Priapismo al potere
di Moni Ovadia
Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi non riesce più a contenere l’alluvione di notizie, gossip, ricatti, segreti da boudoir, intemperanze sessuali che corrono sul filo. Il puzzle di questo personaggio da commedia all’italiana nella versione più strapaesana e pecoreccia si sta componendo in quella patetica verità che ancora, con indegna fedeltà servile, i suoi scherani e cortigiani si affannano a negare o ad attenuare. Siamo dunque governati da una specie di dottor Katzone, a scanso di equivoci preciso di non volermi riferire all’epiteto ingiurioso “cazzone” mascherandolo con una grafia cosmopolita, quanto al personaggio del superpriapico collezionista di femmine creato da Federico Fellini nella “Città delle Donne” ed interpretato da un indimenticabile Ettore Manni. Il maniacale e commosso rubricatore di femmine le esponeva in una galleria di immagini in merito ai loro attributi erotici e alle loro prestazioni sessuali dalle più ovvie alle più eccentriche dopo averne espunto qualsiasi riferimento di altra umanità. Ma i geni sanno creare figure sublimi attraverso l’iperbole del grottesco, i grandi lettrati come Gadda raccontano con ineguagliata maestria i rapporti fra potere ed erotismo, il suo “Eros e Priapo” dovrebbe essere lettura d’obbligo di questi tempi. Silvio Berlusconi invece, per ciò che la marea di indiscrezioni e rivelazioni porta a galla, si configura come la versione infima di quelle basse pulsioni. Il ragazzino fermato dalla polizia perché, armato di telecamera amatoriale riprendeva di nascosto le parti intime delle donne a loro insaputa, sembra essere il suddito epigono del nostro leader, la differenza sta solo nei mezzi. Stupisce e amareggia pensare al vasto consenso di cui gode presso l’elettorato femminile un uomo la cui visione della donna è confinata negli angusti confini del suo priapismo.
Repubblica 20.6.09
L´isolamento dello stregone
di Giuseppe D'Avanzo
Il battibecco in diretta tv tra il capo del governo e l´avvocato Ghedini («Come puoi pensare, Niccolò, che ti ho dato del "pazzo", ora sono io che mi offendo…») chiude una lunga stagione e ne annuncia una nuova, più incerta, dove nella sorridente e amabile stregoneria mediatica di Berlusconi affiorano disgregazioni e svuotamenti di cui nessuno, per il momento, può immaginare gli esiti. La politica di Arcore finora è stata soprattutto arma psicologica, sapientissimo governo di una macchina del consenso capace di distribuire gesti, parole, discorsi.
Inoculare passioni e fobie attraverso format semplificati: «l´uomo del fare», «i comunisti». Ispirare finte idee: «Saremo tutti felici». Fabbricare una scena di cartone: «I successi del governo che non lascia nessuno indietro». Indurre decisioni e, naturalmente, una propensione al voto.
Berlusconi aveva (e ha) il controllo pieno di un efficiente arsenale per affatturarsi il mondo e la realtà. Televisioni pubbliche e private; influenza diretta o indiretta su quotidiani e settimanali; dominio pieno dell´industria dell´intrattenimento che crea miti, stili di vita, desiderio, incantesimi. Indifferente a ogni self-restraint, Berlusconi ha usato quel ferro semiotico senza parsimonia e con calcoli freddi. Là dove c´era il «pieno» del potere (e la sua responsabilità, i suoi doveri, anche la sua sofferenza) è nato un «vuoto» dove tutto – ogni magia, ogni promessa, ogni favola – poteva felicemente trovar posto per durare un solo giorno perché il «pubblico» è "educato" a dar fede soltanto a «credenze» che possono essere cancellate o sostituite il giorno successivo («Tutti gli aquilani avranno le loro case in autunno»).
Le tecniche di questa nuova «civilizzazione», che ha reso indifferente sulla scena politica e nel discorso pubblico la domanda «che cosa accade davvero?», è stata manifesta nel corso del tempo. Il signore tecnocratico-populista scriveva l´agenda dell´attenzione pubblica. I media ubbidienti o gregari (la maggior parte) ne riproducevano l´eco. Discorsi precostituiti pronti all´uso ne assicuravano una «coda lunga». Infine, maschere salmodianti (in assetto variabile, Gasparri, Quagliariello, Bocchino, Cicchitto, Bonaiuti) li recitavano come filastrocche all´ora del tiggì.
Bene, la diavoleria non funziona più. Da due mesi Berlusconi è inchiodato su un´agenda che non ha scritto lui, che lo ha sorpreso e ancora lo stupisce. È costretto a inseguire una "realtà" (le feste di compleanno in periferia, le vacanze con le minorenni, l´ossessione per il sesso, le notti a pagamento) che non riesce a cancellare dalla pubblica attenzione. Più il premier si rifiuta di rispondere a legittime domande e all´opinione pubblica per liberarsi delle ombre e delle contraddizioni che oscurano i suoi comportamenti privati, tanto più è chiaro – ora, anche a chi l´ha a lungo negato – che la questione è politica, e il capo di un governo non se ne può sottrarre. I caudatari, nella corvée televisiva della sera, sono come intrappolati in un´alternativa del diavolo, in un gioco a perdere. La litania preconfezionata prevede di distruggere con parole arroventate la "realtà", di ridurla a questione privata e dunque protetta allo sguardo di chicchessia. Ma quanto più i corifei demoliscono tanto più le loro parole provocano imbarazzo anche nella loro area di consenso e spargono la convinzione che, se il presidente del consiglio tace, la ragione è nell´impossibilità di essere trasparente, di dire qualcosa senza correre il rischio di danneggiare se stesso. Peggio accade quando la controffensiva si fa gaglioffa. Come d´abitudine l´informazione al servizio del premier calpesta tutti coloro che sono in grado di dire una parola di verità. Così la signora, ospite a pagamento del premier nel «letto grande» di Palazzo Grazioli, diventa nei resoconti una pazza, una squilibrata, per di più puttana. Disegnata così la scena, crescono e non diminuiscono dubbi, domande, sconcerto. Ci si chiede quanto irresponsabile sia chi permette a un personaggio così avventuroso di entrare nella sua camera da letto, armato di videocamera e registratore. Per liberare il Cavaliere dall´accusa di pagare prostitute, c´è poi chi (Feltri su Libero) si spinge a giurare sulla sua impotenza: che bisogno ha di pagare una donna se il sesso gli è impedito? Il polemista non si accorge che, per salvare il suo Cavaliere, gli infligge un´umiliazione. Come capita anche all´avvocato-consigliere che definisce il suo "principe" innocente e, se non innocente, soltanto «utilizzatore finale» di quel corpo-merce.
Il vivamaria ci racconta come la stregoneria politica e mediatica si è infranta. Chiunque ha potuto vedere, nelle immagini di Sky dal Consiglio europeo di Bruxelles, il nuovo Berlusconi. Cupo, livoroso, spogliato del suo dinamismo estroverso. Il capo del governo freneticamente si inumidisce, sulle labbra, l´indice e il medio della mano destra. Sfoglia rapido la rassegna stampa. Con la sinistra regge il telefono e alza voce. E´ compulsivo. Nemmeno si accorge della telecamera. E´ a un consesso internazionale e deve occuparsi degli affari di bottega, da solo e direttamente, improvvisando, privo di una exit strategy. Non ha accanto consiglieri, spin doctor, staff. Il ministro che gli siede vicino, Frattini, finge di leggere e sembra imbarazzato da quel che sente. Sente che il premier deve rabbonire finanche l´avvocato finora bravo ad ingrassare soltanto le sue difficoltà, convinto com´è che l´affare sia penale e non politico.
Sono immagini che indicano l´isolamento del presidente del consiglio, la paralisi di chi – ripetendo come un mantra salvifico «spazzatura, spazzatura» – crede di poter esorcizzare le difficoltà che lo affliggono e lo occupano in modo esclusivo a dispetto delle sue responsabilità di governo. I fotogrammi di Bruxelles possono essere la fine della magia cesaristica, possono essere la conclusione di un sogno bonapartista, evocato da Gianfranco Fini come «impotente e inefficace», come nemico e minaccia di una democrazia «più forte, più rappresentativa, più partecipata». L´Italia berlusconiana sembra abbandonare le tentazioni – da Secondo Impero – del plebiscito. Nessuno sentirà l´assenza di Louis-Napoléon.
l'Unità 20.6.09
I mille volti di Patrizia. Escort, avventuriera o spia?
Ci si chiede perché un personaggio così screditato, nota a Bari come
una prostituta, riesca a entrare e documentare le serate a palazzo Grazioli
di Claudia Fusani
Come può una tipa come Patrizia D’Addario, prostituta di professione, nota da anni a polizia e carabinieri di Bari per aver denunciato e subìto violenze, minacce, truffe, una calamita di guai da cui è generalmente preferibile stare alla larga; come può, si diceva, una tipa così trascorrere due serate a palazzo Grazioli e festeggiare con il presidente del Consiglio l’elezione di Barak Obama? E soprattutto, perchè proprio adesso il Corriere della Sera, il primo quotidiano nazionale di sicuro non ostile al premier, ospita, pur a freni tirati, le accuse di un personaggio così screditato?
Saper rispondere a questa domanda significa trovare il pezzo mancante del puzzle Bari-gate e capirne, soprattutto, le conseguenze. Significa sapere se Patrizia D’Addario è una moderna Mata Hari, “scelta” per mettere in difficoltà il premier, infiltrarne la privacy e rivelarne i “vizi” privati addirittura documentandoli (è la tesi del complotto evocato da Berlusconi). O se, più banalmente, è un’avventuriera che dopo vari tentativi, tutti falliti, riesce a dare una svolta alla sua vita. Positiva o negativa ancora non si sa. Di sicuro ha gettato nel ridicolo il sistema di sicurezza nazionale che ogni paese deve poter garantire al proprio Presidente del Consiglio.
Patrizia D’Addario, dunque. Quarantadue anni, nata il 17 febbraio 1967 a Bari, ambiziosa, sognatrice, passione per la magia e il potere. Ha detto di sè al Corriere del Mezzogiorno il 21 gennaio 2004, un’intervista che è già un cult: «Gli uomini hanno paura di me, ho comportamenti arrischiati, quelli che loro usano per mostrare il loro vigore alle femmine. Io sono sempre stata intrepida». In quel momento della sua vita ha un nome d’arte - Patricia Brummel, uno dei tanti - e sta lanciando un calendario di nudi e trasparenze, un mezzo «per scialare con il corpo, l’ebrezza che provoca la nudità è l’illusione più bizzarra». A 30 anni fa una figlia con un imprenditore che poi uscirà presto dalla sua vita. La figlia vive tutt’oggi con lei e la nonna. Patrizia fa la modella, qualche apparizione a Telenorba e Tele Bari, servizi fotografici, qualche pubblicità, quella della Coca Cola le regala un altro nomignolo: «Coca». Ma la vera passione resta la magia. «Sono attratta dalla simulazione e dalla dissimulazione» racconta nell’intervista cult, «a 5 anni giocavo alla bambina invisibile e mi sentivo superiore». Da grande, per più di dieci anni, vive in America dove incontra e collabora con David Copperfield, Barry Collins, il mago Oronzo.
La magia e il sogno si frantumano in un attimo nel 1999 quando conosce Giuseppe B., detto Spaghetto, imprenditore edile barese che ben presto si rivela uno sfruttatore di prostitute armato di pistola. A questo punto parlano i mattinali di polizia e carabinieri. La fa lavorare in un appartamento in via Napoli, quartiere Palese: lei in una stanza, lui in quella accanto, dai 250 ai 500 euro a cliente, 2-3 mila euro al giorno; una collega con cui fa coppia, Marisa Scopece, il cui corpo viene trovato carbonizzato a Barletta. Dal 2005 l’archivio dei carabineri registra varie denunce per violenze, abusi, anche una truffa di 90 mila per la ristrutturazione di un casale di famiglia in zona Carbonara: Patrizia è sempre parte lesa, Giuseppe B, finisce in galera (lei lo inchioda grazie ad una registrazione) poi esce e continua a sfruttarla e perseguitarla.
Altro che magie e giochi di prestigio. Certo, Giampy Tarantino, il suo giro e le sue conoscenze, deve esserle sembrata un’altra occasione. L’ingresso a palazzo Grazioli, per ben due volte, la sensazione di avercela fatta. La candidatura in «Puglia prima di tutto», lista che fa capo al ministro Fitto, ne è la prova.
Ma prenderà solo sette voti. E il 31 maggio quando Berlusconi va a Bari non se la fila proprio e lei farà poi una piazzata alla sede del partito. Comincia, allora, a meditare la vendetta? O la mission era molto più antica nel tempo, almeno un anno prima? «Conserva la mia foto, ti potrà servire» dice il 31 maggio a un fotografo. E’ quella uscita su tutti i giornali, lei dietro che lo guarda, il premier di fianco.
Corriere della Sera 20.6.09
Il Cavaliere e la svolta invocata dagli amici
di Francesco Verderami
Palazzo Chigi L’attesa di un gesto per uscire dalla «condizione di minorità». Il Cavaliere «vittima della generosità»
L’ esortazione è stata pubblica e privata, perché non solo Giuliano Ferrara l’ha invitato a un mutamento radicale, a una rigenerazione. Anche Fedele Confalonieri, l’amico di una vita, confida in un «nuovo inizio».Serve una «palingenesi», questo è l’auspicio di chi tiene disinteressatamente alle sorti di Silvio Berlusconi. Perché senza uno scatto del premier — come scriveva l’Elefantino sul Foglio l’altro ieri — si protrarrebbe un «clima da 24 luglio permanente». Ed è impensabile che la politica viva l’eterna vigilia di un crollo, la fine di un’era, quella berlusconiana, che il presidente della Camera nemmeno prevede. Ma non c’è dubbio che a lungo andare il clima che si respira nel Palazzo e nel Paese avrebbe un costo per la democrazia, potrebbe portare — come dice Gianfranco Fini — alla «sfiducia dei cittadini verso le istituzioni».
È come se la nemesi si fosse abbattuta sul Cavaliere: per quindici anni il suo privato ha contribuito alle sue vittorie pubbliche, e adesso lo costringe sulla difensiva. E mentre in passato a Berlusconi veniva contestato il modo in cui si proponeva agli elettori e li conquistava, ora gli viene chiesto — gliel’ha chiesto ieri il quotidiano dei vescovi, Avvenire — «un chiarimento con l’opinione pubblica » sui suoi fatti personali.
Tutti attendono un gesto da Silvio Berlusconi, coinvolto in una storia di feste e di donnine che al momento ha minato la sua immagine, non i suoi consensi. Al di là dei giochi di potere e di macchinazioni giudiziarie, il premier dice di sentirsi vittima anche di se stesso, «vittima cioè della mia generosità». È una valutazione complessiva, non per questo legata alle ultime vicende, che però riflette lo stato d’animo del Cavaliere e anche il suo atteggiamento, le sue scelte che stupiscono, ma fino a un certo punto, chi lo conosce bene.
Malgrado gli ultimi due mesi siano stati costellati da errori mediatici e di tattica politica, malgrado la sua macchina di voti si sia inceppata, difende i collaboratori più stretti e le loro mosse, con la stessa foga con cui difende se stesso. Perché non è stato solo Ferrara a criticare Nicolò Ghedini per quel concetto, «utilizzatore finale», di cui pure l’avvocato si è scusato. Eppure Berlusconi — a quanti gli facevano notare l’errore e i rischi che determinava — ha chiesto comprensione per il penalista: «Poveretto, deve fare tante cose ogni giorno».
All’indomani delle elezioni europee, aveva sottratto Adriano Galliani alle accuse di numerosi dirigenti del Pdl che gli addebitavano una percentuale nella perdita di consensi, dato che a due giorni dalle elezioni l’amministratore del Milan aveva rilasciato un’intervista alla Gazzetta dello Sport con la quale aveva di fatto annunciato la cessione di Kaká al Real Madrid. «È un amico di vecchia data. Non vi mettete pure voi, che già in famiglia...», era stata la risposta del premier: «Il fatto è che c’era una perdita nel bilancio societario e non potevo ripianarla io, in un momento di crisi economica come questo». Eppure Berlusconi sapeva quanto avesse pesato l’addio del calciatore brasiliano. Alle sole Provinciali di Milano, infatti, tremila schede erano state annullate dagli elettori, che dopo aver barrato il simbolo del Pdl avevano aggiunto: «Questo è per Kaká».
Tutti aspettano dal premier ciò che il premier però — almeno per il momento — non intende dare, perché si sentirà pur vittima della sua generosità, «è così che mi fregano», ma si sente soprattutto al centro di oscure «trame», e se ora il fronte giudiziario è Bari, immagina se ne aprano altri a Palermo, a Milano, pare anche a Firenze. Non crede, almeno così dà conto, a chi lo invita a guardare verso gli Stati Uniti, perché «con Obama abbiamo chiarito tutto, con la signora Clinton le relazioni sono eccellenti, e ho uno splendido rapporto con la presidente Pelosi».
No, è in Italia — a suo modo di vedere — l’epicentro del terremoto, è verso i palazzi della politica nazionale che tende lo sguardo, e di Massimo D’Alema dice oggi che «usa mezzucci». Avrà anche ragione il premier quando rigetta certe accuse dell’opposizione, perché è difficile immaginarlo a capo di un regime se poi non ne controlla i gangli più importanti, ed è esposto in questo modo. Emblematica è l’immagine di ieri, con Berlusconi che confida al telefono di non sentirsi spiato, proprio mentre è sotto l’occhio furtivo di una telecamera.
Tuttavia per il premier resta il problema di uscire da quella che Ferrara ha definito «l’incredibile condizione di minorità in cui si è ficcato». E resta il nodo di governare il Paese, di dare risposte agli interrogativi che il presidente della Camera pone ormai da mesi, a partire dalla necessità di varare una riforma dello Stato che sia condivisa dall’opposizione, per passare alla costruzione di una forza, il Pdl, che secondo Fini «di fatto non è ancora nata»: «La Lega è l’unico partito vero in Italia».
Chissà se pensa anche a «Gianfranco » quando dice di sentirsi vittima della sua stessa generosità, è certo che per misurare la distanza dal «cofondatore», il Cavaliere usa l’ironia: «Gianfranco alla Camera ha otto commessi che lo seguono ovunque. Io a palazzo Chigi ne ho uno solo». Ma non c’è sorriso sul volto di Berlusconi. Non era così che immaginava la vigilia di un G8 molto delicato. Dovesse superarlo senza intoppi forse inizierebbe per lui il 26 luglio.
Corriere della Sera 20.6.09
Un alone di incertezza sull'azione del governo
di Massimo Franco
La fase nuova Si è aperta una fase nuova, forse destinata a scheggiare la patina del successo del premier
Sarebbe ingiusto legare la probabile bocciatura del candidato italiano al vertice del Parlamento europeo alle vicissitudini private di Silvio Berlusconi. Ma c’è da giurarci: l’eventuale insuccesso verrà visto come controprova del logoramento progressivo del presidente del Consiglio. Se non altro perché aveva proiettato su Bruxelles le sue ambizioni di vittoria elettorale; e preannunciato un Pdl fondamentale nello scacchiere continentale. Alone d’incertezza sull’esecutivo
In realtà, è probabile che la posizione non sia stata né rafforzata né indebolita da quanto accade fra Bari e Roma. Ma quello sfondo finisce per rivelare una sopravvalutazione del ruolo italiano, che adesso emerge insieme a problemi di colpo fuori controllo.
La reazione irritata di Berlusconi contro i giornali dipende dal fatto che in questa fase, a torto o a ragione, gli sembrano dei nemici. Anche la sua stizza sorridente in conferenza stampa, però, comincia ad apparire sotto una luce un po’ diversa dal passato. Non trasmette più un senso di sicurezza, quanto un presagio di debolezza e di fragilità. È difficile dare torto al premier quando bolla come fantapolitica l’ipotesi di una congiura nel centrodestra per scalzarlo da palazzo Chigi. Della maggioranza rimane il padrone, seppure ormai a mezzadria con la Lega di Umberto Bossi. Si può discutere se questo oggi rappresenti un elemento di stabilità o di precarietà della coalizione: è comunque un dato di fatto.
Ma all’ombra delle difese rocciose, della denuncia di complotti fra pezzi d’opposizione e di magistratura, è palpabile il nervosismo del capo del governo; e l’imbarazzo, autentico o ben studiato, di alcuni alleati. È come se crescesse la consapevolezza che si è aperta una fase nuova, forse destinata a scheggiare la patina del successo che Berlusconi è riuscito ad associare alla propria leadership. Per quanto da tempo eccentrico rispetto alla strategia del Pdl, ieri il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha additato il pericolo che corrono il governo ed il Paese. Nessun rischio di instabilità; ma una perdita progressiva di fiducia verso «il fondamento della democrazia».
Si tratta di una deriva verso la sfiducia nella politica, che non può essere data per avvenuta e dunque irreversibile. Ma certamente, oggi la capacità berlusconiana di arginarla ed incanalarla sembra meno prepotente ed indiscussa di appena un anno fa. È possibile che all’origine di questa magia inceppatasi improvvisamente ci sia quella che Berlusconi chiama la «spazzatura» di alcune inchieste giudiziarie: «rifiuti» dei quali giura si libererà come quelli a Napoli. E la sua reazione indignata ai contestatori di sinistra che ieri sera lo hanno fischiato a Cinisello Balsamo, riflette la pressione a cui è sottoposto. Ma questo non basta a cancellare la sensazione di una difficoltà.
Lo dimostrano le richieste di chiarezza da parte di un mondo cattolico disorientato dagli scandali che lambiscono il premier; l’alone di incertezza che si avverte nel governo; e, di nuovo, un contesto internazionale nel quale l’Italia berlusconiana si accorge di avere qualche amico meno del previsto. È un’incrinatura quasi impercettibile, e senza contraccolpi elettorali, a breve termine. Ma alla lunga può oscurare quanto di buono il governo ha fatto: dalla gestione del terremoto a quella di una situazione economica che può ancora creare tensioni sociali. Sarebbe grave se ci fosse una crisi sull’onda di quelle che il premier chiama «trame giudiziarie»: e non solo perché si creerebbe un vuoto preoccupante.
Rimane da capire se Berlusconi sarà in grado di riempirlo, o contribuirà a crearlo.
Corriere della Sera 20.6.09
Riforme e storia
Ma il premier non è Catilina
di Nicola Tranfaglia
Caro Direttore, ho letto ieri sul Corriere una lunga lettera dell’onorevole Deborah Bergamini che paragona l’attuale presidente del Consiglio Silvio Berlusconi al romano Catilina, accusato da Cicerone di una prima e di una seconda congiura, allontanato da Roma e sconfitto, attribuisce a Catilina una figura positiva e addirittura di innovatore e salvatore della Repubblica romana. Portando il confronto storico a quello che sta succedendo nel nostro paese afferma che «gli optimates di ieri che armarono le azioni di Cicerone erano i rappresentanti di una classe senatoriale gelosa custode di privilegi politici ed economici».
«Gli optimates che violentano le regole di oggi — afferma l’onorevole Bergamini — sono potentati senza patria, politici mediocri e polverosi intellettuali. Il potere non accetta gli imprevisti e spesso i grandi riformatori, gli uomini in grado di cambiare la storia, si presentano all’appuntamento senza bussare. Questo li rende inaccettabili ».
Sono rimasto colpito dalla disinvoltura storica della parlamentare e dalla duplice forzatura: quella di chiudere di colpo il dibattito sempre aperto sulla figura di Catilina rispetto alla quale gli storici esitano ancora ad attribuirgli una funzione politica chiara e determinata. Ma soprattutto, di fronte a quella perdurante incertezza, mi è parso ancora più infondato e fragile il confronto tra Catilina e l’attuale presidente del Consiglio. La Bergamini li mette sullo stesso piano come innovatori e, nel caso di Berlusconi, grandi riformatori.
Ma, lasciando da parte Catilina, si può dal punto di vista storico parlare di Berlusconi come di un grande riformatore? Io avrei al riguardo seri dubbi. Non si può negare che l’attuale presidente del Consiglio si sia rivelato negli ultimi vent’anni un innovatore: ha riunito la destra e l’ha successivamente condotta a formare un solo partito politico, ha più volte sconfitto il centro- sinistra e, aggiungerei, ha conquistato negli ultimi vent’anni un’egemonia politico- culturale legata alla sua visione del mondo che si accorda per altro con i successi delle destre europee e americane dagli anni Settanta ad oggi.
Ma come si fa a parlare di Berlusconi come di un grande riformatore quando di riforme ne ha fatte pochissime, preoccupandosi soprattutto di fabbricare leggi ad personam, per sé e per i suoi più diretti seguaci (vedi il lodo Alfano approvato un anno fa) ne annuncia in continuazione ma poi trova ostacoli insuperabili sia nel centro- destra che nella società italiana?
E si può dire che ci siano particolari aggressioni nei suoi confronti quando sono tutti i grandi giornali che parlano dei numerosi scandali e la stampa straniera in una situazione nella quale — fatto inaudito in tutto l’Occidente — il presidente del Consiglio è proprietario di tutte le televisioni commerciali, controlla i canali della Rai ed è in grado di influenzare fortemente il mercato pubblicitario?
Insomma, mi pare che il confronto con Catilina non regga sia per le incertezze perduranti nella storia romana sia perché è impossibile vedere lo scontro tra Berlusconi e i suoi avversari come quello tra un grande riformatore aggredito dai difensori di antichi privilegi.
Sicché, pur se in circostanze assai diverse, viene alle labbra il celebre incipit di Cicerone alla sua orazione in Senato: «Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza? ».
il Riformista 20.6.09
Bari in apnea: scosse sulla giunta Vendola
di Tommaso Labate
IL PUZZLE. A un passo dal voto, il capoluogo si interroga sul terremoto imminente. Nelle pagine dell'inchiesta aumentano i nomi targati pd. Finita l'indagine sulla sanitopoli del 2000.
Ancora ventiquattr'ore. Che diventano quasi sessanta, considerando che lunedì si voterà fino alle 15. A Bari, tra i corridoi semideserti della Procura e i tanti palchi elettorali su cui sono disseminati esponenti locali e nazionali di centrosinistra e centrodestra, si sussurra che tutto ciò che è emerso fino a oggi «è solo l'inizio». Di più, si sostiene sottovoce che il «filone Patrizia» delle inchieste sulla sanità, quello che riguarda le registrazioni della D'Addario a palazzo Grazioli, non è altro che «la punta di un iceberg». Un iceberg che potrebbe travolgere berluscones ortodossi ma anche fior di piddini. Un iceberg che potrebbe addirittura arrivare a minare la tenuta della giunta regionale guidata da Nichi Vendola.
Quanto può pesare l'atmosfera da cataclisma politico imminente che si respira nel capoluogo pugliese sulla sfida tra Emiliano e Di Cagno Abbrescia? Gianrico Carofiglio - magistrato, giallista e senatore del Pd - cerca di sdrammatizzare: «Mai visti così tanti giornalisti in giro per la città». Ma poi ammette: «Me lo sono chiesto anch'io se le "voci" possono incidere sul secondo turno delle comunali. E ancora non sono riuscito a trovare la risposta. Di sicuro non ci saranno elettori che si sposteranno da una parte all'altra. Ma l'astensionismo, questo sì, può crescere».
Lo scenario di cui sopra vale solo in assenza di nuovi sviluppi, certo. Ma, tempistica a parte, a Bari si ha la sensazione bipartisan che lo scandalo vero stia per arrivare. Non a caso, salvo le dichiarazioni quotidiane d'opposizione al governo, il Pd continua nella strategia di dribblare le rivelazioni della D'Addario. E pure i dipietristi, tolta qualche puntura di spillo di Luigi De Magistris (che pure in una dichiarazione ha "assolto" D'Alema), continuano a improntare le loro dichiarazioni a un bassissimo profilo.
L'attenzione di tutti, a Bari, è concentrata sulle ripercussioni che l'inchiesta della Procura potrebbe avere sull'attuale giunta di Vendola e su quella, targata Fitto, che l'ha preceduta al governo della Regione Puglia.
Tra le carte dei pm relative alla rete dell'imprenditore Giampaolo Tarantini c'è finito infatti Sandro Frisullo, vicepresidente della giunta, che ieri ha smentito (al Corriere) l'ipotesi di essere stato lui «il suggeritore di D'Alema» ma non ha potuto escludere il suo coinvolgimento nell'inchiesta.
Il secondo nome del Pd, secondo quanto riportato da Repubblica, è quello di Gero Grassi, deputato del Pd e capofila della corrente dei Popolari in Puglia. In una dichiarazione all'Ansa, l'interessato ha detto di «cadere dalle nuvole»: «Mai avuto rapporti con i fratelli Tarantini, non ho mai parlato con queste persone». Eppure, le notizie sulla comparizione del suo nome tra le carte dell'inchiesta sembrano reggere anche alla smentita. Con una sola precisazione: «Il nome di Grassi - dice una fonte affidabile al Riformista - è legato a vicende la cui rilevanza penale è tutta da dimostrare». Quali? Chissà. Una cosa è certa: Grassi, legato a Marini e Fioroni, è un personaggio chiave per la "stabilità" della giunta Vendola: oltre ad essere amico d'infanzia di «Nichi» (anche se di vedute politiche differenti - ex democristiano l'uno, ex comunista l'altro - sono cresciuti entrambi a Terlizzi), a lui si fa risalire la preistoria dell'avvento vendoliano alla scrivania ch'era stata di Fitto. A prendere per buona una leggenda che circola in Puglia da un lustro, fu proprio Grassi - con uno spostamento di voti in extremis - a determinare la vittoria di Vendola nelle primarie pugliesi del 2004 che lo videro vincitore a danno del favorito Francesco Boccia.
Ma è forse il «terzo uomo» quello che potrebbe tornare a mettere in imbarazzo il centrosinistra pugliese e il Pd nazionale: l'ex assessore regionale alla Sanità Alberto Tedesco, che lasciò la giunta per l'esplosione della prima Sanitopoli, si prepara a fare il suo ingresso a Palazzo Madama al posto di Paolo De Castro, fresco di elezione al parlamento europeo. Il centrosinistra pugliese trema ma il centrodestra non sta meglio. Le inchieste sulla Tecnohospital di Tarantini sono infatti due. Per la prima, incetrata su episodi di corruzzione nella sanità pubblica dal 2000 in poi (il governatore era Fitto), il sostituto procuratore Roberto Rossi si appresta a inviare agli indagati l'avviso di conclusione delle indagini.
l'Unità 20.6.09
Iran, Khamenei minaccia un bagno di sangue
di GA.B.
Khamenei all’opposizione: basta con le manifestazioni. «Se ci sarà spargimento di sangue, i leader della protesta ne saranno ritenuti responsabili», dice la Guida suprema parlando in pubblico a Teheran.
La Guida suprema si schiera con Ahmadinejad, che considera eletto senza brogli
Avviso a Mousavi: «Se ci saranno violenze, sarai considerato responsabile»
Ha atteso che trascorresse esattamente una settimana dal contestatissimo voto per le presidenziali. Poi, ieri, la Guida suprema Ali Khamenei, massima autorità della Repubblica islamica, ha battuto minacciosamente il pugno sul tavolo. Non saranno più tollerate altri cortei a Teheran. Se le agitazioni continueranno, le forze di sicurezza interverranno duramente.
SENZA EQUIVOCI
Khamenei ha usato un giro di parole che non dà adito ad equivoci: «Se ci sarà un bagno di sangue, i leader delle proteste ne saranno tenuti direttamente responsabili». Messaggio ai militanti: manifestando rischiate una repressione violenta. Messaggio ai dirigenti: se non bloccate il movimento finite in galera.
Primo destinatario dell’avvertimento è Mir Hossein Mousavi, che non accetta la sconfitta subita, secondo lui irregolarmente, dal capo di Stato uscente Mahmoud Ahmadinejad nelle elezioni del 12 giugno. Quel risultato è valido, ha sentenziato ieri Khamenei, parlando ad un’enorme folla radunatasi nel cortile dell’Università e nelle vie adiacenti per ascoltare dalla sua bocca il sermone del venerdì. «L’esito del voto viene dalle urne, non dalla strada -ha detto la Guida suprema tra le grida d’approvazione della folla-. Oggi la nazione iraniana ha bisogno di calma. Le nostre leggi non consentono i brogli, specialmente nella dimensione di undici milioni di schede». Tale è infatto il numero di consensi che secondo i conteggi ufficiali Ahmadinejad ha ottenuto in più rispetto al principale avversario. In percentuale, quasi il 63% contro circa il 34%.
Ahmadinejad era in prima fila ad ascoltare l’oratore. Le immagini televisive non hanno mostrato né Mousavi né importantissime personalità dello Stato solitamente presenti quando parla in pubblico la Guida suprema. Ad esempio l’ex-presidente Mohammad Khatami, o Akbar Hasehemi Rafsanjani. Quest’ultimo presiede il Consiglio degli esperti, cioè l’assemblea di teologi che ha fra i propri poteri anche la scelta della persona cui affidare la carica di Guida suprema. Khatami e Rafsanjani si sono apertamente schierati con Mousavi prima del voto, e in questi giorni ne hanno sostenuto con forza la richiesta di ritorno alle urne. Il controllo ferreo che viene esercitato sui media non permette di sapere se certi volti non siano comparsi sugli schermi perché assenti o per un deliberato intento censorio. In favore di Rafsanjani comunque Khamenei ha spezzato una lancia per difenderlo dalle accuse di corruzione rivoltegli da Ahmadinejad. «Lo conosco da 52 anni -ha affermato- e non l’ho mai visto arricchiersi illegalmente». Durissimo Khamenei con i governi stranieri, soprattutto americano e britannico, che interferiscono nelle vicende interne iraniane. Da parte degli Usa in particolare «le osservazioni sui diritti umani sono inaccettabili dopo quello che hanno fatto in Afghanistan, Iraq e altrove».
CORTEO CANCELLATO
Al discorso di Khamenei ha fatto seguito, almeno sino a tarda ora, l’assordante silenzio di Mousavi, che nei giorni passati aveva incitato i connazionali a scendere in piazza diffondendo comunicati sul suo sito online. Fonti vicine ai capi del movimento hanno fatto sapere in serata che la manifestazione annunciata per oggi sin da giovedì era stata cancellata.
l'Unità 20.6.09
Repressione o ritirata
Il Deng Xiaoping di Teheran
di Gabriel Bertinetto
Khamenei getta tutto il peso della sua carica istituzionale a sostegno di Ahmadinejad. Nel conflitto fra governo e blocco militare-integralista da un lato, opposizione e popolo in rivolta dall’altro, si schiera apertamente con i primi e accusa gli altri di sovversione. In tempi normali la Guida suprema agisce dietro le quinte, indirizza le strategie di governo ed influenza le decisioni più importanti, ma non rinuncia ad apparire come il capo di tutta la nazione e non di una fazione. Mousavi si è illuso forse che anche nell’emergenza Khamenei esercitasse le sue prerogative di leader numero uno, nel modo consueto. Accentuando anzi le potenzialità di arbitraggio, moderazione, mediazione offertegli dal ruolo. Per una settimana ha atteso che la Guida suprema e gli altri organismi politico-religiosi della Repubblica islamica gli tendessero la mano. Magari sperava che parte dell’establishment teocratico fosse pronto a rompere con Ahmadinejad. Forse ha sopravvalutato i contrasti emersi anche in campagna elettorale fra Ahmadinejad e una parte dell’alto clero.
Dopo il sermone di Khamenei, i leader del movimento anti-Ahmadinejad sono ad un bivio. Se fermano la protesta, non saranno più credibili agli occhi di coloro che si sono mobilitati per «riavere indietro i propri voti rubati». Se la rilanciano, proiettano il movimento in una dimensione di lotta assolutamente nuova, più contro il sistema che per la sua riforma. E rischiano, in questo secondo caso, una reazione violenta degli apparati di sicurezza. Si profila l’ombra sinistra di una Tiananmen iraniana. Con il discorso di ieri, Khamenei ha fatto chiaramente capire che se si arrivasse ad un punto di tensione troppo forte, lui non si tirerebbe affatto indietro. La Guida suprema non ci penserebbe due volte a vestire i panni dello Deng Xiaoping di Teheran.
Corriere della Sera 20.6.09
Intervista Parla Ebrahim Nabavi, il più noto autore satirico iraniano
Lo scrittore: «È un ultimatum Adesso temo la legge marziale»
di Alessandra Muglia
«Khamenei nella preghiera del venerdì ha dato un ultimatum: la gente ora sa che se uscirà ancora in strada a protestare pagherà un prezzo molto alto.
Ma il monito è rivolto soprattutto ai politici, da Mousavi a Khatami fino a Rafsanjani: vuole cancellarli dalla scena politica ».
Ebrahim Nabavi, penna satirica iraniana censurata dal regime, non si stupisce che l'ultimatum della Guida Suprema arrivi all'indomani dell'invito al dialogo rivolto dagli ayatollah ai tre candidati «sconfitti».
Lui, che nel suo recente Iran. Gnomi e giganti. Paradossi e malintesi (Spirali) prende di mira le contraddizioni del suo Paese, ha vissuto la situazione grottesca di essere arrestato a Teheran per «pubblicazioni menzognere » nello stesso giorno in cui gli veniva annunciato un premio per la miglior satira politica.
Altro paradosso: in Iran i reclusi sono i più liberi, dice. Tant'è che non è mai riuscito a pubblicare così tanto nel suo Paese come durante i suoi 18 mesi di cella. Dal suo rilascio vive esule in Belgio, a Overijse, alle porte di Bruxelles, dove scrive libri e articoli (anche sul sito www.roozonline.com), conduce un programma per una radio olandese e un altro per una tv americana. Risponde al telefono sollevato dall'arrivo della sua compagna Sanam, che lo ha raggiunto da Teheran alla vigilia dell'annunciata repressione.
Oggi è un giorno pericoloso per l'Iran, si teme la resa dei conti.
«Khamenei vuole che la gente resti a casa, così se nelle strade resta un manipolo di irriducibili potranno essere arrestati come ribelli. A partire dai leader di questo movimento, Mousavi e Khatami. Non mi stupirei se venisse dichiarata la legge marziale » Perché la rabbia è esplosa ora?
«La gente non ne può più di Ahmadinejad, delle sue bugie e dei suoi insulti. E non si riconosce nel volto ridicolo dell'Iran che lui mostra agli incontri internazionali, come ha fatto all'Onu e alla Columbia University».
Come andrà a finire secondo lei questa contesa tra piazza e regime?
«Vedo due possibilità: o si crea un governo fascista per 2-3 anni destinato a finire con rivoluzione sanguinosa. Oppure Khamenei perde il potere…».
L'unico che può «sconfiggerlo » è il silente Rafsanjani.
«Sì, lui (il leader dell'Assemblea degli esperti, ndr) ha portato Khamenei al potere e lui potrebbe farlo cadere. So che sta cercando di convincere i membri dell'Assemblea degli esperti a far saltare la Guida Suprema. Per spuntarla però deve portare dalla sua parte oltre metà dell' Assemblea. Finora non ce l'ha fatta, ma sta ancora lavorando in questa direzione».
Le manifestazioni di questi giorni sono state paragonate a quelle del 1979 a cui lei ha partecipato.
«Allora lo Scià non poteva accettare che la gente non lo amasse più e quando lo capì era troppo tardi, il suo popolo non poteva perdonarlo, era determinato ad andare fino in fondo. Proprio come oggi con Ahmadinejad. Ma adesso c'è una maggiore maturità politica rispetto ad allora: al tempo dello Scià i 40enni pensavano come i 20enni di oggi. La società iraniana ha capito che, per vincere, questa protesta pacifica deve continuare. Oggi sono fiero di dire che sono iraniano ».
Insomma ci sono più «giganti » che «gnomi» rispetto a un tempo, per dirla con il suo ultimo libro?
«Sì anche se gli gnomi al governo tentano di abbassare l'intelligenza dei giganti».
Come lei?
«Sì, e per fortuna sono in buona compagnia'.
Corriere della Sera 20.6.09
Fame nel mondo, superata la soglia del miliardo
di Giulio Benedetti
Rapporto Fao Prima volta nella storia. Colpito un sesto della popolazione del pianeta. Il demografo: «Un balzo senza precedenti»
Sono cento milioni in più solo nell’ultimo anno, 15 vivono nei Paesi industrializzati
ROMA — Nel mondo oltre un miliardo di persone soffre la fame. Un sesto della popolazione del pianeta non dispone di una quantità di cibo adeguata. Nell’ultimo anno 100 milioni di esseri umani hanno perso la possibilità di nutrirsi regolarmente. E tra questi 15 milioni vivono in Paesi sviluppati. Il dato allarmante emerge dal periodico rapporto della Fao sulla fame nel mondo.
«La fame e la povertà pongono seriamente a rischio la sicurezza e la pace mondiale», avverte Jacques Diouf, direttore generale dell’agenzia dell’Onu. Per Antonio Golini, demografo de «La Sapienza» di Roma, non ci sono precedenti: «Forse qualcosa di simile potrebbe essersi verificato nel ’29, ma non è mai successo che una crisi economica abbia portato in un anno alla fame 100 milioni di persone».
L’impatto si farà sentire in particolar modo nei Paesi in via di sviluppo, sommandosi alle preesistenti difficoltà causate dagli alti costi dei prodotti agricoli (2006-2008), attraverso la riduzione (25-30 per cento) delle risorse che i Paesi ricchi destinano agli aiuti umanitari, proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno, e la riduzione delle rimesse da parte degli emigrati. Per il direttore della Fao sono necessarie «azioni rapide e sostanziali». L’obiettivo di far scendere il numero dei poveri sotto i 420 milioni entro il 2015 appare, alla luce dei nuovi dati, molto incerto. Una prima risposta all’appello lanciato da Diouf potrebbe venire dal World food summit che si svolgerà a novembre a Roma, alla presenza dei capi di Stato di tutto il mondo.
Nell’Asia e nel Pacifico, la regione più popolosa del mondo e col maggior numero di persone sottonutrite (642 milioni), coloro che soffrono la fame sono aumentati del 10,5 rispetto al 2008. Nell’Africa Sub-Sahariana (265 milioni) la crescita è stata dell'11,85. Nel Medio Oriente e nel Nord Africa (42 milioni) l’aumento è stato pari al 13,5. In America Latina e Caraibi (53 milioni) la denutrizione è cresciuta del 12,8. L’aumento più consistente di persone che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena, sempre rispetto al 2008, è avvenuto nelle nazioni sviluppate: 15,4 per cento.
«Siamo in presenza di una pandemia da fame — spiega il professor Golini —. Difficile fare previsioni. Molto dipenderà dalla tenuta dell’economia cinese e indiana. In quei Paesi vivono 2 miliardi e mezzo di persone». Per l’ecologo Gianni Gilioli, docente dell’ateneo di Reggio Calabria, la crisi finanziaria ha solo peggiorato l’impatto della speculazione sui prezzi agricoli. «Il mondo ha diritto ad avere un’agricoltura che ritorni ad essere capace di sfamare tutti i suoi cittadini. I dati della Fao tormentano la nostra coscienza civile e cristiana», ha dichiarato il ministro delle Politiche agricole, Luca Zaia.
l'Unità 20.6.09
La storia dei rifugiati eritrei di Milano
Senza più rifugio
di Maria Pace Ottieri
Scappano dall’Africa cercano aiuto in Italia ma trovano ostilità, botte, povertà, violenze. La storia dei rifugiati eritrei di Milano, accampati
come fantasmi scomodi in piazza Oberdan
Sono un esercito di vessati senza difesa: vulnerabili per eccellenza
Oggi è la loro giornata
La loro isola è uno slargo di asfalto, un rettangolo grigio circondato da un mare luccicante di automobili, l’unico riparo dal sole e dalla pioggia, una pensilina di ferro e cemento. Sono rifugiati politici eritrei e quest’angolo di Piazza Oberdan, a Milano, Porta Venezia, è la loro casa. Naufraghi urbani che si lavano alle fontanelle dei giardini pubblici antistanti, si sfamano alla mensa dei frati cappuccini, fumano sigarette chieste ai passanti, dormono su cartoni e in questi giorni, sulle facce compiacenti dei manifesti dei candidati alle recenti elezioni europee. «In Italy life is knife», si sente bisbigliare, il tono è sempre sommesso, nessuno ha voglia di parlare di sé, della sua storia, della fuga dal suo paese. Noi parliamo dei nostri diritti, non dei segreti della nostra vita, siamo stati riconosciuti come rifugiati, allora perché dobbiamo fare questa vita da cani?
Anzi i cani stanno meglio di noi, hanno un diritto qua in Italia, conosco un cane che i suoi padroni spendono quattrocentocinquanta euro al mese per dargli da mangiare e lo portano anche dal parrucchiere.
Un ragazzo giovanissimo legge un libro in tigrino alla fioca luce di un lampione. Alle sue spalle quattro ecuadoregni ubriachi schiamazzano e vomitano, ma nessuno ci fa caso, gli eritrei stanno seduti su uno stretto muretto, fieri, cupi, sfuggenti, lo sguardo nel vuoto. Di che cosa parlate tra voi durante la lunga giornata? Della nostra vita di merda, è come se uno ti fa entrare in casa come ospite e poi ti chiude in cantina, al buio, con i topi, è così l’Italia. La mattina all’alba arriva la polizia ed è guerra, si uniscono anche i connazionali che dormono sugli spalti erbosi dei giardini, qualcuno viene arrestato, gli altri si ricompongono come uno stormo di uccelli immemori dello spavento. Agli occhi dei passanti somigliano più a un branco di sparuti gatti randagi, difficile spiegare da dove si viene, come si vive in un paese dove un ragazzo può essere preso per la strada e costretto a una leva militare indefinita che dura dieci anni, o spedito al confine con l’Etiopia, mille chilometri dove una guerra permanente ti uccide, difficile anche dire che del tuo paese puoi avere nostalgia se fai una vita ancora peggiore.
La polizia qui arresta i poveri perché è più facile, mormora Gavriel, l’unico che ha voglia di parlare. È il più vecchio, ha combattuto a quindici anni per la liberazione dell’Eritrea dall’Etiopia, era molto coraggioso. Il suo gruppo l’ELF è stato soppiantato dall’EPLF , quello dell’attuale presidente, lui è diventato un oppositore. È scappato prima in Sudan, no problem, poi in Libia, l’inferno. Otto mesi di prigione ad Al Zawia, in settanta in una camera per venti, vessazioni continue e stupri di ragazzine, Gavriel le difende, si ribella, parla arabo. Il giorno dopo portano lui e il suo gruppo nel deserto e li lasciano lì a morire di sete. Trovano una macchina che li porta a Tripoli, Gavriel ha in tasca qualche migliaio di dollari mandati dalla sorella emigrata in America. A Tripoli lo arrestano con tutti i suoi compagni di viaggio, di nuovo la prigione. La polizia è d’accordo con i trafficanti, ti arrestano e ti rivendono e ti riarrestano. Dopo due tentativi andati a vuoto, la traversata in barca, 1200 dollari a testa da Zwara a Lampedusa, 153 persone, di cui tre morti in mare. Il poco italiano che sa Gavriel lo ha imparato in Puglia dove ha lavorato come bracciante, 25 euro al giorno per dodici ore di lavoro. Era riuscito a raggiungere Londra, ma poiché le sue impronte digitali erano state prese a Lampedusa, ha dovuto tornare qui.
L’Italia è un brutto paese, non ricorda niente, settemilaottocento di noi sono morti per la bandiera italiana, il sangue rosso di mio nonno Goitam Tosfu è qui, era un ascaro morto per voi. Addosta’ casa, lavoro, dottore? Addosta’ human rights? Quando il Signore porterà la sua lampada su di me, dice Gavriel mostrandomi il braccialetto con l’immagine di Gesù, forse qualcosa cambierà. Per un rifugiato la vita ha smesso di scorrere. In fuga da uno stato che lo minaccia, non trova, da parte dello stato in cui cerca riparo che un’ospitalità passiva, nominale. È l’ennesimo tradimento dell’Italia a cui gli eritrei, benché da sempre ignorati e usati, guardano come a una “casa madre” che non solo li aspetta, ma è pronta ad accoglierli e a proteggerli.
Due mesi fa insieme un folto gruppo di rifugiati eritrei, etiopi, somali e sudanesi, hanno occupato l’ala abbandonata da vent’anni di un ex albergo, un immenso edificio senz’acqua e senza luce ma con mille stanze. Di fronte alla porta a vetri, sui gradini della scalinata, hanno fatto prove di democrazia: divisi in quattro gruppi hanno eletto dei rappresentanti che parlassero almeno due delle quattro lingue, il tigrino, l’amarico, il somalo e l’arabo e decidessero come dividere le stanze fra tutti. È stato un momento di euforia, qualcuno si è subito messo al lavoro per coprire con cartoni e teli le finestre senza vetri, i colpi di martello rispondevano ai boati del treno che sfrecciava al di là della siepe. Due giorni dopo sono stati accerchiati dalla polizia in assetto di guerra e per resistere allo sgombro, hanno inscenato un sit in sui binari della vicina stazione e fermato per mezz’ora un treno di inferociti pendolari. La polizia li ha sollevati di peso, picchiati e ributtati per la strada. Erano poco meno di trecento, giovani, ma non forti. Da mesi vivevano all’addiaccio, tra loro c’erano anche una quarantina di donne e una decina i bambini, di cui uno di un mese, tutti con permesso umanitario, di richiedenti asilo, o riconosciuti come rifugiati. Hanno vagato, pesti, sfiniti, affamati per le strade di Bruzzano, alla periferia di Milano e si sono dispersi di nuovo nella città.
La maggior parte di loro è arrivata nell’ultimo anno a Lampedusa, ma molti sono qui da tempo. C’è chi ha esaurito il periodo di accoglienza in uno dei dormitori della città previsto dal Piano asilo ( in tutta Milano 320 posti, 500 in Lombardia) e chi invece è stato mandato via dai dormitori dopo soli tre mesi, per problemi di capienza, chi ha raggiunto altri paesi europei. Tutti vengono dal Corno d’Africa, Sudan, Somalia, Etiopia ed Eritrea, l’area africana più martoriata nell’ultimo decennio. Ci siamo mai chiesti da che cosa scappano? Le origini di queste ondate? Come mai gli eritrei hanno ricominciato a emigrare solo dal 2000 in avanti, quando la morsa della dittatura, forse la più efferata dell’ Africa contemporanea, ha avuto un’ulteriore stretta trasformando il Paese in un lager a cielo aperto?
Quella dei rifugiati non è un’emergenza, ma una conseguenza della Storia, non è un ennesimo e seriale fatto di cronaca, ma un fenomeno cronico, di fronte al quale i paesi ricchi non possono ignorare le loro responsabilità.
È mezzanotte passata, ora di dormire. Qualcuno attraversa la strada e dagli alberi dei giardini coglie un sacco a pelo, uno straccio, una coperta logora. Fra poco lo slargo di Piazza Oberdan sarà tappezzato di corpi stesi come nella fotografia di una strage.
l'Unità 20.6.09
Le ferite aperte dei più piccoli
Congo, Sudan, Pakistan, Sri Lanka... L’allarme dell’Unicef
sui bambini costretti a combattere o a prostituirsi, stuprati e affamati
di Umberto De Giovannangeli
Un grido d’allarme disperato. Un quadro agghiacciante. Un rapporto che scuote, o dovrebbe farlo, le coscienze. E che pone i potenti della Terra di fronte a responsabilità pesantissime. Nessuno può dire: non sapevo. Stuprati, arruolati negli eserciti, obbligati a prostituirsi: ben 21 milioni di bambini nelle zone di guerra di tutto il mondo incontrano questo destino. Nei migliori dei casi, soffrono la fame e non conoscono l'istruzione; nel peggiore, muoiono. È la fotografia dell’infanzia violata, presentata dall'Unicef in vista della Giornata mondiale dei profughi che cade oggi, 20 giugno. Negli ultimi decenni - ricorda l'Unicef- i bambini sono stati sempre più coinvolti nei conflitti in corso in tutto il mondo, sfruttati nelle guerre degli adulti come facchini, servitori, schiavi sessuali e anche come soldati
Sono 42 milioni i profughi nel mondo, uno su due è minorenne. In alcuni Stati, come la Repubblica Democratica del Congo (Rdc), la situazione è drammatica. La sorte di quattro sorelle congolesi ne è la sintesi: i soldati di una milizia le hanno violentate tutte. Una di loro era una bambina, di soli tre anni. È morta. Julien Harneis, direttore dell'Ufficio Unicef di Goma, Congo orientale, racconta della catastrofe nell'Est del Paese. «I profughi sono più di un milione, di cui molte donne e bambini, che vivono in estrema povertà, soffrono la fame, sono vittime di violenze e rapimenti», ha detto.Nella sola provincia di Kivu Sud, ci sono stati 2.283 stupri nel 2008. Quelli non rilevati sono ancora di più e solo il 6% delle vittime ha ricevuto soccorso nelle prime 72 ore. Quando le scuole non vengono bruciate, diventano centri di reclutamento per le forze armate: per l'Unicef ci sono ancora almeno 8.000 soldati bambini inquadrati nell'esercito. «La situazione peggiorerà nelle prossime settimane: si prevede un'azione militare di truppe congolesi e ruandesi», sottolinea Harneis.La Rdc è per l'Unicef «uno dei peggiori Stati al mondo dove nascere. Un posto dove tra chi ha meno di cinque anni, il 38% soffre di malnutrizione cronica e il 20% muore per malaria, diarrea o infezioni respiratorie. Neppure una persona su due ha l'acqua potabile».
Nel mondo ci sono poi 100 milioni di bambini che non vanno a scuola, la metà vive in zone in conflitto, dove gli stupri sono usati sempre di più come arma di guerra. Sono Paesi dove i bambini, costretti a scappare, sono obbligati a prostituirsi o a imbracciare un'arma. È una scelta che i minori fanno spesso per disperazione, per uno dei 56 eserciti che non rispetta il divieto di arruolarli.«Non solo in Congo i minori vivono in condizioni disperate - riflette Rudi Tarneden, portavoce dell'Unicef in Germania, il Paese dove l’agenzia dell’Onu per l’infanzia ha presentato in anteprima il rapporto - . Tutti i profughi provengono da Paesi in via di sviluppo, dove la popolazione è di giovanissimi». Solo in Iraq, ha aggiunto, «i profughi sono più di due milioni e mezzo e vivono in condizioni estreme. Molti sono bambini. Anche quando trovano riparo da parenti o amici, non hanno mezzi di sussistenza».«A causa delle operazioni militari contro i talebani in Pakistan, ci sono circa 2,5 milioni di profughi, tanti vivono in campi di fortuna - ha spiegato Tarneden -. I bambini non hanno sostentamento ed è estremamente ridotta la possibilità di andare a scuola o di essere vaccinati». Dalla fine della guerra civile in Sri Lanka, poi, «nel Nord dell'isola oltre 300mila persone, tra cui molte donne e bambini, vivono in un grande campo, in condizioni durissime. E non è neanche sicuro se potranno tornare a casa», aggiunge. L’ultima considerazione è un appello e, al tempo stesso, un potente j’accuse rivolti ai potenti della Terra: «Mentre l’attenzione dell'opinione pubblica si concentra soprattutto sulla crisi finanziaria, il dolore dei bambini che vivono in Congo, Sudan, Pakistan e Sri Lanka rischia di finire nel dimenticatoio», denuncia l’Unicef.
Repubblica 20.6.09
Se chiude la Scuola di musica di Fiesole
risponde Corrado Augias
Caro Augias, com'è possibile che in questo paese passi praticamente sotto silenzio la possibile chiusura dell''Orchestra Giovanile Italiana'? Il taglio di fondi pubblici e le inevitabili difficoltà di quelli privati a questo potrebbero portare. L'istituzione creata da Piero Farulli è il primo e ancora oggi unico percorso formativo per professori d'orchestra. Altri complessi come la Mahler di Abbado e la Cherubini di Muti sono istituzioni meritevoli, ma non di formazione. Nella scuola di Fiesole arrivano giovani da tutta Italia per lavorare nel giusto contesto e avviarsi a una carriera spesso assai significativa nelle maggiori orchestre, a cominciare da quella della Scala. Ora si minacciano tagli. Se tagliamo su queste cose tagliamo via il meglio della nostra cultura. Se diamo spazio a giovani energie, ragazzi che spesso associano la passione per la musica a altre specializzazioni, forse facciamo un investimento serio per la nostra società di domani. Mi creda, caro Augias, meglio cento orchestre (il Venezuela insegna!) di un inutile e temo dannoso ponte sullo Stretto. E potrei continuare a lungo sull''indotto'.
Mathias Deichmann mathias.de@alice.it
Ho letto anch'io con dolore la notizia uscita nei giorni scorsi che la benemerita scuola di musica di Fiesole potrebbe essere costretta a chiudere. Il suo bilancio, meno di un milione di euro annui, era sostenuto per la massima parte da fondazioni bancarie. Ora la crisi potrebbe spingere queste ultime a ridurre i loro contributi. Il pianista Andrea Lucchesini, direttore artistico della Fondazione ha messo il dito nella piaga ricordando che in Italia non si è ancora riusciti a dare facilitazioni fiscali agli sponsor di iniziative meritevoli come è senz'altro Fiesole. Gli allievi sono circa 80, ognuno di loro costa 10 mila euro l'anno compresa l'ospitalità. I docenti sono alcuni tra i migliori nomi del concertismo, a cominciare dal grande Salvatore Accardo, ma anche direttori di fama mondiale, compresi Claudio Abbado e Riccardo Muti, sono ospiti frequenti per quelle che si chiamano "masterclass". A che serve Fiesole? Serve ad imparare a suonare insieme, ad ascoltarsi, a formare quell'organico strumentale che assicura il "suono", la cifra, la firma, di una grande orchestra. Dopo le brutte notizie dei giorni scorsi, il maestro Accardo ha dichiarato al "Corriere della Sera": « La scuola di Fiesole è un'eccellenza musicale di cui l'Italia dovrebbe andar fiera. In nessun altro Paese verrebbe abbandonata». L'intuizione di un istituto del genere la ebbe trent'anni fa Piero Fa Frulli, già viola del mitico "Quartetto italiano", vedendo in quali povere condizioni si presentavano i diplomati dei conservatori alle audizioni. Trent'anni di lavoro che ora rischiano di andare in fumo.
Corriere della Sera 20.6.09
Atene Inaugurazione dopo 30 anni. Il British Museum: vi prestiamo i pezzi mancanti se riconoscete che sono nostri
Apre il super museo dell’Acropoli
Oggi il debutto, ma i marmi del Partenone restano in Gran Bretagna
di Antonio Ferrari
ATENE — L’ombra sinistra dello scozzese Thomas Bruce, settimo conte di Elgin, che nel 1799 fu nominato ambasciatore britannico presso il sultano di Costantinopoli, si allunga e violenta la luce che illumina le vetrate del nuovo museo dell’Acropoli, che verrà inaugurato stamane. È un’ombra sinistra perché Lord Elgin, con il permesso dell’impero ottomano, che allora occupava la Grecia, sottrasse dalla collina più celebre del mondo le statue più preziose, per inviarle a Londra. Dove si trovano ancora, esposte al British Museum.
Decenni di sforzi per ottenerne la restituzione, nei quali si impegnarono da Lord Byron all’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, sono stati vani. Ma i greci non hanno intenzione di rinunciare. Anzi, l’inaugurazione di stamane, di fronte ad alcuni potenti della terra, è diventata l’occasione per rilanciare l’operazione-recupero, con la speranza di vederla realizzata in occasione delle Olimpiadi del 2012, che si svolgeranno a Londra. Far tornare a casa i preziosi marmi, quando il mondo celebrerà l’ennesima festa dello sport, nata nell’antica Grecia, sarebbe davvero un bel gesto. Ma sul risultato è assai azzardato scommettere.
Per Atene le Olimpiadi, il Partenone, l’Ortodossia, la bandiera e i confini nazionali sono valori che non conoscono schieramenti politici né sociali. Per difenderli, l’orgoglioso Paese è pronto a tutto. Pur di cancellare, proprio con la vicenda dei marmi rimossi, quello che è stato definito un «crimine culturale». Un conto, infatti, è l’asportazione di opere d’arte nella loro interezza, come è accaduto durante tutte le guerre, le rivoluzioni, e le occupazioni. Un conto è mutilare un corpo unico delle sue parti, come è accaduto con il Partenone. Ecco perché l’inaugurazione del Museo dell’Acropoli (3 livelli; 21000 metri quadrati, di cui 14000 riservati all’esposizione), ideato dall’architetto franco-svizzero Bernard Tschumi, è diventata la rampa di lancio dell’attacco decisivo a un recupero che i greci ritengono non possibile ma doveroso.
Per ora i contatti con Londra sono gelidi. Il British Museum ha annunciato d’essere disponibile alla restituzione dei marmi, in cambio di un accordo che ne garantisca la proprietà. Come dire: noi ve li prestiamo, ma sono nostri. La risposta è stata un rifiuto secco. La Grecia avanza un nugolo di ragioni, e non soltanto perché quello compiuto da Lord Elgin viene ritenuto quasi un tollerato furto, visto che il sultano di Costantinopoli fu spinto ad accettare la richiesta dell’ambasciatore per piaggeria nei confronti di Londra; ma perché, più volte, la Gran Bretagna aveva opposto alle reiterate pressioni una sola risposta: «Nessun luogo in Grecia è adatto per difendere e proteggere dall’incuria del tempo le statue». Questa poteva essere una comprensibile giustificazione. Ma dopo aver atteso 30 anni, Atene oggi può offrire il più grande e moderno museo del pianeta, ai piedi dell’Acropoli, per offrire un confortevole, sicuro e definitivo rifugio ai suoi preziosi cimeli.
La Grecia è attraversata, in queste ore, da brividi di orgoglio nazionale, che non si avvertivano dal 2004 quando, in pochi mesi, la squadra di calcio vinse a sorpresa l’Europeo, e i giochi olimpici, dopo un’attesa durata oltre cent’anni, tornarono a casa e offrirono un’edizione che tutti gli osservatori, persino coloro che ironizzavano sulle capacità organizzative del Paese, giudicarono perfetti, spendendo giudizi ammirati. Ora la battaglia è sui marmi del Partenone, e se si fa un pensiero all’ostinazione di Atene nell’impedire che la repubblica ex-jugoslava di Macedonia possa fregiarsi del titolo di Macedonia (come il nome storico della regione greca dove nacque Alessandro Magno) si può concludere che pensare a qualche parziale compromesso è quasi impossibile.
Corriere della Sera 20.6.09
Progetto europeo: ricreare neuroni specchio negli androidi
E’ in arrivo il robot che indovina i pensieri
Impara come un bimbo e interagisce con l’uomo
di Paola Caruso
I nuovi robot somigliano poco agli androidi di Asimov, ai C-3PO di Guerre Stellari o a «aNDRew» dell’Uomo bicentenario. Ma sono sempre più capaci e intelligenti. Per non dire «più umani». Sì, perché sanno anche fare esperienza: imparano come i bambini e interagiscono con l’uomo. Al punto che sono quasi in grado di intuire i comandi e i desideri del «creatore». E così gli tocchi la spalla e si girano, gli parli e ti rispondono, gli indichi la strada con il dito e la percorrono, gli spieghi come montare un tavolino e lo assemblano. Non solo perché sono stati programmati, ma perché «vivendo» assimilano informazioni ricordandole in maniera costruttiva.
Insomma, nessuna registrazione asettica. Per produrre un cervello artificiale per robot che imiti bene il nostro lavorano diversi team internazionali multidisciplinari: mix di ingegneri, neuroscienziati, informatici, psicologi e altri specialisti. Tre esempi europei su tutti sono: i ricercatori del progetto Jast (partecipano Germania, Olanda, Regno Unito, Portogallo e Grecia), quelli del progetto Paco-plus coordinato dalla Universitaet Karlsruhe in Germania o quelli dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Genova che operano in collaborazione con la scuola Sant’Anna di Pisa, l’Università di Ferrara e la società Telerobot. Tutti a caccia di software sempre più sofisticati per migliorare la «cyber-materia grigia» e per ottimizzare i dispositivi che devono funzionare come i nostri «neuroni specchio », ossia quei neuroni che ci permettono di capire e imparare. In particolare il programma Jast punta a rendere l’interazione uomo- macchina sempre più naturale, creando sistemi cognitivi artificiali che simulano i «neuroni specchio» biologici e facendo esperimenti in cui macchine e umani lavorano insieme. L’obiettivo è: arrivare a robot che si pongono domande da soli.
Le ricerche serviranno a sviluppare i robot- colf per la casa, bipedi e non su ruote, che sappiano usare un coltello o un telecomando. Ma queste macchine hanno davvero un potere di intuizione? «Li definirei apprendisti perché possono imparare movimenti semplici — spiega Giulio Sandini, direttore del dipartimento di robotica dell’Iit che ha costruito iCub (Cub in inglese significa cucciolo), un robot bambino quasi intelligente — ma esiste una barriera di apprendimento: non capiscono cosa succede intorno a loro». Secondo Sandini a bloccare la loro intelligenza è il fatto che il numero di connessioni che simulano i neuroni è limitato: «Nei robot le connessioni si realizzano con cavetti che hanno dimensioni molto grandi rispetto alle connessioni neuronali e sono in numero minore, senza dimenticare che i chip hanno due dimensioni, mentre i cervelli umani ne hanno tre». Questo vuol dire che siamo lontani dal vedere un «uomo bicentenario» girare per l’appartamento? «Per produrre un robot- badante ci vogliono almeno 10 anni — afferma Roberto Cingolani, direttore dell’Iit — anche se si stanno facendo progressi con i sistemi sempre più integrati».
Certo, le macchine vanno perfezionate, innanzitutto dal punto di vista energetico: l’alimentazione portatile non basta per staccarli dal cavo elettrico. Poi vanno migliorati i materiali: carrozzerie soffici al posto di latta e bulloni. «Oggi se urti con il robot ti tagli» precisa Cingolani. Neanche all’uomo bicentenario piaceva la carena di metallo.