sabato 27 maggio 2017

Il Fatto quotidiano, 27.5.2017
Ma omosessuali si nasce o si diventa?
Lo psichiatra. Il tema dell'identità è un caleidoscopio che pone molte domande, in parte sbagliate e in parte senza risposta

Di Vittorio Lingiardi
La nostra identità, il modo in cui la percepiamo e la rappresentiamo, è il risultato di un dialogo psicobiologico e culturale complesso e in buona parte ancora sconosciuto. Fantasie, comportamenti e desideri (sessuali e non) sono così personali da rendere piuttosto arduo il compito di creare categorie generali e sufficientemente esplicative. Questo non deve scoraggiare, dal punto di vista scientifico, quei tentativi di sistematizzazione che possono rivelarsi utili per orientarsi in un mondo in cui non ci sono mappe. E se ci sono, sono sicuramente più semplificate del territorio che pretendono di mappare. Iniziamo quindi a tracciare alcune distinzioni fondamentali, sapendo che quando ci sembreranno troppo rigide potremo renderle più flessibili e quando saranno troppo flessibili andranno meglio strutturate. UNA PRIMA importante distinzione è quella tra genere/ orientamento sessuale. Molti sovrappongono queste categorie, che sono invece distinte. Il genere è l'esperienza psicologica, culturale e inevitabilmente sociale delle categorie di maschile e femminile. Il sesso, invece, designa l'individuo dal punto di vista della sua anatomia e biologia sessuale. L'orientamento sessuale, dunque, riguarda il sesso della persona che ci attrae sul piano erotico e affettivo. Se il genere risponde alla domanda "chi sono?", l'orientamento risponde alla domanda "chi mi piace?". Al tempo stesso, però, una completa indipendenza tra genere e orientamento è un'opzione solo teorica. Come può, per esempio, una persona omosessuale non "mettere in discussione", prima di tutto nella propria esperienza, i dispositivi etero normativi che, assegnando compiti e ruoli, finiscono per costruire ciò che comunemente viene considerato "uomo", "donna", "maschile", "femminile"? Il rapporto tra genere e orientamento è dunque assai articolato: due dimensioni che mai coincidono ma si costruiscono reciprocamente, plasmando ed essendo plasmate sia dalla biologia sia dall'ambiente. Un altro chiarimento riguarda l'antico dualismo natura/cultura. Molti chiedono e si chiedono: omosessuali si nasce o si diventa? L'orientamento sessuale è figlio dell'educazione e delle interazioni sociali, il risultato di peculiari relazioni familiari, conseguenza di un'esperienza traumatica, oppure è "soltanto" una faccenda di geni e di ormoni? Domanda inevitabile, ma sbagliata. Perché determinata da due pregiudizi. Che tutti nasciamo come tabulae rasae , pronte a essere plasmate dall'esterno: educazione, ambiente, esperienze. Oppure che nasciamo già programmati per specifici gusti, desideri, comportamenti. L'errore è nel pensare che a questa domanda si possa rispondere in modo binario e univoco. Invece la vita è fatta di sfumature (e speriamo non tutte di grigio). Il dibattito che contrappone il ruolo della natura a quello della cultura dovrebbe essere lasciato cadere. Abbiamo geni che codificano alcune nostre attitudini, ma lo sviluppo del loro potenziale potrebbe richiedere determinate condizioni esterne. Nel caso dell'orientamento sessuale, anche qualora fosse dimostrata una sua determinante genetica, saremmo probabilmente di fronte a una regolazione multigenica e comunque mediata da più fattori. Se paragonata a una tabula rasa la nostra eredità evolutiva è molto ricca, ma assai povera se paragonata alla complessità storica e psicologica di un individuo realizzato. IL TERZO GRANDE tema è maschile/femminile. Dobbiamo pensare al genere come, direbbe Judith Butler, a una specie di "imitazione di cui non c'è l'originale". Un recente numero della rivista National Geographic raccontava e illustrava le molte facce dell'identità e dei ruoli di genere, dagli stereotipi più prepotenti alle identità, cosiddette atipiche, che si manifestano fin dalla prima infanzia. E anche qui è importante distinguere tra bambini o bambine che presentano caratteristiche outsider rispetto al genere (quelli che una volta venivano definiti "femminucce" e "maschiacci ") e quelli che presentano una vera e propria "disforia di genere", cioè una "marcata incongruenza" tra il genere esperito/espresso da un individuo e il genere assegnato alla nascita, cui si associa una sofferenza clinicamente significativa. La "disforia di genere" ha di solito, ma non sempre, un inizio precoce, attorno ai 2-5 anni, ma solo in alcuni casi (10%-30%) persiste dopo la pubertà. Famiglie, insegnanti, medici vanno aiutati a riconoscere, conoscere e comprendere il fenomeno, senz'altro multifattoriale, della varianza e della disforia di genere. IN CONCLUSIONE, il tema dell'identità (sessuale e di genere) è un variegato caleidoscopio che pone molte domande a cui non sempre sappiamo rispondere. A cui dobbiamo provare a rispondere in modo scientificamente informato, libero da pregiudizi, capace di cogliere la molteplicità delle esperienze individuali. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Fatto quotidiano, 23.5.2017
Salone del Libro: per Laterza il successo legato all'affetto scattato in tutta Italia
Intervista a Giuseppe Laterza

Di Stefano Caselli
Torino
"Torino ha beneficiato dell'effetto Juventus". Giuseppe Laterza, presidente della storica casa editrice barese e romana, usa una metafora calcistica per commentare il successo del Salone del Libro. Ma il fatto che i bianconeri abbiano conquistato il sesto scudetto consecutivo nel giorno di maggior affluenza al Lingotto non c'entra. Laterza, che significa? Che il tema "derby " è stato quello di queste giornate. Torino è stata un successo perché l'affetto per questo Salone è scattato in tutta Italia, non solo sotto la Mole. A Milano non se ne sono resi conto. Non basta essere la città sede della maggior parte dell'editoria per pretendere di azzerare una storia trentennale. Quella che era una posizione di forza – e che tale rimane – ha innescato l'effetto contrario, il tifo contro: l'effetto Juventus, la più forte e tifata ma anche la più detestata. Il campionato però non è che all'inizio... Torino esiste da 30 anni, ha avuto alti e bassi, negli ultimi anni più bassi che alti. Quest'anno ha realizzato una delle migliori edizioni di sempre grazie anche a un ottimo direttore come Nicola Lagioia. Credo che quello di Torino debba rimanere il grande Salone unico italiano. Ciò non toglie che ci possa essere spazio per forme nuove di promozione alla lettura. Penso ad esempio un Salone dell'innovazione editoriale, che tra internet, ebook e streaming sta cambiando davvero la fruizione dei libri. Invitare i migliori pensatori ed editori del mondo e chieder loro: "Che fate? Cosa sperimentate?". Sarebbe perfetto per Milano. Un certo grado di competizione tra città può essere una ricchezza, a patto che ci sia un coordinamento comune, non necessariamente una gestione unica. È necessaria un'intesa, un coordinamento. È quello che l'Aie, l'Associazione editori, non ha fatto? C'è stata una fuga in avanti, frutto di una mentalità sbagliata. Che a Milano è diffusa e speculare a quella romana: a Roma tutto è politica, a Milano la politica è sempre un male. L'Aie avrebbe dovuto trattare una presenza con il Salone, magari dopo averne denunciato le carenze, ma prima di prendere accordi con la Fiera di Milano. I torinesi sarebbero stati disponibili a dare all'Aie un ruolo molto più rilevante. Ma il problema fondamentale è un altro. Quale? La promozione della lettura. In questi anni l'Aie si è comportata come se fosse una sua esclusiva, ma così non è. Serve un'associazione tra editori e librai, magari sul modello tedesco. In Italia ci sono tre grandi aziende (Mondadori, Feltrinelli e Giunti) che sono contemporaneamente editori e librai con quote di mercato molto rilevanti. Non si può far finta che i nostri interessi non siano intrecciati. E non basta: gli operatori privati devono collaborare con quelli pubblici, con la scuola e il sistema delle biblioteche. Una collaborazione paritaria. Nel 2004 riuscii a convincere grandi e piccoli editori, da Mondadori a Voland, ad autotassarci per costituire in maniera paritaria con librai e bibliotecari un Forum del libro per la promozione della lettura. Ma il presidente dell'Aie Motta affossò il progetto. E Gianni Ferrari di Mondadori, che fino a quel momento lo aveva appoggiato, con un repentino voltafaccia lo abbandonò. Quello fu l'inizio di una politica sbagliata. Torino invece è stato un successo perché ha coinvolto nella progettazione e nella realizzazione librerie, biblioteche e scuole. "Tempo di Libri"è stata davvero un flop? Assolutamente no. Milano non è andata male, ma solo se non la si vede come alternativa al Salone di Torino. Se fosse stata percepita come un evento "in aggiunta" non sparleremmo di flop: 50 mila presenze per una prima edizione non sono affatto male, si è aperto un fronte nuovo che ha finito per rafforzare anche Torino. Dunque, che fare? Spero che avremo il buon senso di eleggere, il 28 giugno, un nuovo presidente che esca da una visione imperiale e rilanci una politica di alleanze. Anche perché gli eventi culturali sembrano una delle poche cose in salute… È vero, ma non è sufficiente. Basta dare un'occhiata alla classifica europea dei consumi culturali: il nostro Paese è sempre agli ultimi tre posti con Grecia, Portogallo e talvolta Spagna. Guarda caso le stesse posizioni di altre due classifiche: quelle degli investimenti in ricerca e istruzione e quelle di disoccupazione giovanile e potere d'acquisto. Ecco, dobbiamo imparare a leggere bene queste classifiche. In Svezia o in Olanda vanno più a teatro e al cinema perché sono più ricchi. Ma se sono più ricchi è anche grazie al fatto che vanno più a teatro e al cinema. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Manifesto, 23.5.2017
Di Michele Giorgio
Gerusalemme
«Abbiamo la rara opportunità di portare stabilità, sicurezza e pace in questa regione e sconfiggere il terrorismo creando un futuro d'armonia, prosperità e pace. Ma possiamo farlo solo collaborando, non c'è altra via». Un Trump messianico ha aperto ieri con queste parole la visita ufficiale in Israele, seconda tappa del suo viaggio inaugurale all'estero da presidente degli Stati Uniti. Una tappa che segna la discontinuità con la linea di Barack Obama – che aveva avuto rapporti non facili con Benyamin Netanyahu al quale comunque ha assicurato aiuti militari per quasi 40 miliardi – ma che difficilmente imprimerà, come spera la destra israeliana dall'ingresso di Trump alla Casa Bianca, una svolta netta alla politica Usa nei confronti delle colonie ebraiche, dello status di Gerusalemme e dei Territori palestinesi occupati. Netanyahu e i suoi ministri hanno ormai capito che i gesti simbolici dell'inquilino della Casa Bianca non andranno sempre a soddisfare le aspettative israeliane. Il fatto che Trump sia stato ieri il primo presidente americano in veste ufficiale a visitare il Muro del Pianto, il luogo più sacro dell'ebraismo, nella zona Est, occupata, di Gerusalemme, difficilmente darà il via libera al riconoscimento da parte degli Stati Uniti, di tutta la città, quale capitale di Israele. Nonostante le pressioni israeliane, Trump ha preferito visitare il Muro del Pianto senza essere accompagnato da Netanyahu. La tv israeliana Channel Two, riferiva ieri che funzionari statunitensi avrebbero respinto la richiesta di Netanyahu affermando che il Muro del Pianto «non fa parte del vostro territorio…è in Cisgiordania, questa è una visita privata del presidente e non è affar vostro». Un portavoce della Casa Bianca ha poi precisato che questi commenti «non riflettono la posizione statunitense e certamente non quella del presidente». Può darsi, in ogni caso il trasferimento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme (per ora) è congelato, con grande disappunto del governo Netanyahu e della destra al potere. È evidente che i rapporti avviati dalla nuova Amministrazione con il mondo arabo – in particolare l'Arabia saudita al quale nei prossimi anni gli Usa venderanno armi per centinaia di milioni di dollari – hanno indotto persino un presidente che non brilla per intelligenza e preparazione politica a farsi più cauto e vago sulla questione israelo-palestinese e a rinunciare ai toni battaglieri e filo-israeliani della campagna elettorale. Ieri sera mentre chiudevano questo numero del nostro giornale Trump e Netanyahu erano impegnati in colloqui nella residenza del premier israeliano. Al termine non si attendevano annunci clamorosi. «Vogliamo che Israele viva in pace. Insieme possiamo arrivare alla pace. Condividiamo una amicizia fondata sull'amore per la libertà e per i diritti umani», ha detto il presidente americano nel corso della conferenza stampa congiunta con Netanyahu. «Credo in un rinnovato sforzo per raggiungere la pace tra israeliani e palestinesi… La pace in Medio Oriente è uno degli accordi più duri da ottenere ma sento che ci arriveremo. Lo spero», ha aggiunto. Frasi senza spessore che rivelano l'inesistenza di un "piano di pace" di Trump di cui si parla da qualche tempo. Ciò che il tycoon consegnerà a Israele in questa prima visita da presidente non è Gerusalemme o il via libera ad una colonizzazione senza freni dei territori palestinesi. È la testa dell'Iran. Lo stesso regalo che ha fatto ai sauditi e agli altri regnanti del Golfo riuniti ad ascoltarlo domenica a Riyadh. Trump ha accusato Tehran e i suoi alleati (Siria e Hezbollah) di tutto e di più per la gioia di re Salman dell'Arabia saudita. Parole che sono suonate come una dichiarazione di guerra e alle quali non ha potuto non reagire il rieletto presidente iraniano Rohani. «Il ritrovo in Arabia Saudita è stato soltanto uno show senza valori pratici o politici di alcun tipo. Non si può risolvere il terrorismo dando soltanto il denaro del popolo a una superpotenza», ha commentato ieri Rohani alludendo agli accordi da miliardi di dollari firmati da Washignton e Riyadh. Oggi Trump andrà per qualche ora a Betlemme dove incontrerà il presidente dell'Anp Abu Mazen. I palestinesi lo accoglieranno con una "giornata di rabbia" contro la politica Usa e l'occupazione israeliana. Tutta la Cisgiordania e Gerusalemme est ieri hanno osservato una sciopero generale in solidarietà con i detenuti in sciopero della fame e contro l'arrivo del presidente americano.
Il Manifesto,23.5.2017
Socialisti spagnoli: La rivincita di Pedro Sanchez
Sánchez riapre la prospettiva a sinistra

Di Massimo Serafini e Marina Turi
Le primarie socialiste in Spagna sono state il trionfo di Pedro Sánchez. Sulla pagina facebook di Futboleros pero Indignados – tifosi di calcio, ma indignati – da domenica notte erano postate le dichiarazioni di Pablo Iglesias per Podemos e di Albert Rivera per Ciudadanos. Con gli auguri per le/i militanti del Psoe che hanno mandato un messaggio inequivocabile nella scelta del segretario del partito. E poi viene postato anche un messaggio del presidente del governo Mariano Rajoy che invece si complimenta con la squadra del Real Madrid per la vittoria nella Liga, per il titolo desiderato e meritato. Nessun accenno alle primarie del Psoe né al nuovo segretario. «Rajoy guarda sempre da un'altra parte e fa lo gnorri» posta un tifoso e arriva una pioggia di like. Pedro Sánchez ha superato Susana Díaz con oltre dieci punti di vantaggio e non è stato neanche disturbato dalla candidatura di Patxi López. Quindi il problema del Psoe forse non era Pedro Sánchez. Il messaggio che esce dalle urne socialiste è forte e chiaro: lo scontento diffuso verso questa Europa egoista e liberista non si incanala inevitabilmente solo in una destra ancora più feroce di quella che già sta governando la Ue, ma, se gliene viene data la possibilità, può essere conquistata ad un progetto che rilanci l'Europa dello stato sociale, della solidarietà e sostenibilità ambientale, in poche parole a lottare per costruire una alternativa di sinistra con un progetto opposto alle politiche di austerità imposte dalla finanza. "Il PSOE rivive, addio al PP" è il cartello che sintetizza quanto successo domenica in Spagna. E che strano sentire il neo eletto segretario e tutto il suo staff intonare l'Internazionale e alzare i pugni quando le prime note partono dalla folla assediata sotto la sede di calle Ferraz, a Madrid. Una straordinaria partecipazione ha deciso l'elezione a segretario di chi ha loro proposto di mettere fine al sostegno con cui il partito socialista sta permettendo al Pp, una banda travolta dalla corruzione, di mal governare la Spagna. Dalla parte opposta la linea di Susana Díaz, sostenuta dall'apparato e con l'appoggio della quasi totalità dei parlamentari spinti dai padri nobili – Gonzales, Zapatero e Rubalcaba – per continuare la rotta di governo di Rajoy. Il cuore di socialiste/i non poteva che stare con chi ha proposto non solo di cacciare Rajoy, ma anche di costruire una alternativa simile a quella realizzata in Portogallo e di farlo insieme a Podemos e a tutte le forze del cambiamento. Adesso lo sforzo sarà risolvere la crisi della sinistra spagnola dentro la crisi della socialdemocrazia europea, cercando di recuperare credibilità, di riconquistare più della metà dei voti e dei seggi persi alle ultime tornate elettorali, di declinare un progetto politico appetibile per l'elettorato più giovane. Proprio il giorno prima delle primarie socialiste Podemos, in sostegno della mozione di sfiducia contro Rajoy presentata al parlamento, ha occupato la piazza simbolo degli indignados del 15M, quegli indignati che buona parte del PSOE non ha mai davvero provato a capire. La vittoria di Sánchez rende ora più credibile e realizzabile la caduta di Rajoy, permette di delineare una prospettiva concreta per uscire dalla situazione di stallo in cui la Spagna sta affondando. Podemos ha già dichiarato la sua disponibilità a ritirare la propria mozione di sfiducia per appoggiarne una del Psoe, qualora il nuovo segretario decidesse di presentarla e riuscisse ad evitarne il boicottaggio interno. Ricostruire processi unitari fra i numerosi soggetti del cambiamento e in particolare fra il Psoe di Pedro Sánchez e Unidos Podemos è cosa complessa che non può limitarsi a una ripresa dei contatti fra i gruppi dirigenti, ma va costruita pezzo per pezzo nei processi sociali di ribellione alle politiche del governo Rajoy. Ora per Sánchez comincia la parte più difficile del percorso definito in questi mesi e chissà se il livore che lo circonda riuscirà a farlo diventare parte di una soluzione per il paese, immaginando anche la faida interna che si manifesterà nel congresso del partito a giugno. Certo le difficoltà sono amplificate dal relativo isolamento che questa esperienza spagnola vive. Oltre a Podemos e la ribellione sociale che lo ha generato, stenta a crescere nei vari partiti socialisti europei una riflessione critica, come quella che è cresciuta nel Psoe, sulla negatività di puntare a governare con la destra moderata. L'Unità già titolava che Sánchez è stato rieletto segretario come Renzi nel Pd. Non è passata una settimana dall'apologia di Macron, ovviamente il Renzi francese, che si sale sul carro di Sánchez. Solo che quest'ultimo vuol fare un governo di sinistra, mentre Matteo Renzi punta a governare l'Italia con il super nuovo Berlusconi.
Il Manifesto, 27.5.2017
Elezioni inglesi: Jeremy Corbyn sale nei sondaggi «La guerra al terrorismo non funziona», Corbyn infrange il tabù e sale nei sondaggi Gran Bretagna. Riparte la campagna elettorale dopo l'attentato di Manchester. La media di tutte le intenzioni di voto dà i laburisti in rapida crescita, 35% contro il 44% dei tories
Di Leonardo Clausi
Londra
A cinque giorni dallo strazio terroristico presso l'Arena di Manchester, la campagna elettorale più critica della storia politica recente della Gran Bretagna ha riaperto in pieno. E mentre a Taormina una Theresa May imbestialita rappezzava la special relationship, dopo che l'amico americano aveva fatto trapelare alla stampa informazioni preziose e immagini sensibili dell'attentato, Jeremy Corbyn ha finalmente infranto il tabù atlantico che ha sempre fatto del partito laburista un'appendice interventista di Washington in tutto speculare a quella dei conservatori. In un discorso tenuto nella sala di 1 Great George Street di Londra – la stessa in cui Ed Miliband tenne il suo discorso di dimissioni dopo la sconfitta del 2015 – Corbyn l'ha cantata chiara a tutti i sicofanti, dentro e fuori il suo partito, che hanno bombardato di pace e democrazia il medio oriente rendendolo una polveriera di risentimento antioccidentale, primo fra tutti l'ex sommo leader Blair, per le cui porcherie militari aveva peraltro già chiesto scusa al martoriato popolo iracheno. «Molti esperti, compresi professionisti nei nostri servizi di sicurezza e intelligence – ha detto il segretario laburista – hanno indicato le connessioni tra le guerre nelle quali siamo stati coinvolti o che abbiamo sostenuto o combattuto, in altri paesi e il terrorismo sul territorio nazionale. I terroristi saranno per sempre disprezzati e chiamati implacabilmente a rispondere per le loro azioni. La colpa è la loro; ma se dobbiamo proteggere il nostro popolo dobbiamo essere onesti su quanto minaccia la nostra sicurezza». Parole indigeste per i tories, in particolare per il ministro degli esteri Johnson, che le ha definite «mostruose». Insomma, quella che, attingendo all'immaginario dei fumetti Marvel, è stata definita war on terror, non solo non funziona, ha denunciato Corbyn, fa solo danni. Anche per questo, Brexit o non Brexit, è d'incalcolabile importanza che in sella al paese più imperialistico d'Europa vada un leder come lui e non l'ennesimo, volenteroso paggetto di Washington. Parole, queste del segretario, che non hanno mai fatto parte del lessico laburista, e che vanno ad aggiungersi ai contenuti finalmente socialisti del manifesto del partito, dal lancio del quale, poco più di una settimana fa, il Labour ha cominciato una risalita che già profuma di epico. Sì perché ora è ufficiale crederci, come lo è stato nell'estate del 2015, quando l'astronave Corbyn atterrava in direzione e nello sbigottimento generale dei tecnocrati che se ne erano impossessati: il partito ora è a soli cinque punti dai tories. Sempre tanti, ma quasi nulla rispetto a quei 24 sui quali Theresa May aveva deciso il blitzkrieg delle elezioni anticipate pur di infliggere al paese altri dieci anni di un toryismo determinato a portare avanti la riscossa dei ricchi contro i poveri iniziata dalla coalizione con i Libdem, nel 2010. Il cosiddetto sondaggio dei sondaggi, la media di tutte le intenzioni di voto, dà il partito laburista al 35% contro il 44 dei conservatori. Sarà stato questo imbarazzante dato, nonostante la sobria e compunta gestione del dramma di Manchester da parte di Theresa May, a indurre David Davis, il ministro per la Brexit, a cancellare ieri mattina l'evento che doveva riaprire ufficialmente la loro campagna, al culmine di una settimana disastrosa? Certo, mai come di recente i sondaggi si sono rivelati del tutto fuorvianti. Ma il loro significato politico pesa eccome: per Corbyn, il 35% significa cementare la sua leadership anche in caso di sconfitta: Ed Miliband si era fermato al 30,4%. Ed è una rimonta riflessa anche nelle quotazioni personali dei rispettivi leader: laddove la «forte e stabile» May torreggiava sul «ridicolo e incompetente» Corbyn con un inattaccabile 52%, ora il margine si sta sciogliendo come l'Artico al sole: è al 17%.
Il Fatto quotidiano, 23.5.2017
Intercettazioni. Stefano Rodotà: "La telefonata tra i Renzi di assoluto rilievo pubblico"
di Silvia Truzzi
Roma
Disturbiamo Stefano Rodotà sulla telefonata Renzi-Renzi pubblicata dal Fatto, anche perché era lui il Garante per la Privacy quando entrò in vigore l'omonima legge di cui tanto si parla in questi giorni. Professore, da più parti s'invoca una presunta illegalità della pubblicazione dell'intercettazione. Qui non siamo di fronte a un problema di legalità, siamo di fronte a un problema di adeguata informazione dei cittadini! Quali sono le regole in questa materia? In appendice alla legge di cui parlava, c'è il codice deontologico dell'attività giornalistica. L'articolo 6 –lo ricordo bene perché l'ho scritto io – disciplina "l'essenzialità dell'informazione". E stabilisce che la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico non contrasta con il rispetto della sfera privata "quando l'informazione sia indispensabile in ragione dell'originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti". Ma soprattutto al comma secondo dice: "La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica". La telefonata tra i due Renzi ha rilievo? Assoluto: i due non parlano di liti o affari familiari, ma di un'inchiesta sulla più importante stazione appaltante d'Italia in cui è indagato il padre dell'ex presidente del Consiglio, oggi leader di uno dei maggiori partiti italiani. Se non hanno rilievo questi fatti, non saprei quali dovrebbero averne. Non possono essere qualificati come fatti che attengono alla sfera privata. Aggiungo che dalla norma si deduce che quando i fatti hanno rilievo c'è una sorta di dovere di pubblicare le notizie. Il codice di deontologia è una norma secondaria, cioè è applicabile, se richiesto, dal giudice ordinario –civile o penale che sia – e dal giudice amministrativo. Non è applicabile a intermittenza, a seconda delle opinioni di chi ne richiede l'applicazione. La norma di base in materia è esattamente questa. Gustavo Zagreberlsky a Repubblica ha dichiarato: "La Corte di Strasburgo definisce i giornalisti 'cani da guardia della democrazia'. E i cani da guardia sono lì per mordere, qualche volta". Infatti è così che deve essere. Ricordo il caso due giornalisti francesi che nel 1996 avevano pubblicato un libro sull'Amministrazione Mitterrand, che tra l'altro conteneva atti ancora coperti dal segreto: la Corte di Strasburgo stabilì la primazia dell'interesse pubblico a conoscere quelle notizie rispetto al fatto che alcuni atti fossero ancora secretati. L'avvocato Malavenda ha detto che per i personaggi pubblici la privacy è attenuata. Chi ha scelto – non solo i politici, vale anche per anche i personaggi dello spettacolo o per i calciatori – di avere una vita pubblica, ha accettato anche una minore aspettativa di privacy. I politici invocano la "stretta sulle intercettazioni" tutte le volte che vengono toccati da vicino. Non succede mai quando si pubblicano gli audio dei terroristi... Questa dinamica è ciclica. Si ricorda nel 2011 la vicenda della legge bavaglio? Ci fu anche una manifestazione oceanica a piazza del Popolo. Quando sento invocare un decreto urgente sulle intercettazioni, salto sulla sedia: questa è una materia delicatissima, tocca i diritti fondamentali, e deve passare dal Parlamento. Se all'epoca della legge bavaglio si fosse fatto un decreto, non ci sarebbe stata la possibilità di aprire un dibattito e fare resistenza a quella famosa "stretta". Stupito dalle reazioni di Renzi? Si comporta come ha sempre fatto, mostrando una grande insofferenza verso l'informazione. Tende sempre a presentare l'attenzione della stampa nei suoi confronti come un atteggiamento indebito. Sembra che voglia gestire i mezzi d'informazione come se fossero cosa sua. All'epoca del bavaglio era Berlusconi a usare certi toni. Ha letto cosa dice Renzi in questi giorni? Usa le stesse espressioni che usava allora Berlusconi. Non vedo differenze: addirittura allude a disegni eversivi, a prove false fabbricate da pezzi delle istituzioni contro rappresentanti delle istituzioni... Nel 2011 la reazione del mondo dell'informazione fu molto più compatta. Ho colto molti imbarazzi anche davanti al libro di Ferruccio de Bortoli a proposito della vicenda di Maria Elena Boschi con Banca Etruria. Ma bisogna stare attenti: il giornalista che apprende informazioni e non le pubblica potrebbe diventare perfino un ricattatore. Nella mia lunga esperienza, mi è capitato diverse volte di leggere articoli che si concludevano dicendo "il seguito la prossima settimana". E il seguito non veniva mai pubblicato... È un rischio da non sottovalutare. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Manifesto, 27.5.2017
Il ponte europeo per la nuova sinistra italiana
Berlino . Nicola Fratoianni (Si) in sintonia con Katja Kipping, leader della Linke, alla convenction di Diem25 coordinata da Yanis Varoufakis e Srecko Horvat

Di Sebastiano Canetta, Ernesto Milanesi
BERLINO
Uno spazio politico europeo. L'alternativa al sistema di banche, èlite e multinazionali. È il ponte di Berlino della "nuova" sinistra italiana. Nicola Fratoianni, segretario di Si, giovedì pomeriggio con Peppe De Cristofaro e Beppe Caccia ne ha ragionato per un'ora e mezzo con Katja Kipping, leader della Linke, nella storica sede in Rosa Luxemburg Platz. A confronto l'intricata condizione politica del dopo Renzi con «il più grande partito comunista d'Europa» che ha appena raddoppiato i voti nelle elezioni in Nordreno-Vestfalia. Kipping e Fratoianni subito dopo hanno attraversato la piazza e sono saliti sul palco del Volksbühne, il «teatro del popolo» tutto esaurito (ingresso 12 euro) per la convention di Diem25 coordinata da Yanis Varoufakis e Srecko Horvat. «Abbiamo bisogno di coraggio, immaginazione e determinazione. Il progetto europeo è a rischio, la discussione è polarizzata da fascismi regressivi e pericolosi da un lato, e dal populismo di Maastricht dall'altro con le èlite che tentano di rigenerarsi per mantenere i loro insostenibili privilegi», esordisce Fratoianni, «nessuna delle due risposte affronta la disuguaglianza che cresce sempre più in termini di reddito, ricchezza, potere, democrazia e opportunità». Di nuovo in sintonia con Kipping, serve un'alleanza transnazionale capace di raccogliere i fermenti di opposizione sociale sbocciati in Polonia, Croazia e nella stessa Francia. È l'altra Europa visualizzata sullo schermo del teatro berlinese dai contributi video di Ken Loach, Noam Chomsky e del deputato Labour Clive Lewis. Così il segretario di Si conferma la netta scelta di campo: «Per dare prospettiva alla sinistra in Italia bisogna ricostruire una piattaforma che affronti, come giustamente ricorda Yanis, il vero nodo dirimente. Prima di discutere di alleanze contano le proposte politiche e il programma: è proprio ciò che vogliamo fare anche noi in Italia». In platea soprattutto trentenni, gli stessi connessi con Johannes Fehr che coordina il collettivo spontaneo di Berlino o con le altre «sezioni on line» di Diem. Vogliono il New Deal dell'Europa futuribile, la lotta alla povertà pagata dalle tasse alle grandi imprese, l'abolizione delle frontiere non solo all'interno dell'Ue. L'orizzonte dichiarato è il voto nel 2019, rivoluzionando anche la rappresentanza parlamentare. Già fissato il calendario: 27 e 28 maggio a Dublino; il summit alternativo al G20 di Amburgo dal 5 all'8 giugno; il 9 settembre a Bruxelles con «The Real state of the Union». La Linke sposa fino in fondo la linea Diem. «L'unica soluzione alla crisi europea è demolire la politica di Angela Merkel e Wolfgang Schäuble, quella che ha già devastato la Grecia e che non può funzionare nemmeno con Macron» spiega Kipping. Dal palco di Berlino il segretario Si lancia l'iniziativa, proprio in «stile Diem», del 1 giugno a Torino. «Saremo di fronte al megastore Apple, perché non è possibile che incassi miliardi di dollari e paghi in Italia appena lo 0,005% di tasse»
La Repubblica, 27.5.2017
A sinistra si consuma l'ultimo strappo "Avanti anche senza l'aiuto di Mdp" Dem e governo fanno i conti: la manovrina può farcela anche in Senato. I renziani respingono la tesi dell'incidente creato apposta per tornare alle urne: "Con l'accordo sulla legge elettorale, che bisogno c'è?"
Goffredo de Marchis
Roma.
Al governo e nel Pd si fa di conto per capire se la manovrina che contiene il ritorno dei voucher può passare senza i voti di Mdp. Forse il governo sopravviverà alla possibile uscita dei bersaniani dalla maggioranza, ma il suo orizzonte non appare comunque lungo. E la campagna elettorale con la sfida a sinistra è cominciata proprio sui voucher. Le tensioni delle ultime 48 ore si alimentano di ricostruzioni e di domande: i renziani stanno cercando l'incidente per chiudere la legislatura? Il governo sta subendo uno scossone che Gentiloni avrebbe volentieri evitato? Gentiloni e Renzi si erano chiariti sui voucher nei giorni scorsi nel corso di una lunga telefonata, raccontano i fedelissimi del segretario. Che giurano: era stato proprio il governo a chiedere al Pd, più precisamente al capogruppo alla Camera Ettore Rosato, di portare avanti l'emendamento per reintrodurre il lavoro occasionale anche nelle imprese sotto i 5 dipendenti. Ovvero, di dargli una mano perché fosse il partito a rimettere i ticket che l'esecutivo aveva abolito per decreto poche settimane prima. Il problema era ben chiaro: la tenuta dei numeri e della maggioranza, quella che a giorni alterni comprende gli scissionisti di Articolo 1 - Mdp. Così è nato il caso delle ultime 48 ore. Come mettere il governo al riparo, garantendo il ritorno parziale dei voucher senza far saltare il banco? Il braccio di ferro di ieri in commissione Bilancio è servito a chiarire le posizioni. Gentiloni ha lasciato fare al Pd. Forse avrebbe preferito che il suo partito si muovesse con più diplomazia. Ma la sostanza è che uno strumento per il lavoro "breve" lo voleva anche il premier. Il Pd ha studiato nuove versioni del testo, ha lavorato per il ritiro dell'emendamento sulla Federconsorzi che scontentava tutti (il segno evidente, secondo la versione renziana, che nessuno cercava l'incidente per chiudere la legislatura), e si è preoccupato di garantire il passaggio della manovrina correttiva. Alla Camera non ci sono problemi numerici, anche se gli scissionisti non voteranno la fiducia. Al Senato può bastare che le truppe dell'opposizione non siano compatte e la conversione in legge della manovra correttiva sarà cosa fatta. Missione ancora più facile adesso che si stringono i bulloni dell'intesa sulla legge elettorale, con un consenso persino più largo del patto del Nazareno bis tra Renzi e Berlusconi. La verità è che nel centrosinistra che sostiene la maggioranza, frantumato in molti pezzi, è cominciata la campagna elettorale. Susanna Camusso ha suonato la sveglia per la sinistra. La rottura dei bersaniani di Mdp a questo punto è scontata, ma non arriverà fino al punto di mettere a rischio una legge che non serve al governo bensì alla credibilità dell'Italia in Europa. Rompere sui voucher corrisponde al profilo che si vogliono dare gli esponenti di Articolo 1. Del resto, da mesi non fanno altro che dire, nelle dichiarazioni e nelle interviste, che la scissione si sarebbe dovuta realizzare molto tempo fa, al momento dell'approvazione del Jobs act. Lo ha spiegato Roberto Speranza, lo ha ripetuto Pier Luigi Bersani che punta a reintrodurre l'articolo 18, lo ha confermato ieri Massimo D'Alema. Sul lavoro si costruiranno le fortune elettorali o meno della nuova formazione di sinistra. Cioè, sulla base degli iscritti alla Cgil, un bacino di voti lontano dal Pd renziano. Perciò quella dei voucher è la loro battaglia. La manovrina, dunque, è in sicurezza? Il Pd garantisce di sì. Ma quel decreto si intreccia ora con la discussione sulla legge elettorale. Non c'è dubbio che il nervosismo di Mdp sia legato anche all'ipotesi di un innalzamento della soglia per la Camera dal 3 al 5 per cento. La crisi di governo eviterebbe questo esito, ma una sinistra di governo che butta per aria i conti pubblici perderebbe molta credibilità. Il problema però c'è. Tanto più che il lavoro per riunire le varie anime a sinistra del Pd continua con qualche difficoltà. E il 5 per cento è un orizzonte certamente più impegnativo. Lo è anche per Angelino Alfano. Il suo partito, Area popolare, è stabilmente nella maggioranza, ha ministri nel governo e non può intestarsi una campagna contro i voucher. Ma un accordo sul modello tedesco lo taglia fuori dai giochi o perlomeno lo mette in un angolo. Per questo a Palazzo Chigi si chiedono: e se i pericoli veri arrivassero da lì? ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Fatto quotidiano, 27.5.2017
"Gran pasticcio", Mdp e minoranze Pd si sfilano, ma renziani ed esecutivo tirano dritto: un emendamento per reintrodurli. Oggi si vota: sarà scontro Voucher, l'attacco di sinistra e Cgil fa traballare Gentiloni
Di Tommaso Rodano
Roma
Sui voucher la maggioranza rischia di segare le gambe al governo. I bersaniani di Articolo 1 Mdp sbattono la porta e abbandonano i lavori della commissione Bilancio. Cesare Damiano (sinistra Pd) avanza critiche e perplessità e tutta la componente orlandiana annuncia di esser pronta a disertare il voto in commissione che si svolge stamattina. E pure i parlamentari legati a Michele Emiliano sono delusi: avevano chiesto a quel che rimane della maggioranza di fermarsi a riflettere e di posticipare la decisione sui buoni lavoro per le imprese a dopo la consultazione delle parti sociali. Oggi, probabilmente, alla Camera si arriverà allo scontro frontale. IN UN PRIMO momento il relatore alla cosiddetta "manovrina" Mauro Guerra (Pd) aveva rinviato la resa dei conti: "Il mio compito è raccogliere gli elementi su cui c'è ampia convergenza e costruire le condizioni per ottenere il maggior consenso possibile". Poi, però, non l'ha fatto. Alla ripresa dei lavori, in tarda serata, ha confermato la bozza dell'emendamento che era circolata nel primo pomeriggio: tiene insieme un "libretto famiglie"per pagare colf e baby sitter e una nuova forma di contratto occasionale per le imprese sotto i cinque lavoratori. La soluzione proposta dalla sinistra del Pd – l'unica accettabile anche per Mdp –era di mantenere il libretto per le famiglie ed escludere la parte sulle imprese. La maggioranza ha risposto picche. Ora si rischia la rottura totale sulla "manovrina" e al Senato i voti di Articolo 1 potrebbero essere decisivi. Sui voucher – ha detto Roberto Speranza – il comportamento del governo "è inaccettabile". Mdp dirà di no: "Non c'è voto di fiducia che tenga". Ieri la discussione parlamentare è stata presidiata da Susanna Camusso. La segretaria generale della Cgil è rimasta per tutto il pomeriggio nell'anticamera della Commissione bilancio. Il referendum sui voucher promosso dal sindacato si sarebbe dovuto svolgere domani, il 28 maggio, prima che il governo intervenisse con l'abolizione dei buoni lavoro. Una misura – l'hanno dimostrato i fatti – che aveva l'unico criterio di disinnescare una possibile nuova débâcle elettorale, dopo quella sulla Costituzione del 4 dicembre. "L'unico interesse per la maggioranza – ha commentato ieri Camusso – è continuare a svalutare il mondo del lavoro. È un grande pasticcio. Siamo di fronte, con un altro nome, a un meccanismo esattamente equivalente a quello dei voucher, pieno di scappatoie che favoriranno tutti i trucchi possibili". Per Arturo Scotto (Mdp) è evidente la volontà della maggioranza renziana "di cercare un incidente"per far cadere il governo Gentiloni. Lo stesso presidente del Consiglio non ha smentito i retroscena che ne hanno raccontato il malumore per l'atteggiamento del suo partito sulla questione. Tanto che ieri Matteo Renzi si è premurato di sottolineare la sua estraneità a queste ricostruzioni, dettando la sua versione alle agenzie: "Sui voucher – parola del Rottamatore - Paolo mi ha chiesto una mano dopo aver deciso di tirare dritto, per chiudere sulla soluzione trovata dal governo e il Pd ha lavorato in questa direzione, altro che sfasciare". Tradotto: è colpa di Palazzo Chigi. UNA PARTE dell'irritazione del fiorentino è dedicata pure al ministro del Lavoro Poletti, che "non ha fatto la sua parte incontrando i sindacati". La mattina era toccato prima al capogruppo Ettore Rosato e poi alla ministra Anna Finocchiaro soffiare sul fuoco: sui voucher "c'è piena sintonia tra il governo e il Pd". L'ansia di far passare questo principio è giusto un po' sospetta. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Manifesto, 27.5.2017
Unità e facce nuove fuori dal defunto centrosinistra A sinistra unità e facce nuove . L'umiltà di sapere che nessuno da solo ha la soluzione. Ci sarà spazio per chi ha filo da tessere. In gioco non è il futuro di piccoli gruppi ma la voce degli esclusi
Di Bia Sarasini
Roma
Ora che siamo qui, a chiederci se nelle prossime elezioni politiche – tra quattro o dieci mesi, si vedrà – ci sarà una lista di sinistra sinistra, la prima domanda è: di cosa parliamo quando parliamo di sinistra? Lo dico con un pizzico di incoscienza e un certo sprezzo del pericolo. L'argomento di solito scatena il fuggi fuggi – nei media mainstream, tra giornaloni e tv – quasi quanto il parlare di legge elettorale. Il tutto viene seppellito da un chissenefrega irrisorio, buttato lì per impedire di vedere qual è la posta in gioco, procedere nella cancellazione dell'opposizione sociale e politica, non solo in Italia ma in Europa. Basta vedere come si commentano le elezioni francesi, o la campagna elettorale di Corbyn. Come se fosse davvero incomprensibile che programmi che si propongono semplici obiettivi di redistribuzione di ricchezza e riequilibrio del welfare possano raccogliere voti. La cosa bizzarra è che il chissenefrega in Italia percorre anche le sparse sinistre, i movimenti, i singoli ormai privi di legami politici, come se si fosse espresso un medievale giudizio di dio: divisi siamo e divisi dovremo rimanere. Una specie di maledizione, una sorta di condanna per errori insormontabili, impossibili da espiare, tantomeno da perdonare. Intendiamoci, responsabilità ce ne sono state. Ma sono convinta che il rancore infinito non porta a nuova vita, seppellisce per sempre sotto macerie che rimangono tali. Non mi sembra una responsabilità lieve, per costruire occorre rovesciare il punto di vista – do you remember revolution? – lasciare alle spalle passato, e puntare al futuro. Il 4 dicembre lo ha detto con chiarezza. In una situazione in cui il voto ha permesso di esprimersi, il popolo ha votato no. Un no che si è visto di recente, sempre in Italia, anche in un altro referendum, che pure aveva quasi l'aspetto di un ricatto, quello dell'Alitalia. Un no sorprendente, tanto è vero che si è detto che era stato sbagliato chiedere il voto. Tanto stupisce che ci siano volontà, desideri, progetti, richieste che non stanno nelle compatibilità prestabilite, nei prezzi scaricati sempre e solo su chi lavora. Certo non tutto il no è di sinistra, sarebbe disonestà intellettuale sostenerlo. Eppure giovani, sud, donne, lì dove si sono espresse le percentuali più alte di no, chiedono a gran voce un cambiamento che solo una sinistra sinistra può portare. Quindi lavoro, lavoro e ancora lavoro. I lavori frammentati, spezzati, svalorizzati dal Jobs Act – sul quale si è impedito il referendum e che ora si vuole re-introdurre per decreto – lavori che non si dividono più tra fabbrica e fuori, lavori di cura e lavori di produzione. Il neocapitalismo con la sua violenza senza maschere è entrato nella vita quotidiana. Basta vivere, per capirlo, la vita ordinaria, comune. Di chi usa i mezzi di trasporto, si cura con il servizio sanitario pubblico, frequenta le scuole pubbliche, o ci lavora. Di chi non ha vite extra-ordinarie, non può garantirsi servizi speciali e su misura, non può pagare le privatizzazioni. Di chi si vede tagliare compensi, contributi, pensioni. Basta vivere giorno dopo giorno nelle città che si vogliono impossibili, in cui vengono additati "nemici" a cui si vuole togliere umanità, per renderci tutti disumani. E non sto divagando, parlo di elezioni, di liste e di politica. La sfida del presente richiede nettezza. Dunque niente centrosinistra. Chi continua a proporlo – per esempio Massimo D'Alema intervistato ieri dal Corriere – fa confusione, invece di diminuirla. Non giova alla chiarezza di un campo politico che ha bisogno di slancio, di certezze per cui motivarsi. E dire che ci sono segni evidenti che si può andare in una direzione comune: forze politiche, movimenti, la grande forza che spinto il risultato referendario per la difesa della Costituzione, intellettuali generosi, pronti a spendersi. Ci vuole coraggio. L'umiltà di sapere che nessuno da solo ha la soluzione, accettare che il nuovo avrà bisogno di raccontarsi anche con facce nuove. Ma non c'è da averne paura. Ci sarà spazio per chiunque avrà filo da tessere. In gioco non è il futuro di piccoli gruppi, la sfida è mantenere nello spazio pubblico la voce dei dimenticati e degli esclusi.
Il Manifesto, 23.5.2017
Pisapia sfianca Mdp. Liste e alleanze, la prudenza dell'ex sindaco di Milano mette alla prova la tenuta dei bersaniani. L'ironia di D'Alema: "Vuol dire che mentre gli altri vinceranno le elezioni, noi saremo lì ancora a fare un'iniziativa di studio nelle Officine di Giuliano"
Di Daniela Preziosi
Roma
Vuol dire che mentre gli altri vinceranno le elezioni, noi saremo lì ancora a fare un'iniziativa di studio nelle Officine di Pisapia. Qui non è chiaro: per partecipare al voto bisogna fare alcune cose banali, per esempio le liste». Domenica pomeriggio l'ironia di Massimo D'Alema si è abbattuta sulle conclusioni della tre giorni di Art. 1 a Milano. Una battuta, certo, ma il senso era chiaro: una volta incassato – e con fatica – l'impegno di Giuliano Pisapia nella «coalizione per il cambiamento» (copyright di Roberto Speranza), i tempi di organizzazione dovrebbero essere stretti. L'ex sindaco di Milano invece ha un altro passo. Ha chiesto di convocare «insieme» la prossima iniziativa a Roma. Nella sua idea non è la fusione con Mdp, o non solo, ma la convocazione della «casa» del nuovo centrosinistra. Non solo una lista elettorale, ma un progetto politico a cui partecipa, ovviamente, anche Mdp. La prova di questo ragionamento è arrivata ieri dallo stesso capoluogo lombardo dove la capogruppo di Sinistra per Milano Anita Pirovano, vicinissima a Pisapia, ha escluso di entrare nel gruppo comunale di Mdp: «Se può nascere un progetto inedito e coraggioso il modello Milano non può che esserne parte attiva e protagonista spero anche dentro l'istituzione comunale. Se si tratta invece di chiamare con nomi nuovi le solite cose, no grazie», ha spiegato. Quanto alla data dell'assemblea, Pisapia ne ha indicato una lontana, dopo le amministrative. «Subito dopo, a giugno, diamoci un appuntamento nazionale programmatico e fondativo del nuovo centrosinistra ampio, plurale, costruttivo e sobrio che sappia unire anime diverse partendo dalle realtà locali», ha detto domenica, provocando una standing ovation dei presenti, più che altro sollevati per lo scampato pericolo che lui si sfilasse dalla partita. Appena sceso dal palco, Pierluigi Bersani si è precipitato ad abbracciarlo per dimostrare che il matrimonio fra le due forze nascenti è cosa fatta, secondo i segni di un'antica liturgia politica. Ieri pomeriggio Pisapia ha riunito i suoi di Campo progressista. Per l'appuntamento romano c'è da centrare la data giusta. Le amministrative sono l'11 giugno, i ballottaggi il 25: a un passo dalla pausa estiva. Sempreché a Renzi non riesca la manovra delle elezioni anticipate. I pezzi del puzzle da mettere al loro posto sono tanti. Pisapia vorrebbe lanciare una casa «aperta a chi ci sta». Mdp a sua volta lo blinda per strapparlo dalle sirene del Pd, consapevole che senza di lui per la «nuova cosa» il rischio della ridotta rossa è forte. «Da Milano il treno è partito», spiega il presidente toscano Rossi, e il treno è «uno schieramento aperto e plurale con personalità come Pisapia e contributi del centro democratico per fare una politica nuova partendo dai valori della Costituzione». Costituzione che è un altro punto delicato: Speranza chiede di riunire il «popolo del No». Ma Pisapia ha votato sì. Il gioco delle parti potrebbe anche essere utile: con il giovane bersaniano pronto al ruolo di segretario del nuovo partito e l'avvocato in quello di leader di una coalizione più ampia. Infine c'è l'attivismo della sinistra a sinistra di Art. 1. Gli inviti a fare fronte comune da parte degli ex vendoliani sono quotidiani, a patto di chiudere definitivamente con il partito democratico. Puntando a dividere ciò che a Milano si è riunito, e cioè Campo Progressista da Art. 1. Lo spiega il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni al Corriere della Sera: se le proposte «sono quelle che descrive Pisapia saremo da un'altra parte».
Il Manifesto, 27.5.2017
«Vengo anch'io». Grillo salta sul sistema tedesco (all'italiana) Legge elettorale. Arrivano gli emendamenti all'impresentabile testo proposto dal Pd. E si afferma una versione rimaneggiata del modello in vigore in Germania. Forza Italia lo piega alle sue convenienze e Berlusconi si prepara a firmare l'accordo con Renzi, mentre M5S non rinuncia a qualche modifica (il premio) ma vuole rientrare in gioco. E chiede la conferma al web
Di Andrea Fabozzi
Roma
Vorremmo andare a proporre la nostra disponibilità al sistema tedesco, quello vero, però». Il Movimento 5 Stelle si prepara all'incontro con il Pd (lunedì) sulla legge elettorale e all'ultimo momento decide di ascoltare gli iscritti (certificati), che oggi e domani potranno votare sì o no sulla piattaforma Rousseau. È evidente il tentativo di Grillo di rientrare nelle trattative che Berlusconi e Renzi hanno portato a uno stadio avanzato. L'impresentabile testo del relatore Fiano (chiamato a giorni Verdinellum o Rosatellum) sta servendo a creare lo spazio per un accordo sul proporzionale simil tedesco. «Simil» perché ieri si sono chiusi i termini per la presentazione degli emendamenti e si è avuta la conferma che neanche Forza Italia punta a importare il metodo «puro» in vigore in Germania – cosa che del resto richiederebbe una riforma costituzionale per rendere variabile la composizione numerica delle camere. In uno dei pochissimi, quattro, emendamenti presentati dai forzisti si mantiene infatti la pietra angolare del testo Fiano: la preferenza unica, che dal candidato all'uninominale si estende automaticamente alla lista che lo sostiene. Ma mentre il Pd ha proposto di dare prevalenza alle scelte uninominali, Forza Italia ribalta l'impostazione e prevede che la quota dei deputati e senatori di un partito sia decisa dal proporzionale. Di conseguenza non tutti quelli che vincono nei collegi avrebbero il seggio assicurato. Forza Italia del resto si considera meno forte nelle sfide sui candidati (e teme la prevalenza leghista al nord) e così punta a riportare la scelta dei parlamentari nell'orbita del partito. È la stessa esigenza dei grillini – anche loro a corto di candidati «solidi» nei collegi – che infatti hanno da tempo mollato ogni polemica sui «nominati» e del tedesco apprezzano anche loro la prevalenza della selezione affidata al listino bloccato.
Per ottenere questo risultato, però, gli emendamenti sia di Forza Italia che di Ap che di M5S prevedono che i seggi assegnati nell'uninominale siano meno del 50% o che vengano scorporati dalla quota proporzionale, il che è lo stesso ma non è quello che prevede il sistema tedesco «quello vero». I 5 Stelle, poi, nel post che annuncia la chiamata al referendum online, avanzano anche altre proposte per piegare il sistema germanico alle (loro) esigenze nazionali. Come introdurre un premio di governabilità per il partito che raggiunge il 40% o «metodi di calcolo che incrementino il numero dei seggi della prima forza politica» – sapendo che in Germania si usa un sistema di trasformazione dei voti in seggi (Sainte-Laguë) che garantisce i partiti più piccoli meglio di quanto faccia il sistema in vigore tradizionalmente in Italia (D'Hondt). Ai grillini va naturalmente benissimo che la soglia di sbarramento resti quella tedesca (5%) mentre sia i centristi di Alfano che Sinistra italiana propongono con gli emendamenti di abbassarla. Non lo fa Mdp, che immagina parimenti una svolta «tedesca» del testo Fiano, ma con il sistema della doppia scheda (in Germania è una) che favorisce il voto disgiunto. E soprattutto Mdp insiste per il ritorno alle preferenze (che in Germania non sono previste nella parte proporzionale). Preferenze o meno, tutta la sinistra evidenzia come sia indispensabile introdurre una reale parità di genere nelle liste, o con una composizione bilanciata al 50% o con l'alternanza nell'elenco dei sessi. Esigenza sentita anche dai deputati Pd di Andrea Orlando, che immaginano in sovrappiù un sistema più chiaro di presentazione delle coalizioni nazionali. Per il resto il Pd non ha quasi presentato emendamenti.
In totale le proposte di modifica sono poco più di 400, un numero non enorme che consentirebbe un esame entro la prima settimana di giugno (l'appuntamento con l'aula è fissato per il 5). Ma i primi voti ci saranno giovedì e i prossimi giorni potrebbero essere decisivi: lunedì e martedì gli incontri di Renzi (non si esclude con Berlusconi), martedì la direzione Pd. Alla camera il percorso per la versione italiana del sistema tedesco può sembrare in discesa, ma solo perché non si è ancora entrati nei dettagli. La difficoltà maggiore resta quella di trovare un'intesa in grado di reggere anche al senato, anche nel voto segreto.
Il Fatto quotidiano, 27.5.2017
Legge elettorale, arrivano le modifiche "Renzusconi"
Forza Italia presenta gli emendamenti per passare dal modello disegnato
da Verdini al "tedesco", un proporzionale che garantisca le larghe intese

Di Marco Palombi
Roma
Quattro emendamenti quattro e le indiscrezioni a mezzo stampa diventano subito scenario operativo: ecco il Nazareno degli ex potenti, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, i quali provano ad approvare insieme una legge elettorale che sancisca la loro debolezza eternandola al potere, benedetti, addirittura, dai 5Stelle. I QUATTRO emendamenti al testo base del nuovo sistema elettorale firmato dal capogruppo Pd, Ettore Rosato, sono firmati da Forza Italia e non saranno la versione definitiva della legge: ci penserà il relatore, il dem Emanuele Fiano, a ricomporli nell'alambicco parlamentare coi desiderata democratici (una proposta "nazarena"porta la firma pure del renziano Dario Parrini). La direzione di marcia, comunque, è segnata: il sistema proposto finora dal Pd ha, infatti, una venatura maggioritaria (cioè una distorsione a favore del partito di maggioranza) abbastanza marcata; Brunetta e soci – "in costante contatto col presidente Berlusconi", si legge in una nota –correggono la rotta verso un proporzionale puro con soglia di sbarramento al 5% e assenza di coalizioni. Forza Italia, però, cancella anche i collegi uninominali chiesti dal Pd, creando un Porcellum depurato più che un modello simile a quello in uso in Germania. Comunque, ha assicurato Brunetta, se passa "si vota in autunno", così Renzi è contento. I dettagli tecnici (quanti collegi e di che tipo, come funziona il riparto dei seggi) potranno essere sistemati in seguito, visto che i punti centrali sono comuni: l'impianto proporzionale e il no alle coalizioni. È proprio su questo che il testo "Renzusconi"- parola del Fatto portata ieri sul Corsera da Massimo D'Alema - potrà convergere anche il M5S: "Voto subito, niente coalizioni elettorali, proporzionale rigoroso sulla totalità dei seggi della Camera e soglia di sbarramento al 5%", spiegava ieri il blog di Grillo annunciando che sul sistema "tedesco" nel weekend saranno chiamati a pronunciarsi gli iscritti sulla piattaforma Rousseau (lunedì è previsto l'incontro tra le delegazioni Pd e 5Stelle). LA SOGLIA DEL 5% per accedere alla poltrona, va detto, preoccupa assai la seconda gamba della maggioranza, Alternativa popolare, il partito di Angelino Alfano: non a caso Ap ha presentato emendamenti per abbassarla (al 2% alla Camera e al 3% al Senato) e per reintrodurre le coalizioni nella speranza che Berlusconi sia così gentile da proporne una nel nome del popolarismo europeo. Tornare alle coalizioni è la proposta anche di Articolo 1-Mdp (più la fissa della re-introduzione delle preferenze), che vorrebbe replicare il modello della concorrenza a sinistra che andava di moda ai tempi dell'Ulivo o dell'Unione ("competition is competition", disse al proposito Romano Prodi). Ora, a chiudere il cerchio della nuova concordia parlamentare Pd-Forza Italia, silenziosamente plaudente il M5S, manca solo Emanuele Fiano: sarà il relatore del Pd a dover proporre un testo finale che vada bene a tutti. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
La Repubblica, 27.5.2017
Il Commento
D'Alema e l'arte della sconfitta
Sebastiano Messina
La politica italiana sarebbe più noiosa, se ogni tanto non intervenisse Massimo D'Alema, che fu il primo ex comunista a conquistare Palazzo Chigi, e anche il primo a doverlo abbandonare dopo 18 mesi perché battuto alle regionali che doveva stravincere. Da allora, lui dispensa consigli disinteressati su come perdere le elezioni. Prendendo esempio dai suoi stessi errori. Ieri, per esempio, sul "Corriere" diffidava Renzi dallo stringere un accordo con Berlusconi: avendone fatto lui, a casa di Gianni Letta, uno dagli esiti disastrosi. Lo sfidava a proporre un ritorno al Mattarellum: quel ritorno che sei anni fa lui definiva "un errore politico". Disprezzava come "immorale" l'ipotesi di un sistema elettorale ispirato al modello tedesco: proprio quello da lui sostenuto per un ventennio. Per adottarlo in Italia, ha spiegato ad Aldo Cazzullo, sarebbero necessarie "modifiche costituzionali" della forma di governo. Come quelle che lui ha ferocemente combattuto, promettendo un'altra riforma più bella "in soli sei mesi" (di cui non si ha notizia), e che quasi di sicuro subirebbero la stessa sorte. Così si tornerebbe alla casella di partenza, e D'Alema potrebbe ricominciare a tenere le sue brillanti lezioni sull'arte della sconfitta. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica, 27.5.2017
Verso elezioni anticipate ad ottobre
La mossa dei 5Stelle per rientrare nell'accordo sulla riforma fa precipitare la situazione verso elezioni - Patto a quattro per le elezioni alle urne entro il 22 ottobre

Di Carmelo Lopapa
ROMA.
È il fischio finale della legislatura. E risuona da Roma nella giornata in cui il premier Paolo Gentiloni ospita a Taormina i grandi del mondo e tocca l'apice della sua esperienza di governo. Sono echi dei quali il capo del governo non può e non vuole occuparsi in queste ore, ci sarà tempo per prendere atto che l'approdo a sorpresa di Beppe Grillo al tavolo della trattativa sulla riforma elettorale e la sostanziale adesione di Matteo Salvini, dopo quella di Silvio Berlusconi, segna l'apertura della lunga e caldissima - anche perché estiva - campagna elettorale. Tutto precipita a questo punto verso le elezioni anticipate al più tardi ad ottobre, che Matteo Renzi ha tanto invocato e alle quali il Cavaliere alla fine si è convertito. La road map è segnata. E il percorso è accelerato. Il referendum indetto in queste ore dal leader del Movimento tradisce - come sempre quando vengono convocati i militanti su due piedi la volontà che nella consultazione prevalgano i sì. Via libera quanto meno alla trattativa per non restare tagliati fuori, per non ingoiare una legge venefica per il M5S, per non essere stritolati dall'abbraccio mortale Renzi- Berlusconi. E magari per provare a strappare in extremis un ritorno all'Italicum da estendere anche al Senato, come hanno sperato finora i grillini. Quel che è certo è che quell'abbraccio tra il segretario dem e il capo di Forza Italia si è già consumato. Anche se non porterà a un incontro diretto tra i due. «Sarebbe un suicidio, alla vigilia delle amministrative dell'11 giugno», spiegano i fedelissimi dell'una e dell'altra parte che non hanno alcuna intenzione di finire sotto il peso di un "Nazareno- bis", con tanto di sugello ufficiale. Sarebbe un regalo a Grillo e Salvini. Da lunedì Lorenzo Guerini, coi i capigruppo Rosato e Zanda, faranno partire le consultazioni sprint con tutti i partiti, da chiudere in 48 ore. Renzi e Berlusconi si sono già sentiti, mediatore Gianni Letta, e basterà convergere coi capigruppo Paolo Romani e Renato Brunetta per chiudere la partita sugli emendamenti che già in commissione cambieranno volto in chiave tedesca alla legge elettorale. Tutto in 48 ore perché martedì in direzione il segretario Pd vuole avere tutte le carte sul tavolo e impegni sottoscritti, prima di annunciare la svolta. Di emendamenti ieri ne sono stati depositati 417 in Affari costituzionali, ma ne basteranno une mezza dozzina per riscrivere le regole verso un sistema per lo più proporzionale in salsa italiana. Ma con quale sbarramento? L'intesa Pd-Fi sul 5 per cento potrebbe essere ritoccata, con una concessione al 4. Angelino Alfano già tuona minacciando la crisi di governo se non si tornerà al suo (vitale) 3 per cento. Se l'accordo non sarà chiuso prima in maggioranza, è la versione ufficiale, i centristi si terranno "le mani libere". E i dem vogliono evitare di precipitare Gentiloni in una crisi anticipata prima di chiudere sulla legge. Meglio cedere su una mediazione al 4 («Ma non uno in meno»), pur di andare avanti ancora qualche mese, è stato il ragionamento sottoposto e, sembra, accettato da Berlusconi. Dal 5 giugno in aula, a Montecitorio, tappe forzate e chiusura entro il mese, grazie al contingentamento dei tempi. Ma se l'accordo a quattro - Pd-Fi-M5S-Lega - dovesse davvero reggere, allora anche al Senato in luglio il "tedesco" avrà vita facile. La chiusura dei battenti subito dopo e il voto a inizio autunno sarebbe a quel punto l'immediata conseguenza. La finestra resta quella che va dal voto a Berlino del 24 settembre - improponibile per l'Italia - alla più probabile domenica 22 ottobre. Resta solo un'ipotesi l'anticipo della legge di stabilità, per chiuderla prima delle urne ed evitare pericolosi vuoti (in caso di caos postelettorale) e avventurosi ricorsi all'esercizio provvisorio. Il Quirinale si sentirebbe di certo più rassicurato da una messa in sicurezza dei conti, prima della corsa a un voto dall'esito imprevedibile. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica, 27.5.2017
Alla Camera 417 emendamenti, uno di riserva per i dem. Ma Delrio frena
Di Giovanna Casadio
Roma.
E sulla legge elettorale modello tedesco apre anche Beppe Grillo. Un "grande accordo" tra Renzi e Berlusconi e ora anche con il leader dei 5Stelle è possibile? Di certo Grillo vuole entrare nella trattativa e prima di lunedì, quando i capigruppo M5S e quelli del Pd si incontreranno a Montecitorio, si appella alla rete. Oggi e domani consultazione per sapere se ai militanti l'idea piace. Sono chiamati a partecipare sulla piattaforma Rousseau e hanno davanti proposte precise. Perché il via libera è comunque ad alcune condizioni: voto subito, niente coalizioni elettorali, proporzionale rigoroso sulla totalità dei seggi della Camera e soglia di sbarramento al 5%. Al tempo stesso i 5Stelle pensano a un premio di maggioranza per chi raggiunge il 40%. La mossa a sorpresa di Grillo sul blog arriva dopo che sono stati depositati ieri in commissione Affari costituzionali della Camera gli emendamenti. Nel complesso sono 417. I 5Stelle prima ne mettono nero su bianco 100, poi sfrondano a 38. Forza Italia ne presenta solo 4. Ma spiega Francesco Paolo Sisto che sono chirurgici: puntano a destrutturare il cosiddetto Rosatellum, il modello elettorale voluto dal Pd, mezzo maggioritario e mezzo proporzionale, dal quale mercoledì prossimo partirà la discussione. La rotta forzista è quella proporzionale "alla tedesca", come Silvio Berlusconi ha detto e ha confermato a Renzi in un colloquio telefonico di qualche giorno fa. Nei 58 emendamenti del Pd nessuna spinta verso il proporzionale. Almeno per ora. Ma c'è una carta di riserva che il dem Dario Parrini, esperto di sistemi elettorali, ha scritto: una correzione del Rosatellum in base alla quale «la quantità di seggi di cui un partito dispone dipende dai suoi voti di lista»: in pratica, metodo proporzionale. Spetterà al relatore Emanuele Fiano utlizzarla, se si sarà raggiunto l'accordone sul modello tedesco e se questo sarà stato ratificato dalla Direzione dem che si riunisce martedì prossimo . Tutto però da verificare. Nello stesso Pd sono tante le voci pro sistema maggioritario, come quella del ministro Graziano Delrio. Correttivi al Rosatellum hanno presentato anche Gianni Cuperlo e Andrea Giorgis per stabilire che le coalizioni non possono essere a macchia di leopardo, ma le stesse in tutti i collegi uninominali che il Rosatellum prevede appunto al 50%. Dalla Lega solo 2 emendamenti; 24 da Mdp che sul tedesco ci sta; un centinaio dagli ex montiani e 41 dagli alfaniani. Il timing. La dead line è il 5 giugno quando la legge elettorale approda in aula. Prima sarà accaduto di tutto: la fitta agenda di incontri di lunedì, a molti dei quali parteciperà anche Renzi. Difficile un faccia a faccia del segretario dem con Berlusconi: «Niente Nazareno bis solo dialogo sulle regole». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il Manifesto, 23.5.2017
Legge elettorale, il diversivo di Renzi
Di Andrea Fabozzi
Roma
Quando Matteo Renzi interviene sulla legge elettorale – quasi quotidianamente, nelle ultime settimane – lo fa sempre spiegando di non volersene troppo occupare. E sempre invita a non perdere tempo, a non fare «giochi e giochetti». Occupandosi lui di allungare il brodo. Così come aveva chiesto di fermare i lavori della camera in attesa della sua incoronazione-bis, poi suggerito il modello elettorale delle province, rinnegato quel suggerimento, riproposto ancora l'Italicum, rinnegato l'Italicum, inventato il Rosatellum, il segretario del Pd ieri ha creato un ennesimo diversivo. Ora che toccherebbe stringere in commissione, «per tutta la settimana il Pd sarà pronto a incontrare gli altri partiti, nelle forme e nelle delegazioni che siamo pronti a concordare con i singoli schieramenti», ha fatto sapere alle nove via facebook. C'è sempre un ultimatum in genere in questi rinvii, e c'era anche ieri sera: entro martedì 30 i giochi dovranno essere fatti perché il Pd discuterà di legge elettorale in direzione nazionale. Il segretario ha bisogno di far digerire al partito un eventuale ritorno agli accordi con Berlusconi. Ma soprattutto può contare su una exit strategy più che dignitosa per lui, perché nel caso in cui non si riesca a cambiare la legge elettorale, i due sistemi in vigore possono rafforzarlo al centro del parlamento e del partito, anche senza dargli la vittoria assoluta. E soprattutto capisce bene che al punto in cui si è giunti (fine maggio) elezioni anticipate in autunno e riforma del sistema di voto sono discretamente incompatibili. Oggi la prima commissione della camera approverà finalmente il testo base della nuova legge elettorale. Poteva farlo sette giorni fa, ma il Pd ha imposto una sterzata rinnegando il suo Italicum in favore di una evoluzione del Mattarellum dagli effetti marcatamente maggioritari. Nel frattempo, avendo spaventato a sufficienza Berlusconi, Renzi non vuole rinunciare alla possibilità di recuperarlo grazie a una versione corretta del sistema elettorale tedesco. Il Cavaliere offre in cambio la disponibilità di Forza Italia alle elezioni anticipate in autunno, per la verità non essenziale dal punto di vista dei numeri. Renzi ha già in mano la sorte del governo Gentiloni. Quello che gli serve è soprattutto un alibi, l'incidente in grado di chiudere la legislatura senza che il Pd debba caricarsi la responsabilità del gesto. Tra il Cavaliere e il segretario del Pd il filo non era interrotto. La nuova ipotesi non è esattamente «il sistema tedesco, quello vero» richiesto da Berlusconi nell'intervista di domenica al Messaggero che ha portato alla luce le trattative. Renzi si è spinto troppo in avanti nel rifiutare il sistema proporzionale puro e nel chiedere elementi di maggioritario, tanto che ha lasciato morire l'Italicum orfano del ballottaggio. Gli elementi di maggioritario da innestare sul proporzionale alla tedesca (50% di seggi uninominali, 50% proporzionale) potrebbero andare dall'indicazione obbligatoria del candidato premier prima del voto, alla soglia alta di sbarramento (5%), alla previsione di un solo voto, quello per il candidato nel collegio uninominale esteso alla lista o coalizioni di liste che lo sostengono. Quest'ultima è una soluzione già presente nel testo Fiano, oggi testo base. È solo il punto di partenza, la strada sarà tracciata dagli emendamenti. Un sistema come quello così descritto, soglia compresa, somiglierebbe alla proposta sulla braccia dieci anni fa, in coincidenza con il tramonto dell'ultimo governo dell'Ulivo. Passò alla storia come «bozza Bianco», dal nome di Enzo, oggi sindaco di Catania e allora presidente della commissione affari costituzionali del senato. Era un modello tedesco riportato però nel calcolo dei seggi su base circoscrizionale, una soluzione adottata per risolvere il problema della composizione numerica delle assemblee. In Italia infatti camera e senato hanno un numero di componenti fissato dalla costituzione, mentre in Germania non è così ed è allora possibile rispettare la proporzionalità della legge continuando a garantire il seggio a tutti i vincitori nell'uninominale. Altrimenti, per rendere flessibili anche le assemblea parlamentari italiane, servirebbe una modifica costituzionale. Con tempi troppo lunghi per le necessità del momento. Legge elettorale: Grillo apre al sistema tedesco e entra nella trattativa Pd-FI.
Il Fatto quotidiano, 23.5.2017
Si ricomincia dal Nazareno-bis
Il nuovo Nazareno porta dritti al voto già il 24 settembre
Renzi pronto al patto con Berlusconi: se Forza Italia dà l'assenso al voto in autunno, dirà sì al sistema tedesco

 Di Wanda Marra
Roma
Silvio Berlusconi ci guadagna la quasi certezza di stare in un governo di larghe intese con Forza Italia nella prossima legislatura e Matteo Renzi la possibilità di andare a votare in autunno, possibilmente il 24 settembre, in contemporanea alla Germania. La ragione del Patto del Nazareno bis, quasi 3 anni e mezzo dopo, è tutta qui. E non è poco: per il leader di Forza Italia, che ha ormai chiaro che la Corte di Strasburgo non lo riabiliterà e non gli restituirà l'eleggibilità, significa poter ancora dettare legge nella vita politica italiana, provare a fare l'ago della bilancia, e soprattutto tutelare le sue aziende direttamente dal governo. Per il segretario del Pd vuol dire incassare rapidamente un sistema elettorale che lo proietta nuovamente verso Palazzo Chigi, senza dover sostenere una manovra in piena campagna elettorale, e lo riporta saldamente al potere, prima che qualche nuova figura (politica o tecnica) si metta sulla sua strada. I VANTAGGI per gli eventuali contraenti, insomma, sono chiari. Ma la strada non è così semplice. Anche perché nessuno dei due leader ha la stessa forza del patto prima edizione. E nessuno dei due si fida dell'altro. Il terreno di incontro è la legge elettorale. Silvio Berlusconi si è detto disponibile a trattare per arrivare a un sistema "alla tedesca (ovvero un proporzionale non corretto in senso maggioritario). E pur di incassarlo si è detto favorevole ad andare al voto in autunno. Che Berlusconi voglia il proporzionale non è un segreto per nessuno. Come che la proposta Pd, detta Rosatellum, dal nome di Ettore Rosato (sistema misto, composto da 50 per cento di maggioritario per collegi e 50 per cento di proporzionale) non gli piace affatto: perché favorirebbe molto la Lega, che al Nord potrebbe imporre tutti i suoi candidati nei collegi uninominali. UNA VOLTA messa sul tavolo l'offerta, la palla sta in mano a Renzi e ai suoi uomini. La trattativa, i pour parler sono continui e costanti. Lorenzo Guerini, Andrea Marcucci, Luigi Zanda e lo stesso Rosato per il Pd parlano quotidianamente con i capigruppo FI di Camera e Senato, Renato Brunetta e Paolo Romani. Il primo è per il proporzionale, il secondo è sempre stato più possibilista anche rispetto alla proposta del Pd. Renzi è pronto a raccogliere l'offerta, ma per farlo vuole sostanzialmente due garanzie: intanto che la soglia di ingresso per i piccoli sia al 5%, in modo da poter comunque dare un vantaggio ai partiti maggiori. E soprattutto la certezza dell'approvazione della legge (fine luglio) e della data del voto (24 settembre). Perché il segretario del Pd teme che una volta tolta dal tavolo la proposta Rosato (che per le esigenze elettorali del Pd funziona), Berlusconi sarebbe pronto a sfilarsi e a cominciare a temporeggiare. Senza contare che nessuno sa quale sia il controllo dei gruppi parlamentari da parte dell'ex Caimano. Quindi, si procede per gradi e con prudenza. Oggi come testo base verrà approvata comunque la proposta targata Rosato. Ma per andare avanti, la strada la indica lo stesso Renzi in un post Facebook che arriva in serata, alla fine di una giornata in cui le trattative vanno avanti convulse dietro le quinte. "Per tutta la settimana il Pd sarà pronto a incontrare gli altri partiti, nelle forme e nelle delegazioni che siamo pronti a concordare con i singoli schieramenti. E martedì 30, al termine di questo percorso, discuteremo in modo trasparente in Direzione Nazionale della linea da prendere". Insomma, il segretario del Pd incontrerà in questa settimana sia Silvio Berlusconi che Luigi Di Maio: l'obiettivo è quello di inchiodare tutti alle loro responsabilità e alle loro promesse. Come si evince dal ragionamento del post, che parla della "tela di Penelope" della legge elettorale. IL TERMINE degli emendamenti scade venerdì: e nel Pd sono tutti convinti che è per via emendativa che si riesce ad arrivare a qualcosa di simile al sistema tedesco, che può andare bene a tutti. Anche perché le fibrillazioni nel governo ormai sono continue e costanti: tra 10 giorni l'esecutivo rischia di cadere sui voucher in Senato. Sul tedesco l'ok preventivo è arrivato non solo da Forza Italia, ma anche da Mdp e Lega. Da vedere quale posizione assumeranno i Cinque Stelle. Ieri Di Maio è stato dialogante: "Noi abbiamo una posizione di massima apertura partendo dalla legge uscita dalla Consulta". Che prevede un premio di maggioranza alla lista che raggiunga il 40% dei consensi, ma resta un sistema proporzionale se nessuno raggiunge questa soglia. La trattativa, insomma, è tutta su quale tipo di proporzionale sarà. Oggi, per cominciare, c'è il gruppo del Pd. Un passaggio non scontato, perché nel Pd molti, a partire da Andrea Orlando, sono contrari a un proporzionale puro. Ma alla fine la conta si farà in direzione: dove i numeri dell'ex premier sono più che blindati. © RIPRODUZIONE RISERVATA
il manifesto 27.5.17
Il «drago» cinese indebitato
Nuova finanza pubblica. Forte è il timore che un'improvvisa crisi di Pechino riporti il mondo in una cupa recessione; ci si può attendere che il contagio verrebbe contenuto, ma non l’effetto domino di un crollo della crescita del paese sull’economia mondiale
di Matteo Bortolon

È notizia di questi giorni che Moody’s ha declassato la Cina, ritenendola poco affidabile visto il mostruoso debito da essa accumulato. Il governo (ovviamente) protesta contestando la metodologia di calcolo.
Quasi dieci anni sono passati dallo scoppio della Grande Crisi globale e sembra che il tempo non sia trascorso. Quasi non ci ricordiamo più di cosa hanno combinato le agenzie di rating. Si tratta di soggetti privati che forniscono periodicamente delle pagelle sulla solidità finanziaria di aziende e Stati. Più le garanzie sono solide più il soggetto in questione verrà ritenuto affidabile sui mercati e potrà attirare investimenti. Il problema è da una parte che, in quanto fortemente collegate al profitto speculativo rappresentano un po’ la finanza che giudica se stessa; Moody’s per esempio è posseduta da Moody’s Corporation, nel cui azionariato compaiono come maggiori proprietari Berkshire Hathanway, società finanziaria fra le più grandi al mondo capitanata da Warren Buffet (il terzo uomo più ricco del mondo), Vanguard Group, uno delle più grandi società d’investimenti al mondo e BlackRock, altra nave ammiraglia della finanza speculativa. Dall’altro tali agenzie, al centro di macroscopici conflitti d’interesse, hanno fatto errori di valutazione clamorosi, dichiarando sicure banche e aziende che pochi giorni dopo si sarebbero dimostrate completamente marce.
Se ci sono tutti i motivi per non fidarsi troppo di tali istituti, la valutazione non pare dar luogo a sospetti di esagerazione. Se nel suo ultimo testo il grande economista G. Arrighi vedeva ancora una differenza dell’assetto economico cinese rispetto al capitalismo, oggi si fatica davvero a non considerare come essenziale l’omologazione del paese asiatico ad esso. Non solo per la grande quota di investimenti occidentali in Cina, diventata la mecca (come è risaputo) di molte delle maggiori multinazionali manifatturiere. Ma anche per aver riprodotto la dinamica dell’economia a debito in tempi serratissimi e proporzioni mostruose. L’indebitamento pubblico è basso (circa il 20% sul Pil, anche se secondo altre valutazioni oltrepasserebbe il 60%) ma quello delle famiglie è stato calcolato arrivi al 43% sul Pil. Vista la consistenza dell’economia del paese comincia ad essere una cifra rispettabile (il Pil è circa 11mila miliadi di dollari, a fronte di una crescita di un risicato 7%). Ma l’Oedc in un rapporto di marzo scorso calcolava il debito delle imprese non-finanziarie al 160% sul Pil.
Le stime della Banca Mondiale sono simili se non peggiori. Tutto ciò porterebbe la mole del debito (pubblico, privato, e aziendale) sopra il 200% (e secondo alcuni verso il 250%!) sul Pil. A questo andrebbe aggiunto il giro d’affari del settore bancario non ufficiale, detto sistema bancario ombra: trattasi di istituti che sebbene operino in tutte le attività di credito non hanno una reale regolamentazione. Nei paesi occidentali è riconoscita ufficialmente dal 2007-08 la pericolosità di una crescita di questo tipo di attività perché la legge normalmente fissa limitazioni e vincoli per limitare i rischi delle attività bancarie, che invece il sistema ombra è lietissimo di ignorare per macinare profitti – aumentando però la fragilità di tutto il sistema, dando luogo a spiacevoli effetti domino. Nessuno sa la dimensione di questo fenomeno in Cina, secondo alcune analisi 8-20% sul Pil, per altre fino a 70-80%.
La crescita della mole di indebitamento e di attività creditizie sregolate è un sintomo abbastanza sicuro di finanziarizzazione spinta dell’economia e di bolle finanziarie. Per questo forte è il timore che una improvvisa crisi cinese riporti il mondo in una cupa recessione; in virtù del forte controllo politico esercitato sul paese dal Partito Comunista Cinese (che non ha mai abolito i vincoli alla circolazione dei capitali) ci si può attendere che il contagio verrebbe contenuto, ma non l’effetto domino di un crollo della crescita del paese sull’economia mondiale. E in quasi dieci anni non abbiamo elaborato nessuno strumento per ridimensionare veramente la mole della finanza.
il manifesto 27.5.17
Culture, razze, confini
Festival. Un intervento del genetista Barbujani che oggi tiene un incontro a Dialoghi sull'uomo, scritto appositamente per Alias
di Guido Barbujani

L’ottava edizione dei Dialoghi sull’uomo, il festival di antropologia diretto da Giulia Cogoli (Pistoia 26-28 maggio 2017), ha un titolo lungo: La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi. Ma va bene così: a costo di sembrare noiosi, vale la pena di insistere su quanto abbiano pesato nella nostra storia gli scambi e i contatti fra popoli diversi. Siamo tutti bastardi, tanto biologicamente quanto culturalmente, ma rischiamo di dimenticarcene a furia di sentir parlare, in televisione, sui giornali e a cena con gli amici, di linee di confine fra chi è (o ci sembra), come noi e chi invece non lo è.
È una storia vecchia: abbiamo bisogno di parole per definire le cose. Ma queste parole, a prenderle troppo sul serio, tracciano linee divisorie nette: fra bianchi e neri, romani e barbari, nord e sud; oppure (ma è lo stesso) fra vegetariani e onnivori, fra credenti e altri credenti, e fra tutti i credenti e atei o agnostici. Ovviamente, le differenze ci sono, sia biologiche sia culturali: e meno male, se no sai che noia. Però ci sono tantissime sfumature, e il linguaggio corrente le trascura; se ce ne dimentichiamo, se le cancelliamo dal nostro mondo mentale, ecco che tutto si appiattisce intorno a noi. L’operazione comporta dei rischi, e ce l’ha spiegato il premio Nobel Amartya Sen, nel suo Identità e violenza. Un manovale Hutu di Kigali può vedere se stesso solo come Hutu e arrivare a uccidere il suo collega Tutsi, scrive Sen, ma facendolo perde di vista tutto quello che li unisce: essere entrambi abitanti di Kigali, manovali, ruandesi, africani e esseri umani.
L’idea del Festival, allora, è di portare alla luce la ricchissima rete di contaminazioni che hanno fornito tanti elementi in comune sia alle nostre culture, sia (e qui si spiega cosa c’entri la genetica) alla nostra natura biologica: un compito più semplice di quanto si possa immaginare, perché la ricerca ha fatto grandi passi avanti, e oggi comprendiamo bene differenze e somiglianze su cui l’umanità si interroga da sempre. Abbiamo visto, per esempio, che la nostra tendenza a classificare i nostri simili, ad attribuire loro un’etichetta razziale, ci ha impedito per secoli di capire quanto siano piccole le nostre differenze biologiche e come si siano formate. E così, da quando ci siamo tolti gli appannatissimi occhiali della razza, siamo riusciti a leggere nel nostro DNA un sacco di cose sulla nostra preistoria. Oggi sappiamo molto meglio chi siamo (una specie straordinariamente mescolata, in cui ognuno porta pezzi di DNA di provenienza diversissima) e da dove veniamo (dall’Africa), mentre su dove andiamo, purtroppo, siamo incerti e confusi come sempre. Sappiamo che le differenze fra le varie popolazioni umane sono sfumature, reali ma minuscole, in una tavolozza genetica in cui ognuno è identico al 99,9% a qualunque sconosciuto. Stiamo studiando come in quell’uno per mille di differenze ci siano i fattori che spiegano le nostre diverse tendenze ad ammalarci e a rispondere al trattamento farmacologico, il che apre grandi prospettive in medicina preventiva. E abbiamo capito che il nostro carattere, le nostre scelte e i nostri gusti c’entrano pochissimo con i nostri geni, e molto invece col complesso di situazioni ed esperienze individuali che riassumiamo nella parola cultura.
C’è un paradosso: mentre la biologia abbandona la visione razziale perché ha capito che ogni gruppo umano comprende individui molto diversi, con caratteristiche che si sono evolute attraverso scambi e commistioni, una visione simile sta affiorando in ambito culturale. E così nascono forme di razzismo più sottili, secondo cui quello che ci separerebbe dagli altri non starebbe magari nei geni, ma nei nostri schemi culturali, che però sarebbero profondamente radicati e sostanzialmente immutabili. Scontro fra culture, chi non l’ha sentita questa espressione? Col corollario: Non sono razzista, ma santo cielo! questi musulmani sono proprio diversi da noi. Per generare un ampio catalogo dei nuovi razzismi, basta sostituire di volta in volta alla parola “musulmani” l’etichetta di quelli che vorremmo discriminare. Le tre parole-chiave di questa edizione del festival ci ricordano, invece, come le nostre identità siano tutt’altro che immutabili e tutt’altro che impermeabili. Noi speriamo che ragionare insieme sulle nostre migrazioni, sulle nostre differenze e s IL COscambi che sempre ci sono stati fra popoli e culture diversi ci aiuti ad affrontare a mente fredda questa difficile fase, in cui nubi di intolleranza sempre più cupe si addensano sul cielo d’Europa.
DIALOGHI SULL’UOMO CONTRO LA PUREZZA: RAZZE E CULTURE è il titolo del dialogo tra l’antropologo Marco Aime e il genetista Guido Barbujani in programma oggi (ore 18.30 – piazza del Duomo) in occasione della VIII edizione di Pistoia – Dialoghi sull’uomo, festival di antropologia del contemporaneo che si svolge dal 26 al 28 maggio, ideato e diretto da Giulia Cogoli, e promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e dal Comune di Pistoia. Il tema di quest’anno: «La cultura ci rende umani» richiama la nomina di Pistoia a capitale della cultura 2017. Tra gli ospiti: Edoardo Albinati, David Grossman con Paolo Di Paolo, Gianni Berengo Gardin, Roberto Koch; John Eskenazi,Serge Gruzinski e Donald Sassoon; Marco Paolini e Toni Servillo. info: www.dialoghisulluomo.it
il manifesto 27.5.17
«Così sono scampata ai campi di sterminio»
Intervista. L'esperienza sconvolgente di Miriam Lewin, giornalista e scrittrice argentina. «Ogni mercoledì c'era chi partiva per 'il trasferimento': per i voli della morte. A noi, però, veniva detto che sarebbero andati in una fattoria della Patagonia per essere 'recuperati'. Ci credevamo, non potevamo ammettere tutto quell’orrore»
di Geraldina Colotti

«Sono stata detenuta in due centri di tortura clandestini in Argentina, a Virrey Cevallo, gestito dall’Aviazione e all’Esma, gestito dalla Marina. E sono sopravvissuta». La voce è ferma, lo sguardo azzurro e profondo di chi ha guardato in faccia la vita. Miriam Lewin, 59 anni, oggi giornalista e scrittrice, avrebbe potuto essere una dei 30.000 desaparecidos della dittatura argentina, che ha insanguinato il paese tra il 1976 e il 1983. Invece è ancora viva. Nei suoi tanti libri, ha rivisitato quelle pagine oscure consegnandole al presente. Putas y guerrilleras è uno dei libri più sconvolgenti, racconta il ricatto (e il dominio) sui corpi delle donne resistenti compiuto dai militari.
Fino a che punto è lecito salvarsi, e a che prezzo?
Quando mi hanno sequestrato avevo 19 anni. Come molte mie coetanee ero impegnata in un processo di lotta per il cambiamento verso una società più giusta, basata sui diritti e l’uguaglianza. Militavo in un gruppo di supporto alla guerriglia dei Montoneros, con gli studenti, nei quartieri popolari nella provincia di Buenos Aires. Come moltissimi altri, ero clandestina, perché sia io che il mio compagno avevamo subito perquisizioni. Mi hanno sequestrato all’uscita dal lavoro. Era il 17 maggio del 1977. Il golpe c’era stato il 24 marzo del 1976. Avevamo tutti una pastiglia di cianuro, per evitare di tradire sotto tortura, ma l’avevamo fabbricata in casa, l’involucro di plastica era troppo spesso, non feci in tempo a masticarla che me la tolsero. Mi incappucciarono in una Ford Falcon. Mi portarono in una casa. Dai discorsi delle guardie capii di essere vicina al dipartimento di polizia. In un centro di detenzione clandestino.
Già sapevate della loro esistenza?
Sì, era trascorso più di un anno dal golpe, non avevamo conferme ma lo sapevamo. Dopo le torture, con la picana, la roulette russa e tutto il resto, rimasi quasi un anno in totale isolamento, senza contatti con gli altri sequestrati, che venivano trasferiti al massimo dopo una settimana.
Ma perché l’hanno risparmiata?
Erano ossessionati da una mia amica, figlia di un alto ufficiale dell’aviazione, che era nei Montoneros, non se ne facevano una ragione. Era clandestina, e non sapevo dov’era. Non ho parlato. Una volta non ce la facevo più e gli ho detto che li avrei portati in una casa dove avrebbe potuto trovarsi. Una volta in zona, dissi che non potevo riconoscere la casa. Me la fecero pagare. Patricia è poi stata presa per caso, era incinta al nono mese, aveva vent’anni. L’hanno ammazzata insieme al suo compagno e hanno ridato il corpo al padre, trattandosi di un alto ufficiale. Quello del compagno è ancora desaparecido. I militari non riuscivano a capire perché la figlia di uno di loro potesse stare con il nemico. Non fu la Marina ad arrestarla, ma a quel punto, visto che il 90% del mio interrogatorio riguardava la sua cattura, forse pensarono che non aveva più senso uccidermi, o forse si erano abituati alla mia presenza. Non so. È stato come nei campi di concentramento nazista. Un terno all’otto. Alcuni sono sopravvissuti e altri no. Quelli che hanno collaborato sono stati comunque uccisi e altri che non lo hanno fatto se la sono cavata. Mi ricordo un episodio. Un’amica mi aveva raccontato che, durante una perquisizione avevano trovato delle foto in cui andava in barca con il padre, un istruttore di vela. Quando uno dei carcerieri mi parla, dico: «Questa è innamorata del mare, il padre ci portava spesso in vela». Non era vero, ma da quel momento, quel repressore ci ha preso sotto la sua protezione, se lei non mi avesse raccontato quell’episodio, forse sarebbe finita come tutti quelli che ogni mercoledì partivano per «il trasferimento»: per i voli della morte. A noi, però, veniva detto che sarebbero andati in una fattoria della Patagonia per essere «recuperati». Ci credevamo, non potevamo ammettere tutto quell’orrore. Non potevamo ammettere che i bambini fossero regalati come bottini di guerra. Solo che poi ritrovavamo le scarpe e gli oggetti dei nostri compagni, che venivano buttati giù nudi dagli aerei. Uno, portato per errore sull’aereo della morte, era tornato indietro. Aveva raccontato il viaggio, il Pentotal…
Perché vi tenevano in vita?
Il nostro era lavoro forzato, ufficialmente deputato a «redimerci». Ma c’era anche un progetto più ampio. L’ammiraglio Massera voleva costruirsi un futuro politico oltre la dittatura, convertirsi nell’erede del generale Peron, morto nel ’74: diventare un leader populista andando alla presidenza con elezioni democratiche. Aveva bisogno di cervelli. Il suo era un piano economico di estrema destra, ma basato su un nazionalismo critico verso le privatizzazioni e l’apertura delle frontiere. Voleva costruire una piattaforma attraente come quella di Peron, aveva legami con il peronismo di destra, con i sindacati e anche con la socialdemocrazia tedesca. Non era stupido. Nel ’78 si ritirò dalle Forze armate, fondò un suo partito… Intanto ci mettevano alla prova. Ci portavamo persino al ristorante, ci comunicavano i loro piani di sequestro per vedere come reagivamo, sapendo che avrebbero sterminato le nostre famiglie e i nostri compagni se avessimo parlato. Una tortura raffinata, in grado di distruggere i rapporti di solidarietà fin nell’intimo: non potevamo fidarci dei nostri stessi compagni. Poi, quando ero in libertà vigilata, ci hanno tenuto a disposizione in un appartamento predisposto. Finché non mi hanno ridato il passaporto e sono andata negli Usa. Poi sono rientrata con il ritorno alla democrazia.
E ora? L’alternativa a Macri resta all’interno del peronismo o è il momento per un’altra sinistra in Argentina?
Nel ’93, andai a Mosca con una equipe di giornalisti internazionali, durante il periodo dell’attacco alla Duma. Da una parte c’era una manifestazione degli ortodossi, dall’altra una con la foto di Stalin. Un collega svedese non capiva. Nel peronismo c’è sia la destra cattolica fanatica che l’estrema sinistra marxista. Il peronismo – che ha dato il voto alle donne, le vacanze pagate eccetera – è espressione sia della lotta operaia e popolare (non c’è un altro movimento che la esprime), che dell’estrema destra. Non è difficile capire il peronismo, difficile è militarvi, perché l’amico politico di oggi, domani può voltarti le spalle. È successo negli anni ’70, quando il peronismo di destra creò la Triple A, l’Alleanza anticomunista argentina che ammazzò centinaia di oppositori politici, anche peronisti. La repressione cominciò con Isabel Peron, la vedova di Peron. Il figlio di una delle fondatrici delle Madres è scomparso nel ’75. Il kirchnerismo è un fenomeno speciale del peronismo. Nessuno si sarebbe aspettato che Nestor Kirchner realizzasse il piano di governo progressista portato più avanti da Cristina: una politica keynesiana che ha rivitalizzato il mercato interno con innumerevoli misure popolari. Dalla morte di Nestor, nel 2010, molti adolescenti sono tornati alla militanza, e questo ha reso possibile l’interesse per la memoria, i processi ai repressori. Certo, c’è corruzione, ma i media silenziano le responsabilità dell’attuale governo e amplificano quelle del kirchnerismo. E in America latina c’è un odio atavico, di classe e di razza, delle oligarchie verso le classi popolari: in Argentina, in Brasile come in Venezuela
il manifesto 27.5.17
Lo stato postmoderno dove regna la paura
Tempi. «Terrore sovrano» di Marina Calculli e Francesco Strazzari per Il Mulino. Il libro è un’ottima bussola per evitare le trappole della propaganda e i discorsi geopolitici reazionari, addentrandosi nel mondo arabo
di Simone Pieranni

Tra terrore ed entità statale esistono diversi nessi e proprio la storia degli stati arabi lo dimostra: la violenza – nel tempo – è stata utilizzata tanto per controllare territori, quanto per dare vita a nuove strutture di potere e per reclamare nuove forme di autorità e sovranità. Analogamente, il legame tra stato e terrore appare in grado di autoalimentarsi attraverso un rapporto ravvicinato tra la violenza usata per reprimere il terrore e la sospensione dei valori «liberali» delle nostre società, per creare «stati di eccezione» proprio in contrasto alla violenza dei terrorismi.
Se è vero che spesso si parla (specie in televisione) o si scrive con approssimazione su temi come islamismo, terrorismo, sovranità e territorio, è altrettanto realistico trovare pubblicazioni serie e articolate che finiscono per profondersi in «specialismi», dando vita ad analisi ricche e sicuramente originali, senza tenere conto però della concatenazione che esiste tra un determinato luogo, e tutto quanto vi accade, e processi in atto nel resto del mondo.
MARINA CALCULLI e Francesco Strazzari in Terrore sovrano, stato e jihad nell’era postliberale (Il Mulino, pp. 204, euro 16) analizzano la peculiarità dello sviluppo filosofico e politico del mondo arabo, attribuendogli indubbia specificità (per esempio nella carrellata sulla formazione degli stati in epoca post coloniale, rivendicando una originalità di quel processo al di là delle indubbie influenze occidentali) ma collegandolo a quanto nel frattempo accadeva nel resto del mondo, considerando dunque quei fenomeni economici e sociali internazionali fondamentali per comprendere a pieno le ragioni di determinate evoluzioni.
Ecco allora che la trasformazione del concetto di «stato» nel mondo arabo (determinante per comprendere il sorgere dei fenomeni jihadisti) e la sua importanza nel mondo contemporaneo, non può essere isolato rispetto a quei processi neoliberisti che hanno finito per modificare per sempre le percezioni di sovranità, legittimità e «patto sociale». Come scrivono gli autori del volume, per comprendere la strategia dell’Isis, i suoi metodi e il suo scombussolare il concetto di entità territoriale (pur rifacendosi nel nome a un’entità statuale, così come del resto aveva fatto al Qaeda, «la base») è necessario comprendere il mutamento del concetto di sovranità nel mondo arabo; si tratta infatti di una trasformazione motivata «dal modo in cui lo stato si ridefinisce nell’era del neoliberismo economico: se da una parte il dato territoriale resta il marchio visibile della resilienza dello stato nazione, dall’altra la sfera della politica rappresenta sempre meno il fulcro dell’esercizio della sovranità politica», ovvero tutto quanto sancisce il patto sociale tra governanti e governati.
In epoca neoliberista, infatti, le «comunità immaginate» delle nazioni si disgregano perché si articolano in nuovi comunitarismi, «nuove forme di interazione e nuove realtà politiche che seguono i flussi del capitale privato». In questo senso si può leggere l’approdo di quella «guerra fredda» del mondo arabo che per molto tempo è stato ben rappresentato dal tentativo laico egiziano contrapposto all’Arabia saudita, e poi dalle proposizioni socialisti (o tendenti al socialismo) contrastate da spinte religiose fomentate da Stati uniti e potenze occidentali che ben vedevano qualsiasi forza si contrapponesse all’ateismo di matrice sovietica.
QUANDO LA SIRIA di Assad – per esempio – passa alla sua fase di politica economica mista, «alla cinese», come viene ricordato nel libro, e spuntano le prime banche private e arrivano le prime conseguenze delle riforme in senso liberista, Damasco perde la fiducia dei governati, che finiscono tra le braccia di enti religiosi, da sempre attivi nel mondo della carità e del sostegno ai meno abbienti, e in grado di inserirsi in imponenti flussi di denaro privato, tanto interni, quanto internazionali, data la «guerra fredda» ancora in corso.
Questi «nuovi comunitarismi», dunque, «sono solo apparentemente un ritorno alla tradizione, mentre in realtà rappresentano la sua invenzione postmoderna, inseguendo le modalità tipiche di organizzazioni sociali neoliberiste», quanto di più simile – come viene ricordato nel volume – a quella tendenza che per Deleuze e Guattari «crea macchine mondiali ecumeniche e neoprimitivismo».
La concomitanza della stessa matrice tra stato e terrore giunge al suo culmine quando una forza egemonica si dissolve. Nel mondo arabo postcoloniale – secondo gli autori – questo è accaduto in quattro momenti diversi, quattro «tornanti storici»: il primo riguarda la formazione degli stati arabi, attraverso un nazionalismo preponderante tra il 1950 e il 1970.
È IN QUESTA FASE che si rafforzano gli apparati di sicurezza e la legislazione di emergenza. Il secondo tornante è quello degli anni ’70 e ’80 quello delle riforme volute dagli organismi economici internazionali: è il periodo di forti contestazioni («i moti per il pane») e dello sviluppo di movimenti islamisti «che contestano lo stato secolare». Il terzo momento è la fine della guerra fredda che «in Medio oriente coincide con la guerra del golfo» nel 1990-91. La crisi di egemonia in questo caso è rappresentata dalla volontà di Usa e stati del golfo di «ridimensionare il potere delle repubbliche arabe e socialiste». Il quarto tornante va dall’invasione americana dell’Iraq alle rivolte arabe del 2011: in questo arco temporale si costituiscono quei «regimi di sovranità» non intesi come «organizzazioni internazionali ma come forme di autorità politica svincolate dalla territorialità dello stato-nazione e fortemente corroborate da identità (sunnita e sciita) politicizzate».
NEL MARASMA degli eventi, delle diverse forme di propaganda cui siamo sottoposti, Calculli e Strazzari ci forniscono una bussola per un’analisi di sinistra (con riferimenti, rimandi espliciti e critica anche a Foucault) che non rischia di cadere nel complottismo o nell’anti-atlantismo tout court, mettendo finalmente in discussione anche il grande ritorno della geopolitica, non proprio un termine «chiamato a descrivere un campo del sapere fra gli altri, ma un discorso politico ben strutturato attorno dalla designazione del pericolo, alla costruzione di una minaccia».
Il discorso geopolitico – reazionario, in termini politici – applicato al mondo arabo ha finito per rappresentare i conflitti in atto «come espressioni identitarie ancorate al dato etnopolitico», dando per scontato che dietro tutto quanto ci sia una realtà orchestrata «più o meno sinistramente», dal calcolo di potenze globali o regionali che competono per l’egemonia. Il rischio – in cui cade anche molta «sinistra» – è quello di confondere le volontà egemoniche (o di «sicurezza nazionale») dei governi con i conflitti sociali e di classe interni ai singoli stati o ormai giocati anche su livelli transnazionali.
LA GEOPOLITICA predica di fondarsi sul realismo prediligendo due nozioni su tutti, interesse e sicurezza nazionale. Ma questi due concetti sono oggi gli strumenti con cui le élite di governo «non più ideologiche e post guerra fredda si vincolano a una più ampia base di consenso», prodromi dei recenti populismi e neo-sovranismi «con un occhio a che la bussola resti orientata da un sano realismo anche laddove per paradosso, le dottrine imperanti di estrazione liberale e neoliberale, predicano interdipendenza e globalizzazione».
In questo senso, dunque, il discorso geopolitico trasforma i rischi in minacce reali, candidandosi «al ruolo di ala militarizzante del realismo: quella che solleva il problema del controllo del territorio, dell’azione unilaterale preventiva e risolutiva, quella che porta al negoziato solo dopo il fatto compiuto», quella che, potremmo aggiungere, porta all’egemonia di un concetto di sicurezza, prodromo di desideri di sistemi «sovranisti» sempre più simili tra loro e sempre più autoritari.