sabato 20 ottobre 2018

Repubblica 20.10.18
Ma la misoginia è nella Bibbia o nell’occhio di chi la legge? La risposta di venti teologhe
di Andrés Allemand


Anna Bissanti L a Bibbia è tutt’altro che femminista. Ma la misoginia che le si attribuisce più he altro è di coloro che hanno interpretato le scritture perpetuando stereotipi patriarcali », dice Pierrette Daviau. Professoressa in pensione della cattolicissima Università Saint- Paul di Ottawa, con due teologhe della Facoltà protestante, la professoressa Elisabeth Parmentier e la dottoranda Lauriane Savoy, ha presentato (a Ginevra) Una bibbia di donne ( Labor et Fides), la straordinaria opera collettiva che hanno illustrato al pubblico in una conferenza dal titolo eloquente: " Né sante né sottomesse".
Una " bibbia" di donne? Sì, ma non per sostituire la Bibbia, bensì per svelare le figure femminili ignote, individuare le traduzioni distorte e le interpretazioni tendenziose, senza timore di affrontare i brani più controversi. Si tratta del lavoro critico di una ventina di teologhe francofoni di Svizzera, Francia, Québec e Benin che, in un certo senso, fa da contraltare alla Woman’s Bible pubblicata negli Stati Uniti – nel 1898! – da Elizabeth Cady Stanton e da venti donne ribellatesi a secoli di lettura patriarcale dei testi sacri.
A che cosa assomiglia questa nuova ribellione? Ecco sei esempi, lettura corroborante in un periodo nel quale le lobby religiose danno il loro appoggio a politici che usano espressioni misogine, come Donald Trump negli Stati Uniti d’America o Jair Bolsonaro in Brasile.
LA FEMMINILITÀ DI DIO
Padre, Figlio, Signore, Creatore, Onnipotente… Per abitudine si utilizzano vocaboli maschili per parlare di Dio.
Quando ci ha mostrato la femminilità? Sapete che lo Spirito creatore in ebraico è femminile? E che la Saggezza divina, molto presente, è sempre incarnata da donne? Sapete che Dio è paragonato a una madre che mette al mondo ( la Creazione) o a una levatrice? Sottolineare questi aspetti non è un progetto moderno: « Alcune donne, nel corso del tempo, hanno pregato Dio al femminile», scrivono le teologhe.
EVA E LA SUA METÀ
Adamo, il "fangoso", l’essere uscito dall’argilla, è il primo umano. Dio pensa che l’essere umano non debba essere solo. Stacca una costola e crea Eva. Nasce così il duo uomo- donna. Questa è una delle possibili interpretazioni della Genesi. Perché si è preferito dirci che Dio creò prima l’uomo, e poi gli staccò una costola per fare una donna? E perché, subito dopo, si è accusata quest’ultima di aver tentato l’uomo con il frutto proibito? Le teologhe se lo sono chiesto. Il testo mostra il serpente che tenta Eva, che cade nella trappola. Quanto alla punizione che ne consegue (partorire nel dolore, essere assoggettata all’uomo), è un male legato alla trasgressione, ma non era il progetto di Dio – notano –, la cui creazione presenta una relazione equilibrata.
LE PROFETESSE
Alcuni brani biblici intimano alle donne di tacere. Ma ci sono anche alcune profetesse, messaggere di Dio. Nell’Antico Testamento, Debora (che è anche giudice) ordina l’invio al fronte di 10mila soldati. Olda, invece, è consultata prima che il re Giosia proibisca i culti non ebraici e concentri a Gerusalemme l’autorità religiosa. Altre profetesse sono Maria o Noadia. Sono meno rispetto ai profeti, ma non meno considerate.
MARIA DI MAGDALA
Alcuni l’hanno confusa, a torto, con la donna peccatrice. Altri hanno visto in lei l’amante di Gesù, anche se nulla lo attesta. Maria di Magdala ( o Maria Maddalena) era una delle tante discepole che seguivano Gesù, in rottura con le convenzioni sociali. Porta il nome della sua città, non del padre, del fratello o del marito, e di conseguenza è una donna indipendente. Molto presente nei Vangeli, assiste alla crocifissione ( gli uomini se ne vanno, lasciando Gesù in agonia). Nei testi biblici, è a lei che appare per prima Cristo risorto, ed è lei a essere mandata ad annunciare la buona novella ai discepoli. In sintesi, la sua è una figura centrale.
INDOMITE
Resta la Lettera agli Efesini, che ordina: « Donne, siate sottomesse ai vostri mariti!». È difficile vedervi un manifesto femminista. Premesso ciò, le teologhe ricordano il contesto: l’apostolo Paolo consiglia ai cristiani che devono far fronte all’ostilità popolare nella città greca di Efeso ( oggi in Turchia) di adattarsi alla legge dell’Impero romano che assoggetta le donne agli uomini. «‘Subordinata’ è una traduzione più precisa di ‘ sottomessa’ » , dicono. Poi fanno notare che il versetto precedente invita le coppie a rendere grazie a Dio « subordinandovi gli uni agli altri nel rispetto di Cristo » . Si tratta di reciprocità. Infine, più avanti si afferma che « il marito è capo della donna, come Cristo lo è della Chiesa » . Le teologhe non lo smentiscono, ma ricordano che Gesù si mise sempre al servizio del prossimo. Se lo si intende in questo modo, l’uomo dovrebbe mettersi al servizio di sua moglie! Quel versetto non giustifica certo una sottomissione. n
Repubblica 20.10.18
In Messico è florida l’industria feroce dei sequestri. C’è un avvocato che sa come trattare con i rapitori. Nome in codice Javier, svela le tattiche dei clan e le risposte efficaci
di Tobias Kaufer


Messico vengono rapite ogni giorno sei persone. Per non essere in balia di sequestratori spesso brutali, le famiglie che possono permetterselo si affidano a un operatore speciale, che conosce tutte le strategie dei rapitori. «La decisione sulla sopravvivenza di una vittima è presa nei primi 30 minuti di un rapimento», dice Javier. «Se un ostaggio si comporta in modo nervoso, se stressa i rapitori, c’è il pericolo che ai sequestratori saltino i nervi. Nessun contatto visivo...».
L’uomo, che non vuole rivelare il suo nome, ha il suo ufficio a Città del Messico, non lontano dall’Angelo dell’Indipendenza e dal centro commerciale Reforma 222, nelle vicinanze di uno dei grandi centri finanziari della capitale messicana. Javier ha risolto con successo due dozzine di casi di rapimento. Ufficialmente, è avvocato e consigliere per la sicurezza, Javier descrive la sua attività come « servizio e consulenza in caso di rapimento». È un mediatore tra la malavita e quelli che temono per la vita dei loro familiari. Javier ha circa 45 anni, una voce tranquillizzante e parla un perfetto inglese. Preferisce l’anonimato perché quello che fa è illegale: l’interlocutore a cui rivolgersi sarebbe la polizia. Ma la fiducia nelle forze di sicurezza è scossa, non pochi funzionari hanno stretti contatti con la criminalità organizzata.
In base a un’indagine dell’Università autonoma nazionale del Messico ( Unam), dal fenomeno dei sequestri sono molto colpiti la capitale, lo Stato federale di Guerrero e Acapulco, la metropoli delle vacanze, con lo stato federale di Baja California. Per l’Unam, a ogni rapimento denunciato alle autorità corrispondono cinque sequestri non segnalati. L’organizzazione non governativa
tra dicembre 2012 e marzo 2016 ha contato 10.898 rapimenti, ma la cifra ufficiosa si aggira sui 100.000.
Gli esperti distinguono quattro categorie. Nel 92% dei casi si tratta di soldi, le motivazioni politiche o personali sono rare. Con il "rapimento express" i criminali con i loro ostaggi si recano agli sportelli bancomat per prelevare la somma massima in contanti. I " rapimenti di massa" consistono nel prendere in ostaggio gruppi di persone, ad esempio negli spostamenti interurbani in autobus. Spesso si va a caso, le famiglie delle vittime non sono abbienti, ma è comunque possibile spremere qualche migliaia di euro. Raro è il "sequestro virtuale": alla famiglia di una persona in viaggio viene raccontato che è avvenuto un rapimento. In questo caso i criminali fanno ricerche sui social e tentano, ad esempio, di prendere contatto con i familiari di una vittima durante un suo lungo viaggio in aereo, per spingerli al pagamento rapido. Poi ci sono i casi nei quali si è specializzato Javier: il rapimento di un individuo per estorcere un riscatto ad almeno cinque cifre. Per le statistiche Unam, il 70% dei casi si conclude con il pagamento di un riscatto. Ciò dimostra quanto grande sia il mercato per coloro che si mettono a disposizione per far sì che la consegna del denaro e la liberazione avvengano senza intoppi. Javier considera realistiche le cifre dell’università. « Si tratta di garantire ai rapitori la certezza di ricevere i soldi e di non essere scoperti » . Anche il sequestratore non vuole problemi e la polizia è percepita da entrambe le parti come fattore di disturbo: «I familiari temono che la comparsa della polizia metta in pericolo la vita dell’ostaggio, per i rapitori il rischio di essere scoperti cresce».
Le cifre dell’Unam confermano le sue esperienze. In appena il 6% dei casi i familiari si affidano solo alla polizia e si rifiutano di pagare il riscatto. L’industria messicana dei sequestri si è da tempo specializzata. Per quasi tutti i compiti dispone di « forze specializzate». Ci sono quelli che identificano le vittime in base all’entità del riscatto e al livello di rischio. Poi ci sono quelli che rapiscono la vittima. E infine c’è quello che conduce le trattative. Le istruzioni o le prove che il rapito è vivo sono fornite via WhatsApp con cellulari prepagati, le cui sim anonime sono distrutte dopo la prima comunicazione. «Nel caso di sequestri particolarmente brutali può avvenire che siano spediti video o foto nelle quali le vittime femminili subiscono abusi sessuali o le vittime maschili sono picchiate», dice Javier. La banda " Los Nequis" era nota per inviare alle famiglie le punte delle dita dei sequestrati. E il più celebre sequestratore, l’ex poliziotto Daniel Arzimendi, che dopo l’arresto nel 1998 confessò 18 sequestri, era soprannominato
Mozzaorecchie: come prova inviava le orecchie. L’impatto con la sofferenza del proprio figlio, della propria figlia o dei propri genitori è il momento nel quale i familiari crollano. Nelle loro teste si figurano scene terrificanti su tutto quello che potrebbe succedere. I sequestratori sfruttano questo effetto per spingere il più in alto possibile la richiesta di riscatto.
Perciò è importante che le trattative siano gestite da una persona che, pur tenendo presenti gli interessi dell’ostaggio, chiarisca ai sequestratori che c’è un limite da non oltrepassare, dice Javier. Il punto critico di un rapimento è il pagamento del riscatto. I criminali vogliono sparire il più presto possibile con il bottino. In quel momento l’ostaggio perde il suo valore. Anche per questo gli interventi di Javier sono molto richiesti. Con lui sia i rapitori sia le famiglie sanno che il denaro sarà consegnato con sicurezza. Quasi sempre l’ostaggio viene poi liberato: « Se questo non accade, ho commesso un errore ». In caso di «lavoro svolto con successo » , il messicano riceve per le sue prestazioni una somma commisurata al riscatto. Javier non rivela l’entità di questa percentuale e non accetta il rimprovero di incoraggiare con il suo lavoro la criminalità organizzata: «I sequestri ci sarebbero anche senza di noi. Però con noi le vittime riescono quasi sempre a
donna alla marcia per il IV anniversario della scomparsa di 43 aspiranti insegnanti il 26 settembre scorso
Repubblica 20.10.18
Miriam Sylla
"Siamo andate oltre la paura c’è una musica che ci guida"
Adesso voglio ballare».


Accenna qualche passo di una danza. Il trucco le è restato sulle palpebre, nonostante tutto: gli urli, le corse, i 23 punti.
Siamo uomini o siamo ballerini, si chiedeva una canzone una decina di anni fa. Al tempo Miriam Fatime Sylla era solo una bambina nata a Palermo, i genitori ivoriani erano arrivati in cerca di un’esistenza nuova e intanto stavano crescendo una, forse, futura campionessa del mondo. Se Egonu è la classe infinita, Sylla è la musica che suona dentro la squadra, l’emozione che si vede, i suoi punti sono il segno della fatica fatta per arrivare, della molta vita nei suoi 23 anni. Ed è come se l’Italia si reggesse sulla sua frenesia, sulla sua assoluta mancanza di mezze misure.
Cosa vuol dire giocare un tie-break sapendo di non poter sbagliare di un centimetro?
«Non si può descrivere la tensione di quei momenti, quando ti concentri su te stessa, sui tuoi sogni e contemporaneamente devi pensare a come non far cadere quel benedetto pallone, tenerlo vivo, darlo alle compagne e mettersi in linea col palleggiatore per attaccare. La paura è tanta, sì. Non è stata dura, ma molto di più. E in giornate come questa ti salvi se hai qualcosa di molto grande dentro».
Loro non vi mollavano: avete pensato mai "ora la perdiamo"?
«In molti momenti, ma poi al punto successivo ti metti lì e aspetti, è un rito di purificazione, arriva il pallone e ricomincia tutto ogni volta, devi spingerlo verso la palleggiatrice e schiacciarlo e non faresti nessun’altra cosa al mondo in quel momento».
Sente di essere lei l’energia vitale della squadra? Tutti la cercano dopo un punto, i suoi urli sono la scala Mercalli dell’umore della squadra.
«Urlo per dire "ci siamo ancora", è un modo per farmi sentire anche dall’altra parte della rete, a volte urlo anche parolacce e forse si vede, ma noi siamo un circuito, ci alimentiamo a vicenda, abbiamo un cuore grandissimo».
Ci pensa a quanti italiani avranno gridato con voi?
«Io il tie-break non me lo ricordo, ho un vuoto ora, e sono passati dieci minuti, davvero non ricordo neppure di averlo giocato, di esserci stata in campo. Ricordo i miei bagher, sì, e la paura di sbagliarli».
Come sta adesso?
«Ho dolore in ogni singolo muscolo del corpo, ma è la testa a farti correre, non i muscoli. Con la Serbia si ricomincia per l’ennesima volta, e stavolta è l’ultima».
Che finale sarà con la Serbia?
«Abbiamo dei conti in sospeso da prima delle Olimpiadi di Rio, è un’altra battaglia e ci teniamo ad affrontare loro, soprattutto loro.
Partiamo alla pari ma noi abbiamo una voglia enorme. In questi cinque mesi abbiamo pianto, abbiamo lavorato e ci siamo fatte del male per arrivare dove siamo adesso».
Eppure sembrate spensierate, divertite. E state per finire nella storia dello sport italiano.
«Ci piace ballare, seguire una musica che abbiamo dentro, siamo molto istintive. Gli italiani si staranno innamorando del nostro modo di stare in campo, e me li immagino stremati e affondati nel divano, dopo l’ultimo punto di Paola. Vi abbiamo fatto soffrire, ma è stato così bello. La rivedremo forse cento volte questa partita e ci chiederemo "ma eravamo davvero noi, in quel campo"? Adesso è meglio finirla qui, se no dopo la finale di che parleremo?». – c.c.
La Stampa 20.10.18
Leggi razziali del 1938
Dagli schedari torinesi gli elenchi della vergogna
di Andrea Parodi


Iniziarono dai bambini, elencandoli. Le date riportate sui documenti sono crudeli testimoni di un tempismo studiato a tavolino. Pochi giorni prima dell’inizio delle lezioni, giusto in tempo per impedirgli l’accesso alle classi con i loro compagni ariani.
Cominciò così a Torino, dai più deboli, nell’agosto 1938, la compilazione delle «liste di prescrizione ebraiche». Fino al 1942 i dipendenti del Comune di Torino trascrissero a mano, aggiornandoli di continuo, tre grandi volumi con la copertina color amaranto. All’interno erano elencati nomi, indirizzi, dati personali. Dei bambini, ma soprattutto degli adulti. Sul frontespizio era riportato un titolo generico: «Rubrica Denunce appartenenza razza ebraica e discriminazioni». Di fatto era il crudo elenco con il quale il Comune divise i torinesi tra «noi» e «loro». Si trattava di 4.500 profili biografici su 700.000 abitanti, pari allo 0,65% della popolazione torinese.
Da lunedì - e per la prima volta - l’Archivio Storico della Città di Torino esporrà al pubblico, in una toccante mostra curata da Maura Baima, Luciana Manzo e Fulvio Peirone, la documentazione originale delle leggi razziali del 1938. Lo fa nell’ottantesimo anniversario dell’emanazione del provvedimento fascista ma, soprattutto, perché sono scaduti i termini di legge temporali per la loro diffusione pubblica. Il loro valore storico è importante soprattutto perché la documentazione storica della Comunità ebraica torinese non è completa. È andata perduta con il bombardamento della Seconda guerra mondiale del 20 novembre 1942, che danneggiò anche la sinagoga.
Le liste che arrivarono dalle singole scuole torinesi di ogni ordine e grado sono quelle che colpiscono di più. Vennero vergate a mano, con la calligrafia precisa di maestri e insegnanti. Compilarono obbedendo, escludendo i loro allievi dalla possibilità di istruirsi. Le liste giunsero alla «Divisione stato civile e statistica» del Comune di Torino. Contenevano l’elenco degli studenti che avevano richiesto di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica. Perché agnostici, perché valdesi, perché ebrei. Su quest’ultima informazione, una volta arrivata agli uffici comunali, scattava l’inserimento nella lista più terribile: quella dei volumi color amaranto.
Questi tre libroni, aperti e consultati per tutti gli anni della guerra dai gerarchi fascisti per procedere al loro allontanamento dalla vita civile, nonché fonte preziosissima dal 1943 per poterli catturare, sono adagiati in una vetrina e proposti al pubblico. Li ha sistemati qui Luciana Manzo, dedicando per mesi, con grande attenzione e cura, le ricerche nell’allestimento di una sezione che urla la più grande vergogna della storia d’Italia post unitaria. I tre volumi non si possono sfogliare, ma si possono leggere.
In questi «elenchi della vergogna» ci sono alcuni dei cognomi più famosi e influenti della Torino dell’epoca, nonché torinesi illustri: lo scrittore Primo Levi, la scienziata e premio Nobel Rita Levi Montalcini, il chirurgo fondatore dell’ospedale Cto Simone Teich Alasia, l’avvocato Bruno Segre, che proprio l’altro giorno, dall’alto dei suoi cento anni appena compiuti, l’ha sfogliato con emozione ritrovando il suo nome.
Un terribile grafico disegnato a mano con i colori nero e rosa illustra con pragmatica crudezza una metodologia per determinare il grado di purezza ebraica. Che è pari al 100% per gli appartenenti a famiglie ebraiche che risiedevano a Torino già nel 1845. Dal 17 novembre del 1938 quella lista divenne formalmente una prescrizione. Anche nel lavoro. Un documento datato 24 febbraio 1939 riportava le aziende torinesi che venivano depennate dall’elenco dei fornitori della civica amministrazione. Tra queste compariva la Ceat, fabbrica di cavi elettrici di proprietà dell’ebreo Virginio Tedeschi, il nonno di Valeria e Carla Bruni Tedeschi.
La mostra «Torino sotto attacco. Dalle leggi razziali alla Liberazione» rimarrà aperta dal 22 ottobre al 26 aprile 2019 all’Archivio Storico della Città di Torino (via Barbaroux, 32) con ingresso gratuito, dal lunedì al venerdì con orario 8,30-16,30. Sono previste aperture straordinarie il sabato con cadenza mensile. Per info: 011.011.318.11. www.comune.torino.it/archiviostorico/
il manifesto 20.10.18
Gaza, Israele schiera i carri armati
Palestina. 30esimo venerdì della Grande Marcia del Ritorno
La colonna di carri armati israeliani schierata ieri intorno a Gaza
di Michele Giorgio


Con un bilancio di “appena” 115 palestinesi feriti, 77 dei quali colpiti da proiettili, si è chiuso ieri il 30esimo venerdì della Grande Marcia del Ritorno a Gaza. Numeri drammatici ma per fortuna inferiori a quelli che molti si attendevano in una giornata che aveva visto Israele schierare intorno a Gaza decine di carri armati e mezzi blindati e rendere esplicita la sua intenzione di lanciare un’offensiva militare. Lungo le linee di demarcazione si sono ammassati15mila palestinesi per reclamare la fine del blocco israeliano di Gaza. In diversi punti gruppi di giovani hanno cercato di aprire varchi nei reticolati.
Ma la spinta delle proteste è stata inferiore rispetto al venerdì precedente anche per l’invito giunto dai movimenti islamici Hamas e Jihad a protestare pacificamente e senza esporsi agli spari dei militari. In particolare Hamas spinge per portare avanti la trattativa mediata dagli egiziani per una tregua a lungo termine con Israele. Due giorni fa, con un annuncio inedito, un dirigente del movimento islamico ha promesso lo svolgimento di una indagine contro la formazione o cellula armata che a inizio settimana ha lanciato due razzi verso Beersheba e Tel Aviv.
Con un bilancio di “appena” 115 palestinesi feriti, 77 dei quali colpiti da proiettili, si è chiuso ieri il 30esimo venerdì della Grande Marcia del Ritorno a Gaza. Numeri drammatici ma per fortuna inferiori a quelli che molti si attendevano in una giornata che aveva visto Israele schierare intorno a Gaza decine di carri armati e mezzi blindati e rendere esplicita la sua intenzione di lanciare un’offensiva militare. Lungo le linee di demarcazione si sono ammassati15mila palestinesi per reclamare la fine del blocco israeliano di Gaza. In diversi punti gruppi di giovani hanno cercato di aprire varchi nei reticolati.
Ma la spinta delle proteste è stata inferiore rispetto al venerdì precedente anche per l’invito giunto dai movimenti islamici Hamas e Jihad a protestare pacificamente e senza esporsi agli spari dei militari. In particolare Hamas spinge per portare avanti la trattativa mediata dagli egiziani per una tregua a lungo termine con Israele. Due giorni fa, con un annuncio inedito, un dirigente del movimento islamico ha promesso lo svolgimento di una indagine contro la formazione o cellula armata che a inizio settimana ha lanciato due razzi verso Beersheba e Tel Aviv.
il manifesto 20.10.18
«Nazionalizzare qui e ora», la manifestazione oggi a Roma
Il corteo. Parte da piazza della Repubblica alle 14, domani l'assemblea di «Potere al popolo»


Nazionalizzazione dei servizi, delle aziende e delle infrastrutture strategiche del paese. Il welfare devastato da anni di esternalizzazioni del personale, deve tornare in mani pubbliche. È questa l’agenda indicata dalla manifestazione «Nazionalizzare qui e ora» che sfilerà dalle 14 di oggi da piazza della Repubblica a piazza San Giovanni in Laterano a Roma. Nella stessa giornata ci saranno anche il meeting dei Cinque Stelle e l’ultima edizione della «Leopolda» di Renzi. «Sarà l’occasione – sostengono i promotori – di far vedere fisicamente che c’è una opposizione sociale e politica che sta crescendo nei conflitti di tutti i giorni». La manifestazione intende rappresentare «quelli che subiscono tutte le conseguenze di scelte – nazionali ed europee – prese sulla loro pelle: lavoratori con qualsiasi tipo di contratto e di qualsiasi etnia, disoccupati, pensionati, studenti, senza casa, migranti».
Quello della nazionalizzazione è una delle questioni sospese del governo Lega-Cinque Stelle. L’ipotesi è spuntata nelle ore successive al tragico crollo del ponte Morandi a Genova, dove hanno perso la vita 43 persone. Due mesi dopo è scomparsa dall’orizzonte politico agitato della politica italiana. «Il governo parla di nazionalizzazioni ma poi non le fa – sostiene Pierpaolo Leonardi (Usb) – E allora entrano in campo i lavoratori per costringere il parlamento a discuterne». «La nazionalizzazione riguarda l’accesso ai servizi pubblici e ai diritti – aggiunge Viola Carofalo (Potere al Popolo) – Dobbiamo contestare duramente il governo per le bufale che ci racconta e per il fatto che le sue proposte di cambiamento restano carta morta. Ci sono state già due manifestazioni a giugno, quella di oggi è solo la prima di un autunno di lotte».
Al corteo hanno aderito, tra gli altri, il sindacato di base Usb, Potere al Popolo, Rifondazione Comunista e partito comunista italiano, la piattaforma Eurostop, l’ex Opg «Je So Pazzo», Clash City Workers, Rete dei Comunisti, Patria e Costituzione, gli studenti della campagna «BastAlternanza».Almeno trenta pullman raggiungeranno la Capitale.
Oggi dalle 10 al centro sociale Intifada in via di Casal Bruciato 15, a Roma si terranno i «tavoli di lavoro» di «Potere al popolo». Domani alle 10 al teatro Verdi in via Bari 18 a Roma si terrà l’assemblea nazionale. Approvato tra le polemiche lo statuto, gli aderenti saranno chiamati a eleggere il coordinamento nazionale e il portavoce.
il manifesto 20.10.18
Rigenerare la sinistra, rifondare l’Europa
Congresso pd. Cambiare tutto e farlo in fretta, prima che sia troppo tardi. La risposta a Gianni Cuperlo
di Nicola Zingaretti


Condivido l’approccio proposto sul vostro giornale da Gianni Cuperlo. È proprio del riscatto e della rigenerazione di una sinistra radicalmente alternativa alla destra di Salvini che abbiamo bisogno. Cambiare tutto e farlo in fretta, prima che sia troppo tardi. Farlo appunto nonostante la difficoltà del contesto, e a partire dalla dimensione continentale, dove tra poco si misureranno quelli che l’Europa la vogliono cambiare e democratizzare con quelli che la vogliono distruggere, cavalcando la ferocia nazionalista. Le prossime saranno le prime vere elezioni europee. Sul campo, dobbiamo ritrovare la forza di battere il razzismo e le piccole patrie. Per farlo, dobbiamo scrivere una nuova agenda politica, coniugando crescita e giustizia sociale, modificando nel profondo un modello di sviluppo che ogni giorno consuma il nostro ecosistema, incide sulla qualità delle nostre vite, amplia la frattura tra chi ha e chi non ha, tra città e aree interne. Nessuna scorciatoia serve un’economia giusta, ambientalmente sostenibile, per rimettere in moto l’ascensore sociale e creare opportunità e fiducia.
Loro dicono “prima gli italiani”, aizzando una guerra tra poveri dagli esiti drammatici. Noi diciamo “prima le persone”. E tra le persone, prima quelle che stanno peggio, quelle umiliate e impoverite dalla crisi, quelle lasciate sole dallo Stato. Per fare questo, bisogna ricostruire su nuove basi il Paese. Innanzitutto, operare nei luoghi del disagio con progetti di crescita e di comunità. Serve un modello innovativo di welfare, politiche di integrazione e promozione delle persone. Bisogna quindi investire sul capitale umano, nella cultura e nella conoscenza, che resta il primo e più importante strumento per l’emancipazione sociale delle persone. La sfida per il Paese è quindi prima di tutto nei luoghi della formazione: negli asili, nell’assoluta centralità della scuola e dell’università pubbliche. È qui che possiamo attivare le intelligenze e i saperi utili a far muovere l’Italia, che dovranno trovare sviluppo e opportunità in un territorio connesso in maniera moderna, uniforme ed efficiente con reti materiali e immateriali. Serve una spinta, che ha bisogno di investimenti adeguati, alla rigenerazione del tessuto produttivo, che accompagni le imprese, le partite Iva in una fase di cambiamenti epocali, e favorisca nuovo lavoro e lavoro buono.
Serve un cambio di passo e di paradigma facendo dialogare economia ed ecologia come assi portanti di una idea di società orientata al benessere dei cittadini.
Di questo abbiamo discusso a Piazza Grande insieme a tantissime persone. Di questo vogliamo discutere con chiunque senta l’urgenza del momento e abbia voglia di combattere. Prima ancora di una mozione, c’è bisogno di ritrovare un popolo, con le sue idee, passioni, differenze, e soprattutto con la voglia di rimettersi in cammino. Un popolo plurale, differente, capace di ascolto e di stare insieme.
Mi candido alla guida del Pd con questa ambizione: cambiare tutto rispettando la storia di ognuno. Cambiare le politiche e promuovere una nuova generazione progressista fuori dalle liturgie correntizie e, appunto, di quella “guerra feroce tra eserciti” evocata da Gianni.
Piazza Grande è stata una boccata d’ossigeno. Sono convinto che ne seguiranno altre, a cominciare proprio dall’appuntamento milanese. Vi auguro di svolgere al meglio la vostra discussione. Abbiamo bisogno di tutti per farci trovare pronti. Non solo opposizione, ma anche la credibilità per ricostruire qui ed ora una vera alternativa di Governo, capace di entrare nel cuore degli italiani. Lavoriamoci insieme.
*presidente della Regione Lazio, Partito democratico
La Stampa 20.10.18
Fico tesse la rete a sinistra per ritagliarsi un ruolo futuro
di Fabio Martini


Quel che Luigi Di Maio non può dire, perché altrimenti cadrebbe il governo, lo dice ancora una volta il presidente della Camera, che è anche la terza carica dello Stato. Roberto Fico ieri era nella sua Napoli, per un convegno sui 50 anni dell’ospedale evangelico Betania e da lì ha punzecchiato il capo della Lega. Il condono che tanto sta a cuore a Salvini? «Se rimane, mi sembra ovvio che ci sia un problema». Un’alleanza strategica quella tra Cinque Stelle e Lega? «Si agisce all’interno di un filo rosso che è quello del contratto, perché se fossimo stati uguali alla Lega, ci saremmo candidati con loro. Ma noi non siamo uguali alla Lega e non ci candideremo assieme a loro». Salvini sostiene che Fico - come Fini e Bertinotti - fa il presidente della Camera in modo poco istituzionale? Roberto Fico risponde: «Se Salvini vuole parlare con me lo faccia sui contenuti e non dicendo “Fico faccia il presidente della Camera”. Quello che dico io è da istituzione, ma il background appartiene alla nascita e alla costruzione del M5S».
In realtà nelle prossime ore Roberto Fico parteciperà, come militante, al raduno dei Cinque Stelle al Circo Massimo, con un’interpretazione interventista del suo ruolo istituzionale simile a quello di Gianfranco Fini e di Fausto Bertinotti, piuttosto che a quello super partes di Sandro Pertini, Nilde Iotti e Pietro Ingrao. Ma ancora una volta le esternazioni di Fico - per quanto sempre soft e mai urticanti - riaprono la ridda di illazioni su un possibile suo ruolo sullo scacchiere politico, nel futuro diverso da quello attuale.
Capofila dell’ala dei Cinque Stelle che punta ad un clamoroso ribaltone, ad un cambio di maggioranza, che arrivi alla sostituzione della Lega con il Pd? Oppure, in caso di big bang, aggregatore di un’area di sinistra radicale assieme al sindaco di Napoli De Magistris, al sindaco di Riace e magari a Roberto Saviano? Il presidente della Camera è legato da un rapporto di stima e amicizia con Beppe Grillo e con Davide Casaleggio, un legame che fa escludere ai vertici politici dei Cinque Stelle l’ipotesi più clamorosa: che Fico possa alimentare una fronda, vestendo i panni dell’eterodosso: «Non è nella sua natura e nella sua volontà», sussurra uno dei big pentastellati più vicini a Luigi Di Maio.
Quel che Roberto Fico, da 5 mesi oramai, sta coltivando è un’operazione diversa: ritagliarsi un ruolo protagonista come capo riconoscibile e percepibile dell’area di sinistra del Movimento, un ruolo che interpreta senza snaturarsi, visto il suo passato come militante dell’estrema sinistra sociale nella sua Napoli. E nel coprire questo ruolo di capo-area della sinistra replica, sia pure inconsapevolmente, uno schema di gioco tipico della Dc, che copriva un arco politico vastissimo, accogliendo personaggi di sinistra vicini al Pci e altri di destra, vicini ai liberali e ai missini?
Sorride Paolo Cirino Pomicino, uno dei notabili dell’ultima Dc e napoletano come Fico: «Certo, lo schema è proprio quello. Diciamo però che Fico copre lo spazio di sinistra in modo flebile, senza spessore. Noi avevamo Moro e Scelba, il Pci Amendola e Ingrao, qui siamo su un altro livello. E comunque l’unica alternativa a Di Maio in termini di radicalità è Di Battista». Ma intanto è proprio come capo-area che in questi mesi Fico ha incarnato un ruolo che il suo amico Di Maio non poteva coprire: quello dell’anti-Salvini.
I rapporti con Cgil e Msf
Prima dell’estate Fico aveva avviato senza clamori una serie di incontri di «tendenza» (Cgil, Medici senza frontiere, Amnesty) e il tutto era culminato in dichiarazioni controcorrente rispetto alla narrazione salviniana sul fronte migranti: «Chi fa solidarietà ha tutto il supporto dello Stato». Oppure: «Anche nel Mediterraneo vanno supportate le persone e le organizzazioni che aiutano gli altri».
Un’interpretazione «partigiana» che non gli ha impedito di riscuotere simpatia negli ambienti istituzionali. Nelle ore nelle quali Luigi Di Maio aveva sposato la linea dell’impeachment contro il presidente Mattarella, Fico ha svolto un ruolo di mediazione, apprezzato al Quirinale.
Bankitalia e Quirinale
E ha trovato silenziosa simpatia anche in un altro ambiente distantissimo dalla sua cultura: alla Banca d’Italia hanno gradito la sua presenza alle Considerazioni del Governatore. Un apprezzamento che non si traduce in un investimento: ieri sera nel Palazzo nessuno era pronto a giocarsi mezza fiche su un esecutivo Fico con l’appoggio di un Pd a quel punto dilaniato e con Salvini all’opposizione a gridare «traditori».
Lunedì a Roma
Un convegno di studi in ricordo di Vittorio Foa a dieci anni dalla morte


Coraggioso cospiratore antifascista di Giustizia e Libertà, condannato dal tribunale speciale e imprigionato sotto il regime, partigiano nelle file del Partito d’Azione, dirigente sindacale socialista della Cgil, coscienza critica della nuova sinistra, padre nobile dello schieramento progressista durante la Seconda Repubblica. Tutto questo è stato Vittorio Foa, nato a Torino nel 1910 e scomparso a Formia (Latina) dieci anni fa, il 20 ottobre 2008.
Per ricordare la sua figura e la sua opera si svolge a Roma dopodomani, lunedì 22, una giornata di studi organizzata dal Senato e dall’Archivio centrale dello Stato. All’incontro, che si terrà dalle 9.30 in poi alla Sala Capitolare presso il Chiostro del Convento di Santa Maria sopra Minerva, partecipano Marco Bresciani, Giuseppina Calcara, Chiara Colombini, Fabrizio Loreto, Federica Montevecchi, Andrea Ricciardi, Giovanni Scirocco. Il convegno sarà concluso da una tavola rotonda con Iginio Ariemma, Anna Foa, Bettina Foa, Romano Luperini e Pietro Medioli. (k.d’a.)

La Stampa 20.10.18
Fico tesse la rete a sinistra per ritagliarsi un ruolo futuro
di Fabio Martini


Quel che Luigi Di Maio non può dire, perché altrimenti cadrebbe il governo, lo dice ancora una volta il presidente della Camera, che è anche la terza carica dello Stato. Roberto Fico ieri era nella sua Napoli, per un convegno sui 50 anni dell’ospedale evangelico Betania e da lì ha punzecchiato il capo della Lega. Il condono che tanto sta a cuore a Salvini? «Se rimane, mi sembra ovvio che ci sia un problema». Un’alleanza strategica quella tra Cinque Stelle e Lega? «Si agisce all’interno di un filo rosso che è quello del contratto, perché se fossimo stati uguali alla Lega, ci saremmo candidati con loro. Ma noi non siamo uguali alla Lega e non ci candideremo assieme a loro». Salvini sostiene che Fico - come Fini e Bertinotti - fa il presidente della Camera in modo poco istituzionale? Roberto Fico risponde: «Se Salvini vuole parlare con me lo faccia sui contenuti e non dicendo “Fico faccia il presidente della Camera”. Quello che dico io è da istituzione, ma il background appartiene alla nascita e alla costruzione del M5S».
In realtà nelle prossime ore Roberto Fico parteciperà, come militante, al raduno dei Cinque Stelle al Circo Massimo, con un’interpretazione interventista del suo ruolo istituzionale simile a quello di Gianfranco Fini e di Fausto Bertinotti, piuttosto che a quello super partes di Sandro Pertini, Nilde Iotti e Pietro Ingrao. Ma ancora una volta le esternazioni di Fico - per quanto sempre soft e mai urticanti - riaprono la ridda di illazioni su un possibile suo ruolo sullo scacchiere politico, nel futuro diverso da quello attuale.
Capofila dell’ala dei Cinque Stelle che punta ad un clamoroso ribaltone, ad un cambio di maggioranza, che arrivi alla sostituzione della Lega con il Pd? Oppure, in caso di big bang, aggregatore di un’area di sinistra radicale assieme al sindaco di Napoli De Magistris, al sindaco di Riace e magari a Roberto Saviano? Il presidente della Camera è legato da un rapporto di stima e amicizia con Beppe Grillo e con Davide Casaleggio, un legame che fa escludere ai vertici politici dei Cinque Stelle l’ipotesi più clamorosa: che Fico possa alimentare una fronda, vestendo i panni dell’eterodosso: «Non è nella sua natura e nella sua volontà», sussurra uno dei big pentastellati più vicini a Luigi Di Maio.
Quel che Roberto Fico, da 5 mesi oramai, sta coltivando è un’operazione diversa: ritagliarsi un ruolo protagonista come capo riconoscibile e percepibile dell’area di sinistra del Movimento, un ruolo che interpreta senza snaturarsi, visto il suo passato come militante dell’estrema sinistra sociale nella sua Napoli. E nel coprire questo ruolo di capo-area della sinistra replica, sia pure inconsapevolmente, uno schema di gioco tipico della Dc, che copriva un arco politico vastissimo, accogliendo personaggi di sinistra vicini al Pci e altri di destra, vicini ai liberali e ai missini?
Sorride Paolo Cirino Pomicino, uno dei notabili dell’ultima Dc e napoletano come Fico: «Certo, lo schema è proprio quello. Diciamo però che Fico copre lo spazio di sinistra in modo flebile, senza spessore. Noi avevamo Moro e Scelba, il Pci Amendola e Ingrao, qui siamo su un altro livello. E comunque l’unica alternativa a Di Maio in termini di radicalità è Di Battista». Ma intanto è proprio come capo-area che in questi mesi Fico ha incarnato un ruolo che il suo amico Di Maio non poteva coprire: quello dell’anti-Salvini.
I rapporti con Cgil e Msf
Prima dell’estate Fico aveva avviato senza clamori una serie di incontri di «tendenza» (Cgil, Medici senza frontiere, Amnesty) e il tutto era culminato in dichiarazioni controcorrente rispetto alla narrazione salviniana sul fronte migranti: «Chi fa solidarietà ha tutto il supporto dello Stato». Oppure: «Anche nel Mediterraneo vanno supportate le persone e le organizzazioni che aiutano gli altri».
Un’interpretazione «partigiana» che non gli ha impedito di riscuotere simpatia negli ambienti istituzionali. Nelle ore nelle quali Luigi Di Maio aveva sposato la linea dell’impeachment contro il presidente Mattarella, Fico ha svolto un ruolo di mediazione, apprezzato al Quirinale.
Bankitalia e Quirinale
E ha trovato silenziosa simpatia anche in un altro ambiente distantissimo dalla sua cultura: alla Banca d’Italia hanno gradito la sua presenza alle Considerazioni del Governatore. Un apprezzamento che non si traduce in un investimento: ieri sera nel Palazzo nessuno era pronto a giocarsi mezza fiche su un esecutivo Fico con l’appoggio di un Pd a quel punto dilaniato e con Salvini all’opposizione a gridare «traditori».

il manifesto 20.10.18
Rigenerare la sinistra, rifondare l’Europa
Congresso pd. Cambiare tutto e farlo in fretta, prima che sia troppo tardi. La risposta a Gianni Cuperlo
di Nicola Zingaretti


Condivido l’approccio proposto sul vostro giornale da Gianni Cuperlo. È proprio del riscatto e della rigenerazione di una sinistra radicalmente alternativa alla destra di Salvini che abbiamo bisogno. Cambiare tutto e farlo in fretta, prima che sia troppo tardi. Farlo appunto nonostante la difficoltà del contesto, e a partire dalla dimensione continentale, dove tra poco si misureranno quelli che l’Europa la vogliono cambiare e democratizzare con quelli che la vogliono distruggere, cavalcando la ferocia nazionalista. Le prossime saranno le prime vere elezioni europee. Sul campo, dobbiamo ritrovare la forza di battere il razzismo e le piccole patrie. Per farlo, dobbiamo scrivere una nuova agenda politica, coniugando crescita e giustizia sociale, modificando nel profondo un modello di sviluppo che ogni giorno consuma il nostro ecosistema, incide sulla qualità delle nostre vite, amplia la frattura tra chi ha e chi non ha, tra città e aree interne. Nessuna scorciatoia serve un’economia giusta, ambientalmente sostenibile, per rimettere in moto l’ascensore sociale e creare opportunità e fiducia.
Loro dicono “prima gli italiani”, aizzando una guerra tra poveri dagli esiti drammatici. Noi diciamo “prima le persone”. E tra le persone, prima quelle che stanno peggio, quelle umiliate e impoverite dalla crisi, quelle lasciate sole dallo Stato. Per fare questo, bisogna ricostruire su nuove basi il Paese. Innanzitutto, operare nei luoghi del disagio con progetti di crescita e di comunità. Serve un modello innovativo di welfare, politiche di integrazione e promozione delle persone. Bisogna quindi investire sul capitale umano, nella cultura e nella conoscenza, che resta il primo e più importante strumento per l’emancipazione sociale delle persone. La sfida per il Paese è quindi prima di tutto nei luoghi della formazione: negli asili, nell’assoluta centralità della scuola e dell’università pubbliche. È qui che possiamo attivare le intelligenze e i saperi utili a far muovere l’Italia, che dovranno trovare sviluppo e opportunità in un territorio connesso in maniera moderna, uniforme ed efficiente con reti materiali e immateriali. Serve una spinta, che ha bisogno di investimenti adeguati, alla rigenerazione del tessuto produttivo, che accompagni le imprese, le partite Iva in una fase di cambiamenti epocali, e favorisca nuovo lavoro e lavoro buono.
Serve un cambio di passo e di paradigma facendo dialogare economia ed ecologia come assi portanti di una idea di società orientata al benessere dei cittadini.
Di questo abbiamo discusso a Piazza Grande insieme a tantissime persone. Di questo vogliamo discutere con chiunque senta l’urgenza del momento e abbia voglia di combattere. Prima ancora di una mozione, c’è bisogno di ritrovare un popolo, con le sue idee, passioni, differenze, e soprattutto con la voglia di rimettersi in cammino. Un popolo plurale, differente, capace di ascolto e di stare insieme.
Mi candido alla guida del Pd con questa ambizione: cambiare tutto rispettando la storia di ognuno. Cambiare le politiche e promuovere una nuova generazione progressista fuori dalle liturgie correntizie e, appunto, di quella “guerra feroce tra eserciti” evocata da Gianni.
Piazza Grande è stata una boccata d’ossigeno. Sono convinto che ne seguiranno altre, a cominciare proprio dall’appuntamento milanese. Vi auguro di svolgere al meglio la vostra discussione. Abbiamo bisogno di tutti per farci trovare pronti. Non solo opposizione, ma anche la credibilità per ricostruire qui ed ora una vera alternativa di Governo, capace di entrare nel cuore degli italiani. Lavoriamoci insieme.
*presidente della Regione Lazio, Partito democratico

il manifesto 20.10.18
«Nazionalizzare qui e ora», la manifestazione oggi a Roma
Il corteo. Parte da piazza della Repubblica alle 14, domani l'assemblea di «Potere al popolo»


Nazionalizzazione dei servizi, delle aziende e delle infrastrutture strategiche del paese. Il welfare devastato da anni di esternalizzazioni del personale, deve tornare in mani pubbliche. È questa l’agenda indicata dalla manifestazione «Nazionalizzare qui e ora» che sfilerà dalle 14 di oggi da piazza della Repubblica a piazza San Giovanni in Laterano a Roma. Nella stessa giornata ci saranno anche il meeting dei Cinque Stelle e l’ultima edizione della «Leopolda» di Renzi. «Sarà l’occasione – sostengono i promotori – di far vedere fisicamente che c’è una opposizione sociale e politica che sta crescendo nei conflitti di tutti i giorni». La manifestazione intende rappresentare «quelli che subiscono tutte le conseguenze di scelte – nazionali ed europee – prese sulla loro pelle: lavoratori con qualsiasi tipo di contratto e di qualsiasi etnia, disoccupati, pensionati, studenti, senza casa, migranti».
Quello della nazionalizzazione è una delle questioni sospese del governo Lega-Cinque Stelle. L’ipotesi è spuntata nelle ore successive al tragico crollo del ponte Morandi a Genova, dove hanno perso la vita 43 persone. Due mesi dopo è scomparsa dall’orizzonte politico agitato della politica italiana. «Il governo parla di nazionalizzazioni ma poi non le fa – sostiene Pierpaolo Leonardi (Usb) – E allora entrano in campo i lavoratori per costringere il parlamento a discuterne». «La nazionalizzazione riguarda l’accesso ai servizi pubblici e ai diritti – aggiunge Viola Carofalo (Potere al Popolo) – Dobbiamo contestare duramente il governo per le bufale che ci racconta e per il fatto che le sue proposte di cambiamento restano carta morta. Ci sono state già due manifestazioni a giugno, quella di oggi è solo la prima di un autunno di lotte».
Al corteo hanno aderito, tra gli altri, il sindacato di base Usb, Potere al Popolo, Rifondazione Comunista e partito comunista italiano, la piattaforma Eurostop, l’ex Opg «Je So Pazzo», Clash City Workers, Rete dei Comunisti, Patria e Costituzione, gli studenti della campagna «BastAlternanza».Almeno trenta pullman raggiungeranno la Capitale.
Oggi dalle 10 al centro sociale Intifada in via di Casal Bruciato 15, a Roma si terranno i «tavoli di lavoro» di «Potere al popolo». Domani alle 10 al teatro Verdi in via Bari 18 a Roma si terrà l’assemblea nazionale. Approvato tra le polemiche lo statuto, gli aderenti saranno chiamati a eleggere il coordinamento nazionale e il portavoce.

il manifesto 20.10.18
Gaza, Israele schiera i carri armati
Palestina. 30esimo venerdì della Grande Marcia del Ritorno
La colonna di carri armati israeliani schierata ieri intorno a Gaza
di Michele Giorgio


Con un bilancio di “appena” 115 palestinesi feriti, 77 dei quali colpiti da proiettili, si è chiuso ieri il 30esimo venerdì della Grande Marcia del Ritorno a Gaza. Numeri drammatici ma per fortuna inferiori a quelli che molti si attendevano in una giornata che aveva visto Israele schierare intorno a Gaza decine di carri armati e mezzi blindati e rendere esplicita la sua intenzione di lanciare un’offensiva militare. Lungo le linee di demarcazione si sono ammassati15mila palestinesi per reclamare la fine del blocco israeliano di Gaza. In diversi punti gruppi di giovani hanno cercato di aprire varchi nei reticolati.
Ma la spinta delle proteste è stata inferiore rispetto al venerdì precedente anche per l’invito giunto dai movimenti islamici Hamas e Jihad a protestare pacificamente e senza esporsi agli spari dei militari. In particolare Hamas spinge per portare avanti la trattativa mediata dagli egiziani per una tregua a lungo termine con Israele. Due giorni fa, con un annuncio inedito, un dirigente del movimento islamico ha promesso lo svolgimento di una indagine contro la formazione o cellula armata che a inizio settimana ha lanciato due razzi verso Beersheba e Tel Aviv.
Con un bilancio di “appena” 115 palestinesi feriti, 77 dei quali colpiti da proiettili, si è chiuso ieri il 30esimo venerdì della Grande Marcia del Ritorno a Gaza. Numeri drammatici ma per fortuna inferiori a quelli che molti si attendevano in una giornata che aveva visto Israele schierare intorno a Gaza decine di carri armati e mezzi blindati e rendere esplicita la sua intenzione di lanciare un’offensiva militare. Lungo le linee di demarcazione si sono ammassati15mila palestinesi per reclamare la fine del blocco israeliano di Gaza. In diversi punti gruppi di giovani hanno cercato di aprire varchi nei reticolati.
Ma la spinta delle proteste è stata inferiore rispetto al venerdì precedente anche per l’invito giunto dai movimenti islamici Hamas e Jihad a protestare pacificamente e senza esporsi agli spari dei militari. In particolare Hamas spinge per portare avanti la trattativa mediata dagli egiziani per una tregua a lungo termine con Israele. Due giorni fa, con un annuncio inedito, un dirigente del movimento islamico ha promesso lo svolgimento di una indagine contro la formazione o cellula armata che a inizio settimana ha lanciato due razzi verso Beersheba e Tel Aviv.

La Stampa 20.10.18
Leggi razziali del 1938
Dagli schedari torinesi gli elenchi della vergogna
di Andrea Parodi


Iniziarono dai bambini, elencandoli. Le date riportate sui documenti sono crudeli testimoni di un tempismo studiato a tavolino. Pochi giorni prima dell’inizio delle lezioni, giusto in tempo per impedirgli l’accesso alle classi con i loro compagni ariani.
Cominciò così a Torino, dai più deboli, nell’agosto 1938, la compilazione delle «liste di prescrizione ebraiche». Fino al 1942 i dipendenti del Comune di Torino trascrissero a mano, aggiornandoli di continuo, tre grandi volumi con la copertina color amaranto. All’interno erano elencati nomi, indirizzi, dati personali. Dei bambini, ma soprattutto degli adulti. Sul frontespizio era riportato un titolo generico: «Rubrica Denunce appartenenza razza ebraica e discriminazioni». Di fatto era il crudo elenco con il quale il Comune divise i torinesi tra «noi» e «loro». Si trattava di 4.500 profili biografici su 700.000 abitanti, pari allo 0,65% della popolazione torinese.
Da lunedì - e per la prima volta - l’Archivio Storico della Città di Torino esporrà al pubblico, in una toccante mostra curata da Maura Baima, Luciana Manzo e Fulvio Peirone, la documentazione originale delle leggi razziali del 1938. Lo fa nell’ottantesimo anniversario dell’emanazione del provvedimento fascista ma, soprattutto, perché sono scaduti i termini di legge temporali per la loro diffusione pubblica. Il loro valore storico è importante soprattutto perché la documentazione storica della Comunità ebraica torinese non è completa. È andata perduta con il bombardamento della Seconda guerra mondiale del 20 novembre 1942, che danneggiò anche la sinagoga.
Le liste che arrivarono dalle singole scuole torinesi di ogni ordine e grado sono quelle che colpiscono di più. Vennero vergate a mano, con la calligrafia precisa di maestri e insegnanti. Compilarono obbedendo, escludendo i loro allievi dalla possibilità di istruirsi. Le liste giunsero alla «Divisione stato civile e statistica» del Comune di Torino. Contenevano l’elenco degli studenti che avevano richiesto di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica. Perché agnostici, perché valdesi, perché ebrei. Su quest’ultima informazione, una volta arrivata agli uffici comunali, scattava l’inserimento nella lista più terribile: quella dei volumi color amaranto.
Questi tre libroni, aperti e consultati per tutti gli anni della guerra dai gerarchi fascisti per procedere al loro allontanamento dalla vita civile, nonché fonte preziosissima dal 1943 per poterli catturare, sono adagiati in una vetrina e proposti al pubblico. Li ha sistemati qui Luciana Manzo, dedicando per mesi, con grande attenzione e cura, le ricerche nell’allestimento di una sezione che urla la più grande vergogna della storia d’Italia post unitaria. I tre volumi non si possono sfogliare, ma si possono leggere.
In questi «elenchi della vergogna» ci sono alcuni dei cognomi più famosi e influenti della Torino dell’epoca, nonché torinesi illustri: lo scrittore Primo Levi, la scienziata e premio Nobel Rita Levi Montalcini, il chirurgo fondatore dell’ospedale Cto Simone Teich Alasia, l’avvocato Bruno Segre, che proprio l’altro giorno, dall’alto dei suoi cento anni appena compiuti, l’ha sfogliato con emozione ritrovando il suo nome.
Un terribile grafico disegnato a mano con i colori nero e rosa illustra con pragmatica crudezza una metodologia per determinare il grado di purezza ebraica. Che è pari al 100% per gli appartenenti a famiglie ebraiche che risiedevano a Torino già nel 1845. Dal 17 novembre del 1938 quella lista divenne formalmente una prescrizione. Anche nel lavoro. Un documento datato 24 febbraio 1939 riportava le aziende torinesi che venivano depennate dall’elenco dei fornitori della civica amministrazione. Tra queste compariva la Ceat, fabbrica di cavi elettrici di proprietà dell’ebreo Virginio Tedeschi, il nonno di Valeria e Carla Bruni Tedeschi.
La mostra «Torino sotto attacco. Dalle leggi razziali alla Liberazione» rimarrà aperta dal 22 ottobre al 26 aprile 2019 all’Archivio Storico della Città di Torino (via Barbaroux, 32) con ingresso gratuito, dal lunedì al venerdì con orario 8,30-16,30. Sono previste aperture straordinarie il sabato con cadenza mensile. Per info: 011.011.318.11. www.comune.torino.it/archiviostorico/

Repubblica 20.10.18
Miriam Sylla
"Siamo andate oltre la paura c’è una musica che ci guida"
Adesso voglio ballare».


Accenna qualche passo di una danza. Il trucco le è restato sulle palpebre, nonostante tutto: gli urli, le corse, i 23 punti.
Siamo uomini o siamo ballerini, si chiedeva una canzone una decina di anni fa. Al tempo Miriam Fatime Sylla era solo una bambina nata a Palermo, i genitori ivoriani erano arrivati in cerca di un’esistenza nuova e intanto stavano crescendo una, forse, futura campionessa del mondo. Se Egonu è la classe infinita, Sylla è la musica che suona dentro la squadra, l’emozione che si vede, i suoi punti sono il segno della fatica fatta per arrivare, della molta vita nei suoi 23 anni. Ed è come se l’Italia si reggesse sulla sua frenesia, sulla sua assoluta mancanza di mezze misure.
Cosa vuol dire giocare un tie-break sapendo di non poter sbagliare di un centimetro?
«Non si può descrivere la tensione di quei momenti, quando ti concentri su te stessa, sui tuoi sogni e contemporaneamente devi pensare a come non far cadere quel benedetto pallone, tenerlo vivo, darlo alle compagne e mettersi in linea col palleggiatore per attaccare. La paura è tanta, sì. Non è stata dura, ma molto di più. E in giornate come questa ti salvi se hai qualcosa di molto grande dentro».
Loro non vi mollavano: avete pensato mai "ora la perdiamo"?
«In molti momenti, ma poi al punto successivo ti metti lì e aspetti, è un rito di purificazione, arriva il pallone e ricomincia tutto ogni volta, devi spingerlo verso la palleggiatrice e schiacciarlo e non faresti nessun’altra cosa al mondo in quel momento».
Sente di essere lei l’energia vitale della squadra? Tutti la cercano dopo un punto, i suoi urli sono la scala Mercalli dell’umore della squadra.
«Urlo per dire "ci siamo ancora", è un modo per farmi sentire anche dall’altra parte della rete, a volte urlo anche parolacce e forse si vede, ma noi siamo un circuito, ci alimentiamo a vicenda, abbiamo un cuore grandissimo».
Ci pensa a quanti italiani avranno gridato con voi?
«Io il tie-break non me lo ricordo, ho un vuoto ora, e sono passati dieci minuti, davvero non ricordo neppure di averlo giocato, di esserci stata in campo. Ricordo i miei bagher, sì, e la paura di sbagliarli».
Come sta adesso?
«Ho dolore in ogni singolo muscolo del corpo, ma è la testa a farti correre, non i muscoli. Con la Serbia si ricomincia per l’ennesima volta, e stavolta è l’ultima».
Che finale sarà con la Serbia?
«Abbiamo dei conti in sospeso da prima delle Olimpiadi di Rio, è un’altra battaglia e ci teniamo ad affrontare loro, soprattutto loro.
Partiamo alla pari ma noi abbiamo una voglia enorme. In questi cinque mesi abbiamo pianto, abbiamo lavorato e ci siamo fatte del male per arrivare dove siamo adesso».
Eppure sembrate spensierate, divertite. E state per finire nella storia dello sport italiano.
«Ci piace ballare, seguire una musica che abbiamo dentro, siamo molto istintive. Gli italiani si staranno innamorando del nostro modo di stare in campo, e me li immagino stremati e affondati nel divano, dopo l’ultimo punto di Paola. Vi abbiamo fatto soffrire, ma è stato così bello. La rivedremo forse cento volte questa partita e ci chiederemo "ma eravamo davvero noi, in quel campo"? Adesso è meglio finirla qui, se no dopo la finale di che parleremo?». – c.c.

Repubblica 20.10.18
In Messico è florida l’industria feroce dei sequestri. C’è un avvocato che sa come trattare con i rapitori. Nome in codice Javier, svela le tattiche dei clan e le risposte efficaci
di Tobias Kaufer


Messico vengono rapite ogni giorno sei persone. Per non essere in balia di sequestratori spesso brutali, le famiglie che possono permetterselo si affidano a un operatore speciale, che conosce tutte le strategie dei rapitori. «La decisione sulla sopravvivenza di una vittima è presa nei primi 30 minuti di un rapimento», dice Javier. «Se un ostaggio si comporta in modo nervoso, se stressa i rapitori, c’è il pericolo che ai sequestratori saltino i nervi. Nessun contatto visivo...».
L’uomo, che non vuole rivelare il suo nome, ha il suo ufficio a Città del Messico, non lontano dall’Angelo dell’Indipendenza e dal centro commerciale Reforma 222, nelle vicinanze di uno dei grandi centri finanziari della capitale messicana. Javier ha risolto con successo due dozzine di casi di rapimento. Ufficialmente, è avvocato e consigliere per la sicurezza, Javier descrive la sua attività come « servizio e consulenza in caso di rapimento». È un mediatore tra la malavita e quelli che temono per la vita dei loro familiari. Javier ha circa 45 anni, una voce tranquillizzante e parla un perfetto inglese. Preferisce l’anonimato perché quello che fa è illegale: l’interlocutore a cui rivolgersi sarebbe la polizia. Ma la fiducia nelle forze di sicurezza è scossa, non pochi funzionari hanno stretti contatti con la criminalità organizzata.
In base a un’indagine dell’Università autonoma nazionale del Messico ( Unam), dal fenomeno dei sequestri sono molto colpiti la capitale, lo Stato federale di Guerrero e Acapulco, la metropoli delle vacanze, con lo stato federale di Baja California. Per l’Unam, a ogni rapimento denunciato alle autorità corrispondono cinque sequestri non segnalati. L’organizzazione non governativa
tra dicembre 2012 e marzo 2016 ha contato 10.898 rapimenti, ma la cifra ufficiosa si aggira sui 100.000.
Gli esperti distinguono quattro categorie. Nel 92% dei casi si tratta di soldi, le motivazioni politiche o personali sono rare. Con il "rapimento express" i criminali con i loro ostaggi si recano agli sportelli bancomat per prelevare la somma massima in contanti. I " rapimenti di massa" consistono nel prendere in ostaggio gruppi di persone, ad esempio negli spostamenti interurbani in autobus. Spesso si va a caso, le famiglie delle vittime non sono abbienti, ma è comunque possibile spremere qualche migliaia di euro. Raro è il "sequestro virtuale": alla famiglia di una persona in viaggio viene raccontato che è avvenuto un rapimento. In questo caso i criminali fanno ricerche sui social e tentano, ad esempio, di prendere contatto con i familiari di una vittima durante un suo lungo viaggio in aereo, per spingerli al pagamento rapido. Poi ci sono i casi nei quali si è specializzato Javier: il rapimento di un individuo per estorcere un riscatto ad almeno cinque cifre. Per le statistiche Unam, il 70% dei casi si conclude con il pagamento di un riscatto. Ciò dimostra quanto grande sia il mercato per coloro che si mettono a disposizione per far sì che la consegna del denaro e la liberazione avvengano senza intoppi. Javier considera realistiche le cifre dell’università. « Si tratta di garantire ai rapitori la certezza di ricevere i soldi e di non essere scoperti » . Anche il sequestratore non vuole problemi e la polizia è percepita da entrambe le parti come fattore di disturbo: «I familiari temono che la comparsa della polizia metta in pericolo la vita dell’ostaggio, per i rapitori il rischio di essere scoperti cresce».
Le cifre dell’Unam confermano le sue esperienze. In appena il 6% dei casi i familiari si affidano solo alla polizia e si rifiutano di pagare il riscatto. L’industria messicana dei sequestri si è da tempo specializzata. Per quasi tutti i compiti dispone di « forze specializzate». Ci sono quelli che identificano le vittime in base all’entità del riscatto e al livello di rischio. Poi ci sono quelli che rapiscono la vittima. E infine c’è quello che conduce le trattative. Le istruzioni o le prove che il rapito è vivo sono fornite via WhatsApp con cellulari prepagati, le cui sim anonime sono distrutte dopo la prima comunicazione. «Nel caso di sequestri particolarmente brutali può avvenire che siano spediti video o foto nelle quali le vittime femminili subiscono abusi sessuali o le vittime maschili sono picchiate», dice Javier. La banda " Los Nequis" era nota per inviare alle famiglie le punte delle dita dei sequestrati. E il più celebre sequestratore, l’ex poliziotto Daniel Arzimendi, che dopo l’arresto nel 1998 confessò 18 sequestri, era soprannominato
Mozzaorecchie: come prova inviava le orecchie. L’impatto con la sofferenza del proprio figlio, della propria figlia o dei propri genitori è il momento nel quale i familiari crollano. Nelle loro teste si figurano scene terrificanti su tutto quello che potrebbe succedere. I sequestratori sfruttano questo effetto per spingere il più in alto possibile la richiesta di riscatto.
Perciò è importante che le trattative siano gestite da una persona che, pur tenendo presenti gli interessi dell’ostaggio, chiarisca ai sequestratori che c’è un limite da non oltrepassare, dice Javier. Il punto critico di un rapimento è il pagamento del riscatto. I criminali vogliono sparire il più presto possibile con il bottino. In quel momento l’ostaggio perde il suo valore. Anche per questo gli interventi di Javier sono molto richiesti. Con lui sia i rapitori sia le famiglie sanno che il denaro sarà consegnato con sicurezza. Quasi sempre l’ostaggio viene poi liberato: « Se questo non accade, ho commesso un errore ». In caso di «lavoro svolto con successo » , il messicano riceve per le sue prestazioni una somma commisurata al riscatto. Javier non rivela l’entità di questa percentuale e non accetta il rimprovero di incoraggiare con il suo lavoro la criminalità organizzata: «I sequestri ci sarebbero anche senza di noi. Però con noi le vittime riescono quasi sempre a
donna alla marcia per il IV anniversario della scomparsa di 43 aspiranti insegnanti il 26 settembre scorso

Repubblica 20.10.18
Ma la misoginia è nella Bibbia o nell’occhio di chi la legge? La risposta di venti teologhe
di Andrés Allemand


Anna Bissanti L a Bibbia è tutt’altro che femminista. Ma la misoginia che le si attribuisce più he altro è di coloro che hanno interpretato le scritture perpetuando stereotipi patriarcali », dice Pierrette Daviau. Professoressa in pensione della cattolicissima Università Saint- Paul di Ottawa, con due teologhe della Facoltà protestante, la professoressa Elisabeth Parmentier e la dottoranda Lauriane Savoy, ha presentato (a Ginevra) Una bibbia di donne ( Labor et Fides), la straordinaria opera collettiva che hanno illustrato al pubblico in una conferenza dal titolo eloquente: " Né sante né sottomesse".
Una " bibbia" di donne? Sì, ma non per sostituire la Bibbia, bensì per svelare le figure femminili ignote, individuare le traduzioni distorte e le interpretazioni tendenziose, senza timore di affrontare i brani più controversi. Si tratta del lavoro critico di una ventina di teologhe francofoni di Svizzera, Francia, Québec e Benin che, in un certo senso, fa da contraltare alla Woman’s Bible pubblicata negli Stati Uniti – nel 1898! – da Elizabeth Cady Stanton e da venti donne ribellatesi a secoli di lettura patriarcale dei testi sacri.
A che cosa assomiglia questa nuova ribellione? Ecco sei esempi, lettura corroborante in un periodo nel quale le lobby religiose danno il loro appoggio a politici che usano espressioni misogine, come Donald Trump negli Stati Uniti d’America o Jair Bolsonaro in Brasile.
LA FEMMINILITÀ DI DIO
Padre, Figlio, Signore, Creatore, Onnipotente… Per abitudine si utilizzano vocaboli maschili per parlare di Dio.
Quando ci ha mostrato la femminilità? Sapete che lo Spirito creatore in ebraico è femminile? E che la Saggezza divina, molto presente, è sempre incarnata da donne? Sapete che Dio è paragonato a una madre che mette al mondo ( la Creazione) o a una levatrice? Sottolineare questi aspetti non è un progetto moderno: « Alcune donne, nel corso del tempo, hanno pregato Dio al femminile», scrivono le teologhe.
EVA E LA SUA METÀ
Adamo, il "fangoso", l’essere uscito dall’argilla, è il primo umano. Dio pensa che l’essere umano non debba essere solo. Stacca una costola e crea Eva. Nasce così il duo uomo- donna. Questa è una delle possibili interpretazioni della Genesi. Perché si è preferito dirci che Dio creò prima l’uomo, e poi gli staccò una costola per fare una donna? E perché, subito dopo, si è accusata quest’ultima di aver tentato l’uomo con il frutto proibito? Le teologhe se lo sono chiesto. Il testo mostra il serpente che tenta Eva, che cade nella trappola. Quanto alla punizione che ne consegue (partorire nel dolore, essere assoggettata all’uomo), è un male legato alla trasgressione, ma non era il progetto di Dio – notano –, la cui creazione presenta una relazione equilibrata.
LE PROFETESSE
Alcuni brani biblici intimano alle donne di tacere. Ma ci sono anche alcune profetesse, messaggere di Dio. Nell’Antico Testamento, Debora (che è anche giudice) ordina l’invio al fronte di 10mila soldati. Olda, invece, è consultata prima che il re Giosia proibisca i culti non ebraici e concentri a Gerusalemme l’autorità religiosa. Altre profetesse sono Maria o Noadia. Sono meno rispetto ai profeti, ma non meno considerate.
MARIA DI MAGDALA
Alcuni l’hanno confusa, a torto, con la donna peccatrice. Altri hanno visto in lei l’amante di Gesù, anche se nulla lo attesta. Maria di Magdala ( o Maria Maddalena) era una delle tante discepole che seguivano Gesù, in rottura con le convenzioni sociali. Porta il nome della sua città, non del padre, del fratello o del marito, e di conseguenza è una donna indipendente. Molto presente nei Vangeli, assiste alla crocifissione ( gli uomini se ne vanno, lasciando Gesù in agonia). Nei testi biblici, è a lei che appare per prima Cristo risorto, ed è lei a essere mandata ad annunciare la buona novella ai discepoli. In sintesi, la sua è una figura centrale.
INDOMITE
Resta la Lettera agli Efesini, che ordina: « Donne, siate sottomesse ai vostri mariti!». È difficile vedervi un manifesto femminista. Premesso ciò, le teologhe ricordano il contesto: l’apostolo Paolo consiglia ai cristiani che devono far fronte all’ostilità popolare nella città greca di Efeso ( oggi in Turchia) di adattarsi alla legge dell’Impero romano che assoggetta le donne agli uomini. «‘Subordinata’ è una traduzione più precisa di ‘ sottomessa’ » , dicono. Poi fanno notare che il versetto precedente invita le coppie a rendere grazie a Dio « subordinandovi gli uni agli altri nel rispetto di Cristo » . Si tratta di reciprocità. Infine, più avanti si afferma che « il marito è capo della donna, come Cristo lo è della Chiesa » . Le teologhe non lo smentiscono, ma ricordano che Gesù si mise sempre al servizio del prossimo. Se lo si intende in questo modo, l’uomo dovrebbe mettersi al servizio di sua moglie! Quel versetto non giustifica certo una sottomissione. n



venerdì 19 ottobre 2018

Corriere 19.10.18
La scelta del Canada
Lo spinello libero non è ribellione
di Carlo Rovelli

Marijuana legale in Canada. Ma ha ancora il gusto della trasgressione?


E vviva! La marijuana è diventata legale in Canada! Certamente adesso i giovani canadesi moriranno tutti di overdose di spinelli, diventeranno tutti intontiti e scemi, gli si brucerà il cervello, si butteranno tutti dalla finestra pensando di saper volare, e diventeranno tutti banditi e tutti eroinomani, come si aspettano i bigotti nostrani. O magari no. Forse chissà uno spinello non porta necessariamente alla rovina. Magari tenendo conto che due degli ultimi presidenti degli Stati Uniti, la maggioranza dei miei colleghi nei dipartimenti di fisica, la pressoché totalità dei miei amici di gioventù e una lunghissima lista di popolazioni tradizionali del mondo hanno fumato e fumano marijuana senza esagerati danni. Scherzi a parte, è fuori da ogni dubbio che la marijuana è molto meno dannosa dell’alcol e del tabacco, e vedere una grande nazione eminentemente ragionevole come il Canada seguire le scelte dettate dalla ragione di paesi come l’Uruguay, la California e l’Olanda, disarmare la criminalità dei trafficanti e rendere la marijuana legale, apre il cuore. Non c’è solo bigottismo sciocco a questo mondo.
La domanda interessante secondo me è piuttosto: perché sostanze come la marijuana sono vietate, quando sostanze indubbiamente molto più pericolose sono vendute in ogni bar d’angolo? Me lo sono chiesto spesso, senza davvero arrivare a rispondermi. Certo è in parte una questione culturale, ogni cultura è affezionata alle proprie droghe tradizionali, ed è infastidita dalle altre. Ma forse è qualcosa di più. L’uso della marijuana si è diffuso nelle società occidentali alla fine degli anni sessanta, ed è stato rapidamente adottato in quella vasta parte della gioventù di allora che coltivava sogni di rivolta radicale contro il mondo adulto. Era la gioventù che parlava di libertà, sognava un mondo più giusto, credeva nell’eguaglianza fra uomini e donne, istintivamente riconosceva a ciascuno il diritto di amare chi voleva. Era il primo riconoscimento collettivo che la natura del pianeta è a rischio e ha bisogno delle nostre cure, che l’umanità intera è un’unica famiglia che prospera o perisce insieme. Era la rivolta contro il moralismo peloso, i poteri incrostati, il grigiore del conformismo, l’avidità, l’ipocrisia dei principi che servono a difendere privilegi, i localismi, la grettezza di un mondo chiuso in se stesso e incapace di aprirsi alla diversità e alla bellezza. Fumare insieme marijuana è stato per una generazione un piccolo rito collettivo per dirsi l’un l’altro: crediamo nella possibilità di un mondo migliore di questo.
È passato tanto tempo da allora, e certo la marijuana ha perso la sua carica simbolica di dichiarazione di rifiuto dello stato delle cose presenti. Ma l’ha perso per tutti, forse, eccetto che nell’immaginazione dei perbenisti, per i quali ancora è uno spettro temibile che evoca disordine, ribellione, sporcizia, che mette loro paura. Per quale altro motivo mai dovrebbero vietarla? Allora forse una piccola parte di me, dopo avere gioito per la notizia dal Canada, ha un attimo di malinconia. Si normalizza tutto. Come Herbert Marcuse insegnava allora, le società moderne affossano il dissenso rendendolo normale e legittimo. E forse un pochino spero allora che i parrucconi italiani vietino ancora per un po’ gli spinelli, così almeno i ragazzi possono provare il gusto del proibito senza rischiare di farsi male.
Non fumo spinelli da parecchio. Ogni tanto qualche mio studente me ne allunga uno con un sorriso a qualche party, io il più delle volte rifiuto gentilmente, o faccio solo il gesto di tirare una piccola boccata, giusto per cortesia e simpatia. La realtà è che non ho mai amato molto questa droga, come non ho mai amato molto l’alcol o il tabacco. Da ragazzo ho passato un inverno stonato come una campana; era anche molto bello qualche volta, ricordo soprattutto come diventava intensa e viva la musica; è stata una stagione utile per levarmi di dosso una eccessiva rigidezza e tensione adolescenziale. Ma poi a me piacciono di più altri stati di coscienza: camminare fra i monti, immergermi in un libro, o fare conti di fisica, per esempio. E riesco a stare con gli altri meglio senza spinelli che con gli spinelli: mi sembra di comunicare molto meglio. Da qualche tempo ho perfino scoperto che dopo un paio di settimane di disintossicazione abbastanza spiacevoli si vive benissimo, anzi si è addirittura più lucidi, abolendo del tutto il caffè, e quindi oramai credo di essere fra le persone meno drogate del paese. Niente spinelli, niente alcol, niente tabacco e niente caffè: sono pulito come un bimbo. Ma ricordo con affetto gli spinelli della mia gioventù (ero molto orgoglioso di come sapevo rollare) e quindi, tutto sommato, festeggio con allegria la notizia dal Canada. Bravi canadesi! Quasi quasi mi accendo una canna nostalgica per festeggiare!
La Stampa 19.10.18
Il balcone di Hitler potrebbe essere demolito
di Letizia Tortello


Il 12 marzo 1938 la Wehrmacht attraversa la frontiera e invade l’Austria, per formare la Grande Germania. Quel giorno verrà ricordato col nome tedesco di «Anschluss». Il 15, da un’altana della Neue Burg nella Heldenplatz di Vienna, Hitler annuncia l’annessione. Ma non è l’unico discorso che il Fuhrer fece agli austriaci da un balcone. Ce ne fu un altro, altrettanto famoso, il 9 aprile dello stesso anno dall’alto della torre principale del municipio di Vienna, a cui era stato aggiunto un balcone in legno appositamente per il dittatore, poche settimane dopo Heldenplatz, la piazza degli eroi. Inizialmente, si trattava di un elemento architettonico temporaneo, poi fu sostituito con uno in pietra, come ricordo duraturo di un momento glorioso del Reich. Oggi, i turisti lo fotografano senza sapere che è una reliquia del potere nazista.
Forse lo fotograferanno ancora per poco, visto che il balcone rischia di essere demolito. Lo chiede con forza un comitato di cittadini, il gruppo Memory Gaps, e l’istanza ha aperto un acceso dibattito a Vienna, tra chi è pro e chi è contro la cancellazione della memoria storica. La torre principale del municipio dovrà essere comunque rinnovata l’anno prossimo, quindi potrebbe essere l’occasione buona per smantellare il balcone di Hitler. Il costo dell’abbattimento ammonterebbe a 100 mila euro. La prima a mettersi di traverso è Eva Blimlinger, direttrice dell’Accademia di Belle Arti e capo della commissione incaricata di ricercare le proprietà rubate dai nazisti, che ha dichiarato al quotidiano austriaco «Kurier»: «Anche questo balcone, come tante cose rinvenute dopo il nazismo, è parte della nostra storia».
Chi è contrario e perché
L’assessore alla Cultura di Vienna Veronica, Kaup-Hasler, vorrebbe apporre una targa commemorativa, per spiegare ai turisti la Storia del luogo, e preferirebbe che la struttura rimanesse al suo posto. Era stato l’ex sindaco nazista Hermann Neubacher che aveva pensato di eternare la memoria del balcone di quella che era diventata la «Adolf Hitler Platz», ed equipaggiarlo di microfono e impianto di amplificazione. Ora, le autorità cittadine sembrano essere state colte alla sprovvista, ma il gruppo Memory Gasp va avanti. Chiede che l’abbattimento avvenga al più presto, per gli 80 anni dell’Anschluss e come commemorazioni per il centenario della prima Repubblica austriaca. Ha anche suggerito che, prima di essere smantellato, il balcone ospiti un «discorso per la pace». Al momento non ha vinto nessuno, ma i cittadini sono intenzionati a dar battaglia.
Il Fatto 19.10.18
L’islamizzazione avanza a colpi del nemico “cous cous”
Indigniamoci! - In due scuole, nei menù della refezione, inserita la pietanza sovversiva di origini maghrebine mentre sparisce la carne di maiale. C’è chi urla: attentato
di Selvaggia Lucarelli


Non bastava la storia dei bambini stranieri esclusi dalle mense a Lodi, ora al centro della discussione politica è finito pure il menù di due scuole di Peschiera Borromeo, l’istituto Montalcini e l’istituto De Andrè, che contano circa 2.500 alunni. Il problema del giorno, quello per cui tocca indignarsi e chiamare in causa i pericoli della corrente filo-islamica che sta subdolamente manovrando il Paese, è il fatto che in quel menù sia stata eliminata la carne di maiale (che prima era presente due volte al mese, sotto forma di prosciutto e bistecca di lonza), e inserito una volta al mese il cous cous.
Il grave attentato alla cucina nostrana (nonché l’evidente intenzione di radicalizzare i due istituti di Peschiera) è stato segnalato non da genitori preoccupati, ma da un diligente e super partes giornalista locale il quale ha firmato un articolo in cui sosteneva che “la scelta del menù assomiglia di più ad una scelta di comodo per non gestire eventuali sostituzioni nel menù per motivi etici, religiosi o culturali” e in seguito pubblicava una lettera non firmata di un presunto genitore di due bambini di una delle scuole per cui l’assenza di maiale sarebbe una “fatwa senza senso”. “Con il cambio del menù mia figlia ha forti crisi d’ansia prima di andare a scuola, vive un disagio ENORME, colpa di genitori invasati no vegan!”, avrebbe poi aggiunto un’altra mamma (che non si firma) in una seconda lettera pubblicata dal giornale locale. Caso vuole che il giornalista in questione sia anti-vegano, abbia come foto copertina su Facebook un suo ritratto con Giorgia Meloni e sempre caso vuole che dopo un po’ la Meloni, twittasse: “In una scuola di Peschiera Borromeo viene eliminato il maiale per fare posto al cous cous, alimento tipico nordafricano. Ora sono i figli degli italiani a doversi adeguare alle esigenze alimentari di chi dovrebbe integrarsi? Questa è follia”.
Inutile dire che qualche genitore dei due istituti si è allarmato, del resto magari oggi è il cous cous al posto della lasagna, domani i bonghi al posto del flauto, dopodomani la genuflessione in direzione di La Mecca anziché i piegamenti in palestra e così via. Il “cous-cous gate” a quel punto travolge anche la politica. L’assessore regionale alla Sicurezza Riccardo De Corato (Fdi) amplia il discorso: “Noi togliamo la carne di suino nelle mense ai nostri figli, mentre in cambio loro umiliano e trattano come se fossero oggetti di loro proprietà le donne!”. Che non si capisce cosa c’entri, ma almeno non ha aggiunto un “buonisti” come chiusa. E non finisce qui. L’assessore leghista Fabio Rolfi commenta preoccupato: “Se si tratta davvero di un favore alla comunità islamica la Regione Lombardia scenderà in campo: sono iniziative ideologiche sulla pelle dei bambini, la carne di maiale deve stare nelle mense scolastiche perché fa bene!”. Ora, a parte che il cous cous si mangia da sempre in varie regioni d’Italia (a San Vito Lo Capo ogni anno c’è il Cous cous festival), a parte che nel menù di quelle scuole ci sono anche il “riso all’inglese”, l’hamburger e le carote alla Julienne ma la Meloni non s’è agitata, a parte che varie imprese italiane producono il cous cous e ricordavo che Lega e Fdi fossero in prima linea per sostenere le imprese italiane, la faccenda è decisamente surreale. “È una strumentalizzazione becera della politica”, afferma l’assessore alla cultura di Peschiera Borromeo Chiara Gatti. “Nasce tutto da un articolo di un giornalista locale vicino a Fratelli d’Italia che ha creato un caso sul nulla. Il menù l’ha deciso l’Ats (l’ex Asl, ndr) e gli stranieri non c’entrano niente, tra l’altro sono 35 su 2.500. Sono stati eliminati il prosciutto e la bistecca di lonza, che per giunta era spesso dura e poco gradita. Il cous cous con le verdure è un cibo colorato, allegro alla vista, cosa importante per stimolare i bambini all’appetito”. E aggiunge: “Il caso non esiste, io ho ricevuto in tutto due mail di genitori contrari su 2.500 famiglie e quella lettera sulla bambina che ha attacchi d’ansia per il menù francamente mi lascia molto perplessa. Per ora non cambia nulla, come sempre valuteremo a fine mese quello che i bambini lasciano di più nel piatto”.
Paola, mamma di un bambino dell’istituto Montalcini, è parecchio arrabbiata. “Nel menù non vedo neppure carne di cervo, di coniglio e di agnello, mica solo di maiale, spero che il sindaco non si lasci intimidire dalla protesta di quattro oche aizzate da un giornalista locale. Sto sentendo cose allucinanti, si sono create due fazioni, una di genitori come me che non vedono il problema, e una di genitori che definiscono il menù ‘esotico’ e scemenze simili. Che raccolgano pure le firme per protestare se vogliono, ma noi genitori ragionevoli per fortuna siamo più numerosi. Ci stanno usando per alimentare la politica dell’odio, altro che cous cous”. Infine, è intervenuta su Facebook la sindaca Caterina Molinari: “Nelle nostre scuole non si mangia né italiano, né etnico, né vegano. Nelle nostre scuole si mangia sano ed equilibrato, si insegna ai bambini anche attraverso l’alimentazione ad essere uomini e donne preparati ad affrontare il mondo”.
Insomma, una polemica strumentale montata ad arte per farci credere che i musulmani ci vogliano conquistare a colpi di falafel, kebab e cous cous. Ah, già che ci siamo qualcuno dica alla Meloni che il suo cognome non ha origini autoctone, perché il melone sarebbe originario dell’Africa. Come il cous cous. Da domani si faccia chiamare Giorgia Corbezzolo.
Repubblica 19.10.18
L’Afghanistan riparte da Kalemzai " Noi giovani al voto contro la violenza"
2.500 candidati al Parlamento, tre milioni di donne alle urne: sfida ai Taliban e agli attentati
di Giampaolo Cadalanu


KABUL La speranza e la disperazione dell’Afghanistan sono distanti appena pochi isolati, fra le casette ordinate e polverose del quartiere di Darulaman. Nella strada di Khushal Khan, l’ufficio elettorale di Habaidullah Kalemzai Wardak è coperto di manifesti, presidiato da soldati con il kalashnikov, circondato da ragazzi con il sorriso sulle labbra. Poco più in là, davanti alla moschea sciita, l’ufficio di Abdul Jabbar Qahraman è coperto di manifesti, presidiato da soldati con il kalashnikov, circondato da anziani con gli occhi pieni di lacrime.
Sui tavolini bassi del quartier generale di Kalemzai i piatti con i resti del Kabuli Pilaw, riso, mandorle e uva passa, raccontano riunioni senza sosta dei comitati civici di sostegno. Il candidato, a 36 anni già veterano della Wolesi Jirga, la Camera bassa di Kabul, si ripresenta puntando ai voti della nuova generazione: l’Afghanistan del futuro, quello che non vuole mollare e che di lasciare la propria terra non ne vuole sentire.
Sul tappeto della terrazza di Qahraman, la poltrona verde da cui il veterano della politica afgana dava udienza ad amici e questuanti è rimasta vuota. Le tazze di vetro non bastano, per gli ultimi arrivati il tè viene servito in bicchieri di plastica azzurra. Una dozzina di sostenitori, turbante nero o giacca occidentale indossata sopra la tunica della tradizione, cerca di arginare il dolore. Qahraman, ex braccio destro del presidente Najibullah in tempi lontani, si era ripresentato nell’Helmand, la provincia più difficile. E proprio lì è stato assassinato mercoledì mattina da una bomba lasciata sotto il suo divano, con tutta probabilità, da un integralista che si era spacciato per elettore in cerca di ascolto. Il segretario Mahmud Ibrahim singhiozza: «Lo hanno colpito perché si batteva per l’unità e la stabilità del Paese».
Qahraman è almeno il decimo candidato ucciso dalla partenza della campagna elettorale, senza contare quelli scampati agli attentati né lo sfortunato Gul Zaman, sequestrato nella provincia del Badghis. Invitati dal governo di Kabul e dagli Stati Uniti a riprendere i negoziati di pace, i Taliban hanno risposto annunciando nuovi attacchi, soprattutto sui partecipanti al processo elettorale e sugli obiettivi militari. Anche ieri hanno colpito durissimo durante un incontro fra le autorità locali e i rappresentanti Usa a Kandahar: un militante Talib è riuscito a infiltrarsi nella scorta del governatore provinciale Zalmai Wesa, e ha ucciso quest’ultimo, il capo provinciale della polizia, Abdul Raziq, il responsabile locale dei servizi di sicurezza Nds e un cameraman della tv Rta. Con loro era anche Scott Miller, il generale americano che guida l’operazione Resolute Support: illeso, dicono i comandi Usa.
Il rifiuto opposto dagli "studenti coranici" all’invito del presidente Ashraf Ghani per una nuova tregua, dopo quella per le festività islamiche, getta un’ombra poco rassicurante sulle elezioni di domani, con quasi 9 milioni di elettori (un terzo donne) che sceglieranno i 250 seggi eletti fra circa 2.500 candidati, con 400 donne e un’alta percentuale di giovani. La paura è che ogni speranza sia soffocata nella violenza, fra politica corrotta e vincoli tribali. Altro segno inquietante è la mancanza fra le candidate di Fawzia Koofi, una delle voci più critiche verso la presidenza. La vicepresidente del Parlamento uscente è stata esclusa dal voto perché avrebbe legami con milizie armate nel suo Badakhshan. «È solo una decisione politica. Le donne che prendono posizioni forti danno fastidio. Le accuse contro di me e la mia famiglia sono calunnie strumentali », dice la Koofi.
Ma la tenacia con cui nei mesi scorsi gli aspiranti elettori hanno sfidato minacce e attentati per registrarsi al voto fa capire che, nel cuore degli afgani, il cammino verso una democrazia compiuta è ormai senza ritorno. Sarà un lungo ma concreto rodaggio del sistema democratico, un percorso accidentato e pieno di barriere, ma tutto sommato non dissimile da quello fatto in Occidente. Il voto per la Wolesi Jirga è considerato una prova generale per le presidenziali dell’aprile prossimo. Anche se i primi risultati della Camera saranno disponibili solo il 10 novembre, per comprendere il futuro dell’Afghanistan sarà significativa la verifica di trasparenza e correttezza del voto.
Sui muri di Kabul la speranza si arrampica a cercare qualche spazio. I manifesti sommergono la città. Sicurezza, lavoro e stabilità sono i temi obbligati negli slogan, anche se su questi obiettivi il nuovo Parlamento potrà ben poco. I candidati ci mettono la faccia, per i conoscenti, e affiancano un disegnino elementare estratto a sorte, da comunicare ai meno scolarizzati. Candidate con il velo e qualcuna senza, barbe lunghe islamiche e facce rasate, occhi a mandorla hazara, turbante o cappello tradizionale pakol. E poi quattro lucchetti, un innaffiatoio, due pennini, una pera, un cavallino. Anche Kalemzai ha dovuto scegliere un simbolo fra tre scelti a caso dalla commissione elettorale. Per parlare ai giovani, né l’icona di un’autobotte, né quella con tre teiere potevano rappresentarlo: «Ci hanno proposto il logo con due lanterne: bene. Lo slogan è: assieme, sulla via verso la luce ».
Corriere 19.10.18
Kabul diciassette anni dopo
Afganistan
di Andrea Nicastro


Stremato da una guerra senza fine il Paese domani torna alle urne
Ma la democrazia all’occidentale non ha ridotto violenza e disparità Ricordate le dita sporche di inchiostro viola? Le code ai seggi elettorali? Le ombre dei burqa che davano il benvenuto alla nuova democrazia afghana? Domani il Paese del Grande Gioco torna a votare, ma nessuno sembra più credere al lieto fine dell’intervento occidentale. A 17 anni dalla fuga degli integralisti con la barba, ancora nel pieno della più lunga guerra americana di sempre, queste elezioni parlamentari appaiono un rito inutile. I problemi del Paese sono altri e, semmai, più che dalla democrazia, la speranza per un futuro di pace passa da un compromesso con il giovane Iaqoub, anche lui prete-soldato, come il padre, quel mullah Omar, fondatore dei talebani morto anni fa. Tanti sono i problemi aperti. Eccone alcuni.
Il cimitero degli imperi
Quattro anni fa la Nato ha lasciato a esercito e polizia afghani la responsabilità della sicurezza conservando per sé il potere aereo. Da allora i talebani hanno costantemente conquistato terreno. Nel 2013 uccidevano una decina di avversari al giorno. Nel 2016 ne eliminavano 40. Da allora: top secret. Pare che oggi cadano in battaglia 60-70 «governativi» ogni 24 ore. Troppi per ammetterlo. Per questo è arrivato l’ordine di auto protezione. Invece di rischiare per difendere i civili, i soldati devono innanzitutto proteggere se stessi. L’urgenza del cambio di consegne è diventato evidente ieri a Kandahar, culla del movimento talebano. Poliziotti ammutinati hanno sparato sui colleghi durante un summit in vista delle elezioni. Ucciso il potente capo provinciale della polizia, il corrotto Abdul Raziq, il governatore civile e altri ufficiali di primissimo piano. Scampato per un soffio il generale Scott Miller a capo della missione Usa. Il risultato della ritirata governativa è però un 70% di Afghanistan dove lo Stato non esiste. Se non è una sconfitta, ci assomiglia.
Garbuglio diplomatico
Ormai il Pentagono è rassegnato all’idea di una spartizione di poteri se non addirittura di territorio tra filo-occidentali e integralisti. Per aiutare le barbe più «dialoganti», gli Usa hanno assassinato con i droni alcuni leader intransigenti con il risultato di far passare gli altri da traditori. Le speranze ora sono riposte nel figlio del mullah Omar, il mullah Iaqoub, ma il problema sono le altre potenze.
L’Iran sciita, nemico naturale degli estremisti sunniti, li finanzia per ostacolare gli americani come questi fanno con gli alleati di Teheran in Yemen, Libano e Siria. La Cina, che ha un enorme problema di estremismo islamico in casa propria, finanzia i talebani per avere una leva in più nella guerra dei dazi scatenata da Donald Trump. La Russia prova ovunque a erodere l’unilateralismo americano e quindi finanzia i talebani anche se ha il terrorismo sunnita in casa. Il mullah Iaqoub e il capo ufficiale degli «studenti» mullah Haibatullah Akhdundzada sanno che con la pace finirebbe quel fiume di denaro. Gli conviene?
Ricostruzione fantasma
Sconfitti i talebani e i loro ospiti di Al Qaeda in poche settimane di bombardamenti aerei nel 2001, l’Afghanistan non è riuscito a costruire un’economia alternativa alla guerra e alla droga. Gli aiuti economici non sono andati in investimenti produttivi (fabbriche, dighe, canali, miniere, centrali idroelettriche o solari), ma in aiuti funzionali al controllo militare. Per alimentare la propria macchina bellica e per sorreggere il Paese, Washington ha speso ben più di mille miliardi. La stragrande maggioranza è ritornata in America come stipendi ai soldati o fatture all’industria militare. Il 90% degli aiuti a Kabul è invece finito nell’addestramento ed equipaggiamento delle forze di sicurezza. Per dare un lavoro onesto agli afghani solo briciole.
Stato fallito
Il capo della polizia di Kandahar ucciso ieri dai talebani era noto per la sua crudeltà e la sua corruzione. Il fratello dell’ex presidente Karzai, che ha comandato a Kandahar prima di lui per lunghi anni, era un trafficante di droga. Svariati vice presidenti che si sono succeduti a Kabul avrebbero invece meritato di finire sotto inchiesta per strage. L’attuale presidente Ashraf Ghani, ex Banca Mondiale, è percepito come un pupazzo di Washington. E il Parlamento che si rieleggerà domani? Conta poco, pochissimo. Il bilancio statale non dipende dalle scelte dei deputati, ma dalla volontà delle potenze straniere che vogliono impedire la vittoria dei rivali in Afghanistan.
Il Fatto 19.10.18
Militari in Libano, no alla liberatoria
Stato maggiore - Censura alla “Garibaldi” dopo la denuncia del “Fatto”
di Antonio De Marchi


“Si tratta di un’iniziativa impropria in quanto né lo Stato maggiore dell’Esercito né altri Comandi hanno mai dato disposizioni in tal senso (…) tale atto non rientra nelle direttive (…) un errore interpretativo a cui si è posto rimedio dando immediatamente l’ordine di cessare la distribuzione del documento e di ritirare quelli già compilati e sottoscritti”.
Lo Stato maggiore dell’Esercito prende le distanze dal documento di esonero da responsabilità fatto firmare nei giorni scorsi ai militari della Brigata Garibaldi che nelle prossime settimane verranno inviati in Libano. Ieri avevamo denunciato come fosse stato fatta sottoscrivere a donne e uomini dell’unità, “consapevoli dei rischi ambientali e alimentari”, una dichiarazione che liberava l’amministrazione militare “da ogni responsabilità civile e penale, anche oggettiva” in conseguenza dell’impiego in teatro operativo. Il testo tra i militari della Garibaldi aveva creato malumore. Ma evidentemente neppure in vertici dell’Esercito l’hanno apprezzato. Anzi, deve aver provocato non poco imbarazzo a giudicare dalla tempestività con cui ne hanno preso le distanze e annunciato l’avvio di un “necessario approfondimento d’indagine interno” provvedendo alla “valutazione/adozione dei necessari provvedimenti nei confronti del personale responsabile”.
Una mossa a dir poco maldestra, per di più in un momento in cui l’attenzione per i temi della salute del personale è molto alta. E non solo perché al vertice del dicastero c’è una ministra che ne ha più volte ribadito l’importanza.
Significativo anche l’incontro della Trenta con Domenico Leggiero, ex maresciallo da anni animatore delle attività di denuncia e sostegno alle vittime dell’uranio impoverito. Leggiero è molto critico. “In questa vicenda non c’è nulla in buonafede. Le gerarchie in questi anni hanno sempre tenuto un atteggiamento negazionista” e ricorda come l’avvocato Angelo Fiore Tartaglia abbia ottenuto ben novanta sentenze, avallate anche in Cassazione, che confermano il nesso tra l’impiego nei teatri e le morti per uranio. Sulla pagina Facebook di Leggiero, a proposito della liberatoria, Tartaglia scrive come sia “un documento illegittimo ed incostituzionale” ma che fa emergere “la consapevolezza dell’apparato militare” sui rischi di queste missioni.
Interviene anche il luogotenente Pasquale Fico del consiglio centrale della rappresentanza militare. Fico ha all’attivo numerose missioni all’estero e, se da una parte apprezza la posizione dei vertici, dall’altra sollecita più attenzione. “Oggi ci sono numerose disposizioni a tutela della salute, ma spesso sono gestite in modo burocratico. Non basta infilare un certificato in un fascicolo personale. Servono prassi concretamente attive e soprattutto prolungate nel tempo”.
Il Fatto 19.10.18
“Rai, l’antidoto alle pressioni politiche è solo uno: dimissioni”
Pier Luigi Celli - L’ex direttore di Viale Mazzini racconta trent’anni ai vertici delle grandi aziende
di Carlo Tecce


“Io non sono né ingenuo né vergine e la politica da sempre adora distribuire le poltrone con una predilezione per la Rai”. Così Pierluigi Celli ha scritto la Stagione delle nomine, un romanzo che condensa più di trent’anni ai vertici di aziende private e statali. Per ragioni di spazio, l’elenco è parziale: Eni, Olivetti, Omnitel, Enel, Enit, Luiss e dg di Viale Mazzini dal ’98 al 2001.
Esordio nel servizio pubblico con Romano Prodi.
No, con Massimo D’Alema, è il segretario dei Ds o Pds.
Prodi a Palazzo Chigi.
In uscita, diciamo.
L’amico Prodi.
Romano è un tipo rancoroso, che si circonda di persone servili, come dimostra lo scarso successo dei suoi governi. A cena mi chiede di aumentare la potenza dei ripetitori Rai per raggiungere le coste e i confini stranieri. Io gli dico: ‘Fa ammalare la gente, non posso, mi mandano in galera’. E lui: ‘Sei un dalemiano’.
La passione per D’Alema.
Io non sono dalemiano, giuro. Non mi manda D’Alema in Rai, o meglio: non direttamente. Un giorno mi chiama un tale Claudio Velardi per invitarmi a prendere un caffè alle spalle di via delle Botteghe Oscure a Roma e mi sussurra: ‘Vuoi fare il dg Rai?’. Io declino. Vado in Enel dal mio capo, Franco Tatò, e gli supplico di riportare il mio diniego a D’Alema. Mi risponde gelido: ‘Io non posso’. Mi arrendo.
Cade D’Alema, sale Giuliano Amato.
Chiamo Amato per comunicargli l’indicazione di Gad Lerner al Tg1. Non reagisce. Farfuglia: ‘Spero sia una scelta ponderata’. È ponderata, poi si rivela azzardata. Lerner manda in onda un servizio sui pedofili con immagini assurde di bambini, i dalemiani ne chiedono la testa alla Camera. Io resisto, lui resiste. Finché, per fare il martire, mostra al Tg1 un bigliettino di raccomandazioni di Mario Landolfi di Alleanza nazionale.
Febbraio 2001, Rai addio.
Campagna elettorale vicina, il centrosinistra vuole schierare l’azienda contro Berlusconi. Impazzisco. Porta pure sfiga, penso. Mi lamento con il presidente Roberto Zaccaria in maniera informale e poi con una lettera mi dimetto.
Le telefonate di B.
Non molte. La prima nel ’93, c’è il Cda dei professori di Claudio Dematté. Berlusconi è quasi in politica, ma sempre il padrone di Mediaset. Io sono il capo del personale di Viale Mazzini, mi chiama per un favore. Mi dice: ‘Senta, gli artisti giocano al rialzo sui compensi saltando tra noi e voi, ci mettiamo d’accordo e li freghiamo?’.
Le pressioni dei politici.
Il mio schermo è Zaccaria, molto preciso nel percepire le sensibilità del centrosinistra. Un pomeriggio mi implora di andare a Palazzo Chigi per illustrare le novità sulla Rai al presidente D’Alema. Parla mezzora, mentre D’Alema fa gli origami con dei fogli di carta, poi si alza di scatto e ci congeda: ‘Perché siete venuti qui?’.
Le pressioni dei politici bis.
Io uso un metodo: premio i migliori anche se sono di destra. Un paio di esempi: il finiano Mauro Mazza vicedirettore del Tg1 e Agostino Saccà direttore di Rai1 e poi non tocco Clemente Mimun al Tg2.
Un litigio.
Con Lamberto Dini: desidera la promozione di Anna La Rosa a vicedirettore di un canale. Io respingo e lui urla: ‘Sono il ministro degli Esteri!’.
Daniele Luttazzi.
Un errore. Critico il programma – e anche l’intervista a Marco Travaglio sugli affari di Berlusconi – per dare un movente alle mie dimissioni. Ora chiedo scusa, Luttazzi è un talento della tv.
Vita in Rai.
Terribile, non la consiglio neanche ai nemici. Il mio conforto era Biagio Agnes.
Il dg di marca Dc.
Biagio viene in stanza per controllare se ho spostato dei quadri o se la finestra ha tende nuove. Io sto per mollare, sono esausto dalle pressioni del centrosinistra. Mi suggerisce: ‘Prendi un ufficio più piccino accanto al prossimo dg. Il mio successore – dice – era Gianni Pasquarelli. Siccome era diabetico, arrivava in Viale Mazzini non prima delle dieci. Io alle sette ero già qui e tutti parlavano con me. Lui ha protestato e, per risolvere il conflitto, mi hanno trovato un posto, alla Stet’.
I posti si danno e, troppo spesso, si tolgono.
Alla Olivetti di Carlo De Benedetti non sono il capo del personale, ma dell’ex personale. Licenzio 10 mila dipendenti in 10 mesi. De Benedetti è arrogante, è un padrone. Se gli dici sempre di sì, ti passa addosso.
Quando ha detto di no.
Mi chiede di firmare 500 lettere di cassa integrazione per il 24 dicembre. La vigilia di Natale, che diamine. Lui insiste, non lo faccio. E mi vendico. Una volta mi informa che ha cambiato macchina aziendale. Ha comprato un’Audi gigantesca per dismettere la Bmw, così dice. Ma qualche settimana dopo, ritrovo una donna a bordo della Bmw: ‘Cosa fa qui, signora?’ ‘Vado in Svizzera con l’Ingegnere’. Corro su e scateno un putiferio.
Quando ha sbagliato a dire sì.
Franco Bernabé mi sceglie per dirigere il Festival del Cinema di Venezia e poi organizza un incontro con Giuliano Urbani, ministro della Cultura. Una follia, prevedo le solite ‘spintarelle’. Franco mi trascina da Urbani. Siparietto divertente. Vittorio Sgarbi spalanca la porta, allunga il braccio e ci saluta: ‘Camerati!’. Urbani sorride, poi tira fuori un taccuino e ci indica chi spedire in commissione per il premio. Tiro un calcio a Franco e mi dimetto.
Il direttore dell’Università Luiss – durante la recessione del 2009 – suggerisce ai ragazzi di emigrare.
Una provocazione. Di mattina tutti mi ringraziano, di pomeriggio – i docenti, i più ipocriti – prendono le distanze.
Il figlio di Celli, però, resta in Italia alla Ferrari.
Succede dopo, ci va con l’Adecco e resta solo otto mesi.
Agiografia non credibile: Celli immune ai politici.
Sono furbo, e con la fama di cattivo. Con la vecchiaia, però, sono diventato buono e un po’ rincoglionito.