sabato 4 luglio 2009

l’Unità 4.7.09
La «battaglia infernale» afghana coinvolge anche gli italiani
di Umberto De Giovannangeli


Nella valle dell’oppio i britannici si uniscono agli americani. Che piangono il primo morto
Auto kamikaze contro un blindato italiano, due i feriti. L’altra notte blitz nella vallata di Mushai

Si combatte nella valle dell’oppio. Una «battaglia infernale» che vede 4mila marine scontrarsi con i talebani. Un attacco suicida ferisce due soldati italiani. Seicento parà affiancano i militari afghani. È guerra.

La «battaglia infernale» estende il suo campo e coinvolge anche i soldati italiani. Un attentatore suicida ha fatto esplodere l'auto su cui viaggiava al passaggio di un convoglio di militari italiani, nell’ovest dell'Afghanistan: il mezzo si è ribaltato, ma ha retto al violento urto. Solo due paracadutisti sono rimasti lievemente feriti.
ATTACCO SUICIDA
L’attentato è avvenuto ieri mattina lungo la strada che collega Farah a Shindand, nella parte meridionale della regione ovest dell’Afghanistan, a comando italiano. L’auto, secondo quanto riferito dal maggiore Marco Amoriello, portavoce del contingente, si è fermata sul ciglio della strada, mentre il convoglio si avvicinava procedendo dall’opposto senso di marcia. Un comportamento che non ha destato particolari sospetti, perché è proprio quello che il comando della missione Isaf raccomanda di fare quando una vettura civile incrocia convogli militari, anche allo scopo di agevolarne il passaggio. Quando il primo blindato «Lince» è però giunto all’altezza dell'automobile, il conducente l’ha fatta saltare in aria: l'urto è stato violentissimo e il «Lince» si è ribaltato, ma sostanzialmente ha retto, e i parà che si trovavano a bordo si sono salvati. Per loro solo piccole ferite e contusioni: uno al labbro e l'altro all'orecchio. L'attentatore è morto. «Si tratta di attacchi subdoli e imprevedibili», commenta il generale Rosario Castellano, comandante della Brigata Folgore (tutta schierata in Afghanistan) e del contingente italiano. Contro questo tipo di attacchi, insomma, non c'è molto da fare, e per questo la vigilanza resta altissima. Anche perché, in vista delle prossime elezioni presidenziali di agosto, il clima resta caldissimo. Il fronte si estende, e il coinvolgimento nella guerra è pressoché totale. I militari italiani continuano ad affiancare quelli afghani nelle operazioni volte a riprendere il controllo del territorio nelle aree finora dominate dai talebani. L’ultimo blitz di questo tipo si è concluso l’altra notte, nella valle di Mushai, ad una trentina di chilometri da Kabul. Circa 600 uomini, tra parà del 186mo reggimento della Folgore e militari dell'Esercito afghano, hanno condotto un massiccio intervento che ha consentito di catturare un «gruppo di insorti» responsabile, fanno sapere al comando italiano di Kabul, di «molti degli attacchi verificatisi ultimamente contro le nostre unità. L'operazione, che mirava al consolidamento della sicurezza nell'area, ha avuto pieno successo» ed è stata accolta «con favore dalla popolazione e dai capi villaggio».
RESISTENZA ACCANITA
L’offensiva americana in Afghanistan si è trasformata a Garmsir in una «battaglia infernale». Ad affermarlo è il capo delle operazioni militari, generale Larry Nicholson. «I soldati americani sono impegnati in pesanti combattimenti nel settore sud», spiega il generale Nicholson. L'alto ufficiale conferma la morte l’altro ieri di un soldato americano, il primo ucciso dai ribelli talebani durante l'offensiva dei Marines, e precisa che i 4.000 uomini impiegati nell'attacco sono stati trasportati in circa otto ore sul luogo del combattimento, la metà con elicotteri. L'operazione Khanjar (Colpo di spada in lingua pashtun, quella della maggioranza della popolazione nell'Helmand), iniziata l’altro ieri dalle truppe statunitensi, è la più vasta dopo l'annuncio del presidente Barack Obama dell'invio quest'anno di 21 mila soldati di rinforzo. A fianco dei Marines, nella roccaforte-cassaforte dei talebani, combattono centinaia di militari britannici che hanno occupato una serie di punti strategici nella «valle dell’oppio».
Colpite dalla morte del tenente colonnello Rupert Thorneloe, l'ufficiale britannico più alto in grado morto in combattimento dai tempi della guerra nelle Falklands, le forze armate della Regina, hanno occupato 13 ponti nella bassa valle del fiume Helmand. Ieri circa 800 militari britannici hanno cominciato ad avanzare verso nord, in direzione di Gereshk, la città industriale della provincia.

l’Unità 4.7.09
«I nostri militari in un fronte di guerra»
Intervista a Rosa Villecco Calipari
di U. D. G.


L’escalation degli attacchi contro i nostri soldati non è casuale. Il Parlamento deve essere costantemente informato di ogni eventuale cambiamento di impegno dei soldati italiani in Afghanistan, ricordando che noi siamo all’interno della missione Isaf e non in quella Enduring Freedom, una missione, quest’ultima, che è a comando americano e che ha come obiettivo la lotta al terrorismo». A sostenerlo è Rosa Villecco Calipari. «I generali impegnati sul campo - sottolinea la capogruppo del Pd in commissione Difesa della Camera - non possono essere lasciati soli nella decisione di utilizzare i nostri soldati a supporto delle truppe della coalizione impiegate in operazioni ad alta intensità».
Nella valle dell’Helmand è in corso una «battaglia infernale». A Farah in un attentato suicida sono stati feriti due soldati italiani.?
«Se l’intento dell’operazione dei Marines è quello di mostrarsi a fianco della popolazione, riconquistandone una fiducia fortemente intaccata dai bombardamenti aerei che nell’ultimo anno hanno provocato molte vittime tra i civili, se questo è l’intento non so se l’offensiva in atto potrà sortire effetti positivi. L’operazione “Khanjar” è anche l’espressione tangibile, sul campo, della volontà del presidente Obama di riprendere l’Afghanistan anche con un incremento delle truppe americane».
Questo cambio di strategia Usa cambia anche la natura della presenza italiana sul fronte afghano?
«La verità è che dall’agosto scorso, gli attentati contro i nostri militari si sono andati via via intensificando, e questo per due motivi...».
Quali?
«In primo luogo, perché ci siamo spostati in un’area, quella di Farah, che è maggiormente a rischio rispetto a quella che precedentemente avevamo come area di controllo. Un’area divenuta ancora più rischio dopo l’offensiva di Helmand dei Marines. Nel momento in cui si fanno operazioni così militarmente forti, è possibile doversi trovare a fronteggiare non solo le reazioni dei talebani ma anche della cosiddetta “insorgenza”, della quale fanno parte criminali, trafficanti d’oppio, ribelli e anche persone che hanno visto morire nei bombardamenti loro familiari. Gli insorgenti spinti verso Farah aumentano i rischi per i nostri soldati. Il fronte dei combattimenti tende ad allargarsi, ed è prevedibile che una escalation degli attentati possa investire anche le aree sotto controllo italiano».
Ma è possibile che questo cambiamento di scenario avvenga senza una discussione parlamentare?
«Più volte abbiamo chiesto che il ministro della Difesa (Ignazio La Russa) venisse in aula per dare una sua spiegazione sulle ragioni dell’intensificarsi degli attacchi contro i nostri soldati, e per chiarire se questa escalation di attacchi fosse connessa con una intensificazione delle nostre operazioni sul campo. Perché di questo il Parlamento deve essere informato, soprattutto se queste operazioni sono in linea, o no, con gli obiettivi della missione Isaf. Ma a fronte di questa esigenza di chiarezza, ciò che sta avvenendo in questo momento alla Camera è qualcosa di gravissimo, allucinante...».
Allucinante?
«Il governo ha inserito la proroga e il rifinanziamento delle missioni delle nostre Forze Armate nel decreto-legge anticrisi. Dunque, le Commissioni Difesa di Camera e Senato sono svilite, di fatto, a organo consultivo, una forzatura inaccettabile e del tutto inadeguata rispetto all’importanza di decisioni che riguardano le missioni militari all’estero, a cominciare da quella in Afghanistan. È la prima volta che avviene questa forzatura. Un fatto gravissimo, assolutamente inaccettabile».

l’Unità 4.7.09
Nove anni di conflitto
Afghanistan, perché sono lì i nostri soldati?
di Luigi Bonante


Ad ascoltare le notizie di questi giorni potremmo pensare che i marine americani, con gli alleati, abbiano avviato la più grande operazione anti-droga della storia! Fosse vero, perché - come è noto - il prodotto nazionale afghano di oppio si è decuplicato negli ultimi anni e non risulta che la sua commercializzazione riguardi il mercato locale, ma tutti quelli occidentali: ancora, Stati Uniti e alleati. Ma se volessimo trovare una risposta migliore e che ci spiegasse per bene che cosa sta succedendo in Afghanistan, dovremmo tornare alla data del 7 ottobre 2001 quando la coalizione «Enduring Freedom» entrò in Afghanistan, dopo un ultimatum rivolto al governo talebano di quel paese per la consegna di bin Laden e del mullah Omar. Ma siamo entrati nel nono anno dell’attacco occidentale all’Afghanistan: di bin Laden non sappiamo ancora nulla, e di che cosa quindi stiamo facendo in Afghanistan ancora meno.
Non abbiamo modelli interpretativi che ci aiutino a comprendere ciò che sta succedendo: è come se la più straordinaria ed efficiente industria del mondo, quella militare (non soltanto americana ma anche quella degli alleati), stesse divorando non soltanto ingenti risorse ma addirittura se stessa non sapendo per che cosa combatte. Obama sta studiando una «exit strategy», che è difficile trovare senza aver onestamente chiarito i fini perseguiti. Vogliamo un Afghanistan liberato dai talebani? Sì, ma con quale diritto? E che cosa lasceremo dietro di noi? Un altro governo-fantoccio, dopo elezioni grottesche? Perché non ammettere l’errore compiuto? Né gli Stati Uniti né gli alleati, Italia compresa, riescono a capire che in Afghanistan non c’è più la libertà di 9 anni fa e che in cambio abbiamo una mortalità violenta senza limiti? Ogni giorno gli attentati, le imboscate, le sortite, in corrispondenza dei diversi livelli che la lotta ha assunto (terrorismo, guerriglia, guerra), lasciano sul terreno morti tristemente inutili, di entrambe le parti.
Una sgradevole ma lucida domanda, a questo punto, non può essere taciuta. Ma che cosa stanno a fare in Afghanistan i soldati italiani? Non c’è neppur bisogno di scomodare lo sfortunato art. 11 della nostra Costituzione, né da aspettarsi un nobile dibattito parlamentare (sarebbe una recita a soggetto sull’eroismo dei nostri soldati, che nessuno mette in dubbio, ma che vorremmo fosse meglio utilizzato) per chiedere che ci venga dimostrato se il contributo (anche di sangue) italiano sia giustificato da qualche grande ideale politico. Stiamo vivendo una situazione assurda: in Afghanistan come in Iraq continuano due guerre inspiegabili e insensate. Anche se dopo tanto tempo non sappiamo più perché andammo laggiù, almeno andiamocene.

l’Unità 4.7.09
Razzismi quotidiani
L’Italia ignava e l’Italia che si sveglia
di Dijana Pavlovic


Qualche giorno fa un buttafuori dell’Ipercoop sotto casa mia ha pestato un giovane homeless, uno dei tanti che da sempre stazionano nella zona e con i quali si riesce ad avere un rapporto, a volte più umano che con gli altri frequentatori del supermercato. Un episodio che non è finito nelle pagine di cronaca di nessun giornale ma che fa parte di un clima generale di cui vale la pena di preoccuparsi perché il dato inquietante è che questo episodio è avvenuto nella totale noncuranza della gente. Penso a come l’indifferenza per il destino degli altri stia diventando costume come testimoniano episodi più gravi di questo: è di circa un mese fa l’assassinio di un rom rumeno che camminava per strada con la sua donna e la sua fisarmonica, è di due settimane fa il pestaggio di una ragazza che, unica, ha cercato di difendere dei giovani gay dall’aggressione di naziskin. Sempre a Napoli ricordo Violetta e Cristina morte annegate. Sempre la gente intorno guarda e tace o se ne va facendo finta di niente. Non li riguarda. Ma ci sono due aspetti di questi episodi che ci riguardano eccome. Il calo di notizie e di clamore mediatico sui crimini di immigrati e rom e le nuove «emergenze» (veline, escort e le ossessioni del Papi... ) non dovrebbero distrarci da come la violenza razzista sia oramai pratica quotidiana e soprattutto da quello che a me sembra la cosa più preoccupante: l’indifferenza della gente. Quasi che ci sia in qualche modo l’accettazione della violenza se questa è praticata su uno straniero, su un rom, su un omosessuale. Ho visto e rivisto il video sulla morte del rumeno a Napoli, c’è chi dice che la fuga da un uomo morente e dalla sua compagna disperata che chiede aiuto era per paura, ma per paura non si fanno foto con il cellulare, non si insulta un uomo morente («zingaro, vai in Romania, ma che vuoi, tu mi rubi»). Se vince l’ignavia sulla naturale solidarietà verso il nostro prossimo quando questo è diverso da noi vuol dire che siamo tornati là dove credevamo non fosse più possibile tornare.
Ma nonostante tutto, sempre più spesso, per strada, nei mercati incontro persone addolorate per questa situazione, sempre più spesso fanno commenti, raccontano la propria indignazione. Ieri la custode del teatro dove lavoro dopo aver visto la prova di una scena nella quale si rappresenta l’indifferenza nei confronti delle sofferenze dei “diversi” è scoppiata in lacrime: «È vero! È proprio così! Dove va a finire questo nostro Paese?». Qual è l’Italia vera? C’è una speranza per tutte le persone non rumorose quanto le camicie verdi, che forse non si sentono neanche rappresentate politicamente, ma hanno raggiunto il limite di sopportazione? Spero che il loro risveglio dia un volto all’Italia vera.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità 4.7.09
Il peccato della sodomia
di Moni Ovadia


Il gravissimo peccato della sodomia, contrariamente a quanto potenti e chierici sessuofobi e omofobi hanno voluto raccontare e far credere, non ha nulla a che fare con il sesso, né etero né omo, ma riguarda il comportamento nei confronti dello straniero e del debole. Ricordiamo per sommi capi l’episodio biblico: Lot, nipote di Abramo, risiede nella città di Sodoma e ospita tre stranieri, nella fattispecie i tre arcangeli sotto spoglie di viandanti che hanno annunciato ad Abramo la nascita utopica di suo figlio Isacco. I sodomiti si recano a casa di Lot e gli intimano di consegnar loro gli stranieri per violentarli. Non portano loro un invito per un orgia, ma vogliono usare contro di loro una delle più atroci e degradanti forme di violenza. Questa è la ragione per la quale i nostri maestri indicano la sodomia come il peccato irredimibile di violenza contro lo straniero e ciò vale a fortiori per il clandestino, perché essendo sprovvisto di tutele giuridiche è doppiamente straniero, in quanto straniero e debole. La città ostile allo straniero fu rasa al suolo perché non vi si trovarono dieci giusti che potessero intercedere per la sua salvezza. Fortunatamente nel nostro Paese molte sono le voci che si sono levate a denunciare con toni fermi questa legge vile e malvagia, a cominciare dalla Chiesa cattolica e numerose associazioni cristiane. Il ministro Maroni invece ha dato prova della sua caratura con la consueta protervia del vincitore. Quelli come lui definiscono tutti quelli che sanno indignarsi contro la vigliaccheria: buonisti. Noi non siamo buonisti siamo giusti.
È bene tuttavia avvertire coloro che per paura portano il loro acritico consenso alla Lega che l’odio verso lo straniero, l’indifferenza verso le sue sofferenze e la sua disperazione non portano sicurezza ma infamia.

Repubblica 4.7.09
D´Alema e la crisi in Europa "Segni simili al pre-nazismo"
Scintille col Pdl sul "declino non lineare" di Berlusconi
di Silvio Buzzanca


ROMA - Il nazismo è arrivato dopo la crisi del ‘29. Oggi l´economia sta vivendo qualcosa di simile. E come allora le risposte delle due sponde dell´Atlantico sono diverse, opposte. Negli Stati Uniti ieri il New Deal e oggi Barack Obama. In Europa allora il fascismo e il nazismo, oggi una ventata populistica e nazionalistica che spinge la nuova destra. Massimo D´Alema guarda al passato e lo confronta con il presente, rilegge la storia e l´attualità e alla fine arriva ad una conclusione preoccupata. «Non voglio dire che siamo alle porte del nazismo, ma molti ingredienti sono simili», dice il presidente di Italianieuropei.
Occasione della riflessione dalemiana il convegno "Dopo la Seconda Repubblica, per un´alternativa di sistema politico", organizzato dal Centro riforme per lo Stato. L´analisi dell´ex ministro degli Esteri parte dal fatto che «questo ciclo di liberismo antipolitico sta finendo, ma la fine dell´egemonia liberista non vuol dire la fine dell´antipolitica. La fine di questo ciclo sfocia a sinistra negli Usa, mentre in Europa sembra prevalere una nuova destra nazionalista e populista».
Una cosa già vista nella storia, sottolinea D´Alema. «Ci ricorda la grande crisi degli anni Trenta, quando c´era il New Deal dall´altra parte dell´oceano e in Europa cresceva l´antisemitismo, il nazionalismo», spiega l´ex ministro degli Esteri. In questo contesto, D´Alema legge anche l´appannamento di Silvio Berlusconi. E lo fa spiegando che oggi come oggi «il problema che abbiamo di fronte non è soltanto salvare il progetto del Pd: c´è qualcosa di più che non creare le condizioni dell´alternativa, ma costruire una coalizione democratica in grado di gestire questa fase che vede insieme l´apice del berlusconismo, con la massima espressione del suo potere personale, ma anche del suo declino che è difficile delineare come un cammino lineare». Ecco, continua D´Alema, questa difficoltà di intravedere un percorso logico della fine dal berlusconismo «mi ha fatto parlare di scosse: non era l´annuncio di eventi, ma una semplice analisi politica». Tuttavia, insiste l´ex premier, il centrodestra ha lanciato «una campagna di aggressione verso di me senza precedenti».
La "scossa" e il "declino non lineare" scatena subito la reazione del centrodestra. «Prevede i declini altrui e non si accorge che il suo è già cominciato da tempo, anche all´interno del suo partito» attacca il senatore Cosimo Izzo. «Il noto genio che il pianeta ci invidia e che ora, invece che dissertare con l´Ulivo mondiale, si deve battere per non essere pensionato da una Serracchiani qualunque», ironizza Maurizio Gasparri. Paolo Bonaiuti, portavoce di Berlusconi dice: «L´estate avanza e D´Alema purtroppo ha subito un secondo colpo di calore. Ormai vede scosse dappertutto. Noi registreremo fedelmente i suoi futuri abbagli, ma non potrebbero, i suoi collaboratori, mandarlo in montagna finché il caldo non diminuisce?».

l’Unità 4.7.09
Insuccessi elettorali
Il tradimento dei padri e la fondazione di un partito
Così i Verdi hanno fallito
di Vittorio Emiliani


Nel resto dell’Europa ottengono successi di massa, ma in Italia sono ridotti all’1 per cento
Un’analisi spietata della crisi dell’ambientalismo politico che chiama in causa la cultura
e i programmi delle forze del centrosinistra: dal Partito democratico all’Italia dei Valori

Tormentone tutto italiano: perché i Verdi in Paesi europei sviluppati spuntano consensi di massa e in Italia, Paese minacciato come pochi, stagnano all’1 %? Personalmente penso: a) i Verdi italiani sono nati lasciando da parte (con qualche iniziale eccezione, Fulco Pratesi) i loro «padri»: lo stesso Antonio Cederna non è stato mai eletto dai Verdi, altri sono stati lasciati a casa loro, Insolera, Amendola, Fazio, ecc. ; b) i Verdi sono stati via via egemonizzati da componenti extra-parlamentari di sinistra (Dp soprattutto) divenendo così un partitino militante nel quale, se si era ambientalisti, bisognava essere contro l’intervento nel Kosovo, anti-capitalisti, ecc., mai trasversali; c) la decisione di trasformare il movimento in partito (lo dissi subito all’amico Luigi Manconi) era sbagliata in radice, bisognava rimanere movimentisti, presenti in tutte le formazioni democratiche, decidendo volta a volta liste «verdi». Il partito - previsione scontata - l’avrebbe conquistato il primo che avesse fatto collezione di tessere. Incaglio che vedo riaffiorare in vista del congresso del Pd e chi mi ricorda i nefasti del Psi dove la sinistra di Lombardi-Giolitti prevaleva nel voto di opinione, ma veniva poi sotterrata dai voti clientelari ai congressi.
Il Belpaese ha enormi problemi sul piano della conservazione del patrimonio storico-artistico-paesaggistico, aggravati da un centrodestra che massacra il bilancio dei beni culturali, e quindi la tutela stessa, minaccia i parchi, non investe nel risanamento idrogeologico, nella prevenzione sismica, ecc... Ma, a fronte di una vera tragedia epocale, abbiamo associazioni indebolite (Carlo Ripa di Meana presidente romano di Italia Nostra ha elogiato il piano casa Berlusconi... ), Verdi ridotti ai minimi dal loro «suicidio» con Pecoraro Scanio, un ambientalismo vago o insufficiente nel centrosinistra.
Comincio dall’Italia dei Valori: non si è ancora data un vero programma generale e su questi temi dice poco o nulla (nonostante Pancho Pardi e altri). Antonio Di Pietro, del resto, ministro delle Infrastrutture tutt’altro che vicino all’ ambientalismo, ha tenuto in vita la Società per il Ponte sullo Stretto, prontamente rivitalizzata da Berlusconi. L’Ulivo prodiano si era dato, a fatica, un programma impegnativo. Fra gli ex Ds tuttavia c’erano stagionate insensibilità. Del resto - l’ha fatto notare Alberto Asor Rosa - il marxismo stesso è stato sviluppista e industrialista, mentre i difensori della natura e del patrimonio storico (Zanotti Bianco, Bassani, Cederna, Detti, Rossi-Doria, Desideria Pasolini, ecc.) vengono dal pensiero liberale o liberalsocialista. Per molti anni, tuttavia, le elaborazioni della sinistra in materia di centri storici e di paesaggio (Cederna, Cervellati, Achilli, l’INU di Detti, Insolera, Gambi, ecc.) hanno positivamente influenzato le amministrazioni Pci-Psi e la sinistra dc. Ricorda Fulco Pratesi, fondatore del Wwf Italia: «Allora noi trovavamo quasi sempre una sponda nelle giunte di sinistra o di centrosinistra. Oggi spesso ce le troviamo contro». Dato di fatto incontestabile. Lo confermano casi clamorosi: a Monticchiello, a Casole d’Elsa o a Urbino oggi di nuovo minacciata da «grandi lavori». I tempi del primo PRG di De Carlo voluto da un sindaco pci, il falegname Egidio Mascioli, sembrano preistoria.
Nel Partito Democratico circola un «ambientalismo del fare» che poco affascina, poco incide e poco aggrega rispetto al «fare» berlusconiano. Sembra, a volte, che si «insegua» il modello della deregolazione, delle grandi opere cementizie, di passanti ferroviari sotterranei (vedi Firenze) quando ci sono già stazioni di superficie, di centri commerciali a tutto spiano (a Roma, in pochi anni, da 2 a 28, in contrasto stridente col «piano del ferro» Tocci-Rutelli). Non contrapponendo al modello berlusconiano, sfrenatamente consumistico (anche sul piano del consumo di paesaggio), un modello alternativo, perché mai consensi elettorali di massa dovrebbero piovere sul Pd? I voti di centro vanno alla Lega o all’Udc, quelli di sinistra si frantumano, o affogano nell’astensione. Adesso «va molto» l’«invidia della Lega» che «fa come il vecchio Pci, sta fra la gente, organizza le feste». D’accordo, fra la gente bisogna starci, ma con un proprio programma, non con quello di Bossi.
Nel Pd Giovanna Melandri, responsabile per la cultura, mi sembra avere incisivamente corretto la linea sbagliata della «produttività» dei beni culturali e ambientali, della loro «messa a frutto» abbracciata anni fa da Federculture, da Ermete Realacci e da non pochi ds. Cavalcata, ora, di gran carriera, da Berlusconi, dai fantasmatici Bondi e Prestigiacomo e dall’incombente Mario Resca superdirettore alla valorizzazione. La giusta correzione di Giovanna Melandri va tradotta in strategia per una cultura rigorosa, attiva, moderna della tutela (anche a fini turistici, o suicidi!).
In Maremma Nicola Caracciolo, pur presidente toscano di Italia Nostra, ha teorizzato che le aziende agricole si risanano dando loro modo di costruire. Un controsenso. Anche agricolo. Ma, guarda caso, nel Piano casa berlusconiano, era previsto un 10 per cento, comunque, di «premio» nelle zone agricole. La Toscana ha varato per prima la legge regionale di un Piano casa nazionale che ancora non c’è. Non è confusione delle lingue, questa?

Corriere della Sera 4.7.09
Boato e Bonelli contro la portavoce Francescato
Tra i Verdi è bagarre sull’adesione a Sinistra e libertà


MILANO — Un «colpo di mano». Così Angelo Bonelli, ex capogruppo dei Verdi alla Camera, e Marco Boato, ex deputato del partito del sole che ride, hanno definito il sì dato dalla portavoce dei Verdi Grazia Francescato «alla formazione del partito di Sinistra e Libertà previsto per il 12 settembre, al tesseramento e all’apertura dei circoli». «Lo apprendiamo oggi, in assenza di qualsiasi dibattito e luogo di confronto democratico interno al partito», hanno attaccato Bonelli e Boato: e «in assenza di confronto, le posizioni assunte oggi non hanno nessun valore per i Verdi». Non solo: nel partito è mancato anche qualunque dibattito dopo l’ultima sconfitta elettorale. Dura la replica da parte del Coordinamento nazionale dei Verdi: «Boato e Bonelli non hanno ascoltato quanto detto dalla Francescato, che ha ribadito che ogni decisione sarà presa in piena democrazia al congresso di ottobre. Non c’è stato nessun colpo di mano».

l’Unità 4.7.09
Daniel Cohn Bendit
Il generale Giap ora combatte per la natura


La coscienza ecologica, talpa relativamente giovane, scava in terreni impensati. In Francia Daniel Cohn Bendit rivive fasti sessantotteschi sotto la bandiera verde. In Vietnam un eroe nazionale sposa le ragioni dell’ambiente. E invita il governo comunista a non fare scempio degli altopiani centrali del paese. Von Guyen Giap, il generale che nel 1954 sconfisse i francesi a Dien Bien Phu, e poi gli americani nel 1975, mito del ’68 (col suo nome scandito assieme a quello di Ho Chi Min), riassapora a novantasette anni il gusto della battaglia. Per salvare un ecosistema ancora quasi incontaminato. Minacciato, però, da un accordo. Con il gigante cinese dell’alluminio Chinalco, chiamato ad affiancare l’azienda statale Vinacomin per estrarre dalle miniere della zona bauxite, indispensabile per ottenere l’alluminio. Un investimento da 15 miliardi di dollari.
«Un intervento che provocherà conseguenze pesanti sull’ambiente, la società e la difesa nazionale», tuona Giap. Stratega eccellente, politico, intellettuale, personalità carismatica, il generale è alla testa di un combattivo battaglione di scienziati, accademici, studenti, veterani di guerra, ambientalisti, spalleggiati da una attiva rete di blog. Giap, classe 1911, ha già ottenuto una nuova vittoria. Di fronte a tanto nome, il premier Nguyen Van Dung non ha potuto fare orecchie da mercante. Ha dovuto dire qualcosa. Ne è seguita una vaga promessa di riconsiderare l’impatto ambientale del progetto e di rallentarne l’esecuzione.
Ma Hanoi guarda allo sviluppo economico della Cina, industrializzazione selvaggia senza scrupoli ambientali, come un faro su cui orientare la rotta. E che aria tiri lo fanno capire le parole di Doan Van Kien, presidente della Vinacomin. «Dobbiamo rispettare Giap. Però ricordiamoci che è vicino ai cento anni». Come dire: tanto di cappello all’eroe, ma poi si fa come diciamo noi.

Repubblica 4.7.09
Il pensiero fortissimo di Slavoj Zizek
È considerato tra i pensatori più influenti in circolazione. Detesta i postmoderni e ama Marx, Freud e Lacan. Ora escono tre suoi libri
di Antonio Gnoli


Bisogna smetterla con la favola che non esistono più punti di vista, che la verità ci sfugge da ogni parte
Dio e la storia non erano morti, come in molti hanno proclamato. Si erano rifugiati nell´inconscio

Slavoj Zizek è un pensatore complesso e uno scrittore prolifico. Tre suoi libri sono apparsi in queste settimane: In difesa delle cause perse (Ponte alle Grazie, pagg. 521, euro 26). Lacrimae rerum (Scheiwiller, pagg.388, euro 18) e Leggere Lacan (Bollati Boringhieri, pagg. 136, euro 15). Questo sessantenne sloveno è un filosofo di successo. Qualche tempo fa il settimanale Time lo ha eletto tra i pensatori più influenti in circolazione. È un riconoscimento rivelatore dello stato d´animo di un certo pensiero americano che comincia a interrogarsi su questioni forti come la guerra, il terrorismo e la crisi economica. Non si può continuare a far finta di niente o affidarsi alla musa dell´ironia. Perciò basta con le pratiche decostruzioniste (alla Derrida), fuori le tematiche postmoderne (alla Lyotard). Via anche i neocon. Meglio bussare alla porta di Zizek. Le sue analisi del contemporaneo non rinunciano all´idea di soggetto (anche se scabroso), non temono il ricorso al passato e ai suoi autori. I preferiti sono Cartesio e Spinoza, Hegel e Marx. Sguazza a suo agio nella modernità. C´eravamo dentro nel Seicento, ci stiamo tuttora. Se vogliamo raccontarla smettiamola con la storia che non ci sono più punti di vista, che la verità ci scappa da tutte le parti, che siamo concettualmente deboli. Basta voltarsi per vedere che alle nostre spalle c´è gente che ha pensato in grande e che ci può ancora essere utile. Però è vero che le cose sono un po´ più ingarbugliate. Non puoi più prendere, mettiamo Hegel e Marx , trasportarli di peso ai nostri giorni e fargli raccontare la favoletta del proletariato o della dialettica conciliata. Li devi rileggere. Li devi adattare. E se non ce la fai a spiegarti con le loro parole, vai al cinema. Lì c´è un immenso repertorio di storie e di battute che ti chiariranno le idee. Perché il cinema, agli occhi di Zizek, è la tessitura del mondo. È la filologia con cui interpreti una pagina di Lacan o uno scampolo della tua vita.
Zizek è un pensatore anamorfico: muta l´immagine a seconda se lo guardi da vicino o da lontano. Non è distorto è sorprendente. Si prenda l´introduzione a Lacan. È un´operazione, passateci l´espressione, di denudamento della parola. La parola lacaniana spogliata della sua oscurità e immessa nel condotto della vita contemporanea sembra rinascere a una seconda esistenza. L´operazione è seducente e faziosa al tempo stesso. Da un lato il più oscuro tra i pensatori contemporanei, quello che ha trasformato l´inconscio freudiano da ricettacolo di impulsi selvatici in qualcosa che si struttura come linguaggio; dall´altro, il più versatile tra gli intellettuali dell´ultimo decennio, che tesse le lodi di Lenin, che flirta con il fantasma di Stalin e si prende sulle spalle padre Jacques e con grande senso di abnegazione lo porta in visita tra le macerie (o meglio tra le patologie) del presente. Dico "presente" consapevole che non è una categoria che Zizek apprezzi. Del resto non ama i postmoderni. Per costoro, l´era delle grandi narrazioni è finita, in politica non dobbiamo più aspirare a sistemi onnicomprensivi e a progetti di emancipazione globale. «Tutte stronzate», replica infastidito Zizek (sto citando da In difesa delle cause perse). Contro le quali bisogna opporre una linea di difesa tracciata da autori che hanno saputo pensare la società nella quale operavano e che in parte è ancora la nostra. Oltre a Marx, c´è Freud. Le loro teorie hanno creato legioni di seguaci. Ma nel momento in cui le si è volute mettere in pratica hanno prodotto innumerevoli guasti. Hanno fallito entrambe, anche se in modo diverso. Per caso, non risiede qui la loro grandezza? Ora che sono diventate "cause perse", non sarebbe giunta l´ora di riconsiderarle? Dal momento che la causa persa è indifendibile, come accoglierla? Ci vuole coraggio per sostenere che la politica di Heidegger, caso estremo di un filosofo sedotto dal nazismo, il terrore rivoluzionario da Robespierre a Mao, lo stalinismo, la dittatura del proletariato ecc. non siano macchie terribili che hanno sporcato la storia. A Zizek il coraggio non manca. Egli assume i fallimenti della storia (lui forse parlerebbe di perversioni) come un modo implicito – e fuori dai condizionamenti dell´etica – per leggere la nostra vicenda contemporanea: «Il vero obiettivo della cause perse non è difendere il terrore stalinista in quanto tale, ma rendere problematica la troppo facile alternativa democratica liberale». Per Zizek c´è qualcosa di equivoco nel nostro modo di accogliere o subire le retoriche della democrazia. Con la differenza che dove il totalitarismo ti dice cosa devi fare senza entrare minimamente nelle tue intenzioni, la liberal democrazia invece vuole convincerti che quello che devi fare è giusto che venga fatto così. Da un lato c´è l´imposizione, dall´altro l´autoconvincimento. Zizek riporta un dialoghetto tra Vince Vaughn e Jennifer Aniston, tratto dal film Break Up: «Volevi che io lavassi i piatti e laverò i piatti, qual è il problema?» Lei risponde: «Non voglio che tu lavi i piatti, quello che voglio è che tu voglia lavare i piatti!». Questa, commenta Zizek, è la riflessività del desiderio, la sua richiesta terroristica: io non voglio soltanto che tu faccia quello che voglio, ma anche che tu lo desideri. Si intravede l´ombra di Lacan. Perché il Maestro è presente in questa maniera ossessiva in tutti i suoi lavori? Zizek non dà una risposta diretta. Ma la si può ricavare da quest´altra affermazione: «Il Maestro è colui che riceve dei doni in modo tale che colui che dona percepisca l´accettazione del proprio dono come un premio». Il dono è un atto solo in apparenza gratuito. In realtà crea un vincolo feroce che Marcel Mauss ha illuminato. È come se Zizek ci dicesse: attenzione, non voglio dipendere da Lacan, voglio liberarmi di lui. E per farlo usa le stesse tecniche lacaniane. È come regalare il Cavallo di Troia al migliore amico. Non solo è un gesto astuto ma anche carico di illusorietà.
Mi ha sempre colpito l´accusa di illusionista della parola che è stata spesso rivolta a Lacan. È questo che seduce Zizek? Ciò che Lacan descrive non è la realtà, ma qualcosa che somiglia a un trucco che si forma dentro la sua lingua, dentro il suo codice. E che cosa ci dice quella lingua illusoria, oscura, paradossale? Ci dice dell´inconscio. E nel dirlo ci avverte che non è vero che la psicoanalisi, come pensava per lo più Freud, è una cura con cui l´individuo prova ad adattarsi alla realtà sociale; e ci dice anche che quando usiamo la parola reale occorre sapere che non è la stessa di quando sosteniamo "il tavolo è reale", o "Luigi è reale". La psicoanalisi per Lacan – afferma Zizek – svolge un compito ulteriore rispetto alla cura: tenta di spiegare il reale nelle sue strutture profonde e fantasmatiche. Diciamolo in un altro modo: Freud era molto interessato a curare le patologie, Lacan è molto interessato alle patologie in sé. Nevrosi, psicosi, perversioni hanno la stessa dignità del loro contrario. Ce l´hanno nell´esistenza umana, la quale può essere decifrata solo accedendo ai suoi tre livelli: Simbolico, Immaginario, Reale. Non è il caso di addentrarsi nella tripartizione. Basti qui dire che l´ordine simbolico governa le nostre azioni e la nostra parola. Ma chi è che determina quell´ordine che gestisce le nostre vite?
Noi pensiamo di esser una certa determinata cosa, di reagire in modo più o meno prevedibile a certi stimoli, come reagiremmo meccanicamente alla fame e alla sete. In realtà, senza esserne consapevoli, qualcosa o qualcuno guida le nostre scelte. Zizek usa l´espressione lacaniana grande Altro. È il grande Altro, è questo soggetto, così potente da essere invisibile al nostro sguardo e tuttavia presente nelle nostre azioni, a guidarci. Il pensiero corre a Dio e alla Storia. Non erano morti, come qualcuno ha creduto, si erano rifugiati nell´inconscio. Da lì il pensiero di Zizek è ripartito.

Corriere della Sera 4.7.09
Dibattiti. L’idea di progresso, il significato di libertà: Emanuele Severino rilegge il saggio del pensatore francese uscito postumo in Italia
Non basta la fede a salvarci dalla tecnica
«Ellul sbagliò a sottovalutare la forza della filosofia»
di Emanuele Severino
Emanuele Severino (1929) ha insegnato all’Università di Venezia.. È studioso del pensiero di Heidegger


Oggi si parla soprattutto di crisi del capitalismo. Ma, da tempo, anche di quella della religione e della po­litica. Capitalismo, religione, poli­tica non intendono certo farsi da parte. Nemmeno quando si propongono di rifor­marsi: tentano di eliminare i propri errori, ma tenendo ferma la propria struttura di fondo. Una parte rilevante della cultura at­tuale è invece convinta della loro irriforma­bilità — come irriformabile era stato il so­cialismo reale. Questa convinzione è espres­sa con grande acutezza negli scritti di Jac­ques Ellul (1912-1994) e in particolare nel suo saggio Il sistema tecnico (1977). «Ci sono pochi dubbi sul fatto che ci troviamo di fronte a uno dei massimi pensieri dei nostri tempi», si è detto di queste pagine (un giu­dizio da condividere in buona parte). Ne ap­pare ora la traduzione italiana, di cui ha scritto su queste pagine Armando Torno ( Il sistema tecnico. La gabbia delle società con­temporanee, Jaca Book, pp. 406, e 42, tradu­zione di Guendalina Carbonelli).
L’importanza di questo saggio sta nella descrizione: descrive con penetrazione illu­minante il prevalere, nel nostro tempo, del «sistema tecnico»: la situazione in cui la tec­nica sta vanificando il capitalismo, la religio­ne, la politica. Che dunque sono irriformabi­li. La debolezza del saggio sta invece nell’ap­parato teorico in base al quale viene condan­nata la tecnica: essa distrugge la «libertà» dell’uomo. Questo discorso (come del resto per lo più accade) dà per scontato che la li­bertà sia un valore indiscutibile, irrinuncia­bile. Il senso globale della prospettiva di El­lul è dunque: nessuna forza pratico-teorica (quali appunto il capitalismo, la religione, la politica, ma con l’eccezione implicita di cui dirò tra poco) si illuda di vincere e con­trollare il «sistema tecnico»; e tuttavia que­sto sistema è il pericolo estremo perché di­strugge la libertà dell’uomo — la sua libertà di «scegliere» veramente, e non apparente­mente come quando si sceglie tra «prodot­ti » forniti dal sistema tecnico.
Tuttavia, quanto più qualcosa — la libertà — sembra irrinunciabile, tanto più si deve evitare di presentarla come un dogma. E in­vece si può dire che l’apparato teorico espli­cito di Ellul si riduca all’affermazione che nelle scienze sociali la migliore teoria sia l’as­senza di teoria, cioè la descrizione accurata e capace di scorgere l’unità che conferisce la forma di «sistema» alle singole tecniche.
Ma condannare la tecnica perché distrug­ge la libertà non è più una semplice descri­zione. È un giudizio che presuppone una te­oria capace di mostrare il valore della liber­tà. E la teoria implicita di Ellul è la sua fede protestante — la religione storica essendo invece per lui ormai completamente «deter­minata » dall’«ambiente tecnico». La fede è l’eccezione: l’unica forza capace di smasche­rare la non verità della tecnica e di tener vi­va la speranza in un mondo diverso, in un «ambiente, umano e naturale, 'non pro­grammato', vario, attivo, un ambiente pie­no di difficoltà, di tentazioni, di scelte diffi­cili, di sfide, di sorprese, di ricompense inat­tese ». (p. 382) Nel 1975, al Convegno del Centro Inter­nazionale di Studi Umanistici di Roma, ri­volgendomi anche a Jacques Ellul, oltre che a Paul Ricoeur e ad altri partecipanti, dicevo invece che «il domi­nio scientifico-tecnologico dell’ente e la conseguente distruzione di ogni univer­so mitico e di ogni kéryg­ma non sono solo un fatto, ma sono il destino richie­sto dall’essenza del tem­po », ossia della dimensio­ne in cui si svolge l’intera storia dell’Occidente. Il tempo è inteso, dai suoi abitatori, come separazio­ne delle cose (uomini, piante, stelle, pen­sieri, affetti) dal loro essere, ed è soltanto sul fondamento di questa separazione che è possibile ogni volontà di assegnare e di togliere l’essere alle cose, e quindi anche quella forma radicale di volontà in cui la tecnica del nostro tempo consiste. Ero d’accordo con la tesi di Ellul della capacità della tecnica di imporsi sulle forze che in­tendono ridurla a semplice mezzo; ma non ero d’accordo su quel che più conta perché stabilisce il significato stesso di una tesi: il modo in cui egli giustificava la propria, riducendo a fede il fondamento della sua critica alla tecnica.
Ma Ellul diffida della filosofia. Tanto da scrivere che la scomparsa di ogni «punto di riferimento intellettuale, morale, spiritua­le » a partire dal quale l’uomo «possa giudi­care e criticare la tecnica» è attestata dalla «sociologia della morte delle ideologie» e dalla «teologia della morte di Dio» (pp. 387-88) — dimenticando ciò che sta sotto gli occhi, ossia che, della morte di Dio e del­le ideologie, sociologia e teologia hanno po­tuto parlare perché innanzitutto ne aveva parlato la filosofia per bocca di Nietzsche (e di Leopardi e Gentile). Inoltre, la sociologia può descrivere le morti, non indicare la loro necessità, e nemmeno può farlo la teologia, fondata com’è sulla fede. Nonostante l’intel­ligenza della sua analisi, Ellul ha della tecni­ca la stessa percezione ingenua che ne han­no i suoi attuali sostenitori (che egli dura­mente condanna): di essere un agire che crede di non aver nulla a che fare con la filo­sofia.
Disinteressandosi della filosofia, Ellul non ne può sfruttare le risorse. Scrive che «secondo la solita mania dei filosofi» si fa «un discor­so sulla Tecnica in sé, in qualsiasi epoca, qualsiasi ambiente, come se fosse possibile assimilare la tecni­ca occidentale precedente il XVIII secolo con la tecnica at­tuale » (p. 52). Ma da quella mania è necessario farsi prendere ancora di più e più radicalmente: scorgendo, come ho rilevato, che sin dal suo inizio l’Occidente separa l’uomo e le cose dal loro essere e che ogni tecnica del­l’Occidente si fonda su questa separazione. Ma in due modi profondamente diversi.
La tradizione filosofica ha inteso sviluppa­re una Teoria inconfutabile, in cui vengono stabiliti i Limiti che nessun agire umano e dunque nessuna tecnica possono superare. Sono costituiti dall’ordinamento divino del mondo.
Più o meno direttamente, le religioni e le altre forme culturali e istituzioni dell’Occi­dente si inscrivono in questa Teoria. Essa è quindi riuscita ad arginare a lungo la volon­tà di potenza della tecnica. Invece la filoso­fia degli ultimi due secoli ha mostrato l’im­possibilità di quella Teoria. Ha quindi indi­cato lo spazio libero dove la tecnica può ol­trepassare ogni Limite e dominare il mon­do.
Questo che sto richiamando non è dun­que un «discorso sulla Tecnica in sé», che vada incontro agli inconvenienti espressi da Jacques Ellul. Per un verso, esso consente di dare consistenza alle descrizioni. Ma spe­gne anche le speranze improprie. Perché si­no a che ci si limita a descrivere la situazio­ne in cui ogni aspetto della vita umana è «tecnicizzato» — e dunque in cui Dio è mor­to — non si può escludere che un Dio abbia a ritornare e che dall’«ambiente tecnico» si possa uscire.
Dimenticando la filosofia, Ellul può spera­re in questo ritorno. Ma poi bisogna fare i conti con la filosofia del nostro tempo — o meglio col suo sottosuolo che per lo più si fatica a raggiungere.
E allora ci si rende conto che il pessimi­smo di cui Jacques Ellul è stato accusato du­rante la sua vita è ancora una forma di otti­mismo improprio, giacché per oltrepassare la dominazione tecnica del mondo occorre ben altro che il richiamo ai valori del passa­to: occorre mettere in questione l’essenza stessa dell’Occidente: quella separazione dell’uomo e delle cose dal loro essere, che è la radice della volontà di modificarli, mano­metterli, produrli, distruggerli, reinventarli al di là di ogni limite.


il Riformista 4.7.09
Intervista con Ignazio Marino: Niente sofferenze inutili, impariamo dagli Stati Uniti
Una legge per le terapie del dolore


Ignazio Marino non è solo il potenziale terzo "incomodo" nella sfida a due per la segreteria nazionale del Partito democratico. Il senatore, chirurgo, specializzato nella terapia dei trapianti, conosce a fondo il sistema sanitario degli Stati Uniti, dove ha svolto per quasi diciotto anni la sua professione. Nel 1999 è tornato in Italia, per dedicarsi alla fondazione di un centro trapianti a Palermo. Nel 1992 era stato nominato Direttore associato del National Liver Transplant Center del Veterans Affairs Medical Center di Pittsburgh, l'unico dipartimento per trapianti d'organo appartenente all'Amministrazione statunitense. In questo Paese ha perso la vita il 25 giugno Michael Jackson: il cantante era solito combattere il dolore, sia fisico che psichico, con dosi massicce di farmaci.
Professor Marino che cos'è il dolore secondo lei che è medico?
Il dolore ha una componente fisica e una psicologica. Spesso, però, queste due componenti si mischiano tra loro e la componente psicologica influenza quella fisica. Me ne rendo conto essendo un medico specializzato in trapianti. Basta pensare a quello del fegato, che prevede una fase post operatoria molto travagliata, dove il dolore all'addome assume una parte centrale. Ci sono casi in cui il dolore è minimo. Altri in cui è esacerbante e spesso psicologico. È qui dovere del medico parlare con il paziente, spiegando i motivi di questo dolore.
Quali sono le differenze di trattamento del dolore tra l'Italia e gli Stati Uniti?
L'approccio è diametralmente opposto. Negli Stati Uniti la cura del dolore assume un aspetto fondamentale, quasi essenziale, nella cura del paziente, il quale si aspetta di non provare alcun dolore ed è impegno dei medici non fargliene percepire alcuno.

«Abbiamo una cultura totalmente diversa da quella degli Stati Uniti, lì il paziente si aspetta di non provare mai la sofferenza».
Perché secondo lei?
Io credo si tratti di una questione prettamente culturale. L'approccio negli Stati Uniti è di tipo calvinista, dove non si accetta che una persona debba soffrire. L'approccio cattolico invece lascia un margine di tollerabilità del dolore. Non sto facendo un ragionamento di tipo filosofico o religioso, credo sia una differenza intrinseca interna alle due culture.
In termini pratici come si sviluppa questa differenza?
In America, la prima cosa che un medico fa, accogliendo un paziente che soffre, è somministrargli spesso antidolorifici a base di oppioidi per sedare il dolore. In questo modo, può anche succedere di ritrovarci di fronte a casi di addiction: è un atteggiamento che ha il rischio di provocare dipendenza. Ho seguito personalmente il caso di una donna che dopo un trapianto di fegato, perfettamente guarita e madre di due bambini, girava per ospedali mostrando il taglio all'addome semplicemente per ricevere oppioidi. Il dolore non c'èra più, ma era diventata dipendente.
E in Italia?
Nel nostro Paese avviene esattamente l'opposto. Si fa meno uso di oppioidi e succede che ci siano centinaia di persone che non fanno uso di farmaci appropriati o che continuano a soffrire inutilmente. Tra poco entrerà in vigore la liberalizzazione delle prescrizioni di farmaci per il dolore, da assumere per via orale. Ho cercato di portare avanti questa legge nella precedente legislatura. Poi il governo Prodi è caduto, ma l'attuale ministro Fazio ha comunque deciso di approvarla, con mia grande soddisfazione.
Non c'è il rischio che con la liberalizzazione dei farmaci possano esserci pure in Italia casi di addiction?
Assolutamente no, deve essere chiaro. Siamo in un Paese completamente diverso dagli Stati Uniti. Siamo all'estremo opposto nel modo di usare gli antidolorifici a base di oppioidi.
In Italia i medici specializzati si lamentano di un fatto: a differenza di altri Paesi non c'è differenza tra dolore cronico e cure palliative?
Il motivo è sempre da ricercare nella nostra cultura. Capita ad esempio nel leggere il messaggio che arriva dall'uso della morfina. Nel nostro Paese c'è ancora la convinzione che nel momento in cui si somministra morfina non ci siano più speranze di vita. In realtà, l'uso di questi farmaci può essere molto utile nella cura del dolore cronico.
C'è bisogno di una legge sulle cure palliative?
In Italia evidentemente la vita ha una qualità diversa che in altri Paesi. Una legge in merito è stata dichiarata inammissibile. È invece stata approvata una legge sul testamento biologico che non rispetta l'autodeterminazione del paziente. La politica non può scrivere delle leggi che hanno a che fare con la medicina, la scienza e con i diritti costituzionali delle persone senza tenere conto di che cosa pensano i medici, perché sono loro che con questi temi hanno a che fare ogni giorno, nell'esercizio di una professione difficile e delicatissima.
Come bisogna intervenire?
È necessario ampliare della rete degli hospice, ossia le strutture che forniscono con umanità e tecnologia le cure palliative ai malati terminali.
Ora invece la situazione qual è?
Dei 120 hospice presenti nel nostro paese, ben 103 si trovano al Nord. La metà della popolazione dunque non può usufruire di cure che riducono la sofferenza nelle fasi finali della vita. È in gioco la dignità dell'individuo e il diritto di ciascuno di noi ad affrontare nel modo più sereno possibile il momento più imperscrutabile: quello del passaggio dalla vita alla morte. E sono convinto che si tratti di un tema su cui laici e credenti non possano non trovarsi d'accordo.

il Riformista 4.7.09
Santarcangelo, il teatro in strada
di Laura Landolfi


Dalla sperimentazione anni 70 alla musica visionaria. Per intrecciare italianità e stranieri.

Da sempre votato al teatro contemporaneo, il Festival di Santarcangelo è un laboratorio di linguaggi artistici differenti. Un intero paese, questo dell'Emilia Romagna, che si trasforma tutte le estati un grande palcoscenico, luogo di incontro privilegiato dalle realtà teatrali internazionali. Quest'anno però il Festival recupera le proprie origini e ripropone una rivisitazione del teatro di strada, una formula legata alla sperimentazione degli anni 70 da cui la manifestazione trae le sue origini: con Santarcangelo 39, insomma, il teatro torna in piazza. Da ieri fino al 12 luglio un'unica drammaturgia attraversa il paese andando dalla scena americana alle molte sperimentazioni di casa nostra ma, se la programmazione ufficiale è frutto della direzione artistica di Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, la scelta poi di istituire un bando per il teatro all'aperto in cui è, volutamente, mancata una selezione, ha permesso di creare un evento aperto a tutti nella miglior tradizione dei festival internazionali con le loro sezioni "off".
Il calendario parte con Richard Maxwell (tra gli autori statunitensi più interessanti degli ultimi anni), che con la sua compagnia The New York city players presenta due lavori in prima nazionale: Showcase e Ode the Man Who Kneels e prosegue con La stanza di M. di Muta Imago, A Bocca aperta di Kinkaleri, Achab e la Balena di Arnoldo Foà e tutta una serie di eventi: dai Radiodrammi alla Radio di piazza con Radio Gun Gun a cura di Altre Velocità, capita però anche di imbattersi per la strada nei Giganti della Montagna di Semi volanti o in Telemomò, la tv surreale di Andrea Cosentino.
Ma è la musica la vera protagonista di queste giornate teatrali, è il suono infatti a fare da trait d'union tra i singoli eventi. Non a caso a dirigere la rassegna è Chiara Guidi la cui ricerca da tempo si concentra sulla voce come elemento di comunicazione. La voce è infatti per quest'artista raffinata «fonte di visioni», il suono è visto come «macchina che esce dallo spirito», come sottolinea lei stessa: «Per alcuni di noi il suono può concepire e manifestare la forza di uno spazio, può renderlo possibile, visibile». E aggiunge: «Santarcangelo parte da qui, da questa concezione di teatro che la musica mette in campo».
La collaborazione con Massimo Simonini (direttore del festival musicale Angelica di Bologna) e di Silvia Bottiroli (del coordinamento critico-organizzativo di Santarcangelo 39) si svolgerà per tutto il triennio 2009-2011 mentre si avvicenderanno i direttori: dopo Guidi è la volta di Enrico Casagrande dei Motus e poi Ermanna Montanari del Teatro delle Albe. Il progetto - realizzato dall'Associazione Santarcangelo dei Teatri con il contributo del Mibac e sostenuto dalla Regione - è studiato per ospitare spettacoli site-specific, musiche e installazioni di artisti provenienti da diversi discipline e paesi, attivando residenze di pratica teatrale, in cui teatranti italiani e stranieri si confrontino partendo dalla pratica scenica. Lo scopo è anche quello di stabilire relazioni trasversali dialogando con operatori internazionali che hanno contribuito alla nascita di questa edizione, come Frye Leysen direttrice del tedesco Theater der Welt o Veronica Kaup-Hasler dell'austriaco Steirischer Herbst.
Per l'intera durata del Festival allestimenti, interventi e spettacoli mettono in relazione linguaggi differenti che si intersecano fra loro: dalle performance di Alvin Lucier alla conferenza di Heiner Goebbels su un concetto di "dramma" che investe la percezione, dalle luci architettoniche di Apparati Effimeri alle indagini all'origine del suono di Fanny e Alexander o la macchine sonore di Masque teatro. Si consuma così, lungo le vie, nelle piazze, sulle scalinate e all'interno delle antiche grotte tufacee di questo piccolo borgo tra visitatori e abitanti incuriositi, l'antico e sempre rinnovato rito del teatro.

venerdì 3 luglio 2009

l’Unità 3.7.09
Ronde nere e conti in rosso
Ecco l’Italia della paura
di Andrea Carugati


Via libera definitivo del Senato al ddl sicurezza. Maroni e Bossi festeggiano, Berlusconi assicura: «L’ho voluto io». Pd, Idv e Udc dicono no. Gasparri: «Maggioranza compatta». Ma ci sono voluti sei voti di fiducia.

All’ora di pranzo sventolano i fazzoletti verdi dei senatori leghisti, che alzano indice e medio in segno di vittoria. Stavolta le bandiere della Serenissima sono rimaste a case, niente eccessi, non c’è bisogno di fare la faccia feroce. Il secondo piatto forte di questo primo anno di governo, dopo il federalismo, è arrivato in porto: 257 voti a favore, 124 contrari, tre astenuti, il ddl sicurezza, con le ronde e il reato di immigrazione clandestina, è legge dello Stato, come voleva Bobo Maroni, pacche sulle spalle con Calderoli e Zaia sui banchi del governo.
DEFICIT, MA GASPARRI è felice Festa a ranghi ridotti, dunque, ma Gasparri ugualmente parla di «gioia» per l’approvazione del ddl, proprio nel giorno in cui i dati Istat certificano gli effetti rovinosi della crisi sull’economia italiana, con il profondo rosso dei conti pubblici e il rapporto deficit Pil che precipita ai livelli del 1999. «Catastrofisti», direbbe il premier, e infatti il Senato è già al lavoro sul ddl intercettazioni, che con la crisi non ha nulla a che vedere, ma al premier sta tanto a cuore, e la Lega ricambierà il favore, garantendo un’approvazione senza scossoni.
L’OPPOSIZIONE DICE NO
Nell’aula del Senato il clima è meno surriscaldato rispetto al voto finale alla Camera di metà maggio, quando Franceschini e Maroni incrociarono le spade. Sarà colpa del clima estivo, o forse dell’atmosfera congressuale che impegna i senatori del Pd. Quelli dell’Idv mostrano qualche sparuto cartello di protesta «I veri clandestini siete voi»,«Governo: clandestino del diritto», la Finocchiaro ricorda uno degli aspetti più crudeli del ddl, il rischio che la madri clandestine non possano registrare i neonati all’anagrafe. «C’è una forma di persecuzione verso i clandestini, molti dei quali lavorano nelle nostre case». L’Udc Gianpiero D’Alia si rivolge ai leghisti: «Dalle camicie nere alle camicie verdi,è questo il vostro salto di qualità?».
Il numero uno del gruppo Pdl Gasparri si spertica a ricordare quanto «compatta» e «coesa» sia una maggioranza che è stata costretta a sei voti di fiducia, tre alla Camera e altri tre tra mercoledì e ieri a palazzo Madama. Per paura dei voti segreti, che per due volte avevano già impallinato uno dei bandieroni voluti dalla Lega, l’estensione a 180 della detenzione dei clandestini nei Cie. E infatti, rispetto ai primi due voti di fiducia di mercoledì, in cui i sì erano stati 164, ieri il terzo si è fermato a 161, e nel voto finale sono mancati all’appello altri 4 senatori.
MARONI E GLI SCRITTORI
E tuttavia Maroni è entusiasta, è lui il protagonista della battaglia sulla sicurezza, come Calderoli lo è stato per il federalismo fiscale. «Oggi completiamo un anno di lavoro», spiega ai microfoni, e annuncia, come aveva già fatto dal palco di Pontida, che il regolamento per le ronde «che è già sul mio tavolo», sarà il primo ad entrare in vigore. «la prossima settimana». Poi si «rammarica» per le «polemiche infondate» che «hanno spinto l’opposizione a votare contro anche ai provvedimenti antimafia voluti da Falcone». «L’opposizione ha perso un’occasione per stare dalla parte dei cittadini, ha fatto un grave errore». Poi si rivolge agli scrittori, da Camilleri a Fo e Tabucchi, che hanno scritto una lettera aperta all’Europa per denunciare i rischi del ddl, a partire dal divieto di «matrimoni misti». «Risponderò a tutti loro- dice Maroni-, Parlano di cose che non esistono, come il divieto per i matrimoni. Si tratta di falsità diffuse da chi non ha letto il provvedimento». Sui distinguo di Fini, Maroni tace: «Non commento». Nel bene nel male, al centro della scena ci sono solo i leghisti. E infatti Berlusconi (assente in aula) nel pomeriggio si affretta a mettere il cappello sull’operazione. «Questa legge è fortemente voluta dall’intero governo, soprattutto dal presidente del Consiglio». Peccato che in marzo avesse detto: «Io non sento l’esigenza delle ronde come la sente la Lega. Non possono volere sempre tutto...».

l’Unità 3.7.09
Da oggi siamo tutti un po’ meno liberi
di Luigi Manconi


Oltre quarant’anni fa, l’Avanti! titolava: da oggi ognuno è più libero. Sia detto senza alcuna retorica: con l’approvazione del cosiddetto «pacchetto sicurezza» quell’annuncio (allora motivatamente ottimista) va rovesciato. È vero, nell’anno di grazia 2009 siamo tutti un po’ meno liberi.
Le norme approvate vanno analizzate, ma già si può dire che la classificazione come reato dell’immigrazione irregolare e l’introduzione delle «ronde» costituiscono due lesioni profonde come non mai inferte al nostro ordinamento giuridico. E un significativo passo indietro nel sistema dei diritti e delle garanzie. Il risultato è di criminalizzare i migranti non per i loro comportamenti ma per il solo fatto di non essere nati in Italia, subordinando la regolarità del soggiorno al possesso di un permesso “a punti”, che la pubblica autorità potrà azzerare sulla base di criteri alquanto fumosi.
Ma qui emerge una questione ancora più profonda: per la prima volta nel nostro sistema penale viene sanzionata la mera condizione di irregolarità.
È reato, e aggravante nel caso si commettano altri reati, un semplice stato, una condizione, un dato esistenziale (migrante: come, in altre epoche e in altri regimi, povero, omosessuale, zingaro... ). Il «pacchetto» contiene, poi, una serie di dispositivi che renderanno i processi di regolarizzazione e di integrazione sempre più complessi e tortuosi. Dall’obbligo di regolarità del soggiorno ai fini dell’accesso ai servizi a quello di dimostrazione di validità del soggiorno per il perfezionamento degli atti di stato civile; dall’obbligo di certificazione dell’idoneità alloggiativa ai fini del ricongiungimento, all’introduzione di un contributo (tra 80 e 200 euro) per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno.
Tutto ciò avrà l’effetto di disincentivare i meccanismi di ingresso nella legalità e nella visibilità del sistema di cittadinanza e la conseguente crescita dell’area dell’irregolarità.
Altrettanto grave è il fatto che si sia riconosciuta a comuni cittadini la possibilità di co-gestire il monopolio della violenza legittima (l’uso della forza legale), da sempre prerogativa esclusiva dello Stato e suo stesso fondamento costitutivo. Lo Stato si spoglia, così, di un suo compito primario per «appaltarlo a privati», che potranno usare il potere terribile della forza verso chi identificheranno come minaccia.
Strana idea di sicurezza, questa, che finisce col subordinare il diritto a un’asimmetria radicale: inflessibile con chi è percepito come diverso, indulgente se non del tutto inerte con chi si arroga il potere di definire il parametro della diversità.

Repubblica 3.7.09
Il presidente mette l´elmetto per Obama il primo "D-Day"
Da queste valli, da Alessandro Magno a Bush il texano, nessuno è uscito vittorioso
Il guerriero Obama
di Vittorio Zucconi


La sfida: mostrarsi come un vero "commander in chief"
I panni del guerriero non sono i suoi, ma si sente di dover rispettare un impegno

I Marines lanciati ieri da Obama all´attacco dei Taliban sono ben quattromila, l´unità più numerosa e formidabile schierata dal tardo autunno del 2001.
Da quando bastarono a Bush una spallata, qualche reparto di special forces e bombardamenti a tappeto di dollari sui corruttibili ras delle valli e dei campi di papaveri per far cadere il regime di Kabul come una piramide di carta.
Gli ordini della Casa Bianca sono tassativi - strappare ai Taliban una valle di importanza strategica in Afghanistan - e questa è la prima offensiva militare importante ordinata dal nuovo comandante supremo delle forze armate, Barack Obama, come aveva promesso di fare durante le elezioni, spostando gli stivali americani dalle sabbie della Mesopotamia alle nevi di Kandahar per colpire il nemico dov´è realmente e non dove Bush e Cheney avevano immaginato che fosse. Eppure c´è qualcosa che non persuade del tutto in questo Obama con l´elmetto che va alla guerra, come se realmente non ci avesse messo il cuore, come se neppure lui fosse convinto di quello che fa, ma dovesse semplicemente rispettare un impegno preso con gli elettori e con il mondo.
L´Obama guerriero è una figura incongrua e non perchè lui, come i falchi da salotto e da talk show alla maniera dei neo-con che lo avevano preceduto al potere, non abbia mai indossato un´uniforme sul serio e non abbia mai provato che cosa significhi davvero sparare a un nemico o essere il bersaglio di proiettili. Guardandolo e ascoltandolo, ormai da molti mesi, prima in campagna elettorale e poi dallo Studio Ovale, si capisce come il suo modus operandi, la sua personalità, la sua storia non possano essere quelli di condottieri bellici, di uomini che sono naturalmente dotati, a volte sfortunatamente dotati, della capacità di vedere il mondo in bianco e nero, diviso in «noi e loro». Come quel generale Patton, idolo dei soldati e dei marines in Europa, la cui filosofia di vita si riassumeva nel famoso motto: "Fare la guerra significa ammazzare quei figli di puttana prima che quei figli di puttana ammazzino te".
Il mondo nel quale si muove Obama, come la sua storia biologica di figlio dell´Europa e dell´Africa insieme, è un mondo in grigio, di tonalità sfumate, che non sono gli ingredienti del semplicismo ideologico, mistico o caratteriale indispensabile per condurre grandi e vere guerre nella certezza di stare dalla parte del bene assoluto. Anche questa offensiva nella valle dell‘Helmand, dove i Taliban risorti (in realtà mai scomparsi) si erano riorganizzati per sfruttare un passaggio geografco chiave e per far ripartire alla grande la produzione e il traffico di oppio, pur se «il rumore e la furia» degli sbarchi dei marines dagli elicotteri sono impressionanti, ha qualcosa di molto obamiano, il sapore di una mossa da giocatore di scacchi, non da duellante all´ultimo sangue.
I rapporti dal campo di battaglia già ci avvertono che i Taliban, secondo una collaudatissima tattica guerrigliera che in Afghanistan funziona da millenni contro tutti gli invasori stranieri e dopo il Vietnam è la prefazione del manuale del perfetto guerrigliero davanti a un avversario troppo forte, non hanno affrontato questi battaglioni di marines coperti dal volo di bombardieri, caccia e droni senza pilota, ma si sono ritirati e dissolti in territori che loro conoscono palmo e palmo, meglio di qualsiasi occhio elettronico e dove possono mimetizzarsi come granelli di sabbia in un deserto.
Dunque, a differenza di quanto accadeva 40 anni or sono, quando i padri e i nonni dei marines lanciati oggi in Afghanistan dovevano contendere ai Vietcong e ai Nord Vietnamiti ogni collinetta per poi abbandonarla e vederla rioccupata il giorno dopo, almeno in questa primo «D-Day» obamaniano non correranno torrenti di sangue. E questo, i generali americani, dunque il loro «chief» Obama, dovevano saperlo perfettamente, essendo i Taliban fanatici ma non tanto stupidi da misurarsi a viso aperto da pick up di latta contro brigate del più forte esercito del mondo.
Si tratta, e qui saremmo di nuovo pienamente all´interno della filosofia politica e umana del nuovo presidente, di un gesto assai più dimostrativo che sostanzioso, di una «strana guerra», condotta nella speranza di non dover fare davvero la guerra. Un modo per provare, agli americani che sempre si domandano quali siano anche le qualità strategiche nei loro presidenti ben sapendo che tutti saranno inesorabilmente chiamati a rispondere a una sfida bellica qualunque sia la loro ideologia, e al mondo, che Barack Obama non è un «sissy», una «signorina di buona famiglia» timida e renitente. Che sa anche fare la parte del commander in chief, del generalissimo, purché l´azione non costi troppo in vite - soprattutto in vite americane - e non precluda vie di uscite politiche. Nel suo universo la priorità appartiene sempre alla politica, non alla forza, e lo sbarco roboante di marines con colonna sonora delle pale dei grandi elicotteri Black Hawk nella valle dell´Helmand sembra una mossa politica, diretta soprattutto a quel Pakistan, e a quell´Iran in subbuglio da fine di regime, che tengono da sempre le chiavi della valli afgane. Dove nessuna forza militare straniera, da Alessandro il Macedone a Bush il Texano, è mai riuscita a imporre la propria volontà e il proprio controllo.

il Riformista 3.7.09
Operazione Khanjar mai così tanti marines ed elicotteri da 40 anni Come in Vietnam?
di Giampiero Giacomello


Obama lancia l'assalto afghano obiettivo Helmand. Alla conquista della roccaforte talebana. Il "colpo della spada" segna l'inizio di una nuova guerra. Non più "search and destroy" come ai tempi della caccia ai vietcong ma "winning hearts and minds" per proteggere la popolazione e ridare autorità al governo centrale. Al primo giorno un soldato è stato catturato dai nemici.

Nella prima operazione di questo tipo dell'era Obama, 4mila marines della Second Expeditionay Brigade e 650 soldati afgani, con appoggio aereo Nato, hanno lanciato un massiccio assalto nella provincia sud-occidentale di Helmand, nel cuore del nemico. La zona è sempre stata praticamente sotto il controllo degli insorti e le sue estese coltivazioni di oppio rappresentano la base economica del potere talebano. Forze pakistane intanto hanno sigillato, per quanto possibile, il confine PakAf (Pakistan-Afghanistan), per evitare che gli insorti possano evitare il combattimento con le forze Usa e si trasferiscano oltre confine per poi destabilizzare ulteriormente il Pakistan o tornare non appena i marines se ne siano andati. Secondo il generale Lawrence D. Nicholson, che comanda la brigata, lo scopo della missione non è quello di scoprire e colpire ("hunt and kill") i talebani, come era tipico in passato ma di proteggere la popolazione civile e ristabilire l'autorità del governo centrale afgano. In altre parole, "gli americani sono qui per restare" e non sarà facile questa volta per gli studenti delle scuole coraniche farli sloggiare.
Un'operazione simile ma più piccola era stata tentata lo scorso aprile da inglesi e americani, che però, dopo alcune settimane se ne erano andati, lasciando che i talebani riprendessero il controllo della valle. La presidenza Bush era alla sua conclusione. Né gli americani, in attesa di un nuovo commander-in-chief, né gli alleati Nato, poco inclini a gesti di generosità verso il presidente uscente, erano dello spirito giusto per vedere il numero delle perdite salire velocemente e passare mesi e mesi in intesi combattimenti. Ora tutto questo è alle spalle: gli alleati Nato continuano a non avere alcun entusiasmo per la guerra "vera", ma almeno hanno dichiarato che vogliono il successo delle elezioni del 20 agosto prossimo e hanno promesso di inviare altre truppe (gli italiani saranno 400 in più).
Il nuovo presidente ha avuto la sua piccola "surge" con 21mila marines e ha un nuovo comandante sul campo, il generale Stanley McChrystal (una specie di "mito" delle forze speciali, che corre 10 miglia ogni mattina e mangia una volta al giorno). A McChrystal, al responsabile del Central Command, David Petraeus, e al Segretario alla Difesa Robert Gates Barack Obama ha chiesto risultati. E in fretta. I tre non hanno nessuna intenzione di deluderlo e l'Operazione "Khanjar" (il colpo della spada) di ieri ne è la dimostrazione.
Un'operazione così grande non c' è mai stata in Afghanistan dai tempi dell'invasione sovietica. E per vedere così tanti marines ed elicotteri schierati sul campo bisogna risalire al Vietnam. Viene alla mente l'operazione "Junction City" del febbraio 1967, la maggiore operazione aviotrasportata con 22 battaglioni di fanteria Usa, riforniti dal cielo. Oppure l'operazione "Hastings" del luglio 1966, cui hanno partecipato oltre 8mila marines. Queste azioni erano tutte missioni però di "ricerca e distruzione" ("search and destroy"), che miravano a distruggere il nemico vietnamita in una determinata area. Da un punto di vista tattico (ovvero degli scontri sul terreno), la maggior parte di queste erano dei veri successi: la zona, alla fine, era sgombra da nemici. Solo che, dopo qualche settimana, i Vietcong facevano la loro ricomparsa, perché gli americani non avevano una presenza fissa (era compito dei sud-vietnamiti) e le forze del Sud Vietnam non aspettavano altro per abbandonare i loro posti e lasciare che fossero gli americani a risolvere il problema.
Anche allora gli americani (in particolare quelli delle forze speciali) avevano capito che il segreto della vittoria era garantire la sicurezza della popolazione locale e far sentire la presenza legittima del governo centrale. Da qui ha origine il "winning hearts and minds", la conquista dei cuori e delle menti. Ma lo sforzo era poco convinto. Erano quelli delle forze speciali a crederci, mentre la maggior parte degli ufficiali dell'esercito (e persino dei marines), pensavano che la "vera guerra" non avesse nulla a che fare con il proteggere la popolazione locale. Ma fosse "distruggere il nemico", ovunque e ad ogni costo.
In Afghanistan per un lungo periodo gli americani la pensavano così, prima di Petraeus e McChrystal. La zona dello Helmand era stata lasciata ai "poveri" (in senso di mezzi) inglesi. I quali ci hanno piazzato 9mila uomini. Troppo pochi per controllare la zona e, allo stesso tempo, combattere i talebani a casa loro. Gli inglesi hanno avuto 171 morti (gli ultimi due proprio ieri) e numerosi feriti. Morti inutili perché la situazione è pressapoco la stessa del 2001. Ora gli americani vorrebbero controllare i villaggi da vicino e assistere la popolazione, unendosi a inglesi e afgani per distruggere il nemico. Speriamo questa volta funzioni.

il Riformista 3.7.09
Moshen Makhmalbaf il regista di "Viaggio a Kandahar" oggi portavoce all'estero di Mousavi «L'onda verde non molla. Regime 100% fascista Ormai è al tramonto»
intervista di Mattia Sorbi


Non è finita. L'artista che dà voce ai riformisti di Teheran è fiducioso. Il regime ormai è spaccato, privo di legittimità. L'opposizione non si è arresa, ora segue la tattica del "mordi e fuggi". Il leader è un «Gandhi islamico» ma anche senza di lui il movimento andrà avanti. E noi europei possiamo fare qualcosa per aiutarlo.

Dottor Moshen Makhmalbaf, quello a cui stiamo assistendo in questi giorni in Iran è l'inizio del declino del governo islamico?
Trent'anni fa abbiamo fatto una rivoluzione per ottenere la libertà e la democrazia ma non ci siamo riusciti. Dodici anni fa ci abbiamo riprovato per chiedere solo un poco di quella democrazia e libertà a cui aspiriamo ma sfortunatamente non ci siamo riusciti perché il governo islamico ha represso il nostro movimento e ha utilizzato la polizia per arrestare molti studenti e attivisti politici. Quattro anni fa abbiamo pensato di boicottare il regime astenendoci dalle elezioni, il risultato è stato una vittoria di Ahmadinejad. Il periodo della prima legislatura di Ahmadinejad è stato terribile. La situazione economica del Paese è disastrosa. Nonostante enormi entrate dovute alla vendita del petrolio l'Iran ha raddoppiato di due volte e mezza il suo debito pubblico rispetto al governo Khatami e la libertà di espressione è molto peggiorata.
Quello che è avvenuto nelle ore successive al voto di Venerdì 12 Giugno anche se ancora molta gente fuori dall'Iran non l'ha percepito è un colpo di Stato a tutti gli effetti. Molte persone non l'hanno capito perché di solito un colpo di Stato proviene da una componente esterna al Governo ma in questa occasione è avvenuto dall'interno. La notte dell'elezioni la polizia ha devastato il quartier generale di Mousavi e ha impedito lo spoglio completo dei voti. Ahmadinejad è stato proclamato Presidente quella notte stessa (lo scrutinio dei voti in Iran impiega due, tre giorni) dalla Guida Suprema Khamenei. Immediatamente dopo è stato vietato a tutti di manifestare ed è stato decretato il divieto d'indire riunioni con più di quattrocento persone. Tutto ciò ha un solo significato: il Governo ha paura della popolo. È l'inizio del suo tramonto.
Qui in Occidente alcuni sostengono che la maggioranza dei meno abbienti, i "diseredati" delle aree rurali povere e delle periferie, sia favorevole a Ahmadinejad mentre l'appoggio per Mousavi provenga solo dalle grandi città come Teheran e Shiraz.
La questione è capire se la gente povera ha votato per Ahmadinejad. Questo è completamente falso, pura propaganda. Sotto il governo di Ahmadinejad anche i poveri si son impoveriti ancor più dimezzando i propri introiti. Gran parte dei soldi dello Stato sono stati spesi per il programma di costruzione della bomba atomica e per l'esercito. Tutta la popolazione iraniana è arrabbiata con Ahmadinejad a causa di questo impoverimento generale. Inoltre, la grande maggioranza dei giovani, sia che vivano in città o in campagna sostengono Mousavi. La maggioranza del popolo iraniano crede nella libertà e nella democrazia. Anche i socialisti di stampo marxista si sono uniti con Mousavi. Ma ci potete credere che questo Presidente ha cercato di rubare gli aerei nazionali per rivenderli?! Ahmadinejad ha derubato tutta la Nazione.
Quale sarà la prossima mossa dell'onda verde?
Attualmente ci sono molti incarcerati, torturati e morti per le piazze. Prima di queste elezioni la popolazione pensava che cinque anni fa Ahmadinejad fosse stato eletto democraticamente. Ora invece, non lo crede più nessuno in quanto tra questi arrestati ci sono dei politici che avevano sostenuto l'attuale Presidente. Il regime si è spaccato. Parlamento, mullah , esercito, ognuno è per conto suo ma la popolazione è sempre più unita. Noi crediamo che il movimento iniziato dai giovani e capeggiato da Karoubi e Moussavi andrà avanti organizzando manifestazioni e scioperi.
La strategia è cambiata, nei prossimi giorni ci saranno forti contestazioni a macchia di leopardo e ritirate più rapide. Nello stesso tempo i milioni di espatriati fuori dall'Iran si sono quasi tutti uniti in modo attivo con le proteste dell'Onda Verde nelle città dove ora risiedono e a poco a poco incideranno sulla situazione attuale. Colgo l'occasione dello spazio che mi date per ribadire a tutti gli iraniani espatriati che tutti loro sono i veri ambasciatori dell'Iran. Voi potete prendere contatti con i Governi dove residete affinché non riconoscano Ahmadinejad come nostro Presidente come io ho recentemente fatto presso l'Unione Europea.
Cosa può fare Stati Uniti e Unione Europea - in particolare l'Italia - per aiutare il popolo iraniano?
Obama pochi giorni fa ha dichiarato che non ci sarebbe molta differenza tra Obama e Mousavi. Noi abbiamo risposto che affermare questo è come dire che non c'è una grossa differenza tra Obama e Bush. Gli americani hanno già deposto il nostro Presidente socialista Mossadeq nel 1956 attraverso un brutale colpo si Stato. Noi non possiamo dimenticare quell'episodio ma chiediamo agli americani di non mettere la firma su quest'altro colpo di Stato. L'Unione Europea su iniziativa ufficiale del Partito Verde sta reagendo bene e da parte nostra abbiamo chiesto a Bruxelles di non riconoscere il governo illegale di Ahmadinejad e d'interrompere ogni relazione economica con l'Iran. All'Italia chiediamo d'interrompere l'acquisto di petrolio iraniano. Tutti i proventi dell'esportazione iraniana di petrolio vengono utilizzati per la costruzione di ordigni nucleari. Ahmadinejad è un nuovo Hitler e oltre a mirare a una supremazia terrestre in Medioriente vuol raggiungere il dominio dei cieli.
Parlando di bomba atomica, alcuni studiosi sono convinti che anche Mousavi continuerebbe i programmi nucleari a scopo bellico.
Vi voglio raccontare qualcosa su Mousavi. Ci sono tre fasi decisive nella sua vita. Prima della rivoluzione islamica Mousavi era un pittore attratto ispirato da Mondrian. In quell'epoca il leader dell'opposizione di oggi entrò in contatto con la teorie rivoluzionarie del dottor Alì Shariati, sociologo e ideologo della rivoluzione iraniana. Il secondo periodo iniziò quando l'Ayatollah Khomeini arrivò dalla Francia ed espresse idee di democrazia,libertà e socialismo. Khomeini poi lo scelse come primo ministro. E nonostante ebbe a disposizione pochi soldi, durante la guerra tra Iran e Iraq, Mousavi riuscì anche a sponsorizzare la cultura. In quell'epoca il cinema iraniano cominciò a diventare famoso in tutto il mondo.
Anche grazie a lei
Grazie davvero. Mousavi richiamò molti cineasti che erano all'estero. Lui ha avuto successo in due campi quello economico e quello culturale. Quando Mousavi fu emarginato dal potere in quanto Khamenei era pro mercato e Mousavi più socialista scomparve per vent'anni. Mousavi è come un Mandela o un Gandhi islamico, è dentro e fuori il sistema. Mousavi non crede nella bomba atomica ma purtroppo è Khamenei la Guida Suprema che decide su questa materia
C'è in particolare un suo film che le ricorda la situazione dell'Iran di oggi?
Sono restio a parlare dei miei film adesso ma Viaggio a Kandahar richiama ciò a cui stiamo assistendo. La realtà iraniana era molto meglio anni fa rispetto al presente. Prima eravamo una Repubblica islamica oggi questo non c'è più e la situazione che viviamo è la fine della Repubblica islamica perché le piccole libertà democratiche di prima sono completamente scomparse. Direi che se prima avevamo una situazione democratica al 20% e coabitavamo con una realtà fascista all'80%, oggi impera il fascismo al 100%.
Nonostante questo sono ottimista perché il regime iraniano crollerà in quanto è completamente delegittimizzato fuori e dentro l'Iran.
Dunque a che punto siamo di questa protesta?
Nessuno può dire chi vincerà lo scontro finale, il Governo è il vincitore della battaglia per il fascismo, noi di quella per il Movimento. Oggi le strade dell'Iran sono zeppe di militari, più di quelle dell'Iraq e dell'Afghanistan messi insieme. Questo è un Governo capace di arrestare tutta la Nazione.
Su chi può contare Mousavi adesso che è costantemente controllato dalla polizia?
Questo è un movimento nazionale. Una parte dei mullah e metà dell'esercito è con Mousavi. Ma i sostenitori di Mousavi vanno oltre la sua stessa persona. Il Movimento è soprattutto costituito da giovanissimi, il 70% della popolazione, dunque è destinato ad andare avanti. Se Mousavi verrà fermato l'Onda Verde troverà un altro leader. Dobbiamo seguire la situazione giorno dopo giorno. Mi dicono che il Movimento userà strategie più sicure e più forti. Abbiamo bisogno anche della stampa estera. Mi rendo conto che avete bisogno di notizie sempre nuove. Ma non vi scordate dell'Iran.
*(per gentile concessione di ilsussidiario.net)

Repubblica 3.7.09
Amnesty accusa Israele e Hamas "Crimini di guerra nell´attacco a Gaza"
di Alberto Stabile


L´esercito: sono manipolati. Gli islamici: rapporto ingiusto
La tensione nella Striscia resta altissima, uccisa ieri una ragazzina di 12 anni

GERUSALEMME - Il titolo dice tutto: «Operazione piombo fuso - 22 giorni di morte e distruzione». Ecco l´atteso rapporto di Amnesty International sulla guerra scatenata da Israele contro Hamas, a Gaza, tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009. Una prova di forza sproporzionata e, se si guarda alla quantità di civili palestinesi - donne e bambini uccisi - spesso immotivata. Per questo, secondo Amnesty, l´esercito israeliano s´è macchiato di crimini di guerra. Un´accusa, tuttavia, che l´organizzazione muove anche ad Hamas e alle altre milizie che hanno sparato indiscriminatamente i loro missili contro la popolazione israeliana del Negev. E la tensione nella Striscia resta altissima anche dopo la fine delle operazioni militari, ieri è stata uccisa una ragazzina palestinese di 12 anni, e tre altri giovani sono rimasti feriti, dai colpi d´artiglieria sparati dall´esercito israeliano.
Diciamo subito che conclusioni del genere non potevano soddisfare le due parti in conflitto. Per Israele Amnesty «ha ceduto alle manipolazioni del gruppo terroristico», mentre Hamas contrattacca accusando l´organizzazione di mettere sullo stesso piano «vittime e carnefici» negando ai palestinesi «il diritto di resistere all´occupazione». Detto questo, leggendo il rapporto quella che emerge con chiarezza è la radiografia di uno scontro asimmetrico in cui il più potente esercito del Medio Oriente, affronta gruppi di miliziani dotati solo di armi leggere. Eppure, alla fine delle tre settimane di guerra, secondo i dati delle organizzazioni umanitarie si conteranno 1400 morti tra i palestinesi, fra i quali oltre 300 bambini, circa 150 donne e centinaia di civili di disarmati. Israele parla, invece, di 1200 vittime, la maggioranza delle quali sarebbero miliziani. Le perdite israeliane sono state 13: dieci soldati e tre civili.
Ora come è potuta succedere quest´ecatombe di civili, nonostante le armi ad altissima precisione di Tsahal? «Molta della distruzione arrecata - accusa Amnesty - è derivata da attacchi diretti contro obiettivi civili o da attacchi indiscriminati che hanno mancato di distinguere tra legittimi bersagli militari e obiettivi civili». Così, migliaia di case sono state rase al suolo dai caccia bombardieri F16, spesso con dentro i loro abitanti. Bambini sono stati uccisi mentre giocavano all´aperto, uomini sono caduti mentre cercavano di procurarsi da mangiare, famiglie sono state falciate dai missili sparati dagli elicotteri mentre cercavano rifugio. La guerra contro Hamas non ha risparmiato medici e infermieri che portavano soccorso ai feriti.
Fresca è ancora la memoria degli episodi più drammatici: Randa Salha, 34 anni uccisa nel sonno con quattro dei suoi sette figli a Beit Lahia; Amer Abu Aisha, 45 anni, muore nella sua casa di Shati assieme alla moglie Nahel e tre dei loro quattro figli. E poi i 21 morti della famiglia Samuni, le bambine Abed Rabbo, le tre figlie del medico al Aish e le altre vittime senza un perché.
Le bombe al fosforo, che l´esercito nega all´inizio di aver usato, fanno parte anch´esse del capo d´accusa stilato da Amnesty. E´ vero che gli ordigni al fosforo vengono spesso usati per alzare cortine fumogene, ma se fatti esplodere ad altezze notevoli dal suolo diventano bombe incendiarie e, comunque, è vietato il loro uso in zone densamente abitate. Una delle giustificazioni che le autorità israeliane hanno evocato a ripetizione per spiegare la gran quantità di vittime civili è stata quella di accusare Hamas di servirsi dei civili come «scudi umani». Ebbene Amnesty, pur criticando il movimento islamico per aver talvolta stabilito proprie posizioni in prossimità di case e strutture civili, afferma di non aver trovato prove che i miliziani si siano serviti di «scudi umani». Al contrario, spesso i soldati israeliani hanno preso posizione nelle case costringendo le famiglie che le abitavano a restare al loro interno.

l’Unità 3.7.09
L’infibulazione. Male senza confini
di Laura Lucchini


La mutilazione genitale femminile in Europa è molto più diffusa di quanto si immagini: dall’Austria alla Francia, crescono le pratiche clandestine e diminuiscono le denunce. In Germania sono oltre 24mila le donne-vittime. Terre des Femmes lancia l’allarme: «Almeno 4mila le bambine a rischio»

Circa 4000 ragazzine in Germania sono considerate dalle autorità e dalle ong competenti a rischio di infibulazione, una pratica a cui vengono sottoposte spesso nel corso di viaggi nei propri paesi d’origine. Nonostante ciò un tribunale ha emesso alcuni giorni fa una sentenza che permette a una famiglia etiope residente in Germania, di mandare la propria figlia in viaggio in Etiopia. Il caso ha diviso l’opinione pubblica e le organizzazioni dei diritti umani.
«Abbiamo cercato di determinare se sussiste il rischio di mutilazione genitale per la ragazzina di 10 anni di Baden», ha spiegato il giudice Klaus Bohem- «il Tribunale è giunto alla conclusione che non c’è alcuna minaccia di lesioni a danno della minore». Con queste parole si sono chiusi martedì, mesi di processo in cui si scontravano l’associazione Task Force fgm («per la protezione effettiva dalla mutilazione genitale») e una famiglia etiope di Bad Säckingen (al confine con la Svizzera).
In agosto la figlia di 10 anni sarebbe dovuta andare a Adis Abeba per visitare i nonni. L’associazione Task Force fgm aveva denunciato che la bambina sarebbe stata a rischio di infibulazione se mandata al proprio paese, e il caso era arrivato di fronte al tribunale locale che a novembre aveva negato alla famiglia il diritto a far viaggiare la figlia.
Questa sentenza teneva conto del fatto che gran parte delle bambine di alcuni paesi africani sono vittime di questa pratica di origini tribali: in Sudan il 90%, in Eritrea l’89%, in Etiopia il 74%, secondo dati dell’Unicef. Spesso genitori legati a queste tradizioni ma residenti in Europa non rinunciano a infliggere la pratica alle figlie e secondo gli esperti si servono di soggiorni nel paese d’origine o di infibulatori clandestini.
Con l’appoggio di alcune organizzazioni dei diritti umani (che difendono le minoranze dai pregiudizi), la famiglia ha però presentato ricorso contro la sentenza, e ha dimostrato che impedire il viaggio sarebbe stata una discriminazione razziale. Un inviato del Tribunale d’appello di Karlsruhe ha infatti documentato che si tratta di genitori, «moderni, colti e simpatici», lui colonnello in pensione e lei insegnante.
I genitori si erano sempre opposti a sottomettere la figlia a controlli medici prima e dopo il viaggio. Ciononostante il tribunale ha tenuto conto del fatto che, dati alla mano, nelle città il rischio è minore e in particolare ad Adis Abeba, dal 2000 al 2005 la percentuale di vittime dell’infibulazione era scesa dal 52 al 38%.
Questo processo ha portato alla luce una realtà sconcertante e muta. «Nel 2005 l’Unicef ha chiesto ai ginecologi tedeschi se fossero a conoscenza di pratiche illegali di mutilazione dei genitali effettuate in Germania e il 10% ha risposto di si», spiega Franziska Gruber dell’associazione Terre des Femmes.
Attualmente in Germania ci sono 24.566 donne che hanno subito questa mutilazione, in particolare provenienti da Egitto ed Etiopia. «Si crede inoltre che circa 4.000 ragazzine siano a rischio per il fatto di avere parenti vicine che sono state infibulate», spiega Gruber, «sono però dati ufficiali, crediamo che nella realtà il numero sia molto più alto».
Un ginecologo egiziano è stato denunciato nel 1999 in Germania per essersi offerto di praticare l’infibulazione per un prezzo di 610 euro. Il medico non sapeva che il presunto padre interessato che era arrivato al suo studio era in realtà un reporter della televisione ARD, con telecamera nascosta. L’imputato fu però prosciolto dall’accusa per insufficienza di prove.
«In Germania non si è mai arrivati a un processo contro un’imputato accusato di aver praticato l’infibulazione, per mancanza di fatti», spiega Gruber. Allo stesso modo, in paesi come Italia, Spagna, Danimarca, Norvegia che hanno leggi specifiche in materia, i processi sono rari se non completamente assenti. «Per quanto riguarda la persecuzione di questi reati», spiega Ines Laufer fondatrice di Task Force fgm, «la Francia è l’unico paese in Europa che fa valere le leggi vigenti e ha condannato un certo numero di responsabili». Per quanto riguarda la prevenzione, «tutti i paesi europei sono messi male: da nessuna parte le ragazzine vengono protette in modo concreto», spiega Laufer.
In Austria, la «Afrikanische Frauenorganization in Wien» (Organizzazione africana di donne di Vienna) ha condotto nel 2000 un sondaggio tra 250 immigrati (130 donne e 120 uomini) originari di paesi in cui si pratica l’infibulazione. Un terzo degli intervistati ha ammesso di aver fatto mutilare la propria figlia. Le vittime sarebbero state 88 ragazzine (35%) delle 250 figlie di famigli intervistate. L’89% erano state sottoposte a questa pratica nel paese d’origine, ma l’11% in Europa (1% in Austria e 10% in Germania).
Secondo l’associazione tedesca Task Force fgm le ragazzine originarie di paesi in cui è viva questa tradizione dovrebbero sottoporsi ogni tre anni a visite mediche, in un programma che l’associazione definisce «preventivo».
Altre organizzazioni che combattono contro questa brutale tradizione, si dicono contrarie ad effettuare controlli su determinate famiglie, come nel caso della famiglia di Bad Säckingen, «non vogliamo stigmatizzare determinate etnie», ha detto Heidi Bessas, attivista dell’organizzazione Forward. «Queste famiglie verrebbero ingiustamente sospettate in pubblico», ha aggiunto.
L’Italia figura tra i Paesi europei con il più alto numero di donne infibulate: secondo gli ultimi dati Istat, si contano 67.988 donne provenienti da Paesi a tradizione escissoria e, quindi, potenzialmente a rischio. Di queste, circa 40.000 hanno già subito l'infibulazione e ogni anno seimila bambine tra i 4 e i 12 anni rischiano di essere sottoposte a questa pratica illegale. Nel 2006 è stata approvata una legge che punisce duramente le mutilazioni genitali femminili, ma di fatto il tema resta nell’ombra.
Indipendentemente da dove lo si osservi, il verdetto del tribunale d’appello tedesco fa emergere una realtà triste: da una parte una famiglia innocente è stata accusata e trascinata in tribunale con l’unica colpa di avere origini etiopi. Dall’altra il verdetto renderà più facile probabilmente i viaggi a scopo d’infibulazione. Un’altra volta l’informazione, il dialogo e l’educazione sembrano essere le sole speranze la dove la Giustizia non può arrivare.

Da quattro a dodici anni di carcere
Come l’Europa punisce le mutilazioni
Italia: la legge sull’infibulazione esiste dal 2006. L'articolo 583 bis che punisce con la reclusione da quattro a dodici anni chi, senza esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili.
GERMANIA: non esiste un reato specifico per l’infibulazione. Poche settimane fa la mutilazione genitale femminile è stata messa all’ordine del giorno in parlamento. Fino ad ora veniva giudicata come reato di lesione corporale lieve o pericoloso. Ora è lesione aggravata.
FRANCIA: L’infibulazione rientra nelle “lesioni corporali permanenti” ed è punibile con 10 anni di carcere e multe fino a 150.000 euro. Si considerano aggravanti il fatto che la vittima abbia meno di 15 anni e che l’infibulatore sia un famigliare. È l’unico paese in Europa dove si sono registrate condanne per questa pratica.
SPAGNA: nel 2005 il Parlamento ha autorizzato i giudici spagnoli a perseguire chi realizza mutilazioni sessuali di questo tipo anche fuori dal territorio spagnolo.
AUSTRIA: esiste un reato specifico per giudicare l’infibulazione anche se non si conoscono processi in cui sia stato applicato. La “Afrikanische Frauenorganisation” di Vienna ha portato a termine i primi sondaggi non ufficiali sull’incidenza del fenomeno in Europa.
GRAN BRETAGNA: la pratica rientra tra le lesioni corporali e ci sono stati diversi processi anche se in nessun caso si è mai arrivati a una condanna.

l’Unità 3.7.09
Rai2, Togliatti inedito spiega le sue svolte
Ieri una puntata speciale con gli storici sul leader Pci
d Bruno Gravagnuolo


Enigma Togliatti. A 45 anni dalla morte, avvenuta a Yalta il 20 agosto 1964 e a 20 dal 1989, che mise fine al suo Pci. E a metterlo in scena è stata ieri Rai2 alle 21, con una puntata della «Storia siamo noi» a cura di Marco Durazzo. Un’ora e mezzo di trasmissione, con materiali d’archivio inediti e ripescati da cineteche e audioteche, e due «discussants» d’opposto orientamento: Giuseppe Vacca, presidente del «Gramsci» e Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni.
In apertura il Togliatti 1944 della «Svolta di Salerno», che si racconta con la sua stessa voce sullo sfondo di una Napoli devastata dalla guerra e dall’eruzione del Vesuvio. E in chiusura, le immagini dell’immenso funerale del 1964, in una Roma agostana pervasa di commozione e bandiere rosse (le stesse immagini usate da Pasolini in Uccellacci e Uccellini). In mezzo «Ercoli» - nome affibiatogli da Bucharin per la sua esilità - con il suo paradosso. Da un lato infatti Togliatti traduce genialmente, e in piena autonomia dall’Urss, la lezione di Gramsci sul comunismo in Occidente. Dall’altro però fu un adepto fedele del campo socialista moscovita, che pure immaginava allargato fino al punto da non prevedere più una «casa madre». Dunque in onda, l’originale intuzione togliattiana, fin dal luglio 1943, della necessità di un governo con Badoglio (autorizzata alla fine da Stalin). E prima ancora le resistenze al «socialfascismo» staliniano nel 1929, poi rientrate e mescolate al silenzio-assenso sulle repressioni di Stalin. E senza omettere che per primo Togliatti analizzò il fascismo come movimento di massa di ufficiali e piccolo-borghesi (prima di De Felice). Poi però nel 1956 la funesta adesione ai carri armati a Budapest. Resta la grandezza di una figura che fece del Pci uno strumento di emancipazione civile mai visto prima in Italia. E un socio fondatore della nostra democrazia. Con buona pace dei moderati e della destra.

Corriere della Sera 3.7.09
L’allarme di D’Alema: avanti così e l’opposizione non esisterà più
Marino pronto a scendere in campo: bisogna modernizzare
di Maria Teresa Meli 



ROMA — Il «nuovo» che os­sessiona il Pd fatica a emerge­re. È un’operazione difficile in un partito che, come ricorda il deputato friulano Alessandro Maran «ha lo stesso gruppo di­rigente dei tempi di Bush pa­dre ». O che, come suggerisce scherzosamente Gianni Cu­perlo, è ridotto a un punto tale per cui dovrebbe adottare il triste inno polacco («La Polonia non è ancora morta», recita l’inizio).
Massimo D’Alema non ci prova nemme­no a cavare il «nuo­vo » dal Pd. Non è nel suo stile. E pragmatica­mente dice: «Speriamo che Bersani rimetta in se­sto questo partito, poi ve­dremo. L’importante è non andare avanti così: noi ci divi­diamo, siamo inchiodati per mesi su una discussione con­gressuale, e rischiamo di non fare più l’opposizione». Wal­ter Veltroni, invece, il «nuo­vo » ha cercato di farlo emerge­re durante la sua segreteria. E continua a provarci. Tant’è ve­ro che per rinnovare l’immagi­ne di Dario Franceschini e far dimenticare che già nel 1999 era il candidato di Franco Ma­rini alla guida del Ppi ha tirato fuori dal cilindro Debora Ser­racchiani, segretaria di sezio­ne del Pd in quel di Udine. Ma anche la Serracchiani, come racconta un ex diessino, «asso­miglia ormai al D’Alema ver­sione supponente». E a dimo­strazione del fatto che anche l’eurodeputata, suo malgrado, ha assimilato comportamenti e modi della classe dirigente del Pd nel partito si cita l’epi­sodio avvenuto ieri sera. Vel­troni ha appena finito di parla­re al Capranica quando la Ser­racchiani incrocia la deputata Paola Concia, rea di averla cri­ticata per certe sue affermazio­ni. L’europarlamentare la squadra dal basso in alto e poi gelida le dice: «La prossima volta, quando non capisci le cose, telefonami».
Alla ricerca del nuovo, anco­ra una volta, nella sala del Ca­pranica dove Veltroni ha fatto il suo semi-rientro in politica e dove siede in prima fila Raf­faele Bonanni, il segretario della Cisl che insieme a tanti altri ex dc sostiene Franceschi­ni (Guglielmo Epifani, invece, non c’è). Sul palco, insieme ad altri, siede Sergio Chiampa­rino. Il sindaco di Torino non è certamente giovane, ma po­teva rappresentare il «nuovo» rispetto ai (tre) soliti noti del Pd: Massimo D’Alema, Walter Veltroni e Piero Fassino. Però si è arreso. Lunedì scorso, alle undici di sera, annunciava ai colleghi che lo sostenevano che sarebbe sceso in campo, nonostante le ire di Fassino («Piero deve capire che non lo posso seguire»). L’indomani mattina, dopo un lungo collo­quio telefonico con Veltroni cambiava all’improvviso idea. Ora è sul palco, con l’ex segre­tario, però non fa dichiarazio­ne di voto per Franceschini.
Altro giro, altro Pd. Ignazio Marino è pronto a candidarsi. Salvo sorprese dell’ultim’ora domani, alla festa del Partito Democratico, il senatore-chi­rurgo annuncerà la sua candi­datura, grandemente sponso­rizzata da Goffredo Bettini. Marino spiega agli amici di es­sere «lusingato e confuso» e aggiunge: «Certo l’Italia e an­che il Pd hanno una disperata necessità di modernizzazione. Dopo i miei 18 anni negli Usa non mi aspettavo una nazione ancora così disastrata». In­somma, gli incitamenti di tan­ti sono serviti: il senatore-chi­rurgo sembra essersi deciso. Oggi, a Verona, nell’ospedale dove opera una volta la setti­mana, incontrerà alcuni qua­rantenni del Pd tra cui una parte dei cosiddetti 'piombi­ni' guidati da Paola Concia. Di­ce di lui Bettini: «Se alla fine decide di scendere in campo la sua sarà finalmente una can­didatura innovativa, ma sul se­rio, non come altre che sono state inventate da qualche me­se ». Il nome di Debora Serrac­chiani Bettini non lo fa, per­ché non è nel suo stile far pole­miche senza motivo, ma ogni riferimento appare puramen­te voluto.
Comunque tra i non iscritti il senatore-chirurgo suscita non pochi entusiasmi. A dire il vero ne suscita anche tra quei dirigenti del Pd che lo se­guono. Soprattutto da quan­do (l’ultima volta è stata l’al­tro ieri) non si è mosso di un millimetro di fronte a un D’Alema irritato che metteva in mezzo amicizia e politica (se ti candidi diventerai un av­versario, era il ritornello del­l’ex ministro degli Esteri). 


il Riformista 3.7.09
La battaglia nel Pd. Il fascino sottile della scissione
di Antonio Polito


Con la discesa in campo degli strateghi - ieri Veltroni, domenica D'Alema - i due campi di Agramante della battaglia interna del Pd sono schierati. Non c'è rimasta molta terra di mezzo, e il terzo uomo latita non solo per mancanza di coraggio, ma anche di spazio politico. Già così, sarà uno scontro sanguinoso. Qualcuno pensa che lo sarà anche troppo.
In ogni caso sarà troppo lungo. Quattro mesi così ucciderebbero un bue. Quattro mesi in cui i capi del Pd saranno chiamati in tv per parlar male l'uno dell'altro, più che per parlar male dell'avversario politico. Si fanno spesso paragoni con le primarie americane: lì lo scontro ha fatto bene al partito democratico, si dice. Ma la sfida tra Obama e Hillary era innanzitutto un attacco congiunto a Bush. Si sceglieva chi poteva batterlo meglio. Al centro c'entra la sorte degli Stati Uniti. Qui al centro sembra essere solo la sorte del Pd.
Per questo mi ha molto colpito l'uscita della Serracchiani. Non tanto perché definisce Franceschini simpatico, Bersani vetusto, e D'Alema il male assoluto. De gustibus. Mi ha colpito perché rivela, con l'ingenuità della neofita, il veleno che si è introdotto nel corpo del Pd. È il «noi» contro «loro». La separazione antropologica. Noi il Pd, gli altri no. Cadono così le ragioni stesse dello stare insieme in un partito. Quel minimo di solidarietà che non confonde mai l'avversario esterno con l'avversario interno. Quello stile che impedì sempre a Hillary di attaccare Obama perché nero e a Obama di attaccare Hillary perché moglie cornuta di Bill. Chi negli staff vi fece allusione, dovette anzi dimettersi.
Qui invece Franceschini non ha preso le distanze dalla Serracchiani. E Veltroni l'ha anzi apertamente difesa. E con buone ragioni. La giovane Debora, infatti, non ha fatto altro che ripetere il discorso del «chi c'era prima»: ha solo aggiunto nome e cognome. E, soprattutto, ha evocato la speranza vera del suo campo, che a mio parere è anche il rischio maggiore che corre oggi il Pd: lo scenario dei due vincitori. Uno che vince adesso, e un altro che vincerà un giorno.
Mi spiego. La Serracchiani dice: noi potremo perdere la battaglia tra gli iscritti, ma contiamo di vincere quella tra gli elettori. Il doppio meccanismo congressuale lo consente. L'idea su cui si fonda questo schema è che c'è un partito in mano agli apparati, ai burocrati, alle clientele, nel corpo del quale è difficile vincere per dei veri innovatori. Ma lì fuori, nella società civile, si può vincere se si denuncia quanto schifo faccia questo partito. Per questo l'affondo di Debora non è casuale e non è stato isolato. Fu con queste stesse motivazioni che Veltroni si dimise ed è tornato ieri in campo.
Ma se il Partito democratico è quello che dicono Veltroni, Franceschini, Fioroni e Serracchiani, vuol dire che è un partito da buttare. E che quando vinceranno loro, lo butteranno. Ora, è difficile immaginare un Pd che esca più unito da uno scontro su queste basi. Anzi, è più facile immaginare che questa sia la ricetta per una scissione. Soprattutto, è difficile immaginare che la campagna congressuale possa così diventare un grande spot a favore del Pd e contro Berlusconi, come fu lo scontro tra Obama e Hillary contro Bush.
Il difetto di questo approccio è che rende irrilevante la discussione di linea politica, di idee, di alleanze. Niente conta davvero, se non rifare il Pd; o meglio, restituire il marchio ai legittimi proprietari (che, tra l'altro, l'hanno gestito fino dal primo giorno). Ciò che è importante è proseguire quel processo introverso di continue rifondazioni che continua da quando è morto il Pci. In questo senso lo scontro tra Franceschini e Bersani rischia davvero di ripetere quello tra Veltroni e D'Alema di quindici anni fa.
Anche allora, nell'incertezza, si fecero votare prima i fax e poi i dirigenti. Tra i fax vinse l'uno, tra i dirigenti l'altro. Col risultato che lo sconfitto tra i dirigenti non accettò mai il verdetto e continuò a considerarsi il vincitore morale, animato da ansia di rivincita. E chi vinse tra i dirigenti non si sentì mai pienamente legittimato tra i fax, e quando traslocò a Palazzo Chigi passò di conseguenza lo scettro al suo più formidabile nemico.
Se lo schema dei due vincitori si riprodurrà anche stavolta, questa ennesima sfida non sarà servita a nulla. Se non a lasciare sul campo morti e feriti, e a confermare l'immagine di un partito che ha poco da dire sull'Italia perché non ha tempo per pensarci. Con l'aggravante che, almeno, Veltroni e D'Alema militavano nello stesso partito da quando avevano i calzoni corti, e ci rimasero. Mentre Franceschini e Bersani hanno cominciato a frequentarsi da nemmeno due anni, e nello stesso partito potrebbero anche non rimanerci, se continua così.

il Riformista 3.7.09
Che succede a sinistra di Dario?
di Peppino Caldarola


Ma a sinistra del Pd che succede? Dopo l'ennesima sconfitta elettorale con il mancato raggiungimento del quorum alle europee, a sinistra tutto tace. Per un po' ci hanno pensato Bertinotti e Sansonetti a ravvivare il clima con la proposta del partitone unico in cui confluire. Un dibattito breve, un successo scarso dell'idea. Una breve conta dei favorevoli e contrari poi più nulla. I socialisti di Nencini guardano ai radicali e, ovviamente, si spaccano. I radicali guardano a sé stessi. I neo-comunisti di Diliberto e Ferrero hanno ripreso a litigare e ciascuno dei due partiti è alle prese con difficoltà interne. Diliberto ha cacciato Marco Rizzo. Ferrero continua a essere il segretario comunista più contraddittorio del mondo. Licenzia i dipendenti dopo aver licenziato il direttore di "Liberazione". Auspica un'opposizione dura e pura dopo aver fatto il ministro con grande partecipazione. Il gruppo di Vendola paga il prezzo delle difficoltà della giunta regionale pugliese. Dopo la mini-scissione da Rifondazione il gruppo bertinottiano è in piena crisi di prospettiva. Silenziosi anche i seguaci di Fabio Mussi. Probabilmente tutti aspettano che accada qualcosa nel Pd. Molti a sinistra sperano che il grande partito si spacchi per poter ipotizzare un nuovo inizio. Anche il silenzioso Di Pietro spera di ereditare quanti se ne andranno se vincerà Bersani. Il paradosso di questa stagione politica è che sono più attenti al Pd i commentatori dei giornali e gli esterni di quanto lo siano gli iscritti.



il Riformista 3.7.09
Sinistra e libertà cerca un porto sicuro
Sansonetti a Nichi: «Corri da leader Pd»
di Mattia Salvatore



Di certo ha spiazzato i suoi. Lanciare Vendola come leader del Pd è una provocazione inaccettabile per una forza, come Sinistra e Libertà, che oggi in un seminario nazionale riprende quel progetto iniziato alle europee. Ma, forse, Piero Sansonetti, direttore de l'Altro, ha avuto il coraggio di dire quello che, al momento, si deve negare fino alla morte: l'ingresso nel Pd per spostare il suo baricentro a sinistra. «Chiediamo a Nichi - scrive il giornalista nell'editoriale di ieri - di entrare direttamente nella contesa, di entrare nel partito democratico, realizzando così un gesto unitario che rompa il vecchio Pd walterdemocristiano e proponendosi come leader». Sarebbe un nuovo inizio, «il ritorno alla politica». Frasi che mettono in difficoltà i vertici di Sl, benché sembra che il presidente della Puglia sapesse dell'uscita dell'articolo e avesse dato il suo benestare.
Per l'ex rifondarolo Gennaro Migliore, quella sansonettiana è una provocazione che punta «a svelare il gioco del Pd, un partito vecchio incapace di rinnovarsi». Spiega: «Non ci sono le condizioni per fare battaglia lì dentro. Il Pd non è l'oggetto dei nostri desideri ma di osservazione». Anche l'appoggio a Bersani, a sorpresa, viene meno. L'idea bertinottiana di unificare tutta la sinistra, non passa necessariamente per la figura di D'Alema, che al momento era quello più interessato alle sorti di Sl.
«Non abbiamo preferenze tra i due sfidanti. Il nostro obiettivo è rilanciare la costruzione di un nuovo soggetto nel Paese e non è da escludere che siamo noi a rubare fasce di elettorato a loro», sentenzia Migliore. L'ottica prevalente in Sl rimane quella della «ricomposizione del centrosinistra». Il laboratorio Puglia in tal senso è un modello da seguire, la capacità di Vendola di far convivere una forza che va dall'Udc ai radicali, piace. «Bisogna ricostituire un'alternativa democratica al berlusconismo», spiega il verde Paolo Cento che auspica la candidatura dell'ecodem Ermete Realacci come segretario del Pd: «Movimenterebbe i giochi». Chi ritiene «giusto l'obiettivo» di Sansonetti, ma «sbagliato il metodo», è Riccardo Nencini dei socialisti. Obiettivo, per lui, la costruzione di «un nuovo centrosinistra di governo» che non può escludere «ab imo» l'Udc. Gli unici «incompatibili» sarebbero Ferrero e la sua federazione anticapitalista (fin qui tutti d'accordo) e Di Pietro. Peccato che nei prossimi giorni è già fissato un appuntamento tra l'ex magistrato e il presidente della Puglia, perché nella nuova coalizione «nostra intenzione è dialogare con tutti» ripetono gli ex rifondaroli. Intanto oggi, tutti d'accordo, si rilancerà Sl, un soggetto (c'è anche chi parla di federazione come i socialisti), «moderno, ecologista, riformatore e laico». Che cerca di far diventare più radicale il Pd, con la speranza sia finita l'era dell'isolamento veltroniano.
«Guai a parlare però di ingresso tra le file democratiche», dice Sd, pasdaran da sempre, e inutilmente, del partito unico di Sl. Intanto, nella forza che verrà rilanciata oggi all'Hotel Quirinale, qualcuno potrebbe non confluire. Angelo Bonelli, minoranza dei Verdi e da sempre contrario al progetto, promette battaglia al congresso che dovrebbe svolgersi ad ottobre. E Bobo Craxi, ieri, ha fatto sapere di esser contrario «alla fusione del Ps in Sl» perchè «la vicenda politica del socialismo italiano può e deve poter avere una prospettiva meno angusta dell'unità delle sinistre arcobaleno». I radicali, e una nuova Rosa nel Pugno, rappresentano una sirena.

Repubblica 3.7.09
Bocciati i tagli della Gelmini la Consulta: riforma illegittima
No agli accorpamenti scolastici. Il ministro: rilievi marginali
di Salvo Intravaia


L´Alta Corte ha detto no anche alla chiusura delle mini-scuole: compito regionale

l´attesissima sentenza depositata ieri in tarda serata, l´Alta Corte ha ricusato i provvedimenti del governo sull´accorpamento degli istituti e la chiusura delle miniscuole. I giudici della Consulta ritengono che la gestione della rete scolastica sia di competenza delle Regioni e hanno, quindi, bocciato due punti dell´articolo 64 del decreto legge 112 del mese di giugno del 2008: la cosiddetta Finanziaria estiva predisposta dall´esecutivo, che dà al ministro dell´istruzione Mariastella Gelmini la possibilità di riformare l´intero sistema formativo italiano con una serie di Regolamenti ministeriali. Sono due i punti contestati dai giudici costituzionali: la definizione tramite regolamento ministeriale di criteri, tempi e modalità per dimensionare la rete scolastica e l´attribuzione anche allo Stato (e non soltanto alle Regioni e agli enti locali) delle misure necessarie a ridurre i disagi causati dalla chiusura o accorpamento di scuole nei piccoli comuni. "È una vittoria delle Regioni - commenta a caldo Mariangela Bastico, responsabile scuola per il Partito democratico - che hanno il riconoscimento pieno della loro competenza in materia di rete scolastica. La Gelmini, tanto per intenderci, non può chiudere scuole - continua la Bastico - con un regolamento». Ma il ministro la pensa diversamente. «Posto che è stata riconosciuta la legittimità costituzionale dell´impianto complessivo della riforma, va precisato che a proposito delle due disposizioni di cui è stata affermata l´incostituzionalità - ha osservato il ministro - nessuno dei provvedimenti attuativi dell´articolo 64 si fonda su di esse». «Per questo - ha concluso la Gelmini - i punti giudicati incostituzionali sono da ritenersi marginali e da tempo superati». In sostanza, pare di capire, il taglio di 133 mila posti in tre anni colpirà ugualmente la scuola italiana.
Sulla chiusura delle scuole nei piccoli comuni, meno di un anno fa (ad ottobre del 2008) regioni e governo andarono allo scontro: allorché, con una norma introdotta alla chetichella in un decreto legge sulla sanità, l´esecutivo esautorava le regioni inadempienti in tema di accorpamento e chiusura di piccoli plessi. Anche perché nel 2001 la riforma del titolo quinto della Costituzione riscrisse l´articolo 117, affidando allo Stato la competenza esclusiva su norme di carattere generale ma affidando, come materia di legislazione concorrente, l´Istruzione alle regioni. In quella occasione, il governo fu costretto ad una clamorosa marcia indietro e in sede di conversione del decreto legge (a dicembre 2008) alleggerì i toni del provvedimento, che venne comunque mantenuto. Così, otto regioni (Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Puglia, Campania, Basilicata e Sicilia) si rivolsero alla Corte costituzionale che ieri ha detto la parola fine: la rete scolastica è di competenza regionale. Che fine farà il regolamento sulla rete scolastica pubblicato in gazzetta proprio due giorni fa? Avrà ripercussioni, anche politiche, sulla riforma della scuola messa in cantiere dal governo. Intanto, dopo il dietro front sull´Inglese potenziato alla scuola media - bocciato dal Tar Lazio - i sindacati contestano gli ulteriori tagli agli organici. Tagli che a settembre priveranno le scuole di 57 mila unità di personale. «Anche la Corte si è resa conto che questa riforma ubbidisce soltanto alla logica dei numeri», chiosa Francesco Scrima, leader della Cisl scuola.

Corriere della Sera 3.7.09
Il prefetto dell’Archivio Segreto del Vaticano: invito alla prudenza e all’umiltà. Il volume con i documenti del processo allo scienziato
Chiesa e staminali: «Non facciamo come con Galileo»
di Gian Guido Vecchi




CITTÀ DEL VATICANO — C’è da dire che a Galileo non faceva difetto l’ironia, neppu­re di fronte all’Inquisizione: « Io non tengo né ho tenuta questa opinione del Copernico dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciar­la, del resto son qua nelle loro mani faccino quello gli piace » , si legge in un costituto , o inter­rogatorio, del 21 giugno 1633. Brutta situazione. E, chiaro, non è che ades­so si rischi qualcosa di neanche lontanamente simile all’immagine del­lo scienziato genuflesso davanti ai cardinali inqui­sitori, una candela accesa nella mano sinistra e la de­stra posata sulla Bibbia, co­stretto all’abiura dopo la condanna del 22 giugno, « maledico e detesto li sudet­ti errori et heresie... ». Però, insomma, è bene che la Chie­sa, Galileo docet , sia prudente davanti alle novità della scien­za: «Sulle cellule staminali, la genetica, i problemi della ricer­ca scientifica in questi anni, qualche volta ho l’impressio­ne che siano condannati con gli stessi preconcetti che si ave­vano allora con la teoria coper­nicana », butta lì il vescovo Ser­gio Pagano, prefetto dell’Archi­vio Segreto vaticano, mentre presenta la nuova edizione de I documenti vaticani del pro­cesso di Galileo Galilei (1611-1741) , da lui curata.
Questione di atteggiamen­to, precisa poi lo studioso. Non è in questione la dottrina della Chiesa sui temi bioetici e comunque l’invito alla «pru­denza » e all’«umiltà», per evi­tare gli stessi errori di allora, vale pure per la scienza: «Il ca­so Galileo insegna alla scienza a non presumere di far da mae­stra alla Chiesa in materia di fe­de e di Sacra Scrittura e inse­gna contemporaneamente alla Chiesa ad accostarsi ai proble­mi scientifici — fossero anche quelli legati alla più moderna ricerca sulle staminali — per esempio, con molta umiltà e circospezione».
Del resto il processo nacque da una serie di malintesi. ag­giunge monsignor Pagano. «Con il Dialogo sui massimi si­stemi , Galileo sembrò voler in­segnare ai teologi come inter­pretare la Bibbia, al Papa come fare il Papa». Senza contare che «Galileo non conosceva la Curia ed anche gli scienziati moderni non conoscono la Curia: Roma ha i suoi tempi...». E così il processo suggerisce una morale valida per tutti: «Bisogna accostarsi alla Sacre Scritture e alla scienza con molta prudenza e umiltà».
Per la Chiesa, certo, fu una «pagina dolorosa» che il pre­fetto dell’Archivio Segreto, do­po aver firmato il volume del 1984, ricostruisce in una «edi­zione completa e fidata»: lette­re, atti processuali e testi vari sono stati rivisti parola per pa­rola; nuovi strumenti hanno permesso di poter leggere e trascrivere con precisione filo­logica documenti deteriorati come la difesa autografa di Ga­lileo; e un’ampia introduzio­ne, indici e note completano un’opera decisiva per gli studi galileiani.
D’altra parte, l’Archivio Se­greto vaticano è un tesoro, per gli storici. E tra «cinque-sei an­ni », annuncia il prefetto, saran­no resi pubblici documenti dai quali emergerà «una sorta di monumento» a Papa Pio XII «per la carità incredibile» con la quale «ha aiutato gli ebrei» e «tutti coloro che gli si rivol­gevano ». Papa Pacelli, accusa­to di silenzio e inerzia davanti alla Shoah, «arrivò a correre dei rischi personali molto alti per salvare gli ebrei», ripete monsignor Pagano. L’Archivio Segreto sta facendo l’inventa­rio di una quantità di docu­menti, «circa 700 scatole», te­sti che saranno riuniti in un cd e contengono prove degli aiuti disposti da Pio XII alla popola­zione colpita dalla guerra: «Una carità di cui abbiamo le cifre, il resoconto completo di quanti soldi la Chiesa impiegò fino al 1947. Per gli ebrei ha fatto tantissimo. Ci saranno sorprese».


Corriere della Sera 3.7.09
Il genetista cattolico Dallapiccola:
«Sull’embrione nessun oscurantismo»
di Margherita de Bac


ROMA — «Lavoro in ospedali religiosi. Nessuno ha mai condizionato le mie ricerche. Monsignor Pagano, che non conosco, è molto pessimista.

Non siamo nel Medioevo. E non si deve scambiare per oscurantismo l’atteggiamento di prudenza che chi pratica la scienza dovrebbe sempre mantenere nei riguardi dell’embrione». Bruno Dallapiccola, fresco presidente riconfermato alla guida dell’associazione cattolica Scienza & Vita e insignito ieri di un riconoscimento speciale per la sua attività scientifica al premio Ischia, sta dalla parte della Chiesa di cui afferma di conoscere bene il pensiero dal 2005, anno in cui il genetista scese in campo per il referendum sulla fecondazione artificiale.
Come chiamerebbe, se non oscurantismo, la chiusura del Vaticano su temi come diagnosi preimpianto e cellule staminali?
«La posizione della Chiesa sta diventando vincente. La ricerca sulle embrionarie continua a non produrre risultati tanto più che negli ultimi anni si è scoperta la potenzialità di cellule adulte prese dalla placenta e dal cordone ombelicale. Insomma, persistono luoghi comuni senza fondamento scientifico».
E lo chiama luogo comune ritenere che la diagnosi preimpianto sull’embrione possa evitare a tante coppie di generare figli con malattie genetiche gravissime?
«La percentuale di successo di questa tecnica è ridicola, il 2,6%: su 100 embrioni analizzati nascono 2,6 bambini sani. Per non contare il rischio di difetti congeniti, che aumenta di 20, 30 volte, e di errori diagnostici legati all’esame del cromosoma, pari al 30%».
Dunque secondo lei non c’è bisogno di scomodare Galileo?
«Assolutamente no. Se il principio di precauzione viene applicato in modo sproporzionato agli Ogm dove il rischio è minimo, non vedo perché non dovremmo rispettarlo quando c’è di mezzo un embrione ».

Repubblica 3.7.09
La saggezza e la politica
Quella frattura tra l’antico e il moderno
di Pierre Hodot


Massime che dovevano spiegare agli uomini la distanza che li separa dagli dei
L´uomo inserito perfettamente nella vita quotidiana e tuttavia anche immerso nel cosmo
Il nostro presente visto alla luce della tradizione della polis greca dove l´azione pubblica era importante quanto la riflessione

Viviamo in una civiltà in cui l´ordine della scienza è del tutto autonomo, del tutto indipendente dai valori etici ed esistenziali. Ed è proprio questo il problema, se non il dramma della nostra epoca. Come potrà il mondo moderno ritrovare una saggezza, e cioè una forma di sapere, di coscienza, che non verta solo sugli oggetti del conoscere, ma sulla vita stessa intesa nel suo vissuto quotidiano, sul modo di vivere e di esistere?
Questa separazione tra scienza e saggezza non esisteva nell´antichità greco-latina. I termini sophos e sophia, che traduciamo rispettivamente con "saggio" e "saggezza", quando fanno la loro precoce comparsa nella letteratura poetica o filosofica della Grecia antica, designano tanto l´abilità tecnica quanto l´eccellenza nell´arte musicale o poetica, e alludono a una competenza che è, al tempo stesso, il risultato dell´educazione impartita da un maestro, il frutto di una lunga esperienza, e il dono ricevuto grazie a un´ispirazione divina. È ai consigli di Atena che il carpentiere deve la sua sophia, l´abilità e il sapere nell´arte del costruire (Iliade XV, v. 411), ed è grazie alle Muse che il poeta sa cosa e come deve cantare (Esiodo, Teogonia, vv. 35-115). Troviamo qui quello che sarà un tratto costante della dottrina antica della saggezza: essa è anzitutto appannaggio degli dèi, il segno stesso della distanza che separa gli dèi dagli uomini.
I termini sophos e sophia si applicano anche alla competenza politica. Così è, in particolare, quando gli antichi parlano dei Sette Sapienti, figure storiche del VII e VI secolo a. C. divenute presto leggendarie, che possiedono a un tempo la competenza tecnica e quella politica. Sono legislatori ed educatori, come Solone. Le massime attribuite alla loro saggezza erano incise vicino al tempio di Delfi su una stele fatta incidere, con ogni probabilità nel III secolo, dal discepolo di Aristotele Clearco. Tra queste massime figurano formule celebri: «Conosci te stesso», «Nulla di troppo», «Riconosci il momento favorevole», «La misura è la cosa migliore», «L´esercizio è tutto».
Le massime delfiche erano destinate, tra l´altro, a rendere gli uomini consapevoli della distanza che li separa dagli dèi e dell´inferiorità del loro sapere, dunque della loro saggezza. La massima saggezza dell´uomo consiste nel riconoscimento dei propri limiti. O, più precisamente, come dirà Socrate citando proprio un oracolo di Delfi: «Il più sapiente tra voi (sophotatos) è colui che, come Socrate, si sia reso conto che, in quanto a sapienza (sophia) non val nulla» (Platone, Apologia di Socrate, 23b).
Con il IV secolo, per l´esattezza con Socrate e Platone, e con la riflessione sull´uso del termine philosophia (amore per la saggezza), si manifesta una svolta decisiva nella rappresentazione che ci si fa del saggio. Si diventa infatti consapevoli del carattere sovrumano della saggezza, stato trascendente e divino, rispetto al quale l´uomo non può che riconoscere di essere separato da una distanza immensa. Allo stesso tempo, la saggezza si identifica sempre più con l´episteme, ossia con un sapere certo e rigoroso, che non è mai concepito, del resto, come il nostro sapere scientifico moderno, perché coincide sempre con un saper fare, un saper vivere, insomma un certo modo di vivere. Dopo Platone, infatti, i Greci diventano profondamente consapevoli del fatto che non esiste vero sapere che non sia un sapere di tutta l´anima, che trasformi dunque la totalità dell´essere di colui che lo esercita. (...)
Contrariamente a un´opinione assai diffusa e tenace, il saggio antico non rinuncia all´azione politica. In nessuna scuola filosofica dell´antichità, infatti, il saggio abbandona il desiderio e la speranza di esercitare un´azione sugli altri uomini. E se la portata che egli vuol conferire alla propria azione varia a seconda delle scuole, il fine è sempre lo stesso: convertire, liberare, salvare gli uomini. Epicuro si sforza di farlo creando delle piccole comunità ferventi, in cui regna una serena amicizia. Platonici, aristotelici e stoici, da parte loro, non esitano a cercare di convertire intere città, agendo sulle costituzioni o sul re. Inoltre, diciamolo di sfuggita, in tutte le scuole si trovano descrizioni del re ideale più o meno ispirate al modello del saggio ideale. Quanto ai cinici, essi cercano di agire attraverso l´esempio impressionante del loro genere di vita.
Sarebbe comunque un errore pensare che la figura del saggio, descritta e imitata dal filosofo, autorizzi la fuga e l´evasione lontano dalla realtà quotidiana e dalle lotte della vita sociale e politica. Innanzitutto, la figura del saggio invita il filosofo all´azione, non solo interiore ma esteriore: agire secondo giustizia al servizio della comunità umana, dice Marco Aurelio. Ma soprattutto, la figura del saggio sembra in un certo senso ineluttabile. Essa è l´espressione necessaria della tensione, della polarità, della dualità inerente alla condizione umana. Da un lato, infatti, per sopportare la propria condizione, l´uomo ha bisogno di inserirsi nel tessuto dell´organizzazione sociale e politica, e nel mondo rassicurante, familiare e comodo del quotidiano. Questa sfera del quotidiano, però, non lo protegge interamente: egli si confronta inevitabilmente con ciò che si potrebbe chiamare l´indicibile, l´enigma terrificante del suo esserci, qui e ora, condannato a morte, nell´immensità del cosmo: diventare cosciente di sé e dell´esistenza del mondo è una rivelazione che rompe la sicurezza dell´abitudine e della quotidianità. L´uomo quotidiano cerca di eludere quest´esperienza dell´indicibile, che gli sembra vuota, assurda o terrificante. Certi uomini osano affrontarla: per loro, al contrario, è la vita quotidiana a sembrare vuota e anormale. La figura del saggio risponde dunque a un bisogno indispensabile: quello di unificare la vita interiore dell´uomo. Il saggio sarebbe così l´uomo capace di vivere su entrambi i piani: perfettamente inserito nella vita quotidiana, come Pirrone, e tuttavia immerso nel cosmo; votato al servizio degli uomini, eppure perfettamente libero nella vita interiore; consapevole eppure sereno; sempre memore di ciò che è essenziale; e, infine e soprattutto, fedele fino all´eroismo alla purezza della coscienza morale, senza la quale la vita non meriterebbe più di essere vissuta. Questo è quanto il filosofo deve cercare di realizzare.
(Traduzione |di Barbara Carnevali)

il Riformista 3.7.09
Sergio Zavoli. dopo il caso Jackson
La scorciatoia dei farmaci e la ricerca sulla sofferenza
Il dovere di combattere il dolore
intervista di Alberto Alfredo Tristano



Senatore Zavoli, la vicenda di Michael Jackson ripropone una delle grandi paure che da sempre accompagnano e affliggono l'uomo: il dolore. Dolore a cui si aggiunge altro dolore, "la pena in più", come nei casi da lei affrontati nel suo libro "Il dolore inutile". Dolore che - fu così per Jackson - diventa una prigione affrontata con massicce dosi di farmaci. Secondo lei, che tipo di rapporto la società contemporanea ha maturato e sta maturando con il dolore? Che cosa significa, oggi, il dolore?
Il rapporto dell'uomo con il dolore - rispetto ai tempi in cui, con la comparsa degli analgesici, si riuscì sebbene in piccola parte a lenirlo - è grandemente mutato da quando fu possibile prescrivere i derivati sintetici della morfina e, in generale, degli oppiacei. Un impiego più diffuso e meno reticente di quei farmaci veniva reclamato soprattutto dai malati oncologici, specie se terminali, le cui sofferenze trovavano solo modesti sollievi e brevi tregue.
Fu allora che ebbe inizio una campagna (disertata da un gran numero di obiettori) per la liberalizzazione dei farmaci "proibiti", soggetti a una serie di autorizzazioni che si trascinavano concessioni rare e laboriose. Oggi, approdato nelle aule parlamentari, il problema ha acquistato una nuova valenza, l'ostinata ma ragionevole richiesta di una legge finalmente riparatrice sta trovando sbocchi che lasciano ben sperare nella soluzione radicale del dilemma. Anche la Chiesa, con una lettura inequivoca della grave questione, sta dedicandole un significato nuovo sotto il profilo etico e terapeutico, riservando un ampio spazio a un atteggiamento morale e teologico compatibile con le nuove frontiere dell'umanesimo e della scienza, delle tecnologie e della deontologia, della ricerca e della sperimentazione.
Mancato soccorso. «Il male, di per sé, ha già il suo costo da pagare. Il resto è stato spesso ...
segue dalla prima pagina
Quanto alla sua domanda, la prima risposta, espressa in forma di alta poesia tragica, l'ho trovata in Eschilo: «Sapere è soffrire, e soffrire produce sapere». Nell'"Agamennone" il coro ribadisce: «Zeus ha aperto agli umani il sapere avendo stabilito la legge: il conoscere è attraverso il patire». Un cristiano dirà che se la vita umana è un disegno di Dio, e la redenzione dell'umanità dal peccato si realizza attraverso Gesù crocifisso, per ciò stesso il dolore assume un senso cruciale. Nel Medioevo, infatti, si è a lungo creduto che vi fosse un'intima relazione tra malattia, sofferenza e peccato. Il doverlo scontare nel corso di questa vita, o in un'altra, giustificava il soffrire. C'è, invece, chi crede da sempre che l'esperienza del dolore sia priva di un vero significato. Connaturata com'è alla stessa essenza della vita, e non potendo sottrarla a questa indissolubilità, la si potrà affrontare e combattere, governare e ridurre. L'arcivescovo di Parigi, cardinale Jean-Marie Villot, dilaniato dai dolori di un cancro in fase terminale, in tempi ancora di remore e divieti pronunciò queste parole: «Sappiamo dire belle frasi sulla sofferenza. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di non parlarne, se non per conoscenza diretta: noi ignoriamo ciò che essa rappresenta fino a quando, come è successo a me, non ne piangiamo».
Esiste il rischio che la paura generalizzata del dolore si trasformi in una sempre più diffusa dipendenza dall'antidolore?
A prima vista, sarebbe come dire che il potere smodato dell'automobile, essendo divenuto pressoché incontenibile, va restituito a quello meno ossessivo e inquietante della bicicletta. Se invece lei intende un processo che postula la negazione del dolore non come una conquista della razionalità, ma una sconfitta della morale, allora la questione prende una forma, per dir così, ideologica, che lo lascia alla sua dimensione più sfuggente e impropria. Senza dire delle strutture mentali e linguistiche che hanno eletto il dolore al centro del dolorismo, la sua più vistosa contraddizione.
In America, e anche nel nostro Paese, si diffonde tra i ragazzi l'assunzione di un potente antidolorifico: il Vicodin, quello usato dal celebre personaggio tv del dottor House per alleviare i dolori alla gamba destra. Il Vicodin è usato come una droga, ha effetti potenti e crea dipendenza. Come legge questo fenomeno?
La ricerca da parte dei giovani più deboli - inclini a una immaginazione che li riscatti dall'abituale, mediocre, frustrante consumo della loro realtà esistenziale - è un fenomeno di cui, in larga misura, si è resa responsabile la comunicazione, qualunque forma abbia preso il rappresentare, senza riuscire a spiegarlo, il mondo. La tv, per giunta, creando l'effimera dipendenza non solo concettuale del dover apparire per poter esistere, genera l'ossessione di un'identità altrimenti irraggiungibile; e che essa sia raggiunta artificialmente, cioè al di là delle forze di cui si dispone, è uno degli scenari nei quali molti giovani interpretano la loro vita. Fittizia, ma la sola di cui si sentono capaci.
Rispetto al farmaco, si sta diffondendo un uso "edonistico", specie nei soggetti meno consapevoli?
Il farmaco è la scorciatoia di una liberazione che, per autenticarsi, ha bisogno di una clamorosa finzione; i più deboli, persuasi di dover convivere con la parte più fragile di sé stessi, finiscono per amare la loro doppiezza. Ciò promana da un dolore spesso sconosciuto, quasi sempre devastante, a volte malinteso, ingrandito, che li imprigiona in una sola possibilità di vivere. Di qui la paradossale resistenza di fronte alla possibilità di liberarsene. Il pericolo che il dolore non sia tanto la malattia, quanto la sua più appagante rappresentazione, può diventare un alibi per lasciare il paradosso alle sue sciagurate derive.
Lei è presidente onorario della fondazione Isal, Istituto di ricerca e formazione in scienze algologiche, che ha lanciato l'iniziativa "Cento città contro il dolore". Che cosa significa simbolicamente questa iniziativa?
Vuole istituire altrettanti presidi - come un tempo le torri da cui annunciare alle comunità l'arrivo delle pandemie portate dai velieri - per ricreare il valore condiviso del vivere, non solo dell'esistere, insieme: protagonisti e testimoni di una realtà indivisibile, un modo di esprimere ciò che "sappiamo e possiamo" in funzione di ciascuno e di tutti. Affrontando la dimensione più diffusa e diversificata del dolore, cioè di tutti i dolori di un corpo non di rado lasciato a sé, nell'abbandono a una sorta di ineluttabilità fisica, psicologica, persino morale, in nome della cronicità, dei condizionamenti culturali, delle complicità psichiche, delle risorse interiori, dei lasciti antropologici. E, va da sé, delle frontiere medico-scientifiche.
La medicina è in ritardo? E la legge? E la morale, laica e religiosa?
È un ritardo pagato da moltitudini di persone, compresi i bambini.
C'è un Paese che ha maturato una consapevolezza e un metodo esemplare, che possa fungere da modello? E quale importanza assumono i valori dell'interiorità nell'affrontarlo?
Quello cui sento di pensare non è propriamente un Paese, è una tribù dove lo sciamano ha detto che se si vuole combattere il dolore bisogna sapere, anzitutto, di che cosa si tratta. Da quel momento tutti interrogano lo sciamano, che però non sa rispondere; allora, sentendosi in balia della loro ignoranza, e dopo aver cacciato lo sciamano, cominciano a battere sui tamburi la richiesta che qualcuno venga a spiegare loro cos'è il dolore. Il dolore, non la malattia. Quella la conoscono, la chiamano addirittura per nome. Ma il dolore non è la malattia: è il di più della sofferenza, è il pianto, la disperazione, la paura di morire. In realtà, la prima spiegazione su cui etnie e culture si sono esercitate è stata la più misterica e, al tempo stesso, la più empirica: il dolore era considerato l'avviso di una colpa da espiare, un prezzo da poter esigere in cambio della vita stessa. Saranno le grandi religioni a volerne far proprio il senso e a volgerne il significato secondo le proprie letture ontologiche. Il cristianesimo, fra tutte, è quella che incarnando il suo mistero nella realtà di Cristo, ed essendo per ciò stesso una religione rivelata, si confronta direttamente con la natura del dolore; lo stesso che il Figlio viene a dividere con l'uomo in nome del Padre. La Chiesa (la storia medesima del suo martirio originario e storico) si è fino a ieri riconosciuta nel dolore concependolo alla stregua di uno strumento oblativo e salvifico, cioè dandogli un valore redentivo, lo stesso indicato da Cristo, in remissione del peccato. Nella sua versione più drastica e popolare il provare dolore, e il viverlo come un'espiazione, cioè accettandolo sull'esempio di Gesù - nonostante la domanda del Figlio al Padre, in punto di morte, sul perché di quell'abbandono e di quel silenzio - si è offerto come coscienza e mezzo salvifico della sofferenza; tenendo in vita il dolorismo, cioè la sua più palese contraddizione.
La dottrina del dolore, cui santi e martiri hanno offerto straordinarie testimonianze, ha pervaso via via una sorta di obbedienza che respingeva, di fronte al dolore, il ricorso non solo alle terapie miracolistiche, ma anche a quelle, artificiali, che per lenire il dolore modificano le strutture fisiologiche della sofferenza, instaurando uno stato di benessere estorto con la perdita, o la modificazione, dello stato di coscienza. A ciò è rimasta legata una scrupolosa sudditanza anche da parte dell'istituzione sanitaria, che opponeva una serie di ostacoli a chi avesse voluto far ricorso agli oppiacei. Finché, con il Vaticano II, il magistero produsse un documento in cui si legge: «La natura umana è predisposta ad accettare il dolore come stato, appunto, di natura, ma rifiuta come insensato il dolore senza scopo, il cosiddetto dolore gratuito, o dolore innocente. Ogni azione che generi dolore e morte da parte dell'uomo, o di un dio di sua invenzione, è un'azione gratuita e quindi insensata». Si era aperta, o spalancata, un'altra porta, gravida di quel peso, storicamente e moralmente indebito, che i "magisteri" si erano trascinati fino alla nuova alleanza tra fides et ratio. Non resta se non compiacersi che scienza e coscienza abbiano cercato insieme una via d'uscita segnata da una condivisione semplicemente, laicamente umana. Oggi, d'altronde, non si lotta soltanto contro ciò che del dolore è più grave e simbolico: oggi si chiama dolore ogni pena in più del malato, ogni pretesa di aggiungergli non solo la sofferenza, ma anche la sua imperscrivibile accettazione. Il male, di per sé, ha già il suo costo da pagare. Il resto è stato spesso arbitrio, pigrizia, bigottismo, "mancato soccorso". Perché la stessa ragione, talvolta, non è ragionevole.

il Riformista 3.7.09
Con Pina Bausch è morta anche un'idea di cultura
Diceva che a lei non interessava il movimento del corpo dei suoi danzatori ma quello che muoveva da dentro le loro anime. La cultura dovrebbe essere questo, il movimento dello spirito di una società, non quello di un corposo budget dalle tasche di un'amministrazione politica a un'altra
di Francesco Bonami


Caro Bob - Due giorni fa è morta Pina Bausch. La conosci? Te la ricordi? È stata insieme a Martha Graham, Merce Cunningham e George Balanchine una delle più grandi figure della danza contemporanea. Aveva solo sessantotto anni. Se l'è portata via in pochi giorni un tumore.
Ti confesso che io di danza non so assolutamente nulla. Le rare volte che sono andato a vedere qualche balletto mi sono anche annoiato molto. Allora tu mi chiederai perché ti parlo di Pina Bausch. Te ne parlo perché pur nella mia profonda ignoranza di questa disciplina, la danza, così specialistica, il nome di Pina Baush e quelli che ti ho fatto sopra sono familiari. Eppure non si può dire che siano popolari. Non competono certo per avere le folle che ascoltano Andrea Bocelli. Ma nel mio bagaglio di memoria culturale occupano tuttavia un posto chiaro e preciso.
Come mai? Com'è possibile?
Quando ho chiesto a mia figlia se conosceva Pina Bausch, mi ha guardato con due grandi punti interrogativi negli occhi. Chi? Ha quasi venti anni e la danza le piace. Come lei sicuramente tantissimi altri giovani della sua generazione non hanno mai sentito parlare di questa coreografa. Io invece, uomo di mezza età cresciuto ai tempi del voto politico e dell'ignoranza al potere degli anni Settanta, sono rimasto addirittura dispiaciuto della sua scomparsa quasi fosse un amica.
Il paradosso è questo, in un'epoca dove la politica più estrema sfociata addirittura nel terrorismo aveva creato un deserto sociale, la cultura in qualche modo - dalla letteratura, al cinema, al teatro e appunto alla danza - faceva parte del tessuto quotidiano.
La sinistra, pur in modo ideologico, prepotente e fazioso teneva in considerazione l'offerta culturale, la considerava essenziale alla costruzione di una nuova società. Pina Bausch, insieme a tante altre, era una delle figure ricorrenti del panorama culturale di quegli anni altrimenti bui e pesanti. L'idea che la cultura dovesse essere più spettacolare che spettacolo non era ancora venuta di moda. I contenuti, anche in modo esagerato e opprimente, venivano prima della "comunicazione" o della rassegna stampa. Pur ignoranti, noi giovani sentivamo la necessità e l'obbligo di partecipare a una certa vita intellettuale e culturale. Se a Firenze arrivava Pina Bausch o addirittura Harold Pinter si faceva in modo di andarli a vedere. Lo stesso per il cinema, la musica, il teatro e via di seguito. Si doveva almeno far finta di essere "impegnati".
La sinistra, che in quegli anni dettava informalmente ma rigidamente le regole di quello che si poteva o non si doveva leggere, vedere e ascoltare, aveva la coscienza che una società senza vera cultura era una società destinata a morire. Il grande crimine della sinistra è stato purtroppo quello di non avere capito che la cultura è anche diversità e contraddizione mai omologazione a criteri prestabiliti. Così, focalizzandosi soltanto su ciò che veniva considerato "di sinistra", l'intellighentia di quegli anni ha finito per dimenticare la molteplicità delle idee e delle vedute, facendo disamorare chi era meno ideologico, meno radicale ed estremo. Un disamoramento che ha portato alla deriva culturale nella quale viviamo oggi. Un'epoca in cui l'offerta culturale è considerata soltanto uno dei tanti strumenti di comunicazione e pubbliche relazioni, dove è il numero degli spettatori o degli ascoltatori a decidere la qualità di un'opera d'arte e la sua efficacia come strumento di promozione. Oggi la cultura non è più un modo per dare nuovi messaggi e contenuti, per stimolare l'immaginazione e portare idee nuove, ma si è ridotta ad essere uno dei tanti veicoli pubblicitari per obbiettivi politici o di promozione commerciale.
Anche la sinistra, o quello che rimane di essa, ha rinnegato l'idea della cultura come strumento per la trasformazione civile di una società, come occasione per riflettere sul nostro mondo utilizzandola più o meno come la utilizzano gli avversari. I compagni che saccentemente facevano finta di divertirsi agli spettacoli di Pina Bausch hanno finito per auto-annoiarsi. Anche loro oggi si rifugiano dentro l'eventocrazia e le mostre block buster.
Pina Bausch diceva che a lei non interessava il movimento del corpo dei suoi danzatori ma quello che muoveva da dentro le loro anime. La cultura in una società sana dovrebbe essere questo, il movimento del suo spirito, non quello di un corposo budget dalle tasche di un'amministrazione politica a un'altra.

La Stampa 2.7.09
Nichi Vendola: "Meglio azzerare la giunta che vivere nel sospetto"
Intervista di Grazia Longo


«La Sanità è sempre stato un settore molto esposto al rischio corruzione»
«Mentre l'inchiesta va avanti non voglio che i miei elettori si sentano mal rappresentati»
«Nessun contrasto con gli assessori: erano (raccordo a fare un passo indietro»
«Stiamo già lavorando alla nuova giunta. Ho preso contatti con Di Pietro e l'Udc»

Cresciuto a pane, chiesa e comunismo, il governatore pugliese Nichi Vendola, 51 anni, si chiama così per effetto del primo compromesso storico della sua vita. Quello tra il patrono di Bari, San Nicola, e l'allora capo dell'Urss Nikita Kruscev.
Parla della «questione morale» che lo ha spinto ad azzerare la sua giunta e gli si illuminano gli occhi. Intanto non smette un attimo di sfiorare la fede che porta al pollice.
«Me l'ha regalata un pescatore di Mola di Bari il giorno in cui ho vinto le elezioni, nell'aprile 2005. Da allora non l'ho più tolta: rappresenta il mio matrimonio con il popoio. Matrimonio in cui la lealtà, la trasparenza e l'onestà sono pilastri fondanti».
Eppure, al momento il suo ex vice presidente Sandro Frisullo, non risulta raggiunto da un awiso di garanzia. Le intercettazioni telefoniche tra lui e l'imprenditore Gianpaolo Tarantini, che ha presentato al premier Berlusconi l'escort Patrizia D'Addario, alludono a rapporti di amicizia e assidue frequentazioni. Ma non è ancora chiaro a che titolo. Perché, dunque, lei ha deciso di fare piazza pulita? «Appartengo ad una generazione che ha iniziato a fare politica insieme ad Enrico Berlinguer. Non potrò mai dimenticare i suoi due principali insegnamenti: la lotta allo stalinismo e la rivendicazione della questione morale. "Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto, dovunque si annidi" scriveva Berlinguer nel '79».
Si riferisce alla lettera che all'epoca venne pubblicata sulla rivista Rinascita?
«Certo, Berlinguer aveva chiaro il concetto che il compito della politica è di essere al servizio della gente in modo eticamente ineccepibile». Anche a costo di litigare all'interno dello stesso schieramento politico?
«Se è necessario sì. Tra me e i miei 14 assessori, comunque, non ci sono stati contrasti. Hanno tutti convenuto con me sull'importanza di superare lo scandalo che ha sconvolto la Sanità pugliese e le coscienze di molti, facendo un passo indietro».
Il procuratore capo Emilio Marzano ha dichiarato che pur di ottenere appalti per le protesi ortopediche prodotte dalla sua azienda, Gianpaolo Tarantini, non si poneva problemi di colore politico. Bussava alle porte del centrodestra, come a quelle del centrosinistra.
«Appunto. A parte la vicenda delle imprese notturne del nostro presidente del Consiglio, salite alla ribalta delle cronache grazie alle videoregistrazioni dell'escort barese, il vero problema, quello che può avere ripercussioni giudiziarie, è la corruzione, la turbativa d'asta. La questione morale, insomma. Che viene prima di tutto, anche dell'attività della magistratura».
In che senso?
«Già nei mesi scorsi ritirai la delega all'allora assessore alla Sanità Alberto Tedesco. E ci tengo a sottolineare che anche in quel caso Tedesco non era ancora stato indagato: ricevette l'avviso di garanzia due mesi dopo che venne esautorato dal suo incarico istituzionale. I giudici fanno il loro lavoro, io il mio».
11 paladino della moralità per restituire ai cittadini fiducia nelle istituzioni e per garantire la tenuta della democrazia?
«Non può essere altrimenti».
Per questo lei ha avviato un'inchiesta interna, per verificare se ci sono stati illeciti nell'attribuzione degli appalti sanitari?
«Certo. Il fascicolo è già sul tavolo del pm Desiree Digeronimo. E il 6 luglio verrò interrogato come persona informata sui fatti».
I controlli sugli appalti sanitari truccati si stanno allargando anche ad altre province: Brindisi, Lecce, Taranto.
«La Sanità è un settore molto esposto al rischio di corruzione. Per questo non voglio che i pugliesi si sentano mal rappresentati: azzerata la giunta, stiamo già lavorando per costruirne una nuova».
Aprendo all'Italia dei valori e all'Udc?
«11 dialogo con i moderati è prezioso: sto partendo per Roma dove mi confronterò con i segretari nazionali e valuteremo l'esistenza di un percorso comune. Che, lo ribadisco, deve avere come base proprio la questione morale».
E i rapporti con il Pd e i dalemiani?
«Non abbiamo problemi, lo stesso Frisullo (molto vicino a D'Alema, ndr) era pronto a rassegnare le dimissioni. Sono io che ho preferito andare oltre. Ho convocato gli assessori e, dopo aver discusso di tutto il can can che si è scatenato ho detto "è come se fossimo su una scacchiera e io devo fare la mossa del cavallo. Vado avanti?". Loro hanno risposto di sÌ e cosÌ hanno rimesso le deleghe. Nelle epopee notturne di Berlusconi la questione morale ha raggiunto forme_pirote,cniche. Ma non è questo il punto prioritario».
Qual è allora?
«11 fatto che esistano filoni dell'inchiesta che lambiscono la mia giunta. Tenerla ancora in piedi era inammissibile. Il Paese necessita di una politica vera, onesta, non astratta. In attesa che l'inchiesta della procura porti i suoi risultati, io continuerò a battermi per una politica "pulita" e scevra da ogni minimo sospetto».

Repubblica 19.5.85
Il gay della Fgci
intervista a Nichi Vendola di Stefano Malatesta


ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".