sabato 16 giugno 2018

La Stampa 16.6.18
Arriva l’Aquarius
Prima ancora di arrivare l’Aquarius ha già fatto un piccolo miracolo: cambiare la fama di Valencia, basta corruzione, ora è il momento della solidariet
A Valencia è l’ora della solidarietà
di Francesco Olivo


Prima ancora di arrivare l’Aquarius ha già fatto un piccolo miracolo: cambiare la fama di Valencia, basta corruzione, ora è il momento della solidarietà. Sintesi schematica di una trasformazione che è ovviamente molto più sfumata. Con comprensibile fastidio dei suoi abitanti, Valencia è stata chiamata per anni la capitale spagnola della corruzione. Una definizione ingenerosa, sommaria, ma con qualche solida base: praticamente tutte le trame a base di mazzette che hanno riempito le cronache della Pensiola iberica sono passate da queste parti.
Lasciata alle spalle quell’epoca di grandeur dal retrogusto illegale, oggi la città torna in prima pagina con un altro volto: quella del «porto aperto», il molo che domani, almeno di altri imprevisti, vedrà sbarcare finalmente l’Aquarius. In quella che fu la Marina della Coppa America di vela del 2007 i preparativi sono a buon punto. Il dispositivo prevede l’impiego di mille persone, tra medici, interpreti, psicologi e operatori sociali: «Più di un professionista per ogni migrante in arrivo», dice la Croce Rossa.
Il salvataggio tragico
Le telecamere dovranno restare a 200 metri di distanza e sarà impedito ogni contatto mediatico con i passeggeri della nave, «sono stremati», avvertono i responsabili del dispostivo. E la notizia arrivata ieri conferma la portata tragica dell’evento: durante il salvataggio dei migranti, sabato scorso, due persone sarebbero morte. Molti degli attuali passeggeri, inoltre, sarebbero stati recuperati direttamente dall’acqua.
Dopo aver superato le Bocche di Bonifacio in una notte di burrasca, il convoglio composto dall’Aquarius e dalle due navi italiane che la accompagnano procede in acque più tranquille. L’arrivo previsto è per le 11 di domani mattina.
Formula 1 e visita del Papa
Nelle stesse ore alla Città giudiziaria sfilano i potenti di un tempo che si gettano fango a vicenda. E non si tratta di vicende locali, come dimostra la caduta del governo di Mariano Rajoy dovuta a uno scandalo con radici valenziane (la cosiddetta trama Gurtel). L’elenco delle malefatte dei governanti di questa magnifica città mediterranea è lungo. Praticamente tutti i governatori degli ultimi anni sono finiti male, chi in carcere, chi quasi. Idem i presidenti della provincia e i sindaci. Il crollo di Valencia è stato tanto fragoroso quanto repentino. Prima di scandali e manette, la città era stata il simbolo del boom economico nell’era di José Maria Aznar, basato soprattutto sull’immobiliare. La «burbuja» (la bolla) edilizia aveva coinvolto tutta la costa, per centinaia di chilometri si costruiva tanto e si vendeva di più grazie a mutui troppo agevolati, e gli stranieri investivano senza sosta e anche chi non poteva aveva a portata di mano il sogno della casa al mare. Parallelamente, la città viveva anni di grandeur che sfociava spesso e volentieri nella megalomania. Il Partito Popolare che con Aznar qui aveva trovato il suo unico accesso al Mediterraneo, aveva fatto di Valencia la vetrina della rincorsa spagnola. Simbolo di quegli anni è sicuramente Santiago Calatrava, architetto (valenziano) celebrato e discusso in tutto il mondo, profeta in patria grazie a opere mastodontiche, come Città delle Arti e delle Scienze di Valencia, il centro dei Congressi di Castellon e molti altri. Politica, progettisti e costruttori erano una cosa solo: il partito di Aznar e poi di Rajoy celebrava comizi faraonici, nelle stesse strutture che aveva consentito di costruire.
Le inchieste giudiziarie degli ultimi anni hanno consentito di capire come si mantenesse quel mondo luccicante: ogni occasione è stata buona per guadagnare qualcosa per il partito, Valencia doveva ospitare tutto quello che era possibile ospitare e su ogni cosa c’era la ricompensa per i politici: la Coppa America, il Gran Premio di Formula 1, i Giochi del Mediterraneo. Nemmeno la visita di Papa Benedetto XVI è sfuggita agli appetiti: dall’installazione degli schermi alle ringhiere, tutto era stato assegnato ai fornitori della lobby che poi finanziavano la campagna elettorale. Prima ancora della magistratura era stata la crisi a far crollare le illusioni, le immagini delle costruzioni vista mare lasciate a metà, sono la fotografia di anni terribili per la Spagna. Nel 2016 il Partito Popolare è stato punito alle urne, il Comune e la Regione sono ora amministrate da un’alleanza formata da tre partiti: i socialisti, Podemos e i regionalisti di Compromis, i grandi accusatori della destra, che hanno cercato di invertire la fama. Quando il governo spagnolo è finito nelle mani dei socialisti di Pedro Sanchez, appena due settimane fa, è quasi naturale la scelta: «Valencia porto aperto», arriva l’Aquarius.

La Stampa 16.6.18
Cure sanitarie

Il governo socialista di Pedro Sanchez procede con la media di un annuncio al giorno. Ieri è stata la volta della sanità universale per tutti. L’estensione riguarda anche gli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno, esclusi da una riforma del 2012 dell’esecutivo di Mariano Rajoy. Di fatto, si tratta della prima misura ufficiale dell’esecutivo di sinistra, nato con la mozione di sfiducia ai danni del Partito Popolare. Nonostante la legge lo impedisse, molte regioni spagnole avevano continuato a dare assistenza ai migranti senza i documenti, così il governo non prevede costi eccessivi per finanziare questa misura. «È una questione di decenza e di giustizia», scrive in un tweet il premier Pedro Sanchez. fra. oli.

La Stampa 16.6.18
Macron, schiaffo a Salvini
“Io parlo solo con Conte”
L’irritazione del ministro dell’Interno: perché il premier non mi ha difeso?
di Ilario Lombardo


Il capo di Stato francese Emmanuel Macron incalza il premier italiano Giuseppe Conte in visita all’Eliseo per il vertice sull’emergenza immigrazione: «So che hai un problema con Matteo Salvini - dice -. Ma il mio interlocutore sei tu. Deve essere la tua parola a contare, non quella di altri». Il ministro dell’Interno irritato: «Perché il presidente del Consiglio non mi ha difeso?». Via al piano per aprire nuovi centri in Africa.
Emmanuel Macron ha modi diretti che affondano come una lama la calma riflessiva di Giuseppe Conte. Dietro il sorriso, si scorge un’urgenza nervosa: «Giuseppe, so che hai questo problema con Salvini….ma io devo parlare solo con te. Devo essere certo che è la tua parola che conta per l’Italia. Quindi spiegami a che gioco vuoi giocare». Sono a tavola da pochi minuti, l’Eliseo offre salmone d’Isigny, tagliatelles maison, dolce cioccolato e menta. Trovano punti in comune: gli hotspot a gestione europea in Africa, «nei Paesi di origine dei migranti e di transito», ma non in Libia, priva delle minime condizioni di sicurezza. Ma ci sono anche molte distanze: sulle Ong straniere, che gli italiani non vogliono far attraccare e sulla redistribuzione delle quote. Macron insiste sui numeri per dimostrare che il carico dei profughi, soprattutto dopo l’intervento del governo Gentiloni, è quasi uguale tra Italia e Francia. Il resto, dice, è post-verità. «L’Italia deve scegliere se voltare le spalle alle relazioni europee chiudendo le frontiere», spiega confermando che la Francia aprirà i porti solo in caso di necessità.
Le preoccupazioni di Berlino
Macron interpreta lo stordimento collettivo in Europa, divisa tra chi teme il ministro dell’Interno leghista e chi invece, da Est, lo considera una testa di ariete per sfondare gli equilibri stabiliti. Per far capire a Conte quanto diffusa sia l’inquietudine degli alleati, Macron gli confida timori tedeschi: «La Merkel è davvero preoccupata. Hai visto cosa sta succedendo in Germania con il ministro dell’Interno bavarese? Lei è convinta che sia tutta colpa di Salvini» . Come aveva fatto in Canada, il presidente francese ha bisogno di misurare la fedeltà di Conte, capire i suoi margini di autonomia, e quanto l’incontinenza verbale del leader leghista peserà sul governo. Insomma, chi comanda in Italia? si chiede Macron. E poi: Conte la pensa come Salvini? Qualche giorno fa, prima della crisi diplomatica, durante un briefing, i collaboratori di Macron avevano spiegato che le intenzioni del presidente erano di affidarsi a Conte per “arginare” il ministro dell’Interno. L’affaire Aquarius lo ha spiazzato e lo sta convincendo del fatto che è Conte a “subire” il protagonismo di Salvini.
Le frecciate al Viminale
Tocca a Macron replicare agli assalti del leghista. In conferenza è un continuo riferimento, senza mai citarlo per nome, con punte di malizia diplomatica: «Io sono un democratico. Sono i capi di Stato e di governo a dettare la linea. Ed è a questo livello che si devono mettere d’accordo i Paesi, almeno fino a quando non sarà cambiata la Costituzione». Macron ridimensiona Salvini a semplice ministro e tenta di stanare Conte: sei tu il capo di governo. Il presidente francese è allo stesso tempo serafico e impietoso: «Se poi un ministro ha rapporti privilegiati con altri e avvicina le posizioni può essere utile per una riconciliazione». Si riferisce ai paladini di Visegrad di Ungheria e Polonia, e all’alleanza tra Vienna-Roma-Monaco, l’«asse» così definita dal premier austriaco Sebastian Kurz e sponsorizzata da Salvini, una formula che a Macron ricorda i tempi più bui della storia.
I leghisti irritati
Al fronte orientale, il presidente francese oppone il coinvolgimento di Germania e Spagna, citati di continuo, come partner privilegiati «per valori e principi».Solidarietà contro respingimenti, diritto internazionale contro muri. Macron mette all’angolo Conte. Con quale Europa ha scelto di stare? La risposta si tiene in equilibrio tra l’adesione del premier alla linea dura nel caso Aquarius e la distanza con il leghista sull’alleanza in Europa: «C’è piena condivisione con il ministro Salvini. Ho io la responsabilità dell’indirizzo politico delle iniziative di governo. Sull’asse la penso come Macron e ne vorrei una di tutti i Paesi europei». Le agenzie battono la notizia. Salvini viene informato, chiede spiegazioni, storce il naso: «Non mi ha difeso». I vertici della Lega si attivano e telefonano al premier. «Perché non hai difeso Salvini?».

Emmanuel Macron ha modi diretti che affondano come una lama la calma riflessiva di Giuseppe Conte. Dietro il sorriso, si scorge un’urgenza nervosa: «Giuseppe, so che hai questo problema con Salvini….ma io devo parlare solo con te. Devo essere certo che è la tua parola che conta per l’Italia. Quindi spiegami a che gioco vuoi giocare». Sono a tavola da pochi minuti, l’Eliseo offre salmone d’Isigny, tagliatelles maison, dolce cioccolato e menta. Trovano punti in comune: gli hotspot a gestione europea in Africa, «nei Paesi di origine dei migranti e di transito», ma non in Libia, priva delle minime condizioni di sicurezza. Ma ci sono anche molte distanze: sulle Ong straniere, che gli italiani non vogliono far attraccare e sulla redistribuzione delle quote. Macron insiste sui numeri per dimostrare che il carico dei profughi, soprattutto dopo l’intervento del governo Gentiloni, è quasi uguale tra Italia e Francia. Il resto, dice, è post-verità. «L’Italia deve scegliere se voltare le spalle alle relazioni europee chiudendo le frontiere», spiega confermando che la Francia aprirà i porti solo in caso di necessità.
Le preoccupazioni di Berlino
Macron interpreta lo stordimento collettivo in Europa, divisa tra chi teme il ministro dell’Interno leghista e chi invece, da Est, lo considera una testa di ariete per sfondare gli equilibri stabiliti. Per far capire a Conte quanto diffusa sia l’inquietudine degli alleati, Macron gli confida timori tedeschi: «La Merkel è davvero preoccupata. Hai visto cosa sta succedendo in Germania con il ministro dell’Interno bavarese? Lei è convinta che sia tutta colpa di Salvini» . Come aveva fatto in Canada, il presidente francese ha bisogno di misurare la fedeltà di Conte, capire i suoi margini di autonomia, e quanto l’incontinenza verbale del leader leghista peserà sul governo. Insomma, chi comanda in Italia? si chiede Macron. E poi: Conte la pensa come Salvini? Qualche giorno fa, prima della crisi diplomatica, durante un briefing, i collaboratori di Macron avevano spiegato che le intenzioni del presidente erano di affidarsi a Conte per “arginare” il ministro dell’Interno. L’affaire Aquarius lo ha spiazzato e lo sta convincendo del fatto che è Conte a “subire” il protagonismo di Salvini.
Le frecciate al Viminale
Tocca a Macron replicare agli assalti del leghista. In conferenza è un continuo riferimento, senza mai citarlo per nome, con punte di malizia diplomatica: «Io sono un democratico. Sono i capi di Stato e di governo a dettare la linea. Ed è a questo livello che si devono mettere d’accordo i Paesi, almeno fino a quando non sarà cambiata la Costituzione». Macron ridimensiona Salvini a semplice ministro e tenta di stanare Conte: sei tu il capo di governo. Il presidente francese è allo stesso tempo serafico e impietoso: «Se poi un ministro ha rapporti privilegiati con altri e avvicina le posizioni può essere utile per una riconciliazione». Si riferisce ai paladini


La Stampa 16.6.18
Il costruttore trattava col M5S per conto della Lega
“Un premier terzo, poi voi vi spartite i ministeri”
Interrogatorio parallelo tra Lanzalone e Raggi...
di Francesco Grignetti Edoardo Izzo


Luca Parnasi si considerava il king-maker della nuova maggioranza. E non era un’impressione così campata per aria. Nei giorni delle consultazioni e delle trattative segrete, Parnasi e l’avvocato Luca Lanzalone s’incontrano al bar e discettano di grandi strategie. Parnasi: «Stamattina ho incontrato Giancarlo (Giorgetti, ndr) in aeroporto. La cosa va chiusa velocemente perché l’altro Matteo martedì o mercoledì si incontrerà con il Cavaliere».
È l’8 aprile quando Salvini partecipa a un vertice ad Arcore. Nelle stesse ore, Di Maio minaccia di «chiudere un forno» e di fare l’accordo con il Pd. E questa prospettiva non piace affatto ai due. Sempre Parnasi, tra il serio e il faceto: «Giorgetti mi ha detto che il contratto va firmato subito perché loro sono di Varese, mentre lui è di Pomigliano d’Arco...». Risate. Lanzalone, che appare sempre più un plenipotenziario del M5S, gli risponde però che «c’è una spinta forte dei media ad andare verso il Pd e non verso il centrodestra». Ma questa ipotesi a Parnasi piace poco. Gli propone uno schema di gioco, che guardacaso sarà quello vincente: «Serve una persona super-partes. Poi vi spartite i ministeri. Ma servono regole precise per l’alleanza». E conclude: «Tu fai riferimento a Giancarlo...». Giancarlo Giorgetti, ovvero l’altro plenipotenziario.
«Su mandato di Giancarlo...»
Ora, la cena per far conoscere Giorgetti a Lanzalone, Parnasi l’aveva organizzata il 12 marzo. Le cose però avevano cominciato a traballare. Erano subentrati gli insulti. E si arriva all’8 aprile. Lanzalone ha un problema con i giornali, con Dagospia in particolare, e perciò Parnasi vuole che si incontri con il suo amicone Luigi Bisignani. Prima prepara l’incontro. E per spiegargli qual è il suo vero ruolo, di king-maker, Parnasi si sbilancia. A Bisignani racconta del colloquio con Lanzalone. «Gli ho spiegato anche politicamente... anche su mandato di Giancarlo, no?...se si chiude l’accordo Cinquestelle-Lega, si deve chiudere in settimana. Il rischio che il Pd si sfaldi, si smonti, è altissimo. E che quindi gli si crei un’alternativa di governo al mondo Cinquestelle».
Il costruttore si riferisce al maremoto che attraversa i dem in quei giorni, con quelli che vogliono aprire a Di Maio e quelli contrarissimi. Ancora Parnasi a proposito del colloquio con Lanzalone: «Gli ho detto: “Guarda, l’alternativa, te lo dico perché poi ci sono, è chiaro che il giorno che il mondo Pd scopre che vuole fare l’accordo con i Cinquestelle, e che quindi il mondo Pd è compatto per fare un accordo, fa l’accordo con il centrodestra. Non lo fa certo con voi”».
Parnasi incontra Giorgetti a ripetizione. I carabinieri, doverosamente, quando arriva un parlamentare evitano di riportare i loro colloqui. È curioso, però, che dopo un colloquio a tavola, il 16 maggio, dopo che Giorgetti ha raggiunto Parnasi che era già insieme con un sacerdote, il costruttore si precipita in ufficio, non sta nella pelle, e dice alla sorella Flaminia e alla madre che «a breve passerà un avvocato dei Cinquestelle che potrebbe essere nominato primo ministro». Parnasi aveva visto giusto, solo che l’avvocato che diventerà premier non sarà Lanzalone ma Conte.
Lanzalone si consola
È il 2 giugno quando Lanzalone si confronta il suo collega Luciano Costantini e si sfoga: «Stamani alla cerimonia c’era solo Luigi (Di Maio, ndr). È sbagliato». I carabinieri annotano: «Luciano Costantini afferma che Alfonso (il ministro della Giustizia, Bonafede, ndr) gli ha detto che vorrebbe portarlo ovunque e aspetterà che gli indichi la posizione che vuole assumere. Luciano gli ha chiesto che cosa serve. Alfonso gli ha risposto che non ha ancora capito come funziona il ministero».
Se Costantini è quasi sistemato, Lanzalone di sé dice di «avere detto a Luigi (Di Maio, ndr) che è interessato alla nomina a commissario straordinario in qualche amministrazione straordinaria piuttosto che in Cassa Depositi e Prestiti». Già, i due avvocati sono uomini di mondo e puntano al sodo. Annotano i carabinieri: «Parlano degli amministratori giudiziari che sono sempre gli stessi e citano Laghi (Enrico Laghi, amministratore straordinario di Ilva e Alitalia, amico di Lanzalone, ndr) che fattura 700 mila euro al mese». Ah, ecco.

La Stampa 16.6.18
“Azzurro è stato il mio Sessantotto
Cinquant’anni passati in un lampo”
di Michela Tamburrino


Sotto il cielo cobalto di Roma che si fa rosa sui resti delle Terme di Caracalla, Paolo Conte regala un caleidoscopio di suggestioni. C’è freddo, pioggia, crolla a terra una fila di poltronissime. Lui siede al pianoforte e la musica che ne viene porta caldo al cuore. È l’apoteosi del jazz, boogie dixie, blues, milonga, rimandi alle sonorità ebraiche, tutto è swing negli arrangiamenti sontuosi. L’epifania della musica si raggiunge quando ogni canzone è una rivelazione, tracima in sinfonia e con Diavolo rosso ci si augura non debba mai finire. Orchestra straordinaria con ospiti d’eccezione; i fiati senza eguali, le chitarre, i mandolini, il bandoneon per conservare quel tanto d’antico, il violino che incanta di Piergiorgio Rosso.
Stanno lì immobili Arbore, Gentiloni, Fassino, Baricco, pubblico da cocktail, ma si è bissato anche ieri e poi via a Montreux, Gent, Milano, Parma e Bologna. Conte incassa standing ovation e sorride. Solo su Azzurro si confonde una prima volta e poi ancora ma non fa niente, sembra un vezzo pensato: «Per chi è appassionato di jazz un errore è la possibilità di aprire un’altra strada, avere nuova luce. Quello che è disastro in orchestra è benvenuto nel jazz».
Segno del Capricorno
E dire che si festeggiano proprio i cinquant’anni di questa canzone epica. «Capii che sarebbe diventata quella che è quando Adriano Celentano decise di cantarla. L’accerchiamento fu massiccio, uno a fargli la posta sotto casa e poi lui decise di ascoltarla, cantata da me e registrata sul Geloso mentre si faceva la barba in bagno. Che non gli era dispiaciuta fu chiaro subito. Una canzone che mi è rimasta nel cuore. Cinquant’anni passati in un lampo». E sì che Conte con il tempo che passa non va tanto d’accordo: «Che vuole, sono del segno del Capricorno, c’è Saturno, un rapporto teso con gli anni. Mi dico che ci sono tante stagioni nella vita, che la gioventù non è la migliore, che anche da vecchi si può vivere bene. Mi dico. Ma la vecchiaia non mi piace».
Ottantuno primavere non le dimostra, oramai è perfino caduto in prescrizione quel tabù sul vero autore delle parole di Azzurro che porta la firma di Pallavicini: «Che dire, alla Siae ero iscritto solo come musicista. Per questo non posso dire chi l’ha scritta. Però mi sto convincendo di essere stato un buon paroliere. La musica fa più colpo, nasce dal vuoto ed è così forte che da sola scrive la pagina».
Può scrivere anche la storia o ignorarla come è capitato per Azzurro, partorita in pieno Sessantotto, la rivoluzione operaia e studentesca. E lei che canta di pomeriggi colorati e di treni dei desideri. «Io il ’68 non l’ho vissuto, già lavoravo con mio padre. Anche nelle mie canzoni non ho mai voluto mettere messaggi, ho raccontato l’uomo che conoscevo io. Ho vissuto tanto e ho incontrato personaggi. Sono metastorie, parlo del tipico uomo del dopoguerra. L’ho visto risollevarsi dal disastro, rifarsi una facciata e l’ho anche visto fallire. Ho provato pietà per lui».
Scrive solo Paolo Conte perchè se la vede sempre da solo e comunica solo quando è sicuro di quello che ha composto: «Scrivo di notte, oscurità, solitudine, silenzio. E nessuno ascolta, non amici, solo i miei musicisti. Il giudizio altrui dato in corso d’opera mi turberebbe, le reazioni mi manderebbero in crisi. Il giudice unico sono io, se c’è una sequenza armonica che cammina allora va bene».
Un trifoglio tra i quadrifogli
E quando Azzurro fu proposta per sostituire l’Inno di Mameli lui rise: «Mi avessero interpellato avrei detto di no».
E non si tratta neppure della sua canzone prediletta: «Preferisco Impermeabili per la musica e Genova per noi per le parole». Nelle notti insonni di scrittura e solitudine le pensa tutte, persino una frase da dire in occasione di un Oscar. Meglio, di un Nobel. «Non si sa mai che dire in quei casi. Io ci ho pensato: “Mi sento come un trifoglio in un campo di quadrifogli”. La butto sulla falsa modestia». Che di solito funziona. Di che ha nostalgia Paolo Conte? «Del diritto. Sono un avvocato in pensione e vengo da una famiglia di notai. D notte provo nostalgie tecniche. Immagino contenziosi da risolvere mentre metto su dischi jazz Anni 20 o mi guardo la classica in tv. E mi addormento».
Non si sente contemporaneo ma lo è. Calcutta ha ripreso il suo riff di Sparring Partner al pianoforte portandolo alla chitarra. «Pensare che a Parigi quando mi chiedevano di definire il mio genere rispondevo: “Confusione mentale fine secolo”». Tanto per uno che ama Aznavour e Josephine Baker: «Ci sono cose nel mondo nuovo che non decifro. Spero nella tecnologia applicata a fin di bene. Alla medicina». E il Festival di Sanremo fatto da Baglioni? «Non l’ho seguito e non lo seguirò. E anche se avessi una canzone da Festival non la porterei al Festival».
In autunno uscirà il disco live del concerto a Caracalla, tutto esaurito. Uscendo c’è un ragazzo che dice alla fidanzata: «Questo è l’unico Conte che si vuole ascoltare». E lei di rimando: «Perchè il calciatore suona?» Lui ancora: «Ma no parlavo del Presidente del Consiglio», lei, tombale: «Ma non si chiama Salvini?». Fine dello show.
il manifesto 16.6.18
Trump vuole il football in ginocchio
Stati Uniti. La lunga lotta tra il presidente e i Philadelphia Eagles, campioni dello sport nazionale americano. The Donald ha annullato la loro visita alla Casa Bianca dopo le proteste dei mesi scorsi
di Nicola Sellitti


Ci è cascato di nuovo, Trump. Il suo distacco dal football americano e in genere dallo sport nazionale è sempre più marcato. Un canyon, migliaia di yards, dopo la decisione presa nel suo studio ovale di annullare la visita alla Casa Bianca dei Philadelphia Eagles, campioni nazionali di football americano. È la prima volta che un presidente straccia l’invito per una squadra di football, un gesto irrituale (ma The Donald si sa, bada poco al protocollo), ultimo passaggio della polemica infinita con la National Football League, il primo campionato che da due anni ha cominciato a esprimere profondo dissenso per espressioni e provvedimenti razzisti dell’inquilino della White House.
Da Koolin Kaepernick, asso afroamericano dei San Francisco 49ers – ancora senza squadra da oltre un anno e ora riferimento della comunità nera, dopo l’anatema presidenziale sulla sua presenza nella Lega, subito recepito dalle franchigie – inginocchiato durante l’esecuzione dell’inno nazionale fino alla reazione a catena di altri atleti (anche non afroamericani), di altri campionati, dalla Nba fino all’hockey nazionale, mentre il baseball, lo sport dei bianchi, ha inserito il silenziatore. Gesti significativi, mai violenti, come invece violente, volgari, intolleranti, sempre attraverso i social, sono state le reazioni di Trump. E altra benzina sul fuoco nel rapporto tra Nfl e The Donald – anche se tanti proprietari di franchigie appartengono alla sfera dei repubblicani – è stata gettata dalla regola – approvata recentemente dai patron della lega del football timorosi di altre reprimende presidenziali, che vieta espressamente agli atleti di inginocchiarsi con caschetto e paradenti. Potranno manifestare sì, ma nel chiuso dello spogliatoio… . In pratica, la protesta degli invisibili.
Ma Trump non si è detto soddisfatto, anzi. «Restare negli spogliatoi durante l’esecuzione dell’inno dimostra la stessa mancanza di rispetto verso il Paese che lo scegliere di inginocchiarsi» ha detto il presidente a Fox News – il suo network – che ha fatto girare immagini dei giocatori di Philadelphia in ginocchio prima di una partita della scorsa stagione, alludendo a proteste anti inno, mentre in realtà erano raccolti in preghiera. La scelta di non invitare gli Eagles alla Casa Bianca ha provocato reazioni nello sport americano (e non solo). Lebron James, la stella della Nba – lo scorso anno aveva twittato contro Trump dandogli del «buffone», perché reo di aver «respinto» la visita dei Golden State Warriors, vincitori del titolo 2017, (il team aveva anticipato l’intenzione di non sfilare davanti al presidente) – ha annunciato, assieme alle stelle di Golden State contro cui si sta giocando il titolo: «chiunque vincerà, non andrà alla Casa Bianca». «Vuole soltanto dividerci per scopi politici» è stato il commento di Steve Kerr, tecnico di Golden State, una delle menti elette dello sport americano con padre diplomatico per il governo americano ucciso a Beirut negli anni Ottanta.
il manifesto 16.6.18
Parità di diritti uomo-donna in Tunisia, il tabù dell’eredità
di Giuliana Sgrena


Il 13 agosto scorso – giorno dei diritti delle donne – il presidente Béji Caïd Essebsi aveva nominato una Commissione incaricata di elaborare proposte per adeguare le leggi all’uguaglianza uomo-donna stabilita dalla Costituzione del 2014.
Il rapporto di 235 pagine è stato consegnato al presidente l’8 giugno e reso noto martedì scorso. La Commissione Colibe – composta da cinque uomini e quattro donne esperti in materia giuridica – presieduta dall’avvocata femminista Bochra Bel Haj Hamida aveva rimandato la conclusione dei lavori a dopo le elezioni amministrative di maggio per evitare interferenze. Questo non aveva tuttavia evitato che nel paese gli islamisti si preparassero allo scontro – le proposte dovranno essere votate dal parlamento – soprattutto sulla parità nell’eredità.
L’articolazione del documento, che pure contiene delle proposte sicuramente progressiste e perfino rivoluzionarie per i paesi musulmani, mostra però un tentativo di equilibrismo su alcuni temi e finanche di compromesso su altri, nel tentativo di fare accettare ai settori conservatori riforme che rispecchiano l’evoluzione della società tunisina.
La prima parte del rapporto è dedicata ai diritti, la seconda all’uguaglianza.
Tra i punti che susciteranno maggiore dibattito vi è innanzitutto l’abolizione della pena di morte o il suo mantenimento solo nel caso in cui ci siano delle vittime. La Tunisia sta rispettando una moratoria delle esecuzioni dal 1991, tuttavia la pena di morte è prevista dalla legge antiterrorismo adottata nel luglio 2015 dopo gli attentati terroristici. Evidentemente anche la richiesta di penalizzazione degli appelli al suicidio si riferisce al martirio. Il documento ridefinisce il concetto di morale e dell’ordine pubblico.
Si richiede anche la depenalizzazione dell’omosessualità.
Per quanto riguarda la protezione del «sacro» questa non deve inficiare la libertà di coscienza e di fede delle minoranze religiose o anche dei non religiosi con la predominanza della religione ufficiale. La libertà di coscienza deve essere garantita anche dall’abolizione del crimine di blasfemia e dall’eliminazione della distinzione tra musulmani e non musulmani, un retaggio coloniale. Nel frattempo è stato abolito il divieto per le tunisine di sposare non musulmani. In tutti i paesi musulmani infatti alle donne è vietato sposare un uomo di un’altra religione mentre ai maschi è permesso sposare una donna appartenente a una religione del libro (cristiane o ebree).
Inoltre si propone di annullare la circolare per la chiusura dei bar durante il mese del Ramadan.
Naturalmente lo scoglio maggiore riguarda la parità nell’eredità per gli eredi di primo grado, anche se la commissione propone di lasciare la libertà di scegliere diversamente all’interno però di una precisa cornice giuridica.
Inoltre: abolizione della dote come vincolo e condizione per il matrimonio o del divorzio; uguaglianza tra figli legittimi e naturali – che ancora vengono definiti «bastardi» dagli islamisti che nel 2011 proponevano di togliere qualsiasi finanziamento alle associazioni che si occupano di ragazze madri–; possibilità di dare al figlio il cognome del padre e della madre; abrogazione dell’articolo 23 del Codice di famiglia che stabilisce che il marito è il capofamiglia.
Si propone inoltre l’uguaglianza dei genitori per la tutela e la custodia dei figli. Il sussidio alla moglie, in caso di divorzio, è previsto solo se la donna non dispone di risorse finanziarie. Siccome la disparità nell’eredità si basa anche sul pretesto che la donna ha o avrà un marito che la mantiene, questa proposta potrebbe limitare quella motivazione e comunque rafforzerebbe il concetto di parità.
Sebbene la proposta della Commissione fosse partita proprio per stabilire la parità nell’eredità voluta dal presidente della repubblica, il momento politico in cui andrà in discussione – se arriverà presto in parlamento – non è dei più favorevoli: gli islamisti di Ennahdha si stanno scontrando con il partito del presidente, Nidaa Tunes, sulla necessità di cambiare il capo del governo (difeso da Ennahdha). Di fatto è già iniziato lo scontro per le elezioni presidenziali dell’anno prossimo.
Repubblica 16.6.18
Partito democratico
Scontro nel Pd sui conti i dipendenti sono in cassa Scatta la caccia ai morosi
Il tesoriere Bonifazi presenta il bilancio chiuso con 500mila euro d’avanzo Decreti ingiuntivi per 60 parlamentari, tra questi l’ex presidente Grasso
di Maria Berlinguer


Roma Solo il 1 giugno Maurizio Martina, il reggente del Pd, aveva lasciato di sasso un dirigente dem di lungo corso, ammettendo di non sapere se nelle esangui casse del Pd ci fossero liquidi per pagare il palco di Santi Apostoli, allestito in piena crisi istituzionale in difesa della Costituzione e di Sergio Mattarella. E pure, dopo la debacle del 2016 con un bilancio chiuso con 9 milioni e rotti di rosso grazie al referendum, alle elezioni e alle spese per i dipendenti, il Pd a sorpresa chiude in utile di oltre 500mila euro.
Il colpo di scena si materializza ieri in direzione, quando Francesco Bonifazi, tesoriere dem e renziano di ferro, presenta il prospetto dei conti 2017. Ad ascoltarlo ci sono in tutto nove dirigenti. Del resto, la direzione d’urgenza per discutere e approvare il bilancio è stata convocata solo 24 ore prima. Motivo per il quale alle 8.30, l’orario stabilito forse in ricordo delle direzioni che il primo Renzi convocava alle 7 del mattino, sono in pochi ad essere presenti: 4 della maggioranza e 5 della minoranza che però si astengono al momento del voto. Ma tant’è, il bilancio è approvato. Con 4 voti, Bonifazi incluso.
Come è stato possibile chiudere in attivo e scongiurare, almeno per ora, il trasloco del Nazareno, tremila metri quadrati a due passi da palazzo Chigi? La casse del Pd erano in profondo rosso non solo per le elezioni e per la fallimentare campagna referendaria ma anche per i mancati versamenti di 60 parlamentari, molti dei quali passati a Mdp, che non hanno versato i 1.500 euro mensili dovuti al partito. Dopo aver messo tutti i 180 dipendenti in cassa integrazione, 90 dei quali a zero ore, il tesoriere Bonifazi ha scelto la linea dura contro i morosi. Facendo partire i decreti ingiuntivi della magistratura per riscuotere il dovuto. « Abbiamo cercato di ottenere il dovuto in modo amichevole ma, non essendo riusciti a superare il muro di gomma che ci è stato opposto, abbiamo deciso di rivolgerci al tribunale», spiegano dal Nazareno.
In cima alla lista, manco a dirlo visto che è stato un caso che ha tenuto banco in campagna elettorale, c’è l’ex presidente del Senato. Pietro Grasso, eletto nel 2013 nelle file del Pd allora bersaniano, non ha mai versato i 1.500 euro. Dunque, secondo i conti di Bonifazi, deve restituire ai dem ben 83mila euro e spicci. L’attuale leader di Leu liquida la questione come una ritorsione da parte degli ex compagni di partito. E in ogni caso non ha ancora ricevuto alcuna ingiunzione. La procedura, però, è andata a segno in altri casi. Dieci, finora. È il caso dell’ex deputato lettiano Marco Meloni che dovrà versare 10 mila euro di arretrati, di Simona Valiante, 53 mila, di Guglielmo Vaccaro, 43 mila. Insomma, per farla breve, i dem contano di ottenere un milione e 600mila euro di arretrati. Da mettere, così garantiscono, in un fondo per i lavoratori.
E già, perché al netto del bilancio in nero, la situazione non è affatto florida. I 180 dipendenti resteranno in cassa integrazione almeno per altri 12 mesi. Colpa di un partito sceso sotto la soglia del 20% che dovrà fare a meno dei contributi di un terzo dei parlamentari. E anche ai gruppi la situazione è assai critica. Delle 140 persone che lavoravano con senatori e deputati ne sono rimaste solo 75, quasi tutte assunte con contratti di solidarietà. Inoltre a tutti è stato garantito lo stipendio solo fino a dicembre. Poi si vedrà. Ovviamente molto dipenderà anche dal 2 per mille e da quanti contribuenti decideranno di devolverlo al Pd.
Repubblica 16.6.18
Mi attaccano perché sono donna »
Quella frase pericolosa
di Michela Marzano


Mi attaccano perché sono donna » , ha detto l’altra sera Virginia Raggi in televisione, rispondendo alle domande di Bruno Vespa durante la trasmissione Porta a Porta, subito dopo aver dichiarato che l’ex presidente di Acea, Luca Lanzalone, le era stato presentato dai ministri Fraccaro e Bonafede. E quindi? Il fatto di essere donna può esimerla dall’assumersi la responsabilità del proprio ruolo di sindaca di Roma? Essere donna significa non essere in grado di rispondere concretamente alle domande che le vengono poste sulla vicenda dello stadio? Che senso può mai avere questo incaponirsi a citare il proprio sesso di appartenenza, sempre e comunque, indipendentemente dal contesto e dalle circostanze?
Esistono realmente situazioni in cui il sesso, il genere o l’orientamento sessuale sono all’origine di importanti e gravi discriminazioni. Le donne continuano a guadagnare di meno rispetto agli uomini; nonostante le qualifiche, spesso non riescono ad accedere a posizioni di responsabilità; in molte circostanze, sono costrette ad abbandonare il proprio lavoro per dedicarsi alla famiglia e ai figli. Molte di loro sono vittime di violenze e di molestie sessuali — l’indignazione nata sulla scia del caso Weinstein ne è una prova recente e tangibile — e la dignità femminile continua fin troppo spesso a essere negata o cancellata. Ma quando ci si nasconde dietro il proprio sesso invece di mostrarsi all’altezza del ruolo che si ricopre, come ha fatto ieri sera la sindaca Raggi — e come aveva già fatto Maria Elena Boschi quando, durante una puntata di Otto e mezzo, era stata contestata da Marco Travaglio sulla questione di Banca Etruria — significa di fatto squalificare le battaglie di tutti coloro che, da anni, cercano non solo di abbattere il “soffitto di cristallo” che impedisce a tante donne, a parità di merito, di rivestire posizioni di responsabilità, ma anche e soprattutto di costruire un mondo dove le differenze sessuali non si traducano inesorabilmente in disuguaglianze e discriminazioni. Non è un caso che siano state molte le proteste, anche da parte delle donne, dopo le dichiarazioni dell’altra sera di Virginia Raggi: non si può cercare la solidarietà femminile quando, nascondendosi dietro il proprio essere donna, non si risponde nel merito e ci si ritrova a corto di argomenti.
Citare il proprio sesso invece di rendere conto delle proprie scelte e delle proprie azioni, e giustificare il proprio operato quando si riveste un ruolo politicamente ( ma anche economicamente o culturalmente) importante, è forse l’ultima cosa che dovrebbe fare una donna. Anche semplicemente perché il sessismo, purtroppo, esiste veramente. E nessuno dovrebbe permettersi di strumentalizzarlo. Il rischio è vanificare anni di battaglie, rendere inutili gli sforzi che tante donne compiono giorno dopo giorno per farsi riconoscere e rispettare, e, soprattutto, tradire il senso stesso della lotta per l’affermazione della parità uomo- donna. Essere uguali in termini di valore e di diritti significa d’altronde essere trattate nello stesso modo, rispondere alle stesse domande, assumersi le stesse responsabilità. Il che non vuol dire cancellare le differenze di genere, ma semplicemente rendersi conto del fatto che, quando si è sindaci o ministri o amministratori delegati o professori ordinari e donne, non basta femminizzare i termini per farsi poi riconoscere come ugualmente competenti e degni di considerazione; il proprio ruolo bisogna esercitarlo con uguale dignità e capacità. È possibile commettere errori, capita a tutti, indipendentemente dal sesso, dal genere o dall’orientamento sessuale. Guai, però, a non riconoscerlo, utilizzando il proprio essere donna come uno scudo. È ingiusto, è insopportabile, è persino puerile. Serve solo a giustificare la posizione di chi, incapace di accettare la parità, potrà sempre dire: è solo una donna, che cosa ci si poteva aspettare d’altro?
Mambro, quella brava ragazza. L’ultimo oltraggio a Bologna
Le balle in aula di Fioravanti - 2 agosto ’80
Profondo nero. Fioravanti e Mambro
di Loris Mazzetti


Con il ritorno sul luogo del delitto dei terroristi Francesca Mambro e Valerio “Giusva” Fioravanti, il ricordo per non dimenticare della strage della Stazione di Bologna quest’anno parte da lontano, da quando è iniziato il processo a Gilberto Cavallini imputato di concorso nella strage del 2 agosto 1980, per aver dato supporto logistico ai due esecutori materiali, condannati definitivamente con Luigi Ciavardini per aver ucciso 85 innocenti e 200 feriti.
Per i famigliari delle vittime e per i sopravvissuti quel sabato di 38 anni fa, che avrebbe dovuto rappresentare l’inizio delle vacanze, si è tramutato in un incubo che li accompagnerà per tutta la vita. La tragedia personale si mescola ai depistaggi, alle false testimonianze, ai servizi segreti deviati, alla P2, ai non ricordo e alle tante promesse non mantenute dei vari Governi: il diritto alla pensione anche a chi ha subito un’invalidità permanente inferiore all’80 per cento; la mancata digitalizzazione degli atti che impedisce la ricerca simultanea su tutte le tragedie; la direttiva del governo Renzi del 2014 sulla declassificazione dei documenti mai applicata.
Paolo Bolognesi, presidente delle Associazioni delle vittime ha denunciato che è impensabile che chi in tutti questi anni ha tenuto nascosto gli atti oggi sia disponibile a renderli pubblici. I fatti dimostrano che la ricerca della verità annega nell’oblio.
È con questo spirito che a Bologna si è presentato in aula Fioravanti, libero cittadino dal 2009, nonostante 8 ergastoli, dopo 18 anni di detenzione, 6 di semilibertà e 5 anni di libertà vigilata, che si dovrebbe applicare non solo per buona condotta ma a chi si ravvede su ciò che ha fatto.
Non mi pare che il duo Mambro e Fioravanti si sia ravveduto dall’aver messo una valigia con venti chilogrammi di esplosivo militare nella sala d’aspetto di 2ª Classe della Stazione di Bologna, quella più frequentata.
Il 13 giugno scorso la deposizione del Tenente, nome in codice dell’ex bambino prodigio dello sceneggiato tv La famiglia Benvenuti, ha toccato il culmine della falsità quando, parlando della moglie, ha affermato che “nonostante non abbia mai sparato un colpo ha subito 8 ergastoli”. La mancanza di memoria storica è un gioco che nel nostro paese risale agli albori della democrazia, non lo si dovrebbe permettere a chi ha mani che colano sangue innocente.
Il programma tv di Enzo Biagi Linea diretta ci aiuta a ricordare. Era il 1985 quando il grande giornalista intervistò Francesca Mambro, allora ventiquattrenne, considerata la primula nera del terrorismo di estrema destra. Le parole della Mambro smentiscono quelle del marito. Biagi le chiese se lei si sentiva il capo o la ragazza del capo. “Mah, visti i risultati, penso il capo, senza presunzione”. Poi nel corso dell’intervista Biagi arriva al punto: “…Dove ha trovato il coraggio per uccidere? Lei è accusata di aver sparato a un uomo che era per terra e che stava morendo, di avergli dato il colpo di grazia”. “Innanzi tutto, va beh, non è che voglio difendermi da queste cose perché…”.
Biagi la interrompe: “Lei ha il diritto anche di difendersi…”. “Cioè non ha senso. Resta il fatto che noi abbiamo fatto determinate scelte che prevedevano anche lo sparare, il conflitto a fuoco. Atteggiamenti da sciacallo per quanto riguarda il mio percorso non ne ho avuti…”.
Biagi insiste: “Quindi questo episodio…”. Mambro: “Quindi ho sparato, sì ho sparato, ho premuto il grilletto…”. Sentire in aula da Fioravanti affermare ancora: “Siamo innocenti!”, per i parenti delle vittime è rivivere la tragedia. Si sa che il depistaggio della pista palestinese fu strategicamente definito a partire da marzo 1980, ben cinque mesi prima dell’attentato.
La killer nera, così era soprannominata Francesca Mambro, che le immagini di repertorio dei telegiornali ce la mostrano dentro la gabbia, disinteressata a ciò che accade nell’aula del tribunale, abbracciata al marito, incuranti delle telecamere, mentre amoreggiano, non rinnega ciò che ha fatto, anzi rivendica l’uccisione del giudice Mario Amato: “Rappresentava qualcosa di contrario alla nostra logica”.
Dopo averlo fatto fuori, lei e i camerati festeggiarono l’impresa con ostriche e champagne. Quell’incontro colpì molto Biagi, gli procurò lo stesso disagio che aveva provato con Kappler, Reder e Kesselring. “L’aspetto e i modi spigolosi, il lucido disprezzo: è forse il personaggio più sconvolgente che ho incontrato in tanti anni di mestiere; e c’è dentro di tutto: artisti, ladri, soldati, banditi, politici, campioni, puttane, quasi sante, grandi signore, mezze calzette, prelati, grandi truffatori, giocatori di ogni genere. Nessuno mi ha mai detto: – Non conosco la parola rimorso –, qualche tarlo, qualche pena, tutti ce l’avevano dentro”.
il manifesto 16.6.18
Via Almirante, l’ignoranza della storia genera mostri
Campidoglio. Gli eletti 5Stelle di Roma votano una mozione di Fratelli d'Italia. Possibile che nessuno di loro abbia un vago sentore di chi sia stato Giorgio Almirante?
di Angelo d'Orsi


Le lezioni dell’ultima vaudeville pentastellata si possono ridurre ad una: l’ignoranza della storia genera mostri. E alla voce “ignoranza” attribuisco due diversi significati. Uno «debole», elementare: non avere conoscenza del passato. Una ignoranza basica rispetto ai fatti del passato, remoto o prossimo remoto o prossimo. E un significato “forte”, ossia sapere ma non tenerne conto.
In altri termini la storia, per essere “maestra”, pretende non soltanto di essere conosciuta, ma si aspetta che noi si impari da lei, ovvero pretende che tutto quanto precede il nostro presente venga conosciuto e tenuto in conto da chi non soltanto aspiri a vivere il proprio tempo, ma ambisca a interagire con esso, ad operare per migliorarlo, magari, o addirittura per rovesciare le sue coordinate se appaiano inique.
E questo dovrebbe essere non un’opzione, bensì un preciso dovere di quanti scelgano la strada della politica, ossia decidano di mettersi al servizio della collettività, come recitano i manifesti di tutti i candidati ad ogni tornata elettorale. In questo lunghissimo crepuscolo italiano, il Movimento 5 Stelle, tra la falsa democrazia della Rete, il ducismo del fondatore, le ambizioni dei tanti homines novi che si affacciano alle stanze e stanzine dei bottoni, continua, imperterrito, anche nella sua variabile geografia interna, a dare la prova della ignoranza dei suoi dirigenti, che altro non sono che lo specchio della massa dei militanti. Ignoranza della storia nei due significati che ho indicato prima.
Possibile che nessuno tra coloro che occupano i seggi in Campidoglio, con la casacca M5S, abbia un vago sentore di chi sia stato Giorgio Almirante? Possibile che la quasi unanimità abbia votato senza batter ciglio una mozione dei neofascisti di Fratelli d’Italia (e lasciatemi chiamare le cose col loro nome, altro che “postfascisti”: questi sono veri fascisti, sia pure “del terzo millennio”, quindi la dizione corretta è “neofascisti”) per l’intitolazione al sullodato Almirante di una strada della Capitale? Dobbiamo ogni volta fare un ripassino di storia? Oppure sanno che costui è stato un fucilatore di partigiani, segretario di redazione dell’infamissimo foglio La difesa della razza?
È più probabile che molti, forse non tutti, sappiano, ma che abbiano votato in nome del secondo tipo di ignoranza, ossia ritenendo che il passato è passato, e che un po’ di pacificazione, con una targa stradale, possa servire alla collettività, ovvero hanno opinato, come tante volte abbiamo sentito dire dagli ideologi del Movimento, a partire da Gianroberto Casaleggio, che la distinzione destra/sinistra appartiene al passato (anche Matteo Renzi, peraltro, la pensa così salvo riscoprire l’antifascismo e l’egualitarismo, sia pure “temperato”, quando si è trovato messo all’angolo).
In questa scelta, non escludo vi siano anche ragioni di oscura opportunità politica, magari per avere un bonus da parte della destra in relazione alla recentissima inchiesta della magistratura che ha messo nei guai qualche pezzo grosso del movimento.
Che poi la sindaca Raggi scopra in un programma tv, in diretta, che il consiglio comunale romano ha votato la mozione della destra, e dichiari al furbo conduttore (l’immarcescibile Bruno Vespa) che lei non ha nulla da obiettare, perché «il Consiglio è sovrano»), salvo poi, poche ore più tardi, uscirsene con una intemerata di antifascismo duro e puro, e che il suo gruppo consiliare cambi radicalmente linea, presentando una mozione in cui si dichiara che mai Roma dedicherà una via a chi si è macchiato di crimini eccetera, appartiene al genere commedia degli equivoci, dove però il finale, quale che sia, non fa ridere nessuno. Mentre suscita una gran pena.
il manifesto 16.6.18
Elettrochoc da strada
Pistole 2.0. Sfruttando il caso di Genova, si accelera la sperimentazione del taser, senza approfondire i casi etichetatti come «sindrome da delirio eccitato». Finirà che le forniranno agli psichiatri...
Esemplari di Taser, pistole elettriche
di Piero Cipriano


Jefferson Garcia, ventunenne ecuadoriano, non era, come scrive Il Fatto Quotidiano, «in cura per problemi psichici». Lo confermano gli psichiatri del territorio genovese. Non era conosciuto ai servizi di salute mentale. La madre chiama il 112 per una lite domestica. Jefferson, ebbro o forse sotto l’effetto di droghe, con un coltello minacciava di uccidersi, perché la moglie era andata via di casa. Di qui a parlare di Tso ce ne vuole. Ma, certo, soprattutto chi si occupa di informare, dovrebbe provare a non essere un portatore giornalistico di stigma, e sapere che il Trattamento sanitario obbligatorio è stabilito da due medici, il primo lo propone dopo aver visitato il paziente, il secondo lo convalida, poi il sindaco del luogo emette l’ordinanza (solo allora è Tso), infine un giudice tutelare stabilisce che il Tso è stato fatto a norma di legge, dunque convalida o rigetta. Quattro attori che, nel caso del Tso millantato del ragazzo ucciso non sono mai intervenuti. Allora non si può gridare superficialmente sconsideratamente allarmisticamente all’ennesima morte da Tso. Questa è una morte da polizia. Ricapitolando: viene chiamato il 112 per un ragazzo che minaccia il suicidio se sua moglie non torna a casa. Un medico che stabilisse la natura (psichica o tossica) della crisi, non ha fatto in tempo a vederlo, perché il ragazzo viene ucciso prima. Scrivere morto per Tso è una inferenza in malafede. I poliziotti intervenuti spruzzano sul suo viso del ragazzo uno spray urticante. Questo gesto invece di ridurlo a più miti consigli determina una escalation. Con il coltello da cucina che prima indirizzava a se stesso colpisce un poliziotto. Il collega più giovane, impaurito, spara cinque colpi. Deve essere talmente preso dal panico, per sparare cinque colpi, al corpo del ragazzo, colpendo perfino il suo collega. Il ragazzo muore. E questa morte viene narrata non come ennesimo caso di brutalità discrezionale della polizia. Non come conseguenza del cicalare razzista e xenofobo di questi giorni. Niente di tutto questo. È la morte di uno straniero matto, forse drogato. Morte di un reietto dal triplice stigma. Rispetto al quale cos’altro potevano fare i due fedeli servitori dello stato intervenuti con eroismo e coraggio? Il neo-ministro che gioca a fare il duce si dice vicino «come un papà» al poliziotto ferito che ha fatto il suo dovere. Questa madre che invoca giustizia non merita la sua vicinanza. Il ministro è papà solo per i poliziotti feriti. Lo straniero ucciso non merita parola.
QUALE SARÀ LA CONSEGUENZA di questo evento? Il neo-ministro Salvini e il capo della Polizia Gabrielli sono già d’accordo nel dotare le forze dell’ordine di pistola elettrica. La cosiddetta Taser. Sostengono che se i poliziotti ne fossero stato provvisti, Jefferson non sarebbe morto e uno dei due poliziotti non si sarebbe ferito.
Ma cos’è questa pistola elettrica? Jack Cover, scienziato aerospaziale, inventa il Taser negli anni 70. Avrebbe dovuto essere usata dalle forze di sicurezza in situazioni di emergenza, come i dirottamenti aerei, essendo un’alternativa non mortale alle pistole. Taser è acronimo di Thomas A. Swift’s Electronic Rifle (in italiano sarebbe: fucile elettronico di Tomas A. Swift). È una saga d’avventura, dove un personaggio, Tom Swift, inventa un’arma, che chiama fucile elettrico, per uccidere cannibali pigmei e animali selvatici africani. Potremmo dire che sembra l’arma ideale per gli inferiori, per gli anormali. Le Taser all’inizio vengono classificate come armi da fuoco, perché nella versione originale utilizzano polvere da sparo per sganciare dardi elettrificati. Nel 1993 la polvere da sparo viene sostituita con azoto compresso, e ciò rende la pistola conforme alle normative sulle armi da fuoco. Le Taser hanno due modalità: «dardo» e «drive stun». Il primo spara due dardi elettrificati, con forza tale da penetrare i vestiti e rilasciare una scarica elettrica di 50mila volt. La corrente scorre nel corpo della vittima finché l’agente tiene premuto il grilletto, con effetto neurolettico (ovvero di paralisi del sistema nervoso) potremmo dire, giacché impedisce qualsiasi movimento e causa spasmi muscolari. In modalità «drive stun», invece, la pistola viene premuta direttamente contro il corpo. Nel 2007, il Comitato delle Nazioni unite contro la tortura manifesta preoccupazione per l’utilizzo di queste armi, in grado di causare dolore estremo fino al decesso. Gli esperti però sostengono che a causare il decesso non siano gli effetti del Taser ma la «sindrome da delirio eccitato» (ricordo che quando morì Andrea Soldi nel 2015 si disse che era morto per questa sindrome, diagnosi di copertura con cui risolvere incidenti in cui sono coinvolte le forze dell’ordine; è stata tirata in ballo anche per la morte di Riccardo Magherini e molti altri), fantomatica sindrome non riconosciuta né dall’Associazione medica americana, né dall’Associazione americana di psichiatria, né dall’Organizzazione mondiale della sanità. Tuttavia citata come causa del decesso in 75 dei 330 casi collegati al Taser tra il 2001 e il 2008. Douglas Zipes, esperto di elettrofisiologia e dell’influenza degli impulsi elettrici sul cuore, ha analizzato il rapporto tra Taser e morti improvvise. I Taser, afferma, possano provocare l’arresto cardiaco, e tirare in ballo la sindrome da delirio eccitato in caso di decesso riconducibile a questa pistola è solo un modo per scagionare Taser International da azioni legali.
IN ITALIA, DA ALCUNI MESI, a Milano, Brindisi, Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia la polizia e i carabinieri già stanno sperimentando la Taser al posto del (violento, primitivo, rozzo, scomodo) manganello.
L’ipotesi di utilizzare la Taser era stata valutata già nel 2014 quando, con Angelino Alfano ministro dell’Interno, era stato approvato un emendamento nell’ambito del decreto-legge sulla sicurezza negli stadi, per avviarne la sperimentazione. Solo negli ultimi mesi, però, si è arrivati a una soluzione condivisa con i sindacati del settore, che ritengono che la pistola elettrica possa ridurre gli interventi corpo a corpo.
IL FATTO DI GENOVA, A QUESTO punto, viene utilizzato per accelerare i tempi della sperimentazione, e poter finalmente usare questo manganello elettrico su migranti, tossicomani, persone con disturbi psichici, e altri «dannati della terra». Finché (mi porto avanti con le previsioni), vedrete che questo strumento potrebbe far parte anche della dotazione di noialtri psichiatri. Perché il Taser, pensateci, è l’arma di congiunzione tra i farmaci neurolettici (determina neurolepsia, ovvero paralisi del sistema nervoso), dunque contenzione chimica; le fasce per legare gli agitati, visto che elettrificando un corpo non c’è più bisogno di legarlo, dunque contenzione meccanica; e l’elettrochoc, dato lo stordimento e l’amnesia se non proprio perdita di coscienza che determina, dunque contenzione elettrica.
* Vice Portavoce del Forum Salute Mentale, promotore della campagna «E tu slegalo subito», nonché autore de «La fabbrica della cura mentale», «l Manicomio chimico», «La società dei devianti», «Basaglia e le metamorfosi della psichiatria»
Repubblica 16.6.18
Il rapporto Oxfam
L’atto d’accusa su Ventimiglia “ La polizia francese maltratta i bimbi”
Paolo G. Brera


ROMA Chi è meno «vomitevole» scagli la prima pietra: un rapporto congiunto di Oxfam, Diaconia valdese e Asgi accusa la polizia francese di abusi ai limiti della tortura inflitti ai migranti — adulti e bambini non accompagnati — fermati oltre il confine di Ventimiglia e rispediti in Italia violando qualsiasi norma, oltre alla soglia minima della civiltà.
I gendarmi, accusa il rapporto, arrivano persino a «modificare la data di nascita dichiarata» dai ragazzini in fuga dalla guerra «in modo da farli apparire adulti per poterli respingere». Per di più, li trattano in modo disumano: «Li scherniscono — dice Chiara Romagna di Oxfam — li maltrattano e a molti hanno tagliato la suola delle scarpe, prima di rimandarli in Italia senza mettere in atto nessuna delle garanzie prevista dalla legge».
Avrebbero diritto a un traduttore, all’assistenza di un tutor e a un’informazione corretta sui loro diritti, ma trovano ben altro.
Nel giorno in cui Macron e Conte siglano una tregua barcollante sui migranti, le 24 pagine del rapporto “Se questa è l’Europa” aprono l’armadio degli orrori tra i versanti delle Alpi Marittime, lungo una frontiera «chiusa solo per le persone di colore. A nessun bianco controllano i documenti», dice Simone Alterisio di Diaconia Valdese.
«Ho provato a passare, ci hanno fatto scendere dal treno strattonandoci e urlando; poi ci hanno spinti in un furgone, ci hanno dato un foglio e ci hanno rimessi su un treno che tornava in Italia senza spiegarci nulla», dice nel rapporto un 15enne in fuga dagli orrori del Darfur.
E se li acciuffano dopo le sette di sera, quando per un accordo tra Italia e Francia non possono essere fatti respingimenti, «adulti e minori vengono trattenuti illegalmente nei locali della polizia ferroviaria francese in promiscuità, senza cibo né acqua, senza coperte o materassi e senza informazioni». Lì non hanno accesso «né interpreti né legali, e gli abusi fisici sono la norma», sostiene il rapporto: «Gli urlano, gli ridono in faccia, li spintonano e ad alcuni aprono il cellulare e portano via la scheda con tutti i dati e i contatti della rubrica», impedendo loro «di telefonare ai genitori», accusa Daniela Zitarosa di Intersos.
E non va certamente meglio se chi vorrebbe chiedere asilo è adulto: «Ci hanno fatto stare una notte in una stanzetta, accasciate sulle sedie senza cibo o acqua — racconta nel rapporto una donna 37enne fuggita dall’Iraq coi segni delle percosse dell’Isis. «Ci hanno spinto e strattonato, a me hanno pestato con forza i piedi e ora ho gli alluci neri. Mai, in nessun posto la polizia mi aveva trattata così».
il manifesto 16.6.18
«Norme non applicate, e i migranti minorenni spariscono»
Se questa è Europa. Intervista a Giulia Capitani che ha realizzato il rapporto Oxfam: «In un anno e mezzo la Francia ha respinto 19mila minori. E sono ormai molti gli irreperibili, spesso finiti nelle mani di trafficanti»
di Adriana Pollice


«Le prassi della polizia francese al confine violano palesemente il codice d’Oltralpe, che per altro è in fase di revisione secondo principi più restrittivi» spiega Giulia Capitani di Oxfam, che ha realizzato il rapporto Se questa è Europa.
La Francia può respingere i minori non accompagnati?
Le loro norme distinguono tra il territorio e le zone di confine. Nel primo caso non è possibile. Nelle zone di frontiera invece è possibile se il minore non fa richiesta di asilo ma solo dopo precise garanzie: la nomina di un tutore e un periodo di minimo 24 ore tra il fermo e il respingimento in cui viene informato dei suoi diritti, inclusa la possibilità di contattare parenti o legali.
Niente di tutto questo è rispettato: nel documento con cui vengono rispediti in Italia, che gli agenti compilano in loro vece, viene sistematicamente indicata l’opzione «voglio ripartire il più rapidamente possibile».
Vi siete opposti a questa pratica?
Abbiamo fatto ricorso al Tribunale di Nizza e abbiamo vinto. Così la gendarmeria ha cambiato sistema: adesso alterano la data di nascita per farli risultare maggiorenni. Ne abbiamo le prove perché uno dei ragazzi è riuscito a procurarsi la fotocopia del primo verbale con la data esatta da confrontare con il documento con cui l’hanno rimandato in Italia. In un anno e mezzo la Francia ha respinto 19mila minori. Esiste un problema agghiacciante che è quello dei minori migranti irreperibili, spariti anche grazie alle norme non applicate, finiti nelle mani di trafficanti all’interno dei nostri confini.
Sono a rischio anche le donne.
La stessa Ventimiglia potrebbe essere un centro di smistamento delle reti della tratta. Ci sono donne che arrivano in gruppo, con qualcuno che porta i bagagli. È evidente che sono controllate. Poi spariscono, non le rivediamo né sotto il cavalcavia, né al Campo Roja, né in giro per la città.
L’Italia tutela i minori non accompagnati?
La normativa è stata modificata dalla legge Zampa del 2017, siamo in attesa dei decreti attuativi che dovrebbe fare il nuovo governo. Il testo dice che devono essere immediatamente inseriti in un circuito protetto, attraverso mediatori e assistenti sociali si dovrebbe individuare il percorso migliore per loro: l’asilo, il ricongiungimento familiare qui o all’estero, il permesso di soggiorno speciale. Spesso però restano abbandonati nei centri senza assistenza alcuna, anche per questo fuggono verso Ventimiglia.
a. po.
il manifesto 16.6.18
«In piazza nel ricordo di Sacko, uniamoci contro il razzismo»
Intervista a Aboubakar Soumahoro . Il sindacalista che guida i braccianti Usb: come i rider vogliamo paga dignitosa. Un tessuto sociale è stato costruito dalla Turco– Napolitano passando per la Minniti–Orlando fino al contratto di questo governo. Il tessuto legislativo fa cultura. È la legge Bossi-Fini col vincolo lavoro-permesso che impone di accettare lo sfruttamento, creando uno stato di ricattabilità che trascina verso il basso l’insieme dei lavoratori
di Fabrizio Rostelli


A distanza di due settimane dal brutale omicidio del sindacalista Usb e bracciante maliano Soumaila Sacko, l’Unione sindacale di base oggi manifesterà per le strade di Roma a sostegno di una piattaforma di lotta alle disuguaglianze sociali e contro i vincoli dell’Unione Europea. «Soumaila non è l’extracomunitario, non è il migrante; è la persona, l’uomo, il lavoratore, il bracciante, il sindacalista Usb. Vorrei dire al ministro Salvini che per noi la pacchia non è mai esistita, per noi esiste il lavoro. Ora la pacchia è finita per lui, perché risponderemo». Le parole del sindacalista italo-ivoriano Aboubakar Soumahoro hanno fatto subito breccia nell’opinione pubblica. «Non voglio parlare di me – spiega Aboubakar – abbiamo un morto ammazzato e stiamo cercando di portare avanti un percorso collettivo. Non ci battiamo per la condizione del singolo ma per quella degli uomini e delle donne nelle campagne, come il nostro compagno Sacko. Soumaila era un lavoratore e, come molti operai invisibili di altri settori, lavorava ben oltre le 6 ore e mezza stabilite dal contratto. Il suo è stato un impegno come sindacalista, all’interno di un progetto collettivo. Questo processo parla di braccianti che, seppur lavorando 12 ore al giorno, non riescono a vedersi riconosciute nella busta paga le giornate di lavoro effettive, impedendogli di poter accedere alla disoccupazione agricola. Dal punto di vista sociale, vivere all’interno di quelle lamiere e baraccopoli fa emergere la violenza e la barbarie costruite nel corso degli anni, anche sul piano legislativo. Questo è il terreno su cui tutti devono misurarsi e lo può fare solo un sindacato che ha come prospettiva la ricomposizione della classe operaia, che esiste, che non è mai scomparsa ma che probabilmente si trova in quei luoghi dove i riflettori non vengono mai accesi finché non viene fucilato un bracciante o finché non muore un lavoratore della logistica durante uno sciopero. Questo sarà il tema che porteremo all’interno della manifestazione di Roma e nell’appuntamento che abbiamo lanciato per il 23 giugno a Reggio Calabria, in ricordo di Soumaila e contro lo sfruttamento».
In una settimana sono stati versati sul conto corrente messo a disposizione dalla Federazione nazionale Usb circa 38mila euro che serviranno a garantire un reddito alla moglie e alla figlia di Soumaila ed a coprire le spese per il rimpatrio della salma e per gli iter giudiziari. Inoltre, come richiesto specificamente e pubblicamente dai familiari, una parte del fondo sarà utilizzata per continuare l’organizzazione e la sindacalizzazione dei braccianti.
Avete avuto dei nuovi contatti con il ministro del Lavoro Luigi Di Maio? Quali priorità dovrebbe affrontare?
Il 7 giugno abbiamo chiesto ufficialmente un incontro al ministro ma al momento non abbiamo avuto alcun riscontro, a parte qualche dichiarazione in tv dove Di Maio ha affermato che incontrerà tutti. La priorità da affrontare è senza dubbio il nodo dello sfruttamento dei braccianti. Quei lavoratori e quelle lavoratrici ricevono una paga giornaliera che varia dai 2,5 ai 3 euro. Alcuni percepiscono una busta paga mensile di 50 euro, altri addirittura vengono pagati in natura, con chili di pasta e litri di olio. Questi temi non possono essere demandati al ministero degli interni, qui si tratta di affrontare i diritti dei lavoratori al di là del colore della pelle o dei documenti che hanno in tasca. Uguale lavoro, uguale salario.
C’è chi accusa gli immigrati di accontentarsi di salari molto bassi e conseguentemente di abbassare il livello medio degli stipendi.
Gli immigrati non si accontentano, vengono costretti da una logica e da un ordinamento che impone tutto questo. È il caso ad esempio della legge Bossi-Fini che stabilisce un vincolo obbligatorio tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno. Si impone a questa parte della classe operaia di accettare quelle condizioni di sfruttamento, creando uno stato di vulnerabilità e una ricattabilità tali da trascinare verso il basso l’insieme dei lavoratori.
Gli immigrati possono rappresentare una forza di cambiamento sociale?
Secondo noi il tema è un altro. Quella parte di lavoratori maggiormente esposta alle forme arcaiche di sfruttamento può essere elemento trainante per un cambiamento, senza scendere nella dimensione della provenienza geografica. Il tema è: cosa potrebbe unire le donne e gli uomini che si spaccano la schiena nelle campagne ed i rider (i fattorini ingaggiati dalle piattaforme della gig economy, ndr), impegnati in un percorso di ricomposizione e di lotta? Cosa li può far stare uno accanto all’altro in un corpo fatto di meticciato, dentro una classe operaia che ha una moltitudine di lingue e di colori? La risposta è: la paga. Un lavoratore delle campagne guadagna giornalmente 2,5 o 3 euro, un rider quanto guadagna? La paga oraria è più o meno la stessa 3, massimo 4 euro. È evidente che la ricerca di una paga dignitosa diventa l’elemento comun denominatore intorno al quale riavviare processi di ricomposizione della classe lavoratrice.
In che modo sarebbe possibile arginare le tendenze razziste e xenofobe?
Credo che quello che abbiamo davanti sia un tessuto sociale che è stato costruito nel corso degli anni dalle varie forze politiche che si sono alternate a livello amministrativo e governativo nel parlamento. Ad esempio le leggi Bossi–Fini o Turco–Napolitano, sono due facce della stessa medaglia; lo stesso discorso vale per la Minniti–Orlando e per il contratto che sta alla base di questo governo. Il tessuto legislativo fa cultura.
Non vedi alcuna differenza?
La filosofia di fondo è la stessa. Nel corso degli anni ha preso corpo un’equazione dove migrante è sinonimo di marginalità e profugo è sinonimo di una sottospecie umana, un diverso rispetto agli altri. La disumanizzazione è stata così banalizzata da entrare nel corpo culturale di una parte della popolazione, non solo dal punto di vista legislativo ma anche sociale.
La lotta di classe esiste ancora?
I padroni non l’hanno mai interrotta. Analizzando le condizioni di sfruttamento dei braccianti o dei rider è evidente che c’è una parte che ha saputo adattarsi ai tempi ma che non ha mai arrestato questa lotta. Come Usb non abbiamo mai creduto alle tesi di chi si era illuso sostenendo che non solo non esisteva più la classe operaia, ma che addirittura che non esisteva più il conflitto. I braccianti, i lavoratori della logistica, i precari dimostrano che esiste ancora una classe lavoratrice.
il manifesto 16.6.18
In tre mesi già 169 casi di violenza razzista in Italia
Dossier di Lunaria. Il rapporto individua due cause della diffusione del senso comune xenofobo e destrorso: la deriva securitaria del governo precedente e la cassa di risonanza dei media
di Rachele Gonnelli


L’Italia del buon cuore, della carità cristiana, addirittura delle lacrime facili, è stata soppianta da una moda «cattivista» che lascia senza respiro, nella quale «il razzismo è diventato un logo di successo, non solo in campo politico». Alimentato dai social – che però servono anche da antidoto e strumento di mobilitazione dal basso in senso opposto -, l’hate speech che ha per oggetto quasi unico la rivalsa contro gli immigrati è entrato nel senso comune, tra i ragazzini e persino in alcuni spot del tipo «prima gli italiani» anche di grandi agenzie come la Armando Testa (traghetti).
In attesa di una indagine accurata dal punto di vista antropologico, di questo propagarsi di «un veleno nazionalista, xenofobo e razzista» dà conto l’ultima indagine dell’associazione Lunaria – scaricabile anche dal sito Cronache di ordinario razzismo – dal titolo «Il ritorno della razza».
Il dossier, pubblicato ieri, fotografa e cerca di trovare spiegazioni dei 169 casi di violenze razziste, verbali e fisiche, e di discriminazioni accertate solo nel primo trimestre dell’anno (nell’intero 2017 furono 557). Il focus si ferma dunque al 31 marzo, prima dell’assassinio del sindacalista di origini maliane Soumaila Sacko nelle campagne intorno a Rosarno. Nei primi tre mesi di quest’annus horribilis, iniziato con l’elogio della «razza bianca» di Attilio Fontana, allora candidato e ora governatore della Lombardia, si contano: un morto e 26 feriti.
Il caso più grave resta quello di Idy Diene, senegalese 55enne venditore di ombrelli ucciso a Firenze il 5 marzo, colpito in quanto con la pelle di un altro colore e prima vittima dell’anno anche se l’aggravante di razzismo non è stata riconosciuta dagli inquirenti. Tra le 26 persone ferite, sei sono quelle da arma da fuoco del tiro al bersaglio dalla pelle scura di Luca Traini a Macerata il 3 febbraio. Gli altri sono pestaggi.
Il rapporto mette sul banco degli imputati, per il diffondersi di questo odio selettivo, due elementi: «lo slittamento sicuritario dell’ultimo anno fortemente voluto dall’ex ministro dell’Interno (Minniti)» e i media, che hanno fatto da cassa di risonanza dei discorsi più barbari e del linguaggio più semplificato e involgarito della destra razzista e fascista.
Repubblica 16.6.18
Storia di Milena la Musa di Kafka che cambiò il ’ 900
di Melania Mazzucco


Il cognome era Jesenská, il nome di battesimo fu reso eterno dalle lettere d’amore che le spedì lo scrittore. Ma non visse all’ombra del genio: i suoi testi ora ripubblicati svelano un’autrice di talento, dallo spirito femminista
Provveda per favore che le mie lettere che erano in mano di Franz siano date alle fiamme». Così, nel luglio del 1924, chiese Milena Jesenská a Max Brod. Kafka era morto da poche settimane ma lei non gli scriveva più da tempo — da quando, dal sanatorio sui monti Tatra, Kafka le aveva rivolto una «preghiera veramente mortale e ad un tempo un ordine: Non scrivere e impedisci che ci incontriamo». Questo solo avrebbe potuto permettergli di continuare a vivere. All’amico, anche Kafka aveva chiesto di bruciare le sue carte. Brod — come noto — non rispettò la sua volontà, e la storia della letteratura del Novecento è cambiata per sempre. La volontà di Milena fu invece eseguita, e così la fittissima corrispondenza tra loro è oggi nota come un monologo. Uno straordinario autoritratto dello scrittore, tanto da contenere la celebre frase «Tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso». Insieme alla Lettera al padre e alle Lettere a Felice, rappresenta il documento capitale per la conoscenza del mondo interiore di Kafka.
Ma a differenza di molte destinatarie ammutolite dalla distruzione delle loro lettere, la voce di Milena Jesenská è sopravvissuta. Non solo perché Kafka cita nelle proprie lettere qualche frase di lei. Ma perché Milena era una scrittrice. O avrebbe potuto esserlo, se le circostanze della sua vita e della storia glielo avessero permesso. Bionda, elegante, figlia di un ricco professore di stomatologia all’università di Praga, aveva ricevuto un’educazione moderna nel primo liceo classico femminile dell’Europa centrale. Cresciuta nel privilegio, si era fatta notare per la sua libertà e il suo anticonformismo: ostentava atteggiamenti lesbici, frequentava hotel malfamati, sperimentava droghe e i poliziotti l’avevano sorpresa a rubare nei negozi e a cogliere magnolie di notte in un parco (il professore aveva sempre rimediato). Ma quando Kafka la conobbe, non aveva un soldo.
Nel 1916, a vent’anni, Milena aveva intrecciato una relazione con Ernst Pollak: dieci anni più vecchio, dandy, donnaiolo, ma soprattutto ebreo. Per impedirle di frequentarlo e di sperperare denaro per lui, il padre l’aveva perfino rinchiusa nel manicomio di Veleslavin.
Invano, perché appena maggiorenne Milena lo sposò e lo seguì a Vienna. Nel maggio del 1920, quando iniziò la corrispondenza con Kafka, si guadagnava da vivere portando valigie alla stazione, scrivendo articoli per la rivista Tribuna e offrendo traduzioni dal tedesco. Tra queste, quelle di alcuni racconti di Kafka: Milena fu una delle sue prime lettrici e la più lungimirante.
Riconobbe subito il genio del timido, scrupoloso e tranquillo impiegato dell’Istituto d’assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori di Praga: un uomo insolito e profondo quanto i suoi testi.
Allora Kafka soggiornava in una pensione di Merano per curarsi i polmoni. Così lo descrisse Milena: «»lto, magro, il viso aguzzo e spigoloso, bello, malvagio e incredibilmente buono». Aveva 38 anni ma, come le fece notare, essendo ebreo, era già stato logorato dalla paura e dall’angoscia.
Fidanzato con Julie Wohryzek, pur desiderando il matrimonio cercava un’occasione per evitarlo. Milena invece ne aveva 24: pur essendo anche lei malata, reduce da un tentativo di suicidio e logorata dai tradimenti del marito, gli era apparsa come l’immagine della vita stessa. Iniziarono a scriversi tutti i giorni. Lei scriveva lettere che gli causavano tormento e spavento, lui lettere inconcludenti e ossessive, che dovevano allarmarla e invece la stimolavano a cercare di conoscerlo davvero. Pagine e pagine di riflessioni, progetti bislacchi, fantasticherie. Kafka la sognava spesso, e i suoi sogni non erano meno inquietanti e allucinati dei racconti che andava scrivendo. Le corrispondenze da Vienna che lei andava pubblicando, invece, erano spigliate e ironiche. Kafka apprezzava gli articoli di Milena. Trovava fresco e vivace il suo cèco, e acutissime le sue osservazioni sui costumi e i caratteri degli esseri umani. Non era solo l’amore per quella giovane donna esuberante come un uragano, passionale (e perciò terrificante come una Medusa) a renderlo così generoso nel giudizio.
Oggi possiamo leggere le corrispondenze di Milena (tradotte però dal tedesco da Donatella Frediani) nel volume Qui non può trovarmi nessuno,
curato da Dorothea Rein e corredato da una esauriente nota biografica (editore Giometti & Antonello). Le cronache viennesi di Milena forniscono un vivido spaccato della vita nella capitale del defunto Impero austroungarico nel primo dopoguerra — devastata dalla penuria, ma irrimediabilmente frivola e noncurante, in cui ogni gerarchia sociale è sovvertita (gli impiegati e i piccoli borghesi ridotti alla fame, gli operai e i proletari arricchiti dalla borsa nera).
Milena scriveva tuttavia anche articoli più personali: osservare il mondo stando in disparte, come dietro il vetro di una finestra, era la sua vocazione.
Scriveva di matrimonio, sesso, aborto. E di film. Fu tra le prime a intuire il potere consolatorio e sonnifero della cinematografia americana e a esaltare la modernità problematica di registi come Charlie Chaplin e Mauritz Stiller.
Milena e Kafka, che lei chiamava Frank, si scrissero un’infinità di lettere e telegrammi, ma si incontrarono solo due volte. La prima, per 4 giorni, a Vienna, alla fine di luglio del 1920.
Kafka capì che lei non avrebbe lasciato il marito, Milena che lui non avrebbe lasciato la sua malattia, che gli era necessaria per vivere. Puro, privo di difese, Kafka era inadatto all’esistenza. Perfino fare l’elemosina a una mendicante o chiedere un permesso al suo superiore d’ufficio lo gettavano nell’angoscia. La seconda volta, fu in un alberghetto di Gmünd, sulla frontiera. Un giorno solo, in agosto, fitto di malintesi, causa di imperitura vergogna per lui e sensi di colpa per lei, troppo donna — così Milena confessò a Max Brod — per votarsi a una vita d’ascesi.
La rottura non mise fine all’ammirazione di Milena per Kafka. Alla sua morte, scrisse un necrologio che ancora sorprende per la lucidità con cui descrive l’uomo e riconosce la grandezza dello scrittore. Se fosse sopravvissuto alla tisi e all’angoscia, Kafka sarebbe diventato forse un esule incompreso e ridicolo come il signor Kafka che insegnò ebraico a Philip Roth nella Newark degli anni Quaranta (e che Roth raccontò in Ho sempre voluto che ammiraste il mio
digiuno, ovvero, guardando Kafka). Milena sopravvisse a Kafka, al marito e al parto difficile della sua unica figlia, che la invalidò per anni e la rese morfinomane. Non divenne la scrittrice che avrebbe potuto essere. Ma fu qualcosa di più: la testimone della catastrofe europea.
Infatti, più degli spigliati feuilleton che piacquero a Kafka, apprezziamo oggi i suoi articoli onirici (come Un sogno del 1921, in cui lei, cristiana, profetizza la persecuzione degli ebrei) e i reportage politici del 1937-39. Milena narra con lucidità e orrore l’avanzata del nazismo nel suo paese e la tragedia dei profughi — socialisti, comunisti ed ebrei — divenuti i negri d’Europa e da tutte le nazioni democratiche compianti e respinti. Nel 1939 si adoperò per far fuggire quanti rischiavano l’arresto e la morte, fu a sua volta arrestata dalla Gestapo e finì nel campo di concentramento di Ravensbrück. Libera e coraggiosa, amava ardentemente la vita: era «forte come il mare», secondo la definizione di Kafka. Si arrese a un’infezione renale solo il 17 maggio del 1944.
il manifesto 16.6.18
Rapporti armonici della vita cercati con parole e note
«La vendetta di Dioniso». Il saggio di Marco Maurizi mette alla prova l’estetica del filosofo Theodor Adorno
Emma Parker, «A book about being broken»
di Gianpaolo Cherchi


La teoria musicale adorniana ha sempre subito critiche severe e intransigenti. Vuoi per quel modo di fare filosofia della musica col martello, vuoi per il legame che il filosofo tedesco Theodor Adorno istituiva costantemente fra musica e dominio, i suoi giudizi sono spesso stati visti come tentativi tendenziosi di piegare l’estetica compositiva a esigenze di natura ideologica e politica, e le sue invettive nei confronti della musica leggera e le critiche ingenerose verso il jazz come il frutto di uno spiccato elitarismo aristocratico, come l’espressione di valori ormai inattuali. Tuttavia, «che il nostro tempo e la nostra musica siano diverse non significa che le analisi di Adorno siano superate». Questo è il principio che anima il saggio di Marco Maurizi La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana (Jaka Book, pp. 317, euro 18). L’autore adopera le categorie adorniane per metterle alla prova, tentando di comprendere se possano essere utili ancora oggi, in un panorama musicale e culturale completamente trasformato.
E PROPRIO parafrasando Adorno, l’autore è convinto che oggi più che mai vi sia bisogno di una filosofia della musica postmoderna, senza per questo credere all’esistenza del postmoderno come categoria centrale della nostra epoca. La musica postmoderna, infatti, non solo esiste senza alcun dubbio mentre la filosofia postmoderna probabilmente no, ma «essa è infinitamente più vitale, seria e, soprattutto, vera della sua controparte filosofica». Si tratta infatti di una musica che travalica e supera le differenze classiche fra alto e basso, colto e pop, tradizione e progresso: all’unità organica preferisce la valorizzazione del frammento, al carattere sistematico e chiuso dell’opera preferisce anteporre quello aperto della performance.
Inoltre, il famigerato ruolo del soggetto – la cui morte e dissoluzione viene cantata all’unisono dal coro di voci bianche dei filosofi postmoderni – viene costantemente messo in questione dalla normale prassi musicale, che mediante l’appropriazione di temi altrui, l’ibridazione, le citazioni, costruisce un linguaggio e un’istanza espressiva nuove, in un continuo trascendimento del canone. Si capisce perciò in che senso Adorno parlasse della musica come di un linguaggio non-intenzionale, proprio perché essa «infrange l’idea dell’unità del soggetto prima ancora che si costituisca».
MA CONSIDERARE ancora validi i suoi giudizi significa allora, forse, respingere la tesi dell’invecchiamento della musica e della regressione dell’ascolto? Al di là delle grossolane sviste sul jazz (solo in parte giustificabili con la scusa di aver lasciato gli States senza assistere a quel processo che dallo swing porterà prima al bebop e poi alla rivoluzione del jazz modale) la lezione di Adorno sembra essere vera, paradossalmente, nella misura in cui oggi la musica sembra essere andata in una direzione contro-fattuale rispetto alle sue deduzioni. Da un lato infatti, l’industria culturale si è col tempo appropriata del processo di emancipazione della dissonanza, standardizzando e neutralizzando la sua dialettica interna proprio laddove essa sembra esprimere il maggior grado di libertà e varietà.
IL TENTATIVO à la John Cage di giungere a una libertà compositiva assoluta si rivela ben presto una «reazione paranoica al terrore dell’identico», e così il mito della liberazione musicale finisce per essere un comodo sostituto della liberazione sociale. Dall’altro lato, però, la musica sembra possedere oggi il suo potenziale innovativo nel «sovraccarico concettuale del suono», che permette di far saltare dall’interno «le forme fisse che veicolano il piacere degli ascoltatori» operando uno «snaturamento del linguaggio» che lotta contro ogni forma di regressione, senza soddisfarsi di quello che Adorno chiamava l’appagante dei rapporti armonici e simmetrici.
DA FRANK ZAPPA ai Velvet Underground, passando per Johnny Rotten, i Sonic Youth e i Nirvana, la musica postmoderna ha allora portato avanti metodicamente un ideale della «sporcizia» come valore, e così è stata in grado di ridare nuova linfa persino alla forma-canzone, risolvendo il problema «dell’apparente esaurimento delle sue possibilità espressive» con la voce di Cobain che «canta ai limiti delle sue possibilità fisiche».
E poco importa se le urla sostituiscono la melodia. Bisogna piuttosto chiedersi, come faceva Nietzsche: chi saprebbe mai confutare un suono?
Repubblica 16.6.18
Memorie dal sottosuolo
Così il cervello riscrive i brutti ricordi
Il segreto svelato studiando i topi: il trauma iniziale registrato dai neuroni viene modificato ma non cancellato
Prima e dopo In verde i neuroni attivi con il ricordo del trauma.
In rosso gli stessi neuroni quando il ricordo non è più traumatico
di Giuliano Aluffi


Riscrivere i ricordi non è solo un desiderio fantascientifico come quello di Jim Carrey e Kate Winslet nel film Se mi lasci ti cancello: si può davvero, e anzi è l’unico modo per liberare il cervello da episodi traumatici e ansiogeni. Lo suggerisce il primo studio a far luce sui meccanismi neurologici che rendono efficaci le terapie cognitive contro le fobie e il disturbo da stress post traumatico, pubblicato su Science da neuroscienziati del Brain mind institute del Politecnico di Losanna.
Per liberarci di un ricordo traumatico, la terapia oggi più usata è l’esposizione: invece di evitare a tutti i costi lo stimolo ansiogeno, per esempio stare lontani dai cani perché da piccoli si è stati morsi, ci si espone gradualmente, e in maniera crescente, allo stimolo, ma in un contesto controllato e sicuro.
Finché, piano piano, non si impara ad associare lo stimolo a una sensazione di sicurezza. La strategia funziona, ma finora non si conosceva il suo reale effetto sul cervello: l’esposizione crea un nuovo ricordo sereno che va a rimpiazzare del tutto il ricordo traumatico iniziale, oppure modifica il ricordo iniziale senza cancellarlo? Queste le due ipotesi dibattute tra gli scienziati.
Per risolvere la questione il gruppo svizzero guidato da Johannes Gräff ha utilizzato topi geneticamente modificati perché i loro neuroni diventassero fluorescenti quando attivi. Ad ogni topo è stato insegnato ad associare un contesto preciso (una scatola ben riconoscibile) a una scossa elettrica. Al momento dello shock, un gruppo di neuroni del giro dentato (area dell’ippocampo importante per il consolidamento della memoria) è diventato fluorescente: erano i neuroni che hanno memorizzato il trauma. Un mese dopo, si è provato a guarire il topo dalla sua paura, ricorrendo alla terapia di esposizione, ossia rimettendolo nella scatola ma senza più dargli alcuna scossa.
Una volta superata la paura, si è visto che non solo i neuroni associati al ricordo iniziale erano ancora attivi, ma che anzi più erano attivi, più il topo appariva sicuro e a suo agio. «Abbiamo capito che i neuroni del giro dentato immagazzinano i ricordi negativi, ma sono anche importanti per guarire dai traumi psicologici» spiega Johannes Gräff. «Poi abbiamo preso un altro topo che aveva vissuto lo stesso trauma, e abbiamo disattivato con un farmaco il gruppo di neuroni associato al suo ricordo traumatico: sorprendentemente, questa volta la terapia di esposizione falliva. Il topo continuava a essere impaurito ogni volta che lo si metteva nella scatola. Questo ci ha fatto capire che il gruppo di neuroni del ricordo iniziale era non solo utile, ma indispensabile per poter vincere la paura. In più abbiamo visto che se, durante la terapia, invece di spegnere i neuroni del ricordo iniziale li eccitiamo, il topo diventa ancora più coraggioso». Il cervello funziona quindi come un hard-disk: richiama i ricordi e li riscrive, invece di cancellarli del tutto o rimpiazzarli con qualcosa di nuovo. «In psicoterapia si sapeva – ma solo a livello empirico, vedendo i risultati dei vari trattamenti – che più rievochi le tue paure, più le supererai. Ma il fenomeno non era mai stato studiato a livello cellulare» spiega Gräff . «La nostra è una conferma che la riattivazione del trauma è cruciale. Il prossimo passo è capire cosa succede a neuroni e geni per ottenere questo effetto curante. Perché allora sì che potremmo pensare a terapie del tutto nuove». Per Gräff è una sorta di sfida familiare: «A sei anni chiesi a mio padre cosa fosse la psicoterapia, visto che lui la stava seguendo. Prese un foglio e disegnò una faccina sorridente e una triste, con segni sulla fronte, come cicatrici. Mi disse che la psicoterapia era ciò che poteva cancellare quei segni e far tornare la faccina a sorridere».
Repubblica 16.6.18
Memorie dal sottosuolo
Così il cervello riscrive i brutti ricordi
Il segreto svelato studiando i topi: il trauma iniziale registrato dai neuroni viene modificato ma non cancellato
Prima e dopo In verde i neuroni attivi con il ricordo del trauma.
In rosso gli stessi neuroni quando il ricordo non è più traumatico
di Giuliano Aluffi


Riscrivere i ricordi non è solo un desiderio fantascientifico come quello di Jim Carrey e Kate Winslet nel film Se mi lasci ti cancello: si può davvero, e anzi è l’unico modo per liberare il cervello da episodi traumatici e ansiogeni. Lo suggerisce il primo studio a far luce sui meccanismi neurologici che rendono efficaci le terapie cognitive contro le fobie e il disturbo da stress post traumatico, pubblicato su Science da neuroscienziati del Brain mind institute del Politecnico di Losanna.
Per liberarci di un ricordo traumatico, la terapia oggi più usata è l’esposizione: invece di evitare a tutti i costi lo stimolo ansiogeno, per esempio stare lontani dai cani perché da piccoli si è stati morsi, ci si espone gradualmente, e in maniera crescente, allo stimolo, ma in un contesto controllato e sicuro.
Finché, piano piano, non si impara ad associare lo stimolo a una sensazione di sicurezza. La strategia funziona, ma finora non si conosceva il suo reale effetto sul cervello: l’esposizione crea un nuovo ricordo sereno che va a rimpiazzare del tutto il ricordo traumatico iniziale, oppure modifica il ricordo iniziale senza cancellarlo? Queste le due ipotesi dibattute tra gli scienziati.
Per risolvere la questione il gruppo svizzero guidato da Johannes Gräff ha utilizzato topi geneticamente modificati perché i loro neuroni diventassero fluorescenti quando attivi. Ad ogni topo è stato insegnato ad associare un contesto preciso (una scatola ben riconoscibile) a una scossa elettrica. Al momento dello shock, un gruppo di neuroni del giro dentato (area dell’ippocampo importante per il consolidamento della memoria) è diventato fluorescente: erano i neuroni che hanno memorizzato il trauma. Un mese dopo, si è provato a guarire il topo dalla sua paura, ricorrendo alla terapia di esposizione, ossia rimettendolo nella scatola ma senza più dargli alcuna scossa.
Una volta superata la paura, si è visto che non solo i neuroni associati al ricordo iniziale erano ancora attivi, ma che anzi più erano attivi, più il topo appariva sicuro e a suo agio. «Abbiamo capito che i neuroni del giro dentato immagazzinano i ricordi negativi, ma sono anche importanti per guarire dai traumi psicologici» spiega Johannes Gräff. «Poi abbiamo preso un altro topo che aveva vissuto lo stesso trauma, e abbiamo disattivato con un farmaco il gruppo di neuroni associato al suo ricordo traumatico: sorprendentemente, questa volta la terapia di esposizione falliva. Il topo continuava a essere impaurito ogni volta che lo si metteva nella scatola. Questo ci ha fatto capire che il gruppo di neuroni del ricordo iniziale era non solo utile, ma indispensabile per poter vincere la paura. In più abbiamo visto che se, durante la terapia, invece di spegnere i neuroni del ricordo iniziale li eccitiamo, il topo diventa ancora più coraggioso». Il cervello funziona quindi come un hard-disk: richiama i ricordi e li riscrive, invece di cancellarli del tutto o rimpiazzarli con qualcosa di nuovo. «In psicoterapia si sapeva – ma solo a livello empirico, vedendo i risultati dei vari trattamenti – che più rievochi le tue paure, più le supererai. Ma il fenomeno non era mai stato studiato a livello cellulare» spiega Gräff . «La nostra è una conferma che la riattivazione del trauma è cruciale. Il prossimo passo è capire cosa succede a neuroni e geni per ottenere questo effetto curante. Perché allora sì che potremmo pensare a terapie del tutto nuove». Per Gräff è una sorta di sfida familiare: «A sei anni chiesi a mio padre cosa fosse la psicoterapia, visto che lui la stava seguendo. Prese un foglio e disegnò una faccina sorridente e una triste, con segni sulla fronte, come cicatrici. Mi disse che la psicoterapia era ciò che poteva cancellare quei segni e far tornare la faccina a sorridere».


il manifesto 16.6.18
Rapporti armonici della vita cercati con parole e note
«La vendetta di Dioniso». Il saggio di Marco Maurizi mette alla prova l’estetica del filosofo Theodor Adorno
Emma Parker, «A book about being broken»
di Gianpaolo Cherchi


La teoria musicale adorniana ha sempre subito critiche severe e intransigenti. Vuoi per quel modo di fare filosofia della musica col martello, vuoi per il legame che il filosofo tedesco Theodor Adorno istituiva costantemente fra musica e dominio, i suoi giudizi sono spesso stati visti come tentativi tendenziosi di piegare l’estetica compositiva a esigenze di natura ideologica e politica, e le sue invettive nei confronti della musica leggera e le critiche ingenerose verso il jazz come il frutto di uno spiccato elitarismo aristocratico, come l’espressione di valori ormai inattuali. Tuttavia, «che il nostro tempo e la nostra musica siano diverse non significa che le analisi di Adorno siano superate». Questo è il principio che anima il saggio di Marco Maurizi La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana (Jaka Book, pp. 317, euro 18). L’autore adopera le categorie adorniane per metterle alla prova, tentando di comprendere se possano essere utili ancora oggi, in un panorama musicale e culturale completamente trasformato.
E PROPRIO parafrasando Adorno, l’autore è convinto che oggi più che mai vi sia bisogno di una filosofia della musica postmoderna, senza per questo credere all’esistenza del postmoderno come categoria centrale della nostra epoca. La musica postmoderna, infatti, non solo esiste senza alcun dubbio mentre la filosofia postmoderna probabilmente no, ma «essa è infinitamente più vitale, seria e, soprattutto, vera della sua controparte filosofica». Si tratta infatti di una musica che travalica e supera le differenze classiche fra alto e basso, colto e pop, tradizione e progresso: all’unità organica preferisce la valorizzazione del frammento, al carattere sistematico e chiuso dell’opera preferisce anteporre quello aperto della performance.
Inoltre, il famigerato ruolo del soggetto – la cui morte e dissoluzione viene cantata all’unisono dal coro di voci bianche dei filosofi postmoderni – viene costantemente messo in questione dalla normale prassi musicale, che mediante l’appropriazione di temi altrui, l’ibridazione, le citazioni, costruisce un linguaggio e un’istanza espressiva nuove, in un continuo trascendimento del canone. Si capisce perciò in che senso Adorno parlasse della musica come di un linguaggio non-intenzionale, proprio perché essa «infrange l’idea dell’unità del soggetto prima ancora che si costituisca».
MA CONSIDERARE ancora validi i suoi giudizi significa allora, forse, respingere la tesi dell’invecchiamento della musica e della regressione dell’ascolto? Al di là delle grossolane sviste sul jazz (solo in parte giustificabili con la scusa di aver lasciato gli States senza assistere a quel processo che dallo swing porterà prima al bebop e poi alla rivoluzione del jazz modale) la lezione di Adorno sembra essere vera, paradossalmente, nella misura in cui oggi la musica sembra essere andata in una direzione contro-fattuale rispetto alle sue deduzioni. Da un lato infatti, l’industria culturale si è col tempo appropriata del processo di emancipazione della dissonanza, standardizzando e neutralizzando la sua dialettica interna proprio laddove essa sembra esprimere il maggior grado di libertà e varietà.
IL TENTATIVO à la John Cage di giungere a una libertà compositiva assoluta si rivela ben presto una «reazione paranoica al terrore dell’identico», e così il mito della liberazione musicale finisce per essere un comodo sostituto della liberazione sociale. Dall’altro lato, però, la musica sembra possedere oggi il suo potenziale innovativo nel «sovraccarico concettuale del suono», che permette di far saltare dall’interno «le forme fisse che veicolano il piacere degli ascoltatori» operando uno «snaturamento del linguaggio» che lotta contro ogni forma di regressione, senza soddisfarsi di quello che Adorno chiamava l’appagante dei rapporti armonici e simmetrici.
DA FRANK ZAPPA ai Velvet Underground, passando per Johnny Rotten, i Sonic Youth e i Nirvana, la musica postmoderna ha allora portato avanti metodicamente un ideale della «sporcizia» come valore, e così è stata in grado di ridare nuova linfa persino alla forma-canzone, risolvendo il problema «dell’apparente esaurimento delle sue possibilità espressive» con la voce di Cobain che «canta ai limiti delle sue possibilità fisiche».
E poco importa se le urla sostituiscono la melodia. Bisogna piuttosto chiedersi, come faceva Nietzsche: chi saprebbe mai confutare un suono?

Repubblica 16.6.18
Storia di Milena la Musa di Kafka che cambiò il ’ 900
di Melania Mazzucco


Il cognome era Jesenská, il nome di battesimo fu reso eterno dalle lettere d’amore che le spedì lo scrittore. Ma non visse all’ombra del genio: i suoi testi ora ripubblicati svelano un’autrice di talento, dallo spirito femminista
Provveda per favore che le mie lettere che erano in mano di Franz siano date alle fiamme». Così, nel luglio del 1924, chiese Milena Jesenská a Max Brod. Kafka era morto da poche settimane ma lei non gli scriveva più da tempo — da quando, dal sanatorio sui monti Tatra, Kafka le aveva rivolto una «preghiera veramente mortale e ad un tempo un ordine: Non scrivere e impedisci che ci incontriamo». Questo solo avrebbe potuto permettergli di continuare a vivere. All’amico, anche Kafka aveva chiesto di bruciare le sue carte. Brod — come noto — non rispettò la sua volontà, e la storia della letteratura del Novecento è cambiata per sempre. La volontà di Milena fu invece eseguita, e così la fittissima corrispondenza tra loro è oggi nota come un monologo. Uno straordinario autoritratto dello scrittore, tanto da contenere la celebre frase «Tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso». Insieme alla Lettera al padre e alle Lettere a Felice, rappresenta il documento capitale per la conoscenza del mondo interiore di Kafka.
Ma a differenza di molte destinatarie ammutolite dalla distruzione delle loro lettere, la voce di Milena Jesenská è sopravvissuta. Non solo perché Kafka cita nelle proprie lettere qualche frase di lei. Ma perché Milena era una scrittrice. O avrebbe potuto esserlo, se le circostanze della sua vita e della storia glielo avessero permesso. Bionda, elegante, figlia di un ricco professore di stomatologia all’università di Praga, aveva ricevuto un’educazione moderna nel primo liceo classico femminile dell’Europa centrale. Cresciuta nel privilegio, si era fatta notare per la sua libertà e il suo anticonformismo: ostentava atteggiamenti lesbici, frequentava hotel malfamati, sperimentava droghe e i poliziotti l’avevano sorpresa a rubare nei negozi e a cogliere magnolie di notte in un parco (il professore aveva sempre rimediato). Ma quando Kafka la conobbe, non aveva un soldo.
Nel 1916, a vent’anni, Milena aveva intrecciato una relazione con Ernst Pollak: dieci anni più vecchio, dandy, donnaiolo, ma soprattutto ebreo. Per impedirle di frequentarlo e di sperperare denaro per lui, il padre l’aveva perfino rinchiusa nel manicomio di Veleslavin.
Invano, perché appena maggiorenne Milena lo sposò e lo seguì a Vienna. Nel maggio del 1920, quando iniziò la corrispondenza con Kafka, si guadagnava da vivere portando valigie alla stazione, scrivendo articoli per la rivista Tribuna e offrendo traduzioni dal tedesco. Tra queste, quelle di alcuni racconti di Kafka: Milena fu una delle sue prime lettrici e la più lungimirante.
Riconobbe subito il genio del timido, scrupoloso e tranquillo impiegato dell’Istituto d’assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori di Praga: un uomo insolito e profondo quanto i suoi testi.
Allora Kafka soggiornava in una pensione di Merano per curarsi i polmoni. Così lo descrisse Milena: «»lto, magro, il viso aguzzo e spigoloso, bello, malvagio e incredibilmente buono». Aveva 38 anni ma, come le fece notare, essendo ebreo, era già stato logorato dalla paura e dall’angoscia.
Fidanzato con Julie Wohryzek, pur desiderando il matrimonio cercava un’occasione per evitarlo. Milena invece ne aveva 24: pur essendo anche lei malata, reduce da un tentativo di suicidio e logorata dai tradimenti del marito, gli era apparsa come l’immagine della vita stessa. Iniziarono a scriversi tutti i giorni. Lei scriveva lettere che gli causavano tormento e spavento, lui lettere inconcludenti e ossessive, che dovevano allarmarla e invece la stimolavano a cercare di conoscerlo davvero. Pagine e pagine di riflessioni, progetti bislacchi, fantasticherie. Kafka la sognava spesso, e i suoi sogni non erano meno inquietanti e allucinati dei racconti che andava scrivendo. Le corrispondenze da Vienna che lei andava pubblicando, invece, erano spigliate e ironiche. Kafka apprezzava gli articoli di Milena. Trovava fresco e vivace il suo cèco, e acutissime le sue osservazioni sui costumi e i caratteri degli esseri umani. Non era solo l’amore per quella giovane donna esuberante come un uragano, passionale (e perciò terrificante come una Medusa) a renderlo così generoso nel giudizio.
Oggi possiamo leggere le corrispondenze di Milena (tradotte però dal tedesco da Donatella Frediani) nel volume Qui non può trovarmi nessuno,
curato da Dorothea Rein e corredato da una esauriente nota biografica (editore Giometti & Antonello). Le cronache viennesi di Milena forniscono un vivido spaccato della vita nella capitale del defunto Impero austroungarico nel primo dopoguerra — devastata dalla penuria, ma irrimediabilmente frivola e noncurante, in cui ogni gerarchia sociale è sovvertita (gli impiegati e i piccoli borghesi ridotti alla fame, gli operai e i proletari arricchiti dalla borsa nera).
Milena scriveva tuttavia anche articoli più personali: osservare il mondo stando in disparte, come dietro il vetro di una finestra, era la sua vocazione.
Scriveva di matrimonio, sesso, aborto. E di film. Fu tra le prime a intuire il potere consolatorio e sonnifero della cinematografia americana e a esaltare la modernità problematica di registi come Charlie Chaplin e Mauritz Stiller.
Milena e Kafka, che lei chiamava Frank, si scrissero un’infinità di lettere e telegrammi, ma si incontrarono solo due volte. La prima, per 4 giorni, a Vienna, alla fine di luglio del 1920.
Kafka capì che lei non avrebbe lasciato il marito, Milena che lui non avrebbe lasciato la sua malattia, che gli era necessaria per vivere. Puro, privo di difese, Kafka era inadatto all’esistenza. Perfino fare l’elemosina a una mendicante o chiedere un permesso al suo superiore d’ufficio lo gettavano nell’angoscia. La seconda volta, fu in un alberghetto di Gmünd, sulla frontiera. Un giorno solo, in agosto, fitto di malintesi, causa di imperitura vergogna per lui e sensi di colpa per lei, troppo donna — così Milena confessò a Max Brod — per votarsi a una vita d’ascesi.
La rottura non mise fine all’ammirazione di Milena per Kafka. Alla sua morte, scrisse un necrologio che ancora sorprende per la lucidità con cui descrive l’uomo e riconosce la grandezza dello scrittore. Se fosse sopravvissuto alla tisi e all’angoscia, Kafka sarebbe diventato forse un esule incompreso e ridicolo come il signor Kafka che insegnò ebraico a Philip Roth nella Newark degli anni Quaranta (e che Roth raccontò in Ho sempre voluto che ammiraste il mio
digiuno, ovvero, guardando Kafka). Milena sopravvisse a Kafka, al marito e al parto difficile della sua unica figlia, che la invalidò per anni e la rese morfinomane. Non divenne la scrittrice che avrebbe potuto essere. Ma fu qualcosa di più: la testimone della catastrofe europea.
Infatti, più degli spigliati feuilleton che piacquero a Kafka, apprezziamo oggi i suoi articoli onirici (come Un sogno del 1921, in cui lei, cristiana, profetizza la persecuzione degli ebrei) e i reportage politici del 1937-39. Milena narra con lucidità e orrore l’avanzata del nazismo nel suo paese e la tragedia dei profughi — socialisti, comunisti ed ebrei — divenuti i negri d’Europa e da tutte le nazioni democratiche compianti e respinti. Nel 1939 si adoperò per far fuggire quanti rischiavano l’arresto e la morte, fu a sua volta arrestata dalla Gestapo e finì nel campo di concentramento di Ravensbrück. Libera e coraggiosa, amava ardentemente la vita: era «forte come il mare», secondo la definizione di Kafka. Si arrese a un’infezione renale solo il 17 maggio del 1944.

il manifesto 16.6.18
In tre mesi già 169 casi di violenza razzista in Italia
Dossier di Lunaria. Il rapporto individua due cause della diffusione del senso comune xenofobo e destrorso: la deriva securitaria del governo precedente e la cassa di risonanza dei media
di Rachele Gonnelli


L’Italia del buon cuore, della carità cristiana, addirittura delle lacrime facili, è stata soppianta da una moda «cattivista» che lascia senza respiro, nella quale «il razzismo è diventato un logo di successo, non solo in campo politico». Alimentato dai social – che però servono anche da antidoto e strumento di mobilitazione dal basso in senso opposto -, l’hate speech che ha per oggetto quasi unico la rivalsa contro gli immigrati è entrato nel senso comune, tra i ragazzini e persino in alcuni spot del tipo «prima gli italiani» anche di grandi agenzie come la Armando Testa (traghetti).
In attesa di una indagine accurata dal punto di vista antropologico, di questo propagarsi di «un veleno nazionalista, xenofobo e razzista» dà conto l’ultima indagine dell’associazione Lunaria – scaricabile anche dal sito Cronache di ordinario razzismo – dal titolo «Il ritorno della razza».
Il dossier, pubblicato ieri, fotografa e cerca di trovare spiegazioni dei 169 casi di violenze razziste, verbali e fisiche, e di discriminazioni accertate solo nel primo trimestre dell’anno (nell’intero 2017 furono 557). Il focus si ferma dunque al 31 marzo, prima dell’assassinio del sindacalista di origini maliane Soumaila Sacko nelle campagne intorno a Rosarno. Nei primi tre mesi di quest’annus horribilis, iniziato con l’elogio della «razza bianca» di Attilio Fontana, allora candidato e ora governatore della Lombardia, si contano: un morto e 26 feriti.
Il caso più grave resta quello di Idy Diene, senegalese 55enne venditore di ombrelli ucciso a Firenze il 5 marzo, colpito in quanto con la pelle di un altro colore e prima vittima dell’anno anche se l’aggravante di razzismo non è stata riconosciuta dagli inquirenti. Tra le 26 persone ferite, sei sono quelle da arma da fuoco del tiro al bersaglio dalla pelle scura di Luca Traini a Macerata il 3 febbraio. Gli altri sono pestaggi.
Il rapporto mette sul banco degli imputati, per il diffondersi di questo odio selettivo, due elementi: «lo slittamento sicuritario dell’ultimo anno fortemente voluto dall’ex ministro dell’Interno (Minniti)» e i media, che hanno fatto da cassa di risonanza dei discorsi più barbari e del linguaggio più semplificato e involgarito della destra razzista e fascista.

il manifesto 16.6.18
«In piazza nel ricordo di Sacko, uniamoci contro il razzismo»
Intervista a Aboubakar Soumahoro . Il sindacalista che guida i braccianti Usb: come i rider vogliamo paga dignitosa. Un tessuto sociale è stato costruito dalla Turco– Napolitano passando per la Minniti–Orlando fino al contratto di questo governo. Il tessuto legislativo fa cultura. È la legge Bossi-Fini col vincolo lavoro-permesso che impone di accettare lo sfruttamento, creando uno stato di ricattabilità che trascina verso il basso l’insieme dei lavoratori
di Fabrizio Rostelli


A distanza di due settimane dal brutale omicidio del sindacalista Usb e bracciante maliano Soumaila Sacko, l’Unione sindacale di base oggi manifesterà per le strade di Roma a sostegno di una piattaforma di lotta alle disuguaglianze sociali e contro i vincoli dell’Unione Europea. «Soumaila non è l’extracomunitario, non è il migrante; è la persona, l’uomo, il lavoratore, il bracciante, il sindacalista Usb. Vorrei dire al ministro Salvini che per noi la pacchia non è mai esistita, per noi esiste il lavoro. Ora la pacchia è finita per lui, perché risponderemo». Le parole del sindacalista italo-ivoriano Aboubakar Soumahoro hanno fatto subito breccia nell’opinione pubblica. «Non voglio parlare di me – spiega Aboubakar – abbiamo un morto ammazzato e stiamo cercando di portare avanti un percorso collettivo. Non ci battiamo per la condizione del singolo ma per quella degli uomini e delle donne nelle campagne, come il nostro compagno Sacko. Soumaila era un lavoratore e, come molti operai invisibili di altri settori, lavorava ben oltre le 6 ore e mezza stabilite dal contratto. Il suo è stato un impegno come sindacalista, all’interno di un progetto collettivo. Questo processo parla di braccianti che, seppur lavorando 12 ore al giorno, non riescono a vedersi riconosciute nella busta paga le giornate di lavoro effettive, impedendogli di poter accedere alla disoccupazione agricola. Dal punto di vista sociale, vivere all’interno di quelle lamiere e baraccopoli fa emergere la violenza e la barbarie costruite nel corso degli anni, anche sul piano legislativo. Questo è il terreno su cui tutti devono misurarsi e lo può fare solo un sindacato che ha come prospettiva la ricomposizione della classe operaia, che esiste, che non è mai scomparsa ma che probabilmente si trova in quei luoghi dove i riflettori non vengono mai accesi finché non viene fucilato un bracciante o finché non muore un lavoratore della logistica durante uno sciopero. Questo sarà il tema che porteremo all’interno della manifestazione di Roma e nell’appuntamento che abbiamo lanciato per il 23 giugno a Reggio Calabria, in ricordo di Soumaila e contro lo sfruttamento».
In una settimana sono stati versati sul conto corrente messo a disposizione dalla Federazione nazionale Usb circa 38mila euro che serviranno a garantire un reddito alla moglie e alla figlia di Soumaila ed a coprire le spese per il rimpatrio della salma e per gli iter giudiziari. Inoltre, come richiesto specificamente e pubblicamente dai familiari, una parte del fondo sarà utilizzata per continuare l’organizzazione e la sindacalizzazione dei braccianti.
Avete avuto dei nuovi contatti con il ministro del Lavoro Luigi Di Maio? Quali priorità dovrebbe affrontare?
Il 7 giugno abbiamo chiesto ufficialmente un incontro al ministro ma al momento non abbiamo avuto alcun riscontro, a parte qualche dichiarazione in tv dove Di Maio ha affermato che incontrerà tutti. La priorità da affrontare è senza dubbio il nodo dello sfruttamento dei braccianti. Quei lavoratori e quelle lavoratrici ricevono una paga giornaliera che varia dai 2,5 ai 3 euro. Alcuni percepiscono una busta paga mensile di 50 euro, altri addirittura vengono pagati in natura, con chili di pasta e litri di olio. Questi temi non possono essere demandati al ministero degli interni, qui si tratta di affrontare i diritti dei lavoratori al di là del colore della pelle o dei documenti che hanno in tasca. Uguale lavoro, uguale salario.
C’è chi accusa gli immigrati di accontentarsi di salari molto bassi e conseguentemente di abbassare il livello medio degli stipendi.
Gli immigrati non si accontentano, vengono costretti da una logica e da un ordinamento che impone tutto questo. È il caso ad esempio della legge Bossi-Fini che stabilisce un vincolo obbligatorio tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno. Si impone a questa parte della classe operaia di accettare quelle condizioni di sfruttamento, creando uno stato di vulnerabilità e una ricattabilità tali da trascinare verso il basso l’insieme dei lavoratori.
Gli immigrati possono rappresentare una forza di cambiamento sociale?
Secondo noi il tema è un altro. Quella parte di lavoratori maggiormente esposta alle forme arcaiche di sfruttamento può essere elemento trainante per un cambiamento, senza scendere nella dimensione della provenienza geografica. Il tema è: cosa potrebbe unire le donne e gli uomini che si spaccano la schiena nelle campagne ed i rider (i fattorini ingaggiati dalle piattaforme della gig economy, ndr), impegnati in un percorso di ricomposizione e di lotta? Cosa li può far stare uno accanto all’altro in un corpo fatto di meticciato, dentro una classe operaia che ha una moltitudine di lingue e di colori? La risposta è: la paga. Un lavoratore delle campagne guadagna giornalmente 2,5 o 3 euro, un rider quanto guadagna? La paga oraria è più o meno la stessa 3, massimo 4 euro. È evidente che la ricerca di una paga dignitosa diventa l’elemento comun denominatore intorno al quale riavviare processi di ricomposizione della classe lavoratrice.
In che modo sarebbe possibile arginare le tendenze razziste e xenofobe?
Credo che quello che abbiamo davanti sia un tessuto sociale che è stato costruito nel corso degli anni dalle varie forze politiche che si sono alternate a livello amministrativo e governativo nel parlamento. Ad esempio le leggi Bossi–Fini o Turco–Napolitano, sono due facce della stessa medaglia; lo stesso discorso vale per la Minniti–Orlando e per il contratto che sta alla base di questo governo. Il tessuto legislativo fa cultura.
Non vedi alcuna differenza?
La filosofia di fondo è la stessa. Nel corso degli anni ha preso corpo un’equazione dove migrante è sinonimo di marginalità e profugo è sinonimo di una sottospecie umana, un diverso rispetto agli altri. La disumanizzazione è stata così banalizzata da entrare nel corpo culturale di una parte della popolazione, non solo dal punto di vista legislativo ma anche sociale.
La lotta di classe esiste ancora?
I padroni non l’hanno mai interrotta. Analizzando le condizioni di sfruttamento dei braccianti o dei rider è evidente che c’è una parte che ha saputo adattarsi ai tempi ma che non ha mai arrestato questa lotta. Come Usb non abbiamo mai creduto alle tesi di chi si era illuso sostenendo che non solo non esisteva più la classe operaia, ma che addirittura che non esisteva più il conflitto. I braccianti, i lavoratori della logistica, i precari dimostrano che esiste ancora una classe lavoratrice.

il manifesto 16.6.18
«Norme non applicate, e i migranti minorenni spariscono»
Se questa è Europa. Intervista a Giulia Capitani che ha realizzato il rapporto Oxfam: «In un anno e mezzo la Francia ha respinto 19mila minori. E sono ormai molti gli irreperibili, spesso finiti nelle mani di trafficanti»
di Adriana Pollice


«Le prassi della polizia francese al confine violano palesemente il codice d’Oltralpe, che per altro è in fase di revisione secondo principi più restrittivi» spiega Giulia Capitani di Oxfam, che ha realizzato il rapporto Se questa è Europa.
La Francia può respingere i minori non accompagnati?
Le loro norme distinguono tra il territorio e le zone di confine. Nel primo caso non è possibile. Nelle zone di frontiera invece è possibile se il minore non fa richiesta di asilo ma solo dopo precise garanzie: la nomina di un tutore e un periodo di minimo 24 ore tra il fermo e il respingimento in cui viene informato dei suoi diritti, inclusa la possibilità di contattare parenti o legali.
Niente di tutto questo è rispettato: nel documento con cui vengono rispediti in Italia, che gli agenti compilano in loro vece, viene sistematicamente indicata l’opzione «voglio ripartire il più rapidamente possibile».
Vi siete opposti a questa pratica?
Abbiamo fatto ricorso al Tribunale di Nizza e abbiamo vinto. Così la gendarmeria ha cambiato sistema: adesso alterano la data di nascita per farli risultare maggiorenni. Ne abbiamo le prove perché uno dei ragazzi è riuscito a procurarsi la fotocopia del primo verbale con la data esatta da confrontare con il documento con cui l’hanno rimandato in Italia. In un anno e mezzo la Francia ha respinto 19mila minori. Esiste un problema agghiacciante che è quello dei minori migranti irreperibili, spariti anche grazie alle norme non applicate, finiti nelle mani di trafficanti all’interno dei nostri confini.
Sono a rischio anche le donne.
La stessa Ventimiglia potrebbe essere un centro di smistamento delle reti della tratta. Ci sono donne che arrivano in gruppo, con qualcuno che porta i bagagli. È evidente che sono controllate. Poi spariscono, non le rivediamo né sotto il cavalcavia, né al Campo Roja, né in giro per la città.
L’Italia tutela i minori non accompagnati?
La normativa è stata modificata dalla legge Zampa del 2017, siamo in attesa dei decreti attuativi che dovrebbe fare il nuovo governo. Il testo dice che devono essere immediatamente inseriti in un circuito protetto, attraverso mediatori e assistenti sociali si dovrebbe individuare il percorso migliore per loro: l’asilo, il ricongiungimento familiare qui o all’estero, il permesso di soggiorno speciale. Spesso però restano abbandonati nei centri senza assistenza alcuna, anche per questo fuggono verso Ventimiglia.
a. po.

Repubblica 16.6.18
Il rapporto Oxfam
L’atto d’accusa su Ventimiglia “ La polizia francese maltratta i bimbi”
Paolo G. Brera


ROMA Chi è meno «vomitevole» scagli la prima pietra: un rapporto congiunto di Oxfam, Diaconia valdese e Asgi accusa la polizia francese di abusi ai limiti della tortura inflitti ai migranti — adulti e bambini non accompagnati — fermati oltre il confine di Ventimiglia e rispediti in Italia violando qualsiasi norma, oltre alla soglia minima della civiltà.
I gendarmi, accusa il rapporto, arrivano persino a «modificare la data di nascita dichiarata» dai ragazzini in fuga dalla guerra «in modo da farli apparire adulti per poterli respingere». Per di più, li trattano in modo disumano: «Li scherniscono — dice Chiara Romagna di Oxfam — li maltrattano e a molti hanno tagliato la suola delle scarpe, prima di rimandarli in Italia senza mettere in atto nessuna delle garanzie prevista dalla legge».
Avrebbero diritto a un traduttore, all’assistenza di un tutor e a un’informazione corretta sui loro diritti, ma trovano ben altro.
Nel giorno in cui Macron e Conte siglano una tregua barcollante sui migranti, le 24 pagine del rapporto “Se questa è l’Europa” aprono l’armadio degli orrori tra i versanti delle Alpi Marittime, lungo una frontiera «chiusa solo per le persone di colore. A nessun bianco controllano i documenti», dice Simone Alterisio di Diaconia Valdese.
«Ho provato a passare, ci hanno fatto scendere dal treno strattonandoci e urlando; poi ci hanno spinti in un furgone, ci hanno dato un foglio e ci hanno rimessi su un treno che tornava in Italia senza spiegarci nulla», dice nel rapporto un 15enne in fuga dagli orrori del Darfur.
E se li acciuffano dopo le sette di sera, quando per un accordo tra Italia e Francia non possono essere fatti respingimenti, «adulti e minori vengono trattenuti illegalmente nei locali della polizia ferroviaria francese in promiscuità, senza cibo né acqua, senza coperte o materassi e senza informazioni». Lì non hanno accesso «né interpreti né legali, e gli abusi fisici sono la norma», sostiene il rapporto: «Gli urlano, gli ridono in faccia, li spintonano e ad alcuni aprono il cellulare e portano via la scheda con tutti i dati e i contatti della rubrica», impedendo loro «di telefonare ai genitori», accusa Daniela Zitarosa di Intersos.
E non va certamente meglio se chi vorrebbe chiedere asilo è adulto: «Ci hanno fatto stare una notte in una stanzetta, accasciate sulle sedie senza cibo o acqua — racconta nel rapporto una donna 37enne fuggita dall’Iraq coi segni delle percosse dell’Isis. «Ci hanno spinto e strattonato, a me hanno pestato con forza i piedi e ora ho gli alluci neri. Mai, in nessun posto la polizia mi aveva trattata così».

il manifesto 16.6.18
Elettrochoc da strada
Pistole 2.0. Sfruttando il caso di Genova, si accelera la sperimentazione del taser, senza approfondire i casi etichetatti come «sindrome da delirio eccitato». Finirà che le forniranno agli psichiatri...
Esemplari di Taser, pistole elettriche
di Piero Cipriano


Jefferson Garcia, ventunenne ecuadoriano, non era, come scrive Il Fatto Quotidiano, «in cura per problemi psichici». Lo confermano gli psichiatri del territorio genovese. Non era conosciuto ai servizi di salute mentale. La madre chiama il 112 per una lite domestica. Jefferson, ebbro o forse sotto l’effetto di droghe, con un coltello minacciava di uccidersi, perché la moglie era andata via di casa. Di qui a parlare di Tso ce ne vuole. Ma, certo, soprattutto chi si occupa di informare, dovrebbe provare a non essere un portatore giornalistico di stigma, e sapere che il Trattamento sanitario obbligatorio è stabilito da due medici, il primo lo propone dopo aver visitato il paziente, il secondo lo convalida, poi il sindaco del luogo emette l’ordinanza (solo allora è Tso), infine un giudice tutelare stabilisce che il Tso è stato fatto a norma di legge, dunque convalida o rigetta. Quattro attori che, nel caso del Tso millantato del ragazzo ucciso non sono mai intervenuti. Allora non si può gridare superficialmente sconsideratamente allarmisticamente all’ennesima morte da Tso. Questa è una morte da polizia. Ricapitolando: viene chiamato il 112 per un ragazzo che minaccia il suicidio se sua moglie non torna a casa. Un medico che stabilisse la natura (psichica o tossica) della crisi, non ha fatto in tempo a vederlo, perché il ragazzo viene ucciso prima. Scrivere morto per Tso è una inferenza in malafede. I poliziotti intervenuti spruzzano sul suo viso del ragazzo uno spray urticante. Questo gesto invece di ridurlo a più miti consigli determina una escalation. Con il coltello da cucina che prima indirizzava a se stesso colpisce un poliziotto. Il collega più giovane, impaurito, spara cinque colpi. Deve essere talmente preso dal panico, per sparare cinque colpi, al corpo del ragazzo, colpendo perfino il suo collega. Il ragazzo muore. E questa morte viene narrata non come ennesimo caso di brutalità discrezionale della polizia. Non come conseguenza del cicalare razzista e xenofobo di questi giorni. Niente di tutto questo. È la morte di uno straniero matto, forse drogato. Morte di un reietto dal triplice stigma. Rispetto al quale cos’altro potevano fare i due fedeli servitori dello stato intervenuti con eroismo e coraggio? Il neo-ministro che gioca a fare il duce si dice vicino «come un papà» al poliziotto ferito che ha fatto il suo dovere. Questa madre che invoca giustizia non merita la sua vicinanza. Il ministro è papà solo per i poliziotti feriti. Lo straniero ucciso non merita parola.
QUALE SARÀ LA CONSEGUENZA di questo evento? Il neo-ministro Salvini e il capo della Polizia Gabrielli sono già d’accordo nel dotare le forze dell’ordine di pistola elettrica. La cosiddetta Taser. Sostengono che se i poliziotti ne fossero stato provvisti, Jefferson non sarebbe morto e uno dei due poliziotti non si sarebbe ferito.
Ma cos’è questa pistola elettrica? Jack Cover, scienziato aerospaziale, inventa il Taser negli anni 70. Avrebbe dovuto essere usata dalle forze di sicurezza in situazioni di emergenza, come i dirottamenti aerei, essendo un’alternativa non mortale alle pistole. Taser è acronimo di Thomas A. Swift’s Electronic Rifle (in italiano sarebbe: fucile elettronico di Tomas A. Swift). È una saga d’avventura, dove un personaggio, Tom Swift, inventa un’arma, che chiama fucile elettrico, per uccidere cannibali pigmei e animali selvatici africani. Potremmo dire che sembra l’arma ideale per gli inferiori, per gli anormali. Le Taser all’inizio vengono classificate come armi da fuoco, perché nella versione originale utilizzano polvere da sparo per sganciare dardi elettrificati. Nel 1993 la polvere da sparo viene sostituita con azoto compresso, e ciò rende la pistola conforme alle normative sulle armi da fuoco. Le Taser hanno due modalità: «dardo» e «drive stun». Il primo spara due dardi elettrificati, con forza tale da penetrare i vestiti e rilasciare una scarica elettrica di 50mila volt. La corrente scorre nel corpo della vittima finché l’agente tiene premuto il grilletto, con effetto neurolettico (ovvero di paralisi del sistema nervoso) potremmo dire, giacché impedisce qualsiasi movimento e causa spasmi muscolari. In modalità «drive stun», invece, la pistola viene premuta direttamente contro il corpo. Nel 2007, il Comitato delle Nazioni unite contro la tortura manifesta preoccupazione per l’utilizzo di queste armi, in grado di causare dolore estremo fino al decesso. Gli esperti però sostengono che a causare il decesso non siano gli effetti del Taser ma la «sindrome da delirio eccitato» (ricordo che quando morì Andrea Soldi nel 2015 si disse che era morto per questa sindrome, diagnosi di copertura con cui risolvere incidenti in cui sono coinvolte le forze dell’ordine; è stata tirata in ballo anche per la morte di Riccardo Magherini e molti altri), fantomatica sindrome non riconosciuta né dall’Associazione medica americana, né dall’Associazione americana di psichiatria, né dall’Organizzazione mondiale della sanità. Tuttavia citata come causa del decesso in 75 dei 330 casi collegati al Taser tra il 2001 e il 2008. Douglas Zipes, esperto di elettrofisiologia e dell’influenza degli impulsi elettrici sul cuore, ha analizzato il rapporto tra Taser e morti improvvise. I Taser, afferma, possano provocare l’arresto cardiaco, e tirare in ballo la sindrome da delirio eccitato in caso di decesso riconducibile a questa pistola è solo un modo per scagionare Taser International da azioni legali.
IN ITALIA, DA ALCUNI MESI, a Milano, Brindisi, Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia la polizia e i carabinieri già stanno sperimentando la Taser al posto del (violento, primitivo, rozzo, scomodo) manganello.
L’ipotesi di utilizzare la Taser era stata valutata già nel 2014 quando, con Angelino Alfano ministro dell’Interno, era stato approvato un emendamento nell’ambito del decreto-legge sulla sicurezza negli stadi, per avviarne la sperimentazione. Solo negli ultimi mesi, però, si è arrivati a una soluzione condivisa con i sindacati del settore, che ritengono che la pistola elettrica possa ridurre gli interventi corpo a corpo.
IL FATTO DI GENOVA, A QUESTO punto, viene utilizzato per accelerare i tempi della sperimentazione, e poter finalmente usare questo manganello elettrico su migranti, tossicomani, persone con disturbi psichici, e altri «dannati della terra». Finché (mi porto avanti con le previsioni), vedrete che questo strumento potrebbe far parte anche della dotazione di noialtri psichiatri. Perché il Taser, pensateci, è l’arma di congiunzione tra i farmaci neurolettici (determina neurolepsia, ovvero paralisi del sistema nervoso), dunque contenzione chimica; le fasce per legare gli agitati, visto che elettrificando un corpo non c’è più bisogno di legarlo, dunque contenzione meccanica; e l’elettrochoc, dato lo stordimento e l’amnesia se non proprio perdita di coscienza che determina, dunque contenzione elettrica.
* Vice Portavoce del Forum Salute Mentale, promotore della campagna «E tu slegalo subito», nonché autore de «La fabbrica della cura mentale», «l Manicomio chimico», «La società dei devianti», «Basaglia e le metamorfosi della psichiatria»

il manifesto 16.6.18
Via Almirante, l’ignoranza della storia genera mostri
Campidoglio. Gli eletti 5Stelle di Roma votano una mozione di Fratelli d'Italia. Possibile che nessuno di loro abbia un vago sentore di chi sia stato Giorgio Almirante?
di Angelo d'Orsi


Le lezioni dell’ultima vaudeville pentastellata si possono ridurre ad una: l’ignoranza della storia genera mostri. E alla voce “ignoranza” attribuisco due diversi significati. Uno «debole», elementare: non avere conoscenza del passato. Una ignoranza basica rispetto ai fatti del passato, remoto o prossimo remoto o prossimo. E un significato “forte”, ossia sapere ma non tenerne conto.
In altri termini la storia, per essere “maestra”, pretende non soltanto di essere conosciuta, ma si aspetta che noi si impari da lei, ovvero pretende che tutto quanto precede il nostro presente venga conosciuto e tenuto in conto da chi non soltanto aspiri a vivere il proprio tempo, ma ambisca a interagire con esso, ad operare per migliorarlo, magari, o addirittura per rovesciare le sue coordinate se appaiano inique.
E questo dovrebbe essere non un’opzione, bensì un preciso dovere di quanti scelgano la strada della politica, ossia decidano di mettersi al servizio della collettività, come recitano i manifesti di tutti i candidati ad ogni tornata elettorale. In questo lunghissimo crepuscolo italiano, il Movimento 5 Stelle, tra la falsa democrazia della Rete, il ducismo del fondatore, le ambizioni dei tanti homines novi che si affacciano alle stanze e stanzine dei bottoni, continua, imperterrito, anche nella sua variabile geografia interna, a dare la prova della ignoranza dei suoi dirigenti, che altro non sono che lo specchio della massa dei militanti. Ignoranza della storia nei due significati che ho indicato prima.
Possibile che nessuno tra coloro che occupano i seggi in Campidoglio, con la casacca M5S, abbia un vago sentore di chi sia stato Giorgio Almirante? Possibile che la quasi unanimità abbia votato senza batter ciglio una mozione dei neofascisti di Fratelli d’Italia (e lasciatemi chiamare le cose col loro nome, altro che “postfascisti”: questi sono veri fascisti, sia pure “del terzo millennio”, quindi la dizione corretta è “neofascisti”) per l’intitolazione al sullodato Almirante di una strada della Capitale? Dobbiamo ogni volta fare un ripassino di storia? Oppure sanno che costui è stato un fucilatore di partigiani, segretario di redazione dell’infamissimo foglio La difesa della razza?
È più probabile che molti, forse non tutti, sappiano, ma che abbiano votato in nome del secondo tipo di ignoranza, ossia ritenendo che il passato è passato, e che un po’ di pacificazione, con una targa stradale, possa servire alla collettività, ovvero hanno opinato, come tante volte abbiamo sentito dire dagli ideologi del Movimento, a partire da Gianroberto Casaleggio, che la distinzione destra/sinistra appartiene al passato (anche Matteo Renzi, peraltro, la pensa così salvo riscoprire l’antifascismo e l’egualitarismo, sia pure “temperato”, quando si è trovato messo all’angolo).
In questa scelta, non escludo vi siano anche ragioni di oscura opportunità politica, magari per avere un bonus da parte della destra in relazione alla recentissima inchiesta della magistratura che ha messo nei guai qualche pezzo grosso del movimento.
Che poi la sindaca Raggi scopra in un programma tv, in diretta, che il consiglio comunale romano ha votato la mozione della destra, e dichiari al furbo conduttore (l’immarcescibile Bruno Vespa) che lei non ha nulla da obiettare, perché «il Consiglio è sovrano»), salvo poi, poche ore più tardi, uscirsene con una intemerata di antifascismo duro e puro, e che il suo gruppo consiliare cambi radicalmente linea, presentando una mozione in cui si dichiara che mai Roma dedicherà una via a chi si è macchiato di crimini eccetera, appartiene al genere commedia degli equivoci, dove però il finale, quale che sia, non fa ridere nessuno. Mentre suscita una gran pena.

Mambro, quella brava ragazza. L’ultimo oltraggio a Bologna
Le balle in aula di Fioravanti - 2 agosto ’80
Profondo nero. Fioravanti e Mambro
di Loris Mazzetti


Con il ritorno sul luogo del delitto dei terroristi Francesca Mambro e Valerio “Giusva” Fioravanti, il ricordo per non dimenticare della strage della Stazione di Bologna quest’anno parte da lontano, da quando è iniziato il processo a Gilberto Cavallini imputato di concorso nella strage del 2 agosto 1980, per aver dato supporto logistico ai due esecutori materiali, condannati definitivamente con Luigi Ciavardini per aver ucciso 85 innocenti e 200 feriti.
Per i famigliari delle vittime e per i sopravvissuti quel sabato di 38 anni fa, che avrebbe dovuto rappresentare l’inizio delle vacanze, si è tramutato in un incubo che li accompagnerà per tutta la vita. La tragedia personale si mescola ai depistaggi, alle false testimonianze, ai servizi segreti deviati, alla P2, ai non ricordo e alle tante promesse non mantenute dei vari Governi: il diritto alla pensione anche a chi ha subito un’invalidità permanente inferiore all’80 per cento; la mancata digitalizzazione degli atti che impedisce la ricerca simultanea su tutte le tragedie; la direttiva del governo Renzi del 2014 sulla declassificazione dei documenti mai applicata.
Paolo Bolognesi, presidente delle Associazioni delle vittime ha denunciato che è impensabile che chi in tutti questi anni ha tenuto nascosto gli atti oggi sia disponibile a renderli pubblici. I fatti dimostrano che la ricerca della verità annega nell’oblio.
È con questo spirito che a Bologna si è presentato in aula Fioravanti, libero cittadino dal 2009, nonostante 8 ergastoli, dopo 18 anni di detenzione, 6 di semilibertà e 5 anni di libertà vigilata, che si dovrebbe applicare non solo per buona condotta ma a chi si ravvede su ciò che ha fatto.
Non mi pare che il duo Mambro e Fioravanti si sia ravveduto dall’aver messo una valigia con venti chilogrammi di esplosivo militare nella sala d’aspetto di 2ª Classe della Stazione di Bologna, quella più frequentata.
Il 13 giugno scorso la deposizione del Tenente, nome in codice dell’ex bambino prodigio dello sceneggiato tv La famiglia Benvenuti, ha toccato il culmine della falsità quando, parlando della moglie, ha affermato che “nonostante non abbia mai sparato un colpo ha subito 8 ergastoli”. La mancanza di memoria storica è un gioco che nel nostro paese risale agli albori della democrazia, non lo si dovrebbe permettere a chi ha mani che colano sangue innocente.
Il programma tv di Enzo Biagi Linea diretta ci aiuta a ricordare. Era il 1985 quando il grande giornalista intervistò Francesca Mambro, allora ventiquattrenne, considerata la primula nera del terrorismo di estrema destra. Le parole della Mambro smentiscono quelle del marito. Biagi le chiese se lei si sentiva il capo o la ragazza del capo. “Mah, visti i risultati, penso il capo, senza presunzione”. Poi nel corso dell’intervista Biagi arriva al punto: “…Dove ha trovato il coraggio per uccidere? Lei è accusata di aver sparato a un uomo che era per terra e che stava morendo, di avergli dato il colpo di grazia”. “Innanzi tutto, va beh, non è che voglio difendermi da queste cose perché…”.
Biagi la interrompe: “Lei ha il diritto anche di difendersi…”. “Cioè non ha senso. Resta il fatto che noi abbiamo fatto determinate scelte che prevedevano anche lo sparare, il conflitto a fuoco. Atteggiamenti da sciacallo per quanto riguarda il mio percorso non ne ho avuti…”.
Biagi insiste: “Quindi questo episodio…”. Mambro: “Quindi ho sparato, sì ho sparato, ho premuto il grilletto…”. Sentire in aula da Fioravanti affermare ancora: “Siamo innocenti!”, per i parenti delle vittime è rivivere la tragedia. Si sa che il depistaggio della pista palestinese fu strategicamente definito a partire da marzo 1980, ben cinque mesi prima dell’attentato.
La killer nera, così era soprannominata Francesca Mambro, che le immagini di repertorio dei telegiornali ce la mostrano dentro la gabbia, disinteressata a ciò che accade nell’aula del tribunale, abbracciata al marito, incuranti delle telecamere, mentre amoreggiano, non rinnega ciò che ha fatto, anzi rivendica l’uccisione del giudice Mario Amato: “Rappresentava qualcosa di contrario alla nostra logica”.
Dopo averlo fatto fuori, lei e i camerati festeggiarono l’impresa con ostriche e champagne. Quell’incontro colpì molto Biagi, gli procurò lo stesso disagio che aveva provato con Kappler, Reder e Kesselring. “L’aspetto e i modi spigolosi, il lucido disprezzo: è forse il personaggio più sconvolgente che ho incontrato in tanti anni di mestiere; e c’è dentro di tutto: artisti, ladri, soldati, banditi, politici, campioni, puttane, quasi sante, grandi signore, mezze calzette, prelati, grandi truffatori, giocatori di ogni genere. Nessuno mi ha mai detto: – Non conosco la parola rimorso –, qualche tarlo, qualche pena, tutti ce l’avevano dentro”.

Repubblica 16.6.18
Mi attaccano perché sono donna »
Quella frase pericolosa
di Michela Marzano


Mi attaccano perché sono donna » , ha detto l’altra sera Virginia Raggi in televisione, rispondendo alle domande di Bruno Vespa durante la trasmissione Porta a Porta, subito dopo aver dichiarato che l’ex presidente di Acea, Luca Lanzalone, le era stato presentato dai ministri Fraccaro e Bonafede. E quindi? Il fatto di essere donna può esimerla dall’assumersi la responsabilità del proprio ruolo di sindaca di Roma? Essere donna significa non essere in grado di rispondere concretamente alle domande che le vengono poste sulla vicenda dello stadio? Che senso può mai avere questo incaponirsi a citare il proprio sesso di appartenenza, sempre e comunque, indipendentemente dal contesto e dalle circostanze?
Esistono realmente situazioni in cui il sesso, il genere o l’orientamento sessuale sono all’origine di importanti e gravi discriminazioni. Le donne continuano a guadagnare di meno rispetto agli uomini; nonostante le qualifiche, spesso non riescono ad accedere a posizioni di responsabilità; in molte circostanze, sono costrette ad abbandonare il proprio lavoro per dedicarsi alla famiglia e ai figli. Molte di loro sono vittime di violenze e di molestie sessuali — l’indignazione nata sulla scia del caso Weinstein ne è una prova recente e tangibile — e la dignità femminile continua fin troppo spesso a essere negata o cancellata. Ma quando ci si nasconde dietro il proprio sesso invece di mostrarsi all’altezza del ruolo che si ricopre, come ha fatto ieri sera la sindaca Raggi — e come aveva già fatto Maria Elena Boschi quando, durante una puntata di Otto e mezzo, era stata contestata da Marco Travaglio sulla questione di Banca Etruria — significa di fatto squalificare le battaglie di tutti coloro che, da anni, cercano non solo di abbattere il “soffitto di cristallo” che impedisce a tante donne, a parità di merito, di rivestire posizioni di responsabilità, ma anche e soprattutto di costruire un mondo dove le differenze sessuali non si traducano inesorabilmente in disuguaglianze e discriminazioni. Non è un caso che siano state molte le proteste, anche da parte delle donne, dopo le dichiarazioni dell’altra sera di Virginia Raggi: non si può cercare la solidarietà femminile quando, nascondendosi dietro il proprio essere donna, non si risponde nel merito e ci si ritrova a corto di argomenti.
Citare il proprio sesso invece di rendere conto delle proprie scelte e delle proprie azioni, e giustificare il proprio operato quando si riveste un ruolo politicamente ( ma anche economicamente o culturalmente) importante, è forse l’ultima cosa che dovrebbe fare una donna. Anche semplicemente perché il sessismo, purtroppo, esiste veramente. E nessuno dovrebbe permettersi di strumentalizzarlo. Il rischio è vanificare anni di battaglie, rendere inutili gli sforzi che tante donne compiono giorno dopo giorno per farsi riconoscere e rispettare, e, soprattutto, tradire il senso stesso della lotta per l’affermazione della parità uomo- donna. Essere uguali in termini di valore e di diritti significa d’altronde essere trattate nello stesso modo, rispondere alle stesse domande, assumersi le stesse responsabilità. Il che non vuol dire cancellare le differenze di genere, ma semplicemente rendersi conto del fatto che, quando si è sindaci o ministri o amministratori delegati o professori ordinari e donne, non basta femminizzare i termini per farsi poi riconoscere come ugualmente competenti e degni di considerazione; il proprio ruolo bisogna esercitarlo con uguale dignità e capacità. È possibile commettere errori, capita a tutti, indipendentemente dal sesso, dal genere o dall’orientamento sessuale. Guai, però, a non riconoscerlo, utilizzando il proprio essere donna come uno scudo. È ingiusto, è insopportabile, è persino puerile. Serve solo a giustificare la posizione di chi, incapace di accettare la parità, potrà sempre dire: è solo una donna, che cosa ci si poteva aspettare d’altro?

Repubblica 16.6.18
Partito democratico
Scontro nel Pd sui conti i dipendenti sono in cassa Scatta la caccia ai morosi
Il tesoriere Bonifazi presenta il bilancio chiuso con 500mila euro d’avanzo Decreti ingiuntivi per 60 parlamentari, tra questi l’ex presidente Grasso
di Maria Berlinguer


Roma Solo il 1 giugno Maurizio Martina, il reggente del Pd, aveva lasciato di sasso un dirigente dem di lungo corso, ammettendo di non sapere se nelle esangui casse del Pd ci fossero liquidi per pagare il palco di Santi Apostoli, allestito in piena crisi istituzionale in difesa della Costituzione e di Sergio Mattarella. E pure, dopo la debacle del 2016 con un bilancio chiuso con 9 milioni e rotti di rosso grazie al referendum, alle elezioni e alle spese per i dipendenti, il Pd a sorpresa chiude in utile di oltre 500mila euro.
Il colpo di scena si materializza ieri in direzione, quando Francesco Bonifazi, tesoriere dem e renziano di ferro, presenta il prospetto dei conti 2017. Ad ascoltarlo ci sono in tutto nove dirigenti. Del resto, la direzione d’urgenza per discutere e approvare il bilancio è stata convocata solo 24 ore prima. Motivo per il quale alle 8.30, l’orario stabilito forse in ricordo delle direzioni che il primo Renzi convocava alle 7 del mattino, sono in pochi ad essere presenti: 4 della maggioranza e 5 della minoranza che però si astengono al momento del voto. Ma tant’è, il bilancio è approvato. Con 4 voti, Bonifazi incluso.
Come è stato possibile chiudere in attivo e scongiurare, almeno per ora, il trasloco del Nazareno, tremila metri quadrati a due passi da palazzo Chigi? La casse del Pd erano in profondo rosso non solo per le elezioni e per la fallimentare campagna referendaria ma anche per i mancati versamenti di 60 parlamentari, molti dei quali passati a Mdp, che non hanno versato i 1.500 euro mensili dovuti al partito. Dopo aver messo tutti i 180 dipendenti in cassa integrazione, 90 dei quali a zero ore, il tesoriere Bonifazi ha scelto la linea dura contro i morosi. Facendo partire i decreti ingiuntivi della magistratura per riscuotere il dovuto. « Abbiamo cercato di ottenere il dovuto in modo amichevole ma, non essendo riusciti a superare il muro di gomma che ci è stato opposto, abbiamo deciso di rivolgerci al tribunale», spiegano dal Nazareno.
In cima alla lista, manco a dirlo visto che è stato un caso che ha tenuto banco in campagna elettorale, c’è l’ex presidente del Senato. Pietro Grasso, eletto nel 2013 nelle file del Pd allora bersaniano, non ha mai versato i 1.500 euro. Dunque, secondo i conti di Bonifazi, deve restituire ai dem ben 83mila euro e spicci. L’attuale leader di Leu liquida la questione come una ritorsione da parte degli ex compagni di partito. E in ogni caso non ha ancora ricevuto alcuna ingiunzione. La procedura, però, è andata a segno in altri casi. Dieci, finora. È il caso dell’ex deputato lettiano Marco Meloni che dovrà versare 10 mila euro di arretrati, di Simona Valiante, 53 mila, di Guglielmo Vaccaro, 43 mila. Insomma, per farla breve, i dem contano di ottenere un milione e 600mila euro di arretrati. Da mettere, così garantiscono, in un fondo per i lavoratori.
E già, perché al netto del bilancio in nero, la situazione non è affatto florida. I 180 dipendenti resteranno in cassa integrazione almeno per altri 12 mesi. Colpa di un partito sceso sotto la soglia del 20% che dovrà fare a meno dei contributi di un terzo dei parlamentari. E anche ai gruppi la situazione è assai critica. Delle 140 persone che lavoravano con senatori e deputati ne sono rimaste solo 75, quasi tutte assunte con contratti di solidarietà. Inoltre a tutti è stato garantito lo stipendio solo fino a dicembre. Poi si vedrà. Ovviamente molto dipenderà anche dal 2 per mille e da quanti contribuenti decideranno di devolverlo al Pd.

il manifesto 16.6.18
Parità di diritti uomo-donna in Tunisia, il tabù dell’eredità
di Giuliana Sgrena


Il 13 agosto scorso – giorno dei diritti delle donne – il presidente Béji Caïd Essebsi aveva nominato una Commissione incaricata di elaborare proposte per adeguare le leggi all’uguaglianza uomo-donna stabilita dalla Costituzione del 2014.
Il rapporto di 235 pagine è stato consegnato al presidente l’8 giugno e reso noto martedì scorso. La Commissione Colibe – composta da cinque uomini e quattro donne esperti in materia giuridica – presieduta dall’avvocata femminista Bochra Bel Haj Hamida aveva rimandato la conclusione dei lavori a dopo le elezioni amministrative di maggio per evitare interferenze. Questo non aveva tuttavia evitato che nel paese gli islamisti si preparassero allo scontro – le proposte dovranno essere votate dal parlamento – soprattutto sulla parità nell’eredità.
L’articolazione del documento, che pure contiene delle proposte sicuramente progressiste e perfino rivoluzionarie per i paesi musulmani, mostra però un tentativo di equilibrismo su alcuni temi e finanche di compromesso su altri, nel tentativo di fare accettare ai settori conservatori riforme che rispecchiano l’evoluzione della società tunisina.
La prima parte del rapporto è dedicata ai diritti, la seconda all’uguaglianza.
Tra i punti che susciteranno maggiore dibattito vi è innanzitutto l’abolizione della pena di morte o il suo mantenimento solo nel caso in cui ci siano delle vittime. La Tunisia sta rispettando una moratoria delle esecuzioni dal 1991, tuttavia la pena di morte è prevista dalla legge antiterrorismo adottata nel luglio 2015 dopo gli attentati terroristici. Evidentemente anche la richiesta di penalizzazione degli appelli al suicidio si riferisce al martirio. Il documento ridefinisce il concetto di morale e dell’ordine pubblico.
Si richiede anche la depenalizzazione dell’omosessualità.
Per quanto riguarda la protezione del «sacro» questa non deve inficiare la libertà di coscienza e di fede delle minoranze religiose o anche dei non religiosi con la predominanza della religione ufficiale. La libertà di coscienza deve essere garantita anche dall’abolizione del crimine di blasfemia e dall’eliminazione della distinzione tra musulmani e non musulmani, un retaggio coloniale. Nel frattempo è stato abolito il divieto per le tunisine di sposare non musulmani. In tutti i paesi musulmani infatti alle donne è vietato sposare un uomo di un’altra religione mentre ai maschi è permesso sposare una donna appartenente a una religione del libro (cristiane o ebree).
Inoltre si propone di annullare la circolare per la chiusura dei bar durante il mese del Ramadan.
Naturalmente lo scoglio maggiore riguarda la parità nell’eredità per gli eredi di primo grado, anche se la commissione propone di lasciare la libertà di scegliere diversamente all’interno però di una precisa cornice giuridica.
Inoltre: abolizione della dote come vincolo e condizione per il matrimonio o del divorzio; uguaglianza tra figli legittimi e naturali – che ancora vengono definiti «bastardi» dagli islamisti che nel 2011 proponevano di togliere qualsiasi finanziamento alle associazioni che si occupano di ragazze madri–; possibilità di dare al figlio il cognome del padre e della madre; abrogazione dell’articolo 23 del Codice di famiglia che stabilisce che il marito è il capofamiglia.
Si propone inoltre l’uguaglianza dei genitori per la tutela e la custodia dei figli. Il sussidio alla moglie, in caso di divorzio, è previsto solo se la donna non dispone di risorse finanziarie. Siccome la disparità nell’eredità si basa anche sul pretesto che la donna ha o avrà un marito che la mantiene, questa proposta potrebbe limitare quella motivazione e comunque rafforzerebbe il concetto di parità.
Sebbene la proposta della Commissione fosse partita proprio per stabilire la parità nell’eredità voluta dal presidente della repubblica, il momento politico in cui andrà in discussione – se arriverà presto in parlamento – non è dei più favorevoli: gli islamisti di Ennahdha si stanno scontrando con il partito del presidente, Nidaa Tunes, sulla necessità di cambiare il capo del governo (difeso da Ennahdha). Di fatto è già iniziato lo scontro per le elezioni presidenziali dell’anno prossimo.

il manifesto 16.6.18
Trump vuole il football in ginocchio
Stati Uniti. La lunga lotta tra il presidente e i Philadelphia Eagles, campioni dello sport nazionale americano. The Donald ha annullato la loro visita alla Casa Bianca dopo le proteste dei mesi scorsi
di Nicola Sellitti


Ci è cascato di nuovo, Trump. Il suo distacco dal football americano e in genere dallo sport nazionale è sempre più marcato. Un canyon, migliaia di yards, dopo la decisione presa nel suo studio ovale di annullare la visita alla Casa Bianca dei Philadelphia Eagles, campioni nazionali di football americano. È la prima volta che un presidente straccia l’invito per una squadra di football, un gesto irrituale (ma The Donald si sa, bada poco al protocollo), ultimo passaggio della polemica infinita con la National Football League, il primo campionato che da due anni ha cominciato a esprimere profondo dissenso per espressioni e provvedimenti razzisti dell’inquilino della White House.
Da Koolin Kaepernick, asso afroamericano dei San Francisco 49ers – ancora senza squadra da oltre un anno e ora riferimento della comunità nera, dopo l’anatema presidenziale sulla sua presenza nella Lega, subito recepito dalle franchigie – inginocchiato durante l’esecuzione dell’inno nazionale fino alla reazione a catena di altri atleti (anche non afroamericani), di altri campionati, dalla Nba fino all’hockey nazionale, mentre il baseball, lo sport dei bianchi, ha inserito il silenziatore. Gesti significativi, mai violenti, come invece violente, volgari, intolleranti, sempre attraverso i social, sono state le reazioni di Trump. E altra benzina sul fuoco nel rapporto tra Nfl e The Donald – anche se tanti proprietari di franchigie appartengono alla sfera dei repubblicani – è stata gettata dalla regola – approvata recentemente dai patron della lega del football timorosi di altre reprimende presidenziali, che vieta espressamente agli atleti di inginocchiarsi con caschetto e paradenti. Potranno manifestare sì, ma nel chiuso dello spogliatoio… . In pratica, la protesta degli invisibili.
Ma Trump non si è detto soddisfatto, anzi. «Restare negli spogliatoi durante l’esecuzione dell’inno dimostra la stessa mancanza di rispetto verso il Paese che lo scegliere di inginocchiarsi» ha detto il presidente a Fox News – il suo network – che ha fatto girare immagini dei giocatori di Philadelphia in ginocchio prima di una partita della scorsa stagione, alludendo a proteste anti inno, mentre in realtà erano raccolti in preghiera. La scelta di non invitare gli Eagles alla Casa Bianca ha provocato reazioni nello sport americano (e non solo). Lebron James, la stella della Nba – lo scorso anno aveva twittato contro Trump dandogli del «buffone», perché reo di aver «respinto» la visita dei Golden State Warriors, vincitori del titolo 2017, (il team aveva anticipato l’intenzione di non sfilare davanti al presidente) – ha annunciato, assieme alle stelle di Golden State contro cui si sta giocando il titolo: «chiunque vincerà, non andrà alla Casa Bianca». «Vuole soltanto dividerci per scopi politici» è stato il commento di Steve Kerr, tecnico di Golden State, una delle menti elette dello sport americano con padre diplomatico per il governo americano ucciso a Beirut negli anni Ottanta.