avrà saputo affrontare questi problemi.
il Riformista 1.10.11
Gelmini a un passo dall’Ig Nobel
di Giuliano Capacelatro
qui
http://www.scribd.com/doc/67033812
il Fatto 1.10.11
L’economia di un nuovo Stato
Carovita e poco lavoro: anche questo è Palestina
di Roberta Zunini
Ramallah. La Palestina è già un Stato, secondo la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale. Le analisi e i rapporti delle due più autorevoli istituzioni finanziarie segnalano che specialmente negli ultimi tre anni l’Autorità nazionale palestinese è riuscita a migliorare la qualità di vita della gente, dei palestinesi comuni, attraverso un'accorta politica di tassazione, in grado di richiedere ai più ricchi una maggior contribuzione. Solo nell'ultimo semestre, c’è stata una flessione, dovuta anche alle crisi economica internazionale, ulteriormente peggiorata. “Se Israele non interferisse con gli aiuti umanitari che ci mandano, con la merce che consumiamo, l'intero commercio, attraverso lo sdoganamento obbligato nei porti e negli aeroporti israeliani, le cose andrebbero ancora meglio - spiega Jawal Zaqut primo consigliere del premier Salam Fayyad - perché attraverso l'esperienza basata sulle competenze maturate durante gli anni in cui Fayyad era economista presso la Banca Mondiale, il premier è riuscito a mettere a punto un sistema di rientro del debito e di miglioramento del walfare, costruttivo ed efficace”. Indipendentemente dalle statistiche che segnalano una maggiore accountability, affidabilità nel gergo economico internazionale, sul terreno ci si accorge che la situazione è decisamente migliorata, anche se le abitudini sbagliate e i pregiudizi del popolo sono difficili da scardinare. Non si tratta solo di disponibilità economica ma anche di ignoranza, di pigrizia mentale della maggioranza.
IERI DURANTE il tragitto da Betlemme a Jenin, una delle più grandi città palestinesi, avevamo pensato fossero in corso nuovi scontri ma il fumo acre che invadeva l’auto, non era causato dai lacrimogeni, bensì dall'immondizia bruciata. Nonostante il servizio di raccolta rifiuti sia più capillare ed efficiente, la gente brucia i rifiuti e non solo nelle zone più depresse della Cisgiordania. Le colonne di fumo spesso offuscano alcune zone di Ramallah, la capitale provvisoria, la città più ricca e importante della Cisgiordania. Ma avvicinandosi a Hebron , a Jenin, a Nablus o anche a Gerico, la città più turistica dopo Betlemme, la povertà e il degrado diventano, via via, più evidenti.
Mussa ha venticinque anni e si è appena laureato in economia e commercio, la facoltà più gettonata nelle università palestinesi. “Speravo di trovare lavoro facilmente ma qui a Jenin, il mercato del lavoro è più debole rispetto a Ramallah. Per me però spostarmi è complicate perché l'affitto di una casa è molto più alto. Guidare per un'ora e poi tornare non è così facile come potrebbe essere nel vostro Paese, noi dobbiamo passare attraverso alcuni check point israleliani, che ci fanno perdere molto tempo”. “Talvolta le guardie di sicurezza private che sorvegliano i passaggi ci bloccano per ore. Non abbiamo mai la sicurezza di poter arrivare a Ramallah”, ribadisce Selim, una sua amica infermiera presso l'ospedale di Nablus, che sta accompagnando Mussa presso il suo ospedale a cercare il cardiologo per la madre di Mussa, pensionata e cardiopatica.
Pensione e malattia di un genitore, in Cisgiordania, sono un miscela esplosiva in grado di distruggere l'esistenza dei figli. La cultura impone che i figli si debbano prendere cura dei genitori ma spesso i ragazzi si sposano presto e non riescono a sostenere gli anziani genitori e la loro nuova famiglia. Generare molti figli è anche un sistema per contrastare il costante aumento demografico delle famiglie nelle colonie ebraiche, illegali ma di fatto tollerate dalla comunità internazionale.
“MA NOI stiamo cercando di cambiare le cose – dice ancora Zaqut – e il welfare è decisamente migliorato. A proposito delle entrate statali del 2010, aumentate del 26% , l'11% e' stato utilizzato per migliorare lo stato sociale: sussidi di disoccupazione, aperture di nuove scuole pubbliche anche nei villaggi più piccolo, presidi medici gratuiti ovunque”.
Anche la tassazione sulle abitazioni si paga una sola volta. Certo tutto è relativo: Jawad è un giovane medico oculista di Ramallah ma lavora all'ospedale britannico di Gerusalemme Est. Lo incontriamo mentre sta mettendo i suoi polpastrelli sul lettore digitale al check point di Qalandia. “Lo faccio ogni giorno quando devo entrare a Gerusalmme Est. Nonstante sia ancora Cisgiorania devo sottopormi a questa umiliazione tutte le volte che devo andare al lavoro. Gli israeliani hanno sempre paura che portiamo nelle nostre borse da lavoro le bombe e per questo ci fanno tutti i controlli, pure questa storia delle impronte digitali tutti i santi giorni. Perché non vai a vivere a Gerusalmme Est allora? “Prima cosa gli israeliani non mi darebbero la casa perché ai palestinesi cisgiordani, che vogliono andare a vivere a Gerusalemme Est (sempre territorio cisgiordano, secondo l'Onu, ndr) non danno il permesso permanente e poi perché Gerusalemme Est, rispetto a Ramallah, è molto più costosa”. Una catena di rialzi infinita, che solo governi responsabili saranno in grado di spezzare. E l'Anp di Abu Mazen e Salam Fayyad ci sta seriamente provando.
Corriere della Sera 1.10.11
Indignados a New York. Occupata Wall Street
Al fianco degli studenti Usa anche i sindacati
di Massimo Gaggi
NEW YORK — In Liberty Square, a un passo dalla Borsa di New York e da Ground Zero, c'è fermento. I ragazzi di OccupyWallSt.org accampati sotto gli alberi dello Zuccotti Park sono sempre pochi, qualche centinaio. Come avviene da giorni, è più imponente l'assalto di giornalisti, cineoperatori e turisti, soprattutto asiatici, che arrivano a ondate, armati di videofonini. E, come nei giorni scorsi, i due lati della piazza sono presidiati da un cordone di poliziotti che assistono impassibili alla progressiva trasformazione di eventi come la beffarda marcia dell'«opening bell» — la parodia, alle 9,30, della cerimonia d'apertura delle contrattazioni allo Stock Exchange — da manifestazioni spontanee in riti-fotocopia, ripetuti quotidianamente.
A due settimane dall'inizio del «sit-in» anticapitalista, però, questo movimento sparuto, senza leader, senza obiettivi definiti e con istanze che vanno dall'abolizione della Federal Reserve al ritiro dall'Afghanistan, non sta scivolando, come molti prevedevano, nell'irrilevanza. Anzi, da un paio di giorni nell'aria si respira qualcosa di diverso. E non è solo l'aria di sfida con la quale dipendenti e broker osservano dai balconi del palazzo della Borsa il corteo dei manifestanti, bicchiere di «champagne» in una mano, macchina fotografica nell'altra: la protesta anticapitalista di questi gruppi di giovani si sta allargando ad altre città — ieri Chicago e San Francisco, oggi Boston, domani Washington, domenica Los Angeles — mentre i sindacati, che fin qui sono stati a guardare, cominciano a scendere in campo al fianco degli studenti. Anche il capo della Afl-Cio Richard Trumka dà la sua benedizione.
Arriva altra gente incuriosita dalla voce (poi smentita) di un concerto «a sorpresa» della «band» inglese dei Radiohead, mentre in televisione il sindaco Michael Bloomberg usa toni vagamente minacciosi: «La finanza va sostenuta, non demonizzata. Le banche danno lavoro e senza il loro credito l'economia non cresce. Chi protesta ha diritto di far sentire la sua voce, ma gli altri cittadini hanno lo stesso diritto. E devono potersi muovere liberamente. Vedremo cosa fare nei prossimi giorni». Uno sgombero forzato? Patrick Bruner, uno dei portavoce del movimento, sembra più lusingato che spaventato dall'ipotesi. Mediaticamente sarebbe una manna per i manifestanti. OccupyWallSt.org, un movimento senza leader che si ispira alle rivolte della «primavera araba», aveva lanciato la sua offensiva due settimane fa: «Andiamo in 20 mila a paralizzare i templi della finanza». Arrivarono poche centinaia di ragazzi: gente della sinistra alternativa, ma soprattutto studenti universitari o neolaureati alle prese con un mercato del lavoro che non offre più sbocchi.
Ignorati dai grandi media, i ragazzi di Zuccotti Square sono arrivati nei Tg e sulle prime pagine dei giornali solo quando la polizia ha cominciato a usare grosse reti di plastica gialla per cercare di dirottare un corteo diretto a Union Square e un agente italoamericano, Anthony Bologna, ha usato in modo scriteriato il suo spray al peperoncino per bloccare un drappello di ragazze che marciavano senza minacciare nessuno: immagini riprese con una webcam che hanno fatto in un attimo il giro del mondo.
«È bello quello che accade qui», dice Carney Ross, un ex diplomatico britannico divenuto consulente d'affari che lavora nel distretto finanziario e che ogni mattina si ferma qui a dare consigli. «Ma devono allargare la loro base e mettere a fuoco il messaggio. Ora è vago». Il paragone con Tahrir Square non sta in piedi né come confronto numerico, né sul piano politico. Diversi studenti egiziani che vivono a New York, pur simpatizzando con la protesta, hanno già liquidato come una bestemmia il confronto tra il dittatore Mubarak e i tycoon della finanza Usa. I ragazzi di Manhattan, semmai, somigliano a quelli del Cairo sotto un altro profilo: quello dell'uso sapiente e tempestivo dei social media, Twitter per diffondere i messaggi, chiamare a raccolta gli attivisti, «fare rete» anche nelle altre città. I video su YouTube e il «livestream» televisivo su Internet, per dare risonanza con una diretta mondiale on line a una manifestazione di portata limitata, ma che si svolge nel luogo-simbolo del capitalismo.
In un'America quasi mai toccata da proteste sociali durature, i più sono convinti che con l'arrivo dei primi freddi spariranno anche i giacigli dei ragazzi che bivaccano a Liberty Square. Ma stavolta, come nel caso del Vietnam, i ragazzi manifestano non per qualcosa di remoto — la Palestina, il Tibet — ma per la loro vita: allora la chiamata alle armi, oggi il cupo futuro lavorativo. Forse Bloomberg sta davvero pensando di sgombrare la piazza prima che la saldatura coi sindacati del trasporto pubblico e dei servizi apra qualche scenario imprevedibile.
La Stampa 1.10.11
Nero-bianchi in ascesa nell’America sempre più multirazziale
di Pao. Mas.
1,8 milioni Tanti sono i nero-bianchi cioè i nati dall’unione fra un nero e una bianca e viceversa secondo l’ultima statistica del Census Bureau
9 milioni. Tante sono le persone che nell’ultimo censimento hanno scritto di appartenere a più di una etnia. Dieci anni fa erano 6,8 milioni
Orgoglio. Gli afro-americani non si vergognano più delle proprie origini
Razza: nero-bianco. Una contraddizione in termini, quasi un’offesa, soprattutto nel sud degli Stati Uniti. Eppure negli ultimi dieci anni questa è la tendenza più significativa che hanno notato gli studiosi del Census Bureau, l’ufficio del governo americano che tiene le statistiche sulla popolazione: il gruppo multirazziale in maggior aumento è proprio quello che mescola i cittadini neri a quelli bianchi. E tra di essi, cosa di non poco conto, c’è anche il presidente Obama, figlio di un immigrato keniano e di una ragazza del Kansas.
Dal 2000 al 2010 i nerobianchi sono cresciuti del 133%, più rapidamente di qualunque altro segmento. Oggi contano quasi due milioni di persone, che davanti agli oltre trecento milioni di abitanti in tutto il Paese possono sembrare una piccola frazione. Il punto però non sta tanto nei numeri assoluti, quanto nel trend.
L’America, in generale, sta diventando più multirazziale. Le persone che nell’ultimo censimento hanno scritto di appartenere a più di una etnia sono salite da 6,8 milioni a 9, e oltre un terzo sono neri. Di questi, la stragrande maggioranza ha testimoniato di avere sangue bianco nelle vene. Ancora più sorprendente è il fatto che la maggioranza dei nero-bianchi, cioè 1,1 milioni su 1,8, vive negli Stati del Sud, dove fino a poco tempo fa le unioni multirazziali di qualunque tipo erano semplicemente un reato.
La ragione di questa rivoluzione, secondo i demografi, sta prima di tutto nel cambiamento sociale in corso in America. L’unione fra un nero e una bianca, e viceversa, non viene più vista come una scelta di vita strana o addirittura condannabile. E l’evoluzione non riguarda solo il razzismo dei bianchi nei confronti dei neri, perché anche nella comunità afro-americana i matrimoni misti non erano visti con grande favore. L’altro aspetto importante, che deriva da questo mutamento sociale di maggiore accettazione in corso, è che la gente non si vergogna più di rivelare le proprie origini multirazziali. È probabile che in passato ci fossero comunque dei numeri significativi di nerobianchi, ma non venivano rilevati perché durante il censimento si poteva o si voleva indicare una sola etnia. Anche il presidente Jefferson aveva avuto dei figli da una schiava nera, ma nonostante fosse un noto liberal, non si era nemmeno sognato di riconoscerli. Ora queste barriere stanno cadendo, e se alla Casa Bianca c’è un presidente orgoglioso di essere frutto di una unione multirazziale, non si vede perché la gente comune debba nascondere o negare le proprie origini.
L’aumento al Sud, secondo gli studiosi del Census bureau, dipende dal fatto che molti neri stanno tornando nelle loro regioni d’origine, per lavorare o per godersi la pensione. Non hanno più bisogno di scappare, segno molto positivo. E tornando nella Sun Belt, bastione del conservatorismo, a lungo potrebbero anche cambiare la geografia politica degli Usa.
il Riformista 1.10.11
Baia Mare. Una storia emblematica dal vecchio continente dei nuovi pogrom
Fra i kombinat rumeni. Il muro anti-zingari che fa comodo a tutti
All’ombra della ciminiera più alta d’Europa, il comune ha costrui- to una barriera di oltre cento metri. «Serve alla sicurezza» spiega il sindaco della città. Che così isola le famiglie rom insediate nei vecchi quartieri industriali, in condizioni di estrema povertà. «Finora abbiamo visto il cemento: quando arriveranno anche l’acqua e l’elettricità?».
di Gabriele Pieroni
qui
La Stampa 1.10.11
I matrimoni diventeranno a tempo
Dua di prova, poi si potrà rinnovare
Messico, troppi divorzi Ecco i matrimoni a tempo
di Paolo Manzo
Matrimonio? Meglio se rinnovabile. Due anni, come una prova per vedere se funziona e poi allungare. È l’esperimento che hanno in mente i legislatori del distretto federale di Città del Messico alle prese con elevati tassi di divorzi e che hanno pensato a matrimoni a tempo per «favorire relazioni di coppia più sane e armoniche».
Qualche giorno fa è stata presentata una modifica al codice civile locale che consentirà ai futuri sposi di stare «assieme come marito e moglie» da un «minimo di due anni» sino al classico «finché morte non ci separi».
Una sorta di contratto d’affitto o di lavoro che può essere rinnovato dopo un periodo di rodaggio. A proporre la nuova legge il Partito della Rivoluzione Democratica (Prd), progressista, che detiene la maggioranza dei 66 seggi al Parlamentino di Città del Messico. Il matrimonio co.co.co. sarà «una realtà», assicura Lizbeth Rosas la deputata che ha proposto la legge, «entro fine anno». E non ci sarà alcuna restrizione sulla nazionalità. Per le vacanze natalizie, insomma, le coppie (anche italiane quindi) che volessero sposarsi «a tempo» potranno farlo. Tra i supposti vantaggi contenuti nella proposta, una serie di accordi prematrimoniali con i quali si potrà ad esempio determinare l’apporto economico di ciascun coniuge per il mantenimento dei figli o gli alimenti spettanti in caso di separazione. Dopo i matrimoni gay, una legge che consente l'aborto e la legge del 2008 sul «divorzio express», Città del Messico fa dunque da traino per l'intera America latina a un’altra novità legale destinata a far discutere. La Chiesa cattolica locale ha già tacciato la nuova legge come «un’assurdità che contraddice la natura stessa del matrimonio».
Per Pedro Molina invece, 46 anni e già due matrimoni alle spalle, invece si tratta di «un vero e proprio colpo di genio che, se avessero introdotto prima, mi avrebbe evitato di spendere un mucchio di soldi in spese legali». Ed in effetti, dietro alla proposta dei consiglieri comunali del Prd c’è proprio l'obiettivo di evitare «procedure tortuose e care di separazione», anche perché, circa la metà dei matrimoni celebrati a Città del Messico «finisce in divorzio dopo due anni», spiega Leonel Lula, uno dei politici che si è battuto di più per introdurre le «unioni a tempo» assieme al sindaco Marcelo Ebrard, candidato alla presidenza per il centrosinistra nel 2012.
La Stampa TuttoLibri 1.10.11
Mozart, la musica diverte ma non si sa perché
Per la prima volta in Italia il monumentale epistolario: odi, amori e sfoghi di genialità fino al 1791, l’anno della morte
di Giorgio Pestelli
qui
La Stampa TuttoLibri 1.10.11
Complotti Dalla Comune di Parigi al 1917, sognatori, trame, anarchici, agenti segreti
Se saltano in aria gli zar, i re e le élites
di Giorgio Boatti
Non sono pochi i sentieri che dai complotti terroristici, dall’opposizione più radicale e utopistica al sistema, riescono a penetrare sino alle segrete stanze del potere. A volte - come succede a Lenin e ai bolscevichi russi nel 1917 col Palazzo d’Inverno - ne prendono anche duraturo possesso.
Ancora di più, però, sono i sentieri che vanno in senso inverso. Accade quando il cuore del potere utilizza gli avversari per alimentare il gioco vertiginoso del «complotto contro se stesso». Così da premunirsi dai nemici e testare la fedeltà degli alleati. E’ proprio questo aspetto a costituire il nodo centrale dell'affresco storico che Alex Butterworth ricompone ne Il mondo che non fu mai. Una storia vera di sognatori, cospiratori, anarchici e agenti segreti . Il libro del saggista e drammaturgo inglese corre con ritmo serrato lungo il periodo che va dalla repressione della Comune di Parigi del 1871 sino alla rivoluzione bolscevica del 1917. Ripercorre quei decenni tempestosi (altro che Belle Epoque!) con rigore, attingendo a tutte le fonti disponibili (anche se la consultazione di alcune di queste, risalenti a oltre un secolo fa, paradossalmente è stata vietata all’autore dalla Sezione Speciale della Metropolitan Police di Londra).
Quella di Butterworth è una ricostruzione coinvolgente anche perché contiene elementi per molti versi analoghi tra quel periodo e i nostri anni: instabilità economica e rottura dei vecchi equilibri internazionali, ineguaglianze sociali abissali e minacce repentine accese da nuovi soggetti. A calcare la ribalta sono gli antagonisti al potere: cospiratori, agitatori, terroristi che tolgono il sonno alle corti e alle ambasciate dove si costruiscono le relazioni dell’establishment europeo dopo la tremenda paura dall’insurrezione parigina e dalla sanguinosa repressione (furono 25mila i morti tra gli insorti) che la spegne. Capitolo dopo capitolo sfilano i leader anarchici, la «pasionaria» della Comune Luise Michel (detta la «Vergine rossa») poi deportata nella Nuova Caledonia, i dirigenti dell’Internazionale Comunista, tutto il mosso arcipelago della violenza cospiratoria e dell’utopia insurrezionale. Tra il vecchio e il nuovo secolo sognano di poter imporre un mondo senza sovrani e senza padroni. Sono loro che al conflitto di piazza e alle lotte sociali - che pure non si spengono - affiancano, sempre più decisamente, le «azione esemplari». Quelle messe in atto da militanti che non temono la morte e spesso cercano il martirio quando, con pistole e dinamite, colpiscono zar, re, imperatrici e presidenti. Mirano a una sistematica decapitazione delle élites e, soprattutto, a seminare terrore nelle classi dirigenti d’Europa e d'America.
A questi personaggi Butterworh contrappone altri protagonisti, quelli che le ricostruzioni storiche spesso preferiscono spesso mimetizzare. Sono i maestri spioni che nell’Ottocento hanno forgiato i moderni apparati di sicurezza dei grandi stati. Ad esempio il colonnello Wilhelm Stieber, gran consulente spionistico di Bismarck e dello zar, il prefetto Louis Andrieux, raffinato tessitore di trame per gli apparati parigini. Sono soprattutto i vertici e gli agenti provocatori dell’Ochrana zarista come Petr Rackovskij. O Evno Azef (detto «Il Francese», o «Il Grassone») implacabile terrorista e agente a libro paga dello zar. Personaggi così sopraffini nell’arte del complotto da riuscire persino a far saltare in aria, e non metaforicamente, i propri vertici pur di dare corda e poi fronteggiare le cospirazioni in corso. Butterworth illumina le navigazioni spericolate e il sapere tramandato dagli apparati di sicurezza che tirano le fila di azioni destabilizzatrici evocate e poi sapientemente domate davanti all’opinione pubblica. Indaga il loro agire da dietro le quinte quando suggeriscono le mosse cruente di un terrorismo apparentemente imprevedibile. Sino a vederli all’opera quando sanciscono cooptazioni ed esclusioni all’interno di una nomenklatura rivoluzionaria presentata - per i non addetti ai lavori - come assolutamente impenetrabile. Storie di ieri che, forse, parlano anche al nostro oggi.
La paura di attentati e cospirazioni durante la Belle Époque ricorda le psicosi del mondo odierno
gboatti@venus.it
La Stampa TuttoLibri 1.10.11
Il principe Kleist, tra l’utopia della felicità e l’abisso del nulla
Una splendida edizione, con inediti di carattere politico, satirico, giornalistico
di Luigi Forte
«E ora, eternità, sei tutta mia», recita un verso del dramma Il principe di Homburg scolpito sulla tomba del suo autore, Heinrich von Kleist, al Wannsee non lontano da Berlino. Da quel novembre del 1811, quando lo scrittore trentaquattrenne si uccise con un colpo di pistola con l'amica Henriette Vogel malata di cancro, la sua memoria rimbalza nel tempo, viva e pressante come non mai. Nell'800 la sua tomba fu meta di pellegrinaggi sentimentali: quel gesto enigmatico e fatale innalzò il suo sfortunato eroe a leggenda e mito.
Affetto da una leggera balbuzie, Kleist era eccentrico, impulsivo; spesso malinconico e assente. La sua vita sembrava obbedire a un movimento pendolare: tra l'utopia della felicità e il baratro del nulla. Aveva quel senso del tragico che indusse Nietzsche ad accostarlo a Byron, Poe, Leopardi, Gogol, uomini dell'attimo, «esaltati, sensuali (..) anime avvezze a tener celata una qualche crepa». Genio drammaturgico, che pur scrisse alcuni dei più bei racconti della letteratura tedesca come Michael Kohlhaas e La marchesa di O… , indifferente al classicismo di Weimar e sospettoso verso il romanticismo, egli andò contro corrente anticipando i tempi, come più tardi Büchner.
Kleist, nostro contemporaneo: scrittore isolato, spesso incompreso, le cui pièces collezionarono insuccessi o non vennero rappresentate, nulla ha perso della sua problematica, tragica modernità. Oggi lo possiamo valutare appieno grazie allo splendido volume delle sue Opere che esce nella collana dei Meridiani a cura di Anna Maria Carpi, con un'intensa introduzione e ricche note firmate anche da Stefania Sbarra. Nessuno meglio della Carpi, che di Kleist aveva già pubblicato un' eccellente biografia (Mondadori, 2005), poteva offrirci un'edizione così preziosa con nuove traduzioni e testi inediti di carattere politico, satirico e giornalistico come i Rapporti di polizia , cioè la cronaca nera che contribuì in modo determinante al successo del quotidiano della sera Abendblätter fondato dallo scrittore nell'ottobre del 1810. Dovrà spesso redigerlo da solo accostando saggi - come quello fondamentale sul Teatro delle marionette - a commenti politici, critica teatrale ad aneddoti che sconfinano nella parabola e tanto piacquero a Kafka. Un giornalista perfetto, che sceglie e presenta le notizie con stile nitido e conciso, gusto narrativo che scivola nell' ironia e nel grottesco, empatia per il disordine del mondo. Tutto ci si poteva aspettare da un ex ufficiale prussiano poi divenuto funzionario statale, certo non un futuro da grande scrittore. Ma Kleist imparò presto a interrogare la realtà attraverso le inquietudini, le speranze tradite, il bisogno assoluto di libertà. Lasciando l'esercito nel 1799 affermò che essere al tempo stesso ufficiale e uomo non
Genio drammaturgico, che pur scrisse alcuni dei più bei racconti della letteratura tedesca
Corriere della Sera 1.10.11
Antica Roma
Ottobre. Battaglie per le strade e la coda di un cavallo
di Eva Cantarella
Così la Roma antica festeggiava ottobre È arrivato ottobre, mese nel quale a Roma, nel Campo di Marte, aveva luogo un rito solenne chiamato October equus (il cavallo di ottobre). Un nome che può far pensare a un momento nel quale si ricordavano i meriti del nobile animale, fondamentale per le imprese belliche. Ma l'analisi del rito esclude una simile ipotesi. La cerimonia, infatti, consisteva nel sacrificio del cavallo, al cui cadavere venivano tagliate testa e coda. Dopo di che, per il possesso della testa si apriva una contesa tra gli abitanti del quartiere di Suburra e quelli della via Sacra: in caso di vittoria dei primi la testa veniva affissa a una parete della Regia, in caso di vittoria dei secondi veniva affissa alla torre Mamilia. Per la coda, invece, non v'era contesa alcuna: appena recisa, veniva portata ancora grondante alla Regia, così che il suo sangue ne bagnasse l'altare. Rito singolare, in verità, composto di gesti dal valore oscuro, del quale gli stessi antichi davano spiegazioni diverse. Limitiamoci a una di quelle riportate da Plutarco: il rito rappresentava l'uccisione del cavallo di Troia. Poco convincente, a dir la verità (così come tutte le altre). Una cosa sola sembra certa: il cavallo veniva sacrificato in onore di Marte, dio della guerra. La data della celebrazione, tra l'altro (il 15 del mese) coincideva con la fine delle campagne militari, iniziate tra febbraio e marzo. Poche certezze, comunque: salvo quella che la sensibilità animalista era estranea ai romani. Ma, ovviamente, sarebbe anacronistico aspettarselo.
Corriere della Sera 1.10.11
Le emozioni della chimica
All'origine dei nostri misteri
La lunga e affascinante storia degli studi che hanno guardato
la vita dalla parte delle radici
di Giovanni Caprara
«La chimica cammina, dividendo, suddividendo, e ridividendo ancora. Noi non possiamo assicurare che quello che oggi consideriamo semplice, sia veramente tale». C'è il senso del mistero e dell'emozione della scoperta ambita in queste parole di Antoine-Laurent Lavoisier, «padre della chimica moderna» perché con l'applicazione di un metodo scientifico la traghettò definitivamente al di fuori e lontano dall'alchimia. E sono parole vicine al lavoro quotidiano che Maria Curie compiva spezzettando assieme al marito Pierre ingenti quantità di pechblenda portata dalla Boemia trovando il radio, numero atomico 88. Cento anni fa Marie Curie era la prima donna a conquistare il secondo Nobel.
Lavoisier e Marie sono due figure che si associano anche per un'altra rara coincidenza. Il grande francese aveva accanto l'affascinante Pierrette Paulze con cui divideva vita e lavoro come lo splendido quadro di Jean-Louis David ci ha tramandato. Altrettanto accadeva sempre a Parigi a Marie Curie con il devoto marito.
A Lavoisier e Curie risalgono le origini di scoperte e sviluppi che segneranno la nostra storia. Abbiamo imparato a scuola che «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», uno slogan tramandato dalla leggenda e con il quale Lavoisier spiegava la «legge universale della conservazione dei pesi». Ed è sempre lui a trovare di che cosa sia formata l'acqua, cioè dagli atomi di idrogeno e ossigeno.
Numerose sono le sue scoperte (tra cui la CO2, l'anidride carbonica imputata di avvelenare l'atmosfera). Forse anche per questo sentiva il bisogno di classificare conoscenze diventate sempre più rilevanti. Così nel 1786 si incontra nella capitale francese con Antoine François Fourcroy, ministro con Bonaparte, e Claude Louis Berthollet medico di formazione a Torino e poi personaggio noto della Rivoluzione, realizzando insieme un progetto di nomenclatura chimica. Operazione notevole, con scambi quotidiani protratti per ben otto mesi ai quali partecipano i matematici dell'Académie de Sciences.
Purtroppo le fortune di Lavoisier crolleranno immediatamente con l'arrivo della Rivoluzione. Il tribunale lo accuserà di essere «nemico e affamatore del popolo», perché oltre alla scienza egli era uno dei 28 esattori di tasse per conto del regno, ghigliottinandolo l'8 maggio 1794. I giudici pronunciando la sentenza sottolineavano che «la Repubblica non ha bisogno di scienziati» mentre il matematico Joseph-Louis Lagrange aggiungeva che «alla folla è bastato un solo istante per tagliare la sua testa; ma alla Francia potrebbe non bastare un secolo per produrne una simile».
Trascorrerà un secolo e l'idea della classificazione degli elementi diventerà l'imponente opera di un eclettico russo, Dmitrij Ivanovic Mendeleev. L'ordine della chimica, la famosa «tavola periodica degli elementi» studiata sui banchi, porta infatti il suo nome. La sua efficacia era legata al fatto di aver concepito un sistema capace di prevedere le caratteristiche degli elementi non ancora scoperti. Davvero geniale. Così infatti accadde e dai 63 elementi allora noti oggi siamo arrivati a 118. L'ultimo è stato scoperto l'anno scorso nei laboratori russi di Dubna: il suo strano nome è l'ununseptio ed è stato ottenuto bombardando del calcio 48 con del berkelio 249.
Ma ora questa scienza ha un volto che va ben oltre gli elementi. Il 2011 è stato battezzato dall'Unesco Anno internazionale della chimica non solo per celebrare le conquiste e per il contributo dato fino adesso all'unanimità. Non c'è iniziativa più appropriata per far uscire questo importante sapere dalla visione cupa e negativa che talvolta alcuni disastri provocati dalla sprovvedutezza dell'uomo hanno finito per attribuirle.
Oggi più di ieri la chimica è nella nostra vita. Trasformazioni molecolari sono essenziali per produrre cibo migliore, medicine, nuovi carburanti oltre a svariati prodotti e strumenti. Genetica e nanotecnologie sono legati alla chimica. Come non bastasse è una via indispensabile per proteggere l'ambiente e garantire un corretto sviluppo economico. Il nostro benessere futuro, sotto ogni aspetto, dipenderà in buona parte proprio dalla chimica dove l'Italia ha un illustre passato. Nel 1963 Giulio Natta conquistava il Nobel per la chimica. Facciamolo rivivere.
Corriere della Sera 1.10.11
E con James Bond si impara
il movimento delle particelle
di Paola Caruso
Anche le molecole ragionano e fanno operazioni logiche. Sono così intelligenti da rispondere agli stimoli (una sostanza), accendendosi o spegnendosi, come lampadine fluorescenti. Insomma, sono fornite di interruttore on/off. Per renderle più evolute e performanti lavorano i chimici di tutto il mondo. In testa, lo scienziato Amilra Prasanna De Silva dell'Università di Belfast — chiamato «Ap» nella comunità scientifica — ricercatore di chimica supramolecolare, padre della logica molecolare, autore su Nature di uno dei report più importanti in materia.
Obiettivo della ricerca: disegnare macromolecole di sintesi organica in grado di processare informazioni, proprio come i chip, dando il via all'era dei computer molecolari. Oggi queste macromolecole organiche si usano come sensori luminosi, in futuro potrebbero trovare posto nelle telecomunicazioni. A spiegare meglio come funzionano scende in campo lo stesso De Silva al festival BergamoScienza (dall'1 al 16 ottobre). Chi ha paura di non capire può stare tranquillo.
«Ap è un abile comunicatore — afferma Silvia Giordani, ricercatrice italiana e bergamasca al Trinity College di Dublino — appassiona il pubblico di tutte le età con metodi da spettacolo. Per esempio per mostrare come la molecola raggiunge l'obiettivo superando ostacoli, dice: "La molecola è James Bond che deve a uccidere il cattivo, ma nel frattempo è distratto dalle belle donne"». Un altro chimico invitato a parlare di interruttori molecolari a BergamoScienza è Francisco M. Raymo dell'Università di Miami. In fondo, il 2011 è l'anno della chimica e il festival ha deciso di puntare sull'argomento.
Ma le altre branche della scienza non mancheranno all'appello della manifestazione. 203 gli eventi in programma per tutte le età (94 conferenze/incontri, 24 mostre e 85 laboratori) abbracceranno la scienza a 360 gradi, dalla robotica alla fisica, dalla neuroscienza alla medicina, dall'archeologia alla biologia. «Molti temi si legheranno all'attualità — sottolinea Andrea Moltrasio, presidente di BergamoScienza —. Discuteremo di rischio nucleare e rischio terremoto, approfondiremo gli aspetti neurologici della percezione del pericolo, parleremo di neuroeconomia e neuromorale, giusto per citare qualche intervento».
Sul palco 126 personalità tra relatori e moderatori, di cui 25 stranieri e due Nobel per la medicina: Barry James Marshall (2005) e R. Timothy Hunt (2001). Altri nomi illustri? Fritjof Capra, famoso autore del libro «Il Tao della fisica», il filosofo Tim Crane, il neuroscienziato Patrick Haggard e l'endocrinologo Janusz Nauman. Senza dimenticare i cervelli di casa nostra: tra gli altri Zaverio Ruggeri, bergamasco emigrato in California con il numero più alto di citazioni scientifiche tra gli italiani; Bruno Murani, l'inventore dell'accelerometro, ossia il microchip che ha fatto la fortuna di iPhone e Nintendo Wii; e Silvia Giordani, ricercatrice che in Irlanda ha avuto un milione di euro per portare avanti i suoi studi sulla nanotecnologia.
I meeting sono gratuiti (meglio prenotare il posto sul sito Internet) e in streaming via web. «Il momento centrale di ogni conferenza è il dibattito con il pubblico — commenta Moltrasio —. Per rendere interattiva la discussione abbiamo predisposto un'applicazione per iPhone e iPad, con la quale chiunque può inviare domande ai relatori. L'idea è di coinvolgere il pubblico in maniera totale. Mi piace pensare che uno dei ragazzi venuto a BergamoScienza decida di intraprendere la carriera scientifica, magari fino al Nobel».
il Fatto 1.10.11
Le info conservate dal sito blu
Fb: 1200 pagine su ogni iscritto
di Federico Mello
É una scoperta inquietante ma che molti di noi potrebbero presto fare. Uno studente austriaco di 23 anni ha chiesto a Facebook di poter visionare, per una ricerca, i dati registrati su di lui dal social network: il risultato impressionante è contenuto in un cd, speditogli via posta, con 1200 pagine formato A4 di dati. Tanto è lo spazio che occupano le notizie che lo riguardano accumulate in tre anni; perché l’archivio di Face-book, non cancella nulla. Della sua scoperta Max Schrems racconta al tabloid tedesco Bild. “Notizie, osservazioni rilasciate sul profilo, e le chat degli ultimi tre anni: nulla era stato cancellato”. Ogni iscritto a Fb, però, ha il diritto di chiedere una copia dei propri dati registrati: “Siate insistenti, non mollate – è il consiglio – perché il diritto è dalla vostra parte”. Le attività di Facebook in Europa sono gestite da una filiale irlandese, e gli utenti hanno il diritto di essere tutelati secondo le leggi che valgono in Irlanda e in Europa. Max, che ha presentato 22 denunce contro Facebook al garante dei dati personali irlandese, non ha rinunciato comunque al suo profilo e dice piuttosto di voler mettere in guardia tutti gli internauti chiedendo “più trasparenza”. L’episodio si aggiunge a feroci polemiche scatenate in rete dalla scoperta che alcune novità che Facebook sta man mano introducendo, prevedono che il sito di Zuckerberg tenga traccia delle navigazioni degli utenti anche quando questi sono scollegati dal loro account. Dopo che la notizia è diventata pubblica, Facebook ha ammesso ieri il nuovo meccanismo ma si è scusato parlando di un “problema di programmazione” già risolto. Rimane il fatto che la nuova bacheca, Timeline, pubblicherà tutte le operazioni svolte sulla piattaforma e sulle sue applicazioni. Agli utenti potrebbe non piacere, ma sarà difficile che molti di questi si decidano a rinunciare al loro profilo.
Repubblica Firenze 1.10.11
Prof su facebook, il Corvo lo denuncia polemica "live" sul web, il preside lo difende
Lui non arretra: "Insegno dal ´94 e nessuno ha mai avuto niente da ridire"
"Possibile che dei microfallocefali pensino che il problema sia il fascismo?"
di Maria Cristina Carratù
Lettera in cui un sedicente «genitore e cittadino responsabile» segnala come «inquietante» e tale da dover suggerire «provvedimenti» agli organi compenti, il profilo Facebook del professor Domenico Del Nero, da due anni insegnante di italiano e latino in via della Colonna. E che su Fb si presenta come «cattolico apostolico romano», si fa rappresentare dalla bandiera del Granducato di Toscana, cita Almirante ed Evola, si mostra in foto sotto il vessillo del Fuan con Gianfranco Fini e Altero Matteoli giovani e a una commemorazione dei caduti di El Alamein. Ma non solo. In un post Del Nero descrive a un amico come «raccapricciante film horror» il collegio docenti e aggiunge: «La più stitica delle cozze ha un quoziente intellettuale più elevato della media dei partecipanti, e quanto ad avvenenza femminile, c´è da pensare che la Rosy nazionale in confronto è una topo model...». Ancora, il prof parla del suo piacere nel vedere gli studenti «sbiancare mentre passi il dito sul registro con un sorriso benevolo ma freddo, lo sguardo inquisitorio con cui squadri il malcapitato che si avvicina alla cattedra emanando già un sottile rivolo di sudore (che schifo!) e poi, con somma noncuranza, schiodi la domanda impossibile...». E quanto alla politica: «È possibile» scrive Del Nero «che nel 2011 ci siano ancora dei microfallocefali che pensano che il problema dell´Italia sia il Fascismo?(...) a costoro farei fare una bella immersione in qualche fogna superstite del socialismo reale». Quanto basta per chiedere «provvedimenti», come vorrebbe il Corvo? Di sicuro no per il preside del Michelangelo, Massimo Primerano, che ieri ha espresso la sua solidarietà al suo «ottimo professore molto amato dai suoi studenti, e che sono contento di avere in questa scuola». Il preside ne è convinto: «Chi ha inviato la lettera anonima è sicuramente peggiore di chi si espone con le sue idee su Facebook». Di qualunque tipo siano? «Io giudico l´insegnante, le idee sono libere» dice Primerano, facendo notare come «in una scuola come il Miche, molto orientata politicamente, se ci fosse stato qualche problema sarebbe già venuto fuori». E si difende, con forza, lo stesso Del Nero: «Fb serve anche per scherzare e divertirsi, fossi davvero un sadico o uno che disprezza colleghi e ragazzi, mi sarei mai esposto così?» protesta, chiamando a testimoni della sua qualità di insegnante e educatore «gli studenti, la stragrande maggioranza dei miei amici su Fb». E le idee politiche? Il prof ricorda di essere stato iscritto al Msi e transitato per An ma di essere oggi «orfano politico, salvo votare, quando voto, per la Lega Nord». Lo ammette: «Ho simpatie storiche per il Granducato, e voterei monarchia se non ci fossero i Savoia, e allora?». Quanto a farsi fotografare con l´attuale presidente della Camera e con un ministro «non sarà certo un reato», mentre nel caso di El Alamein, dice, «è caduto un mio parente insieme a tanti altri che hanno combattuto per l´Italia». Ma è di nuovo su Facebook che Del Nero (che sta pensando a una denuncia contro ignoti) ha affidato ieri pomeriggio il suo appello-riscossa: «Lo sapevate? Avete avuto per anni a che fare con un sadico torturatore!» scrive ironico ai ragazzi. In realtà nei post c´era solo «qualche mia scherzosa affermazione», spiega. Avvertendo «l´anonimo vigliacco»: «Esci allo scoperto se hai coraggio, parla con i miei studenti. E poi vatti a nascondere».