mercoledì 13 febbraio 2019

La Stampa 13.2.19
Audible porta i libri game sui dispositivi Amazon Echo
La compagnia realizzerà due contenuti interattivi, fruibili attraverso l’interazione con Alexa. Il tutto in collaborazione con Chooseco, casa editrice leader del settore
di Marco Tonelli


I libri game sono tornati di moda anche grazie a “Bandersnatch ”, l’episodio interattivo di Black Mirror, in cui lo spettatore poteva scegliere come far continuare la trama. Chooseco, la casa editrice che pubblica il marchio “choose your own adventure” (sotto il quale vengono pubblicati i libri interattivi più celebri), aveva intentato una causa contro Netflix proprio per aver utilizzato in maniera indebita questo tipo di contenuti senza aver acquisito le licenze necessarie.
Allo stesso tempo però, Chooseco ha stipulato un accordo con Audible, per portare i libri “choose your own adventure” sugli altoparlanti Amazon Echo. Insomma, le storie interattive, saranno fruibili interagendo con Alexa. Ovviamente, la voce dell’assistente virtuale verrà sostituita con quella di due doppiatori professionisti, che narreranno le avventure dei protagonisti. Per ora, sono due i titoli: “L’abominevole uomo delle nevi” e “viaggio sotto il mare”. Il primo accompagna gli ascoltatori sull’Himalaya ed è dotato di almeno 28 finali. Il secondo trascina il lettore nella città perduta di Atlantide, con 37 finali. Insomma, si tratta di contenuti pensati per un pubblico molto giovane, ma che possono essere fruiti anche da lettori adulti.
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Al momento i contenuti sono liberi e Audible non ha confermato se in un futuro prossimo saranno disponibili a pagamento. Come fa notare Techcrunch, al momento le due compagnie vogliono capire se gli utenti sono interessati a questo tipo di contenuti. In caso di responso positivo, potrebbero essere realizzate anche altre storie, inserite nel catalogo Audible.
Repubblica 13.2.19
Nelle profezie di McLuhan ci siamo tutti noi
Lo studioso scomparso, autore di formule celebri come "il mezzo è il messaggio" e "villaggio globale", torna in libreria con un volume rielaborato dal figlio. Che svela l’attualità delle sue teorie nell’era dei social e dei populismi
di Marco Belpoliti

Tutti conoscono Marshall McLuhan, o l’hanno sentito citare almeno una volta. Le sue formule hanno fatto epoca: il medium è il messaggio, il villaggio globale, media caldi e media freddi, e altre ancora.
L’opera che il Saggiatore manda ora in libreria è il perfetto esempio di questa capacità di stabilire analogie e pensare similarità. S’intitola Le tetradi perdute di Marshall McLuhan (il Saggiatore, pagg.
283, euro 23), resa in italiano da un abilissimo traduttore: Fabio Deotto. Uscita in lingua originale nel 2017, ha come coautore Eric McLuhan, il figlio di Marshall (il padre è scomparso nel 1980, Eric è morto lo scorso maggio).
Si tratta di un libro inconsueto, fatto di appunti, frasi, numeri, lettere. Una sorta di manuale cabalistico per leggere i media. Un’opera geniale, che oggi, a quasi quarant’anni dalla morte dello studioso, è diventata perfettamente leggibile, mentre forse non lo era quando fu redatta in forma di annotazioni manoscritte.
Dopo il trionfo del web questo libro è diventato l’I Ching dei nuovi media, che si può aprire a caso per identificare, anche senza il lancio delle monete, il punto in cui siamo ora, e poi quello in cui saremo tra qualche tempo, dopo le prossime rivoluzioni tecnologiche.
Invece degli esagrammi dell’I Ching, i due McLuhan usano le tetradi. Mi spiego. Il libro più importante dello studioso canadese è Understanding Media: The Extensions of Man,
da noi reso con Gli strumenti del comunicare (il Saggiatore).
Esce nel 1964, poi l’autore pensa di pubblicare un’edizione rivista. Nel realizzarla Marshall e figlio si rendono conto che esistono delle leggi adatte alle tecnologie umane come ai linguaggi, alle teorie come alle leggi scientifiche. Pensano a una revisione che non somigli al saggio già uscito. Basata su tetradi – quattro indicatori – espresse in forma di schemi: le quattro leggi che governano tutte le innovazioni umane, dagli occhiali alla finestra, dalla vite al jet lag, dall’anestesia alla guerra. In questo modo: ogni innovazione 1) amplifica; 2) rende obsoleto; 3) recupera; 4) capovolge qualcosa che c’era prima.
Un’idea affascinante.
Naturalmente i conformisti editori americani dicono di no.
Esce così in forma accademica La legge dei media: la nuova scienza (in italiano da Edizioni Lavoro, 1994) e solo lo scorso anno Le tetradi perdute, dove è mostrato il processo grezzo di invenzione, in "versi e in prosa".
Sono solo sessantacinque tetradi rispetto alle centinaia individuate dai due McLuhan; tuttavia bastano per i fuochi di artificio che fanno esplodere nella testa. Per non essere vago provo a fare qualche esempio.
Cominciamo dalla politica: «politica elettrica», cioè l’epoca in cui viviamo dalla radio a Twitter, da Mussolini a Trump. Conseguenze: amplifica la burocrazia (avete presente quante carte digitali ci tocca compilare oggi per ogni cosa?); rende obsoleta la politica (scritto nel 1974!); recupera la diplomazia (segreta) nella gestione dei conflitti (hanno ragione i complottisti?); poi si ribalta in: «l’ubiquo, l’immagine dell’Imperatore» (avete presente Trump?). Non vi convince? Allora ecco lo specchio: amplifica l’ego e il distacco; «rende obsoleta la maschera sociale e l’aspetto pubblico»; «recupera la modalità di Narciso»; la visione esteriore diventa interiore.
McLuhan, in un passaggio, cita Mumford: «La personalità in abstracto, parte dell’Io reale, si scinde dallo sfondo naturale e dalla presenza degli altri uomini». Sono idee che valgono libri di sociologia del contemporaneo e dei media lunghi centinaia di pagine.
Di sicuro queste pagine sono state saccheggiate senza citarle mai, cosa che con McLuhan fanno in molti vista la genialità delle sue affermazioni che sono anche oscure, come l’I Ching, del resto. Un esempio fra i tanti: «Le lettere sono un’estensione dei denti, l’unica parte del corpo ad essere lineare e ripetitiva». Riguardo la privacy ci sono due passaggi antitetici, eppure complementari. Uno riguarda la macchina fotografica.
McLuhan sostiene che rende obsoleta la privacy.
Ha perfettamente ragione: ora tutto è visibile, le persone, le case, gli oggetti, le azioni.
I selfie da questo punto di vista non aggiungono niente di nuovo. O meglio: uniscono lo specchio e la macchina fotografica.
Altro dettaglio: la macchina fotografica recupera il passato come presente; «recupera il concetto di caccia grossa, catturando uno zoo di esseri umani». L’automobile invece fa il contrario: amplifica la privacy. Verissimo. Poi gli esseri umani hanno usato la macchina fotografica come complemento all’automobile (o viceversa?). Due visioni opposte, ma questo è anche il segreto di McLuhan: far convivere gli opposti e unire cose tra loro non collegate.
Un’altra delle idee forti dello studioso canadese, e di questo libro inconsueto, che non si finisce mai di leggere e rileggere (più e meglio di un saggio accademico), è che «le estensioni dell’uomo, con i loro ambienti derivanti, sono l’area principale di manifestazioni del processo evolutivo». McLuhan lo aveva detto sin dall’inizio degli anni Sessanta e oggi è ancora più vera.
Per concludere, senza concludere, segnalo la pagina che preferisco, dedicata al coltello, alla forchetta e al cucchiaio. Si occupa di tre cose che usiamo tutti i giorni, e di cui non ci accorgiamo più. Ecco cosa fa McLuhan: scrive del nostro visibile invisibile.
La Stampa 13.2.19
Felici nella prigione di Orwell
Con “1984” ha anticipato l’attuale società del controllo digitale
di Massimiliano Panarari


Esistono dei libri straordinariamente profetici, perfino al di là delle intenzioni dei loro autori. E, in questo senso, il grande George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair, 1903-1950) è stato un autentico «sensitivo» del futuro. Omaggio alla Catalogna (1938), il suo reportage in presa diretta della Guerra civile spagnola, è stato la preconizzazione del naufragio delle illusioni rivoluzionarie del Novecento e dell’eterna lotta intestina alla sinistra, che ne ha dilapidato parecchie delle energie tra violenze, ortodossie e conformismi. Nella Fattoria degli animali (1945) ci ha spiegato perché la proclamazione dell’«uno vale uno» rappresenta una menzogna interessata e una concezione assai distorta e manipolata della società (un’allegoria oggi terribilmente d’attualità). E in 1984 - di cui ricorre il settantesimo anniversario della pubblicazione, celebrato dal nuovo numero di Origami in uscita domani - ha prefigurato l’avvento della società della videosorveglianza indiscriminata.
Un libro premonitore come pochi, e che contiene un ammonimento sempre valido, perché il socialista libertario Orwell volle metterci in guardia da un rischio, quello della negazione della libertà attraverso l’occhiuta e ossessiva «vigilanza» del Grande Fratello, che non rappresenta una prerogativa esclusiva dei regimi fascisti e comunisti. Bensì, come scriveva nel ‘49 in una lettera al sindacalista Usa Francis A. Henson (riportata su Origami), «il totalitarismo potrebbe trionfare ovunque», anche nei sistemi politici liberaldemocratici. E le votatissime tendenze politiche di questi nostri anni, avverse alla visione della società aperta e pronte a promettere protezione in cambio di una riduzione dei diritti individuali, ne costituiscono, a conti fatti, un’ulteriore conferma.
L’inquietante satira politica e sociale orwelliana, erede del filone letterario di lingua inglese che ebbe tra i progenitori Jonathan Swift, ha davvero colto nel segno, e ha occupato il nostro immaginario in maniera indelebile, divenendo un oggetto prediletto della cultura pop attraverso film, serial, fumetti e pubblicità. Si potrebbe dire che esiste un filo rosso che va dal Panopticon di Jeremy Bentham fino ai social network, e il prototipo della prigione perfetta inventata dal filosofo utilitarista si invera nelle piattaforme digitali che riempiono ossessivamente la vita quotidiana di tanti abitanti del Villaggio globale. Proprio l’Occidente neoliberale e postmoderno si è fatto (anche) «società della sorveglianza», e si è riempito di telecamere e «occhi elettronici» - per usare le formule del sociologo David Lyon - dilatando le intuizioni di Orwell.
Con una caratteristica dirompente e irresistibile, lo aveva messo bene in evidenza Michel Foucault: dopo l’invenzione benthamiana del «carcere ideale» (fonte di ispirazione per l’autore di 1984), il potere si sarebbe enormemente fortificato - così come i suoi strumenti di controllo - dismettendo il dominio verticale e dall’alto e permeando e innervando, invece, la società in modo reticolare.
Dal panottico si passa dunque alla Rete, l’amichevole Grande Fratello contemporaneo, uno dei cui padroni, Mark Zuckerberg di Facebook - insieme con numerosi altri tycoon high tech –, invita gli utenti a mostrarsi completamente aperti e «visibili» nella propria esistenza digitale. E, così, nel nome dell’ideologia della trasparenza assoluta, lo scivolamento dalla «casa di vetro» alla «prigione di vetro» è diventato veramente un attimo. Senza nemmeno più bisogno della psicopolizia, perché nella postmodernità la realtà (fattasi iperreale) supera la fantasia. D’altronde, gli attuali nazionalpopulismi non si alimentano di paradigmi comunicativi che ricordano molto da vicino la neolingua e il bispensiero creati da Orwell nel suo romanzo distopico? Come, per l’appunto, i «fatti alternativi» degli spin doctor della Casa Bianca trumpiana, che hanno fatto impennare le vendite su Amazon del libro orwelliano, dopo essere stati evocati per la prima volta nel gennaio 2017 dalla consigliera presidenziale Kellyanne Conway.
L’idea prêt-à-porter del Grande Fratello che, non visto, ci scruta incessantemente è dilagata nell’immaginario collettivo e nell’industria culturale e mediatica, da film come The Truman Show di Peter Weir (1998) ai popolarissimi (omonimi) reality show che imperversano in questi anni in tv. Fino a graphic novel che hanno lasciato un segno come V for Vendetta (1988) di Alan Moore e David Lloyd, dove il protagonista lotta contro una reincarnazione del Big Brother indossando quella «maschera di Guy Fawkes» che si è convertita nel marchio di fabbrica degli hacker di Anonymous e di svariati movimenti antagonisti. E, ancora, 1984 è stato uno degli spot commerciali più leggendari del XX secolo, realizzato da Ridley Scott per presentare il pc di Apple, mettendo in scena la prometeica lotta per l’autodeterminazione e la creatività dell’individuo contro il collettivismo omologante del Grande Fratello. La perversa ironia della storia, visto che nel Terzo millennio è proprio l’Ideologia californiana (di cui Steve Jobs ha rappresentato uno dei primi predicatori) ad avere implementato, tra gli inconsapevoli applausi di tutti noi consumatori e navigatori, la predizione del controllo totale fatta dallo scrittore e giornalista britannico a metà del Secolo breve.—
La Stampa 13.2.19
L’eroe della Mauritania: “Libererò il popolo dalla schiavitù”
Biram Dah Abeid da 20 anni sfida le élite religiose di Nouakchott: «L’Europa smetta di fare affari coi governi corrotti»
di Francesca Paci


Lo Spartaco mauritano che stamattina racconterà a Roma come abbia spezzato le catene del silenzio intorno alla schiavitù africana è un gigante buono. Si chiama Biram Dah Abeid ma l’hanno ribattezzato il Mandela di Nouakchott per la determinazione pacifica con cui da oltre vent’anni porta avanti la sua battaglia sfidando la prigione e l’odio giurato delle élite religiose del suo Paese. Arriva alla sede della Federazione Italiana Diritti Umani, che ha organizzato il convegno «La schiavitù nel XXI secolo» (oggi alle 9,30 a Palazzo Giustiniani), con una lunga tunica celeste, il passo solido, mani grandi che una legge più vecchia del tempo avrebbe voluto legate. Quando nel 2013 l’Onu gli conferì il premio per i diritti umani il mondo si accorse di colpo della sua «Initiative de Résurgence du mouvement Abolitionniste de Mauritanie»: poi tutto passa, veloce, si dimentica.
Come spiega l’oblio che, a parte qualche sortita nell’inferno dei migranti, avvolge la schiavitù contemporanea come se l’incubo di «Radici» fosse sepolto con il ’900?
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«Persiste purtroppo un’illusione occidentale nei confronti del mondo arabo musulmano. L’occidente ha condiviso con alcune élite africane la lotta contro la schiavitù dei bianchi ma non ha mai affrontato il tema della schiavitù nelle società arabe. L’idea diffusa è che la schiavitù abbia coinciso con la tratta atlantica degli africani tra il XVI e il XIX secolo ma c’è anche quella araba-musulmana che, nel silenzio generale, ha visto trasferire uomini, donne e bambini verso l’Africa del Nord, la penisola Arabica, il Medioriente. La rimozione risale alle battaglie contro l’aphartaid, lo schiavismo afro-americano, le guerre d’indipendenza, quando nel nome di una solidarietà continentale e confessionale tra arabi e africani si mise da parte questa conflittualità atavica nascondendola al mondo. È così che la schiavitù nei Paesi arabo-musulmani è rimasta tale e quale era nel XII secolo, in Sudan, in Algeria, in Ciad, in Marocco, in Libia. Si discute tanto della schiavitù dei migranti in Libia ed è reale, ma con Gheddafi era la stessa cosa, i migranti diretti in Europa sono schiavi nuovi che si sommano a quelli di prima. Poi c’è il caso della Mauritania».
Cos’ha in più la Mauritania?
«Ha l’entità del fenomeno. Il 20% dei miei connazionali sono schiavi e il 35% sono schiavi affrancati, significa oltre metà della popolazione. E parlo di gente che lavora senza orario, senza salario, senza diritti civili, senza documenti né alternative a meno di essere sciolta dal padrone. È così da sempre e la Francia, concedendo l’indipendenza dopo 70 anni di colonialismo, ha garantito anche l’impunità alle minoranze arabo-berbere che gestivano la schiavitù prima e oggi sono al potere. Nel 1982 e poi nel 2007, dopo dure e ripetute rivolte, la schiavitù è stata ufficialmente bandita ma giacché nessuna legge la punisce sta lì viva e vegeta».
Nel 2012, durante una protesta, è stato arrestato per aver bruciato un breviario musulmano. Cosa c’entra l’islam?
«Il razzismo, da cui proviene la schiavitù, ha tante cause e quella economica è la meno importante. Il codice d’onore degli arabi per esempio, considera degradante il lavoro, nei campi come in cucina, e prevede gli schiavi per questo. È così da secoli e da secoli gli schiavi partoriscono schiavi che i padroni si trasmetteranno in eredità. Poi c’è la religione, che sin dall’inizio è servita da giustificazione. In Mauritania si racconta che i futuri schiavi e i liberi fossero nati uguali. Poi, durante un temporale, i primi si coprirono la testa con il Corano macchiandosi la faccia d’inchiostro e Allah, ritenendoli irrispettosi, li condannò alla negritudine e dunque alla schiavitù. Ho bruciato il libro che, interpretando alcuni versi del Corano, sostiene queste follie: dice anche che le schiave sono a disposizione del padrone, possono essere abusate, vendute, condivise, affittate».
Quando ha deciso di rompere il silenzio?
«Sono libero perché mio padre fu affrancato nel ventre di mia nonna quando un sacerdote prescrisse come cura al padrone malato la liberazione di uno schiavo e quello liberò il feto. A 10 anni ho visto il primo schiavo picchiato, era più forte del suo aguzzino ma non si ribellava perché, come mi spiegò mia madre, aveva le catene nella testa, la religione, l’ignoranza. Mio padre ha voluto che studiassi perché capissi dai libri religiosi come la schiavitù dipenda dall’uomo e non da Dio: è la mia battaglia»
Cosa può fare l’Europa?
«Finché l’Europa commercerà con i governi corrotti africani la schiavitù s’intensificherà, quella stanziale come quella dei migranti. In Mauritania il 93% dell’oro estratto finisce in tasca a gruppi europei, russi, americani e cinesi, mentre il 7% va alla minoranza araba al potere, un sistema che si alimenta con la schiavitù».
il manifesto 13.2.19
L’Accademia ungherese sotto attacco
Senza più autonomia, fondi e ricerca. Professori e studiosi scendono in piazza a Budapest per difendere la prestigiosa Mta, su cui il governo Orbán ha messo le mani
di Massimo Congiu


BUDAPEST «Il sapere è del popolo ungherese, non del governo», si leggeva su uno dei cartelli comparsi durante la manifestazione che si è svolta ieri nel primo pomeriggio a sostegno dell’Accademia Ungherese delle Scienze (Mta), la cui autonomia è attaccata da quasi un anno dal governo di Viktor Orbán. Diverse centinaia di persone hanno formato una catena umana intorno all’edificio della prestigiosa istituzione, fondata nel 1825, e consegnato al presidente dell’Mta, László Lovász, una petizione per chiedere di non accettare la liquidazione della rete di istituti di ricerca che fanno capo all’Accademia.
LE MANIFESTAZIONI per la libertà accademica e per protestare contro il trasferimento a Vienna della Ceu (Central European University) fondata da George Soros, sono iniziate alla fine dell’anno scorso con una discreta partecipazione di gente. La mobilitazione che ha avuto luogo nell’ultima settimana di novembre e che si è intensificata nel corso del mese successivo, non ha però ottenuto che il governo modificasse i suoi piani basati su una chiara volontà di estendere il suo controllo sulla vita pubblica del paese.
L’anno scorso l’esecutivo ha deciso di trasferire sostanze economiche e competenze al neocostituito ministero per l’Innovazione e la Ricerca guidato da László Palkovics per rendere la ricerca più competitiva, secondo la motivazione ufficiale delle autorità. In ambito umanistico, denunciano i ricercatori, sono stati creati, negli ultimi anni, una decina di istituti di ricerca in aperta competizione con i quindici coordinati dall’Accademia. Secondo i ricercatori dell’Mta, l’obiettivo di Palkovics, e quindi del governo, è quello di ridurre l’Istituzione a una sorta di «innocuo club accademico» composto, per lo più, da studiosi in pensione, sul modello della riorganizzazione dell’Accademia Russa delle Scienze, avvenuta fra il 2013 e il 2014. Una nota del Forum dei ricercatori mette in guardia: la rete di centri di ricerca dell’Mta, forte di 5mila membri attivi, è destinata ad essere trasferita in università o centri di ricerca controllati dallo Stato o ad essere soppressa. «Diversi centri operanti per lo più nell’ambito delle discipline umanistiche e delle scienze sociali potrebbero essere facilmente etichettati come ’non produttivi’ e quindi smantellati», si legge nella nota.
POCO DOPO le elezioni dello scorso anno, vinte dal Fidesz, il partito di Orbán, sono comparse liste di proscrizione, alcune delle quali recanti nomi di studiosi rei di occuparsi di argomenti relativi all’immigrazione, all’omosessualità e alle questioni di genere. Temi, gli ultimi due, il cui studio va disincentivato, secondo le autorità di Budapest, perché il paese non può permettersi di legittimare tendenze sessuali devianti, dato il suo saldo demografico negativo. Il governo ha così colpito a suon di decreti gli studi di genere costringendo le facoltà di sociologia a sopprimere le relative cattedre. D’altra parte le parole pronunciate di recente da Zoltán Kovács, portavoce del gabinetto Orbán, sono chiare: «Queste ricerche non coincidono con la filosofia del governo». Governo che, nella riforma dell’istruzione, obbliga le scuole pubbliche ad adottare solo libri di testo pubblicati dal Centro Statale per lo Sviluppo dell’Istruzione (Ofi), al posto di quelli messi in circolazione da editori privati. Si parla di testi che descrivono l’immigrazione come un pericolo per i valori della nazione, e l’Unione europea come un entità dal quale il paese si deve difendere.
LA COMUNITÀ SCIENTIFICA è in subbuglio. All’interno dell’Mta è nato un gruppo di studiosi, Stadium 28, assai attivo nella campagna in difesa dell’Accademia, contro la decisione dell’esecutivo di controllarne l’attività, il budget e i temi di ricerca. Numerosi studiosi dell’Mta hanno firmato una lettera destinata all’esecutivo e al ministro Palkovics per chiedere il ripristino dell’autonomia dell’Accademia, quell’autonomia giuridica e amministrativa di cui l’Istituzione ha potuto godere fino all’anno scorso. Ora però la situazione è cambiata, in peggio. Lo storico italiano Stefano Bottoni, membro dell’Mta, ha rivolto un appello per chiedere solidarietà alla comunità scientifica italiana in sostegno alla lotta degli accademici ungheresi. Come scrive Bottoni, le autorità di Budapest sanno che «dal 2021 l’Ungheria perderà parte dei finanziamenti europei», si parla di 6 miliardi di euro in meno per il periodo che va dal 2021 al 2027. La sola eccezione è quella riguardante il settore dell’innovazione. Per cui, fa notare lo studioso, lo smembramento dell’Accademia e dei suoi centri di ricerca è funzionale al controllo governativo sulle ingenti somme destinate al comparto. Aspetti economici a parte, Bottoni parla di «epurazione scientifica, la più drastica di sempre nella storia del paese». Sono in linea con questo clima le frasi pronunciate in un’intervista dal nuovo direttore del Museo Letterario Petofi, Szilárd Demeter, secondo il quale vale la pena di agevolare il lavoro degli scrittori ungheresi le cui opere si rivolgano ai loro connazionali e possano essere considerate, anche in futuro, parte integrante della letteratura ungherese, e non di quanti, per motivi definiti puramente commerciali, aspirino soprattutto a essere tradotti all’estero e a raggiungere la popolarità internazionale.
Il Fatto 13.2.19
Venezuela, governo su posizioni opposte
In Parlamento - Oggi relazione del ministro Moavero. La Lega sostiene il premier autoproclamato Guaidó, M5S con Maduro
Venezuela, governo su posizioni opposte
di Wanda Marra


Oggi il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, sarà in Parlamento a riferire sul Venezuela, su richiesta delle opposizioni. Previsto il voto delle mozioni. E così proprio la politica estera sarà la prima prova da affrontare per Lega e Cinque Stelle dopo il voto in Abruzzo. Sul Venezuela le due forze di governo continuano a essere su posizioni opposte, con il Carroccio di Salvini che ripete appoggio al presidente “auto-proclamato” Juan Guaidò e i Cinque Stelle vicini a Maduro. Ieri Salvini è stato l’unico ad accettare l’invito di Guaidò e a incontrare una delegazione di venezuelani – che è stata anche ricevuta in Vaticano – composta dal presidente della Commissione Esteri dell’Assemblea nazionale venezuelana, Francisco Sucre, accompagnato dall’ex sindaco di Caracas, Antonio Ledezma, e da Rodrigo Diamanti, rappresentante di Juan Guaidó per gli aiuti di emergenza provenienti dall’Europa. Ha pure telefonato al presidente incaricato, promettendogli il suo sostegno a elezioni libere.
E in serata in tv a Porta a Porta ha ribadito: “Sto Maduro prima se ne va meglio è”. L’“alleanza” con Guaidò funziona, tanto è vero che il leader del Parlamento di Caracas ha poi mandato una lettera-appello agli italiani nel quale ha espresso “profondo sconcerto” per “la posizione politica italiana” che non lo ha ancora riconosciuto come presidente.
Non hanno accolto l’invito a un incontro, invece, né Giuseppe Conte, né Di Maio. Ma a parlare con la delegazione a nome del governo è stato lo stesso Moavero. Che in questi giorni, però, è sotto tiro: da più parti, anche ai piani alti della Lega, viene criticato per la sua gestione non solo della crisi venezuelana, ma pure di quella francese.
Così, mentre Forza Italia ha presentato la sua mozione che richiede il riconoscimento di Guaidò, la maggioranza sta lavorando a una bozza, che dica tutto e niente e permetta a entrambe le forze di votarla.
Si impegna il governo “a sostenere gli sforzi di dialogo – anche attraverso fori multilaterali – al fine di procedere, nei tempi più rapidi, alla convocazione di nuove elezioni presidenziali che siano libere, credibili e in conformità con l’ordinamento costituzionale”, prevede il testo. Nel dispositivo si sollecitano anche iniziative umanitarie, per lo stop alle violenze e per la tutela degli italiani che vivono nel Paese. Trattativa in corso su come nominare Maduro. L’indicazione sarebbe quella di riconoscere l’Assemblea eletta, ma non esplicitamente lui.
Intanto Maduro ha dato il via a esercitazioni militari per i 200 anni del Congresso di Angostura, con l’obiettivo di ostentare le capacità dell’esercito. Dopo la Colombia, anche il Brasile annuncia l’apertura di un deposito vicino al confine per immagazzinare gli aiuti umanitari internazionali. Elvis Amoroso, Controllore generale – incarico con funzioni equivalenti a quelle della Corte dei Conti – ha annunciato l’apertura di un’indagine sul patrimonio di Guaidò: avrebbe “falsificato dati contenuti nella dichiarazione giurata” e “ricevuto denaro dall’estero, senza giustificarlo”.
il manifesto 13.2.19
Foibe, il revisionismo storico forma della politica
di Davide Conti


Per settimane la classe politica italiana si è cimentata nell’uso politico della storia, misurato strumentalmente sulla torsione del passato ad uso pubblico del quotidiano e sulla caccia al «negazionista».
Così alla fine le celebrazioni del Giorno del ricordo si sono addirittura concluse a Basovizza con le parole del presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani: «Viva Trieste, viva l’Istria italiana, viva la Dalmazia italiana, viva gli esuli italiani, viva gli eredi degli esuli italiani». Contestualmente il ministro dell’Interno Salvini affermava che «i bimbi morti nelle foibe e i bimbi di Auschwitz sono uguali» cercando di stabilire una simmetria semantica delegittimante tra nazifascisti e partigiani di Tito, ovvero tra le forze dell’Asse e quelle Alleate formate da Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e appunto Jugoslavia.
Il Presidente della Repubblica della Slovenia Borut Pahor ha dovuto scrivere una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che pure al Quirinale aveva parlato delle foibe come di «odio etnico» paragonandole alla Risiera di San Sabba, esprimendo «preoccupazione per alcune inaccettabili dichiarazioni di alti rappresentanti della Repubblica italiana in occasione della Giornata del ricordo che danno l’impressione che gli eventi legati alle foibe siano stati una forma di pulizia etnica».
Il premier sloveno Marjan Sarec ha definito le parole di Tajani «un revisionismo storico senza precedenti» ricordando un punto pervicacemente omesso dalle celebrazioni ufficiali: «Il fascismo era un fatto, e aveva lo scopo di distruggere il popolo sloveno». Nel frattempo quasi tutti i deputati europei della Croazia hanno condannato le dichiarazioni di Tajani definendole «una vergogna» – come il deputato Ivan Jakovic – o «un relitto dei tempi passati» secondo Dubravka Suica.
Le successive scuse pubbliche di Tajani a Strasburgo non modificano la sostanza di quel cortocircuito storico-memoriale che ha avuto innesco con l’istituzione del Giorno del ricordo e con le modalità della sua celebrazione pubblica.
Era già accaduto nel 2007 quando il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva parlato delle violenze sul confine italo-jugoslavo come di «un moto di odio e furia sanguinaria che assunse i sinistri contorni della pulizia etnica» aggiungendo poi un’esplicita critica alla pace di Parigi «un disegno annessionistico slavo» che «prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947». L’allora presidente croato, Stipe Mesic, si disse «costernato» da quelle parole in cui era «impossibile non intravedere elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo». Protestò anche il grande scrittore Boris Pahor.
Fu il ministro degli Esteri D’Alema – già Presidente del Consiglio nel 1999 durante i bombardamenti Nato in Serbia – ad intervenire in difesa del Quirinale nell’ottica di una ricomposizione dell’incidente diplomatico che trovò negli anni successivi la sua espressione nell’incontro a Trieste di Napolitano con i presidenti croato e sloveno Josipovic e Turk in occasione della visita congiunta alla «Narodni Dom», la Casa del popolo data alle fiamme dai fascisti italiani il 13 luglio 1920, e al monumento all’esodo degli istriano-fiumano-dalmati italiani.
Quel passaggio avrebbe dovuto rappresentare una misura feconda non solo per le relazioni Roma-Lubiana-Zagabria ma soprattutto per l’Italia, come antidoto al ritorno di istanze egoistico-sociali e di «spiriti» politici regressivi e razzisti che, in assenza di compiuti conti con la storia e con il triste lascito fascista nella nostra e nelle altrui società, avranno sempre la possibilità di riemergere se si troveranno di fronte solo il guscio vuoto della retorica celebrativa. Siamo certi, in un momento storico in cui in tutta l’Europa i nazionalismi, le disuguaglianze sociali e le discriminazioni etniche hanno assunto dimensioni molto gravi, che il colloquio telefonico intervenuto tra Mattarella e Napolitano attorno al Giorno del ricordo abbia avuto al centro questi argomenti di fondo anziché – lo speriamo vivamente – le rivendicazioni dell’italianità della Dalmazia e dell’Istria ascoltate domenica a Basovizza.
Perché la storia del confine italo-jugoslavo racchiude un passaggio centrale del novecento italiano ed europeo. In quelle terre il fascismo riuscì a trarre forza ma soprattutto legittimità ancora prima di salire al potere. «In altre plaghe – scrisse Mussolini nel 1920 – i fasci di combattimento sono appena una promessa. Nella Venezia-Giulia sono l’elemento preponderante e dominante della situazione politica». I crimini di guerra italiani degli anni ’40 ne sarebbero stati la tragica conseguenza.
In quelle plaghe, oggi non più solo italiane ma europee, la fratellanza tra i popoli, enorme lascito storico delle tante Resistenze combattute nel nostro continente, dovranno tornare ad essere gli unici elementi di una nuova cittadinanza.
il manifesto 13.2.19
«Stampa sotto attacco perché ostacola il potere»
Raffaele Lorusso, segretario generale della Fnsi al XXVIII Congresso. Tagli all’editoria, social network e precarizzazione minacciano la libertà di stampa
di Giansandro Merli


«Dal governo in carica sono arrivati e arrivano segnali di forte ostilità. Bisogna confrontarsi con tutti, a patto che ci siano le condizioni – ha detto
aprendo il 28° congresso della Federazione nazionale stampa italiana – Non si può dialogare con chi, come il vicepremier Di Maio, parla di infimi sciacalli, senza alcuna forma di ravvedimento auspica la chiusura dei giornali, si compiace per l’azzeramento del fondo per l’editoria. Fino a quando l’atteggiamento del governo sarà questo non potrà non esserci una reazione. Se vuole confrontarsi seriamente troverà nella Fnsi un interlocutore rispettoso e disponibile».
GIÀ IL 18 DICEMBRE SCORSO il sindacato dei giornalisti aveva manifestato a Montecitorio contro i tagli ai giornali cooperativi e delle minoranze linguistiche presentati «con grande orgoglio» dal sottosegretario all’editoria Vito Crimi (5S) e successivamente approvati dal parlamento. Secondo il governo la stampa, al pari degli altri settori, deve essere regolata dal mercato. Lo ha detto il presidente del consiglio Giuseppe Conte nel corso della conferenza stampa di fine anno rispondendo alle domande di Radio Radicale e del Manifesto, che insieme ad Avvenire e decine di altre testate cooperative sono stati colpiti dai tagli al fondo per il pluralismo.
SECONDO LORUSSO negli anni della crisi i giornalisti occupati sono passati dai 18.866 del 2008 ai 15.016 dei dati più recenti. In totale, meno 20%. Tra chi ancora riesce a lavorare nel settore la precarietà è dilagante. «La figura del co.co.co. è il principale strumento per aggirare la contrattualizzazione – sostiene – i 7.700 collaboratori coordinati e continuativi hanno una media retributiva di 9.700 euro. Svolgono le stesse mansioni ma hanno un salario sei volte inferiore a un giornalista assunto ex articolo 1». Una situazione che mette a rischio anche i conti dell’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (Inpgi): «Negli stessi anni i giornalisti pensionati sono passati da 4.256 nel 2008 a 7.240 nel 2018».
IL PROBLEMA per Lorusso è sistemico e riguarda anche le trasformazioni tecnologiche che hanno investito il settore. Mentre i colossi del web macinano guadagni da capogiro, anche grazie all’informazione prodotta nelle redazioni, non c’è alcuna redistribuzione degli utili sul mercato editoriale. «Dal 2007, quando sono arrivati iPhone e Facebook, le copie vendute sono passate da 6,1 milioni al giorno a 2,6 milioni nel 2018, incluse le copie digitali. Il mercato della pubblicità non è cresciuto come ci si aspettava rispetto all’incremento degli utenti. Negli ultimi 10 anni è aumentato da 950 milioni a 2,9 miliardi di euro. Ma il 75% di queste risorse finisce ai cosiddetti “over the top”, cioè Google e Facebook».
IL CONGRESSO è stato aperto dai messaggi delle più alte cariche istituzionali. «Libertà di informazione e democrazia sono elementi inscindibili» ha affermato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Elisabetta Casellati, presidente del Senato, e Roberto Fico, presidente della Camera, hanno sottolineato l’importanza di deontologia ed etica nella professione giornalistica. Parole che risuonano lontane dai provvedimenti del governo gialloverde che mettono in ginocchio le piccole testate e consegnano l’informazione al mercato e ai grandi gruppi editoriali. «La stampa è sotto attacco perché è l’ostacolo all’affermazione di un modello a cui il potere ambisce da sempre – ha concluso Lorusso – il modello del balcone, oggi diventato balcone telematico, dal quale il capo parla alla folla e impone la sua visione del mondo in 180 caratteri».
il manifesto 13.2.19
Consiglio d’Europa: «Roma minaccia la libertà di stampa»
Rapporto sull'informazione nel Vecchio Continente. Governo nel mirino per il «taglio ai finanziamenti» e l’atteggiamento negativo verso i media. L’Italia osservata speciale con Russia, Turchia e Ungheria. Preoccupazione per la linea e i toni dell’esecutivo. «Di Maio e Salvini usano regolarmente sui social una retorica ostile nei confronti dei giornalisti»
di Guido Caldiron


In Italia, nel corso dell’anno appena trascorso, la libertà di stampa «si è chiaramente deteriorata» e, in ogni caso, si è «ridotta». È un allarme preciso, circostanziato, inquietante, quello contenuto nel rapporto diffuso ieri da associazioni e ong che animano la Piattaforma per la protezione e la salvaguardia del giornalismo che opera per conto del Consiglio d’Europa – tra loro, la Federazione internazionale dei giornalisti, l’Associazione dei giornalisti europei e Reporter senza frontiere -, raccogliendo denunce e monitorando a livello continentale lo stato della libertà di stampa.
NEL DOCUMENTO, intitolato «Democrazia a rischio: minacce e attacchi contro la libertà dei media in Europa», che raccoglie un lungo elenco di pressioni, abusi e violenze che arrivano fino all’omicidio – i casi di morte violenta descritti sono quelli di Jan Kuciak, Jamal Khassogi, Viktoria Marinova e Maksim Borodin, cronisti uccisi rispettivamente in Slovacchia, Turchia, Bulgaria e Russia nel corso del 2018 -, colpisce prima di tutto che la situazione del nostro Paese sia presa in esame con un report specifico accanto a quelli di realtà come l’Ungheria, la Turchia e la Russia. Il motivo di questa scelta è presto detto: l’Italia è «tra i Paesi con il maggior numero di segnalazioni pubblicate sulla piattaforma» nel corso dello scorso anno, «lo stesso numero della Federazione Russa». Cifre inoltre più che triplicate rispetto al 2017.
Complessivamente, il rapporto valuta «la situazione della libertà dei mezzi d’informazione in Europa sulla base di 140 gravi violazioni segnalate alla piattaforma nel corso del 2018», episodi e vicende che si iscrivono spesso in una drammatica continuità di repressione e violenza verso i rappresentanti della stampa indipendente, come ad esempio nel caso del regime di Erdogan in Turchia.
Per il caso italiano permangono ad esempio le indicazioni di pericolosità relative alla presenza delle organizzazioni mafiose – 21 i giornalisti minacciati di morte e per questo sottoposti alla protezione delle forze dell’ordine -, anche se le novità che hanno valso alla Penisola questa sinistra menzione speciale hanno tutte a che fare con il quadro politico definito dall’esecutivo gialloverde. Da questo punto di vista, il rapporto non potrebbe essere più esplicito. «La maggior parte degli allarmi registrati nel 2018 – si legge nel documento -, sono stati inviati dopo l’insediamento ufficiale del nuovo governo di coalizione il 1° giugno». Non solo, «i due vice premier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, usano regolarmente sui social media una retorica particolarmente ostile nei confronti dei media e dei giornalisti».
QUELLA CHE È CHIARAMENTE indicata come l’attitudine negativa del governo italiano nei confronti della libertà di stampa e degli stessi giornalisti è sottolineata a più riprese e con diversi esempi. A partire dall’«abolizione dei sussidi pubblici alla stampa», il vero e proprio attacco alle voci libere (più volte denunciato da questo giornale) che si è tradotto nella cancellazione dei contributi all’editoria non profit deciso dal governo con la recente legge di bilancio. Ci sono poi «gli insulti» rivolti da Di Maio all’indirizzo dei giornalisti o la minaccia di «rimuovere la protezione della polizia per il giornalista investigativo Roberto Saviano», più volte evocata da Salvini.
Un clima, quello che si respira nel nostro Paese, che secondo la Fnsi, citata nel rapporto, espone «i professionisti dei media» ad «un rischio costante di violenza», «alimentato dalla retorica ostile dei membri del governo e dei partiti della maggioranza».
MA SUL GIORNALISMO italiano, come ha ricordato in questi giorni Concita De Gregorio a partire dalla vicenda che la vede suo malgrado protagonista, continua a pesare, accanto alle pressioni politiche e alle minacce violente, il rischio di vedere limitata la propria autonomia e libertà da richieste di risarcimenti danni esorbitanti in cause civili che hanno l’evidente scopo di intimidire o punire le voci scomode dell’informazione.
Il Fatto 13.9.19
Un hotel nella villa Medicea. Con lo zampino di Lotti
Montelupo Fiorentino. Il piano per affidare la gestione dell’Ambrogiana ad un privato, in barba ai cittadini
di Tomaso Montanari


Da Cosimo III de’ Medici granduca di Toscana a Luca Lotti, petalo d’eccellenza di un giglio magico renziano velocemente appassito. È nell’improbabile tragitto che congiunge questi due potenti toscani vissuti a tre secoli e mezzo di distanza che si gioca il futuro della Villa dell’Ambrogiana, spettacolare monumento che sorge in riva all’Arno, a Montelupo Fiorentino.
Il 5 aprile del 1681 il segretario di Cosimo III non riusciva a trovare parole per descrivere l’“avidità” con cui il suo padrone, nel salone dell’Ambrogiana, assisteva all’apertura di due casse venute da Roma: ne uscirono un superbo quadro di Bassano, e uno rarissimo di Bernini, appena scomparso.
Anche oggi la villa potrebbe trasformarsi in un teatro dell’“avidità”: quella di una speculazione immobiliare e di una ‘valorizzazione’ turistica desertificante che sono ormai tra le pochissime industrie della Toscana.
L’Ambrogiana è sempre stata una città proibita per gli abitanti di Montelupo: prima perché era il paradiso di giardini, collezioni, serragli esotici e conventi misticheggianti in cui si ritiravano i granduchi, da Ferdinando I a Cosimo III. Poi perché nel 1886 vi fu installato il secondo manicomio criminale dell’Italia unita, divenuto negli anni Settanta del Novecento un Ospedale Psichiatrico Giudiziario (Opg). Una storia terribile, quest’ultima, culminata nei primi anni Duemila nell’inarrestabile decadenza della villa stessa e delle condizioni di chi ci viveva, fino alla serie di tre suicidi di pazienti-detenuti, tra 2000 e 2003.
Nel 2011 arriva finalmente a Montelupo una direttrice esemplare, Antonella Tuoni, che lotta con i pochissimi fondi disponibili per recuperare la struttura storica e la qualità della vita di pazienti e lavoratori. Quando i risultati si cominciano a vedere, arriva la chiusura degli Opg: esattamente due anni fa, nel febbraio 2017, l’ultimo paziente lascia l’Ambrogiana. Ma gli appetiti erano iniziati assai prima. Il 15 dicembre del 2014 si svolge a Montelupo una tavola rotonda in cui l’allora presidente della Cassa Depositi e Prestiti Franco Bassanini, il governatore Enrico Rossi, il sindaco Paolo Masetti (Pd) e ovviamente l’allora potentissimo montelupino Luca Lotti tratteggiano il futuro dell’Ambrogiana.
Il più informato tra i vari resoconti giornalistici, quello della testata toscana online Gonews, è assai esplicito: “È necessario spiegare alcuni passaggi di Bassanini. Se per esempio nella Villa Medicea si volesse realizzare un albergo di lusso, strategico tra Firenze e Pisa, vicino a Siena e Lucca, si potrebbe separare la proprietà dell’immobile dalla gestione dello stesso, affidandola a catene internazionali, favorendone l’ottimizzazione, la promozione e i ricavi”.
Tre anni dopo, nel settembre 2017, 1.400 cittadini – tra i quali Lotti – abbracciano la Villa: una bellissima iniziativa che dovrebbe rappresentare simbolicamente l’apertura di un processo partecipato in cui decidere insieme il futuro dell’Ambrogiana.
Invece, è solo fumisteria: sulla base di un laboratorio di partecipazione promosso dal progetto culturale “Cities-Cafés”, l’opposizione “Città e Lavoro” aveva presentato quasi un anno prima in consiglio comunale una mozione con cui si chiedeva la garanzia della proprietà pubblica e della gestione dell’immobile e dell’intera area, e la partecipazione della cittadinanza alle scelte sul futuro della villa. Ma la mozione era stata respinta con il voto compatto della maggioranza Pd. “È un po’ da sognatore – aveva risposto il sindaco Masetti – dire che (l’Ambrogiana, ndr) è dei cittadini”. Il boccino, sosteneva il sindaco, è a Roma: una Roma allora renzianissima.
Puntualmente l’Agenzia del Demanio, cui il ministero della Giustizia ha “restituito” l’Ambrogiana, mette dunque a gara lo studio di “fattibilità” sulla “valorizzazione” della Villa, che viene affidato a Coop Culture e allo studio di architettura Palterer & Medardi. Tra gli scenari delineati dallo studio, l’Agenzia del Demanio sceglie quello che trasformerebbe la villa in una “Cittadella del sapere”. Uso pubblico e virtuoso al cento per cento, dunque? Non esattamente. Lo studio spiega anche come sottrarre all’uso pubblico una parte importante del complesso “attraverso la vendita/locazione/concessione della relativa area ad un privato”. Non un dettaglio, ma una falla capace di affondare la nave dell’uso pubblico, come ammette lo stesso studio di fattibilità: “L’alienazione/concessione/locazione ‘indebolisce’ i Modelli di Gestione delle altre aree, soprattutto quelle a maggior vocazione culturale (giardini piùmuseo) e potrebbe minare la logica complessiva del ‘polo della conoscenza’”. Un’ammissione che forse spiega perché il consigliere di opposizione Francesco Polverini ha impiegato mesi per avere accesso allo studio: alla faccia della partecipazione e della trasparenza.
Nel 1988 Giovanni Michelucci aveva proposto un primo, visionario progetto di recupero pubblico dell’Ambrogiana. Nel 2014 Antonella Tuoni ha prospettato un’idea diversa, e affascinante: e cioè che una parte della Villa continuasse ad ospitare un carcere, rendendo così chiaro che la storia non si rimuove e i detenuti non si nascondono come polvere sotto il tappeto. E anche che le prigioni non sono luoghi dove si ‘marcisce’, ma istituzioni che possono riscattare anche grazie alla bellezza.
Oggi la domanda è una sola: i cittadini di Montelupo (anche quelli che non si chiamano Lotti) saranno chiamati a decidere davvero del futuro del loro bene più prezioso?
Il Fatto 13.2.19
“Sto con gli anarchici, sovversivo è lo Stato”
Donatella Di Cesare La filosofa sullo sgombero dell’Asilo: “Chi esprime dissenso oggi è criminalizzato”
di Maddalena Oliva


È tra i filosofi più presenti nel dibattito pubblico, accademico e mediatico. Saggista ed editorialista, ha vissuto sotto protezione fino a qualche mese fa per le minacce ricevute da gruppi neonazisti e neofascisti. Sabato scorso, nel pieno della guerriglia a Torino, si è schierata pubblicamente “dalla parte degli anarchici dell’Asilo, centro sociale sgomberato senza motivo”.
Ci sono indagini della magistratura in corso, 8 arresti convalidati, si parla di una vera “rete sovversiva”, non le sembra pericoloso il suo endorsement?
Ho scritto quel post perché penso, insieme a molti altri, che sgomberare in modo così violento un centro sociale come l’Asilo che esiste da 24 anni nella città di Torino sia stata un’iniziativa immotivata: un’operazione spot.
Il questore di Torino ha detto: “Non è un centro sociale normale, sono devastatori che vogliono sovvertire l’ordine democratico dello Stato”.
Sono rimasta sorpresa, e indignata, da questo linguaggio. Il questore, a proposito degli arrestati, ha parlato di “prigionieri”: parola che mi sembra inappropriata, rimanda a uno scenario bellico, da Stato di polizia. In linea con il ministro dell’Interno Matteo Salvini che ha chiesto “la galera per gli infami”, e col consigliere leghista che ha invocato un’altra Diaz. Tutto questo, sì, è allarmante per la democrazia.
L’attività investigativa identifica nell’ex Asilo Okkupato un centro operativo di una rete che ha come obiettivo la distruzione dei centri per i rimpatri dei migranti, attraverso incendi da innestare all’interno dei cpr e colpendo le aziende che collaborano nel comparto dell’immigrazione.
Chiariamolo subito: sono contraria a ogni forma di violenza fisica. Ma di cosa sono accusati gli anarchici dell’Asilo? Di aver istigato dei migranti di un Cpr a ribellarsi attraverso dei messaggi inviati in palline da tennis? Dovremmo metterci tutti davanti alle porte dei Cpr, questa è la verità. È lì che avviene la sovversione della democrazia.
Leggo già il tweet di Salvini sull’“intellettuale di sinistra radical chic”.
A certe espressioni folkloristiche ormai siamo abituati. Ma è venuto il tempo di avere il coraggio di essere impopolari, di posizioni devianti contro il consenso imperante. I Cpr sono strutture in cui le persone sono trattenute per essere espulse e scontano una detenzione per un iter amministrativo, senza aver commesso reati, solo perché stranieri. Questo fa parte, come più volte ho sostenuto, dell’universo concentrazionario. Bisognerebbe essere quindi grati a chi manifesta la propria indignazione contro questi centri. Condanno gli scontri di sabato, ma bisogna distinguere. Incendiare un materasso in un Cpr non è violenza: è violenza quella che viene esercitata dentro al centro su persone che, ripeto, non hanno commesso alcun reato. Ci sono stati degli atti che hanno incitato a forme di disobbedienza? Ce ne dovrebbero essere di più. I cittadini sono tali solo se si interrogano sulla legittimità delle leggi.
Dall’elogio della disobbedienza alla violenza il confine è sottile.
Viviamo in un’epoca autoritaria, in cui lo Stato-nazione ha perso sovranità e mostra il suo lato violento innalzando muri. Ecco perché l’anarchismo oggi è estremamente attuale: è la visione opposta al sovranismo, perché volge lo sguardo all’interno, negli interstizi di questa governance poliziesca. Non è un insulto. Anzi. È essere politici, oggi.
La Stampa TuttoSalute
Perché non capiamo gli adolescenti
Gli studi della neuroscienziata Jayne Blakemore svelano i meccanismi che spingono i giovani al rischio e alla ribellione: “Conoscerli significa aiutarli a diventare adulti consapevoli”
di Stefano Massarelli


Lunatici e impulsivi, irrispettosi degli adulti, che a loro volta li additano come ingestibili, perfino pericolosi. Eppure gli adolescenti di oggi non sono così diversi da quelli di ieri. «Amano il lusso, hanno cattive maniere, disprezzano l’autorità», scriveva Socrate più di 2 mila anni fa. Oggi, però, conosciamo le cause di alcuni loro comportamenti anomali, dovuti alle metamorfosi del loro cervello.
«Credevamo che si sviluppasse solo nella fase dell’infanzia, ma le ricerche hanno confermato che il cervello continua a svilupparsi nel periodo dell’adolescenza e fino a 20-30 anni», spiega Sarah-Jayne Blakemore, neuroscienziata allo University College di Londra, autrice di «Inventare se stessi» (Bollati Boringhieri). Un saggio che scandaglia i processi evolutivi dei ragazzi e delle ragazze per educarli al meglio e liberarne la creatività e che allo stesso tempo suggerisce possibili strategie di gestione. «Il cervello subisce profonde modificazioni sia in termini di composizione sia di struttura. La materia bianca cresce, la materia grigia diminuisce e vengono eliminate sinapsi superflue», aggiunge. Il processo - definito «pruning» o «sfoltimento sinaptico» - ha un effetto simile alla potatura delle piante: si rimuovono i «rami» più deboli per rafforzare gli altri, consolidando le strutture che forgeranno il cervello adulto.
A essere coinvolta è soprattutto la corteccia pre-frontale mediale, una regione del cervello chiave nell’interazione sociale e nella consapevolezza di sé guidata dagli altri: è per questo che gli adolescenti risentono così fortemente del giudizio dei coetanei. «Hanno un’alta propensione a essere influenzati dagli amici, specialmente quando devono assumersi dei rischi», avverte Blakemore. E se il giudizio altrui gioca un ruolo cardine in molti comportamenti violenti e autodistruttivi, come il bullismo, il «binge drinking» alcolico e la caduta nel consumo di droghe, tuttavia questo può essere utilizzato anche come «leva» da genitori e insegnanti per invogliare a seguire modelli corretti.
«Ci sono ricerche che hanno dimostrato che educare i giovani sulle conseguenze negative del bullismo, stimolandoli a ideare campagne di informazione contro i violenti, favorisce una riduzione dei fenomeni di esclusione sociale». E risultati simili si possono ottenere contro molti comportamenti devianti, compresi quelli che favoriscono fumo e alcol. Ancora più importante, alcuni studi dimostrano che gli adolescenti non sono tanto influenzati dalla minaccia di punizioni quanto dalla promessa di ricompense, specialmente se a breve. Per questo le campagne allarmistiche, come quelle sul fumo che si concentrano sugli effetti dannosi a lungo termine, hanno scarso effetto.
La tendenza a prendersi dei rischi di fronte ai coetanei, inoltre, è un comportamento che non deve essere sempre biasimato, perché contribuisce alla crescita. «Nello sviluppo e nel corso della vita prendere qualche decisione azzardata è necessario - sottolinea Blakemore -. In ambito scolastico può essere utile: alzare la mano in classe, parlare in pubblico e partecipare a una discussione accresce la fiducia in sé stessi». È anche attraverso queste «rischiose» assunzioni di responsabilità che gli adolescenti diventano adulti.
«Sappiamo che il cervello adolescente è malleabile e adattabile. Si tratta di un periodo di plasticità neuronale relativamente alta, specialmente nelle regioni coinvolte nella presa di decisioni e nella pianificazione», avverte la neuroscienziata. Queste nuove conoscenze, oltre a svelare i perché di alcuni atteggiamenti, potrebbero cambiare l’insegnamento. «Potremmo scoprire che esiste un’età ottimale in cui insegnare l’algebra o il ragionamento astratto, tenendo conto dei cambiamenti fisiologici», sottolinea. Intanto le evidenze dimostrano che gli adolescenti sono soggetti a uno spostamento dell’orologio biologico di due ore in avanti. Significa che si sentono assonnati un paio d’ore più tardi di notte e più stanchi al mattino di quanto percepiscano bambini e adulti. Una scoperta che, secondo Blakemore, dovrebbe cambiare gli orari d’ingresso nelle scuole. Così ci si adeguerebbe all’orologio interno degli adolescenti.
La Stampa 13.2.19
Ecco perché anche i papà possono cadere nella depressione post-partum
Non partoriscono, ma partecipano attivamente a tutte le fasi della gestazione. Dalle ecografie alla nascita, le emozioni e le paure che possono coinvolgere il futuro genitore
di Angela Nanni


La depressione post parto è un serio problema di salute che non coinvolge solo le neo mamme, ma anche i papà. Della depressione che può coinvolgere i papà subito dopo il lieto evento, si parla poco, ma non solo il fenomeno è di non trascurabile entità, ma può avere serie ripercussioni anche sulla vita della prole.

Secondo gli studi a disposizione gli uomini, al pari delle donne, subito dopo la nascita possono provare ansia, sviluppare dipendenza nei confronti di alcol e gioco d’azzardo, possono evitare di stare a contatto con il loro piccolo e trattenersi oltremisura al lavoro o tradire la compagna. Arrivano a sperimentare, cioè, una sensazione di inadeguatezza che li allontana dal nido familiare.
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«Gli uomini possono anche rinviare il processo di adattamento alla paternità fino a dopo la nascita del bambino. Questa esperienza è caratterizzata, inizialmente, da un senso di estraneità, poiché il padre non vive in prima persona l’esperienza di un altro dentro di sé. Il suo legame con il piccolo è mediato dal racconto della moglie e/o dalle immagini ecografiche che gli raffigurano il figlio che si sta formando. Questo non significa che, anche lui, non si crei un’immagine del futuro figlio in cui vengono proiettate fantasie, desideri, timori e problematiche inerenti la propria storia personale» racconta Rossana Riolo Psichiatra, psicoterapeuta Responsabile Centro Salute Mentale di Camposampiero , Referente Ambulatorio Mamme senza depressione del Distretto 4 Aulss 6 Euganea .
Da 10 anni è attivo proprio negli ospedali di Camposampiero e Cittadella ( Padova) un Servizio Specialistico di consultazione e cura dedicato alle donne in gravidanza e in post partum, portato avanti da un team composto da psicologi e psichiatri . Sulla scorta dell’adesione ricevuta direttamente dalle mamme e indirettamente anche dai padri che spontaneamente afferiscono all’ambulatorio Mamme Senza depressione da circa due anni, in collaborazione con l’Università di Bologna e il Prof Baldoni (capofila di un progetto di validazione di un questionario rivolto ai padri), il Servizio ha deciso di aderire alla raccolta dati in collaborazione con il Consultorio Familiare di Camposampiero. Viene presentato il questionario rivolto ai papà all’interno del percorso nascita, per individuare situazioni di disagio anche nella figura paterna.
«Il padre ha un ruolo decisivo sia in gravidanza sia nel post partum, di tutela, protezione e sostegno della diade madre-figlio. La paternità è un’esperienza entusiasmante, ma altrettanto faticosa come la maternità e quindi esposta agli stessi rischi, disagi e veri e propri disturbi, inclusa la depressione post partum che incide per un 10%, come testimoniano alcuni studi scientifici» commentano la Dott.ssa Ciulli e la Dott.ssa Donolato, entrambe psicologhe del team dedicato.
La vita ambulatoriale di ogni giorno
Viene da chiedersi come questi neo papà manifestino il loro disagio e come e se sono in grado di chiedere aiuto. A rispondere sono ancora la dott.ssa Riolo e il Dott. Mesiano, psicologo e psicoterapeuta sulla scorta della loro esperienza: «Sono meno frequenti i padri che si rivolgono direttamente al nostro Servizio per difficoltà personali di tipo psicologico nonostante la presenza di un progetto esplicitamente dedicato loro. Ciò che più spesso si verifica è una richiesta indiretta, che si costruisce nel tempo. Spesso è segnalandoci le difficoltà delle partner che i papà si interrogano sul loro ruolo e quindi si rapportano con le dinamiche del nuovo assetto della coppia divenuta famiglia. I padri tendono a identificarsi in stereotipi che giustificano il loro sentirsi messi un po’ in disparte o poco utili e di fatto allontanandosi dalla compagna sempre di più, sia fisicamente che, soprattutto emotivamente».
Manifestazioni del disagio
Ci sono dei segni che le neo mamme dovrebbero cogliere e interpretare come campanelli d’allarme circa lo sviluppo di depressione nel loro compagno dopo la nascita del proprio bambino?
«Nei neo papà si possono presentare disturbi d’ansia quali attacchi di panico e fobie. Le lamentele somatiche possono sfociare in veri e propri disturbi di somatizzazione o preoccupazioni ipocondriache. Possono verificarsi agiti comportamentali come crisi di rabbia, condotte violente, attività fisica o sessuale compulsiva, fughe nel lavoro o con gli amici; abuso di sostanze o disturbi di dipendenza da gioco d’azzardo o da internet. Queste problematiche comportano disturbi relazionali di coppia come incomprensioni, litigi, conflitti che talvolta possono sfociare anche in relazioni extraconiugali.- Racconta ancora la dott.ssa Riolo che conclude- Spesso sono le compagne a rivolgersi direttamente al nostro servizio segnalando tali difficoltà come minacciose/compromettenti per la tranquillità necessaria a poter accudire al meglio il/i figli/o.
Spesso la richiesta è di poter sentire il partner come parte integrante della triade e dunque partecipe del benessere e dell’accudimento sia negli aspetti più pragmatici e concreti e sia a quello più complicato e delicato, ovvero il sostegno emotivo-affettivo, contenendo le varie preoccupazioni che possono insorgere nella neomamma. Poter affidare tutto questo a una terza persona, qualificata e garante di uno spazio diverso dal contesto familiare o amicale, permette a entrambi di ascoltarsi e confrontarsi con i reciproci timori, angosce ma anche fantasie e speranze svincolati da sensi di colpa. Questo da avvio alla possibilità anche per il padre di dichiarare il suo stato di difficoltà e accettare un aiuto che gli permetta di riconquistare il suo ruolo a partire dal suo vissuto soggettivo e dalla sua storia personale di figlio e uomo».
La Stampa 13.2.19
Ecco perché anche i papà possono cadere nella depressione post-partum
Non partoriscono, ma partecipano attivamente a tutte le fasi della gestazione. Dalle ecografie alla nascita, le emozioni e le paure che possono coinvolgere il futuro genitore
di Angela Nanni


La depressione post parto è un serio problema di salute che non coinvolge solo le neo mamme, ma anche i papà. Della depressione che può coinvolgere i papà subito dopo il lieto evento, si parla poco, ma non solo il fenomeno è di non trascurabile entità, ma può avere serie ripercussioni anche sulla vita della prole.

Secondo gli studi a disposizione gli uomini, al pari delle donne, subito dopo la nascita possono provare ansia, sviluppare dipendenza nei confronti di alcol e gioco d’azzardo, possono evitare di stare a contatto con il loro piccolo e trattenersi oltremisura al lavoro o tradire la compagna. Arrivano a sperimentare, cioè, una sensazione di inadeguatezza che li allontana dal nido familiare.
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«Gli uomini possono anche rinviare il processo di adattamento alla paternità fino a dopo la nascita del bambino. Questa esperienza è caratterizzata, inizialmente, da un senso di estraneità, poiché il padre non vive in prima persona l’esperienza di un altro dentro di sé. Il suo legame con il piccolo è mediato dal racconto della moglie e/o dalle immagini ecografiche che gli raffigurano il figlio che si sta formando. Questo non significa che, anche lui, non si crei un’immagine del futuro figlio in cui vengono proiettate fantasie, desideri, timori e problematiche inerenti la propria storia personale» racconta Rossana Riolo Psichiatra, psicoterapeuta Responsabile Centro Salute Mentale di Camposampiero , Referente Ambulatorio Mamme senza depressione del Distretto 4 Aulss 6 Euganea .
Da 10 anni è attivo proprio negli ospedali di Camposampiero e Cittadella ( Padova) un Servizio Specialistico di consultazione e cura dedicato alle donne in gravidanza e in post partum, portato avanti da un team composto da psicologi e psichiatri . Sulla scorta dell’adesione ricevuta direttamente dalle mamme e indirettamente anche dai padri che spontaneamente afferiscono all’ambulatorio Mamme Senza depressione da circa due anni, in collaborazione con l’Università di Bologna e il Prof Baldoni (capofila di un progetto di validazione di un questionario rivolto ai padri), il Servizio ha deciso di aderire alla raccolta dati in collaborazione con il Consultorio Familiare di Camposampiero. Viene presentato il questionario rivolto ai papà all’interno del percorso nascita, per individuare situazioni di disagio anche nella figura paterna.
«Il padre ha un ruolo decisivo sia in gravidanza sia nel post partum, di tutela, protezione e sostegno della diade madre-figlio. La paternità è un’esperienza entusiasmante, ma altrettanto faticosa come la maternità e quindi esposta agli stessi rischi, disagi e veri e propri disturbi, inclusa la depressione post partum che incide per un 10%, come testimoniano alcuni studi scientifici» commentano la Dott.ssa Ciulli e la Dott.ssa Donolato, entrambe psicologhe del team dedicato.
La vita ambulatoriale di ogni giorno
Viene da chiedersi come questi neo papà manifestino il loro disagio e come e se sono in grado di chiedere aiuto. A rispondere sono ancora la dott.ssa Riolo e il Dott. Mesiano, psicologo e psicoterapeuta sulla scorta della loro esperienza: «Sono meno frequenti i padri che si rivolgono direttamente al nostro Servizio per difficoltà personali di tipo psicologico nonostante la presenza di un progetto esplicitamente dedicato loro. Ciò che più spesso si verifica è una richiesta indiretta, che si costruisce nel tempo. Spesso è segnalandoci le difficoltà delle partner che i papà si interrogano sul loro ruolo e quindi si rapportano con le dinamiche del nuovo assetto della coppia divenuta famiglia. I padri tendono a identificarsi in stereotipi che giustificano il loro sentirsi messi un po’ in disparte o poco utili e di fatto allontanandosi dalla compagna sempre di più, sia fisicamente che, soprattutto emotivamente».
Manifestazioni del disagio
Ci sono dei segni che le neo mamme dovrebbero cogliere e interpretare come campanelli d’allarme circa lo sviluppo di depressione nel loro compagno dopo la nascita del proprio bambino?
«Nei neo papà si possono presentare disturbi d’ansia quali attacchi di panico e fobie. Le lamentele somatiche possono sfociare in veri e propri disturbi di somatizzazione o preoccupazioni ipocondriache. Possono verificarsi agiti comportamentali come crisi di rabbia, condotte violente, attività fisica o sessuale compulsiva, fughe nel lavoro o con gli amici; abuso di sostanze o disturbi di dipendenza da gioco d’azzardo o da internet. Queste problematiche comportano disturbi relazionali di coppia come incomprensioni, litigi, conflitti che talvolta possono sfociare anche in relazioni extraconiugali.- Racconta ancora la dott.ssa Riolo che conclude- Spesso sono le compagne a rivolgersi direttamente al nostro servizio segnalando tali difficoltà come minacciose/compromettenti per la tranquillità necessaria a poter accudire al meglio il/i figli/o.
Spesso la richiesta è di poter sentire il partner come parte integrante della triade e dunque partecipe del benessere e dell’accudimento sia negli aspetti più pragmatici e concreti e sia a quello più complicato e delicato, ovvero il sostegno emotivo-affettivo, contenendo le varie preoccupazioni che possono insorgere nella neomamma. Poter affidare tutto questo a una terza persona, qualificata e garante di uno spazio diverso dal contesto familiare o amicale, permette a entrambi di ascoltarsi e confrontarsi con i reciproci timori, angosce ma anche fantasie e speranze svincolati da sensi di colpa. Questo da avvio alla possibilità anche per il padre di dichiarare il suo stato di difficoltà e accettare un aiuto che gli permetta di riconquistare il suo ruolo a partire dal suo vissuto soggettivo e dalla sua storia personale di figlio e uomo».


La Stampa TuttoSalute
Perché non capiamo gli adolescenti
Gli studi della neuroscienziata Jayne Blakemore svelano i meccanismi che spingono i giovani al rischio e alla ribellione: “Conoscerli significa aiutarli a diventare adulti consapevoli”
di Stefano Massarelli


Lunatici e impulsivi, irrispettosi degli adulti, che a loro volta li additano come ingestibili, perfino pericolosi. Eppure gli adolescenti di oggi non sono così diversi da quelli di ieri. «Amano il lusso, hanno cattive maniere, disprezzano l’autorità», scriveva Socrate più di 2 mila anni fa. Oggi, però, conosciamo le cause di alcuni loro comportamenti anomali, dovuti alle metamorfosi del loro cervello.
«Credevamo che si sviluppasse solo nella fase dell’infanzia, ma le ricerche hanno confermato che il cervello continua a svilupparsi nel periodo dell’adolescenza e fino a 20-30 anni», spiega Sarah-Jayne Blakemore, neuroscienziata allo University College di Londra, autrice di «Inventare se stessi» (Bollati Boringhieri). Un saggio che scandaglia i processi evolutivi dei ragazzi e delle ragazze per educarli al meglio e liberarne la creatività e che allo stesso tempo suggerisce possibili strategie di gestione. «Il cervello subisce profonde modificazioni sia in termini di composizione sia di struttura. La materia bianca cresce, la materia grigia diminuisce e vengono eliminate sinapsi superflue», aggiunge. Il processo - definito «pruning» o «sfoltimento sinaptico» - ha un effetto simile alla potatura delle piante: si rimuovono i «rami» più deboli per rafforzare gli altri, consolidando le strutture che forgeranno il cervello adulto.
A essere coinvolta è soprattutto la corteccia pre-frontale mediale, una regione del cervello chiave nell’interazione sociale e nella consapevolezza di sé guidata dagli altri: è per questo che gli adolescenti risentono così fortemente del giudizio dei coetanei. «Hanno un’alta propensione a essere influenzati dagli amici, specialmente quando devono assumersi dei rischi», avverte Blakemore. E se il giudizio altrui gioca un ruolo cardine in molti comportamenti violenti e autodistruttivi, come il bullismo, il «binge drinking» alcolico e la caduta nel consumo di droghe, tuttavia questo può essere utilizzato anche come «leva» da genitori e insegnanti per invogliare a seguire modelli corretti.
«Ci sono ricerche che hanno dimostrato che educare i giovani sulle conseguenze negative del bullismo, stimolandoli a ideare campagne di informazione contro i violenti, favorisce una riduzione dei fenomeni di esclusione sociale». E risultati simili si possono ottenere contro molti comportamenti devianti, compresi quelli che favoriscono fumo e alcol. Ancora più importante, alcuni studi dimostrano che gli adolescenti non sono tanto influenzati dalla minaccia di punizioni quanto dalla promessa di ricompense, specialmente se a breve. Per questo le campagne allarmistiche, come quelle sul fumo che si concentrano sugli effetti dannosi a lungo termine, hanno scarso effetto.
La tendenza a prendersi dei rischi di fronte ai coetanei, inoltre, è un comportamento che non deve essere sempre biasimato, perché contribuisce alla crescita. «Nello sviluppo e nel corso della vita prendere qualche decisione azzardata è necessario - sottolinea Blakemore -. In ambito scolastico può essere utile: alzare la mano in classe, parlare in pubblico e partecipare a una discussione accresce la fiducia in sé stessi». È anche attraverso queste «rischiose» assunzioni di responsabilità che gli adolescenti diventano adulti.
«Sappiamo che il cervello adolescente è malleabile e adattabile. Si tratta di un periodo di plasticità neuronale relativamente alta, specialmente nelle regioni coinvolte nella presa di decisioni e nella pianificazione», avverte la neuroscienziata. Queste nuove conoscenze, oltre a svelare i perché di alcuni atteggiamenti, potrebbero cambiare l’insegnamento. «Potremmo scoprire che esiste un’età ottimale in cui insegnare l’algebra o il ragionamento astratto, tenendo conto dei cambiamenti fisiologici», sottolinea. Intanto le evidenze dimostrano che gli adolescenti sono soggetti a uno spostamento dell’orologio biologico di due ore in avanti. Significa che si sentono assonnati un paio d’ore più tardi di notte e più stanchi al mattino di quanto percepiscano bambini e adulti. Una scoperta che, secondo Blakemore, dovrebbe cambiare gli orari d’ingresso nelle scuole. Così ci si adeguerebbe all’orologio interno degli adolescenti.

Il Fatto 13.2.19
“Sto con gli anarchici, sovversivo è lo Stato”
Donatella Di Cesare La filosofa sullo sgombero dell’Asilo: “Chi esprime dissenso oggi è criminalizzato”
di Maddalena Oliva


È tra i filosofi più presenti nel dibattito pubblico, accademico e mediatico. Saggista ed editorialista, ha vissuto sotto protezione fino a qualche mese fa per le minacce ricevute da gruppi neonazisti e neofascisti. Sabato scorso, nel pieno della guerriglia a Torino, si è schierata pubblicamente “dalla parte degli anarchici dell’Asilo, centro sociale sgomberato senza motivo”.
Ci sono indagini della magistratura in corso, 8 arresti convalidati, si parla di una vera “rete sovversiva”, non le sembra pericoloso il suo endorsement?
Ho scritto quel post perché penso, insieme a molti altri, che sgomberare in modo così violento un centro sociale come l’Asilo che esiste da 24 anni nella città di Torino sia stata un’iniziativa immotivata: un’operazione spot.
Il questore di Torino ha detto: “Non è un centro sociale normale, sono devastatori che vogliono sovvertire l’ordine democratico dello Stato”.
Sono rimasta sorpresa, e indignata, da questo linguaggio. Il questore, a proposito degli arrestati, ha parlato di “prigionieri”: parola che mi sembra inappropriata, rimanda a uno scenario bellico, da Stato di polizia. In linea con il ministro dell’Interno Matteo Salvini che ha chiesto “la galera per gli infami”, e col consigliere leghista che ha invocato un’altra Diaz. Tutto questo, sì, è allarmante per la democrazia.
L’attività investigativa identifica nell’ex Asilo Okkupato un centro operativo di una rete che ha come obiettivo la distruzione dei centri per i rimpatri dei migranti, attraverso incendi da innestare all’interno dei cpr e colpendo le aziende che collaborano nel comparto dell’immigrazione.
Chiariamolo subito: sono contraria a ogni forma di violenza fisica. Ma di cosa sono accusati gli anarchici dell’Asilo? Di aver istigato dei migranti di un Cpr a ribellarsi attraverso dei messaggi inviati in palline da tennis? Dovremmo metterci tutti davanti alle porte dei Cpr, questa è la verità. È lì che avviene la sovversione della democrazia.
Leggo già il tweet di Salvini sull’“intellettuale di sinistra radical chic”.
A certe espressioni folkloristiche ormai siamo abituati. Ma è venuto il tempo di avere il coraggio di essere impopolari, di posizioni devianti contro il consenso imperante. I Cpr sono strutture in cui le persone sono trattenute per essere espulse e scontano una detenzione per un iter amministrativo, senza aver commesso reati, solo perché stranieri. Questo fa parte, come più volte ho sostenuto, dell’universo concentrazionario. Bisognerebbe essere quindi grati a chi manifesta la propria indignazione contro questi centri. Condanno gli scontri di sabato, ma bisogna distinguere. Incendiare un materasso in un Cpr non è violenza: è violenza quella che viene esercitata dentro al centro su persone che, ripeto, non hanno commesso alcun reato. Ci sono stati degli atti che hanno incitato a forme di disobbedienza? Ce ne dovrebbero essere di più. I cittadini sono tali solo se si interrogano sulla legittimità delle leggi.
Dall’elogio della disobbedienza alla violenza il confine è sottile.
Viviamo in un’epoca autoritaria, in cui lo Stato-nazione ha perso sovranità e mostra il suo lato violento innalzando muri. Ecco perché l’anarchismo oggi è estremamente attuale: è la visione opposta al sovranismo, perché volge lo sguardo all’interno, negli interstizi di questa governance poliziesca. Non è un insulto. Anzi. È essere politici, oggi.

Il Fatto 13.9.19
Un hotel nella villa Medicea. Con lo zampino di Lotti
Montelupo Fiorentino. Il piano per affidare la gestione dell’Ambrogiana ad un privato, in barba ai cittadini
di Tomaso Montanari


Da Cosimo III de’ Medici granduca di Toscana a Luca Lotti, petalo d’eccellenza di un giglio magico renziano velocemente appassito. È nell’improbabile tragitto che congiunge questi due potenti toscani vissuti a tre secoli e mezzo di distanza che si gioca il futuro della Villa dell’Ambrogiana, spettacolare monumento che sorge in riva all’Arno, a Montelupo Fiorentino.
Il 5 aprile del 1681 il segretario di Cosimo III non riusciva a trovare parole per descrivere l’“avidità” con cui il suo padrone, nel salone dell’Ambrogiana, assisteva all’apertura di due casse venute da Roma: ne uscirono un superbo quadro di Bassano, e uno rarissimo di Bernini, appena scomparso.
Anche oggi la villa potrebbe trasformarsi in un teatro dell’“avidità”: quella di una speculazione immobiliare e di una ‘valorizzazione’ turistica desertificante che sono ormai tra le pochissime industrie della Toscana.
L’Ambrogiana è sempre stata una città proibita per gli abitanti di Montelupo: prima perché era il paradiso di giardini, collezioni, serragli esotici e conventi misticheggianti in cui si ritiravano i granduchi, da Ferdinando I a Cosimo III. Poi perché nel 1886 vi fu installato il secondo manicomio criminale dell’Italia unita, divenuto negli anni Settanta del Novecento un Ospedale Psichiatrico Giudiziario (Opg). Una storia terribile, quest’ultima, culminata nei primi anni Duemila nell’inarrestabile decadenza della villa stessa e delle condizioni di chi ci viveva, fino alla serie di tre suicidi di pazienti-detenuti, tra 2000 e 2003.
Nel 2011 arriva finalmente a Montelupo una direttrice esemplare, Antonella Tuoni, che lotta con i pochissimi fondi disponibili per recuperare la struttura storica e la qualità della vita di pazienti e lavoratori. Quando i risultati si cominciano a vedere, arriva la chiusura degli Opg: esattamente due anni fa, nel febbraio 2017, l’ultimo paziente lascia l’Ambrogiana. Ma gli appetiti erano iniziati assai prima. Il 15 dicembre del 2014 si svolge a Montelupo una tavola rotonda in cui l’allora presidente della Cassa Depositi e Prestiti Franco Bassanini, il governatore Enrico Rossi, il sindaco Paolo Masetti (Pd) e ovviamente l’allora potentissimo montelupino Luca Lotti tratteggiano il futuro dell’Ambrogiana.
Il più informato tra i vari resoconti giornalistici, quello della testata toscana online Gonews, è assai esplicito: “È necessario spiegare alcuni passaggi di Bassanini. Se per esempio nella Villa Medicea si volesse realizzare un albergo di lusso, strategico tra Firenze e Pisa, vicino a Siena e Lucca, si potrebbe separare la proprietà dell’immobile dalla gestione dello stesso, affidandola a catene internazionali, favorendone l’ottimizzazione, la promozione e i ricavi”.
Tre anni dopo, nel settembre 2017, 1.400 cittadini – tra i quali Lotti – abbracciano la Villa: una bellissima iniziativa che dovrebbe rappresentare simbolicamente l’apertura di un processo partecipato in cui decidere insieme il futuro dell’Ambrogiana.
Invece, è solo fumisteria: sulla base di un laboratorio di partecipazione promosso dal progetto culturale “Cities-Cafés”, l’opposizione “Città e Lavoro” aveva presentato quasi un anno prima in consiglio comunale una mozione con cui si chiedeva la garanzia della proprietà pubblica e della gestione dell’immobile e dell’intera area, e la partecipazione della cittadinanza alle scelte sul futuro della villa. Ma la mozione era stata respinta con il voto compatto della maggioranza Pd. “È un po’ da sognatore – aveva risposto il sindaco Masetti – dire che (l’Ambrogiana, ndr) è dei cittadini”. Il boccino, sosteneva il sindaco, è a Roma: una Roma allora renzianissima.
Puntualmente l’Agenzia del Demanio, cui il ministero della Giustizia ha “restituito” l’Ambrogiana, mette dunque a gara lo studio di “fattibilità” sulla “valorizzazione” della Villa, che viene affidato a Coop Culture e allo studio di architettura Palterer & Medardi. Tra gli scenari delineati dallo studio, l’Agenzia del Demanio sceglie quello che trasformerebbe la villa in una “Cittadella del sapere”. Uso pubblico e virtuoso al cento per cento, dunque? Non esattamente. Lo studio spiega anche come sottrarre all’uso pubblico una parte importante del complesso “attraverso la vendita/locazione/concessione della relativa area ad un privato”. Non un dettaglio, ma una falla capace di affondare la nave dell’uso pubblico, come ammette lo stesso studio di fattibilità: “L’alienazione/concessione/locazione ‘indebolisce’ i Modelli di Gestione delle altre aree, soprattutto quelle a maggior vocazione culturale (giardini piùmuseo) e potrebbe minare la logica complessiva del ‘polo della conoscenza’”. Un’ammissione che forse spiega perché il consigliere di opposizione Francesco Polverini ha impiegato mesi per avere accesso allo studio: alla faccia della partecipazione e della trasparenza.
Nel 1988 Giovanni Michelucci aveva proposto un primo, visionario progetto di recupero pubblico dell’Ambrogiana. Nel 2014 Antonella Tuoni ha prospettato un’idea diversa, e affascinante: e cioè che una parte della Villa continuasse ad ospitare un carcere, rendendo così chiaro che la storia non si rimuove e i detenuti non si nascondono come polvere sotto il tappeto. E anche che le prigioni non sono luoghi dove si ‘marcisce’, ma istituzioni che possono riscattare anche grazie alla bellezza.
Oggi la domanda è una sola: i cittadini di Montelupo (anche quelli che non si chiamano Lotti) saranno chiamati a decidere davvero del futuro del loro bene più prezioso?

il manifesto 13.2.19
Consiglio d’Europa: «Roma minaccia la libertà di stampa»
Rapporto sull'informazione nel Vecchio Continente. Governo nel mirino per il «taglio ai finanziamenti» e l’atteggiamento negativo verso i media. L’Italia osservata speciale con Russia, Turchia e Ungheria. Preoccupazione per la linea e i toni dell’esecutivo. «Di Maio e Salvini usano regolarmente sui social una retorica ostile nei confronti dei giornalisti»
di Guido Caldiron


In Italia, nel corso dell’anno appena trascorso, la libertà di stampa «si è chiaramente deteriorata» e, in ogni caso, si è «ridotta». È un allarme preciso, circostanziato, inquietante, quello contenuto nel rapporto diffuso ieri da associazioni e ong che animano la Piattaforma per la protezione e la salvaguardia del giornalismo che opera per conto del Consiglio d’Europa – tra loro, la Federazione internazionale dei giornalisti, l’Associazione dei giornalisti europei e Reporter senza frontiere -, raccogliendo denunce e monitorando a livello continentale lo stato della libertà di stampa.
NEL DOCUMENTO, intitolato «Democrazia a rischio: minacce e attacchi contro la libertà dei media in Europa», che raccoglie un lungo elenco di pressioni, abusi e violenze che arrivano fino all’omicidio – i casi di morte violenta descritti sono quelli di Jan Kuciak, Jamal Khassogi, Viktoria Marinova e Maksim Borodin, cronisti uccisi rispettivamente in Slovacchia, Turchia, Bulgaria e Russia nel corso del 2018 -, colpisce prima di tutto che la situazione del nostro Paese sia presa in esame con un report specifico accanto a quelli di realtà come l’Ungheria, la Turchia e la Russia. Il motivo di questa scelta è presto detto: l’Italia è «tra i Paesi con il maggior numero di segnalazioni pubblicate sulla piattaforma» nel corso dello scorso anno, «lo stesso numero della Federazione Russa». Cifre inoltre più che triplicate rispetto al 2017.
Complessivamente, il rapporto valuta «la situazione della libertà dei mezzi d’informazione in Europa sulla base di 140 gravi violazioni segnalate alla piattaforma nel corso del 2018», episodi e vicende che si iscrivono spesso in una drammatica continuità di repressione e violenza verso i rappresentanti della stampa indipendente, come ad esempio nel caso del regime di Erdogan in Turchia.
Per il caso italiano permangono ad esempio le indicazioni di pericolosità relative alla presenza delle organizzazioni mafiose – 21 i giornalisti minacciati di morte e per questo sottoposti alla protezione delle forze dell’ordine -, anche se le novità che hanno valso alla Penisola questa sinistra menzione speciale hanno tutte a che fare con il quadro politico definito dall’esecutivo gialloverde. Da questo punto di vista, il rapporto non potrebbe essere più esplicito. «La maggior parte degli allarmi registrati nel 2018 – si legge nel documento -, sono stati inviati dopo l’insediamento ufficiale del nuovo governo di coalizione il 1° giugno». Non solo, «i due vice premier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, usano regolarmente sui social media una retorica particolarmente ostile nei confronti dei media e dei giornalisti».
QUELLA CHE È CHIARAMENTE indicata come l’attitudine negativa del governo italiano nei confronti della libertà di stampa e degli stessi giornalisti è sottolineata a più riprese e con diversi esempi. A partire dall’«abolizione dei sussidi pubblici alla stampa», il vero e proprio attacco alle voci libere (più volte denunciato da questo giornale) che si è tradotto nella cancellazione dei contributi all’editoria non profit deciso dal governo con la recente legge di bilancio. Ci sono poi «gli insulti» rivolti da Di Maio all’indirizzo dei giornalisti o la minaccia di «rimuovere la protezione della polizia per il giornalista investigativo Roberto Saviano», più volte evocata da Salvini.
Un clima, quello che si respira nel nostro Paese, che secondo la Fnsi, citata nel rapporto, espone «i professionisti dei media» ad «un rischio costante di violenza», «alimentato dalla retorica ostile dei membri del governo e dei partiti della maggioranza».
MA SUL GIORNALISMO italiano, come ha ricordato in questi giorni Concita De Gregorio a partire dalla vicenda che la vede suo malgrado protagonista, continua a pesare, accanto alle pressioni politiche e alle minacce violente, il rischio di vedere limitata la propria autonomia e libertà da richieste di risarcimenti danni esorbitanti in cause civili che hanno l’evidente scopo di intimidire o punire le voci scomode dell’informazione.

il manifesto 13.2.19
«Stampa sotto attacco perché ostacola il potere»
Raffaele Lorusso, segretario generale della Fnsi al XXVIII Congresso. Tagli all’editoria, social network e precarizzazione minacciano la libertà di stampa
di Giansandro Merli


«Dal governo in carica sono arrivati e arrivano segnali di forte ostilità. Bisogna confrontarsi con tutti, a patto che ci siano le condizioni – ha detto
aprendo il 28° congresso della Federazione nazionale stampa italiana – Non si può dialogare con chi, come il vicepremier Di Maio, parla di infimi sciacalli, senza alcuna forma di ravvedimento auspica la chiusura dei giornali, si compiace per l’azzeramento del fondo per l’editoria. Fino a quando l’atteggiamento del governo sarà questo non potrà non esserci una reazione. Se vuole confrontarsi seriamente troverà nella Fnsi un interlocutore rispettoso e disponibile».
GIÀ IL 18 DICEMBRE SCORSO il sindacato dei giornalisti aveva manifestato a Montecitorio contro i tagli ai giornali cooperativi e delle minoranze linguistiche presentati «con grande orgoglio» dal sottosegretario all’editoria Vito Crimi (5S) e successivamente approvati dal parlamento. Secondo il governo la stampa, al pari degli altri settori, deve essere regolata dal mercato. Lo ha detto il presidente del consiglio Giuseppe Conte nel corso della conferenza stampa di fine anno rispondendo alle domande di Radio Radicale e del Manifesto, che insieme ad Avvenire e decine di altre testate cooperative sono stati colpiti dai tagli al fondo per il pluralismo.
SECONDO LORUSSO negli anni della crisi i giornalisti occupati sono passati dai 18.866 del 2008 ai 15.016 dei dati più recenti. In totale, meno 20%. Tra chi ancora riesce a lavorare nel settore la precarietà è dilagante. «La figura del co.co.co. è il principale strumento per aggirare la contrattualizzazione – sostiene – i 7.700 collaboratori coordinati e continuativi hanno una media retributiva di 9.700 euro. Svolgono le stesse mansioni ma hanno un salario sei volte inferiore a un giornalista assunto ex articolo 1». Una situazione che mette a rischio anche i conti dell’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (Inpgi): «Negli stessi anni i giornalisti pensionati sono passati da 4.256 nel 2008 a 7.240 nel 2018».
IL PROBLEMA per Lorusso è sistemico e riguarda anche le trasformazioni tecnologiche che hanno investito il settore. Mentre i colossi del web macinano guadagni da capogiro, anche grazie all’informazione prodotta nelle redazioni, non c’è alcuna redistribuzione degli utili sul mercato editoriale. «Dal 2007, quando sono arrivati iPhone e Facebook, le copie vendute sono passate da 6,1 milioni al giorno a 2,6 milioni nel 2018, incluse le copie digitali. Il mercato della pubblicità non è cresciuto come ci si aspettava rispetto all’incremento degli utenti. Negli ultimi 10 anni è aumentato da 950 milioni a 2,9 miliardi di euro. Ma il 75% di queste risorse finisce ai cosiddetti “over the top”, cioè Google e Facebook».
IL CONGRESSO è stato aperto dai messaggi delle più alte cariche istituzionali. «Libertà di informazione e democrazia sono elementi inscindibili» ha affermato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Elisabetta Casellati, presidente del Senato, e Roberto Fico, presidente della Camera, hanno sottolineato l’importanza di deontologia ed etica nella professione giornalistica. Parole che risuonano lontane dai provvedimenti del governo gialloverde che mettono in ginocchio le piccole testate e consegnano l’informazione al mercato e ai grandi gruppi editoriali. «La stampa è sotto attacco perché è l’ostacolo all’affermazione di un modello a cui il potere ambisce da sempre – ha concluso Lorusso – il modello del balcone, oggi diventato balcone telematico, dal quale il capo parla alla folla e impone la sua visione del mondo in 180 caratteri».

il manifesto 13.2.19
Foibe, il revisionismo storico forma della politica
di Davide Conti


Per settimane la classe politica italiana si è cimentata nell’uso politico della storia, misurato strumentalmente sulla torsione del passato ad uso pubblico del quotidiano e sulla caccia al «negazionista».
Così alla fine le celebrazioni del Giorno del ricordo si sono addirittura concluse a Basovizza con le parole del presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani: «Viva Trieste, viva l’Istria italiana, viva la Dalmazia italiana, viva gli esuli italiani, viva gli eredi degli esuli italiani». Contestualmente il ministro dell’Interno Salvini affermava che «i bimbi morti nelle foibe e i bimbi di Auschwitz sono uguali» cercando di stabilire una simmetria semantica delegittimante tra nazifascisti e partigiani di Tito, ovvero tra le forze dell’Asse e quelle Alleate formate da Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e appunto Jugoslavia.
Il Presidente della Repubblica della Slovenia Borut Pahor ha dovuto scrivere una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che pure al Quirinale aveva parlato delle foibe come di «odio etnico» paragonandole alla Risiera di San Sabba, esprimendo «preoccupazione per alcune inaccettabili dichiarazioni di alti rappresentanti della Repubblica italiana in occasione della Giornata del ricordo che danno l’impressione che gli eventi legati alle foibe siano stati una forma di pulizia etnica».
Il premier sloveno Marjan Sarec ha definito le parole di Tajani «un revisionismo storico senza precedenti» ricordando un punto pervicacemente omesso dalle celebrazioni ufficiali: «Il fascismo era un fatto, e aveva lo scopo di distruggere il popolo sloveno». Nel frattempo quasi tutti i deputati europei della Croazia hanno condannato le dichiarazioni di Tajani definendole «una vergogna» – come il deputato Ivan Jakovic – o «un relitto dei tempi passati» secondo Dubravka Suica.
Le successive scuse pubbliche di Tajani a Strasburgo non modificano la sostanza di quel cortocircuito storico-memoriale che ha avuto innesco con l’istituzione del Giorno del ricordo e con le modalità della sua celebrazione pubblica.
Era già accaduto nel 2007 quando il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva parlato delle violenze sul confine italo-jugoslavo come di «un moto di odio e furia sanguinaria che assunse i sinistri contorni della pulizia etnica» aggiungendo poi un’esplicita critica alla pace di Parigi «un disegno annessionistico slavo» che «prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947». L’allora presidente croato, Stipe Mesic, si disse «costernato» da quelle parole in cui era «impossibile non intravedere elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo». Protestò anche il grande scrittore Boris Pahor.
Fu il ministro degli Esteri D’Alema – già Presidente del Consiglio nel 1999 durante i bombardamenti Nato in Serbia – ad intervenire in difesa del Quirinale nell’ottica di una ricomposizione dell’incidente diplomatico che trovò negli anni successivi la sua espressione nell’incontro a Trieste di Napolitano con i presidenti croato e sloveno Josipovic e Turk in occasione della visita congiunta alla «Narodni Dom», la Casa del popolo data alle fiamme dai fascisti italiani il 13 luglio 1920, e al monumento all’esodo degli istriano-fiumano-dalmati italiani.
Quel passaggio avrebbe dovuto rappresentare una misura feconda non solo per le relazioni Roma-Lubiana-Zagabria ma soprattutto per l’Italia, come antidoto al ritorno di istanze egoistico-sociali e di «spiriti» politici regressivi e razzisti che, in assenza di compiuti conti con la storia e con il triste lascito fascista nella nostra e nelle altrui società, avranno sempre la possibilità di riemergere se si troveranno di fronte solo il guscio vuoto della retorica celebrativa. Siamo certi, in un momento storico in cui in tutta l’Europa i nazionalismi, le disuguaglianze sociali e le discriminazioni etniche hanno assunto dimensioni molto gravi, che il colloquio telefonico intervenuto tra Mattarella e Napolitano attorno al Giorno del ricordo abbia avuto al centro questi argomenti di fondo anziché – lo speriamo vivamente – le rivendicazioni dell’italianità della Dalmazia e dell’Istria ascoltate domenica a Basovizza.
Perché la storia del confine italo-jugoslavo racchiude un passaggio centrale del novecento italiano ed europeo. In quelle terre il fascismo riuscì a trarre forza ma soprattutto legittimità ancora prima di salire al potere. «In altre plaghe – scrisse Mussolini nel 1920 – i fasci di combattimento sono appena una promessa. Nella Venezia-Giulia sono l’elemento preponderante e dominante della situazione politica». I crimini di guerra italiani degli anni ’40 ne sarebbero stati la tragica conseguenza.
In quelle plaghe, oggi non più solo italiane ma europee, la fratellanza tra i popoli, enorme lascito storico delle tante Resistenze combattute nel nostro continente, dovranno tornare ad essere gli unici elementi di una nuova cittadinanza.

Il Fatto 13.2.19
Venezuela, governo su posizioni opposte
In Parlamento - Oggi relazione del ministro Moavero. La Lega sostiene il premier autoproclamato Guaidó, M5S con Maduro
Venezuela, governo su posizioni opposte
di Wanda Marra


Oggi il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, sarà in Parlamento a riferire sul Venezuela, su richiesta delle opposizioni. Previsto il voto delle mozioni. E così proprio la politica estera sarà la prima prova da affrontare per Lega e Cinque Stelle dopo il voto in Abruzzo. Sul Venezuela le due forze di governo continuano a essere su posizioni opposte, con il Carroccio di Salvini che ripete appoggio al presidente “auto-proclamato” Juan Guaidò e i Cinque Stelle vicini a Maduro. Ieri Salvini è stato l’unico ad accettare l’invito di Guaidò e a incontrare una delegazione di venezuelani – che è stata anche ricevuta in Vaticano – composta dal presidente della Commissione Esteri dell’Assemblea nazionale venezuelana, Francisco Sucre, accompagnato dall’ex sindaco di Caracas, Antonio Ledezma, e da Rodrigo Diamanti, rappresentante di Juan Guaidó per gli aiuti di emergenza provenienti dall’Europa. Ha pure telefonato al presidente incaricato, promettendogli il suo sostegno a elezioni libere.
E in serata in tv a Porta a Porta ha ribadito: “Sto Maduro prima se ne va meglio è”. L’“alleanza” con Guaidò funziona, tanto è vero che il leader del Parlamento di Caracas ha poi mandato una lettera-appello agli italiani nel quale ha espresso “profondo sconcerto” per “la posizione politica italiana” che non lo ha ancora riconosciuto come presidente.
Non hanno accolto l’invito a un incontro, invece, né Giuseppe Conte, né Di Maio. Ma a parlare con la delegazione a nome del governo è stato lo stesso Moavero. Che in questi giorni, però, è sotto tiro: da più parti, anche ai piani alti della Lega, viene criticato per la sua gestione non solo della crisi venezuelana, ma pure di quella francese.
Così, mentre Forza Italia ha presentato la sua mozione che richiede il riconoscimento di Guaidò, la maggioranza sta lavorando a una bozza, che dica tutto e niente e permetta a entrambe le forze di votarla.
Si impegna il governo “a sostenere gli sforzi di dialogo – anche attraverso fori multilaterali – al fine di procedere, nei tempi più rapidi, alla convocazione di nuove elezioni presidenziali che siano libere, credibili e in conformità con l’ordinamento costituzionale”, prevede il testo. Nel dispositivo si sollecitano anche iniziative umanitarie, per lo stop alle violenze e per la tutela degli italiani che vivono nel Paese. Trattativa in corso su come nominare Maduro. L’indicazione sarebbe quella di riconoscere l’Assemblea eletta, ma non esplicitamente lui.
Intanto Maduro ha dato il via a esercitazioni militari per i 200 anni del Congresso di Angostura, con l’obiettivo di ostentare le capacità dell’esercito. Dopo la Colombia, anche il Brasile annuncia l’apertura di un deposito vicino al confine per immagazzinare gli aiuti umanitari internazionali. Elvis Amoroso, Controllore generale – incarico con funzioni equivalenti a quelle della Corte dei Conti – ha annunciato l’apertura di un’indagine sul patrimonio di Guaidò: avrebbe “falsificato dati contenuti nella dichiarazione giurata” e “ricevuto denaro dall’estero, senza giustificarlo”.

il manifesto 13.2.19
L’Accademia ungherese sotto attacco
Senza più autonomia, fondi e ricerca. Professori e studiosi scendono in piazza a Budapest per difendere la prestigiosa Mta, su cui il governo Orbán ha messo le mani
di Massimo Congiu


BUDAPEST «Il sapere è del popolo ungherese, non del governo», si leggeva su uno dei cartelli comparsi durante la manifestazione che si è svolta ieri nel primo pomeriggio a sostegno dell’Accademia Ungherese delle Scienze (Mta), la cui autonomia è attaccata da quasi un anno dal governo di Viktor Orbán. Diverse centinaia di persone hanno formato una catena umana intorno all’edificio della prestigiosa istituzione, fondata nel 1825, e consegnato al presidente dell’Mta, László Lovász, una petizione per chiedere di non accettare la liquidazione della rete di istituti di ricerca che fanno capo all’Accademia.
LE MANIFESTAZIONI per la libertà accademica e per protestare contro il trasferimento a Vienna della Ceu (Central European University) fondata da George Soros, sono iniziate alla fine dell’anno scorso con una discreta partecipazione di gente. La mobilitazione che ha avuto luogo nell’ultima settimana di novembre e che si è intensificata nel corso del mese successivo, non ha però ottenuto che il governo modificasse i suoi piani basati su una chiara volontà di estendere il suo controllo sulla vita pubblica del paese.
L’anno scorso l’esecutivo ha deciso di trasferire sostanze economiche e competenze al neocostituito ministero per l’Innovazione e la Ricerca guidato da László Palkovics per rendere la ricerca più competitiva, secondo la motivazione ufficiale delle autorità. In ambito umanistico, denunciano i ricercatori, sono stati creati, negli ultimi anni, una decina di istituti di ricerca in aperta competizione con i quindici coordinati dall’Accademia. Secondo i ricercatori dell’Mta, l’obiettivo di Palkovics, e quindi del governo, è quello di ridurre l’Istituzione a una sorta di «innocuo club accademico» composto, per lo più, da studiosi in pensione, sul modello della riorganizzazione dell’Accademia Russa delle Scienze, avvenuta fra il 2013 e il 2014. Una nota del Forum dei ricercatori mette in guardia: la rete di centri di ricerca dell’Mta, forte di 5mila membri attivi, è destinata ad essere trasferita in università o centri di ricerca controllati dallo Stato o ad essere soppressa. «Diversi centri operanti per lo più nell’ambito delle discipline umanistiche e delle scienze sociali potrebbero essere facilmente etichettati come ’non produttivi’ e quindi smantellati», si legge nella nota.
POCO DOPO le elezioni dello scorso anno, vinte dal Fidesz, il partito di Orbán, sono comparse liste di proscrizione, alcune delle quali recanti nomi di studiosi rei di occuparsi di argomenti relativi all’immigrazione, all’omosessualità e alle questioni di genere. Temi, gli ultimi due, il cui studio va disincentivato, secondo le autorità di Budapest, perché il paese non può permettersi di legittimare tendenze sessuali devianti, dato il suo saldo demografico negativo. Il governo ha così colpito a suon di decreti gli studi di genere costringendo le facoltà di sociologia a sopprimere le relative cattedre. D’altra parte le parole pronunciate di recente da Zoltán Kovács, portavoce del gabinetto Orbán, sono chiare: «Queste ricerche non coincidono con la filosofia del governo». Governo che, nella riforma dell’istruzione, obbliga le scuole pubbliche ad adottare solo libri di testo pubblicati dal Centro Statale per lo Sviluppo dell’Istruzione (Ofi), al posto di quelli messi in circolazione da editori privati. Si parla di testi che descrivono l’immigrazione come un pericolo per i valori della nazione, e l’Unione europea come un entità dal quale il paese si deve difendere.
LA COMUNITÀ SCIENTIFICA è in subbuglio. All’interno dell’Mta è nato un gruppo di studiosi, Stadium 28, assai attivo nella campagna in difesa dell’Accademia, contro la decisione dell’esecutivo di controllarne l’attività, il budget e i temi di ricerca. Numerosi studiosi dell’Mta hanno firmato una lettera destinata all’esecutivo e al ministro Palkovics per chiedere il ripristino dell’autonomia dell’Accademia, quell’autonomia giuridica e amministrativa di cui l’Istituzione ha potuto godere fino all’anno scorso. Ora però la situazione è cambiata, in peggio. Lo storico italiano Stefano Bottoni, membro dell’Mta, ha rivolto un appello per chiedere solidarietà alla comunità scientifica italiana in sostegno alla lotta degli accademici ungheresi. Come scrive Bottoni, le autorità di Budapest sanno che «dal 2021 l’Ungheria perderà parte dei finanziamenti europei», si parla di 6 miliardi di euro in meno per il periodo che va dal 2021 al 2027. La sola eccezione è quella riguardante il settore dell’innovazione. Per cui, fa notare lo studioso, lo smembramento dell’Accademia e dei suoi centri di ricerca è funzionale al controllo governativo sulle ingenti somme destinate al comparto. Aspetti economici a parte, Bottoni parla di «epurazione scientifica, la più drastica di sempre nella storia del paese». Sono in linea con questo clima le frasi pronunciate in un’intervista dal nuovo direttore del Museo Letterario Petofi, Szilárd Demeter, secondo il quale vale la pena di agevolare il lavoro degli scrittori ungheresi le cui opere si rivolgano ai loro connazionali e possano essere considerate, anche in futuro, parte integrante della letteratura ungherese, e non di quanti, per motivi definiti puramente commerciali, aspirino soprattutto a essere tradotti all’estero e a raggiungere la popolarità internazionale.

La Stampa 13.2.19
L’eroe della Mauritania: “Libererò il popolo dalla schiavitù”
Biram Dah Abeid da 20 anni sfida le élite religiose di Nouakchott: «L’Europa smetta di fare affari coi governi corrotti»
di Francesca Paci


Lo Spartaco mauritano che stamattina racconterà a Roma come abbia spezzato le catene del silenzio intorno alla schiavitù africana è un gigante buono. Si chiama Biram Dah Abeid ma l’hanno ribattezzato il Mandela di Nouakchott per la determinazione pacifica con cui da oltre vent’anni porta avanti la sua battaglia sfidando la prigione e l’odio giurato delle élite religiose del suo Paese. Arriva alla sede della Federazione Italiana Diritti Umani, che ha organizzato il convegno «La schiavitù nel XXI secolo» (oggi alle 9,30 a Palazzo Giustiniani), con una lunga tunica celeste, il passo solido, mani grandi che una legge più vecchia del tempo avrebbe voluto legate. Quando nel 2013 l’Onu gli conferì il premio per i diritti umani il mondo si accorse di colpo della sua «Initiative de Résurgence du mouvement Abolitionniste de Mauritanie»: poi tutto passa, veloce, si dimentica.
Come spiega l’oblio che, a parte qualche sortita nell’inferno dei migranti, avvolge la schiavitù contemporanea come se l’incubo di «Radici» fosse sepolto con il ’900?
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«Persiste purtroppo un’illusione occidentale nei confronti del mondo arabo musulmano. L’occidente ha condiviso con alcune élite africane la lotta contro la schiavitù dei bianchi ma non ha mai affrontato il tema della schiavitù nelle società arabe. L’idea diffusa è che la schiavitù abbia coinciso con la tratta atlantica degli africani tra il XVI e il XIX secolo ma c’è anche quella araba-musulmana che, nel silenzio generale, ha visto trasferire uomini, donne e bambini verso l’Africa del Nord, la penisola Arabica, il Medioriente. La rimozione risale alle battaglie contro l’aphartaid, lo schiavismo afro-americano, le guerre d’indipendenza, quando nel nome di una solidarietà continentale e confessionale tra arabi e africani si mise da parte questa conflittualità atavica nascondendola al mondo. È così che la schiavitù nei Paesi arabo-musulmani è rimasta tale e quale era nel XII secolo, in Sudan, in Algeria, in Ciad, in Marocco, in Libia. Si discute tanto della schiavitù dei migranti in Libia ed è reale, ma con Gheddafi era la stessa cosa, i migranti diretti in Europa sono schiavi nuovi che si sommano a quelli di prima. Poi c’è il caso della Mauritania».
Cos’ha in più la Mauritania?
«Ha l’entità del fenomeno. Il 20% dei miei connazionali sono schiavi e il 35% sono schiavi affrancati, significa oltre metà della popolazione. E parlo di gente che lavora senza orario, senza salario, senza diritti civili, senza documenti né alternative a meno di essere sciolta dal padrone. È così da sempre e la Francia, concedendo l’indipendenza dopo 70 anni di colonialismo, ha garantito anche l’impunità alle minoranze arabo-berbere che gestivano la schiavitù prima e oggi sono al potere. Nel 1982 e poi nel 2007, dopo dure e ripetute rivolte, la schiavitù è stata ufficialmente bandita ma giacché nessuna legge la punisce sta lì viva e vegeta».
Nel 2012, durante una protesta, è stato arrestato per aver bruciato un breviario musulmano. Cosa c’entra l’islam?
«Il razzismo, da cui proviene la schiavitù, ha tante cause e quella economica è la meno importante. Il codice d’onore degli arabi per esempio, considera degradante il lavoro, nei campi come in cucina, e prevede gli schiavi per questo. È così da secoli e da secoli gli schiavi partoriscono schiavi che i padroni si trasmetteranno in eredità. Poi c’è la religione, che sin dall’inizio è servita da giustificazione. In Mauritania si racconta che i futuri schiavi e i liberi fossero nati uguali. Poi, durante un temporale, i primi si coprirono la testa con il Corano macchiandosi la faccia d’inchiostro e Allah, ritenendoli irrispettosi, li condannò alla negritudine e dunque alla schiavitù. Ho bruciato il libro che, interpretando alcuni versi del Corano, sostiene queste follie: dice anche che le schiave sono a disposizione del padrone, possono essere abusate, vendute, condivise, affittate».
Quando ha deciso di rompere il silenzio?
«Sono libero perché mio padre fu affrancato nel ventre di mia nonna quando un sacerdote prescrisse come cura al padrone malato la liberazione di uno schiavo e quello liberò il feto. A 10 anni ho visto il primo schiavo picchiato, era più forte del suo aguzzino ma non si ribellava perché, come mi spiegò mia madre, aveva le catene nella testa, la religione, l’ignoranza. Mio padre ha voluto che studiassi perché capissi dai libri religiosi come la schiavitù dipenda dall’uomo e non da Dio: è la mia battaglia»
Cosa può fare l’Europa?
«Finché l’Europa commercerà con i governi corrotti africani la schiavitù s’intensificherà, quella stanziale come quella dei migranti. In Mauritania il 93% dell’oro estratto finisce in tasca a gruppi europei, russi, americani e cinesi, mentre il 7% va alla minoranza araba al potere, un sistema che si alimenta con la schiavitù».

La Stampa 13.2.19
Felici nella prigione di Orwell
Con “1984” ha anticipato l’attuale società del controllo digitale
di Massimiliano Panarari


Esistono dei libri straordinariamente profetici, perfino al di là delle intenzioni dei loro autori. E, in questo senso, il grande George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair, 1903-1950) è stato un autentico «sensitivo» del futuro. Omaggio alla Catalogna (1938), il suo reportage in presa diretta della Guerra civile spagnola, è stato la preconizzazione del naufragio delle illusioni rivoluzionarie del Novecento e dell’eterna lotta intestina alla sinistra, che ne ha dilapidato parecchie delle energie tra violenze, ortodossie e conformismi. Nella Fattoria degli animali (1945) ci ha spiegato perché la proclamazione dell’«uno vale uno» rappresenta una menzogna interessata e una concezione assai distorta e manipolata della società (un’allegoria oggi terribilmente d’attualità). E in 1984 - di cui ricorre il settantesimo anniversario della pubblicazione, celebrato dal nuovo numero di Origami in uscita domani - ha prefigurato l’avvento della società della videosorveglianza indiscriminata.
Un libro premonitore come pochi, e che contiene un ammonimento sempre valido, perché il socialista libertario Orwell volle metterci in guardia da un rischio, quello della negazione della libertà attraverso l’occhiuta e ossessiva «vigilanza» del Grande Fratello, che non rappresenta una prerogativa esclusiva dei regimi fascisti e comunisti. Bensì, come scriveva nel ‘49 in una lettera al sindacalista Usa Francis A. Henson (riportata su Origami), «il totalitarismo potrebbe trionfare ovunque», anche nei sistemi politici liberaldemocratici. E le votatissime tendenze politiche di questi nostri anni, avverse alla visione della società aperta e pronte a promettere protezione in cambio di una riduzione dei diritti individuali, ne costituiscono, a conti fatti, un’ulteriore conferma.
L’inquietante satira politica e sociale orwelliana, erede del filone letterario di lingua inglese che ebbe tra i progenitori Jonathan Swift, ha davvero colto nel segno, e ha occupato il nostro immaginario in maniera indelebile, divenendo un oggetto prediletto della cultura pop attraverso film, serial, fumetti e pubblicità. Si potrebbe dire che esiste un filo rosso che va dal Panopticon di Jeremy Bentham fino ai social network, e il prototipo della prigione perfetta inventata dal filosofo utilitarista si invera nelle piattaforme digitali che riempiono ossessivamente la vita quotidiana di tanti abitanti del Villaggio globale. Proprio l’Occidente neoliberale e postmoderno si è fatto (anche) «società della sorveglianza», e si è riempito di telecamere e «occhi elettronici» - per usare le formule del sociologo David Lyon - dilatando le intuizioni di Orwell.
Con una caratteristica dirompente e irresistibile, lo aveva messo bene in evidenza Michel Foucault: dopo l’invenzione benthamiana del «carcere ideale» (fonte di ispirazione per l’autore di 1984), il potere si sarebbe enormemente fortificato - così come i suoi strumenti di controllo - dismettendo il dominio verticale e dall’alto e permeando e innervando, invece, la società in modo reticolare.
Dal panottico si passa dunque alla Rete, l’amichevole Grande Fratello contemporaneo, uno dei cui padroni, Mark Zuckerberg di Facebook - insieme con numerosi altri tycoon high tech –, invita gli utenti a mostrarsi completamente aperti e «visibili» nella propria esistenza digitale. E, così, nel nome dell’ideologia della trasparenza assoluta, lo scivolamento dalla «casa di vetro» alla «prigione di vetro» è diventato veramente un attimo. Senza nemmeno più bisogno della psicopolizia, perché nella postmodernità la realtà (fattasi iperreale) supera la fantasia. D’altronde, gli attuali nazionalpopulismi non si alimentano di paradigmi comunicativi che ricordano molto da vicino la neolingua e il bispensiero creati da Orwell nel suo romanzo distopico? Come, per l’appunto, i «fatti alternativi» degli spin doctor della Casa Bianca trumpiana, che hanno fatto impennare le vendite su Amazon del libro orwelliano, dopo essere stati evocati per la prima volta nel gennaio 2017 dalla consigliera presidenziale Kellyanne Conway.
L’idea prêt-à-porter del Grande Fratello che, non visto, ci scruta incessantemente è dilagata nell’immaginario collettivo e nell’industria culturale e mediatica, da film come The Truman Show di Peter Weir (1998) ai popolarissimi (omonimi) reality show che imperversano in questi anni in tv. Fino a graphic novel che hanno lasciato un segno come V for Vendetta (1988) di Alan Moore e David Lloyd, dove il protagonista lotta contro una reincarnazione del Big Brother indossando quella «maschera di Guy Fawkes» che si è convertita nel marchio di fabbrica degli hacker di Anonymous e di svariati movimenti antagonisti. E, ancora, 1984 è stato uno degli spot commerciali più leggendari del XX secolo, realizzato da Ridley Scott per presentare il pc di Apple, mettendo in scena la prometeica lotta per l’autodeterminazione e la creatività dell’individuo contro il collettivismo omologante del Grande Fratello. La perversa ironia della storia, visto che nel Terzo millennio è proprio l’Ideologia californiana (di cui Steve Jobs ha rappresentato uno dei primi predicatori) ad avere implementato, tra gli inconsapevoli applausi di tutti noi consumatori e navigatori, la predizione del controllo totale fatta dallo scrittore e giornalista britannico a metà del Secolo breve.—

Repubblica 13.2.19
Nelle profezie di McLuhan ci siamo tutti noi
Lo studioso scomparso, autore di formule celebri come "il mezzo è il messaggio" e "villaggio globale", torna in libreria con un volume rielaborato dal figlio. Che svela l’attualità delle sue teorie nell’era dei social e dei populismi
di Marco Belpoliti

Tutti conoscono Marshall McLuhan, o l’hanno sentito citare almeno una volta. Le sue formule hanno fatto epoca: il medium è il messaggio, il villaggio globale, media caldi e media freddi, e altre ancora.
L’opera che il Saggiatore manda ora in libreria è il perfetto esempio di questa capacità di stabilire analogie e pensare similarità. S’intitola Le tetradi perdute di Marshall McLuhan (il Saggiatore, pagg.
283, euro 23), resa in italiano da un abilissimo traduttore: Fabio Deotto. Uscita in lingua originale nel 2017, ha come coautore Eric McLuhan, il figlio di Marshall (il padre è scomparso nel 1980, Eric è morto lo scorso maggio).
Si tratta di un libro inconsueto, fatto di appunti, frasi, numeri, lettere. Una sorta di manuale cabalistico per leggere i media. Un’opera geniale, che oggi, a quasi quarant’anni dalla morte dello studioso, è diventata perfettamente leggibile, mentre forse non lo era quando fu redatta in forma di annotazioni manoscritte.
Dopo il trionfo del web questo libro è diventato l’I Ching dei nuovi media, che si può aprire a caso per identificare, anche senza il lancio delle monete, il punto in cui siamo ora, e poi quello in cui saremo tra qualche tempo, dopo le prossime rivoluzioni tecnologiche.
Invece degli esagrammi dell’I Ching, i due McLuhan usano le tetradi. Mi spiego. Il libro più importante dello studioso canadese è Understanding Media: The Extensions of Man,
da noi reso con Gli strumenti del comunicare (il Saggiatore).
Esce nel 1964, poi l’autore pensa di pubblicare un’edizione rivista. Nel realizzarla Marshall e figlio si rendono conto che esistono delle leggi adatte alle tecnologie umane come ai linguaggi, alle teorie come alle leggi scientifiche. Pensano a una revisione che non somigli al saggio già uscito. Basata su tetradi – quattro indicatori – espresse in forma di schemi: le quattro leggi che governano tutte le innovazioni umane, dagli occhiali alla finestra, dalla vite al jet lag, dall’anestesia alla guerra. In questo modo: ogni innovazione 1) amplifica; 2) rende obsoleto; 3) recupera; 4) capovolge qualcosa che c’era prima.
Un’idea affascinante.
Naturalmente i conformisti editori americani dicono di no.
Esce così in forma accademica La legge dei media: la nuova scienza (in italiano da Edizioni Lavoro, 1994) e solo lo scorso anno Le tetradi perdute, dove è mostrato il processo grezzo di invenzione, in "versi e in prosa".
Sono solo sessantacinque tetradi rispetto alle centinaia individuate dai due McLuhan; tuttavia bastano per i fuochi di artificio che fanno esplodere nella testa. Per non essere vago provo a fare qualche esempio.
Cominciamo dalla politica: «politica elettrica», cioè l’epoca in cui viviamo dalla radio a Twitter, da Mussolini a Trump. Conseguenze: amplifica la burocrazia (avete presente quante carte digitali ci tocca compilare oggi per ogni cosa?); rende obsoleta la politica (scritto nel 1974!); recupera la diplomazia (segreta) nella gestione dei conflitti (hanno ragione i complottisti?); poi si ribalta in: «l’ubiquo, l’immagine dell’Imperatore» (avete presente Trump?). Non vi convince? Allora ecco lo specchio: amplifica l’ego e il distacco; «rende obsoleta la maschera sociale e l’aspetto pubblico»; «recupera la modalità di Narciso»; la visione esteriore diventa interiore.
McLuhan, in un passaggio, cita Mumford: «La personalità in abstracto, parte dell’Io reale, si scinde dallo sfondo naturale e dalla presenza degli altri uomini». Sono idee che valgono libri di sociologia del contemporaneo e dei media lunghi centinaia di pagine.
Di sicuro queste pagine sono state saccheggiate senza citarle mai, cosa che con McLuhan fanno in molti vista la genialità delle sue affermazioni che sono anche oscure, come l’I Ching, del resto. Un esempio fra i tanti: «Le lettere sono un’estensione dei denti, l’unica parte del corpo ad essere lineare e ripetitiva». Riguardo la privacy ci sono due passaggi antitetici, eppure complementari. Uno riguarda la macchina fotografica.
McLuhan sostiene che rende obsoleta la privacy.
Ha perfettamente ragione: ora tutto è visibile, le persone, le case, gli oggetti, le azioni.
I selfie da questo punto di vista non aggiungono niente di nuovo. O meglio: uniscono lo specchio e la macchina fotografica.
Altro dettaglio: la macchina fotografica recupera il passato come presente; «recupera il concetto di caccia grossa, catturando uno zoo di esseri umani». L’automobile invece fa il contrario: amplifica la privacy. Verissimo. Poi gli esseri umani hanno usato la macchina fotografica come complemento all’automobile (o viceversa?). Due visioni opposte, ma questo è anche il segreto di McLuhan: far convivere gli opposti e unire cose tra loro non collegate.
Un’altra delle idee forti dello studioso canadese, e di questo libro inconsueto, che non si finisce mai di leggere e rileggere (più e meglio di un saggio accademico), è che «le estensioni dell’uomo, con i loro ambienti derivanti, sono l’area principale di manifestazioni del processo evolutivo». McLuhan lo aveva detto sin dall’inizio degli anni Sessanta e oggi è ancora più vera.
Per concludere, senza concludere, segnalo la pagina che preferisco, dedicata al coltello, alla forchetta e al cucchiaio. Si occupa di tre cose che usiamo tutti i giorni, e di cui non ci accorgiamo più. Ecco cosa fa McLuhan: scrive del nostro visibile invisibile.

La Stampa 13.2.19
Audible porta i libri game sui dispositivi Amazon Echo
La compagnia realizzerà due contenuti interattivi, fruibili attraverso l’interazione con Alexa. Il tutto in collaborazione con Chooseco, casa editrice leader del settore
di Marco Tonelli


I libri game sono tornati di moda anche grazie a “Bandersnatch ”, l’episodio interattivo di Black Mirror, in cui lo spettatore poteva scegliere come far continuare la trama. Chooseco, la casa editrice che pubblica il marchio “choose your own adventure” (sotto il quale vengono pubblicati i libri interattivi più celebri), aveva intentato una causa contro Netflix proprio per aver utilizzato in maniera indebita questo tipo di contenuti senza aver acquisito le licenze necessarie.
Allo stesso tempo però, Chooseco ha stipulato un accordo con Audible, per portare i libri “choose your own adventure” sugli altoparlanti Amazon Echo. Insomma, le storie interattive, saranno fruibili interagendo con Alexa. Ovviamente, la voce dell’assistente virtuale verrà sostituita con quella di due doppiatori professionisti, che narreranno le avventure dei protagonisti. Per ora, sono due i titoli: “L’abominevole uomo delle nevi” e “viaggio sotto il mare”. Il primo accompagna gli ascoltatori sull’Himalaya ed è dotato di almeno 28 finali. Il secondo trascina il lettore nella città perduta di Atlantide, con 37 finali. Insomma, si tratta di contenuti pensati per un pubblico molto giovane, ma che possono essere fruiti anche da lettori adulti.
Puoi essere il primo a saperlo. Scopri le nostre inchieste
Al momento i contenuti sono liberi e Audible non ha confermato se in un futuro prossimo saranno disponibili a pagamento. Come fa notare Techcrunch, al momento le due compagnie vogliono capire se gli utenti sono interessati a questo tipo di contenuti. In caso di responso positivo, potrebbero essere realizzate anche altre storie, inserite nel catalogo Audible.


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