sabato 2 febbraio 2019

Corriere 2.2.19
Stilo 2.0
Da Torino all’AsiaI 100 anni delle penne Aurora e le sfide dell’era digitale
«Nel mondo è tornato il gusto di scrivere i biglietti a mano»
Il futuro. Per produrre un pezzo serve fino a un mese
E ora gli artigiani. useranno anche i robot
di Riccardo Bruno


Nell’antica fabbrica dell’Aurora si sta facendo spazio per la prima isola interamente robotizzata che realizzerà penne stilografiche. Lo storico marchio che ha fatto scrivere milioni di italiani, un secolo di vita il prossimo giugno, pensa al futuro. «Le tecnologie ci aiutano, ma sono sempre al servizio della testa e della mani dei nostri artigiani» spiega con orgoglio Cesare Verona, presidente e amministratore delegato dell’azienda torinese.
Nell’era dei computer e dei touch screen è avvenuto un piccolo miracolo alla periferia nord di Torino, all’ombra dell’abbazia medievale di Stura. Negli ultimi cinque anni l’Aurora ha raddoppiato il fatturato, si è aperta ai mercati esteri, arabi e giapponesi impazziscono per questi gioielli che trasformano la scrittura in opera d’arte. Merito di una cinquantina di operai e di un imprenditore con i piedi nella tradizione e la testa al domani. Cesare Verona, 56 anni, porta lo stesso nome del bisnonno, il primo a importare in Italia le macchine da scrivere Remington. «Il segno della scrittura è nel nostro Dna — spiega —. È giusto nutrirsi del passato, ma bisogna avere la capacità di rinnovarsi continuamente». Ha preso in mano l’azienda di famiglia otto anni fa, sfidando lo scetticismo di chi credeva che vendere penne nell’era digitale fosse un’impresa disperata. «Di sicuro non potevamo più pensare di vendere milioni di pezzi a basso costo. Bisognava puntare su prodotti di qualità, di media e alta gamma. E guardare fuori dai nostri confini».
Dieci anni fa la quota del mercato estero era ferma al 3%, adesso supera il 70. «Bisogna conoscere i clienti, adattarsi alle loro preferenze. Gli asiatici per esempio chiedono un pennino finissimo». Aurora vende penne per gli amanti della scrittura o per collezionisti disposti a spendere anche 300 mila euro per un capolavoro di design tempestato di diamanti. «La cosa straordinaria è che l’età dei clienti si sta abbassando — osserva Verona —. Sempre più vengono richieste le stilografiche, si sta riscoprendo il piacere di scrivere un bigliettino a mano, trovare un momento da dedicare ai propri pensieri».
Ogni componente delle Aurora, dal pennino, al cappuccio, al caratteristico fermaglio a goccia, è pensato e realizzato nel laboratori torinesi. Il presidente Verona con passione rivendica il «made in Italy». Ha voluto una bandiera, illuminata anche di notte, all’ingresso della fabbrica, e un tricolore è stampato sulle casacche dei dipendenti, accanto al loro nome e al simbolo storico dell’azienda.
«Siamo tra i pochi ad avere il privilegio di poter raccontare una storia, e abbiamo il dovere di farlo» aggiunge. Ha cercato di trasformare la sede dell’azienda, che era una vecchia filanda, in un polo di attrazione culturale.
Ha riempito di opere di arte contemporanea il cortile e le stanze di lavoro, ce n’è una persino dietro il distributore automatico del caffè. Ha spostato tutta la produzione al pian terreno, e nel piano superiore rimasto libero due anni fa è stato aperto un museo interattivo. Non è per nulla autocelebrativo (su tredici modelli che hanno fatto la storia solo due sono Aurora, tra cui la Hastil disegnata da Marco Zanuso ed esposta al Moma di New York), ma racconta l’evoluzione dei segni, il desiderio dell’uomo di lasciare una traccia di sé, dalle pitture rupestri ai tratti d’inchiostro.
Due volte al giorno, alle 11 e alle 16, è anche possibile scendere tra gli operai, vedere come nasce ogni singola penna, seguendo i meticolosi passaggi manuali che possono durare anche più di un mese. «Abbiamo voluto aprire la nostra casa — conclude Verona —. Ci riempie di soddisfazione vedere che la gente vuole bene al nostro marchio».
I tempi in cui gli studenti curavano la calligrafia con un’«Auretta», o ancor prima con una «Topolino», non torneranno più. Ma le penne «a serbatoio», come si chiamavano un tempo, hanno ancora nuove pagine da scrivere.
Repubblica 2.2.19
Murakami Haruki " Nei miei libri vive un io alternativo"
Lo scrittore giapponese compie settant’anni e in questa intervista si confessa. Il successo planetario, l’indifferenza per la psicanalisi, Trump (sul quale non si esprime), la musica. "Scrivere romanzi è inseguire possibilità"
Intervista di Raquel Garzón


«Tutti viviamo in una specie di gabbia.
Può essere bella, può essere dorata, ma è la gabbia che presuppone il fatto di essere solo te stesso», dice l’uomo che vende libri a milioni e che da almeno un decennio viene dato fra i candidati al Nobel per la letteratura. Murakami Haruki, autore di Tokyo blues, Dance, dance, dance e 1Q84, tradotto in 50 lingue, ha fatto della letteratura un salvacondotto per burlarsi di questa prigionia. E per non concedere interviste, che è parte della sua leggenda.
Ha una barba brizzolata e indossa scarpe da ginnastica nere con lacci arancio shocking.
Il suo quattordicesimo romanzo è la scusa per questo incontro: L’assassinio del commendatore fa riferimento a una scena del Don Giovanni di Mozart e a un dipinto che trova il protagonista, un ritrattista in piena crisi esistenziale. È pubblicato in due volumi (il secondo è appena stato pubblicato da Einaudi, ndt), e solo in Giappone ha venduto un milione e ottocentomila copie.
L’assassinio del commendatore comincia con un sogno inquietante: un artista deve dipingere il ritratto di un uomo senza volto. È nata da qui l’idea del libro?
«No, quel prologo l’ho aggiunto dopo. La prima cosa che ho visualizzato è stato il paesaggio.
Una casa vicina al mare, sulla cima di una montagna: se guardi davanti vedi sempre bel tempo, se guardi dietro sempre nuvoloni. Ho scritto quei paragrafi iniziali e mi sono chiesto che sarebbe successo, perché non avevo idea. Il protagonista racconta la storia della sua sposa, da cui si separa quando lei le dice che non può continuare a vivere con lui. Attraversa il Giappone in macchina, solo, stordito, senza capire che succede, finché, vari mesi dopo, un amico gli presta quella casa».
Molte delle sue storie presentano protagonisti in crisi che hanno passato la trentina.
Che significato ha quell’età per lei?
« Nell’Uccello che girava le viti del mondo ho narrato la vita di un trentenne la cui quotidianità cambia quando scompaiono prima il gatto e poi la moglie. Non so perché scelgo questi protagonisti.
Forse è quel taglio personale, quella ricerca di un senso in mezzo al vacillamento che mi interessa. È come se a quell’età ci rendessimo conto che quella vita è la nostra.
Questo processo di appropriazione mi intriga: una persona che non è più tanto giovane, ma nemmeno vecchia. È libera e vulnerabile al tempo stesso».
Questo personaggio però non si sente molto libero, no?
«La sua crisi è radicale: dipinge ritratti, vive di questo, ma non sa qual è la sua opera. Lotta per capire che cosa vuole esprimere: è la ricerca di una definizione. Il romanzo racconta anche questo: la sua scoperta come artista, il suo stato mentale come creatore».
È mai stato in analisi?
«No, la psicanalisi non mi interessa».
Le manca qualcosa della vita prima della letteratura, all’epoca in cui lei e sua moglie gestivate un locale di jazz?
«Mi mancano l’ambiente, i musicisti. Ma ad agosto ho cominciato a condurre un programma radiofonico a Tokyo.
Sono il deejay e ho recuperato gli aspetti più divertenti di quell’epoca. Scelgo la musica – rock, pop, jazz – e parlo di musica e di letteratura.
Avevo dei dubbi, ma Yoko mi ha incoraggiato. "Puoi farcela. Saresti un buon deejay", mi ha detto. E me la sto godendo. Il sentimento che provo è di puro piacere».
Pubblicò il primo romanzo nel 1979, e la sua routine cambiò: smise di fare le ore piccole, cominciò a correre tutti i giorni… Le piacerebbe che anche i suoi lettori la leggessero con tutto il corpo?
[ ride] «No, scrivere romanzi lunghi come i miei richiede uno sforzo sostenuto e metodico. Non è un lavoro leggero: scrivo con la sensazione fisica di dare tutto; amministro la mia energia come l’aria nelle maratone, e cerco di offrire sempre qualcosa di nuovo.
Spero solo che il lettore tragga piacere dal libro: la sua parte è questa».
Lo chiedevo perché la sua narrazione chiama a raccolta tutti i sensi. C’è musica, sesso, cibo…
«Mi piacciono le cose fisiche. Se scrivo di qualcuno che beve una birra, spero che ai lettori venga voglia di bersene una. Cerco di imprimere questo aspetto nella mia letteratura perché confido nella reazione corporea come qualcosa di autentico, ingestibile, e se compare credo che significhi che la storia funziona».
Scrivere della solitudine, della violenza, della pazzia, qual è la cosa più difficile?
«Far ridere il lettore. Ridere a crepapelle. Molti giapponesi leggono i miei libri in piedi, nella metropolitana: la gente intorno li guarda, può risultare addirittura imbarazzante per loro. Però io sento di aver raggiunto il mio scopo».
Menshiki, il milionario solitario che rende omaggio a Gatsby in questo romanzo, non pensa alla paternità finché non scopre che Marie potrebbe essere sua figlia. Com’è stata la sua esperienza di questo tema?
«Non capisco».
Lei non ha figli…
«No».
Se ne pente?
[ Si prende 30 secondi prima di rispondere] «No. Ma quando ho scritto il romanzo pensavo alla possibilità di aver avuto un figlio.
Ho voluto immaginare che cosa sarebbe successo se, come capita al personaggio, la mia ultima fidanzata avesse avuto una bambina e io non ne avessi saputo nulla per anni. C’è una possibilità molto remota, però esiste. Scrivere romanzi è inseguire possibilità.
Vedo i miei libri come un inseguimento di vite diverse.
Viviamo tutti in una sorta di gabbia, la gabbia che presuppone il fatto di essere solo te stesso. Se sei uno scrittore di narrativa, puoi uscire ed essere qualcosa di diverso. È quello che faccio la maggior parte delle volte».
Fuggire?
«Vivere i miei io alternativi».
Ha un significato particolare per lei il fatto di compiere settant’anni?
«Non sento nulla di particolare, ma neppure mi pento di qualcosa. Ho commesso errori, come tutti, ma quello che è stato è stato.
L’innocenza è inevitabile, in questo sono una specie di fatalista. Mi ha chiesto se mi dispiace di non aver avuto figli. Semplicemente è successo. Non posso farci nulla.
Accetto quello che succede. Può essere che in questo sia diverso da altre persone. Vivo e scrivo i miei romanzi partendo da questa accettazione. È importante per me».
Accetta anche le sue paure?
Cosa teme?
«Sto diventando vecchio. Non so com’è né che cosa si prova, perché è la mia prima esperienza». [ Ride] Nelle sue storie torna sull’amore e sul matrimonio.
Cos’è che li rende inestinguibili?
«Non mi interessano i legami familiari, però mi interessa esplorare tutto quello che succede tra un uomo e una moglie. È una relazione speciale, forse la più importante. Non puoi scegliere i tuoi genitori o i tuoi figli, ma puoi scegliere il tuo partner, e devi essere responsabile nella scelta. Sono sposato da 47 anni con Yoko, e lei è anche la prima lettrice dei miei libri.
Perché l’ho scelta? Non lo so. Ci penso spesso e ancora non so darmi una risposta».
La cultura statunitense fu decisiva per la sua generazione.
Che cosa ne pensa del progetto portato avanti da Trump?
«Sono stato adolescente negli anni 60. La cultura statunitense era eccitante, sfrenata. In quel decennio successe di tutto: jazz, rock, letteratura, pop. Io ho assorbito tutto e me ne sento grato. Però la cultura degli Stati Uniti oggi non è molto stimolante. La politica mi interessa, ma scrivo narrativa. Non faccio dichiarazioni di altro genere».
– © Raquel Garzón / Ediciones El País 2019. Traduzione di Fabio Galimberti
La Stampa 2.2.19
Armistizio del 1940 tra tedeschi e francesi
Spuntano i nastri registrati in segreto
di Leonardo Martinelli


Quel 22 giugno 1940 Hitler non tralasciò alcun dettaglio, perché la Germania potesse prendersi la sua rivincita sulla Francia: nessuno dei simboli possibili, neppure la scenografia. L’armistizio venne negoziato e firmato nello stesso vagone ferroviario dove i tedeschi avevano sottoscritto l’altro ventidue anni prima, che aveva posto fine alle ostilità della Grande guerra. Ma stavolta erano i francesi sconfitti e umiliati. Il Führer fece trasportare quella vettura ristorante dal museo dove, nel frattempo, era stata messa in bella mostra. La sistemò nel medesimo luogo, la radura di Rethondes, nella foresta alle porte di Compiègne. E lui si volle sedere nella poltrona occupata l’11 novembre 1918 dal maresciallo Ferdinand Foch. Aveva ricevuto, sbrigativo e sprezzante, i tedeschi. Ora toccava a lui: Hitler non voleva perdersi niente di quel momento. E ordinò di sistemare segretamente, intorno al tavolo, dei registratori. Perché suoni e voci della rivincita passassero ai posteri.
Non se ne sapeva niente di quelle registrazioni, sparite nel nulla. Ma domani sera, su France 5, uno dei canali pubblici francesi, nel documentario «1940, i segreti dell’armistizio», del regista e storico Emmanuel Amara, saranno in parte riproposte. Già si disponeva delle trascrizioni degli scambi fra le due delegazioni durante l’incontro e dei filmati, ma senza suono. «Avevamo il contenuto ma non la psicologia di quella giornata. Adesso se ne può capire di più», ha sottolineato Bruno Ledoux, collezionista e appassionato di storia. Lui, nel 2015, a un’asta a Monaco di Baviera, si aggiudicò «per qualche migliaio di euro» delle scatole metalliche con 45 dischi di alluminio, registrati solo su un lato, gli stessi che si usavano negli Anni Quaranta. Sopra c’era scritto in francese «Presidenza del consiglio, amministrazione della radiodiffusione nazionale». E poi in tedesco «Verhandlung», negoziazioni. Solo più tardi, ascoltandoli, scoprì di cosa si trattava. Ha deciso di darli ad Amara per il documentario. E ha già promesso di donarli agli archivi di Stato, perché siano disponibili per gli storici.
Cosa portano in più le sei ore di audio? Le esitazioni, le richieste, le minacce. Anche i rumori collaterali (come gli aerei che sorvolavano la radura, per impaurire ancora di più i francesi). Perfino i silenzi, come quello di Hitler, che se ne restò muto e scomparve dopo la lettura di un veemente Preambolo, dove il generale Wilhelm Keithel addossava a inglesi e francesi la responsabilità della Prima e della Seconda guerra mondiale. Si ascolta il generale Charles Huntziger, a capo della delegazione francese, dire che «alcune condizioni non le accetteremo mai, qualunque cosa avvenga». Ma la voce è incerta, trasmette un forte malessere. E i negoziatori mandati da Parigi alla fine accetteranno tutto, pure la divisione del Paese in due, a Nord occupato dalla Wehrmacht e al Sud governato dal regime di Vichy, con il maresciallo Pétain fantoccio dei nazisti. Hitler utilizzò uno dei primi sistemi di registrazione del suono, messo a punto da una società tedesca. Huntziger non poteva neanche immaginare di essere registrato, quando cercava di resistere, spiegando che «la clausola di restituzione di tutti i tedeschi presenti sul territorio francese è contraria al nostro onore e al diritto d’asilo». Niente da fare: loro rivolevano dissidenti ed ebrei fuggiti in Francia. E allora si sente la voce dell’interprete Paul Otto Schmidt che traduce in francese quell’«ordine» di Keithel.
Ma dove erano finiti questi dischi? Il Führer se ne era tenuto una copia e un’altra l’aveva inviata a Pétain. Secondo lo storico François Delpla si trattava di «una minaccia appena velata» nei suoi confronti. Insomma, Berlino, quando voleva, poteva umiliare pubblicamente Vichy, se avessero provato a ribellarsi o a fare i furbi. Quando nel settembre 1944 gli Alleati avevano appena occupato Parigi, i nazisti decisero di trasferire Pétain in Germania, a Sigmaringen, con i suoi uomini fidati. Il maresciallo portò via gli archivi più scottanti in alcuni bauli, distribuiti tra i collaboratori. In uno probabilmente c’erano anche i famosi dischi.
Il Fatto 2.2.19
India, “reddito minimo a tutti”: va in campagna pure il nipote di Gandhi
“Nessuno sarà più povero” - La misura promessa sarebbe inapplicabile viste la quantità di indigenti (circa 400 milioni) e le scarse entrate tributarie. Ma detta l’agenda elettorale
di Cristina Piotti


“Non ci saranno più persone affamate in India. Nessuno sarà più povero”. Questo ha promesso pochi giorni fa ai suoi elettori Rahul Gandhi, leader del principale partito di opposizione indiano, il Congress.
Il figlio di Sonia Gandhi (politica indiana di origine italiana, vedova del figlio di Indira Gandhi), ha infatti promesso in caso di vittoria alle prossime elezioni generali (che si terranno tra aprile e maggio) che implementerebbe una variante del reddito minimo universale, diretto unicamente alle fasce più basse della popolazione.
“Al momento non ci sono dettagli, ma sembrerebbe trattarsi più che altro di una forma di pagamento ai redditi più bassi, piuttosto che di un vero e proprio reddito universale minimo, che in quanto tale è destinato a soggetti ricchi e poveri, in modo incondizionato” sottolinea Luke Martinelli, ricercatore associato dell’Institute for Policy Research dell’Università di Bath. “Non è ancora chiaro a quanto ammonterà il costo della misura o quali prove dovranno essere fornite per rientrarvi, né se il pagamento avverrà per nucleo familiare o su base individuale”. Se i destinatari del reddito sono incerti, quelli della dichiarazione politica sono noti. Non è infatti un caso che la dichiarazione di Rahul Gandhi sia avvenuta in uno Stato contadino, quello Chhattisgarh, dove il partito del Congress ha di recente vinto le elezioni locali, vittoria salutata come un segnale del successo dell’opposizione tra le file dei lavoratori rurali. Quasi il 70% della popolazione indiana ha interessi o lavora nel settore rurale e agricolo.
“Per questo i partiti si concentrano ora sul settore agricolo, nel senso più ampio del termine” ricorda Kenneth Bo Nielsen, analista dell’Università di Oslo. “È ormai evidente che il governo in carica del primo ministro Modi non è riuscito a fare molto per questa fetta di popolazione: il Congress sta capitalizzando il crescente malcontento nel mondo rurale e agricolo”.
Uno scacchiere politico, prima ancora che sociale, tutto da definire. Via Twitter, il Congress ha fatto sapere che i numeri della misura saranno rivelati in futuro, contestualmente alla pubblicazione del manifesto politico del partito. Qualche esempio di cosa potrebbe prefigurarsi, però, c’è: “Tra il 2011 e il 2013 un esperimento di reddito universale di base è stato condotto nello Stato indiano di Madhya Pradesh, con ottimi risultati in termini di livelli di indebitamento delle famiglie, salute e equità di genere. Ma era un progetto finanziato dall’Unicef, non tramite tassazione” ricorda Martinelli. E se il medesimo piano fosse esteso all’intero subcontinente, i numeri sarebbero imponenti: basti pensare che, secondo la Banca Mondiale (dati del 2011) il 21,9% degli 1,2 miliardi di indiani vive sotto la soglia della povertà. “La sfida è proprio il finanziamento dovendo assicurarne uno sufficiente e stabile in un contesto, come quello indiano, di insufficienti incassi provenienti dalle tasse”, continua Martinelli. “Tuttavia l’alto livello di disuguaglianza sociale, l’ampio e complesso spettro di programmi di sussidi anti-povertà rendono l’India un candidato ideale al reddito minimo. Senza contare che esiste un database per le carte d’identità biometriche, chiamate Aadhaar, che potrebbe ridurre le eventuali frodi”.
Quanto alle reazioni del governo in carica, il primo a parlare è stato il portavoce del Bjp, partito del primo ministro Narendra Modi, che ha bollato l’idea come populista e inattuabile, perché troppo costosa. In India esistono già oltre 900 piani e programmi di sussidio, che arrivano a pesare per quasi il 5% del Pil nazionale, periodicamente tacciati di inefficienza, frodi e sprechi. Nonostante i dubbi, il colpo di scena è atteso: i commentatori politici indiani sono pronti a scommettere che, pur di non perdere voti, il Bjp si troverà costretto a fare un annuncio simile nelle prossime ore. “È davvero troppo presto per dire se si arriverà mai all’approvazione del piano che dovrebbe confrontarsi con l’opposizione delle élite rurali, dei proprietari terrieri e della classe media urbana”, secondo Nielsen. “Portare il tema della povertà al centro dell’agenda politica indiana, è comunque importante”, chiosa.
La Stampa 2.2.19
Il duello fra Netanyahu e Gantzper conquistare i militari 

di Rolla Scolari

Nella fotografia in completo scuro, le bandiere di Israele sullo sfondo, i due generali si stringono la mano, le braccia alzate verso l’alto. Uno di loro, il fotogenico ex capo di Stato maggiore Benny Gantz, è il più credibile rivale del premier israeliano Benjamin Netanyahu al voto anticipato di aprile. E pochi giorni fa, quando ha aperto la sua campagna elettorale con un discorso a Tel Aviv, ha annunciato l’alleanza con un altro militare da poco entrato in politica: l’ex ministro della Difesa ed ex capo di Stato maggiore, Moshe Ya’alon. E Gantz starebbe corteggiando altri due ex capi di Stato maggiore: Gabi Ashkenazi ed Ehud Barak.
Se da ex generale Gantz richiama i riservisti, colora i suoi cartelloni elettorali di verde militare, completandoli con una grafica che ricorda quella usata dall’esercito, pubblica video di quartieri di Gaza rasi al suolo nelle operazioni condotte sotto il suo comando, da politico Netanyahu decide di passare al contrattacco sullo stesso campo. D’altronde, dopo l’alleanza con Ya’alon, il movimento di Gantz sale nei sondaggi e accorcia il distacco con il primo ministro, che per contrastare l’assalto degli ex militari moltiplica le visite alle caserme e ai soldati in divisa, invitando giornali e televisioni a ogni uscita. Netanyahu, che soltanto pochi giorni fa ha annunciato dopo un’era di ambiguità che Israele bombarda da anni obiettivi iraniani in Siria, appare con i paracadutisti dopo un’ispezione a un loro deposito. Era stato prima in visita a una base nel deserto del Negev. In un Paese in cui due premier – Yitzhak Rabin ed Ehud Barak – sono arrivati al potere dopo carriere militari, dove vince il candidato capace di convincere sulla sicurezza, Netanyahu non può che difendere il suo soprannome di Mr. Security davanti a rivali che hanno lanciato una sfida in quella direzione: erodere elettorato alla destra che si vuole campione della sicurezza e alla sinistra che soffre perché in quel campo manca di credenziali.
La trasversalità del movimento del rivale - Hosen L’Yisrael (Resilienza per Israele) potrebbe diventare una preoccupazione per Netanyahu: «Né destra né sinistra», è uno degli slogan della campagna di Gantz. E se l’immagine bellica del comandante convive con un messaggio di dialogo - «Non bisogna vergognarsi di volere la pace», recita lui in un video - la presenza di una figura come Ya’alon, che sostiene la presenza di insediamenti israeliani nei Territori palestinesi, va in direzione opposta a quanto detto da Gantz nel discorso del debutto. Il candidato ha parlato del rafforzamento di soli tre blocchi di insediamenti in Cisgiordania, suggerendo così la possibile evacuazione di quelli più isolati: una posizione che potrebbe avvicinargli elettorato di centro sinistra.
il manifesto 2.2.19
Maduro o non Maduro, Mosca pensa ai suoi interessi
Putin invia un team di diplomatici a Caracas. L'obiettivo è parlare con tutti e trovare una soluzione che non metta a rischio le relazioni economiche
di Yurii Colombo


Sono giorni di grande fibrillazione per la diplomazia russa per trovare una via d’uscita alla crisi venezuelana. Voci e notizie si rincorrono ma spesso sono fantasiose. Come quella, riportata da molte testate secondo la quale nei forzieri della Banca centrale russa sarebbero stati depositati 20 miliardi di dollari in oro venezuelani. Priva di qualsiasi fondamento anche la voce secondo cui 400 contractor russi sarebbero presenti a Caracas.
Risulta invece confermato che un team di diplomatici russi sia atterrato in Venezuela e abbia preso contatto con i vertici dello Stato, dell’opposizione e dell’esercito (il ministero degli Esteri conferma inoltre la misteriosa notizia di aver spedito un aereo civile vuoto a Caracas).
La Russia intende giungere a una soluzione che tuteli i suoi interessi, e non lo nasconde affatto. Ieri l’autoproclamato presidente Juan Guaidó ha voluto mandare un esplicito messaggio in questo senso sia alla Russia sia alla Cina. «La cosa più vantaggiosa per Russia e Cina è la stabilità del paese e il cambio di potere: Maduro non protegge gli interessi del Venezuela, non protegge gli investimenti di nessuno, quindi non è redditizio neppure per questi Stati», ha dichiarato Guaidó alla Reuters.
Dopo poche ore è giunta la replica del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov che suona come una vera apertura di credito verso l’opposizione: «Indipendentemente dallo sviluppo della situazione politica in questo paese, speriamo e attendiamo con impazienza di poter proseguire e sviluppare le nostre relazioni commerciali ed economiche» ha dichiarato Peskov. Che ha poi precisato come per ora il referente di Mosca resti Nicolás Maduro.
Ma quest’ultimo non deve aver apprezzato la sortita di Peskov. Mosca ora si aspetta che la crisi si possa risolvere per via negoziale e elettorale e senza una crisi militare che costringerebbe Mosca a schierarsi obtorto collo con il governo bolivariano.
Non è certo il realismo politico ciò che manca alla Russia di Putin. «Ci sono rischi per l’attività delle compagnie russe in Venezuela, sarebbe sciocco negarlo» ha detto ai giornalisti il vice primo ministro Dmitry Kozak. Interessi corposi: non si tratta solo dei 17 miliardi di dollari di esposizione creditizia e delle partecipazioni azionarie in molte società petrolifere venezuelane, ma anche degli 11 miliardi di forniture belliche del periodo 2005-2017 mai pagate dal governo venezuelano.
il manifesto 2.2.19
Unico negoziato: la resa di Maduro
Venezuela. Guaidó chiude alla mediazione di Messico e Uruguay. E cita Desmond Tutu: «Se sei neutrale in situazioni di ingiustizia, hai scelto il lato dell’oppressore». L’Onu è pronta a inviare più aiuti, ma solo d’intesa con il governo
di Claudia Fanti


È diventato quasi un ritornello: «Fine dell’usurpazione, governo di transizione, elezioni libere». L’autoproclamatosi presidente ad interim Juan Guaidó lo va ripetendo da giorni, seguendo fedelmente il copione dettato dagli Stati uniti. E lo ha ripetuto anche nella sua lettera ai presidenti dell’Uruguay e del Messico, Tabaré Vázquez e Manuel López Obrador, in risposta alla loro convocazione di una conferenza internazionale, il 7 febbraio, diretta a stabilire le condizioni per «un nuovo meccanismo di dialogo» con l’inclusione di tutte le forze venezuelane.
UNA PORTA SBATTUTA IN FACCIA ai due presidenti, con tanto di citazione di Desmond Tutu – «Se sei neutrale in situazioni di ingiustizia, hai scelto il lato dell’oppressore» – e di invito a schierarsi «dalla parte giusta della storia». In nessun modo, ha ribadito Guaidó, «le forze democratiche e le istituzioni legittime, e ancor meno il popolo del Venezuela, accetteranno di partecipare a trattative dirette a mantenere al potere con l’inganno chi viola i diritti umani». Cosicché l’unico negoziato possibile è quello per definire la resa di Maduro, cioè «i termini della fine dell’usurpazione» in maniera da dare avvio a «un processo di transizione che culmini con la realizzazione di elezioni libere».
UNA MEZZA PORTA IN FACCIA, tuttavia, l’ha ricevuta anche Guaidó. Il colpo è arrivato dal segretario generale delle Nazioni unite António Guterres, che, rispondendo alla sollecitazione, da parte del leader dell’opposizione, di un incremento dell’aiuto umanitario, ha risposto, attraverso il suo portavoce, Stephane Dujarric, che «le Nazioni unite sono pronte a intensificare le proprie attività umanitarie e di sviluppo in Venezuela», ma che a tal fine «si richiedono il consenso e la cooperazione del governo». Cioè di Maduro.
Specificando infatti come il riconoscimento dei governi non sia una prerogativa della segreteria generale dell’Onu, ma degli stati membri, Guterres ha dichiarato di rispettare «le decisioni» dell’Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza – schierati maggioritariamente a favore della legittimità della presidenza Maduro – ed evidenziando il «ruolo chiave» che la comunità internazionale può assumere per favorire «accordi inclusivi», attraverso per esempio la conferenza convocata dal Messico e dall’Uruguay.
UN’INIZIATIVA DIPLOMATICA, in realtà, viene anche dall’Unione europea, per quanto chiaramente sbilanciata a favore di Guaidó. Da Bucarest, infatti, l’Alta rappresentante Ue Federica Mogherini ha annunciato la creazione di «un gruppo di contatto internazionale per accompagnare il processo democratico verso nuove presidenziali in Venezuela». Coordinato dalla Ue e composto da paesi europei, tra cui l’Italia, e latinoamericani, il gruppo avrà 90 giorni di tempo per creare le condizioni necessarie affinché i venezuelani possano «esprimersi in modo democratico e pacifico con nuove elezioni presidenziali».
MA PER QUANTO l’iniziativa accolga una richiesta centrale di Guaidó, nella destra latinoamericana c’è pure chi l’ha definita «inaccettabile»: il gruppo di contatto, ha esclamato su Twitter la vicepresidente della Colombia Marta Lucía Ramírez, serve solo a dare ossigeno «a una dittatura criminale, senza tener conto dei rischi per la regione. Che direbbero se noi facessimo così con l’Europa?».
Anche in ambito non governativo si cercano soluzioni, come quella – che sicuramente non piace a nessuna delle due parti – di un referendum consultivo vincolante in cui sia la popolazione venezuelana a esprimersi a favore o contro la convocazione di elezioni generali (presidenziali comprese). Una proposta che ha ricevuto il sostegno di circa 200 intellettuali e rappresentanti di organizzazioni sociali e politiche di tutto il mondo, tra cui Edgardo Lander, Emiliano Terán Mantovani, Miriam Lang, Maristella Svampa, Eduardo Gudynas, Pablo Solón, Raúl Zibechi. Nomi, tutti questi, riconducibili alla sinistra più critica nei riguardi del modello capitalista ed estrattivista portato avanti dai governi progressisti latinoamericani.
La loro dichiarazione, non a caso, non è certo tenera nei confronti di Maduro, accusato di governare attraverso «uno stato di eccezione permanente» e di portare avanti politiche che accentuano l’estrattivismo «a spese della società e della natura».
MA PER I 200 FIRMATARI la creazione di uno stato parallelo sostenuto dagli Stati uniti non farebbe che aggravare la crisi, scatenando una devastante «guerra civile con partecipazione internazionale» ed esponendo il paese al rischio di smembramento e di «rapina da parte di diversi interessi internazionali», come «accaduto in altre regioni del mondo».
Così, respingendo «l’autoritarismo del governo Maduro», l’autoproclamazione di Guaidó e l’interventismo Usa, i firmatari esprimono il proprio sostegno a soluzioni negoziate, come quella del referendum consultivo, in cui sia il popolo venezuelano a «decidere, democraticamente e dal basso, il suo destino», riannodando «i processi di democratizzazione che aveva costruito ai suoi inizi la rivoluzione bolivariana».
Il Fatto 2.2.19
Altro che razzista, il Klan è una “vittima”
Stati Uniti - Imbarazzo all’Fbi, rapporto accusa attivisti di violare i diritti dei suprematisti
Altro che razzista, il Klan è una “vittima”
di Giampiero Gramaglia


Che non si dica più che gli Stati Uniti non rispettano i diritti civili e sono insensibili alla loro tutela, solo perché ci si ricorda, un po’ confusamente, di avere visto Mississippi Burning o Easy Rider. L’Fbi ha recentemente aperto e condotto un’inchiesta per “terrorismo domestico” contro un gruppo che si batte in California per i diritti civili: nella circostanza, i ‘g-men’ si preoccupavano di tutelare i diritti civili di membri del KuKluxKlan e di neo-nazisti e suprematisti bianchi, considerando “estremisti” gli attivisti che li contestavano.
I fatti risalgono al 2016. Paradossalmente, la vicenda testimonia che gli Stati Uniti non solo sanno proteggere i diritti di chi si batte per la tutela dei diritti, come racconta il regista nero per eccellenza Spike Lee nel suo BlackkklansMen in lizza per l’Oscar – il film ambientato nel Colorado Anni 70 è basato su una storia vera -, ma si preoccupano pure di garantire la tutela dei diritti a chi si batte contro i diritti altrui.
Sembra un gioco di parole, ma è la ‘morale’ della notizia sviluppata da The Guardian, sulla base di documenti inediti, a partire dalla scoperta che i federali misero sotto sorveglianza il Bamn (By Any Means Necessary), un gruppo di sinistra, dopo che un militante nero era stato accoltellato durante una manifestazione di suprematisti bianchi. L’Fbi decise di appurare se c’era stata “cospirazione” del Bamn contro i “diritti” del KuKluxKlan e dei suprematisti.
I federali guardarono ai militanti del Kkk come “vittime” e ai contro manifestanti di sinistra come a “una potenziale minaccia terroristica”. Quanto alle provocazioni del Kkk, l’Fbi le derubricò all’espressione del pensiero “di sostenitori di un’agenda suprematista bianca”. I controlli sul Bamn portarono a mettere sotto sorveglianza elementi del gruppo: fra gli indizi della “deriva terroristica” furono inclusi le campagne del Bamn contro “strupri e aggressioni sessuali” e contro “la brutalità della polizia”.
Tutto ciò accadeva nell’America di Obama presidente, dove gli agenti sparavano su neri inermi anche per sfogare la frustrazione che ci fosse un nero alla Casa Bianca. Nell’America di Trump, oggi, forse non c’è più bisogno che l’Fbi garantisca i diritti civili dei suprematisti bianchi: ci pensa il magnate presidente a farlo, mettendo sullo stesso piano le violenze del KuKluxKlan e le proteste dei loro oppositori, come accadde, nel luglio 2017, dopo gli incidenti di Charlottesville che fecero una vittima nera.
Non a caso Spike Lee, volle che il suo film uscisse nell’anniversario di Charlottesville, un’estate fa. E attualizzò la pellicola con scene di quegli incidenti e con il discorso del presidente ‘equidistante’ tra i due gruppi, che innescò una nuova ondata di tensioni razziali. L’elezione di Trump ha ridato forza e vitalità al KuKluxKlan e l’avanzata, altrove nel mondo, di movimenti xenofobi e razzisti ne ha persino fatto un ‘prodotto da esportazione’: in Germania, la polizia ha smantellato un gruppo ispirato al KuKlux-Klan (si chiamavano ‘Cavalieri nazional-socialisti del KuKluxKlan in Germania’); e il neo-eletto presidente brasiliano Jair Bolsonaro, ha rifiutato in campagna elettorale l’appoggio del Kkk statunitense. Per la cronaca, l’inchiesta dell’Fbi a tutela del KuKluxKlan e contro il Bamn è stata un buco nell’acqua: s’è chiusa con un nulla di fatto, non essendo emerse prove a sostegno della tesi d’accusa.
Il Fatto 2.2.19
Siria-Francia solo andata: tornano gli orfani del Califfo
di Luana De Micco


Circa 130-150 foreign fighters, uomini e donne detenuti dalle forze curde in Siria, e con loro numerosi bambini, potrebbero rientrare in Francia nelle prossime settimane. “Ci stiamo preparando all’eventualità. Abbiamo fatto una scelta: preferiamo rimpatriarli”, ha detto la ministra della Giustizia Nicole Belloulet. Finora Parigi era stata di un altro parere. Quando, lo scorso anno, Mélina Boughedir, 27 anni, quattro figli, partita a Mosul nel 2015 e in attesa di processo in Iraq, aveva implorato la Francia di farla rientrare a casa, Parigi le aveva chiuso la porto. A giugno la donna è stata condannata dal tribunale di Baghdad a 20 anni di reclusione: “Quando si parte per Mosul è per combattere. È normale che madame Boughedir venga giudicata dal paese in cui ha commesso i crimini”, aveva tagliato corto il ministro degli Esteri, Yves Le Drian.
Nel frattempo la situazione è cambiata: Donald Trump ha annunciato il ritiro delle truppe americane in Siria, circa 2.000 uomini, abbandonando gli alleati curdi. “Va da sé – ha spiegato la Belloubet –che, se c’è un rischio che i francesi detenuti dai curdi vengano rimessi in libertà e espulsi, è nostro interesse collettivo tenerli sotto controllo piuttosto che lasciarli liberi senza sapere dove sono”. In sintesi, meglio in carcere in Francia che in giro chissà dove, liberi di fomentare nuove azioni.
Il ritorno dei jihadisti però preoccupa i francesi. La Francia è il Paese che ha sofferto di più negli ultimi anni della furia di Daesh. Dal 2015 a oggi più di 250 persone sono morte negli attentati e l’ultimo attacco, al mercato di Natale di Strasburgo, non risale neanche a due mesi fa. Che fare degli ex combattenti di Daesh una volta sbarcati all’aeroporto di Roissy? “Verranno affidati alla giustizia e nella maggior parte dei casi – ha assicurato il responsabile dell’Interno, Christophe Castaner – andranno in prigione”. Una promessa rassicurante, fino a che punto? Le sovraffollate carceri francesi sono diventate negli anni i principali focolai della radicalizzazione di matrice islamista. È in prigione che Chérif Kouachi, uno dei killer di Charlie Hebdo, si era radicalizzato e aveva conosciuto Amedy Coulibaly, autore della strage al supermercato kosher.
I jihadisti rimpatriati raggiungeranno i circa 500 detenuti per terrorismo islamista e 1200 radicalizzati che già contano le prigioni francesi. Sconteranno la pena e un giorno torneranno liberi come le decine di detenuti radicalizzati che già sono usciti di prigione o stanno per uscire. Un’altra “trentina” nel 2019, per la ministra Belloubet. Contro la radicalizzazione nelle prigioni, Parigi sta creando dei quartiers étanches, “zone stagne”, con 1.500 posti, per isolare i detenuti più pericolosi; 450 posti dovrebbero essere pronti per metà 2019. Basterà? Nel suo agghiacciante Les Revenants, il giornalista David Thomson ha scritto: “Non si può essere mai sicuri della sincerità di un jihadista, neanche quando si dice pentito”. C’è anche un’altra questione delicata: che fare dei “leoncini di Daesh”? Tra gli estremisti che la Francia aspetta non ci sono solo adulti, molti sono bambini, il 75% di loro avrebbe meno di 7 anni, secondo la ministra Belloubet.
Bimbi arrivati nelle zone di guerra piccolissimi o nati lì, che hanno visto e vissuto di tutto, che forse hanno già tenuto in mano un’arma e ucciso, e che rientrano con traumi enormi. Per loro è previsto un “trattamento ad hoc”: “Si studierà caso per caso – ha spiegato Le Drian – insieme alla Croce Rossa internazionale e sotto il controllo delle autorità giudiziarie francesi”. Molti saranno affidati a famiglie. Alcuni esperti, come Gilles Kepel, specialista del mondo arabo, ritengono che, se una risposta ottimale al problema dei jihadisti di ritorno non esiste, quella di metterli nelle carceri francesi almeno denota buon senso. È invece contraria al rimpatrio Marine Le Pen: “Il posto di quei fanatici non è la Francia – ha detto la leader del Rassemblement National – quante nuove reclute faranno in prigione? Di quanti nuovi attentati saranno responsabili?”. Nicolas Dupont-Aignant, del partito sovranista Debout la France, ha persino ipotizzato di esiliare gli estremisti islamici nelle lontane isole Kerguelen, minuscoli territori francesi nell’Oceano Indiano.
Corriere 2.2.19
intervista a Hu Xijin, direttore del Global Times, il quotidiano del partito comunista
«Dazi, tra Cina e Usa ci sarà l’accordo
La globalizzazione non si fermerà»
di Guido Santevecchi


PECHINO «Sono ottimista, dopo dieci mesi di scontri abbiamo avuto un negoziato costruttivo, Cina e Stati Uniti sono più vicini e credo che ci sarà un accordo commerciale». Hu Xijin è il direttore del “Global Times”, quotidiano del partito comunista cinese. Vende un milione di copie e ne diffonde altre 100 mila nella versione in inglese, il suo sito ha tra i 20 e i 30 milioni di utenti al giorno. Hu è stato corrispondente di guerra nei Balcani e in Iraq, ha 58 anni e non usa un linguaggio burocratico, non è un conformista.
Direttore Hu Xijin, comunque vada a finire la sfida economica attuale, si discute sempre del rischio di una nuova guerra fredda Washington-Pechino.
«No, la Cina non la vuole e nemmeno il mondo del business americano, forse è un’illusione di qualche élite politica a Washington. Ma dove troverebbero gli alleati? La Cina conta economicamente di più degli Stati Uniti per Paesi come Giappone, Sud Corea, Australia. Per questo dopo dieci mesi Trump vuole un accordo. Gli Usa sono riusciti a contenere e sconfiggere l’Urss perché l’espansione sovietica era solo geopolitica mentre quella cinese è fondata sulla crescita economica e sulle richieste di benessere della popolazione».
Fast food
Anche McDonald’s ha cambiato la vita dei cinesi insegnandoci le catene di distribuzione
In Occidente la globalizzazione è indicata come responsabile dell’aumento della disuguaglianza sociale, come colpevole della fuga di migliaia di industrie, che hanno spostato soprattutto in Cina le loro produzioni
«C’è un fraintendimento, la globalizzazione negli anni ha promosso grandi progressi per tutti, anche da voi. Ora siamo di fronte solo a un episodio nel processo, trovo che non sia corretto incolpare per situazioni di ingiustizia sociale in Occidente la globalizzazione e la Cina. Sa, anche da noi, qualcuno a Pechino e Shanghai si è detto scontento per la globalizzazione interna, crede di aver perso il lavoro per la concorrenza di province cinesi arretrate rispetto alle grandi città, ma in Cina si cerca di migliorare la propria competitività per risolvere i problemi. In passato l’Occidente ha apprezzato la globalizzazione perché la guidava, ha potuto utilizzare pienamente i fattori della produzione e del mercato globale. Forse questo ha creato anche una certa inerzia da voi. Adesso la situazione è cambiata perché altri Paesi sono emersi e l’Europa non è abituata a questa nuova situazione di mercato, ma piaccia o non piaccia la tendenza alla globalizzazione non si può fermare, chi non la vuole si isola».
Come descriverebbe la globalizzazione?
Gli Usa hanno sconfitto l’Urss perché l’espansione sovietica era solo geopolitica, mentre quella cinese è fondata sul Pil
«La globalizzazione è una tendenza promossa dai progressi tecnologici, porta avanti la ridistribuzione dei fattori della produzione e del mercato, è un processo in continua evoluzione e non si limita ai consumi, ma comprende anche i campi della politica, dell’informazione e dei valori»
È un fatto che la Cina si è avvantaggiata dalla globalizzazione. Che cosa succederà se ora vincerà la de-globalizzazione? Finirà anche il miracolo cinese?
«La de-globalizzazione non si realizzerà mai, è solo un’ipotesi, l’illusione di alcuni ignoranti invasati. Tutti i Paesi vogliono vendere i loro prodotti in tutto il mondo. La Cina è la seconda economia della terra, ma la sua popolazione è molto più numerosa di quella europea e con il suo mercato ha contribuito alla crescita di tutti. Ammettiamo che la Cina si separi dal resto del mondo, con 1 miliardo e 400 milioni di persone avrebbe sempre un grande potenziale. Il mercato interno cinese conta più delle sue esportazioni ormai. Le chiedo: che cosa succederebbe in Italia se finisse la globalizzazione? Che mercato avrebbe? Io sono stato in Italia, ho visto tanti turisti nostri, ho visto che le vostre aziende vogliono vendere in Cina: abbiamo bisogno l’uno dell’altro».
In Italia ho visto tanti turisti nostri, ho visto che le vostre aziende vogliono vendere in Cina: abbiamo bisogno l’uno dell’altro
Lei ha scritto che gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo attivo nel percorso cinese di riforme e aperture, negli scorsi 40 anni. Giudizio sorprendente per un nazionalista come lei...
«Sono patriottico, non un nazionalista, sono contro gli scontri strategici e le guerre. Osservo che proprio all’inizio i rapporti molto buoni di allora con gli Stati Uniti, il loro sostegno, hanno dato fiducia alla Cina e hanno spinto per la decisione di una grande apertura, hanno rappresentato un punto di riferimento per le nostre riforme economiche. Durante questi anni abbiamo imparato molto nelle tecnologie, appreso molte idee. Anche McDonald’s ha cambiato la vita della popolazione cinese, ci ha insegnato il sistema delle catene di distribuzione».
Siete in debito?
Il direttore sorride: «Non abbiamo rubato la modernizzazione dagli americani: il primo satellite è stato lanciato dall’Unione Sovietica, il primo uomo nello spazio è stato un sovietico. Sarebbe assurdo dire che gli Stati Uniti avrebbero dovuto pagare i diritti d’autore all’Urss».
il manifesto 2.2.19
Cina, dai Maopai del web alla potenza del capitalismo
Convegni. Un seminario dedicato al Paese di Mezzo, presso il dipartimento degli studi orientali dell'università La Sapienza di Roma. In ricordo di Angela Pascucci, redattrice e inviata de «il manifesto» che ha indagato a fondo la società e la politica cinese
Da «Red» di Wei Hui
di Tommaso Di Francesco


Corrono, si toccano il busto nudo, mettono in fila i corpi, ridono e recitano, danzano: sono i contadini migranti cinesi, i nonmingong che in centinaia di milioni hanno abbandonato a forza le campagne devastate della nuova Cina denghista per lavorare nelle iper-fabbriche mondiali dislocate prima nelle zone speciali, poi un po’ dappertutto; loro i dimenticati da tutti, ma i protagonisti del mega-sviluppo cinese che l’ha trasformata – grazie al loro sfruttamento – nella prima potenza capitalistica mondiale; qui in questo video si rappresentano da soli in un grande capannone della periferia urbana, organizzati dalla performer e danzatrice Wen Hui. Le immagini scorrono dal computer allo schermo in una sala dell’universita di Roma. Uno spettacolo e un lavoro il suo di pratica corporale dentro il quotidiano, di indagine; e che chiamando in prima persona sulla scena i protagonisti, ci ricorda subito la redattrice e inviata de il manifesto Angela Pascucci – autrice di due testi fondamentali, Talkin’China e Potere e società in Cina – che ci ha lasciato nell’aprile 2018.
COSÌ, DOVEVA ESSERE una iniziativa accademica solo per ricordarla, invece il seminario che si è svolto in questi giorni alla Sapienza di Roma, al Dipartimento di studi orientali alla presenza di tanti studenti e di molte presenze significative della sinologia italiana, è stato un vero approfondimento: sulla Rivoluzione culturale e su Mao, argomenti della nuova sinistra cinese che va da figure come Wang Hui alla rivista Utopia e ai gruppi dei Maopai (sostenitori di Mao) molto presenti su web; su quel che resta del Muro della democrazia e di Bei Dao che si richiamava a un umanesimo marxista; sulla strage della Tian An Men del 1989 della quale si continua a tacere in patria; sul caso Bo Xilai; su Xi Jinping che tiene saldo il potere basando la propria politica sul richiamo alla complementarietà dei due periodi, prima e dopo la modernizzazione, ma ora la sua «nuova era» di fatto ridimensiona Deng ed eleva il pensiero di Mao; sul collante del nazionalismo come sostrato che tiene in piedi la società; sulla ripresa di attenzione a Confucio, che si diffonde quasi come «religione» di Stato che ben si confà alla «comunità del destino condiviso» lanciata da Xi…
ANGELA NE SAREBBE STATA contenta. Perché in suo nome sono state rievocate e affrontate quasi tutte le questioni che riguardano l’attualità della Cina e con esse il nodo che rappresenta il «Paese di mezzo» attualmente nel mondo. Del resto, non poteva essere diversamente. Perché proprio questo è stata la ricerca incessante che per trenta anni la redattrice e inviata de il manifesto ha condotto con rigore. Cercando di far interagire la scoperta del nuovo con i processi storici della realtà.
HANNO APERTO la giornata il saluto sul suo «contributo sinologico» della docente Gaia Perini, collaboratrice di Angela, e quello di Enzo Naso, marito e compagno di una vita, che ha ricordato come tutto abbia avuto inizio nel 1984, in un viaggio fatto insieme in un periodo decisivo nel quale, di fatto, si avviava concretamente la svolta capitalista voluta da Deng Xiaoping, che cancellava la collettivizzazione delle terre la realtà di 60mila Comuni popolari e si aprivano le Zone speciali, permeabili all’intervento del capitalismo internazionale; dopo la sconfitta della Rivoluzione culturale, i tentativi di prendere il potere di Lin Biao e soprattutto dopo la morte di Mao nel 1976 e il ritorno sulla scena di Deng Xiaoping e l’avvento di Zhao Ziyang. È l’anno in cui Angela attraversa la Cina per la prima volta, partendo dalle sedi universitarie – non erano forse state tra le «basi» principali delle guardie rosse? – fino all’attraversamento profondo, sui battelli che lungo l’immenso Yangtze Kiang e prima della mega-diga sulle sue Gole, da Chongqing ancora arrivavano direttamente a Shanghai dopo un viaggio di quasi una settimana.
LE DOMANDE POSTE tantissime, ma molte risposte restano inevase e presenti nell’attualità dei nostri giorni. Straordinari i contributi al seminario: in videoconferenza è intervenuto da Parigi il sinologo Jean-Philippe Béja sulle vicissitudini del movimento per la democrazia; «Non solo celebrazioni per la politica di apertura e riforme» è stato il tema della comunicazione della docente Marina Miranda che ha aperto squarci su una stagione di conflitti; Alessandra Lavagnino è intervenuta su «dalla rimozione del passato all’invenzione della tradizione» raccontando di un singolare convegno tenuto a Nishan, la sua città natale, su Confucio a fine 2018; preziosa la relazione di Maria Rita Masci sulla scena letteraria delle riforme «dagli Occhi neri di Gu Cheng alle Colonne di ghiaccio di Can Xue»; poi ha concluso Alessandra Brezzi su «storia, memoria e corpo, l’opera di Wen Hui dagli anni Novanta a oggi».
Una conclusione suggestiva. Tra la riabilitazione ballata del distaccamento delle «guardie rosse dell’Opera di Pechino» e l’agitarsi dei corpi dei migranti contadini che ridendo, battendosi il torso nudo come tamburi, mettono in scena il loro sradicamento doloroso, abbiamo rivisto il lavoro della «performer» Angela Pascucci.
La Stampa 2.2.19
Finisce la stagione del disarmo
Si apre la partita con Pechino
di Stefano Stefanini


Oggi gli Stati Uniti escono dal Trattato sulle armi nucleari intermedie (Inf). Causa: le violazioni russe con i missili SSS-8. Salvo improbabili ripensamenti di Mosca entro sei mesi, l’annuncio del Segretario di Stato, Mike Pompeo, segna la fine di una stagione di disarmo. Purtroppo. Inizia una partita complessa. Mosca e Washington restano protagonisti, ma devono fare i conti anche con la Cina. Al teatro europeo si aggiunge quello asiatico e del Pacifico.
La Guerra fredda si era chiusa con un sistema auto-immunitario che aveva per pilastri i Trattati Inf (1987) e Cfe (armi convenzionali in Europa; 1990). Quell’architettura di sicurezza che oggi rimpiangiamo era figlia del suo tempo. Presupponeva un duopolio strategico mondiale Urss-Usa che non esiste più. La rete si è smagliata lentamente. La Russia si è ritirata dal Cfe nel 2007. L’Inf scricchiolava da tempo.
Le prime accuse di violazione russa risalgono al 2014, da parte dell’amministrazione Obama, in concomitanza con la crisi ucraina. Dopo cinque anni gli Usa ne traggono ne conseguenze. Da oggi gli americani «sospendono gli obblighi» a cui erano tenuti in base al Trattato. Quali sono questi obblighi?
Il nodo del Novator
Le armi vietate sono i missili a testata nucleare, lanciati da terra, con una gittata fra i 500 e i 5500 km, in grado quindi di colpire bersagli compresi fra gli Urali e l’Atlantico ma non di minacciare direttamente l’America dalla Russia o viceversa. Reo di violare il Trattato è il missile russo Novator 9M729 (SSS-8 in gergo Nato). I russi lo negano e ribattono che sono i sistemi di difesa antimissilistica americani a non essere in regola in quanto possono essere convertiti in armi offensive. Difesa d’ufficio debole ma efficace nella comunicazione al pubblico, altro terreno di battaglia.
Nessun negoziato
La posizione Nato, e quindi dell’Italia (nell’Alleanza si decide per consenso e chi non è d’accordo può bloccare), è pienamente coincidente con quella americana: l’SSS-8 è un sistema d’arma vietato dal Trattato. Pompeo ne ha dato atto agli alleati e ha immediatamente ricevuto solidarietà alla richiesta che entro sei mesi Mosca distrugga i missili. Non avverrà. Precedenti tentativi di negoziare con Mosca non hanno dato alcun risultato. Non è nell’interesse russo.
La Russia è giunta lucidamente alla decisione di dotarsi di un’arma che, nella più benevola delle ipotesi, tracima dagli argini Inf perché ritiene di averne bisogno per la propria sicurezza. Per due motivi: uno si chiama Nato, l’altro si chiama Cina.
I rapporti di forza
Sul teatro europeo i rapporti di forza militare si sono invertiti. Durante la guerra fredda all’Urss veniva attribuita una schiacciante superiorità convenzionale, compensata dalla deterrenza nucleare sul versante alleato. Oggi Mosca può sicuramente minacciare la periferia orientale della Nato ma, a torto o ragione, si sente inferiore alle complessive capacità militari e tecnologiche dell’Alleanza (a condizione naturalmente che gli Usa siano della partita). L’arma nucleare è la diventata la sua contro-assicurazione necessaria. Sul versante asiatico il rapporto è ancora più sproporzionato a favore di Pechino.
Il terzo incomodo
Per la Russia l’Inf si era trasformato in camicia di forza. Lo diventa anche per gli Stati Uniti indietro tecnologicamente e privi di un sistema d’arma di cui avrebbero bisogno, guarda caso, proprio e soprattutto nel teatro del Pacifico. La Cina non incontra invece alcuna limitazione Inf, che impegna solo Mosca e Washington.
Parte così una nuova partita nucleare a tre. Dobbiamo sperare che si concluda con un nuovo Trattato Inf. Ci dovrà essere dentro anche Pechino – e possibilmente avere portata «erga omnes». Altre potenze scalpitano sul terreno nucleare e missilistico.
Quanto all’Europa e all’Italia, più vulnerabili senza Trattato Inf, diventa sempre più importante tenersi stretta la Nato e costruire pazientemente ma costantemente una propria capacità di difesa che la renda meno esposta a ricatti nucleari.
Il Fatto 2.2.19
La fuga infinita degli americani
La scelta di Trump di lasciare Kabul non è improvvisa, ma l’ultimo tentativo di Washington di chiudere una guerra imbarazzante per tutti. Ora i Talebani sanno che gli Usa non torneranno


La storia della guerra in Afghanistan, la più lunga sostenuta dagli Stati Uniti, è la storia di un eroico fallimento militare e di un vile fallimento politico dietro l’altro. Il generale Harrison che firmò nel 1953 l’armistizio della guerra di Corea per conto degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite disse di essere stato “il primo generale americano a finire una guerra senza averla vinta”. Da quel giorno gli Stati Uniti non hanno più vinto una sola guerra e alcune le hanno drammaticamente perdute.
In particolare, in Afghanistan, gli Stati Uniti intrapresero una “spedizione punitiva” contro le basi dei terroristi di al Qaeda sostenuti dai Talebani al governo di quel Paese. L’operazione militare fu un successo, ma sul piano politico la “spedizione” non era sufficiente. L’eliminazione di basi di addestramento di qualche centinaio di terroristi non giustificava l’intervento della più grande potenza militare del mondo con uno spiegamento di mezzi e uomini degno di una causa più complessa e di un nemico più dotato. La causa fu subito elevata a guerra globale al Terrore (non ai terroristi) e divenne una questione ideologica, o da psichiatri. Il nemico da battere fu individuato nel regime politico-sociale e religioso afghano e quindi la finalità della guerra si tramutava in regime change, come venivano anche chiamati i colpi di Stato sudamericani sponsorizzati dagli Usa. Non poteva mancare il riferimento alla lotta in favore delle donne afghane costrette dai barbari fanatici a portare il velo. E così la ragione della guerra fu sublimata in ogni sua componente: la Causa, il Nemico, la Mamma.
Con una affrettata dichiarazione di vittoria sul regime talebano, gli Usa ordinarono alla Nato di approntare una Missione di Assistenza al nuovo governo afgano. Si riservarono comunque il compito di continuare le operazioni militari contro le sacche di terrorismo ancora presenti, ma sostanzialmente decisero di iniziare il ritiro delle loro truppe e ricominciare la guerra decennale mai terminata contro l’Iraq. Mai exit strategy e disimpegno militare furono così dolorosi e titubanti come quelli americani in Afghanistan. Fior di comandanti e guerrieri furono esonerati dal comando, le operazioni segrete (anche inconfessabili) presero il posto di quelle regolari, il governo afghano risultò il più corrotto di tutta l’Asia, il Paese tornò a essere leader della produzione e distribuzione di oppio e derivati. Per fortuna, però, alcune donne poterono togliersi il velo.
Il ritiro avrebbe dovuto essere completato entro il 2011, poi entro il 2014 e poi entro il 2016. Ancora oggi il contingente Usa è di circa 14.000 uomini dislocati a Kabul, Kandahar, Bagram e Jalalabad. La missione Nato dall’assistenza passò all’addestramento perdendo ogni competenza operativa, lasciata agli Usa. Nel frattempo lo sfascio in Iraq e Siria e la bella idea degli alleati mediorientali degli Usa di sostenere lo Stato Islamico e degli Usa stessi di sostenere l’opposizione al regime siriano (inclusi i gruppi jihadisti) portarono a una forte recrudescenza dell’opposizione armata in Afghanistan. Le truppe Usa e quelle afghane, addestrate anche dall’Italia, si trovarono ad affrontare i Talebani e un’altra ventina di formazioni di guerriglia armata.
La decisione del presidente Trump di chiudere la guerra non è quindi una sua idea né una semplice promessa elettorale. É la prosecuzione di una esigenza strategica di disimpegno da una guerra imbarazzante che né la potenza militare né la politica egemonica sono riuscite a vincere. Trump si è reso conto di avere un cerino in mano che a parole aveva spento durante la campagna elettorale ma che gli sta ancora bruciando le dita. Messo alle strette dall’opposizione e dalla giustizia, con un accordo di pace con i Talebani pensa di fare ancora in tempo a rivendicare il merito di aver terminato il conflitto e portato a casa i “ragazzi” in armi. Purtroppo per lui deve accordarsi con gli stessi Talebani che gli americani e molti suoi generali hanno sempre dipinto come il “male assoluto”. Per parlare con i Talebani ha dovuto escludere il governo afghano, gli alleati e i potenziali avversari. Trump può fregarsene degli afghani e degli alleati. Lo ha sempre fatto. Non può fregarsene della Russia, della Cina, del Pakistan, dell’India e di tutti gli Stati centro e mediorientali che dovranno assistere a un nuovo squilibrio degli assetti geopolitici. Non può fregarsene nemmeno degli interessi economici che gli stessi americani hanno nell’area. Forse sta pensando di difenderli con i pochi soldati rimasti e con i mercenari. Ma, per definizione, i mercenari difendono i propri interessi che di norma non coincidono con quelli dello Stato nemmeno se vengono pagati da esso. Purtroppo, i Talebani non controllano gli altri gruppi ribelli. Se dovessero tornare al potere anche solo in parte si muoverebbero per conquistarlo del tutto e se dovessero mantenere l’impegno di combattere i “terroristi” (come vogliono gli americani) dovrebbero scatenare una guerra civile. Purtroppo, Trump non ha capito che già sedersi al tavolo con i Talebani per tutti gli americani e molti alleati è una sconfitta. Una di quelle che lasciano i semi per un conflitto successivo. Purtroppo, per tutti noi europei e italiani, l’eventualità di un’altra guerra afghana è una iattura, non tanto perché abbiamo interessi nell’area, ma perché gli Stati Uniti questa volta, ritirate le loro truppe, la farebbero fare a noi. Trump e la maggioranza degli americani non guardano più all’Europa come un alleato o come un competitor, ma come un utile idiota. L’Europa è tornata un’espressione geografica da controllare pezzo per pezzo col bastone o la carota. Un’altra guerra in Afghanistan ce la dovremmo vedere noi sul terreno e chiedere umilmente agli Usa il loro appoggio dal cielo o dallo spazio: a debita distanza, e dietro congruo pagamento del disturbo.
D’altra parte, siamo noi stessi a indurci e ridurci in condizioni di sudditanza. In questi giorni di preliminari discussioni tra Usa e Talebani su un possibile ritiro americano (comunque non totale) già si pensa al ritiro delle nostre truppe. L’atteggiamento è di rammarico e di preoccupazione, ma la sostanza è di intima esultanza. Al primo tweet americano la ministra della Difesa Trenta chiede ai vertici militari di approntare i piani per il rientro. Questi si fingono sorpresi e intanto tirano fuori i piani elaborati cinque anni fa. Il ritiro è dato per scontato perché “senza americani non si va da nessuna parte, sono loro che garantiscono la logistica, la copertura aerea e le truppe speciali”, come ha detto un collega. Ed è vero: senza americani la guerra non si fa. Purtroppo però se ci verrà twittato dovremo farla e poco varrà il fatto che gli afghani hanno bisogno di tutto tranne che di un’altra guerra.
Corriere 2.2.19
il dossier
L’Europa tra due fuochi
Armi nucleari, accuse incrociate di violazioni Stati Uniti-Russia. Cosa succederà ora? L’incognita del posizionamento di nuovi sistemi missilistici.
Ecco le possibili conseguenze
di Paolo Valentino


Negoziato tra gli Stati Uniti e l’allora Unione Sovietica, firmato nel 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbaciov, il Trattato Inf (Intermediate Range Nuclear Forces) proibisce sviluppo, produzione e spiegamento di tutti i missili nucleari basati a terra con raggio d’azione tra 500 e 5.500 chilometri. È stato il primo accordo nella storia del disarmo atomico a prevedere l’eliminazione fisica di un’intera classe di armamenti: Washington mandò al macero i Pershing e i Cruise schierati in Europa, Mosca eliminò i suoi SS-20 puntati contro i Paesi europei della Nato.
Perché il ritiro Usa?
È dal 2014, sotto l’Amministrazione Obama, che gli Usa accusano la Russia di violare l’intesa. Pomo della discordia è il missile Iskander nella variante 9M729, nel codice Nato SSC-8, che secondo i russi avrebbe un raggio di soli 480 chilometri, ma che secondo il Pentagono può volare fino a 2.500 chilometri, cioè in palese violazione dell’Inf. Di più, l’Amministrazione Trump sostiene che il sistema sia stato non solo testato, ma già spiegato a Ekaterinburg, a Est degli Urali, e nel poligono di Kapustin Jar, non lontano da Volgograd, l’ex Stalingrado. Il Cremlino respinge le accuse ma non fornisce prove. In una visita organizzata la scorsa settimana fuori Mosca per un centinaio di giornalisti e addetti militari, i russi hanno mostrato un container di lancio del SSC-8 ma non il missile stesso. Secondo l’esperto tedesco Markus Schiller, l’argomento di Mosca che gli SSC-8 sarebbero una versione modernizzata degli SSC-7, il cui raggio è appunto di 480 chilometri, non convince, poiché le nuove rampe di lancio sono costruite in modo da far sospettare un raggio molto più lungo.
Le accuse di Mosca
La Russia sostiene che il sistema di difesa anti-missile già installato dagli americani in Romania (e prossimamente anche in Polonia) non sia in grado di lanciare solo ordigni difensivi (cioè mirati a distruggere missili in arrivo) del tipo Mk-41, ma anche missili BGM-109 Tomahawk, che nella versione più moderna hanno un raggio di 2.500 chilometri e possono anche essere dotati di testate nucleari. Il Pentagono ribatte che i lanciatori stazionati in Romania sono programmati solo per un sistema difensivo. Ma secondo Schiller, «basterebbero poche ore per cambiare il software» e renderli compatibili con i micidiali Tomahawk. Di più, secondo i russi un’altra classe di missili previsti per il sistema di difesa, gli SM-3, potrebbero diventare offensivi, cambiandone l’inclinazione e dando loro una traiettoria balistica. Nell’uno e nell’altro caso, agli occhi di Mosca si tratta di violazioni dell’Inf. Certo c’è un’asimmetria nelle accuse reciproche: quelle dei russi si basano infatti su interpretazioni controverse dell’accordo, mentre quelle degli Usa sugli SSC-8 si fondano sul fumus di un inganno deliberato da parte di Mosca. Tuttavia è sospetto anche il rifiuto degli Stati Uniti di rendere pubbliche foto satellitari e altre informazioni, che il Pentagono dice di avere e che dimostrerebbero in modo inconfutabile le violazioni di Mosca.
Che succede adesso?
Con l’annuncio di Mike Pompeo che, causa le ripetute violazioni russe, gli Usa sospendono il rispetto del Trattato, inizia da oggi un periodo transitorio di sei mesi, durante i quali le parti sono ancora formalmente vincolate all’accordo. Una breve finestra, che dovrebbe essere utilizzata nell’improbabile tentativo di salvarlo. In assenza di «compliance» da parte di Mosca, Washington si ritirerà definitivamente dall’Inf.
La situazione europea
«Senza il Trattato Inf ci sarà meno sicurezza», avverte il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas. La fine dell’intesa sui missili intermedi darebbe infatti il via a una nuova corsa agli armamenti nucleari. Libere da ogni vincolo, verosimilmente anche da quello del New Start che limita i missili strategici fino al 2021 e difficilmente verrà rinnovato, Washington e Mosca potranno riarmare di pari passo con il vero convitato di pietra della partita, la nuova Superpotenza cinese, che non ha mai firmato alcuna intesa sul disarmo. Tradotta nel teatro europeo, la fine dell’Inf riaprirebbe il tema lacerante di uno stazionamento di nuove armi atomiche americane nel Vecchio Continente. Il riarmo nucleare in Europa diventerebbe una sorta di danno collaterale della nuova confrontazione strategica globale.
Corriere 2.2.19
Trump si ritira dal trattato sui missili
«Mosca lo viola». Ma il timore è la Cina
Dietro la decisione due anni di analisi dei generali del Pentagono. L’Onu: continuate il dialogo
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTON Tempo scaduto: «Avevamo dato alla Russia due mesi per dimostrare di essere in regola con il Trattato. Non lo ha fatto e quindi gli Stati Uniti si sentono svincolati». Con queste parole il segretario di Stato Mike Pompeo ha annunciato il ritiro degli Usa dall’Inf, «l’Intermediate-Range nuclear forces treaty» firmato da Ronald Reagan e Michail Gorbaciov l’8 dicembre del 1987. È l’accordo che consentì la drastica riduzione dei missili schierati da una parte e dall’altra in Europa, bloccando l’escalation cominciata con l’installazione degli Ss-20 sovietici.
Donald Trump ha commentato con una nota: «Non possiamo essere l’unico Paese nel mondo che è vincolato in modo unilaterale da questo Trattato».
Il governo americano attacca: «Il Cremlino ha testato segretamente un ordigno che viola le regole dell’Inf e che pone una minaccia diretta ai nostri alleati e ai nostri militari dislocati all’estero». Il missile in questione è il «Novator», in grado di superare le difese statunitensi e della Nato in Europa.
I russi hanno respinto le accuse, sostenendo che sarebbero stati invece gli americani a rompere l’equilibrio con il nuovo scudo spaziale da completare nell’Est europeo.
In teoria ci sono ancora sei mesi per provare a ricucire. L’Onu ha chiesto alle due super potenze di continuare il dialogo. Ma le possibilità di un recupero sono scarse, perché il problema è più profondo.
La sconfessione dell’Inf è solo una parte di una strategia più complessiva maturata dopo almeno due anni di analisi condotte dai generali del Pentagono, sotto la guida dell’ex Segretario alla Difesa James Mattis, in collaborazione con i servizi segreti militari. Il patto sugli Euromissili viene considerato uno strumento obsoleto, superato dalla tecnologia e, soprattutto, da una nuova realtà geostrategica. Per Washington le minacce principali ora sono due: al dinamismo militare della Russia si è aggiunto quello della Cina.
Mondo tripolare
Per Washington al dinamismo militare di Putin si è aggiunto anche quello di Xi
Nel febbraio del 2018 Mattis scriveva nel documento cardine «Revisione della posizione nucleare»: «Mentre gli Stati Uniti hanno continuato a ridurre il numero e la portata delle armi nucleari, altri, compresi Russia e Cina, si sono mossi nella direzione opposta. Hanno aggiunto nuovi tipi di capacità nucleare, oltre che cibernetiche e spaziali».
Le preoccupazione degli americani, dunque, partono dall’Europa, ma si estendono a tutto il pianeta. Non a caso in quello stesso testo, Mattis analizza anche i limiti dello Start, «Strategic Arms Reduction Treaty», il protocollo che fissa un tetto agli arsenali nucleari. Fu firmato nel 1991, aggiornato nel 2002 con lo «Strategic Offensive Reduction» e poi nel 2010 con il «New Start», che scade il 5 febbraio del 2021.
Per il momento lo scontro è con la Russia, che ha sottoscritto e ora «sta violando quei trattati, mettendo in atto comportamenti aggressivi». Una delle tabelle più citate dal Pentagono è quella sulla capacità deterrente dell’Occidente. Gli Stati Uniti dispongono di 1.797 testate atomiche che, sommate a quelle degli alleati francesi e britannici, diventano 2.207. Quasi un terzo in meno dell’arsenale russo: 3.587 testate.
Ma anche «la Cina — avverte ancora il Pentagono — sta modernizzando ed espandendo la sua già consistente capacità nucleare, oltre a migliorare la sua forza militare convenzionale». Se la Russia minaccia Stati Uniti ed Europa, la Cina «sfida la tradizionale superiorità militare americana nell’Oceano Pacifico occidentale».
La mossa di ieri, dunque, non è un’improvvisazione trumpiana, ma l’inizio di un lungo e insidioso processo per trovare un nuovo assetto non più tra due, ma tre super potenze.
Repubblica 2.2.19
La corsa agli armamenti
La nuova Apocalisse del Dottor Stranamore alla Casa Bianca
Vuole smentire legami col Cremlino ma lascia mani libere anche a Putin
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON  Nell’imperscrutabile labirinto della mente di Donald Trump si smarrisce il trattato che dal 1987 eliminava i missili a testata nucleare di media portate e si riapre una delle finestre più isidiose dell’apocalisse che Reagan e Gorbacuiv avevano tentato di chiudere. L’Amministrazione americana, ieri ufficialmente per bocca del Segretario di Stato Mike Pompeo , ha denunciato le continue violazioni dell’accordo come ragione per abbandonarlo e dunque sull’Europa - perché all’Europa erano destinati quei missili, non alla rappresaglia  diretta tra le superpotenze - torna ad alzarsi un incubo che sembrava dissolto
Come tutte le azioni del settuagenario adolescente che si muove a crisi di nervi e permalose reazioni tra i drammi del mondo e degli Stati Uniti, anche questa decisione ha una doppia lettura. Agli americani, che lo stanno lentamente tradendo nei sondaggi, vuol smentire il sospetto di essere un "Manchurian Candidate", il candidato e poi presidente manipolato dal Cremlino che lo avrebbe compresso con gli affari e dunque lo controlla. Agli alleati europei che da tempo lo guardano come a un loose cannon, a un cannone slegato che vaga sulla tolda delle vecchie navi da battaglia sbattendo e mettendo a rischio l’equilibrio, promette nuovi e migliori accordi, senza specificare quali. Ma per il momento, la rinuncia al trattato Inf — Forze Nucleari Intermedie — lascia anche a Putin le mani libere per sviluppare, come l’ex colonnello ha promesso di fare, armi ancora più micidiali dei missili indicati nell’accordo e altrettanto fa con il Pentagono, al quale, due giorni or sono, Trump ha ripetuto la promessa di trasformare gli Stati Uniti «nella più potente e intoccabile potenza militare della storia». Di fatto, questo significa riesumare un’espressione che trent’anni or sono si sperava di avere archiviato fra i luoghi comuni del giornalismo e della diplomazia: la corsa agli armamenti. La corsa nella quale si era lanciato Ronald Reagan, con la riesumazione delle vecchie navi da battaglia tirate fuori dalla naftalina e il progetto fantascientifico delle "Guerre Stellari". Era una corsa che si era avvelenata proprio con l’avvento di questi missili "intermedi", dalla gittata fino a 5.500 chilometri, dunque capaci di colpire qualsiasi città dell’Europa occidentale da qualsiasi luogo della Russia a Ovest di Mosca, perché in buona parte montati su mezzi mobili.
Chiamati dalla Nato SS-20 e SS-21 rivelarono un’angosciosa vulnerabilità nell’Alleanza euro-americana che il cancelliere tedesco Helmut Schmidt denunciò a gran voce: se l’Armata Rossa avesse voluto polverizzare Amburgo, o Rotterdam o Milano, veramente gli Usa avrebbero risposto, come imporrebbe il Patto Atlantico, scatenando un contrattacco su Mosca, Minsk o Pietroburgo, nella certezza di vedere poi le proprie metropoli incenerite? Senza missili di eguale portata, come i contestatissimi Pershing sul suolo europeo, l’Ombrello Americano avrebbe avuto soltanto stecche inutili.
Fu proprio Reagan, dileggiato come "cowboy atomico", ma poi mostratosi molto più razionale di alcuni suoi successori, a incamminarsi sulla strada di nuovi accordi con quel Mikhail Gorbaciov che aveva scoperto, politicamente e umanamente, molto più disponibile dei suoi marmorei predecessori al Cremlino. Sulla scia del collasso sovietico, ci incamminammo con la carovana del disarmo verso Ginevra, nel primo memorabile "faccia a faccia" in una capannina nel parco. Poi Reykjavík, in Islanda, dove fissammo per giorni le delegazioni americane e sovietiche rinchiuse nelle notti dentro la piccola capitaneria di porto bianca contro il grigio dell’oceano, riunendosi addirittura nei bagni per mancanza di spazio, a discutere della sbalorditiva proposta "zero testate nucleari" avanzata dall’ex cowboy atomico.
La carovana non raggiunse mai quell’oasi impossibile, ma proseguì nella via che era stata aperta negli Anni ’50 da Dwight Eisenhower con Nikita Krusciov, dopo il disastro dell’aereo spia U2 abbattuto nel cielo dell’Urss, proseguita da Nixon, battuta da Ford con i trattati sui grandi missili intercontinentali, seguita da Bush, continuata anche da un dubbioso Barack Obama che nel 2010 firmò un nuovo accordo Start con il ministro degli Esteri Lavrov, pur diffidando del nuovo zar. Sempre lontanissimi da traguardi rassicuranti, e con arsenali ancora irti di migliaia di testate nucleari in terra e in mare, la litania di intese aveva ridotto enormemente l’ansia dell’Apocalisse, sostituita da altre, dopo l’11 settembre. Ed era riuscita a distruggere quasi 3mila dei missili "di teatro", come sono chiamati in gergo perché pensati per il "teatro di battaglia", indicati fra le armi di intermedia gittata.
Oggi, il presidente degli Stati Uniti ha sciolto i cani tenuti faticosamente al guinzaglio, Putin può minacciare rappresaglie e fra due anni scade anche il patto sui grandi ordigni a testate multiple, lo Start, che comunque il Presidente può denunciare ogni mattina con un tweet stizzito. Il Dottore Stranamore torna ad aggirarsi nel labirinto della mente di Trump.
Il Fatto 2.2.19
Sognando l’Europa: Mamadou e i suoi “fratelli”
Sulla Sea Watch per 13 giorni
Il piccolo Mamadou sbarcato due giorni fa a Catania, assieme agli altri 46 migranti
di Giuseppe Borello, Maddalena Oliva


Quando Mamadou inizia a raccontare, lo fa insaponando i piatti. Un colpo di spugna, con la mano, e lo sguardo fermo alla costa, con gli occhi. Quelle luci fisse, a bordo della Sea Watch 3, rimasta in rada per giorni e giorni di fronte al Porto di Santa Panagia di Siracusa, era convinto fossero case: “Come sono alte in Italia!”, esclama. Erano le ciminiere del petrolchimico, ma per lui, come per gli altri 46 migranti salvati dalla nave dell’ong Sea Watch 3, erano la prova che ce l’avevano fatta. Ce l’hanno fatta.
Mamadou, partito a 14 anni anni dalla Guinea, dopo un viaggio via terra durato più di 6 mesi e 13 giorni in mare, è sbarcato due giorni fa a Catania. Vuole fare il calciatore, “come Kalidou Koulibaly”. “Sono partito con una scusa, non ho detto niente a nessuno, altrimenti mica me lo avrebbero permesso”, ricorda. Lo sguardo, per tutti questi 13 giorni, è sempre rimasto allegro, vispo. A differenza di molti altri, minori o adulti che fossero, presi a volte dalla rabbia, a volte dalle lacrime, chi dalla disperazione, chi con l’intento di saltare sulle navi che venivano a rifornire di generi di prima necessità la Sea Watch. È con uno di questi “carichi” che a Mamadou è arrivata la felpa azzurra, diventata la sua “divisa d’ordinanza”. Assieme alle sue orecchie a sventola e ai capelli sparati in aria: inconfondibili per l’equipaggio. Una tuta, inviata come le altre cose da Caritas e dalla città di Siracusa, e indossata al posto di quello che restava della maglietta a mezze maniche con cui era partito, aveva attraversato il deserto, aveva vissuto in Libia, e aveva nuotato, dopo che il suo gommone si era sgonfiato, nel Mediterraneo.
“A mio nonno ho detto che andavo in Senegal a cercare lavoro, invece la mia idea era già quella di arrivare in Libia. Per raggiungere mio fratello, che lavora lì, e che mi ha spedito i soldi per finire il viaggio. Il mio sogno è fare il calciatore, anche se i calciatori francesi non sono un granché… ma lì la vita è tranquilla. Io gioco a centrocampo. La mia squadra preferita? Juventus!”. “Non ho avvertito nessuno perché temevo potessero bloccarmi. Solo in Libia ho chiamato il nonno, per dargli mie notizie, mesi dopo la partenza. Cosa mi ha detto? Che sono un pazzo e che sarei dovuto tornare assolutamente indietro, a casa, perché in Libia avrei corso il pericolo di morire. Certo che sapevo cosa succede in Libia, nei campi… ma io non ho paura, non ho avuto mai paura. Io sono grande. Nel mio Paese, alla mia età, si è già uomini. E io lo sono ancora di più dopo il viaggio”.
Racconta così come in Libia, lui, piccoletto, fosse riuscito a farsi “benvolere”, e a risparmiarsi quello che invece tocca agli adulti. “Ho iniziato pulendo i pavimenti di alcuni negozietti, e poi facevo l’ambulante. Sono riuscito a racimolare così un piccolo gruzzoletto che però non bastava a pagarmi la traversata in mare, perché era davvero pochissimo: e così ho chiamato mio fratello, per farmi spedire i soldi necessari. I miei genitori, invece, li sentirò solo quando sarò al sicuro, quando sarò arrivato in Europa. Non l’ho fatto finora perché sapevo che la paura, la preoccupazione, li avrebbe distrutti. Non mi mancano, ma so che a loro mancherò”.
Il suo momento più bello, racconta, è stato quando, dopo una notte passata pensando che sarebbe tutto finito, ha visto arrivare con le luci del sole le piccole imbarcazioni di salvataggio. Le grida: “We are Europe! Europe!”. Prima di quelle parole, in molti, come Omar, un ragazzo senegalese vicino a Mamadou, pensando si trattasse della guardia costiera libica, si erano abbassati, ammassandosi ancora di più sul gommone uno sull’altro, in tutta velocità. “Io ho capito invece che il mio sogno si stava realizzando”.
Ogni giorno, nel mondo, 44 persone decidono di migrare
C’è chi viaggia da mesi e ha abbandonato la famiglia, chi si muove in gruppo e c’è, in alcuni casi, qualcuno che ha poco da raccontare, qualcuno che non ha lunga memoria di ciò che ha lasciato: sono i bambini. Almeno 300 mila tra bambini e adolescenti, non accompagnati da adulti o separati da essi, sono stati registrati in circa 80 Stati tra il 2015 e il 2016 (erano 66 mila nel biennio 2010-2011). Nel 2017, nell’area dell’Unione europea sono stati registrati oltre 31mila minori non accompagnati (che una sigla identifica come MSNA), in maggioranza afghani. Una su tre richieste di asilo per minori stranieri è stata effettuata in Italia. Otto minori non accompagnati su 10 hanno 14-15 anni, come Mamadou. Il ministero del Lavoro italiano ne ha censiti, al 31 dicembre 2018, 10.787. Sono prima di tutto albanesi, anche se non li “vediamo” perché non arrivano via mare ma via terra, seguendo la rotta balcanica, e poi ci sono i bambini che giungono dall’Egitto, dal Gambia, dalla Guinea, dall’Eritrea, dalla Costa d’Avorio. Rischiano detenzione, lavori forzati, percosse o morte. E, per quasi tutti, il viaggio è anche un rito di iniziazione: a volte parti a 12 anni, arrivi a 15 e, nel frattempo, sei diventato adulto. Ciascuno viaggia con le proprie ragioni, aspettative, fantasie. Si sentono uomini. Gli brucia la terra sotto i piedi. Sbarcano con in tasca l’indirizzo o il numero di telefono di un parente. Senza cellulare, senza documenti. Chi parte dai villaggi cerca una nuova vita. Chi fugge dalle guerre vuole solo transitare, essere invisibile. Alcuni finiscono nella mani della criminalità o a vendersi per strada. Altri spariscono, finendo per alimentare quell’esercito di invisibili che è arrivato a contare, per l’anno che si è appena concluso, oltre 4mila bambini di cui non si hanno più tracce.
La Sea Watch per molti è stata l’ancora in mezzo al mare
Abbandonati dalla terraferma, intenta a ricercare un accordo tra le varie diplomazie europee, l’unico rifugio sicuro, per i 47 migranti salvati dalla nave dell’ong nella notte tra il 18 e il 19 gennaio scorso, è stato il mare. Proprio quel mare che, solo la notte prima del loro salvataggio, si era inghiottito 117 persone: persone, prima che corpi.
Ma Mamadou sulla Sea Watch non ha mai sofferto, come invece gli altri. Perché, diceva, “so che devo aspettare, anche se la vedo così a portata di mano, l’Europa… gli altri non riescono, vogliono buttarsi in acqua, piangono. Ma è solo una questione di tempo, di attesa”.
Non sembrava avesse solo 14 anni. Anche se non ha mai smesso di giocare, sulla nave. Il tempo lì può logorarti. Lo ha fatto, con alcuni dei migranti. Specie con chi ha passato le torture dei centri di detenzione libici. Come Alì, che la notte si svegliava all’improvviso, sognando “un miliziano che mi colpiva in testa, come in prigione. Solo quando ho aperto gli occhi ho realizzato di essere sulla nave, al sicuro”.
Mamadou capitava spesso di vederlo sul pontile, assieme ad altri 5-6 ragazzi. Mezzo sdraiato su un tendone, a ritagliare e colorare carta. Tanti piccoli pezzetti di carta che sono diventati aeroplanini, barche e barchette. Ognuna coi colori della bandiera dello Stato corrispondente. Gli aeroplanini, italiani. La barca, la sua, coi colori della Guinea: rosso, giallo e verde. Le altre barchette, tutte azzurre. Perché? “Sono quelle finite in fondo al mare”.
Mamadou ha passato ore e ore così: a mimare il suo salvataggio. Su e giù con gli aeroplanini. Non sa nulla, non immagina alcunché del braccio di ferro che si è consumato tra i vari Stati, in Europa. Non sa chi sia Salvini, non conosce il premier Conte. Sa solo che ce l’ha fatta.
Percorrendo in discesa la scaletta della Sea Watch, due giorni fa, chissà cosa avrà pensato. Ha trattenuto le emozioni: a differenza degli altri, non è scoppiato a piangere. E poi guardava dritto avanti, a testa alta. Entusiasta. Prima, un piccolo spavento, per alcuni boati. È l’eco dei botti per la Festa. Fra qualche giorno a Catania è Sant’Agata, la Santa patrona protettrice della città. E poi, ad accogliere lui e gli altri suoi “fratelli”, c’erano tutti quegli agenti di polizia e i militari della Guardia di Finanza, tutte quelle luci lampeggianti. Chissà cosa avrà pensato, Mamadou.
Assieme ai suoi “fratelli” – in tutto, i minori a bordo della nave dell’ong erano 15 su 47, 8 quelli non accompagnati, completamente soli – resteranno in Italia, accolti in una struttura catanese che si occupa di progetti di inclusione per ragazzi stranieri. Loro 15, più un altro migrante, adulto.
“Dove siamo?” hanno chiesto una volta a terra. Alle 11.25 era sceso l’ultimo dalla Sea Watch, dopo le urla, gli applausi, e gli abbracci a quell’equipaggio che due settimana fa ha salvato loro la vita.
Siamo in Italia. Siamo in Europa.
il manifesto 2.2.19
Due anni di accordo tra Italia e Libia: più morti e meno diritti umani
Rapporto Oxfam. «Lo scacco ai diritti umani in quattro mosse»: così Oxfam Italia e Borderline Sicilia descrivono, nel report pubblicato ieri, gli effetti dell’accordo Italia - Libia sui migranti sottoscritto due anni fa, con l’avallo dell’Ue
di Adriana Pollice


«Lo scacco ai diritti umani in quattro mosse»: così Oxfam Italia e Borderline Sicilia descrivono, nel report pubblicato ieri, gli effetti dell’accordo Italia – Libia sui migranti sottoscritto due anni fa, con l’avallo dell’Ue. Il dato più drammatico è la crescita del tasso di mortalità: in due anni sono annegate 5.300 persone, di cui 4mila solo nella rotta del Mediterraneo centrale, passando da 1 vittima ogni 38 arrivi nel 2017 a 1 ogni 14 nel 2018.
«L’ANNO SCORSO la Guardia costiera libica ha intercettato 15mila persone riportandole indietro – spiega il curatore del report, Paolo Pezzati -. Attualmente, in 6.400 sono intrappolati in luoghi di detenzione ufficiali in Libia ma molti di più sono detenuti in carceri non ufficiali, alcune gestite da gruppi armati libici. Ma secondo l’Onu anche i centri ufficiali, in diversi casi, sono gestiti da persone coinvolte nella tratta di esseri umani». Oxfam, insieme a 50 organizzazioni, ha inviato una lettera aperta ai governi Ue affinché blocchino la politica dei respingimenti verso Tripoli e, attraverso il Consiglio europeo, ratifichino la riforma del Regolamento di Dublino con la redistribuzione automatica dei richiedenti asilo.
L’ESATTO OPPOSTO, quindi, di quanto avviene adesso grazie all’accordo Italia – Libia, firmato dall’allora premier Paolo Gentiloni il 2 febbraio 2017.
I principali leader europei l’hanno accolto con entusiasmo, «nonostante nelle tre pagine – si legge nel report – non siano mai citati i diritti umani e non emergano vincoli nei confronti della Libia riguardo il suo impegno nel rispetto e nella tutela dei diritti umani».
Il primo punto dell’asse è stata la costituzione della Guardia costiera libica. L’Italia aveva cominciato già dal 2016 a inviare motovedette, formazione e sostegno economico. L’ultimo finanziamento, del 2018, prevede un nuovo invio di 20 navi per un valore di 9 milioni di euro. Poi è arrivata la zona Sar libica: istituita tramite dichiarazione unilaterale, approvata dall’International maritime organization nel giugno 2018. Così un’agenzia dell’Onu, l’Imo, ha dato il suo avallo mentre altre agenzie Onu chiarivano che la Libia non è un paese sicuro e che i migranti «vivono sotto il costante rischio di privazione della libertà e arresto arbitrario, aggressione, furto e sfruttamento da parte di attori statali e non statali».
LA MOSSA SEGUENTE è stata modificare la missione navale europea di Frontex, passando da Triton a Themis: su richiesta del nostro governo, l’obbligo di sbarco dei naufraghi non è più nei porti italiani ma nello scalo più vicino al salvataggio; la linea di pattugliamento è stata ridotta da 30 a 24 miglia nautiche dalle coste italiane.
Il terzo passaggio è stata la politica dei porti chiusi: il ministro Matteo Salvini fa quello che il predecessore Marco Minniti aveva chiesto ma non ottenuto (per l’opposizione del collega alle Infrastrutture Delrio) cioè cerca di bloccare l’attracco delle Ong in Italia. I primi a farne le spese sono stati i migranti a bordo dell’Aquarius, costretti a dirigersi a Valencia.
Da lì in avanti si è instaurata una prassi che viola le norme internazionali: si subordina lo sbarco a un accordo di redistribuzione tra gli stati, violando il diritto dei naufraghi a ottenere subito un porto sicuro. B.B., un eritreo di 29 anni, era sulla nave Diciotti, bloccata per 5 giorni a Catania lo scorso agosto su ordine di Salvini: «A bordo le condizioni erano terribili. Era impossibile stare al sole ma c’era solo un tendone. L’ombra non bastava per tutti e quando pioveva ci bagnavamo. C’erano solo due bagni. Un marinaio con un tubo ha spruzzato acqua per un minuto su dieci persone alla volta, nude dietro un telo di plastica. Quella è stata l’unica occasione, per noi uomini, di lavarci».
LA MOSSA FINALE è la creazione di un nuovo nemico, le Ong. Dal 2014 al 2017 le navi delle Ong hanno salvato la vita di 114.910 persone, pari al 18,8% del totale. Nel 2017 però inizia a montare una campagna di discredito delle Ong, definite complici degli scafisti.
«Dal 2015 l’agenda migratoria dell’Ue è stata basata sul presupposto di non far entrare i migranti – spiega Pezzati -. Per quelli che riescono a entrare, si sono messi in piedi gli accordi per bloccare i movimenti secondari. L’opposto, quindi, di quanto si dovrebbe fare, cioè regolare gli ingressi con un approccio di lungo periodo. Ormai è diventato superfluo presentare le tante evidenze sulle violazioni dei diritti perché i governi aizzano l’opinione pubblica a fini di politica interna, l’effetto prodotto è la disumanizzazione dei migranti. Si equiparano le decisioni dei governi al diritto quando, invece, è il diritto che dà la cornice entro cui deve rientrare l’azione politica».
IN LIBIA, INTANTO, IL BUSINESS dei centri di detenzione prospera: «Già nel 2017 gli osservatori iniziavano a lanciare l’allarme riguardo la progressiva istituzionalizzazione di leader di milizie o clan che controllavano importanti parti del territorio libico», spiega Oxfam.
L’agenzia Onu Unsmil ha chiesto la chiusura dei centri ufficiali «con evidenze di violazione dei diritti umani più problematici», tra cui Zuwara, Shuhada, Al-Nasr / Al-Zawiya, Gharyan. Un ragazzo eritreo ha raccontato: «Degli europei con la scritta Unhcr sono venuti una volta a visitare il campo, ma non eravamo liberi di parlare con loro, i militari del campo ci controllavano, e anche le persone in visita sembravano spaventate».
Repubblica 2.2.19
Il sondaggio Demos - Repubblica
Il governo gialloverde guadagna consensi ma è sempre più fragile
Di Maio superato nel gradimento non solo da Salvini ma anche da Conte. E la credibilità del premier continua a crescere
di Ilvo Diamanti


È trascorso quasi un anno dal voto del 4 marzo.
Che ha segnato un cambiamento profondo negli orientamenti politici degli italiani. E nella composizione del Parlamento. Le elezioni, infatti, hanno visto prevalere, su tutti, il M5s. Spinto, quasi costretto, a governare, insieme alla Lega di Salvini.
L’altro protagonista inatteso della nuova scena politica. Oggi, a quasi un anno di distanza, il quadro appare profondamente mutato.
Non tanto nell’insieme. Perché la maggioranza rimane la stessa.
Formata e fondata sull’alleanza fra Lega e 5 Stelle. Con la stessa "guida", Giuseppe Conte.
Assistito e "guidato", dai due Vice: Matteo Salvini e Luigi Di Maio.
Leader dei partiti dominanti.
Tuttavia, come mostra il sondaggio dell’Atlante Politico di Demos, condotto nei giorni scorsi, è cambiato il peso elettorale delle principali forze politiche. A partire dai partiti di governo.
Insieme, hanno rafforzato la base elettorale della maggioranza. Alle elezioni di un anno fa, insieme, superavano appena il 50%. Oggi si avvicinano al 59%.
"All’opposizione", Il Pd pare in ripresa. Oltre il 18%. Si avvicina al risultato del 4 marzo, dopo essere disceso fino al 16,5%, lo scorso ottobre. FI galleggia intorno al 9% (oggi: 9,4%). Gli altri stanno i margini. A Sinistra (LeU), a Destra (Fd’I), al Centro (+ Europa). Tutti prossimi al 3%. Dunque, l’intesa Giallo-Verde mantiene una larga maggioranza. Tuttavia, è difficile ritenerla solida. E, soprattutto, "stabile". Perché i rapporti di forza segnalati dai sondaggi, non solo di Demos, ma di tutti i principali istituti, appaiono profondamente "instabili".
Pressoché rovesciati, rispetto a un anno fa. Infatti, secondo le stime di voto, il partito dominante è divenuto la Lega. Vicina al 34%.
Praticamente il doppio, rispetto al 4 marzo. Mentre il M5s è sceso costantemente. Oggi è appena sotto al 25%: 8 punti in meno rispetto alle elezioni politiche.
Quasi 9 sotto alla Lega. La maggioranza Giallo-Verde, dunque, è divenuta Verde-Giallo.
Ma la fiducia verso il governo non sembra averne risentito. Perché, dopo il picco rilevato in settembre, appare stabile e largamente "maggioritaria": 58-59%. Come in giugno, al momento dell’investitura.
Tuttavia, il baricentro del consenso sembra essersi spostato decisamente. Verso la Lega. A questa tendenza ha contribuito, sicuramente, il ruolo del leader.
D’altronde, come abbiamo mostrato nella Mappa pubblicata alcuni giorni fa oggi il leader conta sempre più. Quasi 6 italiani su 10 affermano che sia necessario un "leader forte a guidare il Paese". Un orientamento condiviso, anzitutto, fra gli elettori della Lega e di FI. Ma anche del M5s. Seppure, nella graduatoria dei leader in base alla fiducia degli italiani, il grado di personalizzazione della Lega risulti molto più elevato. Il gradimento di Matteo Salvini, infatti, è saldamente attestato sul 60%: 10 punti sopra Di Maio.
Comunque, il leader più popolare dei 5s. Tutti gli altri si collocano più in basso. A (Centro)Sinistra, Gentiloni si conferma il più gradito. Mentre più indietro incontriamo Nicola Zingaretti e, più sotto, Carlo Calenda. Pietro Grasso, leader di una Sinistra ai margini, sul piano elettorale, scende di qualche punto. Ora è al 29%.
Matteo Renzi chiude la fila.
Ultimo. Poco più avanti, Maurizio Martina. Mentre l’inventore del "partito personale", Silvio Berlusconi, è ancorato al 30%.
Superato, a Destra, (in ogni senso…) da Giorgia Meloni.
Non bisogna, però, dimenticare il premier, Giuseppe Conte. L’unico a reggere il confronto con Salvini. Anch’egli, infatti, ottiene il 60% dei consensi. In lieve crescita nell’ultimo mese. Un dato significativo, anche se la maggioranza degli elettori intervistati (56%) ritiene che il vero premier non sia lui, ma Salvini. Tuttavia, la credibilità di Conte appare in crescita. Oggi, infatti, il 22% degli italiani lo considera il leader del governo: 6 punti in più rispetto allo scorso ottobre. Questa valutazione è condivisa da oltre un terzo degli elettori del M5s. Che lo considera "il Capo". In misura superiore perfino a Salvini. Seppure di poco. Ma assai più rispetto a Di Maio.
La maggioranza e il governo, dunque, dispongono ancora di un largo sostegno elettorale. Eppure, si colgono elementi di in-stabilità.
Nel percorso e nelle basi del consenso.
Due, in particolare. Il primo, evidente, riguarda lo squilibrio crescente nei rapporti di forza.
Tra il Parlamento e gli orientamenti di voto. Perché il Parlamento riflette la composizione espressa dalle elezioni di un anno fa. Quando il M5s aveva ottenuto quasi il doppio dei consensi rispetto alla Lega. Mentre oggi il peso elettorale della Lega è molto superiore. E in crescita. L’altro elemento di instabilità richiama l’importanza del leader. Sul piano generale: Salvini sopra tutti.
Molto sopra a Di Maio. Ma alla pari di Conte. Il quale, nella base del M5s, risulta più considerato dello stesso Di Maio. Come leader di governo. A differenza di alcuni mesi fa.
Così, il percorso della maggioranza appare difficile.
Anche se l’opposizione ancora non si vede. In attesa che il Pd, lungo il cammino delle primarie, riemerga dalle nebbie del "partito personale" disegnato da Renzi. E tratteggiato criticamente da Antonio Floridia, in un recente saggio (Un Partito sbagliato, Castelvecchi ed.).
I problemi, per il governo, dunque, sembrano emergere "soprattutto" dall’interno. Non solo per l’approccio diverso e spesso divergente, fra Lega e M5s, in merito ai temi affrontati. Dalla Tav fino al "reddito di cittadinanza". Ma per una questione di leadership, destinata a divenire più incerta e contrastata.
La Stampa 2.2.19
Se gli alleati affilano i coltelli
di Andrea Malaguti


Pettorina arancione da operaio edile, inevitabilmente indossata su un giubbotto della polizia, Matteo Salvini si presenta a Chiomonte per ribadire il proprio sì alla Tav nell’istante esatto in cui Luigi Di Maio, in istituzionale completo scuro d’ordinanza, annuncia alla Camera che non solo farà i nomi di chi ha partecipato «al fallimento di Banca Carige», ma anche degli sponsor politici che avrebbero contribuito a saccheggiarla.
Il primo, ostentando un irriducibile atteggiamento muscolare, parla al popolo delle Grandi Opere e pretendendo di incarnarne lo spirito, sale, chissà quanto consapevolmente, sul carro operoso di un’Europa che giura di detestare. «Si stanno facendo tanti tunnel nelle Alpi. Non saremo gli unici che si fermano», annuncia trionfante, anticipando la possibilità di arrivare da Milano a Lione in due ore e mezza. Non importa se nella sua «semplicistica visione della politica estera» (Angela Merkel dixit) detesta la Francia. Ora gli è comodo millantarne l’alleanza. Persino la condivisione di un orizzonte. «Presto riapriremo i cantieri», dice a lavoratori che non sanno più se credere a lui, a Conte o all’incomprensibile Toninelli.
In Val di Susa, Salvini torna a vestire i panni del settentrionale pratico per scrollarsi di dosso l’immagine del leader tutto divano e reddito di cittadinanza. «Da lunedì mi occupo del Piemonte». Non si sa se abbia un senso. Ma, avvicinandosi le Regionali, suona bene. E oramai solo questo conta.
Dal canto suo Luigi Di Maio, terrorizzato all’idea di perdere terreno nel confronto individuale, si rivolge al popolo dei dimenticati, alle vittime dei banchieri, sbandierando una lista di proscrizione che non punta a singoli individui, ma al sistema di poteri forti la cui sola evocazione rianima il perplesso universo (fu) grillino. Si rivolge a gente che, per quello che ha subito, si costituirebbe parte civile contro la vita, insistendo sul messaggio più chiassoso della sua eterna campagna elettorale: mai più poveri, mai più privilegi, mai più disuguaglianze. E aggiunge, come da frusto copione, un No alla Tav che è il tentativo di scampare all’accusa di apostasia, di tradimento alla comunità religiosa. L’Alta velocità Torino-Lione si farà, il tunnel si farà, anche rinunciando a poche opere collaterali per dire di aver risparmiato difendendo l’ambiente. Ma il capo politico dei Cinque Stelle non può ammetterlo. Almeno fino al 26 di maggio.
Nella simultanea campagna del Nord-Ovest, i vicepremier, indifferenti al quotidiano accumulo di contraddizioni governative, svelano agende definitivamente differenti, denunciando che il patto Molotov-Ribbentrop in salsa giallo-verde è puramente tattico, e sottoscritto per poi essere rescisso.
Salvini e Di Maio sono le due facce di un sedicente potere plebeo che conosce la lingua, l’anima e i pensieri di coloro ai quali riduce la libertà gridando: fidatevi di me. E fra elettori che non vogliono capire i potenti, preferendo lodarli e baciar loro le mani, lo schema funziona.
Così il logoramento a distanza continua, partendo da Chiomonte per arrivare al Venezuela, in un ping pong che consente ai due signori del Palazzo di recitare entrambe le parti in commedia - governo e opposizione - e di radere così al suolo qualunque ipotesi di alternativa. Atteggiamento audace e rischioso, perché - diceva Hermann Lotze - affilare i coltelli è noioso se non si arriva mai a tagliare. E l’impressione è che il tempo del battibecco stia per lasciare il posto a quello del duello finale.