venerdì 13 novembre 2009

l’Unità 13.11.09
Quando a impazzire è lo psichiatra
risponde Luigi Cancrini

La strage avvenuta in una delle più grandi basi militari del Texas è stata perpetrata da uno psichiatra dell’Esercito. È noto che all’interno dell’esercito USA circolano con estrema facilità farmaci psicotropi som- ministrati con superficialità al personale, militare e non. Questi prodot- ti hanno effetti collaterali con comportamenti suicidi ed omicidi.
RISPOSTA L’uso indiscriminato di farmaci antidepressivi è estre- mamente pericoloso quando la depressione ha una origine post trauma- tica. L’unico modo serio di affrontare terapeuticamente questi disturbi è quello legato alla elaborazione del lutto. Spingere la persona ad uscire dal guscio in cui tenta di chiudersi con farmaci stimolanti senza tenerne conto porta spesso allo sviluppo di una inquietudine sempre più difficile da capire e da controllare. Si spiega anche così, in letteratura e nella clinica il numero anomalo di suicidi e di atti violenti (soprattutto in ambito familiare ma anche, a volte, fuori di questo) dei reduci da un luogo di guerra vissuto come umiliante e ingiusto da quelli che lo hanno conosciuto senza essere difesi da un minimo di fanatismo paranoico (o patriottico). Vittima di un processo in cui gli affari dell’industria farma- ceutica si intrecciano con quelli dei militari e con l’ignoranza di chi lo ha formato, lo psichiatra che spara all’impazzata contro la gente cui non sa dare aiuto è un simbolo perfetto del vicolo cieco in cui la psichiatria si sta rinchiudendo nel tempo (depressivo) degli antidepressivi.

Repubblica 13.11.09
Passione e politica. Quel testo tirato sul muro
"Questa roba è immorale" e con la rabbia di Anna la politica diventa emotiva
di Filippo Ceccarelli

La scelta della sottosegretaria: forfait alla Camera per andare in tv

Giacca bianca, rosa nera, orecchini a mosaico. Si perdoni qui l´esordio frivolo. Ma chi ha assistito alla scena in cui la capogruppo pd ha sbattuto il testo del ddl Mills sullo stipite della porta della Sala Maccari, al Senato, non manca di ricordare che anche ieri la Finocchiaro era molto elegante.
Certo anche il luogo, illustrato sulle pareti con i più virtuosi esempi della storia della Roma repubblicana, infervorate orazioni, vegliardi ciechi che si fanno condurre in Campidoglio per respingere le lusinghe del nemico, oppure senatori che rimangono immobili come statue di fronte alle beffe dei barbari, ecco, di sicuro pure la scenografia ha contribuito a intensificare l´impatto visivo del numero della capogruppo, di quella sua minacciosa e simbolica sventola al provvedimento, tanto che i giornalisti ne hanno dato immediato conto, vedi l´Ansa: «Giustizia: Finocchiaro sbatte testo ddl Ghedini contro porta».
Quel che poi accadrà effettivamente a Palazzo Madama è, come sempre, un altro conto. Ma nel frattempo il gesto arriva ad esprimere con qualche supplemento d´energia ciò che le parole, evidentemente, non riescono più tanto a fissare, tantomeno a ribaltare la tradizionale impressione secondo cui «le chiacchiere - come si dice a Roma con bimillenaria esperienza di vita parlamentare - stanno a zero». Ecco, adesso, per oggi, magari, un po´ meno.
Anna Finocchiaro, che pure fino a ieri aveva fama di compostezza (i politici preferiscono «sobrietà»), ha fatto dunque qualcosa di più che denunciare il centrodestra di «ingiustizia» e «immoralità». Ha suggerito modifiche praticabili per accorciare le lentezze del processo penale. Ma soprattutto è sembrata restituire all´opposizione il valore di un moto spontaneo dell´anima, un gesto di stizza o di rabbia comunque venuto fuori senza pregiudiziale calcolo, né preventivato effetto, anche se davanti a sé la presidente dei senatori aveva pur sempre una nutrita platea di giornalisti - e ormai i politici hanno imparato bene di che cosa l´informazione va alla ricerca in questo tempo di fragilità emotive e risonanze spettacolari.
Con obiettiva malagrazia il senatore Boscetto, del Pdl, ha ieri parlato di «scena isterica». Con altrettanta malizia, non troppo lontano dallo schieramento del Pd, si faceva notare che martedì prossimo si voteranno i capigruppo sia a Montecitorio che a Palazzo Madama, la Finocchiaro dovrebbe essere riconfermata, ma stai a vedere: magari la furiosa passione potrebbe tornarle utile, tanto più se modulata con criteri di intermittenza e retrattile spettacolarità.
E tuttavia, al netto dei sospetti e delle cattiverie: il fatto stesso che la naturalezza e l´impulsività facciano notizia dice parecchio sulle modalità espressive dell´odierna vita pubblica e sulle sue vaste, continue e crescenti contraffazioni. Fra collera e teatro, sentimento ed enfasi il confine è labile, è mobile e talvolta è pure fruttuoso. Sempre più la politica e il potere vivono di gesti.
Vero è che la casistica degli sbocchi d´ira è già abbastanza nutrita. Senza riandare a Craxi, che una volta pare abbia sollevato il tavolo del Consiglio dei ministri, né dilungarsi sugli orizzonti espressionistici del «santanchismo», c´è da rubricare un D´Alema che alla fine della Bicamerale spinge via dal suo scranno un mezzo chilo di dossier; c´è Rosy Bindi, ministro della Sanità, che a palazzo Chigi sbatte le sue carte sul banco mettendosi a piangere; c´è la Prestigiacomo che, insultata sulle quote rosa, spedisce in volo decine di fogli al Senato; c´è il presidente Rai Petruccioli che lancia in aria un quotidiano con un articolo sgradito. E forse c´è addirittura Berlusconi che in un comizio elettorale strappa il programma del centrosinistra. Forse perché lui di solito i gesti spontanei se li prepara; o gli vengono tali anche se non lo sono. Magari si potrebbe chiedere una parola risolutiva agli austeri, impassibili senatores della Sala Maccari.

Repubblica 13.11.09
Tensione a Bari, la Digeronimo rifiuta di lavorare in pool
Fuga di notizie su Vendola scontro tra procuratore e la pm
di Lello Parise

BARI - Il sostituto procuratore Desirèe Digeronimo rifiuta di lavorare in pool a proposito delle indagini legate alla malasanità. La «sistematica fuga di notizie» di cui l´altro giorno aveva preso atto «con rammarico» il procuratore di Bari Antonio Laudati, fa salire la tensione a Palazzo di giustizia. Ieri il capo dell´Ufficio del pm ha un faccia a faccia con la Digeronimo, destinataria della "annotazione" dei carabinieri che tirava in ballo il governatore Nichi Vendola e che mercoledì era stata pubblicata da Libero. Qualche ora più tardi, lo stesso Laudati faceva sapere che nei confronti di Vendola «attualmente non c´è nessun procedimento penale» e annunciava «conseguenze sotto il profilo organizzativo e processuale» dopo l´apertura dell´ennesimo buco nella rete del segreto istruttorio. Mentre alcune fonti giudiziarie rivelano che la Digeronimo non voleva essere affiancata da altri magistrati per mandare avanti l´inchiesta. Questo per scongiurare proprio fughe di notizie.
Nel frattempo Vendola assicura di «essere uscito rafforzato» da questa storia. Per i militari dell´Arma avrebbe cercato di «imporre le nomine di direttori sanitari e amministrativi, nonché di primari» all´interno delle Asl pugliesi. Ma Laudati aveva bagnato le polveri dei sospetti: «Vendola non è indagato». Ce n´è quanto basta tuttavia perché nell´arcipelago del centrosinistra ci sia chi agiti il fantasma del complotto. L´assessore comunista Michele Losappio parla senza mezzi termini di «pezzi dei servizi segreti che lavorano per avvelenare il clima politico». La tesi è che sarebbe in atto il tentativo di «condizionare la scelta» del candidato progressista alla presidenza della Regione per le elezioni del 2010. In pole position c´è Vendola, che domenica celebrerà se stesso nel corso di una convention alla Fiera del Levante. Ma che rischiava di fare flop se «lo stile della procura» non avesse disinnescato «il siluro». Racconta Vendola: «La montagna ha partorito il topolino. Quelli che volevano trascinarmi in qualche gorgo di sangue sono stati i protagonisti di una volgare diffamazione, orchestrata in un poligono di tiro chiamato Libero». Per oggi e domani, intanto, si dà appuntamento a Bari lo stato maggiore dell´Udc, a cui il Pd vorrebbe allargare la maggioranza. Ma i Casini boys reclamano che Vendola si faccia da parte. Spiega il coordinatore del partito, Angelo Sanza: «L´unico che sarebbe in grado di convincerlo a fare un passo indietro, è Massimo D´Alema».

Repubblica 13.11.09
La Cei: "Crocifisso, l'Europa ci ripensi"
Il cardinale Bagnasco all'assemblea di Assisi. Incontro Fini-Bertone: le leggi difendano la vita
di Orazio La Rocca

I cattolici possono stare in qualunque formazione politica se liberi di proclamare i propri valori
Positive le primarie ogni forma di partecipazione democratica va favorita
Contrari a quella di Strasburgo, un pronunciamento incomprensibile e surreale

ASSISI - «I cattolici possono stare in qualsiasi formazione politica, ma con la libertà di proclamare coerentemente i loro valori». L´autorevole placet - quasi un via libera per quei politici che dicono di avere la fede cattolica - arriva, un po´ a sorpresa, dal cardinale presidente dei vescovi, Angelo Bagnasco. Il porporato - alla conferenza stampa finale dell´Assemblea Cei tenuta ieri ad Assisi - tocca anche altre importanti questioni socio-politiche come le recenti elezioni primarie del Pd («importante evento di democrazia»); e la sentenza di Strasburgo contro il crocifisso nelle scuole, parlando a questo proposito di «pronunciamento surreale» in merito al quale invita l´Europa a «fare una riflessione sul merito e sul metodo di un provvedimento che va contro la cultura e l´identità europea». Concetti rilanciati, in serata, anche dal presidente della Camera Gianfranco Fini e dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, alla commemorazione a Montecitorio del settimo anniversario della visita di papa Wojtyla, ricordato dal docufilm Credo di Alberto Michelini. Bertone ha anche avvertito che le leggi dello Stato «promuovano la difesa dei diritti fondamentali della persona umana sia essa embrionale o morente»; mentre per Fini «l´identità culturale dell´Italia non può fare a meno della presenza della Chiesa e del cristianesimo».
«Non è compito della Chiesa dare giudizi politici o fare considerazioni partitiche che non le competono», risponde Bagnasco a chi gli chiede un parere sul nuovo partito dell´ex Pd Francesco Rutelli, una formazione che punta anche ai cattolici. Ma subito dopo precisa: «A noi, come Chiesa, interessa solo che i cattolici, là dove sono, possano esprimere liberamente con coerenza le loro convinzioni ed i loro valori. I cattolici possono stare ovunque, operando però in coscienza». Positivo il giudizio sulle primarie del Pd perché, spiega, «la gente ha bisogno di partecipare, come dimostrano i circa 3 milioni di persone che vi han preso parte». «Ogni forma di partecipazione democratica - per il cardinale - merita di essere favorita, perché sono un ottimo deterrente alla deriva di un clima urlato che non favorisce nessuno». Bagnasco rilancia pure l´invito a politici e mass media, come già aveva fatto lunedì all´apertura dell´Assemblea, ad abbassare «i toni delle polemiche per il bene dell´Italia». Torna, inoltre, a bocciare la ventilata ora islamica nelle scuole pubbliche, ed a sottolineare la «validità» dell´insegnamento dell´ora di religione, «i cui docenti devono essere però selezionati dalla Chiesa per una forma di serietà e di garanzia dottrinale». Tra le note dolenti, Bagnasco si mostra perplesso per la Finanziaria che ha abolito il 5 per mille («Un sistema di sostentamento utile per tante opere di volontariato»), e dà voce anche «alle preoccupazioni dei vescovi abruzzesi per le lentezze del dopo terremoto». «La situazione è difficile, qualcosa si sta facendo, ma - puntualizza - in Abruzzo occorre fare di più, specialmente per le chiese, che sono luoghi di fede, di cultura e di aggregazione».

Repubblica 13.11.09
L’addio a Enke
La depressione non è più invincibile nuovi farmaci e hi-tech ci tirano su
Efficaci stimolatori, diagnosi precoce e terapie avanzate "Ma la pillola della felicità non esiste"
di Vera Schiavazzi

Diagnosi precoce e appropriata. Stimolazione magnetica intracranica. Stimolatori elettrici per il nervo vago. Terapia della luce. Privazione del sonno. Se i farmaci - ormai efficaci nel 70 per cento delle depressioni "severe" - non funzionano, ci sono altre terapie diverse da quelle psicologiche per cercare di proteggere i pazienti da se stessi. «Quando ho letto che Robert Enke, il portiere tedesco suicida, era assistito da uno psicologo, ho avuto un brivido, pur non potendo sapere se era proprio così», confessa Laura Bellodi, una delle psichiatre italiane più note tra chi si occupa di ansia, depressione, disturbi ossessivi. E il suicidio del portiere tedesco diventa così l´occasione per un nuovo dibattito tra medici sulle armi delle quali la scienza dispone oggi per salvare chi, una o più volte durante la sua vita, incontra la depressione.
Due i problemi principali con i quali gli psichiatri, in prima linea nella cura dei pazienti più gravi, si scontrano ogni giorno nei servizi pubblici (dove oggi è in cura l´1,5% della popolazione italiana) o negli studi privati. Il primo, paradossalmente, è rappresentato proprio da farmaci sempre più efficaci, dall´antico litio, di nuovo di moda, ai più recenti stabilizzatori dell´umore, nati per combattere l´epilessia e ora utilizzati con efficacia soprattutto nella terapia del disturbo bipolare (pazienti nei quali ai momenti di depressione se ne alternano altri che assomigliano all´euforia). «Chi li utilizza, proprio come chi deve curare la propria ipertensione o altri disturbi cronici deve continuare a farlo spesso, per periodi molto lunghi - spiega Filippo Bogetto, direttore della clinica di Psichiatria universitaria delle Molinette di Torino dove si sperimenta lo stimolatore per i pazienti che non rispondono ai farmaci - La sfida è proprio lì: convincere il paziente che si sente meglio a non sospendere la cura». Conferma Bellodi: «L´assunzione regolare dei farmaci evita a molti pazienti le ricadute e rappresenta un´efficace terapia di mantenimento. Chi continua a prenderli seguendo le prescrizioni si risparmia uno o più episodi che talora, purtroppo, possono essere anche molto gravi». E chi non risponde ai farmaci? «La garanzia totale non esiste. Oggi però disponiamo di molte risposte che, anche senza evocare terapie da noi assai impopolari come l´elettrochoc, possono essere utili: stimolazione magnetica, luce, privazione del sonno». E Vittorio Lingiardi, docente alla Sapienza di Roma, psichiatra e psicoterapeuta, aggiunge: «La prescrizione sta sempre all´interno di una relazione terapeutica. Non possediamo ancora la pillola della felicità, farmaci e psicoterapia devono andare insieme». E dall´Australia arriva un´altra notizia: per il Commonwealth Scientific Research Organization chi si sottopone a una dieta (e non è già colpito da una depressione maggiore) potrebbe avere un calo d´umore, a causa del taglio sui carboidrati come pasta e pane. Forse è per questo che gli italiani restano, almeno in questo campo, in fondo alle classifiche negative.

Repubblica 13.11.09
una cultura che offende le donne
di Chiara Saraceno

Qual è la differenza tra la cultura (cultura?) del presidente del Consiglio che parla delle donne come piacevoli oggetti d´arredamento e di consumo, salvo insultarle quando non rientrano nel ruolo e quella del disegnatore di fumetti che per criticare una ministra che non gli piace utilizza le allusioni sessuali più grevi e in generale la squalifica come essere umano? In entrambi i casi siamo di fronte ad una cultura maschile che non riesce a fare i conti con la presenza delle donne sulla scena pubblica non solo come oggetti del desiderio (in assenza del quale sembra possa esserci solo il disgusto), oppure come madri da idealizzare come nutrici sacrificali, ma come esseri umani alla pari. L´unica differenza sta, ovviamente, nel diverso potere dei protagonisti e quindi nelle diverse conseguenze sul piano pubblico dei loro gusti e disgusti. Ma in entrambi i casi essi evocano, e solleticano, il profondo disprezzo che una certa cultura maschile, ahimè ancora troppo diffusa in Italia, ha per le donne. Possono, infatti, contare su una diffusa complicità tra chi li ascolta e legge, appena temperata dalla cauta disapprovazione di chi teme (anche tra le donne) di apparire poco evoluto, o poco spiritoso.
Senza che ci si renda conto che questo maschilismo volgare e senza freni si alimenta dello stesso disprezzo di cui sono oggetto tutti i diversi da sé, specie se in posizione di debolezza sociale: donne, ma anche immigrati, omosessuali, diversamente colorati, diversamente religiosi e così via. È lo stesso disprezzo privo di freni inibitori, che parla alla pancia invece che alla testa delle persone, che ha fatto dire all´ineffabile sottosegretario Giovanardi che se il povero Cucchi è stato pestato a morte mentre era in custodia dagli agenti di polizia, se la era cercata. Opinione che Giovanardi non ha modificato neppure con le scuse successivamente presentate per aver offeso la «sensibilità della famiglia». Nessuna scusa per aver dichiarato, nella sua veste di rappresentante politico e di governo, che nel nostro paese chi non ha comportamenti standard, chi esce anche poco dal seminato, chi è vulnerabile, merita di essere aggredito ed anche, di fatto, di essere condannato a morte. È la stessa logica, per altro, che legittima lo stupro della donna che è fuori casa da sola di notte, o che veste in modo «provocante». Siamo tutti avvisati (avvisate). Del resto anche il ministro la Russa ha evocato una specie di giudizio di Dio («possono morire») per i giudici della corte di Strasburgo che hanno giudicata illegittima l´esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane perché lesiva della sensibilità dei diversamente (dai cattolici) credenti e non credenti.
Nemico e diverso sono accumunati in espressioni di odio e disprezzo che farebbe specie sentire in bocca a chiunque. Ma che in bocca ai politici evocano un modello di società divisa tra noi e loro, amici e nemici, in cui tutto è legittimo per difendere i propri e per attaccare «gli altri».
A tutti i livelli nel nostro paese si stanno legittimando comportamenti di aggressiva e violenta inciviltà che dovrebbero preoccupare chiunque abbia un minimo senso di responsabilità e in primo luogo i nostri politici – governanti e all´opposizione che siano. Anni fa era di moda ironizzare con aria di sufficienza sulla ossessione statunitense per il linguaggio e i comportamenti «politicamente corretti», ovvero attenti a non suggerire atteggiamenti e valutazioni discriminatorie e offensive verso gruppi sociali storicamente e culturalmente svantaggiati. È vero che un linguaggio sorvegliato non è sufficiente a cancellare le discriminazioni effettive e neppure le opinioni e i pensieri razzisti o sessisti. Ma la situazione italiana ci ricorda che la realtà sociale è anche costruita dal linguaggio. Nominare le cose e le persone in un modo piuttosto che in un altro contribuisce a collocarle in un modo piuttosto che in un altro nello spazio delle relazioni sociali. E può esserci un cortocircuito drammatico tra pesantezza delle parole e gravità dei fatti. Non è sempre vero che tra il dire e il fare c´è di mezzo il mare.

Corriere della Sera 13.11.09
Disonorate società
Sistema pubblico e alleati camorristi
di Gian Antonio Stella

C’è un altro Pae­se al mondo dove il siste­ma pubblico si prende come soci «Pan­zone », «Capagrossa» e «Gi­gino ‘o drink»? Il fascicolo dell’inchiesta su Nicola Co­sentino, riassunto ieri da Marco Imarisio, toglie il fia­to. E fa venire in mente, forse per quei nomi che sembrano imparentati con Macchia Nera e Gambadile­gno, il modo in cui furono dipinte qualche anno fa, quando dilagarono da Vipi­teno a Capo Passero, le so­cietà miste. Ricordate? Pa­reva fossero dotate della bacchetta magica della fa­ta Smemorina capace di trasformare la zucca di Ce­nerentola in una carrozza e i topolini in cavalli. For­mula magica: la forza del sistema pubblico più l’effi­cienza imprenditoriale del privato. Come sia finita si è visto: i ratti si sono man­giati spesso la bacchetta, la carrozza e anche la zuc­ca.

Il caso della «Eco4», l’azienda mista in cui tutti i cittadini italiani hanno messo i soldi senza imma­ginare che fosse, per usare le parole del gip, una «pu­ra espressione della crimi­nalità organizzata» che se ne infischiava dei rifiuti e della realizzazione di un termovalorizzatore ma ave­va come unico obiettivo una montagna di assunzio­ni che, raccontò l’«impren­ditore » Michele Orsi pri­ma di essere assassinato, erano per il 70% «inutili» e «motivate per lo più da ra­gioni politico-elettorali», non è purtroppo un’ecce­zione.

Anzi. Nel Lazio è sotto proces­so una società mista, la «Aser», che con l’aiuto di sindaci e amministratori era riuscita a ottenere ad Aprilia e in altri comuni (quelli che dicono di non vedere i soldi da anni sa­rebbero 128, quelli coinvol­ti 400) un accordo che pre­vedeva non solo una per­centuale del 30% sui tributi riscossi (quella precedente del Monte dei Paschi e quella attuale di Equitalia sono intorno all’1,5%) ma che la quota del socio pri­vato, su quel 30%, fosse del 70%. In Sicilia i tribunali so­no alle prese col caso di «Messinambiente», in cui il comune aveva il 51% ma riconosceva al partner pri­vato, la chiacchierata «Alte­coen » di Enna, il 118% (ave­te letto bene: il centodiciot­to) degli incassi. Un affare sconcertante. Sul quale l’al­lora procuratore Luigi Cro­ce disse in Parlamento che «tanto per l’appalto quan­to per la costituzione della società mista vi fu certa­mente un’influenza della criminalità» e che la «Alte­coen » era arrivata perché spinta «dal boss Nitto San­tapaola ». Sono solo due ca­si. Ma potremmo andare avanti.

Sia chiaro: alcuni proble­mi, quale l’ingordigia dei partiti che si servono delle società miste per assume­re gente senza concorso o piazzare trombati e reggi­coda, sono generali. Vedi il caso dell’autostrada Pa­dova- Venezia: un consiglie­re d’amministrazione ogni due chilometri e mezzo. C’è tuttavia una specificità meridionale che dovrebbe allarmare soprattutto chi ha a cuore il Mezzogiorno. Sono anni, infatti, che la magistratura, le inchieste giornalistiche, i rapporti come quello di Sos Impre­sa segnalano una progres­siva penetrazione della ma­la economia in tutto il Pae­se ma in particolare nel Sud. È una questione non solo morale. Ma economi­ca, se è vero che dall’este­ro, anche prima della gran­de crisi, la volontà di inve­stire era così bassa che se­condo il Rapporto Svimez «le regioni del Mezzogior­no hanno ricevuto nel 2006 appena lo 0,66% degli investimenti esteri entrati in Italia». Forse non voglio­no come socio, loro, «Gigi­no ‘o drink»…

Corriere della Sera 13.11.09
L’anniversario I dubbi del «manifesto» e di Diliberto
La Rossanda, i «nemici» dell’89: i cocci del muro hanno colpito noi
di Fabrizio Roncone

Rossana Rossanda ieri ha espresso pubblicamente il suo dissenso rispetto ai festeggiamenti per la caduta del muro di Berlino: «Noi su quell’utopia ambiziosa eravamo nati».
Rossanda poi avverte: «La sinistra è a pezzi e noi non stiamo meglio. Ho sperato che le cose ci avrebbero fatto crescere con calma e pazienza. Il 10 novembre mi sono finite tutte e due».

ROMA — Muro di Berlino: nel dibat­tito dell’anniversario irrompe Rossana Rossanda, intellettuale comunista, ex partigiana, intelligenza rara, donna ri­gorosa, colta, a volte distante; tra le fondatrici del quotidiano il manifesto.

E proprio sul suo giornale, ieri, di spal­la, ecco un editoriale dal titolo elo­quente: «L’89. Il mio dissenso».

È un articolo lungo e profondo, co­me sempre sono i suoi scritti. Qui, per brevità, solo l’incipit (vi coglierete su­bito un tono gonfio di amarezza).

«Non è un incidente se il manifesto, che si definisce ancora 'quotidiano co­munista', ha elegantemente glissato sul ventesimo anniversario del 1989: non per distrazione, ci strillano da vent’anni che la distruzione del muro di Berlino segnava la fine del comuni­smo, 'utopia criminale'. Noi su quella utopia ambiziosa eravamo nati, ed era­vamo stati i primi a denunciare nella sinistra che con essa avevano chiuso da un pezzo i 'socialismi reali'. Li de­nunciavamo nell’avversione del Pci... » .

La Rossanda sembra rivolgersi diret­tamente ai compagni del suo giornale. Che, sull’anniversario della caduta del Muro, non hanno finora svolto rifles­sioni. «La sinistra è a pezzi, e noi non stiamo meglio. Né come finanze, né come peso nell’opinione, né fra noi».

Insomma il manifesto non ha fino­ra affrontato come si deve una vicen­da storica politicamente molto vicina, come invece avrebbe potuto, e — so­stiene la Rossanda — dovuto. Un silen­zio che diventa evento.

Valentino Parlato, che del manife­sto è direttore responsabile oltreché cofondatore, suggerisce di non cedere allo stupore. «Guarda, ti dico: l’anni­versario del Muro non è stato affronta­to per un motivo pratico... sì, la colpa è tutta del disordine in cui vive questo giornale, un disordine organizzativo, ancorché, diciamo così, economi­co... ». Nessun malcelato imbarazzo? «Ma no... Niente di tutto ciò. Solo, di­rei, una riflessione: e cioè che i cocci del muro sono caduti provocando ber­noccoli su tutte le socialdemocrazie eu­ropee e anche su chi, come noi del ma­nifesto , eravamo nati proprio polemiz­zando contro il socialismo reale...».

I cocci. Ora, a ripensarci, Oliviero Di­liberto, segretario del Pdci — mentre entra a un convegno organizzato per ragionare sulla caduta di un altro mu­ro, quello della Bolognina, dove il Pci cessò di esistere — ecco ora Diliberto dice che il primo coccio colpì diritto proprio il Partito comunista italiano. «La caduta del Muro sembrò rendere inevitabile la fine di un partito che nulla aveva invece a che vedere con la realtà sovietica». Que­sto fu, spiega, il primo guaio. «Poi, vede, io non rimpiango i muri, quelli sono oggetti sempre ter­ribili: ma mi sarà possibi­le dire, spero, che con il crollo dei due blocchi e la fine dell’Unione Sovie­tica, a rimetterci è stata non solo la pace nel mon­do, ma anche e soprattut­to la forza delle socialdemocrazie euro­pee che, appunto, dall’Unione Sovieti­ca traevano forza...».

Duro, netto, definitivo, il commen­to a queste parole del professor Biagio De Giovanni, filosofo napoletano ed ex comunista di osservanza «migliori­sta ». «Ma no, non è vero che il Pci non avesse nulla a che vedere con la storia del socialismo reale... certo era un par­tito comunista atipico, con una classe dirigente aristocratica, ma il Pci, que­sto va ripetuto ancora in questi giorni di anniversario, aderiva completamen­te, sia pure con qualche distinguo in­tellettuale, al destino dell’Urss...».

Affaritaliani.it 13.11.09
Riccardo Lombardi? Un grande
Rendere il giusto riconoscimento a Riccardo Lombardi è da anni un rebus: anche oggi nel venticinquesimo della sua morte, il suo nome circola per poche ore, in qualche sala con addetti ai lavori e poco pubblico e lontano dalle Istituzioni della Repubblica che contribuì a costruire!
di Carlo Patrignani

Rendere il giusto riconoscimento a Riccardo Lombardi è da anni un rebus: anche oggi nel venticinquesimo della sua morte, il suo nome circola per poche ore, in qualche sala con addetti ai lavori e poco pubblico e lontano dalle Istituzioni della Repubblica che contribuì a costruire! Non deve stare sulla scena oltre il minimo indispensabile: emergerebbe la povertà del ceto politico che ci comanda, rispetto a chi intese la 'politica' non come corsa alla poltrona, alla carriera, all'affare, ma un fare per gli altri, la 'povera gente', il mondo del lavoro. Con un chiaro obiettivo: realizzare una societa' socialista di 'liberi ed uguali', in alternativa al modello del capitalismo che identificava "nei gruppi parassitari e nelle rendite in mano ai nani". Onestà, coerenza e rigore morale sono state le qualità su cui ha forgiato progetti (l'alternativa di sinistra), strumenti (le riforme di struttura) e elaborazioni teoriche (il riformismo rivoluzionario) per la trasformazione della societa' in senso socialista, tenendo insieme liberta' uguaglianza giustizia sociale. La sua lezione politica ed umana è attualissima: onestà, coerenza e rigore sono qualità che valgono in ogni epoca. Quanti del ceto politico possono rispondere alla domanda 'Ha mai pensato di avere più soldi?', come fece Riccardo "Non saprei che cosa farne. Non ho neanche una casa. Mi basta comperare libri"? Quanti possono dirsi immuni da segnalazioni, raccomandazioni, tangenti? Si è detto e si dice ancora che fu un presbite, un intellettuale utopico e visionario. Eppure tante cose vide per tempo, due su tutte: "Non credo poi che la sinistra abbia il monopolio dell'onestà, della correttezza!", disse nel 1976 respingendo l'idea di 'governo degli onesti' e nel suo ultimo intervento al Cc del 30 giugno 1984 "un Psi così non ha motivo di esistere". Tangentopoli cancellò quel partito di 'ministri socialisti' e non come voleva di 'socialisti ministri'.

giovedì 12 novembre 2009

Corriere della Sera 12.11.09
Appalti e nomine L’indagine di Bari punta a Vendola
Sanità, nell’inchiesta anche un pentito
di Fiorenza Sarzanini


BARI — Nel fascicolo sono trascritte centinaia di intercet­tazioni telefoniche e ambienta­li, i verbali che riportano le ammissioni di persone già fi­nite sotto inchiesta. E soprat­tutto ci sono le rivelazioni di un uomo che ha lavorato die­tro le quinte, ma della sanità pugliese conosce molti segre­ti. E adesso avrebbe deciso di raccontare quello che sa, con­centrandosi sulle «mazzette» che numerosi politici di de­stra e sinistra avrebbero preso per pilotare appalti, nomine, accreditamenti e convenzioni. Sulle sue dichiarazioni sono in corso verifiche e accerta­menti, ma il testimone viene ritenuto prezioso per le indagi­ni perché consente di rafforza­re un quadro comunque già delineato dagli accertamenti svolti negli ultimi mesi. E dun­que di confermare come all’in­terno della Regione ci sia stata una vera e propria spartizione per la gestione degli affari e per la nomina di primari e diri­genti delle Asl. Per la prima volta anche il nome del governatore Nichi Vendola compare in una delle informative consegnate due giorni fa dai carabinieri al pro­curatore Antonio Laudati e al­la sua sostituta Desirè Digero­nimo, che rischia di vedersi ri­tirare la delega all’indagine. Perché il deposito di quel rap­porto, che doveva rimanere ri­servato, è stato invece antici­pato dal quotidiano Libero , in­nescando una polemica politi­ca sugli «avvisi» recapitati a mezzo stampa mentre è in cor­so la discussione sul nome del candidato alle prossime elezio­ni regionali. Il capo dell’uffi­cio se ne assume la responsa­bilità, ma quando afferma che dovrà «trarre delle conseguen­ze sotto il profilo organizzati­vo e processuale», si capisce che pensa di gestire il fascico­lo personalmente. E di valuta­re se davvero, come denuncia­no gli investigatori dell’arma, il presidente abbia tentato una concussione accordando­si con assessori e politici loca­li per la scelta di medici e ma­nager da mettere alla guida di reparti e aziende sanitarie.

Sono 11 le persone «segna­late » nel dossier. Oltre a Ven­dola, nell’elenco compaiono il suo capo di gabinetto, France­sco Manna; l’ex assessore alla Sanità Roberto Tedesco, inda­gato e costretto alle dimissio­ni nella scorsa primavera, ma beneficiato di un posto da se­natore del Partito democrati­co; l’attuale assessore ai tra­sporti, Mario Loizzo, anche lui del Pd; il responsabile del­­l’Area personale Mario Calca­gni; l’ex direttore della Asl di Bari, Lea Cosentino; l’ex diret­tore della Asl di Lecce, Guido Scoditti; il presidente del Con­siglio comunale di Triggiano, Adolfo Schiraldi; l’imprendito­re di Altamura Francesco Pe­tronella.

I carabinieri sollecitano la contestazione del reato per­ché contestano a tutti di aver «imposto nel maggio 2008 ai direttori generali delle Asl e di differenti presidi ospedalieri pugliesi, le nomine dei diretto­ri amministrativi e sanitari, nonché di primari di strutture operative complesse al fine di rafforzare la presenza della propria coalizione politica nel­le istituzioni locali».

Il procuratore lo ripete più volte: «Vendola non è indaga­to, a suo carico non c’è alcun procedimento penale, anche perché l’avvio spetta al pm e questo non è avvenuto». Più volte il magistrato ha afferma­to che le indagini riguardanti la politica sarebbero state chiuse in fretta «per evitare che interferiscano in alcun modo sulle scelte democrati­che ». Lo ribadisce adesso, an­che se sottolinea come la valu­tazione sul coinvolgimento di Vendola nell’inchiesta «sarà fatta in futuro». Agli speciali­sti del Ros è stata delegata un’indagine patrimoniale che si concentra sugli appalti del­la Regione, altre verifiche so­no state affidate ai carabinieri di Bari e alla Guardia di finan­za. E poi ci sono le nuove rive­lazioni del testimone da valu­tare. Soltanto quando il qua­dro sarà completo, si deciderà a chi recapitare gli avvisi di fi­ne indagine. 



Corriere della Sera 12.11.09
Il governatore 
«Così le vite vanno nel tritacarne. Ha ragione il premier»
di Alessandro Capponi



BARI — «La scorsa settimana ero a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi si lamentava del clima da buco della serratura e con lui ho condiviso un’osservazione: così, la vita delle persone pubbliche finisce nel tritacarne.

Presidenti regionali e candidati devono prepararsi a vivere i prossimi mesi come una prova del fuoco». Il governatore della Puglia Nichi Vendola ha attraversato «senza paura» questa giornata da accusato: nel pomeriggio, si racconta. «Negli ultimi cinque anni ho evitato ogni occasione mondana. Ho rinunciato al mondo, amministrazione a parte. Ed è stata fondamentale la fede in Dio». A Bari inchieste e rivelazioni si susseguono: ora ci sono 11 persone denunciate per tentata concussione, il suo nome è nell’informativa. Lui sorride e minimizza. Però, appena può, contrattacca: «Angelucci, che è al centro delle inchieste sulla malasanità, è anche proprietario di Libero (che ha dato la notizia, ndr ). Oggi con la mia faccia cercano di coprire il camorrismo, vero o presunto, del sottosegretario Cosentino». E però il suo nome è nell’informativa: «Ho subito uno stillicidio di polemiche perché ho confermato molti uomini di Fitto.

Sarebbe curioso se avessi cambiato direzione, all’improvviso». Ma ci sono queste denunce: «Ho sbirciato nello stralcio dell’informativa: è ridicolo».

Entri nel merito dell’accusa, governatore: «Se avevo bisogno di piazzare uomini della mia parte politica, perché avrei portato le Asl da dodici a sei? » . 


Corriere della Sera 12.11.09
Burkina Faso Emma Bonino fra i promotori dell’iniziativa
«Mai più mutilazioni femminili Ora l’Onu le metta al bando»
di Cecilia Zecchinelli



OUAGADOUGOU — «I ri­sultati ci sono, la lotta nono­stante i problemi va avanti. E la prossima tappa è ora la messa al bando definitiva e globale delle mutilazioni ge­nitali femminili con una riso­luzione dell'Assemblea gene­rale dell'Onu che verrà adot­tata, sono convinta, entro la fine del 2010. Con l'appoggio dell'Italia, i governi africani si stanno muovendo». Emma Bonino traccia un primo bi­lancio della Conferenza inter­nazionale «Dal Cairo a Ouaga­dougou » che si è svolta lunedì e marte­dì nell'infuocata capi­tale del Burkina Fa­so, uno dei Paesi più poveri ma tra i più impegnati nello sra­dicare la tortura in­flitta ogni anno nel mondo a due milioni di donne e bambine.

Sono trascorsi sei an­ni dall'inizio della grande campagna an­ti- Mgf lanciata in Egitto dalla Bonino e dalla first Lady Suzan­ne Mubarak. A Oua­gadougou la vice pre­sidente del Senato era al fianco di deci­ne di attiviste e politi­che del Continente, coloratissime negli abiti tradizionali ma soprat­tutto molto combattive.

«È una battaglia comune, perché le mutilazioni resisto­no in 27 Paesi africani e in Ye­men ma riguardano tutti: in Europa per altro stanno au­mentando tra gli immigrati e in Italia si stimano 30 mila ca­si — spiega —. L'Italia, con l'Ong 'Non c'è pace senza giu­stizia' e la Cooperazione, ha un ruolo di sostegno, nessun atteggiamento coloniale sia chiaro. La leadership è africa­na, come africani saranno i Paesi primi firmatari della ri­soluzione Onu, riuniti già lo scorso settembre a New York dal ministro Frattini e impe­gnati anche da questa confe­renza ad arrivare al voto in Assemblea nel dicembre 2010». Un voto e una confe­renza che non sono atti for­mali.

«Sono invece tappe im­portanti, come le leggi che vietano ormai le mutilazioni in 18 Paesi dell'Africa — con­tinua Emma Bonino —. Non hanno sradicato ancora il fe­nomeno, a fianco serve mol­ta attività di terreno, ma l'hanno ridotto: in Egitto ad esempio si è scesi in sei anni dal 98% della popolazione femminile a meno del 50%. E danno uno status di legalità alle attiviste: in Sierra Leone, con il Mali uno degli Stati più refrattari al cambiamento, so­no viste come streghe e han­no avuto le case bruciate, ovunque esistono fenomeni di rifiuto sociale».

Non di origine religiosa, ma tollerata o perfino inco­raggiata dalle religioni (so­prattutto l'Islam), l'escissio­ne femminile è stata inflitta nel mondo a 150 milioni di donne e bambine. «E' per lo­ro che dobbiamo lottare al grido di tolleranza zero», ha dichiarato nella Conferenza la first lady del Burkina, Chantal Compaoré, una delle prime donne d'Africa impe­gnate direttamente, anche fi­nanziariamente, nella campa­gna. «Il mio sogno adesso è portarle tutte, con le mini­­stre, a New York per la firma della risoluzione — dice Em­ma Bonino —. La battaglia per arrivare alla moratoria sulla pena di morte è stata lunga e difficile ma ha avuto successo. Ci stiamo muoven­do con la stessa metodologia e la stessa energia. E ci riusci­remo ».

Agi 12.11.09
NORDSUD INTERNATIONAL PRIZE: VINCONO HADDAD E HANDKE

(AGI) - Roma, 12 nov. - La libanese Joumana Haddad per la poesia con 'Adrenalina' e il drammaturgo austriaco Peter Handke per la narrativa con 'Falso movimento' sono i vincitori dell'edizione 2009 del 'NordSud International Prize'. A conferire l'ambito e prestigioso premio e' la 'Fondazione Pescarabruzzo', presieduta da Nicola Mattoscio. La commissione giudicatrice del Premio e' composta oltre che da Mattoscio, da Franco Cardini, Francesco Marroni, Walter Mauro, Gian Gabriele Ori, Elio Pecora, Benito Sablone, Stevka Smitran. "La filosofia del NordSud International Prize e' scegliere e premiare autori e opere aperte al dialogo culturale, o meglio ad aspetti e componenti culturali di due parti del nostro mondo diverse per storia e per modello di societa'", spiega lo storico Franco Cardini. Per la parte piu' creativa, poesia e narrativa, il Premio e' andato alla poetessa libanese Joumana Haddad che di recente ha avuto uno strepitoso successo con 'Il ritorno di Lilith', la prima opera integrale in italiano edita da 'L'Asino d'oro': in poche settimane ha venduto piu' di 2 mila copie e attirato un foltissimo pubblico alle sue presentazioni. Il premio 2009 e' per il precedente 'Adrenalina' ma, indirettamente, conferma l'alto profilo della poesia della Haddad. Nella sua poesia c'e' dunque quella spinta, "al dialogo culturale tra paesi e realta' diverse, come e' nello spirito del Premio", spiega lo storico Cardini. Lo stesso vale per l'autore de 'La Storia Infinita', Handke, con il suo 'Falso movimento'. Sono stati anche premiati, per le Scienze Esatte e Naturali, Lucia Votano per la pubblicazione 'The OPERA experiment in the CERN to Gran Sasso neutrino beam' e per le Scienze Sociali, l'economista Kumaraswamy Vela Velupillai con la pubblicazione 'Towards a Theory of Econoimic Development without the owl of Minerva. An Outline & a Summary'. La cerimonia di premiazione si terra' sabato, 21 novembre 2009 presso la sede della 'Fondazione Pescarabruzzo' a Pescara. (AGI) Pat

mercoledì 11 novembre 2009

Agi 11.11.09
LIBRI: DOMANI ESCE LEFT 2006 E L'AUTORE NE PARLA A RADIOUNO

(AGI) - Roma, 11 nov. - Un anno di articoli, 43 per l'esattezza, dal rapporto sfumato con Fausto Bertinotti alle tragedie degli immigrati e delle carceri al rapporto uomo-donna, scritti dallo psichiatra Massimo Fagioli sul settimanale 'Left' nato tra anni fa dalle spoglie del vecchio 'Avvenimenti', diventa libro 'Left 2006'. In uscita nelle librerie domani, questo terzo libro edito da 'L'Asino d'oro', ha il suo asse portante nell'originalissimo intreccio tra politica, psichiatra e attualità. Ma è anche il racconto 'del sogno della nuova sinistra' di Fagioli che domani ne parla a RadioUno nel corso della trasmissione 'Nudo e crudo'. Poi il 5 dicembre Fagioli lo presenterà a Roma, alla Fiera nazionale della piccola e media editoria "Più Libri più liberi", insieme alla poetessa libanese Joumana Haddad, autrice de "Il ritorno di Lilith" (editore sempre 'L'Asino d'oro') che ha già venduto oltre 2000 copie in tutta Italia. "Il sogno magnifico di dar vita ad una nuova sinistra, a partire da un concetto inedito di uguaglianza quella che c'è tra gli esseri umani alla nascita - si legge in una nota - narrato attraverso un'originale trama di idee e riflessioni su politica, psichiatria e rapporto uomo-donna". Il libro raccoglie dunque i 43 articoli dello psichiatra dell'Analisi Collettiva, protagonista di una ricerca da oltre 50 anni sulla mente umana, apparsi nel 2006 sul settimanale "Left", nato per iniziativa di Luca Bonaccorsi, nella rubrica intitolata "Trasformazione". In "Left 2006", corredato dalle illustrazioni di Alessandro Ferraro, "alle vicende della politica, compreso il rapporto, poi tramontato, tra l'ex segretario del Prc, Fausto Bertinotti, e l'Analisi Collettiva, quel vasto movimento sociale e culturale di migliaia di persone che - precisa la nota - fa riferimento alla Teoria della nascita di Fagioli, si affiancano quelle dell'attualita' e della ricerca sull'identità umana. Ma c'è anche l'invito alla sinistra a riflettere su se stessa e a recuperare l'utopia delle origini - precisa la nota - Liberté Egalité Fraternité, unita alla idea di una trasformazione possibile: questo è il libro di Fagioli, che pur criticando Marx, riconosce alla sinistra un pressochè esclusivo "interesse per la realtà umana", ma le rivolge l'accusa di non riuscire a distinguere "tra bisogni ed esigenze" e di non avere mai pensato di trasformare la realtà mentale umana". (AGI) Pat

l’Unità 11.11.09
L’etica della furbizia
Crocefissi in classe? Almeno non dite di essere liberali
di Francesca Rigotti, università di Lugano

Vorrei intervenire con le parole della filosofia politica sulla questione riguardante la presenza del crocifisso nelle aule della scuola pubblica italiana. Ma prima ancora desidero far notare che la risposta della Corte europea dei diritti dell'uomo alla richiesta della signora Lautsi è assolutamente in linea con la legislazione che abbiamo sottoscritto. La Corte ha infatti risposto con le parole dell'art. 2 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo del 1952, sottoscritta anche dallo stato italiano, che stabilisce che «Lo Stato nell'esercizio delle funzioni che assume nel campo dell'educazione e dell'insegnamento deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento in modo conforme alle loro convinzioni religiose e filosofiche». Evidentemente nel Bel Paese si è preferito fare orecchie da mercante e ignorare tale diritto genitoriale, oltre a ironizzare sul fatto che la signora sia di origine straniera e quindi non abbia da interferire con le faccende italiane, ignorando probabilmente il fatto che qui si tratta di diritti dell'uomo, che per definizione non hanno confini nazionali né abbisognano di cittadinanze particolari. Oltre a ciò, una precedente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (del 1976) prescrive che le conoscenze religiose siano dispensate dalla scuola in modo «oggettivo, critico e pluralistico».
Leggo questi dati e riconosco la lodevole applicazione del principio di «ragionevole neutralità» nell'articolo di Marcello Ostinelli, «Etica pratica e cultura religiosa nella scuola pubblica ticinese» uscito su «Verifiche» (giugno 2007, no. 3, pp. 4-7). L'articolo contiene informazioni interessanti e proposte più che condivisibili. Le istituzioni liberali devono risultare neutrali rispetto alle visioni del mondo e alle concezioni del bene individuali che caratterizzano le società contemporanee. Questo atteggiamento è visibile particolarmente nella posizione che il liberalismo assume nei confronti della religione. Lo stato liberale è agnostico (indifferente) rispetto al problema religioso. Lo stato liberale è neutro rispetto ai valori. Tipica dello stato liberale è quindi la separazione tra stato e chiesa, nel rispetto dell'idea che la religione è qualcosa che interessa gli individui nella sfera privata ma non dovrebbe interessare lo stato. Lo stato liberale non ha una chiesa ufficiale ma rispetta le varie chiese presenti. Lo stato liberale è laico perché ragiona fuori dall'ipotesi di Dio, etsi deus non daretur, come se Dio non esistesse, il che non significa che non esiste – ricorda Ostinelli – ma vuol dire che bisogna sgomberare il campo da asserzioni dogmatiche. Se alcuni settori del paese Italia non si riconoscono in uno stato laico e liberale, che lo facciano, ma abbiano almeno, se non il coraggio, la banale coerenza di dichiararlo e e di rinunciare all' uso e all'abuso di termini quali libertà e liberalismo.❖

Repubblica 11.11.09
Il pensiero liberale e il potere berlusconiano
di Massimo L. Salvadori

Fin dagli albori del pensiero politico occidentale la riflessione sulla natura del potere ha ruotato intorno alle distinzioni relative a che questo sia detenuto da uno o da pochi o dai molti, abbia un carattere immoderato o moderato, sia concentrato al punto da divenire al limite dispotico oppure articolato e soggetto a controlli e contrappesi. E tutte le forme di governo si sono divise in assolutistiche e in variamente antiassolutistiche. Orbene, la specificità delle prime, nelle loro versioni tanto antiche quanto moderne, è di rendere impossibile ogni balance of power all´interno della macchina di governo e di tendere a impedire qualsiasi opposizione. La nascita del liberalismo è legata insieme agli eventi che nell´Inghilterra del Seicento posero fine alla monarchia assoluta e al pensiero dei due massimi maestri delle teorie antiassolutistiche, Locke e Montesquieu: l´uno affermò che i regimi liberi poggiano sulle istituzioni rappresentative, sulla piena espressione delle libertà politiche e civili e sul primato del potere legislativo su quello esecutivo; l´altro che la difesa della libertà poggia sulla divisione e sull´equilibrio dei poteri ponendo ad architrave il principio secondo cui «perché non si possa abusare del potere, bisogna che il potere freni il potere».
Toccò ad una nuova generazione di pensatori liberali, ai Constant, Tocqueville, John Stuart Mill, levare l´allarme sul fatto che l´attacco all´equilibrio dei poteri poteva venire non soltanto dal vecchio assolutismo, ma anche vuoi da democrazie in cui la maggioranza invoca il diritto di restringere o annullare con un approccio illiberale i diritti delle minoranze, vuoi da leader che, avvoltisi nella bandiera della popolarità, usano degli strumenti offerti dalla democrazia per realizzare una sempre maggiore concentrazione di poteri fino ad esiti autoritari. La prima degenerazione dava luogo alla «tirannide della maggioranza», la seconda al neocesarismo. Tocqueville e Mill e in seguito Max Weber indagarono poi su un´altra componente del moderno assolutismo: quella derivante dal sommarsi del potere economico, politico e ideologico. Fu Weber a parlare in proposito del costituirsi in un simile caso di una «gabbia d´acciaio» da cui le libertà degli individui e dei gruppi sarebbero risultate sempre più soffocate. Egli, al pari di Tocqueville e Mill, aveva legato il sorgere della gabbia d´acciaio anzitutto all´avvento al potere di una dittatura socialistica collettivistica e statolatrica, ma al tempo stesso sottolineato con forza che essa poteva ben venire anche dal versante opposto, ovvero dalla plutocrazia.
Siffatta premessa non vuole essere un astratto excursus dottrinario, ma un richiamo alle categorie di giudizio che consentono di concretamente ragionare sul processo in atto da noi. È di non molto tempo fa l´articolo di un noto giornalista in cui si sosteneva che in Italia non si dà un «regime», perché vi sono pur sempre il Parlamento, il pluralismo politico, dell´informazione, ecc. Due osservazioni al riguardo. La prima concerne un uso improprio del linguaggio, che è andato diffondendosi, per cui il termine regime viene reso sinonimo di sistema autoritario o addirittura di dittatura, laddove esso è di per sé neutro e non altro significa se non forma di governo, ordinamento politico, il quale per qualificarsi richiede aggettivi come autoritario, liberale, democratico, dittatoriale, e via dicendo. La seconda riguarda la sostanza di ciò che implica il concludere che, se in Italia non vi è un "regime" (inteso secondo la prima deformante accezione), allora la democrazia resta viva e vegeta. Si tratta in questo caso di un aut aut concettuale rigido, che preclude la comprensione di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, dove si fanno ogni giorno più evidenti le molteplici pericolose restrizioni che la strategia del presidente del Consiglio ha già imposto e intende ulteriormente imporre al nostro sistema politico e istituzionale; il quale, se non ha i tratti di un regime organicamente autoritario, presenta però quelli di una democrazia minacciata proprio nei suoi fondamenti liberali da chi in maniera assordante pure pretende di essere il corifeo e il difensore dei valori e dei principi liberali.
Ebbene, usiamo le categorie fornite dai classici del pensiero liberale per ragionare sulla natura del potere berlusconiano. Esse ci dicono che le istituzioni liberali entrano in zona rossa quando si determina una concentrazione del potere politico ed economico; quando la formazione di un´opinione pubblica consapevole e autonoma viene limitata e pesantemente condizionata da un dilagante controllo dei mezzi di informazione; quando un potere dello Stato entra in conflitto permanente con un altro potere; quando la maggioranza parlamentare mira a costituirsi in rappresentanza monopolistica della volontà popolare. E, usando queste categorie, possiamo comprendere ciò a cui siamo di fronte.
Berlusconi come singolo assomma un´imponente quota del potere economico, politico e dell´informazione; una simile abnorme attribuzione di poteri, in costante crescendo e che non ha riscontri in nessun altro paese occidentale, poggia su una maggioranza parlamentare che guarda ai problemi del paese costantemente preoccupata di tutelare gli interessi personali di varia natura del capo del governo; questi si serve delle proprie televisioni private, dei quotidiani e periodici che a lui rispondono, della parte delle reti televisive pubbliche su cui è in grado di imprimere il proprio marchio per via politica, al fine di condurre campagne scandalistiche contro politici, magistrati, esponenti delle istituzioni, giornali e giornalisti «nemici»: si pensi solo ai più recenti casi dell´ex direttore dell´Avvenire, del giudice Misiano e di Corrado Augias. Abbiamo a che fare non con un sistema in cui potere frena potere, ma con un accumulo di poteri di stampo illiberale il quale altera gli equilibri; con una deriva di tipo plebiscitario che punta in maniera ormai sistematica alla delegittimazione del potere giudiziario, della Corte costituzionale, del ruolo di garanzia rappresentato dal Presidente della Repubblica; con la teoria che l´unico potere ad essere legittimato è quello del capo del potere esecutivo in quanto il solo espressione diretta della vox populi: un potere che ora mira apertamente a cambiare la Costituzione così da acquisire il completo primato. Locke, Montesquieu, Mill, Weber: tutti messi in soffitta.
Il paese si trova in un momento storico decisivo. La maggioranza parlamentare è chiamata a fare la conta di quanti non siano disposti a seguire Berlusconi nell´avventura finale in cui egli la trascina, l´opposizione a dar prova di quale pasta sia fatta, l´intero popolo a mostrare ai confratelli popoli d´Europa se intende continuare a soggiacere a uno stato di cose che, se ancora non lo ha chiuso nella weberiana gabbia d´acciaio, certo lo fa già vivere in una condizione che evidenzia una vera e propria immaturità politica e civile.

Corriere della Sera 11.11.09
D’Alema e il presidenzialismo «Meglio del sistema attuale»
E su Tangentopoli: «Sbagliammo a cavalcarla»
di Al. T.



ROMA — La caduta del Muro di Berlino «fu un grande evento positivo e liberatorio, anche se fu un momento drammatico che aprì conflitti, pensiamo ai Balcani». La lettura è di Massi­mo D’Alema, che ribatte a Fabri­zio Cicchitto in un dibattito sul­la caduta del Muro. E che rilan­cia sulle riforme: «Meglio il pre­sidenzialismo, con un Parlamen­to che lo bilancia». Quanto al bi­polarismo, sostiene D’Alema, va «civilizzato» e non è «incom­patibile con un sistema propor­zionale » . D’Alema ricostruisce gli anni di crisi e Mani Pulite: «Non fum­mo gli organizzatori di una Spectre che gestiva la magistra­tura contro Dc e Psi. A Botteghe Oscure non manovravamo Di Pietro e Borrelli. Se c’erano pote­ri forti non eravamo noi, che era­vamo debolissimi. Il nostro teso­riere Marcello Stefanini ricevet­te un avviso di garanzia e morì praticamente di crepacuore». Detto questo, il presidente di Ita­lianiEuropei aggiunge: «Facem­mo l’errore di illuderci, e lo dissi anche allora, che cavalcando l’ondata di antipolitica sarem­mo andati al potere. Sia chiaro, non fummo gli unici: anche la destra scese in piazza, Aleman­no gridava più di me contro i magistrati. Tutti senza capire che c’era qualcuno più attrezza­to per solcare le acque dell’anti­politica. E infatti vinse le elezio­ni Silvio Berlusconi».
D’Alema rievoca anche i gior­ni del camper, con l’ombra delle elezioni anticipate del ’91. Secon­do Cicchitto, Craxi si illuse di di­ventare leader di un centrosini­stra non più comunista. E inve­ce, sostiene, i comunisti distrus­sero la classe dirigente grazie ai rapporti più forti con la magi­stratura. Non fu così per D’Ale­ma, che riconosce i meriti di Cra­xi: «Ci aiutò a entrare nella fami­glia socialista europea e non mi­se ostacoli». D’Alema rievoca il colloquio nel camper, «un posto orribile»: «Ricordo bene che Cra­xi ebbe parole quasi per dire: se potessi io dirigere un partito co­me il vostro e non come il mio, si potrebbe aprire una prospetti­va diversa per il paese».
Sulla caduta del muro, ricor­da un colloquio con Michail Gor­baciov: «Mi disse che quel regime andava abbattuto. E che so­prattutto per noi che eravamo di sinistra quel regime era un pe­so insostenibile». 



Liberazione 10.11.09
La liberazione da regimi certamente oppressivi coincise con la vittoria del capitalismo più selvaggio
Ottantanove, un passaggio ambiguo e pericoloso
di Luciana Castellina

Pubblichiamo stralci di un articolo dell'ex eurodeputata di Rifondazione comunista già uscito nell'ultimo numero della rivista "Nuvole" (www.nuvole.it).

Vorrei concedermi - e me ne scuso - una breve nota autobiografica. Mi è necessaria affinché, chi di quei tempi antichi che sono ormai gli anni a cavallo fra i '60 e i '70 non può avere memoria (o ha scelto di non averla), non sia spinto a pensare che io sia una incallita ortodossa conservatrice comunista. Perché dico che l''89 non è la data di una gioiosa rivoluzione libertaria, ma un passaggio assai più ambiguo e gravido di conseguenze, non tutte meravigliose.
Insomma: per sgomberare il campo da possibili equivoci voglio ricordare che io, assieme ad altri, dal Pci fui, nel '69, radiata anche perché ritenevo che il sistema sovietico fosse ormai irriformabile e non più difendibile.
Vent'anni dopo, nell'‘89, era ancora più chiaro che, se il comunismo poteva avere ancora un futuro (come noi pensavamo), non era certo in continuità con l'esperienza sovietica. Una rottura era dunque indispensabile, ma non una qualsiasi. In merito più che mai necessaria appariva una riflessione critica di tutte le forze che a quella storia si erano ispirate se volevano avere ancora un ruolo. Che invece non ci fu.
Se insisto nel dire - e oggi, ad altri vent'anni di distanza è ancora più evidente - che in quell'autunno dell'‘89, vi fu certo liberazione da regimi diventati oppressivi, ma non una risolutiva liberazione, è perché il crollo del Muro si verificò in un preciso contesto: non per la vittoria di forze animatrici di un positivo cambiamento, ma come riconquista da parte di un Occidente che proprio in quegli anni, con Reagan, Thatcher e Kohl, aveva avviato una drammatica svolta reazionaria.
Al dissolversi del vecchio sistema si fece strada il capitalismo più selvaggio e ogni forma di aggregazione nella società civile, espressione di qualche valore collettivo, venne cancellata, lasciando sul terreno solo ripiegamento individuale, egoismi, prepotenza, quando non peggio. Anche qui da noi, la morte del socialismo sovietico è stata vissuta come rinuncia ad ogni ipotesi di cambiamento. Persino un liberal democratico come Bobbio, che certo comunista non era, ebbe - lucidamente - a preoccuparsene.
Non era scontato che andasse così. Voglio dire che c'erano altri scenari possibili e che a quel risultato si è invece arrivati perché si era nel frattempo consumata una storica sconfitta della sinistra a livello mondiale, e il 1989 è una data che ci ricorda anche questo. Se il Pci avesse operato la rottura che poi operò nel 1981 con il sistema sovietico quando noi lo avevamo chiesto, in quegli anni '60 in cui i rapporti di forza stavano cambiando a favore delle forze di rinnovamento in tutti i continenti, sarebbe stata ancora possibile una uscita "da sinistra" dall'esperienza sovietica, non la capitolazione al vecchio che invece c'è stata.
Già all'inizio degli anni '80 il mondo era cambiato, alla fine del decennio era ulteriormente peggiorato.
Nel terzo mondo i paesi di nuova indipendenza, che avevano cercato di sottrarsi al neocapitalismo, erano ormai largamente finiti nelle mani di corrotte cosche "compradore", affossate quasi ovunque le grandi speranze che avevano animato i movimenti di liberazione che li avevano portati all'indipendenza.
Il solo paese che aveva ostinatamente cercato di seguire un modello diverso da quello imposto dalla burocrazia moscovita, la Jugoslavia, si trovava - morto Tito - alla vigilia di un conflitto interno che l'avrebbe dilaniata. Sotterrata, anche, l'illusione accesa dallo schieramento di Bandung di cui Belgrado era stata animatrice e che per qualche decennio aveva realmente contribuito a limitare l'arroganza delle due grandi potenze.
Il movimento operaio, in Occidente, era costretto a una linea difensiva per impedire che le conquiste dei decenni precedenti fossero rimangiate (e infatti lo furono). Il '68, appariva ormai addomesticato dalla rivoluzione passiva che i ceti dominanti erano riusciti a effettuare, integrando quanto in quello straordinario movimento c'era di indolore e cancellando ogni suo segno alternativo.
La leadership socialdemocratica europea - Brandt, Palme, Foot, Kreisky - che aveva coraggiosamente puntato a rimuovere la cortina di ferro col dialogo anziché con la minaccia militare, ovunque ormai scomparsa dalla scena, espulse dall'o.d.g. le proposte di denuclearizzazione almeno della fascia centrale europea.
In Italia, si collocava un Pci che prima aveva troppo tardato a prendere atto della crisi sovietica, e poi aveva accantonato il tentativo cui Berlinguer, prima della sua morte improvvisa e inaspettata, aveva lavorato: l'idea di non trarre «dall'esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d'ottobre» conclusioni liquidatorie di ogni ipotesi alternativa, ma anzi, l'indicazione di una possibile "terza via", ipotesi sulla quale aveva del resto intrecciato un fruttuoso scambio anche con settori importanti della socialdemocrazia. Proprio dalla caduta del Muro, il Pci, il più grande partito comunista dell'Occidente, ancora forte di quasi due milioni di iscritti e di quasi un terzo dei voti, prendeva spunto per proporre il proprio scioglimento, accingendosi ad una frettolosa abiura. Laddove, proprio in Italia, a differenza di altri paesi, sarebbe stato invece possibile un altro tipo di svolta: perché la rottura con l'Urss si era ormai consumata da tempo e la critica ai sistemi che aveva generato era non più patrimonio di piccole minoranze (come per molti versi era stato, vent'anni prima, all'epoca della radiazione del gruppo de Il Manifesto ), bensì di una larga maggioranza di iscritti al partito e di elettori. Avrebbe potuto essere l'occasione, finalmente, per una riflessione critica sulla propria storia che così non c'è stata. Complessivamente nessuno sforzo serio fu compiuto per riflettere criticamente su cosa era accaduto, per trarre forza in vista di un più adeguato tentativo di cambiare il mondo, ma solo qualche ristagno nostalgico e, altrimenti, la resa a un pensiero unico che indicava il capitalismo come solo orizzonte della storia. Per me e molti altri la data dell'‘89 è anche data di questo lutto.
E' un discorso che non vale solo per i comunisti, del resto. Per il modo come il Muro è caduto era chiaro che un impatto ci sarebbe stato, alla lunga, anche sull'altra corrente del movimento operaio, la socialdemocrazia. La cui crisi, sempre più accentuata, ne è oggi palese testimonianza. Perché è la legittimità stessa di ogni idea di sinistra che è stata messa in discussione. Non solo: anche se i partiti socialdemocratici erano stati sempre molto ostili al blocco sovietico bisogna ben dire che le loro conquiste sociali sono state strappate in Europa anche grazie al fatto che la borghesia era stata costretta a dei compromessi. Perché c'era una società che, con tutti i suoi difetti, aveva però spazzato via il feudalesimo e la reazione. Senza il vento dell'est quelle conquiste sarebbero state impensabili. E' tutta la sinistra, insomma, che da quel tipo di crollo dell'Urss ha sofferto (...).
Se nel nostro pezzo d'Europa ci fosse stata una sinistra più forte e lungimirante, essa avrebbe potuto cogliere l'occasione dello scioglimento dei due blocchi politico-militari per dare nuova forza al soggetto Europa, così riequilibrando i rapporti di forza nel mondo. E invece la sua debolezza finì solo per avallare una resa incondizionata al blocco atlantico, lasciando tutti alla mercè del dominio incontrastato degli Stati Uniti. La guerra contro l'Iraq, la catastrofe palestinese, e infine l'Afghanistan sono lì a provarlo. Quanto alle vecchie "democrazie popolari", sono tornate allo status vassallo di protettorato a dipendenza del capitalismo occidentale, riservato tra le due guerre all'Europa centrale e balcanica.
L'esempio forse più illuminante di come malamente hanno proceduto le cose è quello dell'unificazione della Germania, che pure era stata sogno legittimo del popolo tedesco. A 20 anni da quell'evento, una inchiesta pubblicata sul settimanale Spiegel ci dice che il 57% dei cittadini della ex Repubblica Democratica Tedesca hanno nostalgia di quel regime. Che francamente non era davvero bello. Vuol dire dunque che l'integrazione è stata solo conquista, e che l'ovest è arrivato come un rullo compressore, cancellando ogni cosa, anche i diritti sociali che lì erano stati sanciti e oggi vengono rimpianti.
Se insisto ancor oggi a sottolineare le occasioni mancate dell'‘89, e i guasti che il non averle colte ha provocato, è perché nell'agiografica euforia con cui viene ora celebrato il ventennale della caduta del Muro anche da una bella fetta della stessa sinistra, c'è qualcosa di anche più pericoloso: lo spensierato seppellimento di tutto il XX secolo, come se si fosse trattato solo di un cumulo di orrori, da dimenticare. Senza alcun rispetto storico per quanto di eroico e coraggioso, e non solo di tragico, c'è stato nei grandi tentativi, pur sconfitti, del Novecento. Non solo: una riduzione gretta del concetto di libertà e democrazia, arretrato persino rispetto alla Rivoluzione Francese, che assieme alla parola liberté aveva pur collocato le altre due significative espressioni: egalité e fraternité , ormai considerate puerili e controproducenti obiettivi. Il mercato, infatti, non le può sopportare. Io non credo che andremo da nessuna parte se, invece, su quel secolo non torneremo a riflettere, perché si tratta di una storia piena di ombre, ma anche di esperienze straordinarie. Buttare tutto nel cestino significa incenerire anche ogni velleità di cambiamento, di futuro. In quelle settimane di precipitosa accelerazione della storia che culminò con la fiumana umana che attraversava festosa la porta di Brandenburgo, a Berlino c'ero anch'io. Certo partecipe di quella gioia, come si è contenti ogni volta che un ostacolo al cambiamento viene abbattuto. Ma la libertà vera, quella per cui in tanti che credono che un "altro mondo" sia possibile si battono, quella non ha trionfato. Per questo l'‘89 non è una festa, è un passaggio contraddittorio e difficile. Un'occasione per riflettere.

COMUNICATO STAMPA 9 novembre ’09
"NEL MUNICIPIO XI, DA OGGI, TUTTI I CITTADINI ROMANI POTRANNO DEPOSITARE IL PROPRIO TESTAMENTO BIOLOGICO"

“La Giunta del Municipio Roma XI già il 21 maggio scorso ha istituito il Registro dei testamenti biologici e delle disposizioni di fine vita. A partire da questa data, ogni cittadino residente nel Municipio XI ha avuto la possibilità di depositare presso gli uffici anagrafici del Municipio, le proprie decisioni in ordine alla volontà o non volontà ad essere sottoposto a trattamento sanitario, inclusa l'idratazione e l'alimentazione forzate, nella eventualità di trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti. Con una ulteriore innovazione il Registro del Municipio XI ha previsto, oltre al testamento biologico, anche la possibilità di depositare le proprie volontà sulle forme (civili o religiose) di esequie funebri, sulla volontà in punto di morte di avvalersi o meno dell'assistenza religiosa, sulla volontà o meno di utilizzare il corpo per la donazione degli organi, sulla volontà o meno di essere cremati. Ora, a partire da oggi, attraverso la modifica apportata alla precedente delibera, non solo i residenti locali, ma tutti i cittadini residenti nel Comune di Roma potranno depositare le proprie volontà presso il Municipio XI – dichiarano Andrea Catarci, Presidente del Municipio Roma XI e Andrea Beccari, Assessore Politiche Sociali del Municipio Roma XI -.”
“Mentre il Parlamento discute la legge indecorosa licenziata dal Senato e approdata alla Camera. Una legge contro e non per la libertà di scelta del cittadino, dal momento che: riduce il testamento ad una semplice espressione di orientamento non vincolante per il medico, esclude l'idratazione e l'alimentazione forzati dal testamento e trasforma la figura del fiduciario in una sorta di secondino del testatore; il Municipio XI rilancia e mette a disposizione di tutta la cittadinanza romana il Registro dei Testamenti Biologici e di fine vita”.
“E' importantissimo dare la possibilità al maggior numero di cittadini di depositare le proprie volontà – concludono Catarci e Beccari -, prima che una nuova legge, voluta più dalle gerarchie ecclesiali e certamente in contrasto con la volontà popolare, espressamente anti-Costituzionale, limiti le volontà espresse dei cittadini e limiti la libertà di ogni individuo di autodeterminare il proprio destino.

martedì 10 novembre 2009

l’Unità 10.11.09
In extremis vertice alla Casa Bianca. Ma per la stampa israeliana il rapporto con gli Usa è in crisi
Il nodo colonie Il blocco degli insediamenti è la condizione per riprendere i negoziati con l’Anp
Obama pressa Netanyahu: unica soluzione i due Stati
Un incontro strappato in extremis. Difficile, nervoso. È quello svoltosi alla Casa Bianca tra Barack Obama e il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Al centro la crisi del processo di pace e il dossier iraniano.
di Umberto De Giovannangeli

Un incontro in notturna. «Strappato» in extremis. Un incontro difficile, tra due alleati che non si amano, ma che sanno di non poter divorziare. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu entra nel-
lo Studio Ovale della Casa Bianca a tarda sera (notte inoltrata in Italia). A riceverlo è un Barack Obama che non nasconde la sua preoccupazione per un processo di pace in Medio Oriente che non decolla.
DIFFICILE INCONTRO
L'incontro è stato confermato a Washington solo l’altro ieri sera dopo che Netanyahu aveva annunciato da due settimane la sua partenza per gli Stati Uniti in occasione dell' Assemblea generale delle comunità ebraiche nordamericane, aggiungendo di sperare in un incontro con Obama. Nir Hafez, consigliere per i
media di Netanyahu, ha smentito che le relazioni bilaterali siano in difficoltà. Ma per il quotidiano Haaretz il ritardo nell'annuncio dell'incontro è la spia del fatto che le relazioni bilaterali «sono in crisi». «La Casa Bianca voleva far sudare Netanyahu prima di concedere un'udienza con il presidente e voleva che tutti lo vedessero sudare», scrive il quotidiano, secondo il quale il primo ministro è stato «umiliato». L'incontro, nota il giornale, è stato inoltre fissato nel pomeriggio, troppo tardi per il telegiornale israeliano della sera. La visita si svolge mentre gli Stati Uniti sono impegnati per far ripartire i negoziati di pace. I palestinesi chiedono come precondizione il congelamento delle costruzioni negli insediamenti, ma Israele è disposto a farlo solo dopo aver costruito 3mila appartamenti e se si esclude Gerusalemme est. Una proposta che la segretaria di Stato Usa Hillary Clinton aveva definito positiva,ma sulla quale ha dovuto poi fare marcia indietro ricordando che l'amministrazione americana chiede il pieno congelamento.
L’IMPEGNO AMERICANO
A Netanyahu, Obama ribadisce quanto da lui più volte affermato, in ultimo nel videomessaggio con cui il presidente Usa ha ricordato il quattordicesimo anniversario dell’uccisione di Yitzhak Rabin: l’inquilino della Casa Bianca è impegnato nel sostenere una soluzione di pace a «due Stati» per il conflitto israelo-palestinese. Due entità statali che, ribadisce Obama, «vivano fianco a fianco in pace e sicurezza». «Israele non arriverà ad avere sicurezza finché i palestinesi saranno in una situazione disperata», ha affermato ancora il presidente americano sottolineando che «i legami degli Stati Uniti con i nostri alleati israeliani sono granitici». «Noi ha aggiunto Obama non perderemo mai di vista il nostro fine comune: una pace giusta e durevole in Israele, in Palestina e nel mondo arabo». Al presidente Usa, Netanyahu ribadisce la sua volontà di «avviare in tempi rapidi negoziati senza pregiudiziali con l’Autorità Palestinese». Una determinazione contestata da Ramallah. Il rischio di una nuova ondata di violenze, se gli Stati Uniti non riusciranno a rilanciare il processo di pace israelo-palestinese, è reale. Questo è l’avvertimento di Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente dell'Anp. «La violenza aggiunge Rudeina riempirà il vuoto lasciato dal fallimento degli sforzi per rilanciare il processo di pace se l'amministrazione americana non si impegnerà a esercitare pressioni sul governo israeliano». «Se l' America ha continuato si mostrerà incapace di svolgere il ruolo che le compete, allora gli Usa e Israele saranno ritenuti responsabili delle conseguenze disastrose che ci saranno». Il portavoce palestinese ha affermato che lo stallo in cui si trova il processo di pace è dovuto «all'intransigenza di Israele e alla sua insistenza a continuare la politica di colonizzazione» in Cisgiordania.❖

l’Unità 10.11.09
Intervista a Giovanni De Luna
«Gli anni Settanta?
Un’epoca di passioni e di occasioni fallite...»
Ritorni Ricordare i morti dimenticati, come l’operaio Tonino Micciché, capire le ragioni profonde del nesso tra mobilitazioni politica e violenza: lo storico nel suo nuovo libro torna nelle viscere del «decennio caldo»
di Oreste Pivetta

Giovanni De Luna, storico, torna a riflettere sul decennio tra la fine degli anni sessanta e la fine dei settanta, dal nostro post Sessantotto alle lotte alla Fiat, alla marcia dei quarantamila nelle vie di Torino, dai nostri «anni di piombo» all’emersione di un nuovo «ceto medio», in un libro (Le ragioni di un decennio.
1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta memoria, pubblicato da Feltrinelli) che comincia ricordando alcuni morti d’allora, morti dimenticati, come Tonino Miccichè, animatore della lotta per la casa a Torino, e come Francesco Lorusso, Mariano Lupo, Giannino Zibecchi... È un libro in cui si parla spesso di Lotta Continua, il cui giornale è per Giovanni De Luna uno specchio del senso comune «a sinistra»... Giovanni De Luna, diciamo intanto che questa però non è un’altra storia di Lotta continua, movimento di cui hai fatto parte. Se mai è una storia che non oscura la tua condizione di testimone attivo. «Per restituire lo spirito del decennio, o almeno alcuni aspetti di quello spirito, mi sembra che le pagine di Lotta continua siano una fonte eccellente. Per ricostruire la cultura, le passioni, le aspirazioni di tanti, di una parte cospicua, e soprattutto di quei morti, come appunto Tonino Miccichè, di fronte a una lettura oggi prevalente di quegli anni attorno ad una sorta di paradigma vittimario, lettura tuttavia monca, che ricorda alcune vittime e non altre. Mi è sembrato giusto ridare un volto a quelle vittime, che sono nostre, come Tonino appunto, che non sono state vittime delle stragi o del terrorismo rosso, che non sono state vittime inconsapevoli, che sono state invece persone che hanno pagato con la vita la loro dedizione politica. Era necessario capire quali fossero state le ragioni che avevano spinto quei ragazzi alla totale dissipazione delle loro energie. Poi sono uno storico, che giudica con il ‘senno di poi’. Sono allo stesso tempo come chi sta nuotando in mezzo al mare e coglie sono la dimensione dello spazio d’acqua intorno a lui e chi, giunto sullo scoglio, osserva dall’alto». Tonino Miccichè, immigrato, operaio Fiat, licenziato, agitatore di quartiere, protagonista delle lotte per la casa. Mi sembra, e uso un brutto aggettivo, una figura emblematica, un “uomo nuovo” sulla scena politica.
«Tonino Miccichè presenta tutti i tratti della discontinuità rispetto alle altre generazioni dei militanti di sinistra del Novecento. Tonino non ha una famiglia che lo abbia instradato verso quelle idee, non ha letture che ne abbiano alimentato la formazione, non ha un partito al quale affidare se stesso e il proprio appuntamento con la storia. Tonino è un individuo, molto compreso della propria autonomia individuale, e il suo impegno fa leva sulla dimensione, usando un termine attuale, più del volontariato che della militanza rivoluzionaria. Un impegno quasi più esistenziale che politico e ideologico, che aveva trovato in Lotta continua un terreno fertile».
Il ragionamento che tu fai sulla violenza è assai complesso. Dapprima è la cosiddetta “marcia attraverso le istituzioni”, teorizzata dagli studenti tedeschi e in particolare dal loro leader da Rudi Dutschke, cioè la conquista di spazi di riforma e di democrazia subito nella università e nella scuola, poi nelle caserme, negli ospedali, nei manicomi, persino (e con successo: nacque allora il sindacato) nella polizia. Poi lo stragismo, che rompe questo tentativo. Di fronte a quella che si definì la “fascistizzazione dello Stato” si torna alle forme tradizionali di lotta: nelle strade quindi, nelle piazze, con l’inevitabile rischio della violenza... «Tappe reali, ma il passaggio decisivo è quello dalla violenza difensiva a quella offensiva. Al contrario di quanto testimoniano tanti dibattiti, il problema non sta nell’interrogarsi se prima si fosse innocenti. Il nesso tra mobilitazione politica e violenza fa parte della storia d’Italia. Se un paese partorisce nel Novecento la prima grande dittatura totalitaria e se per vent’anni questo paese viene privato della libertà, non basta chiudere una porta, perché la ferita si rimargini. Con il fascismo si dimostra che l’illegalità, la violazione dell’ordine, la negazione della libertà vengono da destra e che la difesa, anche armata, della legalità e della democrazia è compito della sinistra. È una responsabilità che si respira nell’aria nel Luglio Sessanta, che si respira nel ’64 di fronte al tentativo di colpo di Stato di De Lorenzo. È una responsabilità che diventa una eredità diffusa, ai margini della quale si innesta la svolta radicale di una concezione della violenza come strumento non tanto per difendere la democrazia, quanto per realizzare la rivoluzione. È il passo che compiono le Brigate rosse e dentro questa tempesta Lotta continua c’è, cercando prima di porsi in concorrenza con le Br, teorizzando la violenza di massa contro la violenza delle avanguardie, poi di fare argine. Il tentativo viene sconfitto e qui finisce la storia. La discussione su una ipotetica età dell’innocenza non c’entra per nulla».
Ma è una formula suggestiva...
«È una formula che non tiene conto del rapporto profondo tra violenza e comportamenti politici e quindi di
una eredità che ora ci pare lontanissima, totalmente novecentesca, ma che negli anni Sessanta si reggeva perché nella realtà si leggeva ancora la continuità dello Stato. Che Guida, all’epoca della strage, questore di Milano, fosse stato governatore di Ventotene, luogo del confino ai tempi del fascismo era sotto gli occhi di tutti. Nella continuità, antifascismo e lotta partigiana diventano riferimenti decisivi e da lì la teorizzazione della violenza ancora difensiva, interpretandola come replica alla repressione, arriva al movimento studentesco. Il Pci non pensava certo alla lotta armata, i gruppi operaisti e i gruppi marxisti leninisti sostenevano che la lotta armata fosse una deviazione piccolo borghese. Non c’è una elaborazione teorica del movimento in quella direzione, c’è solo un nesso comportamentale. Il nucleo teorico e la rottura emergono con le Br».
Una critica: in questa ricostruzione mi pare si perda la complessità di quegli anni... C’è anche uno Stato riformatore...
«Il libro vuole restituire una sensibilità dei tempi... dello statuto dei lavoratori non ce ne importava proprio nulla... Questa indifferenza il libro la riproduce fedelmente, alludendo però a una riflessione che oggi, con il ‘senno di poi’, si può tentare e cioè che forse la grande occasione fallita sia da cercarsi nella mancanza di sintonia tra il progetto riformista dall’alto e la mobilitazione spontanea dal basso. Anche se credo che il vero problema nostro, della sinistra, sia stato l’incomprensione di quanto stava accadendo nelle viscere della società. Quel decennio è stato l’ultimo veramente ‘politico’, quando si pensava che la politica potesse veramente recintare un territorio pedagogico in cui ‘fare gli italiani’. Trascorsa quella stagione, le aspettative si sono drasticamente ridimensionate. Alla politica si è cominciato a guardare come a qualcosa di chiuso, se non come a uno spreco. La definizione di una politica in chiave antipolitica nasce lì, in soggetti sociali di cui non ci accorgiamo, abbacinati dal mito della centralità operaia. Non dimentichiamo che il ’79 è già l’anno della Lega di Rocchetta nel Veneto».❖

l’Unità 10.11.09
Al cittadino non far sapere
di Giancarlo De Cataldo

Condivido pienamente le preoccupazioni espresse dal Corriere della Sera: se davvero insegnassimo nelle scuole «Cittadinanza e Costituzione» trasformeremmo, sciaguratamente, «la democrazia in catechismo». Parole sante. I nostri ragazzi devono essere tenuti alla larga da discutibilissimi precetti quali l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3), il ripudio della guerra (art. 11), la libertà di culto (art. 8), di associazione (art. 18), di pensiero (art. 21), il diritto alla salute (art. 32) e all’istruzione (art. 34), il dovere di pagare le tasse (incredibile, vero? Beh, c’è anche quello, all’art. 53), la irrevocabilità della forma repubblicana (art. 139). La maligna forza persuasiva di detti precetti è tale che i nostri figli potrebbero convincersi della validità della nostra Costituzione e mandare al diavolo quei politici, baroni e maestri del pensiero che da anni si battono per cambiarla (taluni sognando più mature e consapevoli forme di governo, ispirate a legislatori del calibro di Sardanapalo e del Leonida di Frank Miller). O, addirittura, potebbero prendere tanto sul serio questo confuso agglomerato di “buonismo democratico” da pretenderne l’applicazione. Inoltre, i nostri ragazzi potrebbero persino coltivare la perniciosa illusione che la scuola non serva soltanto a ingozzarli di nozioni come oche da foie gras, ma possa e debba contribuire (orrore) a farne cittadini civili e consapevoli. Ciarpame culturale che abbiamo già sperimentato con l’esecrando Sessantotto, e che, fortunatamente, il vento impetuoso del progresso (e le norme della Finanziaria) spazzeranno presto via. Così i nostri ragazzi, finalmente istruiti da savi maestri senza grilli per la testa, saranno liberi di formarsi una coscienza critica attraverso strumenti più adeguati: Wikipedia, la Curva, Miss Italia e il Grande Fratello.

Repubblica 10.11.09
La Cei: basta tagli alle scuole cattoliche
Il cardinale Bagnasco attacca ancora la sentenza sul crocifisso: una decisione surreale
di Orazio La Rocca

ASSISI «Clima politico troppo avvelenato». «Odio sociale» crescente, «pregiudiziale contrapposizione e conflittualità» esasperante tra partiti, politici e gruppi sociali. Ecco i mali che stanno affliggendo l´Italia e per i quali la Chiesa cattolica italiana chiede «una sorta di disarmo» generale a tutte le parti in causa prima di tutto ai rappresentanti dei partiti della maggioranza e dell´opposizione, ma anche ai responsabili dell´economia, dei media e della società civile per riprendere un possibile «dialogo comune» che punti a risollevare «le sorti del Paese». Un obiettivo che, comunque, per essere centrato non può fare a meno di «una decisa e radicale svolta tanto nelle parole quanto nei comportamenti» pubblici e privati dei responsabili istituzioni.
È l´allarme-richiamo con cui il cardinale presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ha aperto ieri ad Assisi l´Assemblea generale dei vescovi italiani. Il porporato parlando davanti ad una platea di circa 250 vescovi in rappresentanza di tutte le diocesi impegnati nelle assise episcopali fino a giovedì prossimo ha anche criticato duramente la sentenza del Tribunale dei diritti umani di Strasburgo contro l´esposizione dei crocifissi nelle scuole italiane, e toccato alcuni tra i temi cosiddetti «non negoziabili» come la difesa della vita nascente e il no alla pillola abortiva Ru486, per la quale ha invitato i farmacisti a fare l´obiezione di coscienza.
In apertura, Bagnasco rende noto il messaggio del Papa nel quale Benedetto XVI ricorda, significativamente, che «i problemi dell´Italia si possono risolvere solo attraverso l´unità». Esortazione prontamente condivisa da tutta l´assemblea con un eloquente applauso. «Il Paese incalza poi il cardinale deve tornare a crescere, perché questa è la condizione fondamentale per una giustizia sociale che migliori le condizioni del nostro Meridione, dei giovani senza garanzie, delle famiglie monoreddito» a causa di una crisi economica internazionale, ma che ha livello nazionale tocca anche risvolti morali e comportamentali. Nel Paese si lamenta il cardinale «si registra infatti un´aria di sistematica e pregiudiziale contrapposizione, che talora induce a ipotizzare quasi degli atteggiamenti di odio: se così fosse, sarebbe oltremodo ingiusto in sé e pericoloso per la Nazione».
«In ogni caso avverte Bagnasco si impone una decisa e radicale svolta tanto nelle parole quanto nei comportamenti, diversamente verrebbe prima o poi ad inquinarsi il sentire comune». «Davvero ci piacerebbe confessa il presidente Cei che, nel riconoscimento di una sana per quanto vivace dialettica, inseparabile dal costume democratico, si arrivasse ad una sorta di disarmo rispetto alla prassi più bellicosa, che è anche la più inconcludente».
Non meno teneri i giudizi sulla sentenza di Strasburgo, che Bagnasco torna a definire «surreale» e «sorprendente», una vera e propria «impostura frutto di minoranze «laiciste» e «esigue» che a parere del porporato finiscono per allontanare l´Europa dalla sua gente. Altrettanto netto l´appello all´obiezione di coscienza per i farmacisti, «anche quelli ospedalieri», per la pillola RU486 e la richiesta avanzata al governo di non operare tagli, in fase di Finanziaria, «sui fondi destinati alle scuole non statali cattoliche già penalizzate «da decurtazioni consistenti».

Repubblica 10.11.09
Bersani e il linguaggio di sinistra
di Michele Serra

«Non può dirsi popolare un partito che non riesce a parlare con chi guarda Rete 4». Lo ha detto il nuovo segretario del Pd Bersani nel suo discorso di insediamento, ed è una frase nevralgica. Fotografa la fatica, e forse l´angoscia, di un partito che si sente scalzato, se non dall´anima popolare del Paese, da alcune delle sue pulsioni e perfino delle sue abitudini. Un partito di insegnanti, di amministratori, di piccoli intellettuali, di ceto medio più o meno riflessivo, che pur contando su molti milioni di elettori sente sfocato e quasi inerte il suo rapporto con quelle che una volta si chiamavano masse popolari; e oggi sono il magma confuso, e confondibile, dei consumatori, dell´audience, delle clientele pubblicitarie e politiche (meglio: delle clientele pubblicitarie promosse a clientele politiche dal febbrile e a suo modo geniale lavoro del partito-azienda)
Bersani ha ragione, e mette (anzi rimette) il dito nella piaga. Ma enunciare con schiettezza un problema, tra l´altro noto e oramai annoso, ovviamente non basta a risolverlo. Specie se la soluzione di quel problema va a toccare tutte, o quasi, le ragioni profonde di una crisi di linguaggio che, per la sinistra italiana e non solo, è pluridecennale. In estrema sintesi: se per farsi capire da chi guarda Rete 4 bisogna parlare come Rete 4, allora ogni differenza, culturale e politica, perde senso e valore. Allora – brutalmente – Berlusconi ha stravinto. Perché la "chiave" di quel linguaggio è la semplificazione, e il suo successo "popolare" dipende esattamente dalla riduzione della realtà a un gradevole, maneggevole accessorio. Mentre la "chiave", pesante come una croce, maledetta come un dovere, che la sinistra si porta in spalle, è la complessità. È la cognizione che la realtà è una cosa complicata, che la sua lettura è una cosa complicata, e che il primo inganno da disinnescare, se si vuole provare a essere una comunità cosciente, è appunto la semplificazione in quanto tale: non solo e non tanto perché è strumento di propaganda, quanto perché in sé, nella politica come nella vita, la semplificazione è menzogna.
Il rovescio della medaglia, ben noto a chiunque faccia comunicazione o faccia politica o faccia, a qualunque titolo, lavoro sociale, è che la complicazione è complicata. Genera un linguaggio spesso criptico, spesso respingente, e nei casi peggiori altezzoso e inconcludente in pari misura: ciò che si riassume, volgarmente ma significativamente, nelle accuse di "snobismo" e di "antipatia" che oggi grandinano su molta sinistra e sugli intellettuali di ogni calibro, dall´accademico che si occupa di Rilke e non di Moccia, all´autore televisivo che preferisce invitare Ivano Fossati piuttosto che Pupo.
Tradotto in politica, proprio quella politica territoriale e popolare che a Bersani sta molto a cuore, questo significa che se la sinistra, per "farsi capire dal popolo", cerca di fronteggiare il breviario di slogan oggi in corso con un contro-breviario di slogan alternativi, e cerca di munirsi di una contro-suggestione virtuosa da opporre alla suggestione berlusconiana, perde anche se dovesse vincere. Vale a dire: baratterebbe, per qualche voto in più, proprio quel residuo e prezioso patrimonio di pazienza intellettuale, di capacità analitica, che Bersani ha rivendicato, nella sua campagna per le primarie, come un valore identitario. Lo stesso Bersani, dichiarando recentemente che non sa cosa farsene di candidature puramente simboliche (stoccata al veltronismo), mostra di non gradire la politica-spettacolo, quella che sa guadagnarsi qualche inquadratura di telegiornale in più ma perde aderenza nella vita sociale, come un pneumatico di bella presenza ma di grip scadente. Ma la politica della bella presenza, delle cerimonie edificanti, dei fondali color pastello, del cerone, delle frasi facili e delle soluzioni magiche, è esattamente il campo di battaglia dove più o meno tutti oggi ci si muove. Chi vuole entrare in quel campo, come tocca a Bersani e al suo Pd, con idee proprie e modi propri, deve sapere in anticipo che parte svantaggiato, che parte "antipatico", che lavora in salita. Quando si dice che oggi, in Italia, il conflitto politico è prima di tutto un conflitto culturale, si vuole dire esattamente questo: che bisogna cercare di restituire allo sguardo pubblico una profondità sgradita. E nessuno più del "popolo" – come sapeva bene un tempo la sinistra – ha bisogno di sentirsi rispettato nel suo diritto di conoscenza e di cultura, piuttosto che relegato nel cliché, profondamente classista, di una massa immatura e bambina, da intrattenere e spremere con un palinsesto di sogni. Di destra o di sinistra, sempre sogni rimangono.

Repubblica 10.11.09
Norma e diritto, da Platone a Brecht
di Roberto Esposito

Il nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky ricerca le fonti della giustizia
Non deve esserci un´idea astratta che governa ma il rifiuto dell´ingiustizia
Lo Costituzione è la condizione basilare della democrazia che scaturisce dalla dialettica sociale

"Che cosa è la legge?" – chiede il giovane Alcibiade al saggio Pericle nei Memorabili di Senofonte, ricevendone una risposta tutt´altro che soddisfacente. Se essa è "tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto", cosa la differenzia da una semplice imposizione? Qual è la sua fonte di legittimità e quali i suoi effetti sulla vita associata? In forza di cosa, in definitiva, essa è legge – di un comando divino o di una decisione umana, di una necessità naturale o di un principio di ragione?
E´ la stessa domanda che lega i saggi di Gustavo Zagrebelsky in un libro affascinante, appena edito da Einaudi, che coniuga la tensione della ricerca sul campo – sperimentata nella lunga attività di giudice costituzionale – alla misura, ormai classica, di una scrittura limpida e coinvolgente. Il suo titolo, Intorno alla legge (pagg.409, euro 22), non allude solo all´argomento trattato, ma, in senso più letterale, al periplo argomentativo, ricco di riferimenti filosofici, antropologici, letterari, con cui l´autore si approssima ad esso per cerchi concentrici, fino a penetrarne il nucleo incandescente. Anziché definita in quanto tale, la legge è interrogata a partire dai suoi presupposti e dalla sua ulteriorità – lungo i margini sottili che la congiungono, ma insieme la distinguono da ciò che la precede e da ciò che la eccede, vale a dire da un lato dal diritto e dall´altro dalla giustizia.
Quanto al primo, la legge – intesa come la regola formale che determina i nostri comportamenti – è lungi dall´esaurire quel complesso di norme e consuetudini, di vincoli e pratiche che una lunga tradizione ha chiamato "diritto". Naturalmente il passaggio dall´antico diritto alla moderna legge – di cui l´Antigone di Sofocle rappresenta in modo insuperato la tragica problematicità – costituisce una svolta irreversibile nei confronti di una concezione non più in grado di organizzare razionalmente la relazione tra gli uomini. Ma non al punto di cancellare la memoria di un ordine non ancora chiuso nella rigidezza formale di comandi e divieti, ancora aderente al flusso magmatico della vita associata. Anche quando, nei primi secoli della modernità, l´equilibrio tra i due mondi si spezza a favore della legge, ormai saldamente insediata al centro della civiltà giuridica, resta l´esigenza di non perdere del tutto i contatti con quell´origine da cui essa trae la propria linfa ed il proprio significato.
Lo stesso nesso problematico che la lega al diritto rapporta la legge, in maniera sempre difettiva, all´esigenza universale della giustizia. Qui il contrasto tra principio e realtà è ancora più stridente. Se la giustizia assoluta è inattingibile dalla legge, se questa non obbliga perché giusta ma solo perché legge, da dove trae la propria legittimità sostanziale? Cosa la distingue da un comando arbitrario? D´altra parte tutte le volte che la legge ha sorpassato i propri limiti costitutivi, proclamandosi giusta per decreto divino o secondo natura, ha prodotto esiti negativi se non anche catastrofici. Volendo portare sulla terra il paradiso, l´ha consegnata all´inferno. L´unico rapporto possibile con la giustizia, da parte della legge, è individuato da Zagrebelsky non in un´idea astratta e artificiale della ragione, ma in un sentimento di rifiuto nei confronti dell´ingiustizia palese.
Qui l´autore torna a riproporre l´antitesi, già formulata in opere precedenti, tra logica dei valori e semantica dei principi. Pur ponendosi gli stessi obiettivi – dalla protezione della vita alla salvaguardia della natura, dalla difesa dei diritti alla diffusione della cultura – valori e principi divergono nella modalità con cui si presentano. Mentre i primi esprimono criteri morali assoluti e dunque sottratti al confronto, i secondi sono norme aperte, modelli di orientamento, destinati a favorire l´integrazione sociale. Perciò essi sono, o vanno posti, alla base delle moderne costituzioni. Arriviamo così al cuore stesso del libro, in cui il discorso di Zagrebelsky si articola in un quadro fitto di riferimenti alla storia del diritto costituzionale ma anche di rimandi a Platone e a Sofocle, a Shakespeare e a Dostoevkij, a Canetti e a Brecht – ad ulteriore riprova che i veri problemi del diritto non giacciono inerti nei codici o nelle decisioni dei giudici, ma nella falda profonda che essi interpretano in forma sempre precaria e provvisoria.
La costituzione, oltre che come garanzia della legittimità e dei limiti dei poteri all´interno dello Stato, va intesa, in senso culturale, come luogo di confluenza, e di rielaborazione, di quell´insieme di valori, aspirazioni, sensibilità collettive che costituiscono l´orizzonte razionale ed emozionale della convivenza. In questo senso, nella sua capacità di tenere insieme punti di vista diversi, essa travalica di gran lunga i confini formali del diritto positivo, per diventare la condizione basilare della democrazia pluralista. Non solo, ma anche un punto d´incrocio decisivo tra le dimensioni del tempo e dello spazio.
Da questo punto di vista la dottrina costituzionale cui Zagrebelsky si richiama non costituisce soltanto una variante rispetto ai tanti modelli precedenti, bensì un vero e proprio cambio di paradigma. Assumere la costituzione non più come norma sovrana, ma come norma fondamentale scaturita dall´intera dialettica sociale, vuol dire situarla in rapporto da un lato con la storia e dall´altro con la nuova configurazione globale del mondo contemporaneo. Anziché modello fisso e immutabile, o anche atto creativo volto ad istituire un ordine completamente nuovo, la costituzione è quella linea di continuità capace di collegare in un nodo complesso passato e futuro. Di attivare una dinamica storica non racchiusa nei confini di un singolo Stato, ma aperta alle richieste che arrivano da un mondo sempre più unito dalle stesse angosce e dalle stesse speranze.

Repubblica 10.11.09
Nasce a Torino un istituto internazionale dedicato allo scrittore
Primo Levi, un centro studi e la traduzone in arabo
di Massimo Novelli

"Se questo è un uomo" diffuso nella lingua del Corano e in farsi, insieme ad Anna Frank, Shlomo Venezia e vari altri testi, da un sito che vuol combattere il negazionismo

TORINO. Una delle ultime traduzioni di Se questo è un uomo è in arabo. A curarla e a metterla in rete è stata l´associazione di scrittori, diplomatici e intellettuali "Projet Aladin", che ha promosso un sito di divulgazione e una biblioteca anche nella lingua del Corano e in farsi con vari testi sulla Shoah, tra cui, oltre a Levi, Il diario di Anna Frank e Sondercommando di Shlomo Venezia: ad avere la coraggiosa idea è stato Abraham Radkin, capo della britannica Human Rights Foundation, che ha coinvolto molti altri nel progetto, dal presidente del Senegal Abdoulaye Wade alla principessa del Bahrain Haya al-Khalifa, all´ex capo di stato francese Jacques Chirac, Gerhard Schroeder e l´Unesco. Oltre alla valenza culturale e a suo modo politica dell´iniziativa, tesa a contrastare nell´universo islamico il diffuso negazionismo, come sottolinea Amos Luzzatto, già presidente dell´Unione delle Comunità ebraiche, la pubblicazione online del libro, dato alle stampe da una piccola casa editrice torinese nel 1947, è un´ulteriore conferma della modernità e del valore di Primo Levi, uno dei narratori italiani più letti nel mondo.
Per raccogliere le edizioni delle sue opere, le numerose traduzioni (più di 800, in 30 lingue), la bibliografia critica e ogni altra documentazione sulla sua figura, compreso un ricco sito Internet e in prospettiva la possibile acquisizione del suo archivio, è stato creato a Torino, la città dove nacque, un Centro studi internazionali a lui dedicato. Ospitato in uno dei palazzi dei Quartieri militari progettati da Filippo Juvarra, l´organismo è presieduto da Luzzatto ed è diretto dallo storico Fabio Levi (soltanto omonimo dello scrittore). Entra ora nel vivo delle attività, peraltro nell´anno in cui cade il novantesimo anniversario della nascita dell´autore de I sommersi e i salvati, che morì nel 1987. I soci fondatori sono la Regione. il Comune e la Provincia, la Compagnia di San Paolo, la Comunità ebraica, la Fondazione per il libro, la musica e la cultura, i figli di Primo Levi. Tra i componenti del consiglio direttivo ci sono Bianca Guidetti Serra ed Ernesto Ferrero.
Il centro studi, come spiegano i promotori, "punta a diventare l´interlocutore di riferimento in Italia e all´estero per chi intende approfondire la conoscenza dello scrittore torinese". Tutto ciò è reso possibile dal fondo bibliografico di circa 2 mila titoli, usciti dal 1947 in avanti, in italiano, francese, inglese, tedesco e spagnolo, che è già consultabile presso la biblioteca dell´Istituto storico della Resistenza di Torino. Sul sito del centro, quindi, si può accedere alla bibliografia online, che raccoglie le diverse edizioni italiane dei suoi volumi, i riferimenti a quelle straniere e una descrizione analitica del patrimonio di testi critici finora censito. È stata realizzata da Domenico Scarpa e da Maurizio Vivarelli.
Primo Levi fu un romanziere, un poeta, un saggista, un chimico (lavorò per anni alla fabbrica Siva di Settimo Torinese), un intellettuale dai molteplici interessi. Sempre pronto a ragionare, soprattutto con i giovani, sulla sterminio degli ebrei e degli altri deportati, sui mali, sui vizi e sui drammi del nostro tempo. E fu ovviamente un testimone d´eccezione dell´Olocausto, così come uno dei pochi sopravvissuti, dunque un "fortunato". Ma un uomo che scampò all´inferno dei lager nazisti, poteva definirsi tale? Levi meditò a lungo su questo tema, indagando l´intreccio di casualità e di sistematicità, di "normale" burocrazia e di pianificazione degli eccidi, presente nella Shoah. Un argomento centrale nel suo pensiero, in sostanza, che oggi verrà affrontato da Robert Gordon, docente di Letteratura italiana a Cambridge, nel corso della prima "Lezione Levi". Lo studioso inglese parlerà pertanto sul "ruolo e sul significato del concetto di "fortuna" o di "casualità" nell´opera di Levi, che ne fu perennemente affascinato e preoccupato". La lezione si terrà ogni anno alla facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell´Università torinese, dove Levi riuscì a laurearsi, nonostante i diktat delle legge razziali, all´inizio degli anni Quaranta. Ogni appuntamento sarà incentrato ovviamente su aspetti diversi della sua vita e della sua attività; la lezione verrà poi pubblicata dall´Einaudi, la casa editrice di tutti i suoi libri che tuttavia, nel dopoguerra, rifiutò all´inizio la pubblicazione del manoscritto di Se questo è un uomo, edito invece da De Silva.

Repubblica 10.11.09
Un libro di Nicotri sulla storia della ragazza scomparsa nel 1983
Depistaggi e misteri, ecco il caso Orlandi
Nella vicenda che coinvolse il mondo vaticano furono evocati Lupi grigi e servizi segreti
di Adriano Prosperi

Nel campo della ricerca storica capita spesso di suggerire ai giovani di studiare le società del passato attraverso le carte di un processo criminale, secondo l´assioma per cui nella infrazione delle regole è iscritta anche la regola che regge una società. E´ un principio euristico che trova conferma nel libro che Pino Nicotri ha dedicato a un celebre caso contemporaneo: Emanuela Orlandi. La verità. Dai Lupi Grigi alla banda della Magliana, Baldini e Castoldi 2008. Com´è noto, Emanuela, figlia quindicenne di un dipendente della Prefettura pontificia, scomparve di casa il 22 giugno 1983. Undici giorni dopo in Piazza San Pietro papa Wojtyla lanciò un clamoroso appello al «senso di umanità» dei responsabili del presunto rapimento. Come tutte le vicende criminali che hanno per teatro il minuscolo ma scrutatissimo stato papale, anche questa suscitò immediatamente una grande impressione: anche perché stavolta l´attenzione dei media fu stimolata non dal silenzio che di solito cala rapidamente sui casi criminali del mondo vaticano ma al contrario dall´annunzio fatto proprio dalla voce più diffusa e ascoltata nel mondo, quella del papa. Di quel deliberato clamore pubblico, singolarmente contrario a tutte le regole abituali in casi di rapimento, la spiegazione che Nicotri ha ricavato dalle sue ricerche è semplice: esso serviva a depistare l´attenzione da quello che fu probabilmente l´esito mortale di un delitto o di un incidente inconfessabile in qualche appartamento prelatizio del Vaticano.
Così venne montata una macchina sgangherata ma capace di tenere a lungo col fiato sospeso l´opinione pubblica: vi figurarono di volta in volta tutte le maschere del terrorismo mondiale, i Lupi grigi e Alì Agca, il KGB , i «Komunicati» di agenti turchi, le telefonate di un molto romanesco «Americano» e altre strabilianti vicende. Un invito a nozze per quella che si gabella come informazione e che è per lo più una macchina per produrre brividi di paura negli interni delle case. E non poteva mancare il contributo dei servizi segreti italiani o di una componente al solito «deviata», almeno secondo l´autorevole opinione del prefetto Parisi. Una zuppa italiana e romana, anzi romanesca, zeppa di monsignori e di briganti, in una città dove santità e brigantaggio, corruzione e ipocrisia si intrecciano. Una vicenda che culmina nel caso fra tutti strano e non spiegato di «Renatino» De Pedis, il capo della banda della Magliana, morto malamente e subito sepolto tra i santi e i principi della Chiesa in una antica basilica.
Questa storia potrebbe dire di sé: nella mia fine è il mio principio. Perché alla fine il vasto mondo del terrorismo scompare e tutto riporta al piccolo circuito del mondo vaticano: un mondo singolare se considerato dal punto di vista della legislazione in materia criminale. Qui, come ha scoperto Nicotri, vige la norma del «segreto pontificio» , cioè l´obbligo di tacere su tutte le cose nocive «all´edificazione della Chiesa». Qui una soave e segreta giurisdizione spirituale dalle remote e mai cancellate radici estende la sua mano su delitti altrove affrontati in pubblici procedimenti. Un solo esempio basti: il clamore suscitato dai casi di pedofilia ha portato il Vaticano a estendere su quel reato la giurisdizione di un tribunale ecclesiastico ufficialmente deputato a questioni di fede. E se la magistratura italiana pretende di indagare su qualche delitto si alza la cortina del silenzio e del segreto. Non senza compiacenti torsioni delle regole istituzionali. Nel caso Orlandi il giudice unico del Vaticano era anche il capo dell´ufficio legale del Parlamento italiano: lui si mandava le rogatorie e ancora lui, attraversato il Tevere, le respingeva al mittente, cioè a se stesso. Il resoconto della ricerca di Pino Nicotri merita dunque di essere letto. Fa riflettere sul legame tra due stati dalla diversissima legislazione. Il primo vive di scandali quotidiani e di una sfacciata immoralità e impunità dei potenti che anche se condannati si rifiutano di sottostare alla legge. Il secondo nasconde i vizi privati dei suoi potenti sotto l´affettazione pubblica della virtù.

Corriere della Sera 10.11.09
Il libro Pietrangelo Buttafuoco
«La sinistra bacchettona e l’incubo trans»
di Paolo Conti

ROMA — «Il fatto è che la sinistra è ancora appesantita da un certo bacchettonismo ormai datato, dal suo conformi­smo, e quindi anche l’erotismo diventa un problema socia­le... » E allora? «E allora c’è tuttora quell’ansia di codificare la rivoluzione e la liberazione sessuale. Alla fine, durante i son­ni funestati da cotanto materiale, ecco spuntare gli incubi. Magari sotto forma di transessuali francamente bruttini e con le loro manone da muratore...». Invece la destra? «Pro­pongo un paradosso. Ormai la destra è diventata la sinistra. Fantasia, creatività, sovversione del mito, un certo sessantot­tismo. E magari un’idea complessivamente moderna, anzi contemporanea della donna, penso alle Polverini o alle Peri­na... mostrano di fregarsene del banale codice estetico codifi­cato dalle regole 'al maschile e al femminile' che ci ha fra­stornato per decenni. A sinistra la parola 'direttora' è appar­sa una conquista rivoluzionaria. A destra mi pare che siano più sbrigativi, no?» Pietrangelo Buttafuoco, intellettuale più che irregolare del­la destra e dintorni, ironizza e si mette in gioco su un’equazio­ne fin troppo facile, inevitabilmente venata di volgarità. Ov­vero: il centrodestra continua ad amare «tradizionalmente» le donne, al punto da farne un’ossessione (vedi il caso Berlu­sconi). Nel centrosinistra, ed è superfluo fare nomi in queste ore, ha scoperto la transessualità e l’ambi­guità. Proprio in queste ore esce l’ultimo libro di Buttafuoco, edito da Mon­dadori. Un manuale consa­crato alle donne «vere», al millenario indiscusso potere non solo sessuale che esercitano sul ma­schio «etero», all’olimpi­ca e solitaria sicurezza con cui scelgono un uo­mo, lo lasciano, fondano o disfano famiglie magari per crearne altre allargate o per restare sole. Il libro è un’antologia di grandi amori e instancabili ama­tori, da Gabriele d’Annun­zio passando per Benito Mussolini e le sue due donne, la moglie Rachele e l’amante Claretta, approdando a Porfirio Rubirosa, «lo sciu­pafemmine più famoso della sua epoca» che però conclude la sua vita innamorato come un quarantasettenne della sua splendida, soprattutto diciannovenne, moglie Odile Rodine. Destino vuole che Rubirosa muoia schiantandosi in auto qua­si all’alba del 5 luglio 1965 a Parigi ubriaco, probabilmente per dimenticare che la sua Odile è ormai nelle braccia di Bep­pe Piroddi, altro (ma ben più giovane) mitico amateur.
E torniamo all’interrogativo. Perché a destra, spesso osten­tatamente, si ama «all’antica» e in alcune pieghe del centrosi­nistra si approda altrove? «La sinistra ha perso la sua carica creativa e libertaria, si è impantanata nella banalità del con­formismo. Ovvio che la vicenda del transessuale appaia una trasgressione pazzesca. La destra ormai ha sfasciato la di­mensione del conservatorismo, del mondo come dovrebbe essere». In quanto a Berlusconi e alla sua passione per le don­ne giovani e giovanissime? «Vorrei rispondere parlando del tabù abbattuto. Nella nostra cultura si insegna che tutto è lecito, tutto è eros, si discute ogni momento di pillola e profi­lattici, di migrazione da un sesso all’altro. Diventa difficile ricorrere al tabù per i giovani, ragazze o ragazzi che siano. E impedire che si diano via con facilità. Mentre invece, ma di­ciamolo sottovoce, il tabù è essenziale per un buon eroti­smo ».

Corriere della Sera 10.11.09
Una nuova collana nazionale ripropone la storia della nostra prima poesia, con riproduzioni digitali
Italia, in principio fu il verso
La lirica delle origini, dai Siciliani al Nord, attraverso i canzonieri
di Cesare Segre

Se domandiamo a qual­cuno di dove venga la poesia, lo mettiamo certo in imbarazzo, o lo induciamo a fantasticherie, affascinanti o fumose che sia­no. Se invece domandiamo di dove venga la poesia lirica italiana, la risposta è facile e sicura. Infatti essa nasce per l’iniziati­va di un monarca illuminato come Federico II di Svevia, re di Sicilia, che convince i suoi fun­zionari a provarsi in composizioni analoghe, anche per la metrica, a quelle dei trovatori pro­venzali, che allora vagavano per l’Europa into­nando le loro canzoni. Così, un drappello di giuristi e notai si mettono in gara esprimendo amori immaginari con sempre maggiore mae­stria (del resto, i notai poeti non sono rari nel­la storia della letteratura). Nella corte federi­ciana, che poteva vantare in tutti i campi una cultura di livello internazionale, si forma così un vero cenacolo poetico. Con la fine della di­nastia sveva (1266) l’episodio ha termine, ma le composizioni dei Siciliani s’erano ormai dif­fuse in tutta la penisola.
È in Toscana che questa lirica viene più ap­prezzata, e a sua volta imitata. E se non si for­ma un vero cenacolo, data la frammentazione della regione, certo i poeti dei vari centri si scambiano testi, intrecciano dibattiti, nel qua­dro di un antagonismo creativo. Autori ormai quasi dimenticati, come Guittone d'Arezzo o Monte Andrea, sono al centro di piccole scuo­le provinciali, e raggiungono una fama straor­dinaria, continuando, ma ampliando, la tema­tica dei poeti federiciani. Sarà poco dopo Dan­te, insieme col Cavalcanti, a mettersi alla testa di una nuova scuola, ben più raffinata ed origi­nale, anche perché nutrita di un pensiero più elaborato; ma tutto è partito da loro, dai poeti siciliani e da quelli che chiamiamo siculo-to­scani. Da qualche anno, poi, la scoperta di ma­noscritti con testi lirici settentrionali, special­mente emiliani e lombardi, ha rivelato che an­che lì era giunta l’onda della poesia cortese, in date davvero precoci. Si era forse elaborata una maniera poetica analoga a quella sicilia­na, indipendentemente da questa? Le cose non sono ancora chiare; soprattutto non s’in­travede un centro preciso al quale riferire que­­st’attività, i cui prodotti, vidimati da studiosi come Stussi e Castellani, sono sotto i nostri oc­chi, a imbarazzarci.
Ma, tornando al problema delle origini, re­sta da chiarire come sia giunta sino a noi, do­po otto secoli, la poesia dei Siciliani e dei loro seguaci. Sappiamo che i poeti si esibivano re­citando, forse cantando, i loro testi, a un pub­blico di fan: un vero recital. Qualche volta li avranno pronunciati a memoria, qualche al­tra avranno tenuto un foglio scritto sott’oc­chio. Spesso ci furono dei professionisti, i giullari, a recitare (o cantare) testi altrui. Tut­to questo favorisce la memorizzazione più che la conservazione dei testi. Ma è facile im­maginare che qualche autore avrà raccolte le sue migliori poesie, magari avrà fatto omag­gio di queste raccolte ad amici potenti. E ci sarà anche stato qualche amatore di poesia a mettere assieme piccole antologie di quelle che preferiva. È qui che si può indicare la pro­babile base per la diffusione, che fu amplissi­ma, della poesia siciliana.
Oggi, perdute le trascrizioni d’autore, per­dute le antologie personali o collettive, ci re­stano le grandi raccolte manoscritte che chia­miamo canzonieri. Sono raccolte analoghe a quelle che si erano fatte per i trovatori, e che avevano avuto nell’Italia settentrionale, spe­cie nel Veneto, l’ambiente più favorevole alla loro diffusione. La continuità fra i canzonieri provenzali e i canzonieri italiani antichi è evi­dente. In Italia, comunque, si tende a seguire ora un ordine cronologico approssimativo, ora un programma di gerarchizzazione abba­stanza netto, che mette in vista gli autori più famosi e apprezzati, poi risale ai predecesso­ri, a partire dai Siciliani, e pone in fondo i contemporanei. E merita di essere sottolinea­to che uno dei più antichi tra i canzonieri ita­liani, forse il più antico, ancora in analogia con alcuni di quelli provenzali, è abbellito da luminose miniature.
Questi canzonieri sono piuttosto numero­si. Se ci limitiamo ai più antichi, diciamo quelli che arrivano fino agli stilnovisti (tenu­to conto che nei primissimi sono trascritte soltanto poche poesie di Dante e di Cavalcan­ti), non raggiungiamo il numero di venti. Ed è stato opportunamente creato da poco un Comitato per l’Edizione nazionale dei Canzo­nieri della Lirica italiana delle Origini, presso la Fondazione Enzo Franceschini di Firenze, che ha in programma di pubblicare i quindi­ci più antichi canzonieri, più una stampa del 1527 (la celebre Giuntina di rime antiche) che deriva da manoscritti perduti, con tutto l’apparato interpretativo che occorre. I primi tre canzonieri, senza dubbio i più preziosi e ricchi, che già erano apparsi, a cura di Lino Leonardi, nel 2000, in occasione delle cele­brazioni federiciane, vengono ora ripropo­sti, sempre da Leonardi, in apertura della nuova collana dell’Edizione nazionale ( I can­zonieri della lirica italiana delle origini , Firenze, Edizioni del Galluzzo): ai tre volumi di riproduzione fotografica segue un altro volume, imponente, di studi critici (pp. 458, con molte illustrazioni fuori testo), e, questa la novità principale, un dvd con la riproduzione digitale ad alta risoluzione degli stessi manoscritti, corredato di indici complessivi.
Gli studi critici sui tre manoscritti saranno un punto di riferimento indispensabile per la storia della nostra prima poesia. Ad opera dei principali specialisti (R. Antonelli, A. Petrucci, M. Palma, P. Larson, C. Bologna, L. Leonardi, S. Zamponi, G. Frosini, G. Savino, T. De Robertis, V. Pollidori, M.L. Meneghetti) essi esaminano i codici dal punto di vista filologico, linguistico e paleografico, nel quadro della cultura toscana intorno al 1300 (i manoscritti provengono da Firenze e Pisa, con un’incertezza sul terzo fra Pistoia e Firenze). Ma è ancora più importante l’analisi del modo in cui le tre raccolte furono messe assieme. Utilizzando ogni indizio, come i cambiamenti di mano dei copisti, le differenze d’impaginazione, l’ordi­namento dei testi, i passaggi da un fascicolo all’altro, i collaboratori riescono quasi a intra­vedere gli esemplari utilizzati per mettere as­sieme le tre raccolte, probabilmente in botte­ghe di amanuensi ben organizzate, e a rico­struire il lavoro di assemblaggio compiuto con intelligenza dai copisti. Si possono insom­ma ricostruire le ultime mosse della traslazio­ne della poesia siciliana e siculo-toscana dalle raccolte personali e collettive ai grandi, presto illustri canzonieri. Interessante poi il fatto che questi canzonieri rivelino le preferenze di chi li compilò, documentando il canone della no­stra poesia lirica delle origini, canone contro il quale già Dante incominciò a battersi, per esempio mettendo in dubbio l’eccellenza e l’autorità di Guittone, e contrapponendogli quella del bolognese Guinizzelli.

Corriere della Sera 10.11.09
Severino pubblica «Discussioni intorno al senso della verità». È anche una risposta ai suoi critici
Croce e Gentile, stranieri in casa
«I nostri filosofi sono esterofili, manca una seria analisi dell’idealismo»
di Armando Torno

La filosofia italiana contemporanea? «Ha fatto troppo rapidamente i conti con Croce e Gentile», risponde Ema­nuele Severino. E precisa: «Croce è stato liquidato per esterofilia, perché ormai tra­duciamo anche gli starnuti d’oltralpe; Gentile per la sue scelte politiche, ma in verità non co­nosco ancora una forte critica al suo pensie­ro ». Poi, una battuta: «Analitici e continentali? Provano a litigare, ma dicono e ripetono la stes­sa cosa: la finitezza del mondo e dell’uomo».
Abbiamo incontrato il filosofo nella sua ca­sa di Brescia per parlare dell’ultimo libro, Di­scussioni intorno al senso della verità , uscito in questi giorni per l’editore Ets nella collana di Adriano Fabris. È un’opera nella quale ri­sponde ai critici, a volte avversari, sovente allie­vi. Ma più correttamente diremo che queste pa­gine hanno interlocutori quali — citiamo te­stualmente l’elenco di Severino — «Vincenzo Vitiello, Massimo Cacciari, Carlo Arata, Vero Tarca, Massimo Donà, Mauro Visentin, Ines Te­stoni, Umberto Galimberti, Claudio Antonio Testi, Giulio Goggi, Erwin Tegtmeier». Alcuni di essi — nota — «sono critici veri e propri (per esempio Vitiello), altri svi­luppano con originalità (Ga­limberti, Testoni, Goggi) il mio discorso filosofico». Ed essi sono l’ultimo capitolo di una serie di discussioni che egli continua dal 1964, allor­ché sulla «Rivista di Filosofia Neoscolastica» (diretta da So­fia Vanni Rovighi) pubblicò il celebre Ritornare a Parmeni­de , confluito poi nell’ Essenza del nichilismo (Paideia 1970 e Adelphi 1981). Negli altri dibattiti, vi sono figure che vanno dal suo maestro Bontadini a Gadamer e Levi­nas, da Abbagnano a Pareyson, da Bobbio a Vattimo, da Irti a Reale al cardinal Ruini.
Severino si trova a suo agio con i confronti, le polemiche e senza tema di essere tacciati quali tifosi o partigiani si può dire che la sua struttura logica sia sempre uscita a testa alta. Del resto, egli è convinto che la critica contri­buisca alla manifestazione della verità. Di più, precisa: «Ritornando a Discussioni , devo dire che tutti questi critici, e tutti quelli con cui ho avuto a che fare in passato e che, se avrò tem­po, affronterò in futuro, con maggiore o mino­re potenza sviluppano con originalità il Conte­nuto al quale si rivolgono i miei scritti. Questa affermazione suona certo paradossale. E può sembrarlo ancor più se aggiungo che tutte le possibili critiche al Contenuto sono, tutte , svi­luppi spesso originali». Certo, viene da chiedersi a questo punto co­sa intenda Severino con il termine «Contenu­to », che ci ha pregato di scrivere con la maiu­scola. «Qui posso solo tentare — risponde — di alleggerire un poco il paradosso, dicendo che quel Contenuto è la verità. Immodesto non sono io, ma la verità, che ne ha il diritto perché non è cosa modesta e che attira a sé il linguaggio imponendogli di testimoniarla. Ma la verità è tale solo in quanto nega l’errore. Sen­za errore non c’è verità». Ci viene in mente Eraclito, l’antico filosofo greco, ma Severino in­calza: «L’errore con-ferma la verità, la rende ferma, perché essa ha 'il cuore che non tre­ma', per usare un’espressione di Parmenide, solo in quanto mostra che cosa significa 'erro­re' e la necessità di negarlo. Essa vive solo in quanto l’errore vive, ed è tanto più concreta quanto più l’errore è concreto e fiorisce ed è robusto, coerente, razionale, suggestivo, cioè quanto più sviluppa la ricchezza che gli compe­te ». Dopo una breve pausa, sottolinea: «Tutto ciò vuol dire che la verità ha bisogno degli sca­vatori dell’errore che portino alla luce questa ricchezza con la convinzione di mettere in evi­denza proprio la verità (anche quando scrivo­no libri e libri per mostrare che non esiste). È, il loro, un lavoro che invece chi scava per porta­re alla luce la verità non riesce a fare così bene, o non gli dedica il tempo e la convinzione do­vuti. In questo senso dico che tutti i critici e tutte le possibili critiche al Contenuto a cui si rivolgono i miei scritti sono, di questi scritti, sviluppi originali».
Certo, c’è poi un Severino che incanta: è quello che sposta il discorso dall’orizzonte del­la nostra epoca o quello infinito, dove abita la filosofia. Per intenderci, è il pensatore che si lascia sfuggire una frase come la seguente: «La magnificenza dell’Occidente, che ormai con­quista la terra, è il tempo dell’errore, della sua fioritura e del suo trionfo. Ma la verità non ab­bandona a se stesso l’errore: esso cresce secon­do le leggi della verità». In altre parole è que­sta la dimensione che le appena pubblicate Di­scussioni desiderano affrontare, contro la co­mune convinzione che la verità, o meglio qual­siasi forma di verità , abbia un carattere stori­co e pragmatico. Severino, poi, prosegue riba­dendo: «Il Contenuto di cui sto parlando è la manifestazione del senso e della necessità del differire dei differenti . È il punto infinitamente più stabile di quello che ad Archimede sarebbe bastato per sollevare la terra. Ben vengano dun­que, daccapo, le obbiezioni, purché intendano essere davvero tali, ossia intendano differire da ciò contro cui obbiettano e tengano quindi in gran conto la differenza dei differenti e l’im­possibilità di negarla». Infine, quasi come una sintesi della sua risposta a critici e allievi: «Una volta che avranno fatto tutto questo, capiranno di tenere in gran conto proprio quel Contenu­to contro il quale essi vorrebbero scagliarsi».

il Riformista 10.11.09
Madame Speaker è la vera artefice della vittoria anti-abortista di Obama
di Alessandra Cardinale

NANCY BOTOX. Veterana del Congresso, è dipinta da molti come un “diavolo in gonnella”. Rahm Emanuel la chiama “mamma”. È lei ad aver trovato la chiave di volta del compromesso sui fondi pubblici per le interruzioni volontarie di gravidanza, che ha permesso alla riforma sanitaria di Barack di passare l’esame della Camera.

New York. «Sono proprio incavolata, va bene che dobbiamo riformare la sanità, ma perché farlo a discapito delle donne. Questa mattina ho scritto una lettera a Nancy Pelosi, mi ha seriamente deluso». Mentre rovista tra gli scaffali del mega store Tj max a Chelsea, Danielle sfoga le sue frustrazioni da democratica convinta e femminista veterana. E lo fa prendendo a pugni quella donna che fino a quattro giorni fa veniva considerata la più liberal tra i liberal, e paventata come uno spettro nazi-comunista da parte dei suoi avversari politici. Danielle, come molte altre donne che da domenica stanno ingolfando con e-mail di protesta il sito web di Nancy Pelosi la Speaker della Camera dei Rappresentanti e vera craftswoman del passaggio della riforma sanitaria nella camera bassa del Parlamento americano-, non ha digerito l’emendamento anti-abortista proposto dal democratico del Michigan Bart Stupak. Questa modifica impedisce di usare le nuove coperture sanitarie per consentire interruzioni della gravidanza tranne nei «casi di violenza, incesto o quando la vita della madre è in pericolo» e, la sua approvazione è servita per fare quadrato e blindare la legge di riforma della sanità alla Camera.
occhi di tutti. Tant’è che, stando alle cronache di quei giornalisti assidui frequentatori dei corridoi del Campidoglio, la decisione di Nancy Pelosi avrebbe destabilizzato molte compagne di partito come Rosa De Lauro, portandole a versare lacrime durante le convulse ore pre-voto.
Il compromesso sull’emendamento anti-abortista, tema su cui da sempre viene misurata la maturità sociale e il progressismo dei politici americani, stretto con le frange più destrorse del partito democratico, porta la firma, seppur metaforicamente, di Nancy Patricia Pelosi: 69 anni, donna più influente a Capitol Hill e storica femminista. Giovedì sera, due giorni prima del voto alla Camera, la Pelosi ha sentito tirare venti sfavorevoli, sufficientemente forti da bloccare alla partenza il lungo percorso che la riforma della sanità deve intraprendere attraverso le aule di Capitol Hill. La signora dai macro-sorrisi -a dir il vero un po’ ingessatiha mostrato i muscoli e soprattutto una mente più pragmatica rispetto alle caricature da ultrà liberal della West Coast che i repubblicani amano fare di lei. E se come scrive il filosofo e intellettuale francese Raymond Aron il machiavellismo “coglie i sentimenti che fanno veramente muovere gi uomini, dando una visione di ciò che è realmente una società”, le ambizioni della signora Pelosi e il suo peso all’interno del Parlamento sono ormai sotto gli
Conoscitrice del bon-ton politico, la Madame Speaker non disdegna le frasi ad effetto ed è capace, a volte, di sganciare dichiarazioni bomba:«se qualcuno ti sta fregando allora devi fregarli anche tu» ha candidamente spiegato ai giovani e ambiziosi assistenti, tanto per fargli capire che la politica non è un gioco da bravi ragazzi. Stimata da moltissimi colleghi, tra cui Rahm Emanuel -a cui piace chiamarla “mamma” e con cui si sente telefonicamente «almeno una volta al giorno»raramente alza la voce o si scompone, ma mai teme di dire la sua verità. Anche con il Presidente Obama, con cui viene spesso ripresa in atteggiamenti affettuosi mentre ridacchiano o si abbracciano calorosamente, ci sono state piccole tensioni che risalgono alla scorsa estate. Un consigliere della Pelosi ha raccontato al New York magazine, che la Speaker era dispiaciuta per gli sforzi di Obama, secondo lei inutili, di approdare a una riforma sanitaria bi-partisan. «Stai perdendo tempo. Non voteranno mai con noi» ha ammonito la Pelosi al Presidente il cui difetto più grande «è quello di voler approvare la riforma e piacere a tutti, democratici e conservatori, e questo non è possibile». Per molti, ha raccontato Vincent Bzdek, autore della biografia Woman of the House, il suo modo di fare, spesso e volentieri autoritario e diretto, risulta fastidioso ai suoi avversari, ma stizzisce anche i suoi elettori. Per i conservatori la Pelosi è il diavolo in gonnella, “Mussolini in tailleur”, “Nancy Botox”, oppure “una nemica della Costituzione americana”. Questa estate, dopo la pubblicazione su USA Today, di un editoriale -scritto insieme a Steny Hoyer, leader della maggioranza democratica alla Camerain cui i fomentatori degli aggressivi dibattiti cittadini sulla sanità, venivano definiti come “anti-americani”, un commentatore radiofonico dichiarò che le avrebbe dato volentieri un pugno in faccia; al contempo, secondo una società di sondaggi, il suo consenso tra gli elettori della California, sarebbe sceso di 15 punti negli ultimi mesi. Ma nulla sembra abbatterla. D’altronde, per usare le sue parole “You can’t get things done and be loved”.